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L’INFLUENZA DEL GRUPPO SANGUIGNO DI APPARTENENZA 1 10 Gian Nicola Bisciotti 1.1 Introduzione L’incidenza della rottura del tendine di Achille è nettamente aumentata nel corso degli ultimi 20 anni (Moller, 1996; Young e Maffulli, 2007) raggiungendo, nell’ambito delle patologie tendinee, un’incidenza compresa tra il 6 ed il 18% (Rees e coll., 2006; Mazzone e McCue, 2002; Shepsis e coll., 2002). Il rischio di rottura dell’achilleo è maggiore nella popolazione maschile con una ratio tra uomini e donne compresa tra 1.7 : 1 e 30 : 1, dati che sarebbero giustificati dalla netta prevalenza di soggetti maschili nell’ambito di discipline sportive considerate a rischio (Rees e coll., 2006; Mazzone e McCue). Nonostante la sua forte incidenza nell’ambito della traumatologia sportiva, l’eziologia della rottura del tendine di Achille rimane poco definita (Maffulli, 1999; Williams, 1986) e si basa sostanzialmente su due teorie principali: la teoria degenerativa e quella meccanica. 1.2 La teoria degenerativa Da un punto di vista strettamente biomeccanico, la teoria degenerativa si basa sull’assunto che un tendine strutturalmente integro, anche se sottoposto ad importanti forze tensive - che comunque rimangano nell’ambito della fisiologica richiesta funzionale - non dovrebbe essere soggetto a rottura (Cetti e Christensen, 1983). In effetti, sin dal 1959 (Arnero e Lindhom, 1959) possiamo ritrovare in bibliografia numerosi lavori che evidenziano come la maggior parte dei pazienti sottoposti a riparazione chirurgica in seguito a rottura dell’achilleo, presentassero già dei processi degenerativi piuttosto avanzati e di come questi ultimi fossero considerati responsabili del cedimento strutturale del tendine stesso (Davidsson e Salo, 1969; Fox e coll., 1975; Kannus e Jozsa, 1991; Jozsa e coll., 1991; Jarvinen, 1997; Jozsa e Kannus, 1997; Waterston, 1997; Waterston e Maffulli, 1997). Anche se la maggior parte di queste involuzioni degenerative non erano riconducibili ad una causa eziologica ben precisa, la maggioranza degli Autori le addebitava ad un’alterazione nella microcircolazione tendinea susseguente ad ipossia ed alterato metabolismo (Jarvinen, 1997; Jozsa e Kannus, 1997; Waterston, 1997; Waterston e Maffulli, 1997). Altri ancora fecero notare come il tessuto tendineo degenerato mostrasse un’aumentata produzione di collagene di tipo III che perturbava la normale architettura tissutale del tendine, rendendolo meno resistente nei confronti dello stress meccanico (Waterston, 1997; Waterson et al., 1997).

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L’INFLUENZA DEL GRUPPO SANGUIGNO DI APPARTENENZA1

10 Gian Nicola Bisciotti

1.1 Introduzione

L’incidenza della rottura del tendine di Achille è nettamente aumentata nel corso degli ultimi 20 anni (Moller, 1996; Young e Maffulli, 2007) raggiungendo, nell’ambito delle patologie tendinee, un’incidenza compresa tra il 6 ed il 18% (Rees e coll., 2006; Mazzone e McCue, 2002; Shepsis e coll., 2002). Il rischio di rottura dell’achilleo è maggiore nella popolazione maschile con una ratio tra uomini e donne compresa tra 1.7 : 1 e 30 : 1, dati che sarebbero giustificati dalla netta prevalenza di soggetti maschili nell’ambito di discipline sportive considerate a rischio (Rees e coll., 2006; Mazzone e McCue). Nonostante la sua forte incidenza nell’ambito della traumatologia sportiva, l’eziologia della rottura del tendine di Achille rimane poco definita (Maffulli, 1999; Williams, 1986) e si basa sostanzialmente su due teorie principali: la teoria degenerativa e quella meccanica.

