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A. Maslow ipotizzò che gli esseri umani rispondono a una gerarchia di bisogni, tale che i livelli inferiori deb- bono essere soddisfatti prima che si possa dedicare molta atten- zione a quelli superiori. I bisogni più importanti sono la fame e il sonno. Quando questi bisogni sono soddi- sfatti, la sicurezza diventa la principale preoccupazione(Wilson, 1979, p. 556). La sicurezza è pertanto un bisogno umano profondo, una condizione indispensabile per potersi esprimere e realizzare, una necessità. L’abbiamo per- cepito più volte e lo sentiamo con forza nella quotidianità: la stabilità e la dipendenza, come definiva Maslow il bisogno di sicurezza, da un “protettore efficiente” che liberi dalla paura e dall’ansia, che possa contare sulle garan- zie della legge e sulle norme della vita sociale. Maggiore è l’incertezza, maggiore il bisogno di sicu- rezza sentito. E, l’incertezza, così come il rischio, l’aumento della conflittualità e l’im- migrazione sono tra le parole d’ordi- ne principali della post-modernità, della società che diviene sempre più globale. D’altra parte la crisi dello stato socia- le, la crescente disuguaglianza, la scarsità di risorse, la presenza sem- pre più massiccia di immigrati, la destabilizzazione di vaste aree del pianeta, il nuovo ordine mondiale, il controllo della gran parte dei mezzi di informazione, aumentano sia l’in- sicurezza che la sua percezione: dal- l’emergenza criminalità all’allarme terrorismo. Facile allora che la sicurezza urbana diventi esclusivamente un problema di ordine pubblico, tolleranza zero, presenza sempre più massiccia delle forze di polizia, videocamere e sbar- re un po’ dovunque. E che la sicu- rezza mondiale diventi guerra pre- ventiva, investimenti militari, opera- zioni di polizia internazionale, mili- tarizzazione delle frontiere, costru- zione di muri, mancato rispetto del- le garanzie e dei diritti umani ele- mentari. Una sicurezza basata sull’esclu- sione, sul controllo e sulla repres- sione. Che non funziona. E che necessita di grandissimi investi- menti economici. Producendo enormi profitti nelle mani di pochi. Abbiamo invece bisogno di una sicurezza che includa, che investa seriamente nel sociale, nella giu- stizia, nella possibilità di ricono- scere e gestire i conflitti, che pro- muova spazi e possibilità reali di incontro, che si nutra della diver- sità. Una sicurezza che possa esse- re garantita, vissuta e percepita da tutti in ogni parte del mondo. 15 Maggio 2007 A cura di Anna Scalori DOSSIER SICUREZZA GLOBALE Sommario Oltre il muro Claudia Mazzuccato 16 Difesa nonviolenta Nanni Salio 18 Città violente Intervista a cura di Claudia Bannella 20 Salviamo la persona Umberto Allegretti 22 Guerra globale? Francesco Terreri 24 © Olympia

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“A. Maslow ipotizzò che gli esseriumani rispondono a una gerarchia dibisogni, tale che i livelli inferiori deb-bono essere soddisfatti prima che sipossa dedicare molta atten-zione a quelli superiori. Ibisogni più importanti sonola fame e il sonno. Quandoquesti bisogni sono soddi-sfatti, la sicurezza diventa laprincipale preoccupazione”(Wilson, 1979, p. 556).La sicurezza è pertanto unbisogno umano profondo, unacondizione indispensabile perpotersi esprimere e realizzare,una necessità. L’abbiamo per-cepito più volte e lo sentiamocon forza nella quotidianità:la stabilità e la dipendenza,come definiva Maslow ilbisogno di sicurezza, da un“protettore efficiente” cheliberi dalla paura e dall’ansia,che possa contare sulle garan-zie della legge e sulle normedella vita sociale.Maggiore è l’incertezza,maggiore il bisogno di sicu-rezza sentito. E, l’incertezza, così come il rischio,l’aumento della conflittualità e l’im-migrazione sono tra le parole d’ordi-ne principali della post-modernità,della società che diviene sempre piùglobale. D’altra parte la crisi dello stato socia-le, la crescente disuguaglianza, lascarsità di risorse, la presenza sem-pre più massiccia di immigrati, ladestabilizzazione di vaste aree delpianeta, il nuovo ordine mondiale, ilcontrollo della gran parte dei mezzi

di informazione, aumentano sia l’in-sicurezza che la sua percezione: dal-l’emergenza criminalità all’allarmeterrorismo.

Facile allora che la sicurezza urbanadiventi esclusivamente un problemadi ordine pubblico, tolleranza zero,presenza sempre più massiccia delleforze di polizia, videocamere e sbar-re un po’ dovunque. E che la sicu-rezza mondiale diventi guerra pre-ventiva, investimenti militari, opera-zioni di polizia internazionale, mili-tarizzazione delle frontiere, costru-zione di muri, mancato rispetto del-le garanzie e dei diritti umani ele-mentari.

Una sicurezza basata sull’esclu-sione, sul controllo e sulla repres-sione. Che non funziona. E chenecessita di grandissimi investi-

menti economici. Producendoenormi profitti nelle mani dipochi.Abbiamo invece bisogno di unasicurezza che includa, che investaseriamente nel sociale, nella giu-stizia, nella possibilità di ricono-scere e gestire i conflitti, che pro-muova spazi e possibilità reali diincontro, che si nutra della diver-sità. Una sicurezza che possa esse-re garantita, vissuta e percepita datutti in ogni parte del mondo.

15Maggio 2007

A cura di Anna Scalori

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IERSICUREZZA

GLOBALE

SommarioOltre il muroClaudia Mazzuccato 16

Difesa nonviolentaNanni Salio 18

Città violenteIntervista a cura di Claudia Bannella 20

Salviamo la personaUmberto Allegretti 22

Guerra globale?Francesco Terreri 24

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OLTREIL MURO

La cultura del controllo

e della sicurezza domina il nostro tempo:

sono possibili metodi nonviolenti legati alla sicurezza

e al contrasto alla criminalità?

Claudia MazzuccatoRicercatore di Diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Anche nei Paesi ritenutipiù civili, l’epoca tardo-moderna vede prospera-re la cultura del con-trollo, una cultura che

induce tassi spaventosi di detenzione;caldeggia l’approvazione dei cd. pac-chetti sicurezza anti-crimine costrui-ti attorno al continuo ina-sprimento sanzionatorio;assiste senza troppo scom-porsi al dibattito circa lalegittimità della tortura;sollecita il mantenimentodella pena di morte e inogni caso dell’ergastolo; guarda conansiosa (e mal riposta) fiducia all’a-dozione dei braccialetti elettronici edi altre diavolerie tecnologiche (o chi-miche) mirate a neutralizzare i delin-quenti; si attendedalla cd. ediliziapenitenziaria lacostruzione dinuovi (per nume-ro e caratteristi-che) luoghi didetenzione (car-ceri, boot campsdestinati ai mino-renni, centri di“accoglienza” peri migranti clande-stini ecc.); recla-ma a gran voce ladurezza intransi-gente verso lascomodità imba-razzante di certecondotte margi-nali (accattonag-gio, vagabondag-gio ecc.); chiede i

poliziotti e i vigili di quartiere; auspi-ca telecamere ovunque e recinzioninei luoghi che un tempo erano “pub-blici” e liberi; scoraggia l’aprirsi dellegislatore (già fin troppo cauto) allemisure più umane e meno afflittive (laprobation, la giustizia riparativa ecc.),misure accettate – con sospetto e fino

a “prova contraria” – solo a fini dideflazione o economicità del sistema,misure fra l’altro sempre più simili afacciate dietro le quali si nascondonopene intensive in senso stretto.

