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Opera Prima - Carolina Giorgi poesie

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Titolo: Hemeros Autore: Carolina Giorgi Fonti: “Opera Prima”, n. 3, Cierre Grafica, 2004 A cura di: Luigi Bosco e Poesia 2.0 In copertina: Disegno di Albano Morandi Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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OPERA PRIMA

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CAROLINA GIORGI

HEMEROS

(Poesie Scelte)

Anterem, 2004

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Parole votate alla vita Essere nel mondo. Ma senza perdere il ricordo dell’antro dal quale ci siamo mossi per andare incontro all’esperienza. Ingrandirlo, anzi. Scatenando su esso le nostre riflessioni. Fino a conferirgli una grande estensione. In questo passaggio tra il vedere dei sensi e il vedere della ricordanza – per un vedere senza paragone – s’inscrive il programmatico cammino a cui ci invita Carolina Giorgi con Hemeros. A iniziare da un punto: da un centro d’irradiazione qualsiasi nell’antro. A iniziare da un suono: da un centro di propagazione di emozioni e concetti. Il punto. Una serie di punti. L’incisione della linea sul palmo della mano e la varietà dei progetti. L’essere umano avanza con le sue aspirazioni, i suoi raggiungimenti, le sue oscure regressioni. Il suono. La parola pronunciata in tono lieve e vibrato. Promessa all’atto di interrogare la vita. E dunque separata da calcoli coperti da garanzie. Da Hemeros (propriamente, “domestico”, “non selvatico”) all’ignoto (vissuto come pericolo, ma anche come custodia del procedere del tempo). Nel suo percorso verso il dissimile, Carolina Giorgi si assume il compito di descrivere il senso di evento, promosso dall’esperienza, in opposizione al senso disponibile. E porta con sé l’impeto di un gesto: dare al mondo parole votate alla nostra avventura umana, e dunque al dubbio e alla conoscenza, alla contraddizione e alla materialità. Parole che ardano nella pronuncia e niente possa ridurle in catene.

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Dall’antro difeso da «emeri muri» ai confini della lingua. Toccarli e, forzati, spostarli fino al pronunciarsi di un canto non assegnabile a un precetto è un atto necessario. Solo così lo sguardo potrà aprirsi senza paura sul mutevole e sul vuoto.

Flavio Ermini

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HEMEROS

(Poesie Scelte)

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Lauti lemuri sedandosi d’albe innumeri e dolcori Dilezioni frali e d’alvei moti illesili frenando Soli attimi ergo e nulli solo scudi, se dolente ormai si avvince

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Sottilissime dune d’anni osando quieta dissiparmi adduco ad assenze l’esimio lembo in cambio

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Liti a lungo d’alni e rade arando Alido lo sguardo infine d’anni l’anca illesa elide ma iridandosi emeri amarissima rindossa i muri

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A serici assaggi se alcuno suggendo d’Egeria le resine adunche mi adusi e ad assise di malie convochi gli occhi si avvarrà di questo mio credito arcano Forse impune

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Un’ancora che l’erto intento avversi Che dal vanto incusso all’esule mi esima E che affiorando infida si erge adesso sull’esuvie di viandanze

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Forse l’arse il solco che per noia l’enea mano all’ileo inferse Come lanee lamine dedusse di un dissenso solo carne l’egra libbra viziando ad altre messi

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POSTFAZIONE

Carla De Bellis

Ciò che detta le scansioni verbali di Hemeros è la necessità del suono. La sintassi fonica produce l’ancipite senso, ricomponendone il volto diviso che guarda da una parte all’intelletto, dall’altra alla percezione sensibile. Il tessuto sensuale della parola dà forma al significato, lo rivela avido di corporeità e indigente se da essa si astrae, non solo secondo l’attitudine consueta della lingua poetica di coniugare suono e senso, ma più profondamente, nei termini di un’alleanza originaria che privilegia la persuasione sensibile del suono. È un percorso utopico a ritroso, verso il non-luogo temporale della parola pronunciata miticamente che suscita le mutevoli metamorfosi della percezione piuttosto che l’obbligo univoco alla comprensione. Tuttavia non è qui attuata la ricerca della parola innocente e primigenia e di un’immemore vibrazione sensoriale, perché, quasi con sofferenza, il linguaggio sperimenta il suo spessore storico e la densità delle sue forme significanti. L’impasto lessicale è infatti esperto e prezioso e la frase sintattica – il giro delle forme legate – non è elusa. D’altro canto gli arcaismi numerosi e i lessemi letterari, mentre indicano il verso del percorso, il risalire all’indietro verso la regione remota dell’integrazione del doppio volto della parola, si illuminano soprattutto, oscurandosi il loro significato desueto, come oggetti sonori, la cui fonìa è significante anche per gli echi di senso trascinati attraverso un ampio spazio temporale. In ogni serie di versi il suono si solleva e scompagina le parole, le smembra, le divide e poi le ricompone in nuove sequenze forzando la chiusura, il confine, il bordo semantico che le stringe e che nessun contesto logico-semantico può spingere