1.2 La teoria degenerativa

Da un punto di vista strettamente biomeccanico, la teoria degenerativa si basa sull’assunto che un tendine strutturalmente integro, anche se sottoposto ad importanti forze tensive - che comunque rimangano nell’ambito della fisiologica richiesta funzionale - non dovrebbe essere soggetto a rottura (Cetti e Christensen, 1983). In effetti, sin dal 1959 (Arnero e Lindhom, 1959) possiamo ritrovare in bibliografia numerosi lavori che evidenziano come la maggior parte dei pazienti sottoposti a riparazione chirurgica in seguito a rottura dell’achilleo, presentassero già dei processi degenerativi piuttosto avanzati e di come questi ultimi fossero considerati responsabili del cedimento strutturale del tendine stesso (Davidsson e Salo, 1969; Fox e coll., 1975; Kannus e Jozsa, 1991; Jozsa e coll., 1991; Jarvinen, 1997; Jozsa e Kannus, 1997; Waterston, 1997; Waterston e Maffulli, 1997). Anche se la maggior parte di queste involuzioni degenerative non erano riconducibili ad una causa eziologica ben precisa, la maggioranza degli Autori le addebitava ad un’alterazione nella microcircolazione tendinea susseguente ad ipossia ed alterato metabolismo (Jarvinen, 1997; Jozsa e Kannus, 1997; Waterston, 1997; Waterston e Maffulli, 1997). Altri ancora fecero notare come il tessuto tendineo degenerato mostrasse un’aumentata produzione di collagene di tipo III che perturbava la normale architettura tissutale del tendine, rendendolo meno resistente nei confronti dello stress meccanico (Waterston, 1997; Waterson et al., 1997).

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LO SHOCK MECCANICO2

28 Gian Nicola Bisciotti

2.1 Introduzione

Nell’ultima decade si è assistito, nell’ambito del calcio, ad un costante incremento nella diffusione delle superfici di gioco in erba artificiale, proposte come soluzione per quelle regioni del mondo in cui si verifica, per ben determinati fattori ambientali e climatici avversi, una scarsa e/o difficoltosa crescita di erba naturale (Ekstrand e Nigg, 1989). Nonostante i possibili potenziali vantaggi connessi all’utilizzo di una superficie di gioco artificiale, i campi da gioco in erba sintetica hanno riscosso solamente un successo piuttosto limitato, soprattutto per ciò che riguarda il loro utilizzo in ambito professionistico in generale, ed ancor più per ciò che riguarda le squadre professionistiche di massimo livello.

Questo scarso entusiasmo nei confronti dell’utilizzo delle superfici sintetiche nel calcio è soprattutto da ricondursi a tutta una serie di opinioni negative, per la più parte aneddotiche ed in specifico riferimento ai campi sintetici di vecchia generazione, sostanzialmente incentrate sulla correlazione esistente tra l’utilizzo dei campi in erba sintetica ed una presunta maggior incidenza d’infortuni, rispetto a quanto non si verifichi invece su erba naturale.

Questa polemica, anche se in toni sicuramente più edulcorati, è ad oggi ancor viva, sebbene non esistano prove certe a sostegno di questa tesi. In ogni caso, appare ovvio che per far sì che i terreni da gioco in erba sintetica ottengano un maggior consenso in merito al loro utilizzo, siano necessari una sufficiente quantità di studi prospettici che comparino incidenza, gravità, natura e causa degli infortuni occorsi sia nell’ambito dell’allenamento che della competizione, su terreni artificiali e naturali. Purtroppo, attualmente i dati ritrovabili in letteratura inerenti all’incidenza ed alla natura degli infortuni registrati durante l’attività calcistica su entrambi i tipi di superficie, sono di scarsa consistenza e le informazioni disponibili sono sostanzialmente limitate a giocatori di sesso maschile, di alto profilo prestativo e per la maggior parte raccolti nel corso di competizioni e non di allenamento (Ekstrand e coll., 2006; Fuller e coll., 2007a, Fuller e coll., 2007b). Da un’attenta analisi della letteratura disponibile sull’argomento, si può evincere solamente un conflitto di evidenza sostanzialmente dipendente da una limitazione nelle metodologie d’indagine e dalla forza delle analisi statistiche adottate nei vari studi (Hort, 1977; Renstrom e coll., 1977; Engebretsen e Kase 1987; Arnason e coll., 1996). Negli ultimi anni si è assistito ad una veloce evoluzione tecnica dei prodotti utilizzati e le attuali superfici di erba artificiale, di cosiddetta IIIa generazione, sono costituite da fibre

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LE TENDINOPATIE DELL’ACHILLEO3