Il cimitero dei viventi e affiniEppure la disfunzionalità di certe poli-tiche e di certi mezzi sanzionatori è sot-to gli occhi di tutti, potremmo dire, dasempre. Basta rileggere alcuni autore-voli ammonimenti di protagonisti del-la nostra cultura, di storici e studiosi discienze penali (Cesare Beccaria in testa)

per scoprirne, drammatica-mente, l’attualità nonostan-te il passare dei secoli e deidecenni: le carceri restano ilcimitero dei viventi e perdu-rano “semplicemente perchéormai dotate di una vita isti-

tuzionale propria quasi indipendenteche consente loro di sopravvivere adispetto della schiacciante evidenza del-la loro scarsa funzionalità sociale”(L.Stone, Viaggio nella storia, Laterza,Roma-Bari 1987).Si osservi, infatti, che gli orientamenticoercitivi e repressivi così “di moda”nel panorama internazionale finisco-no per avere, in modo quasi dichiara-to, più un intento simbolico rassicu-rante verso la collettività che unaeffettiva funzione (e capacità) pre-ventiva degli atti illegali che tantoimpauriscono i cittadini: ciò è con-fermato, da tempo, anche dalla piùlungimirante dottrina penalistica ita-liana la quale rileva, in tono sconso-lato, che non è neppure “necessaria lacoincidenza tra «capacità rassicura-trice» – o significato simbolico – didate misure repressive e la loro ido-neità tecnica a rafforzare la rispostareale a date forme di criminalità” (F.Stella, La tutela penale della società,in E. Dolcini, G. Marinucci, Dirittopenale in trasformazione, Giuffrè,Milano 1985), ritenendosi demagogi-

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La più efficiente prevenzione dei reati percorre la ricerca dell’adesione libera

e del rispetto spontaneo delle norme da parte dei consociati

Le fotografie...Abbiamo voluto dedicare il dossier di questo mese a tut-ti coloro che sono vittime quotidiane di violazioni didiritti umani. Ricordiamo in particolare gli uomini, ledonne e i bambini che sono coinvolti nelle devastantiguerre in Terrasanta e in Iraq. Le fotografie ritraggono il Muro costruito in Terrasan-ta – muro che vuol racchiudere e simboleggiare tutti imuri del mondo, reali e culturali.Città squartate, gente divisa, campi incolti, famiglieseparate....A tutti costoro dedichiamo la nostra preghiera e ilnostro lavoro.E a tutti coloro che, singole persone o movimenti, dedi-cano il proprio impegno per la ricerca di soluzioni alter-native alla violenza. Non ultimo, Pax Christi, con laCampagna Ponti e non Muri con il proprio incecces-sante impegno in Iraq.DO

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camente sufficiente la capacità rassi-curatrice.L’autorità coercitiva della punizione,l’ansia del controllo vogliono rappre-sentare la “via breve” (falsamente) ras-sicurante contro gli sbandamenti del-la condizione tardo-moderna.Tutto quello che il confronto, il dia-logo, l’argomentazione critica e lo sti-molo dell’intelligenza potrebberogenerare – cioè il convergere attornoad alcuni valori civici motivanti eimpegnativi –, viene conse-gnato alle mani svelte dellavirulenza del patire. La pena,nell’ottica qui criticata, ha ilcompito di additare i valori(ritenuti altrimenti incapaci diaffermarsi), rafforzandone lavigenza, di indicare il com-portamento da (non) tenere, dieducare il cittadino: la penainsomma deve dare sicurezza,nei molti significati che simi-le termine può avere.

L’ansia del controlloUna società più che mai refrat-taria a farsi regolare diventaimprovvisamente compatta nelpretendere – con “fermezza” –non già regole, ma subito afflizioniavverso certi suoi membri scomodi ecerte condotte inquietanti. La “fari-saica” capacità selettiva dei bisogniemotivi di punizione conduce lasocietà “incerta” a dirottare le ferociistanze repressive e l’ansia del con-trollo verso le persone giudicate piùfastidiose e meno accettabili, personeche, per la maggior parte, si trovano incondizioni marginali e difficili proprioa causa delle dinamiche interne di que-sta traballante società. Così, “la dife-sa della purezza si esprime in guerri-glia e lotta partigiana contro gli abi-tanti delle strade a rischio e dei quar-tieri proibiti, i vagabondi, i senzadimora, i fannulloni. [...] Le sporciziesulle quali si concentrano le attivitàpunitive o preventive sono una ver-sione estremizzata e caricaturale del-

le forme di vita promosse e coltivatecome pure; radicalizzazioni di stili divita che avrebbero dovuto conoscerei propri limiti ma che, una voltalasciati liberi, non sono più stati fer-mati da alcuna frontiera” (Z. Bauman,Il disagio della postmodernità, Mon-dadori, Milano 2007). E si badi: chei bisogni emotivi di punizione sianodiffusi e, dunque, popolari, non li ren-de per ciò solo democratici. Anzi.Si noti infine che tali orientamenti siinseriscono in logiche di conteni-

mento repressivo che non promuovo-no alcuna crescita (educativa e moti-vazionale) a una legalità convinta eanzi offrono la triste immagine di unoStato in cui persino le attività di pre-venzione finiscono per fare paura,consegnando così – dopo il loro pas-saggio – una società più repressa, nonuna società migliore (nel duplicesignificato di più civile e più sicura).

La “forza” mite del convincerePare difficilmente contestabile ilprincipio secondo cui, a maggiorragione in uno Stato democratico,convincere sia meglio che costringe-re; educare sia meglio che punire.Il rilievo da riconoscere alle dinami-che motivazionali di rispetto spon-taneo delle norme non si ispira tan-to a un ideale umanitario, ma al fat-

to concretissimo di una più solidaefficacia preventiva: i cittadini sonopiù sicuri, non quando qualcuno ètrattenuto dal commettere reati ‘solo’dalla minaccia di una pena severa odai dispositivi (mai perfetti) di unaprigione, bensì quando costui delibe-ratamente sceglie di non delinquere.Una giustizia penale per la sicurezzanon è repressiva; è, invece, ingegnosanel progettare e mettere in campo misu-re che prevengano alla radice gli ille-citi, chiudano “posti di lavoro crimi-

nale” e reintegrino dignitosa-mente gli autori del reato.Simili politiche anti-criminesono però complesse, si carat-terizzano per essere programmie non interventi puntuali: esserichiedono, dunque, tempo, lun-gimiranza, compostezza epazienza, ma proprio per que-sto assicurano risultati duraturie non parvenze di risultati.La migliore guida orientativaper il sistema penale è costi-tuita proprio dalla riflessionesul concetto di democrazia: larisposta democratica alla com-missione di un reato fa levasulla forza mite del consenso.

La più efficiente prevenzione dei rea-ti percorre la ricerca dell’adesionelibera e del rispetto spontaneo dellenorme da parte dei consociati graziea un ordinamento giuridico autore-vole e credibile che sappia radicarsinella coscienza civile e orientare cul-turalmente le persone. E una voltache, disgraziatamente, il reato è com-messo, una giustizia democraticasostituisce alla forza negativa di unapena – un male – che si può solo subi-re, un impegno in prima persona cheil colpevole può intraprendere in sen-so riparativo. Non una pena contro,dunque, quanto un impegno per, perla persona offesa, per la collettività,per la ricostruzione del legame socia-le e il ripristino di quel patto di fidu-cia originaria che deve sussistere inuna società “buona da viverci”.

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SCAFFALI

C. Mazzucato, I. Marchetti, La pena ‘in castigo’. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Vita&Pensiero, Milano 2006.C. Mazzucato, Consenso alle norme e prevenzione dei reati, Aracne, Roma 2005.K. Lüderssen, Il declino del diritto penale, Giuffrè, Milano 2005. D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano2004.G. Forti, Vedere il carcere. I lumi che accompagnano la libertà, in “Rassegna penitenziaria e criminologica”, nume-ro speciale 2002.L. Eusebi, La pena “in crisi” Il recente dibattito sulla funzione della pena, Morcelliana, Brescia 1990.