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più di tanto. Saggiati nessi aerei, le parole si ridepositano una per una sulla pagina e si consegnano alla scrittura logico-sintattica che si articola complessa, sebbene franta dal vario regime dei versi e riplasmata dalle tensioni semantiche che vi imprime l’ordine diverso tessuto dai suoni. La sintassi formale costruisce infatti un linguaggio difficile e geloso che traduce i dati della conoscenza in misure e simmetrie di tipo musicale: è un filtro, una presa di possesso mediata del mondo, il segreto trasmesso attraverso un velo tramato fittamente. È questo, appunto, il linguaggio della traduzione, che trasporta altrove (trans-duco) gli elementi della realtà e la lingua consueta, entro spazi interiori dove abita il silenzio, estrema traduzione del mondo, e da dove emergono alla luce del senso parole e sequenze più sinteticamente espressive, perché il silenzio rilascia ciò che è più simile alla sua intensità: sillabe risonanti e lessemi inusuali, remoti o del tutto nuovi o viranti a diversi significati. La necessità del tradurre si applica anche, come è consueto, a oggetti verbali quali i testi di altri poeti, ma non importa se questi sono stranieri (Emily Dickinson) o italiani (Camillo Sbarbaro), perché è nuovo l’intento della traslazione che induce i versi altrui a calarsi in un tragitto interiore, da dove riaffiorano dettati in un altro linguaggio. Assonanze, consonanze, allitterazioni, fonemi accostati, invertiti, rincorrentisi, la predilezione per la sonorità marcata delle consonanti doppie, soprattutto le /s/ dei superlativi e dei congiuntivi, non solo producono una semantica orchestrata, ma toccano esiti iconici, facendo affiorare anche «dalie delebili» e «iridie rive». Concorrono a esaltare il senso polimorfo della sonorità le misure e i ritmi distribuiti nei versi che, come accade nel gioco dinamico dei fonemi legati via via in diverse combinazioni, compongono diverse simmetrie. Come i lessemi arcaici, così gli schemi metrici tradizionali raccolgono ciò che echeggia attraverso il tempo, per evolversi in nuovi contesti fonici dove le ricorrenze variamente intrecciate ne aprono la forma a sensi inattesi. La misura di un endecasillabo regolare come «sottilissime dune d’anni

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osando», seguito da un ottonario e da un altro endecasillabo, è mossa a un disegno differente dalla iterazione e successione dei fonemi, la serie delle /s/ che via via si combina con quella delle /d/ e si spegne con la serie delle /m/, mentre i fonemi vocalici intrecciano altri schemi, in una dinamica formale che trasporta il battito della scansione lungo la scia del colore dei suoni. Le misure brevi si scandiscono solo il tempo del verso per aprirsi nel verso seguente a misure più ampie: «D’eburnea rema e reti / falbe indissi / ad erebo uno spazio // che d’eclissi ...», dove i due settenari si snodano in due endecasillabi legati dalla rima. Il rapporto speculare tra segmenti di fonemi diventa sul piano ritmico una simmetrica inversione: «D’egida indige / l’alvo di gelsi ...». Ogni segmento formale si allarga e si restringe insieme, si apre e si richiude, si divide e si moltiplica, per cui i brevi componimenti della raccolta sono nuclei radianti anche se ben serrati al centro e non manifestamente espressi. Il ritmo polimorfo, che si ridisegna di verso in verso allargando il giro dei componimenti, si vale anche della misura delle singole parole, della loro brevità o lunghezza, come a voler ritrovare, nella pronuncia di volta in volta più lenta o più veloce, rapporti quantitativi, il breve e il lungo delle sillabe antiche. Le parole sdrucciole si disseminano in gran numero, a volte coincidendo con la misura del verso e spesso allitterando con le piane contigue: la pronuncia sdrucciola eleva la scansione, che batte sulla sillaba accentata e discende nelle due successive, e crea sfumature ritmiche diverse se la parola è trisillaba o se sillabe atone precedono il rilievo dell’accento. Il tonos, la tensione fonica, risalta nelle forti battute sillabiche seguite da una progressione atona: «Lauti lemuri sedandosi / d’albe innumeri e dolcori». Qui inoltre il contesto ottonario rafforza il ruolo ritmico delle sillabe e le due sdrucciole «lemuri» e «innumeri» si rinviano una serie di riflessi fonico- ritmici. Un nucleo fonico è trasportato in una gamma di variazioni e via via si estingue ibridandosi in altre combinazioni. La sintassi logica procede legando il senso, per poi restare sospesa e

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pendere sul vuoto che perciò risuona delle parole appena pronunciate: il silenzio è assorbito entro la frase inconclusa come strumento di risonanza della sintassi e della semantica fonica. Il punto fermo, quale segno della pausa logica più netta, è respinto dal sistema dei suoni, che dettano le pause esigendo la qualità del loro silenzio, aperto ad accogliere la loro eco. Il contesto fonico-semantico motiva la funzione dei verbi al gerundio ricorrenti nei versi: la forma del gerundio, fonicamente espressiva nel suo giro di lentezza e di rotondità, individua le caratteristiche temporali dell’indefinitezza e della continuità inconclusa, che rinviano a un’altra dimensione temporale, puntuale e definita, dove chiudere la loro implicita estensione; ma è appunto questa delimitata dimensione che spesso manca, per cui resta il gerundio dei verbi a dilatare il tempo privo di vettore e di soggetto. Protetta dalle sospese perifrasi temporali, dalle variazioni sui suoni ricorrenti e intrecciati, dalle tensioni del ritmo, dal silenzio integrato alle parole, la reticenza gelosa della poesia di Caterina Giorgi non cede ciò che nasconde, anzi è forse essa stessa l’oggetto dei versi: un aereo muro di suono e di senso, un recinto prezioso eretto a filtrare e a informare il rapporto tra interno e esterno. Trapela tuttavia da una ricorrenza lessicale un tema interiore, traccia di un timore o di una sofferenza: nelle forme del verbo e dell’aggettivo, eludendo la nominazione, viene espressa l’ombra di una lesione (nel verbo ledere, negli aggettivi leso e illeso, nel doppio conio lesile/illesile). Il danno, la crepa, la ferita, e il desiderio di preservarsene, opponendo all’offesa una griglia di suoni e il loro battito ben ritmato.

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