52 Gian Nicola Bisciotti

3.1 Introduzione

La tendinopatia dell’achilleo è una delle condizioni patologiche di più ampio riscontro nell’ambito della pratica sportiva per la cui eziologia, di tipo multi-fattoriale, invitiamo il lettore a consultare l’ultimo capitolo del primo volume dell’opera, intitolato “Il ruolo dei fattori esogeni ed endogeni nell’eziologia delle tendinopatie dell’achilleo e del rotuleo”. Sovente la tendinopatia dell’achilleo può essere una patologia piuttosto difficile da trattare, soprattutto se non si ri-escono ad individuare con certezza le sue cause eziologiche, e non riuscendo pertanto ad impostare un corretto programma conservativo che esiti in una riso-luzione della patologia e che minimizzi, contestualmente, il rischio di recidiva. Il cardine del programma conservativo dovrebbe essere costituito dagli “eviden-ce based exercice”, che purtroppo invero non sono poi molti in quest’ambi-to, ai quali possono essere abbinate tutte quelle terapie di evidenza minore ma comunque ritrovabili e consigliate nell’ambito della letteratura specifica. Nei casi di tendinopatia ribelle si può anche decidere di adottare alcune terapie di tipo farmacologico (come ad esempio la terapia sclerosante, la proloterapia o l’utilizzo dei fattori di crescita piastrinici), decisione che deve comunque essere presa non prima di essere a perfetta conoscenza dei rischi e dei benefici della terapia stessa e sempre e comunque in conformità al principio medico che recita “primum non nocere”. Soprattutto occorre ricordare che spesso la tendinopatia dell’achilleo rappresenta una condizione frustrante sia per l’atleta, che per il medico od il fisioterapista e che comunque richiede tempi di risoluzione piut-tosto lunghi, durante i quali è necessario abbandonare l’attività sportiva, o co-munque limitarla drasticamente, condizione spesso difficilmente accettabile da parte dell’atleta ma comunque essenziale ai fini dell’ottenimento di un outcome soddisfacente.

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LE TENDINOPATIE DEL RETROPIEDE4

94 Gian Nicola Bisciotti

4.1 Introduzione

Da un punto di vista anatomico e funzionale il retropiede si identifica attraver-so il piano coronale passante attraverso il collo del talo, per mezzo del quale è possibile individuare spazialmente le strutture che sono incluse posteriormente a quest’ultimo e che formano, appunto, il retropiede. Le strutture tendinee del retropiede di maggior interesse da un punto di vista epidemiologico sono rap-presentate da:

• i tendini del peroneo lungo e breve.• Il tendine del tibiale posteriore.• Il tendine del flessore lungo dell’alluce.• Il tendine achilleo.

Avendo del tendine achilleo già estensivamente discusso, sia nel primo che in questo secondo volume, in questo capitolo prenderemo in considerazione sola-mente le prime tre strutture tendinee sopraelencate.

4.2 La tendinopatia dei peronei

I tendini del peroneo lungo e del peroneo breve svolgono la funzione di stabiliz-zatori dell’articolazione della caviglia e sono responsabili dell’eversione e della flessione plantare dell’articolazione, inoltre il peroneo lungo abbassa il primo metatarsale (Lee e Hofbauer, 1999). Il loro decorso è sul versante laterale della caviglia lungo una scanalatura posteriore rispetto all’epifisi distale del perone (Yao e coll., 1995). Le tendinopatie, le tenosinoviti, le lesioni e le dislocazioni dei peronei sono un quadro di relativo comune riscontro soprattutto nell’ambito dell’instabilità cro-nica di caviglia (Sobel e coll., 1992; Yao e coll., 1995; Di Giovanni e coll., 2000; Ferran e coll., 2006). L’eziopatogenesi della tendinopatia dei peronei è sostan-zialmente imputabile ad un ripetitivo stress meccanico dovuto ad un’ipersolle-citazione funzionale (Yao e coll., 1995; Tjin e coll., 1997; Wang e coll., 2005).

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LE TENDINOPATIE DEL ROTULEO5

120 Gian Nicola Bisciotti

5.1 Introduzione

Il tendine rotuleo (ligamentum patellae) (TR) rappresenta l’estensione del tendi-ne inserzionale comune del muscolo quadricipite femorale e si estende dal polo inferiore della rotula sino alla tuberosità tibiale anteriore. Sul piano coronale presenta un larghezza di circa 3 centimetri mentre sul piano sagittale mostra uno spessore medio di circa 4-5 millimetri, la sua lunghezza è invece di circa 8 centimetri. Macroscopicamente appare di colore bianco traslucido e di aspetto filante. Le tendinopatie del TR rappresentano da sempre un‘importante e ri-corrente problematica nell’ambito di molte discipline sportive (Ferretti, 1986; Khan e Mafulli, 1998; Khan, 2001; Peers e Lysens, 2005; Zwerver, 2008; Rutland e coll., 2010; Duthon e coll., 2012; Alaseirlis e coll., 2013; Pruna e coll., 2013). Nel 1973 Blazina e coll. introdussero il termine di “jumper’s knee” per descri-vere una condizione di tendinopatia del rotuleo riscontrabile in molte attività sportive accomunate da un profilo prestativo che richiedeva, appunto, l’esecu-zione di balzi ripetuti o particolarmente vigorosi.