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DIFESANONVIOLENTA

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Accade sovente che il con-flitto venga percepitocome minaccia e/o attac-co dell’altro alla propriaintegrità, provocando un

più o meno accentuato senso di insicu-rezza. All’interno dei conflitti interna-zionali, che spesso sfociano in vere eproprie guerre, l’insicurezza non è piùuna sensazione, ma una condizione con-tinua dell’esistenza, che l’uso della for-za e della violenza spesso contribuiscead alimentare. Soprattutto, come nelcaso del terrorismo, in cui l’interventoarmato diventa “preventivo”. L’ap-proccio nonviolento ricerca la possi-bilità di perseguire percorsi differenti.

La nonviolenza nei conflittiUna possibile definizione della non-violenza, non filosofica ma operativa,è la seguente: “La nonviolenza è lacapacità di trasformazionecostruttiva e creativa dei con-flitti dal micro al macro al finedi ridurre il più possibile ogniforma di violenza”. Essa con-siste quindi nella capacità ditrasformare la naturale aggres-sività umana in forza creativae non distruttiva.Per cercare di capire megliocosa intendiamo per “trasfor-mazione nonviolenta dei con-flitti”, cominciamo a precisareche il termine conflitto non èsinonimo di violenza né di guer-ra, ma indica una situazione dicontrapposizione, di contraddi-zione, tra più attori sociali che intendo-no perseguire scopi diversi. Il ricorsoalla violenza è l’esito negativo al qualepuò portare un conflitto qualora non si

sia capaci di trasformarlo creativamen-te e funzionalmente per tutte le parti ingioco. In generale, il conflitto si presentacome un processo dinamico che si svi-luppa seguendo, certo non in modo mec-canicistico, tre fasi principali: prima del-la violenza, durante la violenza, dopo laviolenza. Per agire in modo nonviolen-to, dobbiamo apprendere tecniche spe-cifiche per ciascuna delle tre fasi: pre-venzione, intervento, riconciliazione.Prevenire significa educarci e alfabetiz-zarci alla trasformazione nonviolentadel conflitto attraverso il dialogo, l’a-scolto attivo, la comunicazione nonvio-lenta, la condivisione, l’empatia, la con-sapevolezza. Lo scopo è quello di evi-tare la scalata del conflitto verso livellicrescenti e distruttivi di violenza, man-tenendo sotto controllo l’aggressività, larabbia e la paura onde evitare di ali-mentare una spirale crescente di azioni

e reazioni che possono sfociare nellaviolenza estrema.Quando la prevenzione fallisce o quan-do ci si trova come terze parti di fronte

a situazioni in cui la violenza è già inatto, il compito si fa più difficile perchéoccorre intervenire per far cessare laviolenza, per difendere le vittime, i piùdeboli, senza aggiungere altra violenza.Occorre ovviamente distinguere l’in-terposizione e l’intervento su piccolascala, in situazioni anche casuali dellavita quotidiana, dall’intervento nei con-flitti macro, su larga scala, in sostitu-zione degli eserciti. Mentre nel primocaso può talvolta essere sufficiente l’in-tervento individuale e, comunque, pos-sono verificarsi situazioni estreme in cuisiamo costretti ad agire da soli, nei con-flitti macro dobbiamo intervenire conmodalità collettive, organizzate pertempo perché possano essere efficaci.A differenza di altre forme di interven-to, la nonviolenza si propone di libe-rare sia gli oppressori sia gli oppressi,sia le vittime sia i perpetratori, dalle

catene disumanizzanti dellaviolenza. La dinamica dell’a-zione nonviolenta richiedequesta disponibilità al sacrifi-cio, anche estremo, a soppor-tare su di sé la violenza eser-citata ingiustamente dall’op-pressore per innescare uneffetto boomerang che sgreto-la il potere apparentementemonolitico dell’avversariocoinvolgendo settori via viapiù ampi delle terze parti, ini-zialmente indifferenti o neu-trali. È ciò che si è verificatopiù volte nel corso della storia,in situazioni assai diverse: dal-

la lotta di liberazione dell’India sotto laguida del mahatma Gandhi, alle lottecontro l’apartheid negli USA, con Mar-tin Luther King, e in Sudafrica, conDO

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RConflitti,

mediazione e gestione delle crisi

internazionali:le strategie

dell’interventonon armato

Nanni SalioCentro Studi Sereno Regis

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Nelson Mandela e Desmond Tutu, aimutamenti nell’Europa centro-orienta-le culminati nel 1989.Ma altrettanto importante è l’opera diriconciliazione dopo la violenza. Senzaquesta azione terapeutica, il ciclo dellaviolenza tende facilmente a riprodursi.Le ferite e i traumi subiti a livello indi-viduale e collettivo agiscono nel profon-do e prima o poi rischiano di riemerge-re alla coscienza, con conseguenzedistruttive. La Commissione verità ericonciliazione promossa in Sudafrica daTutu e Mandela è un formidabile esem-pio positivo che dovrà essere seguito eperfezionato in tutti quei casi, dal Rwan-da ai Balcani alla Palestina all’Irlanda aiPaesi Baschi e così via, in cui la violen-za ha provocato odi laceranti, sete divendetta, incapacità di convivere.

Conflitti simmetrici e asimmetriciUna utile classificazione consiste nel-l’osservare che esistono due tipi fonda-mentali di conflitti: simmetrici e asim-metrici, che si distinguono a seconda deirapporti di potere tra le parti in gioco.Nel primo caso le parti si trovano in unacondizione di potere equilibrato, nelsecondo la relazione è squilibrata. Granparte dei conflitti micro, relazionali, sonoprevalentemente simmetrici,mentre tra i conflitti macrotendono a prevalere quelliasimmetrici. Una delle tecni-che più impiegate nell’affron-tare i conflitti simmetrici è lamediazione, che non può esse-re utilizzata nel caso asimme-trico, perché prima occorre intervenireper riequilibrare i rapporti di potere. Neiconflitti asimmetrici, le parti esternesvolgono il ruolo fondamentale di inter-vento, non necessariamente richiesto,per riequilibrare i rapporti di potere chesono a svantaggio della parte oppressa.Oltre a riequilibrare i rapporti di pote-re, intervenendo a favore degli oppres-si, le parti esterne hanno il compito diristabilire i canali di comunicazioneinterrotti; riumanizzare le parti in causa,accettando su di sé la violenza dellarepressione in maniera tale da renderevisibile la sofferenza degli oppressi e delgruppo che interviene a loro favore esuscitare atteggiamenti empatici chemodifichino pregiudizi e comporta-menti; ridurre il consenso diretto e indi-retto che le parti esterne indifferenti dan-no al sistema di potere degli oppresso-ri; favorire l’emergere di soluzionisovraordinate che consentano a tutti diuscire vincitore e a nessuno di essereperdente.

Come ha sintetizzato efficacementeMichael Nagler, “la guerra talvoltafunziona, ma non è mai efficace”; “lanonviolenza talvolta funziona, ma èsempre efficace”.(Michael Nagler, Per un futuro nonvio-lento, Ponte alle grazie, Firenze 2005).

La mediazione internazionale La mediazione internazionale è oggisvolta prevalentemente da diplomati-ci che si muovono seguendo le linee dipolitica estera elaborate dai singoliPaesi e raramente sono preparati peragire secondo i principi della trasfor-mazione nonviolenta dei conflitti.Un’ampia serie di casi di studio si tro-va nel sito www.transcend.org delnetwork TRANSCEND fondato daJohan Galtung. Egli sostiene che unodei compiti fondamentali è quello del-la creatività e fornisce numerosi esem-pi concreti di soluzioni creative chehanno consentito di risolvere positiva-mente conflitti che avevano già porta-to alla guerra in più occasioni. Nel libro Searching for Peace. TheRoad to Trascend (Pluto Press, Lon-don 2002) a cura di Johan Galtung ealtri suoi collaboratori, sono raccoltioltre quaranta casi relativi ai principaliconflitti armati.