Anche nel caso del tendine rotuleo le prime ipotesi di patogenesi infiammatoria cedettero poi il passo alla teoria degenerativa ed il termine di “tendinite” venne ben presto sostituito con quello di “tendinopatia”, maggiormente consono a descrivere il profondo processo di rimaneggiamento biologico ed anatomico che il tendine subiva.

Oltre all’ipotesi infiammatoria, nel corso degli anni sono state formulate diverse teorie nell’ambito della patogenesi della sintomatologia algica - classicamente denominata nella letteratura anglosassone come “anterior knee pain” – riscon-trabile nella tendinopatia del TR. Tali ipotesi comprendono tra quelle più accre-ditate la teoria del “painful collagen breakage”, quella del meccanismo d’impin-gement del corpo adiposo di Hoffa e quella dell’attivazione dei nocicettori del corpo adiposo di Hoffa stesso da parte di agenti biochimici irritanti (Alaseirlis e coll., 2012). Il trattamento conservativo proposto dai vari Autori e ritrovabile in letteratura va dal riposo funzionale, all’utilizzo di farmaci antinfiammatori non steroidei, alla modifica delle tecniche di allenamento e delle calzature utilizzate nel corso di queste ultime, allo stretching, alla fisioterapia ed all’utilizzo di eser-citazioni eccentriche. Ultimamente sono state proposte terapie basate sull’utilizzo di platelet rich pla-sma (Ferrero e coll., 2012; Kaux e coll., 2013), di sostanze sclerosanti (Hoksrud

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LE TENDINOPATIE DEI MUSCOLI ADDUTTORI DELLA COSCIA 6

160 Gian Nicola Bisciotti

6.1 Introduzione

Il groin pain, o pubalgia che dir si voglia, non rappresenta di per sé una diagnosi ma descrive solamente un sintomo che è sostanzialmente rappresentato da una sintomatologia algica a livello della zona pubica. Le tendinopatie e le entesopatie degli adduttori, e le loro possibili associazioni, sono molto spesso fonte di groin pain. Tuttavia, le cause di groin pain possono essere molteplici, tanto è vero che alcuni Autori (Omar e coll., 2008) propongono di basare la diagnosi su 37 patolo-gie principali, suddivise in 10 diverse categorie (Tavola 1). Nello specifico Omar e coll. (2008) includono le tendinopatie e le entesopatie degli adduttori sotto la voce “disfunzioni dell’unità muscolo-tendinea dei muscoli adduttori”, a sua volta inclusa nella categoria comprendente le cause pubico-sinfisarie. Dal momento che le possibili cause di groin pain, oltre che essere numerose, sono spesso associabili, appare immediatamente chiara l’importanza di una pronta e corretta diagnosi. In letteratura è possibile reperire un buon numero di studi che prendono in conside-razione il groin o l’hip pain associati ad una patologia a carico dell’unità musco-lo-tendinea (UMT) degli adduttori (Baeyens, 1987; Hayes e coll., 1987; Martens e coll., 1987; Tonsoline, 1993; Ashby, 1994; Weinstein e coll., 1998; Braun e coll., 2007; Topol e Reeves, 2008; Avrahami e Choudur, 2010).

Categoria I: cause visceraliErnia inguinaleAltri tipi di ernie addominaliTorsione testicolare

Categoria II: cause associate all’articolazione coxo-femoraleLesione del labbro acetabolare ed impingement femoro-acetabolareOsteoartrosiAnca a scatto e tendinopatia dell’ileopsoas Necrosi avascolareSindrome della bandeletta ileotibiale

Categoria III: cause pubico-sinfisarieLesioni del retto addominaleDisfunzioni dell’unità muscolo-tendinea dei muscoli adduttoriLesioni dell’aponeurosi comune del muscolo retto addominale e dell’ad-duttore lungoOsteite pubica

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L’HAMSTRING SYNDROME7

188 Gian Nicola Bisciotti

7.1 Introduzione

L’hamstring syndrome (HS) venne descritta per la prima volta da Puranen ed Horawa nel 1988 ed inquadrata nell’ambito di una tendinopatia inserzionale prossimale degli hamstring. Classicamente con il termine di HS s’intende ap-punto una tendinopatia inserzionale prossimale degli hamstring in cui la for-mazione di un tessuto fibrotico, associato ad una pregressa lesione della compo-nente tendinea oppure ad una sua degenerazione, che comporti un aumento del calibro del tendine stesso, causi una compressione a livello dell’adiacente nervo sciatico (Puranen e Horawa, 1988, Sherry 2012). Molto spesso quindi la HS rappresenta un esito di lesione parziale della UMT prossimale degli hamstring (Puranen e Horawa, 1988; Askling e coll., 2006; Lempainen e coll., 2009; Saikku e coll., 2010; Cacchio e coll., 2011). In letteratura la HS si ritrova associata a pregressi eventi lesivi indiretti della UMT degli hamstring in una percentuale compresa tra il 76 ed il 19% dei casi (Agre, 1985; Hartig, 1999; Fredericson e coll., 2005; Clark, 2008; Young e coll., 2008; Lempainen e coll., 2009; Benazzo e coll., 2013). Anche se inizialmente l’HS è stata descritta in una popolazione di sprinter (Puranen e Horawa, 1988), le evidenze più recenti suggeriscono di come sia invece di maggior riscontro nei mezzofondisti, nei calciatori e negli sciatori di fondo (Puranen e Horawa, 1988; Fredericson e coll., 2005; Lempainen e coll., 2009; Cacchio e coll., 2011). L’età di maggior frequenza è compresa tra i 29 ed i 37 anni (Young e coll., 2008; Lempainen e coll., 2009; Zissen e coll., 2010).

7.2 La diagnosi clinica

La maggior parte dei pazienti affetta da HS lamenta un sintomatologia algica elettiva, di intensità variabile, alla palpazione a livello dell’inserzione prossimale degli hamstring (Puranen e Horawa, 1988; Fredericson e coll., 2005; Young e coll., 2008; Lempainen e coll., 2009; Cacchio e coll., 2011), mentre i test manuali a carico della muscolatura flessoria e di quella glutea possono anche rientrare in un range di normalità (Agre, 1985; Sherry, 2012). Anche i test neurologici periferici generalmente appaiono nella norma (Agre, 1985; Lempainen e coll., 2009). Solitamente il paziente riferisce una sensazione di disconfort a livello inserzionale prossimale nel corso dei test di flessibilità, che possono peraltro non mostrare dei deficit significativi (Puranen e Horawa, 1988; Lempainen e coll., 2009). Durante l’esecuzione dell’hamstring-stretch test (HST) (figura 1) si ha positività nel caso di evocazione di sintomatologia algica elettiva a livello

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LE TENDINOPATIE CALCIFICHE DELL’ARTO INFERIORE8

196 Gian Nicola Bisciotti

8.1 Introduzione

Nelle tendinopatie calcifiche, come la nomenclatura stessa suggerisce, si forma un deposito di calcio all’interno della sostanza tendinea. Tali quadri sono di frequente riscontro per quello che riguarda gli arti superiori, nei tendini della cuffia dei rotatori (in particolare a livello del tendine del m. sovraspinato) e per quello che concerne gli arti inferiori, a livello del tendine di Achille (TA) e del tendine rotuleo (TR). La terminologia utilizzata per descrivere tali quadri pato-logici è piuttosto confusa e disomogenea, ritroviamo infatti il termine di periar-trite calcifica (per descrivere le situazioni patologiche a livello dell’articolazio-ne della spalla), deposito periarticolare di apatite, tendinite calcifica, tendinite calcificante, calcareo tendinite, reumatismo da idrossiapatite, oppure tendinite calcarea. A nostro giudizio, e confortati in tal senso anche dall’opinione di al-tri Autori (Oliva e coll., 2012), la definizione maggiormente consona a descri-vere tale quadro patologico è quella di “tendinopatia calcifica”, in quanto nel contempo si esprimerebbe la natura essenzialmente degenerativa del processo, nonché la mancanza di totale chiarezza a riguardo della patogenesi. Il termine di tendinopatia calcifica (TC) sarebbe quindi il più adatto a rappresentare que-sto particolare tipo di processo quando quest’ultimo sia dislocato a livello del corpo tendineo, mentre nel caso in cui questo sia osservabile a livello inserzio-nale, apparirebbe più consono il termine di tendinopatia calcifica inserzionale (TCI). Non sempre i depositi di calcio sono grossolani e facilmente osservabili, tanto è vero che non infrequentemente alcuni quadri sono caratterizzati da cal-cificazioni microscopiche non osservabili tramite radiografia convenzionale e dimostrabili solamente grazie a studi istologici (Riley e coll., 1996). Questi qua-dri di depositi microcalcifici sono di frequente riscontro nei pazienti diabetici (Mavrikakis e coll., 1989). Le manifestazioni cliniche sia della TC, che della TCI sono costituite da sintomatologia algica correlata all’attività, edema e riduzione del ROM articolare (Kransdorf, 2003). La storia naturale delle TC e delle TCI non è del tutto chiara, anche se numerose esperienze cliniche testimoniereb-bero di come la sintomatologia algica andrebbe migliorando anche nel caso di persistenza del quadro calcifico. In ogni caso, perlomeno in senso generale, la presenza di calcificazioni costituisce un elemento peggiorativo nell’ambito di un quadro di tendinopatia, contribuendo ad aumentare il rateo di rottura tendinea, i tempi di guarigione a seguito di trattamento conservativo e la frequenza di complicazioni post-chirurgiche (Maffulli e coll., 2003).