Per diffondere le competenze sulla tra-sformazione nonviolenta dei conflittivengono organizzati corsi di forma-zione a vari livelli, da quelli di base per“operatori di pace” che operano inONG e in strutture di volontariato,sino a corsi per giornalisti (giornali-smo di pace) diplomatici, funzionaridei ministeri degli esteri, studenti uni-versitari. In Italia si stanno man manodiffondendo alcune di queste iniziati-ve, ma molto lavoro resta ancora dafare. Le risorse a disposizione sonopoche, mentre quelle per la guerra cre-scono continuamente. Anche in Italiale spese militari sono cresciute nel cor-so degli ultimi anni, soprattutto nel-l’ultima finanziaria del 2006. Si ègiunti a impegnare una somma enor-me, oltre 13 miliardi di euro, per l’ac-quisto di un centinaio di nuovi caccia-bombardieri, che nulla avrebbero a chefare con un autentico modello di dife-sa, solo per assecondare gli interessidel complesso militare industriale,

mentre si lesinano le modeste risorseche sarebbero necessarie per poten-ziare il lavoro di formazione per gli“operatori di pace”. Come è ben notoe ampiamente documentato (DietrichFischer, On the relative cost of media-tion and military intervention,http://www.epsjournal.org.uk/abs/Vol1/No2/eps_v1n2_fischer.pdf ) il costodella mediazione è enormemente piùbasso e molto più efficace di quellodell’intervento militare. Ma occorreun cambiamento profondo del para-digma dominante nella cultura poli-tica e militare. Vediamo costante-mente le difficoltà anche nel nostroPaese e nell’ambiguità delle cosid-dette “missioni di pace” militari.

Intervento nonviolentoNel frattempo, non si rimane ad aspet-tare ma si agisce dal basso con deci-ne e centinaia (su scala internaziona-le) di interventi in aree di conflittoarmato con quelli che ormai sono con-venzionalmente chiamati Corpi Civi-li di Pace. In Italia essi sono coordi-nati in una nuova associazione (IPRI-Rete CCP, con sede legale presso ilCentro Sereno Regis di Torino e sitointernet www.reteccp.org). Sono incorso iniziative per tentare di avviare

esperienze anche a livello isti-tuzionale nell’area medio-rientale (Libano e Palestina),in collaborazione tra la retedei CCP e il Ministero degliAffari Esteri.Accanto alla tradizionale for-ma con cui si intendeva la

difesa, anche quella nonviolenta, quel-la dei CCP è la risposta alternativa,nonviolenta, alla “proiezione” in ogniarea del globo della forza militare edella NATO. Non è retorico sostene-re che il futuro dell’umanità si giocaproprio tra queste due alternative:DPN e CCP da una parte e, dall’altra,terrorismi dall’alto (gli Stati) e dal bas-so (tipo Al Qaeda). La forza della nonviolenza ha dimo-strato ampiamente di avere dignitàteorica (si veda il libro di AntoninoDrago, La difesa popolare nonviolen-ta, EGA, Torino 2006) e capacità pra-tica di affrontare positivamente con-flitti su larga scala e ha aperto ampivarchi nel sapere accademico, sebbe-ne non sia ancora riuscita a diventaresenso comune e potere decisionalepolitico. Per raggiungere questi obiet-tivi ambiziosi è necessario che ilmovimento per la pace li assumacome base prioritaria della propriapiattaforma politica. SI

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La nonviolenza si propone di liberaresia gli oppressori sia gli oppressi,

sia le vittime sia i perpetratori,dalle catene disumanizzanti

della violenza

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Sei appena rientrato da Port-au-Prince (Haiti) dove hai aper-to due progetti in contesti diviolenza urbana nelle bidon-villes di Cité Soleil e Martis-sant. Come definiresti un con-testo di violenza urbana?Molte bidonvilles nel mondo vivonouna situazione di guerra non dichiara-ta, il numero dei feriti da arma da fuo-co è altissimo, il numero degli omi-cidi è notevole, la popolazione impau-rita non esce di casa e quando si tro-va costretta a farlo spesso è vittima delfuoco incrociato. Questi contesti ven-gono spesso considerati conflitti diserie B, nemmeno i giornali locali ten-gono la triste contabilità delle vittime.Poche organizzazioni hanno il corag-gio e la possibilità di metterci piede.A volte la polizia o le forze di paceinternazionali rispondono in manierasproporzionata agli attacchi delle ban-

de armate, ma nessuno è lì per testi-moniarlo in modo credibile.

Cosa significa per un’organiz-zazione umanitaria comeMSF lavorare in un con-testo di violenza urbanae quali sono le sue pecu-liarità?Significa prima di tutto rispon-dere al mandato e ai principidell’organizzazione, mettersi alservizio di una popolazione vit-tima di violenze e priva di assi-stenza medica. Implica il dovertrattare con le autorità localiovvero i capi dei gruppi arma-ti, non subendo ricatti, estor-sioni e pressioni di altro gene-re. Significa seguire con attenzionel’evoluzione di un contesto che cam-bia continuamente, ora dopo ora. Obbliga a mettere la sicurezza dei

nostri operatori e delle persone checuriamo al centro della propria azio-ne e a tenere conto del continuo stressa cui si è sottoposti.

Come si applicano i principi diimparzialità, indipendenza eneutralità a Cité Soleil o a Mar-tissant dove diversi gruppiarmati combattono tra di loro econtro una forza di peacekee-ping delle Nazioni Unite?È molto difficile in entrambi i casianche se i due contesti sono moltodiversi tra loro. È necessario ribadirespesso i principi dell’azione di MSFincontrando i capi dei gruppi armati,negoziando in prima persona le moda-lità per lo svolgimento delle nostre atti-vità, l’ingresso giornaliero in questevere e proprie enclavi urbane.Senza dubbio è meno complesso gesti-re dei progetti in una zona come CitèSoleil, dove truppe ONU per la stabi-lizzazione ad Haiti (Minustah) e grup-pi armati locali si contendono il terri-torio. Gli attori sono facilmente identi-ficabili e le dinamiche degli scontri piùprevedibili. Incontriamo regolarmente

CITTÀVIOLENTE

Loris De Filippi, ex Capo-missione

di MSF ad Haiti,racconta la tragedia

dei baraccati di Haiti.Una vera guerra

inascoltata

Intervista a cura di Chiara Bannella Medici Senza Frontiere

La democrazia e l’ordine pubblicoOggi come mai in passato si rivolge una sfida ai principi e alla prassi della demo-crazia. In alcune nazioni essi non sono solamente sfidati, ma sono distrutti spie-tatamente e sistematicamente. Dappertutto vi sono ondate di critica e di dub-bio se la democrazia sia in grado di far fronte ai pressanti problemi dell’ordi-ne e della sicurezza. Sono complesse le cause della distruzione della democra-zia politica nei Paesi nei quali essa era stata istituita nominalmente. Ma credoche di una cosa si possa essere sicuri. Dovunque è caduta essa aveva un carat-tere troppo esclusivamente politico. Non era diventata ossa e sangue del popo-lo nella sua vita quotidiana. Le forme democratiche erano limitate al Parlamento,alle elezioni e alle lotte tra i partiti. Credo che ciò che sta accadendo provi inmodo conclusivo che la democrazia politica è malsicura se gli abiti democra-tici del pensiero e dell’agire non sono parte della fibra stessa di un popolo. Lademocrazia non può sussistere isolata. Essa deve essere rafforzata dalla pre-senza di metodi democratici in tutti i rapporti sociali.J. Dewey (in I. Marchetti, C. Mazzucato, La pena in castigo, Vita e Pensiero,Milano 2006).

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entrambe le parti per illustrare i nostriprogetti e le nostre modalità d’azione,non lasciamo nulla al caso. Entrambi ibelligeranti conoscono i percorsi che tut-ti i giorni faccia-mo con i nostriconvogli per rag-giungere le strut-ture sanitarie incui lavoriamo.Siamo in costan-te contatto contutti gli attorianche durante gliscontri per capirele dinamiche eper decidere inostri eventualimovimenti. La situazione a Martissant,un’altra bidonville dove vivono circa400mila persone, è molto diversa e piùcomplessa. Non ci troviamo di fronte aun conflitto dichiarato tra due Paesi inguerra, la convenzione di Ginevra non èapplicabile ed è estremamente difficileconvincere i gruppi armati dell’impor-tanza e del rispetto del nemico ferito.Almeno sei gruppi sono in guerra fraloro. La violenza e l’intensità degli scon-tri è aumentata esponenzialmente dalloscorso luglio. L’antagonismo fra i grup-pi ci costringe a moltiplicare gli sforziper negoziare e far rispettare il nostrospazio d’azione. È cruciale comprende-re le dinamiche degli scontri e prevede-re, qualora possibile, vendette trasver-sali e ritorsioni. I contatti con i capi sonofrequenti e le raccomandazioni per ilrispetto totale dell’ambulatorio in cuioperiamo come zona neutrale finorahanno dato ottimi risultati.

In base a cosa hai deciso diaprire due progetti in questedue bidonville?Medici Senza Frontiere generalmenteapre un progetto quando identifica unapopolazione in situazione precaria e pri-

va di assistenza. Noi abbiamo decisodi intervenire nelle bidonvilles di Hai-ti in conseguenza della crisi politica del2004 e determinata dalla fuga dell’ex

p r e s i d e n t eJean BertrandAristide. Lamortalità, lamorbilità el’esclusioneda ogni formadi assistenzasanitaria era-no peggioratee ci sembravao p p o r t u n ointervenire inbidonvilles

dove vivevano più di 250 mila perso-ne e dove non esisteva alcuna struttu-ra medica funzionante. Cité Soleil eMartissant vengono considerate dalleNazioni Unite zone “rosse”, pericolo-se. C’è il divieto assoluto per il perso-nale civile delle agenzie dell’ONU dientrare in queste aree. Questo divieto si traduce in una rac-comandazione vivissima di non inter-vento alle altre organizzazioni interna-zionali. Io credo che ci si debba ado-perare con tutti i mezzi a disposizioneper entrare nelle zone rosse e operare,ovviamente riducendo al minimo irischi per l’incolumità degli operatori.

Lavorare in contesti di vio-lenza urbana è estremamen-te pericoloso. L’anno scorso,l’ospedale di MSF a CitéSoleil è stato più volte colpi-to. Come si calcolano e gesti-scono i rischi per il persona-le e per i beneficiari?A Cité Soleil i conflitti a fuoco sonogiornalieri, la gestione della sicurezzaè una priorità per il capo missione eper il coordinatore locale delle attività.I contatti con le forze belligeranti

sono frequentissimi, c’è una ricercapuntuale nel determinare il motivo diuna fucilata o la dinamica di unaschermaglia. Non c’è nessun movi-mento in presenza di conflitto aper-to. Spesso concertiamo con le dueparti dei cessate il fuoco temporaneiper permettere il movimento deinostri mezzi che da più di un anno emezzo entrano ed escono in convo-glio. All’esterno e all’interno deinostri centri abbiamo costruito del-le protezioni fisiche (muri, sacchi disabbia, protezioni metalliche) perimpedire ai proiettili di penetrare.

Un episodio, un aneddoto chericordi più di altri?Certamente i rivoli di sangue deinumerosi morti ammazzati lasciati perstrada o ammucchiati sui cumuli del-l’immondizia restano il ricordo piùforte.Anche la preparazione e la professio-nalità dell’equipe soprattutto durantele maxi emergenze, in particolare quel-la del 22 dicembre 2006 nella quale 26persone ferite da arma da fuoco arri-varono in pochi istanti nell’ospedale diCité Soleil.Tra le tante emozioni indelebili, ricor-do certamente quelle provocate da unragazzino arrivato con una ferita dataglio al volto. Gli chiesi come se lafosse fatta, lui mi rispose che se l’eraprovocata con un aquilone. Sbalorditogli chiesi di spiegarmi com’era possi-bile e lui mi disse che alla coda del-l’aquilone era legata una lama che ser-viva per tagliare il filo dell’aquilone“nemico”.Pensavo fino a quel momento che l’a-quilone rappresentasse meglio di ognialtro gioco il desiderio del bambino dilibrarsi in aria e volteggiare in libertà;a Cité Soleil è una delle tante forme peraffermare violentemente la propriasupremazia sull’altro.

Delitto e castigoIn verità, e i cristiani dovrebbero saperlo e testimoniarlo giorno dopo giorno, Dio non castiga mai, né può castigaregli uomini mentre sono in vita: significherebbe violentarli nella loro libertà e gli uomini castigati sarebbero costrettiad agire secondo il volere di Dio. No, non c’è castigo di Dio qui e ora, né per i credenti che conoscono Dio, né per inon credenti che non lo riconoscono. C’è invece un giudizio di Dio alla fine della storia, ed è questo il giudizio pre-dicato da tutti i profeti e da Gesù stesso, è questo il Giudizio che è confessato nel Credo cristiano: “Verrà a giudica-re i vivi e i morti”. Nei nostri giorni, invece, dobbiamo leggere che non Dio ci castiga, ma che siamo noi a racco-gliere, già qui e ora, il frutto del nostro operare.Noi uomini, solo noi, siamo responsabili del bene e del male che ci accade: per questo interrogarci sull’evento delletorri gemelle non significa attribuire a Dio un intervento. E proprio perché non c’è intervento di Dio a New Yorkdobbiamo chiederci non solo cosa ha spinto i portatori di morte a colpire il cuore simbolico dell’Occidente di mer-cato (non si dimentichi il nome del complesso distrutto: World Trade Center), ma anche perché esistono condizioniin cui possono nascere, crescere e trovare senso uomini portatori di morte per altri uomini.Enzo Bianchi (Nuove Apocalissi, Rizzoli, Milano 2003).

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Il discorso pubblico dominantesulla sicurezza – quello politi-co, giornalistico e anche quel-lo condotto nelle sedi di mag-gior cultura – intende la sicu-

rezza prevalentemente come sicu-rezza fisica della vita e dunque con-centra l’attenzione sui mezzi volti adassicurare o ripristinare quest’ultimamettendo l’accento sui problemi del-l’uso della forza o della sua sostitui-bilità con mezzi civili e non violen-ti. Se però per poco si estende la sicu-rezza alla più complessiva, globalefruibilità del benessere umano e del-la capacitazione della persona, allo-ra il discorso deve inevitabilmenteallargarsi a una quantità di questio-ni e di aspetti molto più estesi. Cosìpure, se al problema del-la sicurezza si intendedare, come modernamen-te avviene e come è giu-sto, una dimensione nonsolo oggettiva ma anchesoggettiva, cercando cioènon l’astratta sicurezza“generale” di una societàe men che meno di unoStato, ma la concreta, per-sonale assegnazione aisingoli esseri umani di una situazio-ne di sicurezza – quella che in ter-mini giuridici si direbbe il dirittosoggettivo alla sicurezza – allora ilproblema si presenta come quellodella tutela dei diritti umani che con-feriscono una condizione di sicurez-za. Ñel caso della concezione ristret-ta di sicurezza limitandosi ad alcunisoltanto dei diritti umani considera-ti come preminenti a tali fini – ildiritto alla vita, all’integrità fisica,

mistificazione che fuorvia dalla pre-sa di coscienza effettiva e dall’azio-ne costruttiva che facciano uscirefuori dal tunnel delle frequentissimeesperienze negative coinvolgenti gliuomini d’oggi?Si confrontano qui due percezionidel problema, che non diremmo nél’una né l’altra false, ma che l’unae l’altra finiscono con l’essere, anostro avviso, sfocate e alla fin deiconti entrambe inconcludenti, se pre-se ciascuna da sola, sia dal punto divista conoscitivo che da quello ope-rativo. Per identificare autori chesostengono rispettivamente l’una el’altra di esse contribuendo a unachiarificazione (e rinviando chi vuo-le approfondire alle loro trattazioni),

indicheremmo come unottimo sostenitore dellateoria positiva sulla veritàe utilità dei diritti umaniLuigi Ferrajoli, e come unacuto esponente della teo-ria negativa sul carattereingannevole di essi PietroBarcellona. Sommaria-mente, si può dire che Fer-rajoli ritiene i diritti, comediritti fondamentali, il fon-

damento stesso e l’apice dell’espe-rienza sociale moderna, mentre Bar-cellona è del parere che i diritti uma-ni, a causa della loro universalità eastrattezza dissolvano il legamesociale e alfine portino alla stessadistruzione del soggetto umano chevorrebbero garantire. Questione diaccentuazioni, naturalmente, perchénessuno di questi autori è così uni-laterale da negare le verità che stanella prospettazione opposta; ma si

eventualmente alle libertà più essen-ziali –, nel caso della concezione piùlarga estendendosi a tutto l’arco deidiritti umani o quanto meno a tuttiquelli, e sono comunque molti, piùdirettamente collegabili a un’idea disicurezza. In sostanza, secondo que-sta concezione la sicurezza è soddi-sfatta quando la totalità dei dirittiumani fondamentali è in linea di mas-sima garantita.