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L’EPICONDILITE9

220 Gian Nicola Bisciotti

9.1 Introduzione

Una delle patologie di più comune riscontro a livello dell’articolazione del go-mito è rappresentata dall’epicondilite (gomito del tennista, tennis elbow, tennis elbow tendinosis), costituita da un processo tendinopatico a carico dei tendini dell’estensore radiale breve e lungo del carpo (ERBC- ERLC) (Penners e coll., 1977; Salvi e coll., 2011; Inagaki, 2013). Il muscolo ERBC ha origine dalla fac-cia anteriore dell’epicondilo, dalla fascia antibrachiale, dal legamento collatera-le radiale e dal setto intermuscolare che lo separa dall’estensore comune delle dita. Il ventre muscolare continua in un tendine che decorre sulla faccia laterale del radio, insieme al tendine dell’ERLC, dal quale si separa solo in vicinanza dell’inserzione che si trova sulla faccia dorsale della base del 3° osso metacarpale. L’ERBC mostra, circa 5-10 mm distalmente rispetto alla sua origine, ossia nel un punto in cui si connette alla capsula, una zona di debolezza meccanica, a livello della quale in caso di epicondilite si riscontrano tipicamente delle micro-lesioni tendinee (Inagaki, 2013). È curioso il fatto che il termine divulgativo di tennis elbow, in effetti non sia del tutto appropriato dato che l’incidenza della patologia è maggiore in una popolazione di non atleti che in quella di chi pra-tichi sport in generale e tennis in particolare (Tschantz e coll., 1993; Caldwell e Safran, 1995; Salvi e coll., 2011). Il picco d’incidenza dell’epicondilite (EC) è attorno alla quinta decade di vita, senza distinzione tra i due sessi (An e coll., 2009). Sebbene originariamente descritto come un processo di tipo infiammato-rio, attualmente vi è un vasto consensus nel classificarlo come un processo ten-dinopatico con un quadro tipico di microlesioni a livello dell’origine dell’ERBC (An e coll., 2009; Inagaki, 2013). La prima descrizione dell’EC è da addebitarsi a Runge nel 1873, che la descriveva come un “processo infiammatorio del ver-sante radiale dell’omero” e lo denominava, nel suo articolo pubblicato in lingua tedesca, “schreibekrampf”, ossia “crampo dello scrivano”. Runge delineava l’EC come “un’affezione di eziologia particolare, di patogenesi sconosciuta e di diffi-cile trattamento” . L’appellativo di “tennis elbow “, che in effetti inizialmente fu di “lawn tennis arm”, si deve invece a Morris (1882) che così la classificò avendo-la osservata in giocatori di tennis che, all’epoca, giocavano su erba.