Diritti umani e dignitàQuest’ultima crediamo sia la sceltapiù giusta, anche perché la più com-pleta, e dunque vogliamo qui breve-mente delineare la cerchia di proble-mi che oggi si pongono se si guardaal problema dal punto di vista dei

diritti umani. Subito si presenta uninterrogativo generale: è lo strumen-to – strumento conoscitivo e simul-taneamente strumento pratico – deidiritti umani idoneo a farci affronta-re e possibilmente risolvere i proble-mi reali che si pongono in funzionedelle esigenze umane fondamentali,della dignità personale? O esso con-figura, nel migliore dei casi, unarisposta ideale ma non efficace, nelpeggiore un autentico inganno o

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Per una reale human securityè necessario tutelare

ogni diritto umano, oltre quelli considerati

oggi preminenti. Lo strumento

dei diritti umani è idoneo ad affrontare

e risolvere i problemi realiche si pongono in funzione

della dignità personale?

Per intere masse di uomini e donne,i diritti alla salute, all’acqua,

al cibo, all’abitazione, al lavoro vengono calpestati,

a vantaggio del guadagno finanziario e della disponibilità esclusiva

di beni da parte di alcuni

Umberto AllegrettiDocente di Diritto Internazionale

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sa che le accentuazioni teoriche, tra-smettendosi alla cerchia culturale piùvasta – o essendone il frutto? – pos-sono divenire responsabili di moltedistorsioni nel pensiero e nelle azio-ni che guidano la vita sociale.

Diritti a ogni costo?In realtà non si può negare che i dirit-ti umani abbiano rappresentato inpassato – dal Settecento in poi – erappresentino oggi una grande forzacapace di mobilitare energie peraffrontare i più gravi tra i problemidell’uomo. E tuttavia è innegabileche l’insistere sulla prospettazione ditutti i problemi in forma di diritti delsingolo dissolve l’idea deidoveri che a ciascunoincombono nei confrontidell’altro e misconosce ilcarattere collettivo del sod-disfacimento delle esigenzeumane, che una volta veni-vano soddisfatte in terminidi morale, di costumi, disolidarietà familiare e digruppo, poi soprattutto diazione statale (lo statosociale). L’estremizzazionedella teoria dei diritti fini-sce in pratica, nelle appli-cazioni più consuete, colsottolineare la potenza dei dirittipuramente economici: il diritto diproprietà nel Settecento (Locke) enell’Ottocento, i diritti di impresa, diattività finanziaria, di estensione del-la proprietà a realtà immateriali comele invenzioni tecniche e le scopertescientifiche lungo il Novecento e nel-l’epoca più recente. Qui sta la veracontraddizione pratica, per la quale,proprio in un’epoca come la nostra,in cui maggiormente i diritti sonooggetto di celebrazione e di enfasi, ipiù seri e gravi tra essi – i diritti allasalute, all’acqua, al cibo, all’abita-zione, al lavoro ecc. – vengono aessere impediti e calpestati per mol-ti, anzi per intere grandi masse diuomini e donne, a vantaggio dellaproprietà, del guadagno finanziario,

della disponibilità esclusiva di benida parte di alcuni. E, si noti, si trattanon soltanto di violazioni di fatto deidiritti, come tali giuridicamente per-seguibili, ma del frutto dell’applica-zione di veri e propri sistemi giuridi-ci: l’ordinamento e il funzionamentodel FMI e della Banca Mondiale, del-la WTO, di altre agenzie internazio-nali e degli Stati più potenti, di trat-tati bilaterali o multilaterali fra Statie con le Unioni di Stati quale laComunità Europea ecc., oltre che dicomplesse relazioni interprivate che,quando abbiano per protagonistigrandi attori come le società tran-snazionali hanno un’influenza anche

maggiore dei poteri pubblici. Talisistemi, che hanno anch’essi naturagiuridica, si pongono in contraddi-zione con le Carte internazionali deidiritti e con le Costituzioni statali ditipo democratico, che consacrano idiritti umani e che hanno o dovreb-bero avere valore superiore a ognialtra legge. E tutte quelle altre fontigiuridiche, per sé subordinate allegrandi Carte e alle Costituzioni, acausa della loro capacità pratica edelle forze reali che le sostengono,finiscono col far prevalere i dirittieconomici sui diritti umani fonda-mentali, generando le profondeingiustizie del mondo attuale.

Ricerca nonviolentaQuesto insieme di fenomeni dovreb-

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be dunque portarci a denunciare lafalsità e inutilità della nozione deidiritti umani e della loro affermazio-ne giuridica? Non lo crediamo: non èpossibile buttare a mare qualcosa cheha avuto la forza storica testimonia-ta fin dal Settecento e che ancora oggiesercita tanto richiamo e tantainfluenza, anche se contraddetta damolte esperienze negative. Ci sembraabbia ragione un autore quale ilsociologo portoghese Boaventura deSousa Santos (in La debolezza deidiritti umani tra globalizzazioni riva-li e la turbolenza nel rapportosacro/profano, in “Democrazia ediritto”, n. 2, 2006, pp. 45-62), il qua-

le riconosce la fragilità teoricae pratica della dottrina dei dirit-ti umani, specialmente in quel-le che egli chiama le zone dicontatto e di confronto tra laglobalizzazione egemonicaneoliberale fatta valere dal-l’Occidente, il tentativo dirisposta dell’Islam e la mon-dializzazione contro-egemoni-ca in fase di emersione delMovimento altermondialista, eritiene però possibile un lavorodi ricostruzione o meglio rein-venzione dei diritti umani, vol-

to ad affrontare tutte le dimen-sioni dell’ingiustizia globale. Unlavoro che non può ridursi, precisia-mo, alla dichiarazione teorica deidiritti, ma che deve, sul piano politi-co, organizzarsi culturalmente esocialmente e sperimentare tutti imezzi di lotta pacifica disponibili, esul piano giuridico tradursi in istitu-zioni collegate alla società e apertealla partecipazione. Senza escludereil mezzo giudiziario, ma anche senzasopravvalutarlo, come invece tendo-no a fare molti giuristi e talora cre-dono le vittime, perché esso è effi-cace come strumento di chiusura difronte alle violazioni più puntuali, manon può sostituire la lotta politica ele realizzazioni sociali e amministra-tive sul piano collettivo e nella dina-mica abituale del sistema.

SCAFFALI

L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari 2001.P. Barcellona, Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città aperta, Roma 2001.P. Barcellona, Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice all’edonismo cognitivo, Dedalo, Bari 2002.Su Barcellona (e altri a lui vicini) cfr. A. Cantaro, Diritti versus politica e società, in “Democrazia e diritto”, n. 3, 2006.U. Allegretti, Diritti e Stato nella mondializzazione, Città aperta, Roma 2002.U. Allegretti, I diritti fondamentali fra tradizione statale e nuovi livelli di potere, in Diritto e politica nell’età deidiritti, a cura di A. Carrino, Guida edizioni, Napoli 2004.

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Nel 2005 ci sono stati nelmondo 31 conflittiarmati. Di essi 5 sonovere e proprie guerre,cioè, secondo la

definizione convenzionale,quei conflitti che in un annohanno provocato almeno mil-le morti. I conflitti armati era-no 37 nel 2000 di cui 12 guer-re, 49 nel 1990 di cui 16 guer-re. Questi dati sorprendentiche indicano una diminuzio-ne della violenza negli ultimi anni suscala planetaria vengono da una fon-te qualificata e indipendente: l’Istitu-to di ricerche per la pace di Oslo(Prio) che ha in corsoun progetto di monito-raggio dei conflittiinsieme all’Universitàsvedese di Uppsala. Illoro lavoro è alla base,tra l’altro, delle elabo-razioni del Sipri diStoccolma, il più auto-revole centro di ricer-che sulla pace delmondo.L’andamento vieneconfermato anche esa-minando i dati annoper anno. Nel secondodopoguerra – l’analisiPrio-Uppsala risalefino al 1946 – il mas-simo numero di conflitti armati e diguerre è stato rilevato alla metà deglianni Ottanta, nella fase di massimacrisi del sistema bipolare Est-Ovestche si era affermato nei decenni pre-cedenti, e nei primi anni Novanta, ilperiodo del “terremoto” dopo la fine

dell’Unione Sovietica e della con-trapposizione dei blocchi. Il massimonumero di conflitti armati di tutto ildopoguerra, 51, e tra essi 18 di guer-

re, si conta nel 1991 e nel 1992. Poic’è una lenta diminuzione, una ripre-sa tra il 1998 e il 1999 – 41 conflitti,14 guerre – e un nuovo calo. Dopo

l’11 settembre, il numero dei conflit-ti si è attestato intorno ai trenta, scen-dendo addirittura a 29, con 5 guerre,nel 2003, l’anno dell’attacco Usaall’Iraq.Una guerra infinita?Se non lo consideriamo un abbaglio

statistico o un puro caso che verrà pre-sto smentito dai fatti, questo insiemedi dati mette in discussione alcunerappresentazioni e alcune tesi corren-

ti in materia di sicurezza. Inprimo luogo smentisce ilpresupposto stesso su cuil’amministrazione Bushnegli Stati Uniti ha impo-stato la politica dopo l’11settembre: è in corso una“guerra globale” contro ilterrorismo islamista, che si

presenta come una minaccia altret-tanto “globale”; le società occidenta-li devono considerarsi mobilitate con-tro questa minaccia come, prima, con-

tro il comunismo ocontro il nazismo,con tutto il corolla-rio di misure restrit-tive delle libertà,fino a sfiorare, e tal-volta a superare, lariabilitazione digravi violazioni deidiritti umani comela tortura. La guer-ra durerà genera-zioni, sarà addirit-tura “infinita”.Stranamente pochi,anche nel mondopacifista, hannocolto nella posizio-ne dell’establish-

ment statunitense un elemento: l’of-ferta al mondo di una prospettiva diinsicurezza. Quando si proclama laguerra infinita, non si dice solo che sipuò fare fuoco e fiamme da tutte leparti, si dice anche che non si è in gra-do di costruire una situazione in cui

GUERRAGLOBALE?

Tutti contro tutti. Uno stato

di allerta generale permane dopo

il fatidico 11 settembre. Ma il movimento

per la pace insinua spazi

di speranza possibile. Ovunque.

Francesco TerreriDirettore di Microfonanza

Sono stupito del fatto che il movimento per la pace discutadel suo fallimento in quanto incapace

di fermare le guerre, invece diriconoscere i propri successi

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IERinvece può preva-

lere il dialogo, sidice che non si è ingrado di offriresicurezza al mon-do: e questo non èpoco per la princi-pale potenza mon-diale.Nel merito poi, laguerra o il conflit-to violento con ter-roristi o insorgen-ti islamici riguardanel 2005 un terzocirca dei conflittiin corso. Tra i cin-que contesti diguerra, tre – Iraq, Afghanistan eKashmir (India-Pakistan) – sonoriconducibili allo “scontro di civiltà”con l’Islam radicale, ma gli altri due– Colombia e Nepal – sono conflittidi altra natura. Questo non vuol direche lo scontro che ha avuto una dram-matica accelerazione l’11 settembre2001 non sia il più grave fenomenodi violenza dei nostri tempi. Vuol direperò che non è una guerra mondiale.Vuol dire che la maggior parte dellapopolazione mondiale, compresoprobabilmente la maggior parte deicittadini di New York, non si sentonoin guerra.

In tanti contro la guerraSulle grandi manifestazioni per la pacee contro l’intervento in Iraq, che si svol-sero in tutto il mondo nel febbraio 2003,sono fiorite le interpretazioni, compre-se quelle di chi vi vedeva l’adesione aposizioni radicali (“senza se e senzama”), un’interpretazione molto legata aldibattito politico interno italiano. Inve-ce, forse, il motivo di tanta partecipa-zione sta proprio nel fatto che gran par-te dell’umanità non si sente in guerra enon vuole ritrovarcisi. E non perché iconflitti siano finiti. Solo che, forse, sipossono sviluppare senza distruggere eautodistruggersi, in un contesto di lottecivili, anche aspre, ma tendenzialmen-te pacifiche, in un contesto, in una paro-la, di democrazia politica.Dopo sicurezza, anche democrazia è untermine che dovremmo sottrarre allaretorica bushista. Secondo un altro isti-tuto di ricerca, Freedom House, chemonitora i regimi politici classificando-li in “liberi”, “parzialmente liberi” e“non liberi”, nel 2006 ci sono nel mon-do 90 Paesi “liberi”, il 47% del totale,contro i 79 (41%) del 1996 e i 57 (34%)del 1986. I Paesi “non liberi”, in sostan-za i regimi dittatoriali, militari e autori-

tari, sono invece attualmente 45, il 23%del totale, rispetto ai 53 (28%) di diecianni fa e allo stesso numero, pari però al32% del totale, venti anni addietro. Chenon si tratti di un’analisi propagandisti-ca al servizio del governo Usa èdimostrato dal fatto che né l’Iraqné l’Afghanistan del dopo occu-pazione statunitense sono classi-ficati come “liberi”.Aquanto pare la crescita dei Pae-si con assetti passabilmentedemocratici in Asia, Africa eAmerica Latina non è avvenutagrazie all’“esportazione dellademocrazia” con le armi ma gra-zie a qualcos’altro. Forse, èandata di pari passo con la cre-scita della partecipazione popo-lare, delle proteste civili, dellelotte sociali. Sono, di nuovo, stu-pito del fatto che il movimentoper la pace discuta del suo falli-mento in quanto incapace di fer-mare le guerre, invece di rico-noscere i successi, che non sonoriportare a casa un contingentemilitare ma valorizzare le lotteper i diritti civili. I maggiori cam-biamenti degli ultimi dieci ovent’anni, nell’Est europeo, inSudafrica, in diversi Paesi afri-cani (sarebbero stati di più se nonavessimo ignorato l’Ottantano-ve africano), in Corea del Sud, inBrasile, sono stati prodotti damovimenti civici e popolari, nonda “interventi preventivi”. O cre-diamo davvero alla propagandache dice che la dittatura sovieti-ca è caduta perché sono statiinstallati i missili a Comiso?