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LA TENDINOPATIA DELLA CUFFIA DEI ROTATORI11

256 Gian Nicola Bisciotti

11.1 Introduzione

La tendinopatia della cuffia dei rotatori (TCR) rappresenta una delle patologie di maggior riscontro a livello dell’articolazione della spalla (Matsen, 2008) ed è so-stanzialmente imputabile al fatto che l’elevata mobilità articolare della spalla, e conseguentemente l’alta richiesta funzionale che ne deriva, vengono controllate da un gruppo muscolare, rappresentato dalla cuffia dei rotatori (CR), funzional-mente poco adatto a questo compito. I muscoli che compongono la CR sono il piccolo rotondo (PR), l’infraspinato (IS), il sovraspinato (SS) ed il sottoscapolare (SSc) (figura 1). Tali muscoli prendono origine dalla scapola e, prima d’inserirsi a livello dei tubercoli omerali, i loro tendini si allargano a ventaglio formando una vera e propria cuffia che avvolge la testa omerale, che è peraltro ricoperta anche dalle tre porzioni del muscolo deltoide. Da un punto di vista funzionale il PR e l’IS sono rotatori esterni, il SS è un abduttore ed un rotatore esterno, mentre il SSc è un rotatore interno. I muscoli della CR, oltre a provvedere ai movimenti rotazionali e di abduzione, svolgono un’azione di centraggio e di stabilizzazione della testa omerale nella fossa glenoidea. Da un punto di vista biomeccanico è importante notare che, dal momento che l’inserzione dei muscoli della CR si trova molto vicina all’asse di movimento, rappresentato dall’inserzione omerale del m. deltoide, questi ultimi sono sottoposti durante il movimento della spalla ad ingenti e reiterate variazioni angolari, che possono essere alla base di mi-crotraumatismi ripetuti che possono danneggiarne l’integrità strutturale. Nella cosiddetta posizione “overhead”, nella quale la mano è al di sopra del capo, si può quindi verificare un meccanismo di impingement tra la testa omerale e la superficie inferiore dell’arco coraco-acromiale. Dal basso verso l’alto lo spazio sub-acromiale è occupato dalla capsula gleno-omerale, dal tendine del m. so-vraspinato, dalla borsa sub-acromiale, e dall’arco coraco-acromiale che include l’acromion, il legamento coraco-acromiale e la coracoide. Già dagli anni ’50 (De Palma, 1950) è stato appurato come la borsa sub-acromiale non sia normalmente comunicante con l’articolazione gleno-omerale, fatta eccezione per i soggetti anziani nei quali è riscontrabile una lesione parziale della CR in ben il 50% dei casi ed una lesione totale nel 15% dei soggetti osservati. Inoltre, è importante ricordare come al di là della sesta decade di vita sia di comune riscontro una degenerazione sia del labbro glenoideo, che del capo lungo del bicipite brachiale (De Palma, 1950). All’epoca i dati resi noti da De Palma furono a lungo oggetto di dibattiti e discussioni, sino a che non furono, praticamente cinquant’anni dopo, confermati attraverso studi di ultrasonografia (Tempelhof e coll., 1999)