Il dibattito sulla sicurezzaQuesta incapacità di valorizzarela protesta civile, la richiesta didemocrazia e quindi la possibi-

lità di una maggioresicurezza di tutte leparti in campo èaddirittura clamoro-sa nel caso del con-flitto israelo-palesti-nese. Lo scontrosugli insediamenti aGaza e l’incertezzanella conduzionedella guerra delLibano mostranoche anche gli israe-liani sono stufi difare la guerra. Eall’origine di questocambiamento daitempi dello “Stato

guarnigione” e dell’altra guerra delLibano c’è l’unica lotta civile e disar-mata che i palestinesi hanno condotto inquesti cinquant’anni, la prima Intifada1987-1991. L’unica che, a differenza di

Guerre e conflitti 1970-2005Anno Conflitti totali di cui: Guerre1970 25 101971 27 111972 27 91973 27 101974 27 101975 29 121976 30 111977 32 111978 36 151979 39 121980 39 111981 43 151982 42 181983 44 151984 42 141985 39 141986 44 151987 48 141988 42 151989 44 171990 49 161991 51 181992 51 181993 45 131994 45 81995 38 61996 41 61997 40 71998 39 141999 41 132000 37 122001 36 112002 32 52003 29 52004 30 72005 31 5Fonte: elaborazione su dati Prio-Universitàdi Uppsala

I nostri fratelli iracheniMentre il giornale sta per chiudere, ci giunge un accorato appello dagli ami-ci in Iraq. Abbiamo sentito il vescovo ausiliare di Baghdad, mons. Warduni,e il vescovo di Kirkuk, mons. Luis Sako. Ci dicono di una situazione ormaiinvivibile. Di una tragedia che vede migliaia, milioni di persone alla dispe-razione. Quanti profughi! Secondo alcune fonti dell’ONU, l’attuale tragediadei profughi iracheni è la più grande del Medio Oriente, dopo quella del popo-lo Palestinesi nel 1948.Non possiamo più tacere! “In Iraq i cristiani stanno morendo, la Chiesasta scomparendo sotto i colpi di persecuzione, minacce e violenze da partedi estremisti che non danno scelta: o la conversione o la fuga”. I cristiani,afferma il vescovo, “hanno sempre difeso l’integrità del Paese in modo corag-gioso insieme ai loro fratelli musulmani. Testimoniano lealtà, fedeltà, one-stà e la volontà di vivere in pace e fratellanza con gli altri”.

Renato Sacco

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lotte armate, guerre e attentati, abbia por-tato a qualche risultato – una forma diautonomia, l’avvio di un percorso versol’indipendenza, il cambiamento nell’o-pinione pubblica israeliana. Oggi tuttolargamente a rischio.

Perché a non tranquillizzarci sul trend“pacifista” delle relazioni internazionalistanno essenzialmente due elementi. Inprimo luogo, le 40 mila vittime annueda armi da fuoco in Brasile, la rivoltadelle banlieu parigine, gli scontri tratifosi e polizia in Italia e tanti altri feno-meni simili. Non sono conflitti armatinel senso tradizionale e non rientranonelle classifiche degli istituti di ricerca,ma configurano un rischio di “guerracivile globale”, di conflitto di tutti con-tro tutti che produce un bisogno di sicu-rezza diffuso e spesso strumentalizzatoe pone alle nostre società, nel Nord enel Sud del mondo, un grande proble-ma di modello di sviluppo e di model-lo di vita. Non siamo di fronte, comeprovano a rivendercela i vari Caldero-li, al classico problema del crimine edella legittima difesa. Siamo di frontea una vera e propria nuova forma diconflitto, alimentata dalle lobby dellearmi leggere, sulla quale l’interventodell’opinione pubblica e la delegitti-mazione dell’uso delle armi, come si è

cercato di fare in Brasile, è essenziale.Ma l’altra questione chiave è che aldeclino della guerra si oppongono quei“complessi politico-militari-industriali”che continuano a pesare nell’economiadei Paesi ricchi e dei Paesi poveri. La

retorica della guerra infinita ha pro-dotto, intanto, una crescita delle spe-se militari statunitensi a oltre 500miliardi di dollari, la metà delle spe-se militari mondiali, che sono com-plessivamente in aumento. E se nonc’è una guerra “di civiltà”, c’è tut-tavia chi la alimenta. Sarebbe ora didelineare una mappa di questo con-flitto. E riconoscere che accanto alla“macchina da guerra globale” degliStati Uniti ci sono altre macchine daguerra “globali” e indifferenti allevittime “locali” delle loro azioni. In

primo luogo, non i “pochi terroristi” diAl Qaeda ma i consistenti movimentiradicali islamici di massa, “partiti arma-ti” come Hezbollah, presenti in moltiPaesi, a volte, come in Iran, al potere, chehanno un vasto consenso su programmi

di stato autoritario e di guerra. E dietroai quali ci sono quei finanzieri emergentidel mondo arabo-islamico che gestisco-no le immense ricchezze del petrolio a60 dollari, di cui alla popolazione arrivasolo la carità, e che aiutano i partiti arma-ti a procurarsi, spesso in Occidente, mis-sili superficie-superficie e antinave.L’evoluzione dell’industria bellica e delcommercio delle armi ci insegna proprioche è l’insicurezza, il fatto che interes-si ormai incontrollati riescono ad agireanche contro le linee di politica esteraufficiale, l’elemento che sta prevalendo.Al contrario, c’è un bisogno di sicurez-za, e lo esprimiamo quando diciamo chela legge 185 non deve essere modifica-ta perché altrimenti le armi vanno a fini-re in giro in modo incontrollato, o quan-do diciamo che non è prudente mangia-re organismi geneticamente modificati,o che il lavoro non può essere precarioa vita ecc. Facciamo fatica però a faredella sicurezza un tema di dibattito e diiniziativa. Forse è il caso di darle altrinomi. Magari di chiamarla nonviolenza.

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DOSS

IER

Sicurezza globaleLa costruzione del nuovo ordine mondiale deve fondarsi su un sistema di “sicu-rezza globale” che tenga conto della crescente interdipendenza, su scala pla-netaria, dei fattori economici, tecnologici e informatici... L’organizzazione diun sistema di global security comporta perciò due importanti innovazioni stra-tegiche. È necessaria anzitutto una correzione della strategia difensiva dellaNATO, non più impegnata a contrastare il Patto di Varsavia, ormai dissolto. Iltradizionale quadro geografico dell’Alleanza Atlantica deve dilatarsi fino a tenerconto dei crescenti rischi di disordine internazionale provenienti da una mol-teplicità di aree regionali. In un mondo non più bipolare il sodalizio transa-tlantico che garantiva la presenza degli Stati Uniti in Europa va fondato su nuo-ve basi. E nuove funzioni devono essere attribuite al suo imponente dispositi-vo militare. Il nuovo atlantismo deve essere espressione di una strategia proiet-tiva e non difensiva, espansiva e non solo reattiva, dinamica e flessibile e nonstatica e rigida. E il tema della sicurezza non deve limitarsi alla dimensione mili-tare, ma estendersi a comprendere le dimensioni della politica e dell’economia.D. Zolo, La giustizia dei vincitori, Laterza, Roma-Bari 2006.

Di fronte al terrorismoLa modalità con cui affrontare e sconfiggere il terrorismo internazionale è senza dubbio uno dei massimi problemi dellanostra epoca... Per vincere il terrorismo è necessario partire da un’analisi realistica delle sue “ragioni”, anziché negarle inradice. Il terrorismo ha successo perché nel mondo occidentale si sostengono tesi analoghe a quelle del liberal Der-showitz e ci sono governi che ispirano la loro lotta al terrorismo proprio ai principi a lui raccomandati. Sia nel microco-smo palestinese, sia su scala mondiale, il terrorismo funziona perché le repliche che gli sono state opposte – la repressio-ne etnicida della seconda Intifada, le guerre di aggressione in Afghanistan e in Iraq, la strategia della guerra globale “pre-ventiva” – sono esattamente quelle che Dershowitz pensa di proporre come qualcosa di nuovo e di risolutivo. Sono in realtàrepliche sanguinarie quanto lo sono gli attentati terroristici (e moralmente altrettanto deprecabili), per di più motivatenon dalla disperata volontà di un popolo di resistere all’oppressione, ma dalla spietata volontà di una grande potenza (odi un suo alleato militarmente efficientissimo e dotato di armi nucleari, come Israele, di imporre al mondo una logica dipotenza...) L’alternativa sarebbe in linea teorica semplicissima, anche se nella pratica oggi è di ardua se non impossibilerealizzazione. Occorrerebbe liberare il mondo dal dominio economico, politico, militare degli Stati Uniti e dei loro piùstretti alleati europei. La fonte prima, anche se non esclusiva, del terrorismo è infatti lo strapotere dei nuovi, civilissimi“cannibali”: bianchi, cristiani, occidentali.D. Zolo, La giustizia dei vincitori, Laterza, Roma-Bari 2006.

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