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LA TENDINOPATIA CALCIFICA DELLA CUFFIA DEI ROTATORI 12

274 Gian Nicola Bisciotti

12.1 Introduzione

La tendinopatia calcifica della cuffia dei rotatori (TCCR) è la maggior causa di dolore di origine non-traumatica a livello dell’articolazione della spalla ( Ka-chewar e Kulkarni, 2013) e rappresenta, in senso generale, una patologia piutto-sto diffusa, tanto da interessare una percentuale compresa tra il 2.5 ed il 20% dei reperti radiografici occasionali in pazienti asintomatici ed il 6.8% in pazienti che si presentano sintomatici a livello della spalla (Speed e Hazleman, 1999; Serafini e coll., 2009). Il lato affetto è più frequentemente il destro, destro e sinistro sono colpiti in circa il 20% dei casi. La TCCR colpisce più frequentemente il sesso femminile rispetto a quello maschile (circa il 70% dei casi versus approssimati-vamente il 30%), si presenta con maggior frequenza verso la quinta decade di vita ed è comunque di maggior riscontro nell’ambito della popolazione anziana (Mole e coll., 1997; Hammer, 2007; Hernandez-Santana e coll., 2011 ). I ten-dini maggiormente colpiti sono il sovraspinato (SS) nell’80% dei casi, seguito dal tendine dell’infraspinato (IS) per il 15% e da quello del sottoscapolare (SSc) per il 5% (Mole e coll., 1997; Bianchi e coll., 2007; Serafini e coll., 2009). In particolare nel SS una zona particolare, che sarebbe identificale con il suo terzo inferiore, sembrerebbe particolarmente esposta allo sviluppo di tendinopatia calcifica (TC), come d’altronde lo sarebbero anche, seppur in maniera minore, le fibre pre-inserzionali del tendine del SSc (Serafini e coll., 2009). La diagnosi di TCCR si basa sull’indagine clinica confortata da diversi tipi d’imaging, che generalmente comprendono US, RX tradizionale od RM (Collins e coll., 2007; Shahabpour e coll., 2008; Sherman e Marx, 2008). Alcuni Autori (Ark e coll., 1992) classificano, in base all’imaging, le calcificazioni della cuffia dei rotatori come “distrofiche” od “entesopatiche” quando queste ultime sono localizzate a livello dell’inserzione ossea, associate o meno ad un processo di tipo erosivo, mentre classificano come tendinopatia calcifica propriamente detta una calcifi-cazione dislocata sul tendine 1 o 2 centimetri più prossimalmente rispetto alla sua inserzione. Hartig e Huth (1995) riferiscono di una sensibilità del 100% dell’esame ecografico nella diagnosi dei depositi calcifici versus il 90% dell’esame radiografico. Nella prima fase di formazione le calcificazioni presentano eco-graficamente una tipica ombra acustica posteriore associata ad una superficie iper-riflettente, mentre nella fase di riassorbimento il fenomeno di colliquazio-ne fa si che esse perdano il cono d’ombra posteriore tipico della fase di forma-zione e della fase di stato, per presentarsi spiccatamente ecogene, piuttosto diso-mogenee ed a margini irregolarmente sfumati, mostrando inoltre la tendenza a riversarsi all’interno della borsa sub-acromiale deltoidea (Plenk, 1952; Uhthoff e Sarkar, 1989; Galletti e coll., 2005).

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LA DEGENERAZIONE ADIPOSA 13

304 Gian Nicola Bisciotti

13.1 Introduzione

In alcuni gruppi muscolari la tendinopatia inveterata causa tipicamente dege-nerazione adiposa ed atrofia del tessuto contrattile, un classico esempio in tal senso è rappresentato dal muscolo sovraspinato (Melis e coll., 2010). Il muscolo sovraspinato (MS) origina dai 2/3 mediali della fossa sovraspinata della scapola, decorre lateralmente al di sopra della capsula articolare, alla quale aderisce, e passa al di sotto dell’estremità acromiale della clavicola. Si inserisce distalmente nella faccetta superiore della grande tuberosità dell’omero. Con la sua azione ab-duce ed extraruota il braccio in sinergia con il muscolo deltoide; inoltre ha un’a-zione stabilizzante sull’articolazione scapolo-omerale. È innervato dal nervo sovrascapolare (C4-C6). Il MS rappresenta il distretto muscolare maggiormente interessato nella patologia della cuffia dei rotatori di cui tale muscolo, assieme ai muscoli sottospinato, sottoscapolare e piccolo rotondo, fa parte. Molto spesso nel quadro di una patologia della cuffia dei rotatori di grado severo, la compo-nente tendinea del MS può subire una lesione a tutto spessore, che esita in una retrazione del ventre muscolare e del suo tendine. Tale retrazione muscolare può spesso comportare un cambiamento dell’angolo di pennazione delle fibre muscolari e causare l’instaurarsi di infiltrazioni lipidiche all’interno del ventre muscolare stesso (Gerber e coll., 2009).

13.2 I diversi gradi e la classificazione della degenerazione lipidica

Alcuni Autori, tra cui per primo Goutallier (Goutallier e coll., 1990) hanno proposto una classificazione della gravità dell’estensione della degenerazione lipidica quantificata attraverso TC od RM. La quantità di infiltrato lipidico rappresenta un importante indice prognostico per ciò che riguarda l’outcome della riparazione chirurgica del MS, sia da un punto di vista della riparazione anatomica in sé, che della ripresa funzionale in senso specifico (Melis e coll., 2010). Un’eccessiva degenerazione lipidica, infatti, può sottintendere una scarsa capacità biologica di riparazione del tendine e di ripresa funzionale da parte del muscolo e rappresentare, in tal modo, il presupposto per un outcome post-chi-rurgico insoddisfacente (Bernageau e coll., 1993; Goutallier e coll., 1994; Gou-tallier e coll., 1998; Gerber e coll., 2000; Mellado e coll., 2005; Gladstone e coll., 2007; Liem e coll., 2007). Questa specifica predisposizione del MS nello svilup-pare infiltrato lipidico, in conseguenza ad una lesione a tutto spessore della sua componente tendinea, rappresenta un serio problema da considerare prima di

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