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Daniele Sabatucci

Palermo al tempo del vinile

D a r i o F l a c c o v i o E d i t o r e

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Ad Alessia,che anche senza musica

fa i sogni più belli

Amavamo molto la musica, ci rubava i pensieri Massimo Melodia

A me il rock non piaceBoris Vitrano

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Daniele SabatucciPalermo al tempo del vinile

ISBN 978-88-7758-943-9

© 2012 by Dario Flaccovio Editore s.r.l. - tel. 0916700686 www.darioflaccovio.it [email protected]

Sabatucci, Daniele <1981->Palermo al tempo del vinile / Daniele Sabatucci. -Palermo : D. Flaccovio, 2012.ISBN 978-88-7758-943-91. Musica pop – Palermo..782.42164 CDD-22 SBN PAL0249554

CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”

Stampa: Tipografia Priulla, Palermo, novembre 2012

RingRaziamenti

Questo libro non avrebbe visto la luce senza Alessia Di Giovanni. A lei è dedicato.Ringrazio la mia famiglia e i miei amici, nonché la “guida spirituale” Simon Reynolds.Ringrazio la Casa Editrice e tutti i miei colleghi.Ringrazio Gigi Razete per il tempo dedicato alla lettura del libro e alla scrittura della prefazione; Orazio Rosalia per l’amicizia e gli anni di lavoro insieme.

Un sentito grazie per il loro contributo e la loro disponibilità va, inoltre, a: Ernesto Bonaccorso, Valerio Briulotta, Francesco Calabria, Fabrizio Cammarata, Roberto Cammarata, Mario Caminita, Massimo Cap-pello, Fabio Caronna, Pippo Cataldo, Salvino Costa, Mario Crispi, Augusto Croce di italianprog.it, Rodan Di Maria, Giovanni Di Martino, Marilisa Dones, Fabio Finocchio, Franco Gaeta, Gianni Gebbia, Ninni Giacobbe, Dario Giacomazzi, Lelio Giannetto, Ezio Gonzales, Eddy Governale, Beppe Grifeo, Filippo Grillo, Antonio Guida, I Candelai (Massimo Campagna, Manfredi Giangrasso, Fabio Schillaci), Antonio La Spina, Eldo Lauriano, Salvo Leo, Carmelo Lucà, Marcello Mandreucci, Max Lux, Alessio Marino e la Boutique 67 – Centro Studi sul Beat Italiano, Rino Martinez, Vito Meccio, Renzo Meschis, Davide Mez-zatesta, Christian Molino, Marco Monterosso, Aldo Morgante, Othello, Carmelo Pagano, Toty Patellaro, Giacco Pojero, Guido Politi, Pippo Pollina, Maurilio Prestia, Salvo Principe, Radio Monterosso, Raf Dj, Enzo Rao, Luca Rinaudo, Bizio Rizzo, Natale Russo, Michele Russotto, Gano Scancarello, Riccardo Serradifalco, Sergio Serradifalco, Danilo Sulis, Dario Sulis, Paolo Taormina, Marian Trapassi, Alberto Maurizio Truffi di Musica & Memoria, Nino Vetri, Boris Vitrano, Vortex.

Un sincero ringraziamento va inoltre a Massimo Melodia e Nico Tirone che purtroppo non hanno fatto in tempo ad assistere alla pubblicazione di questo libro.

La casa editrice ringrazia Ninni Arcuri per avere concesso l’utilizzo in copertina di alcuni oggetti vintage della sua collezione esposti nella mostra “Beat Pop Vintage”.

Nota: dove non esplicitamente riportate in bibliografia, le citazioni sono tratte da interviste e dichiarazioni degli interessati raccolte direttamente dall’autore.

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Prefazione

di Gigi Razete

Sulla realtà musicale di Palermo sono state scritte molte storie che hanno raccontato momenti salienti, poco importa se ecla-tanti o persi nella memoria, riguardanti la classica, il jazz e la contemporanea.

Non riesco, invece, a ricordarne alcuna (a parte la recente opera di Mario Bellone “Dreaming Palermo”, ma solo in vi-deo) che abbia affrontato temi e personaggi del rock, del pop e della musica cosiddetta “giovane” che pure hanno segnato in modo profondo, seppur dimenticato, i decenni dal dopoguerra ad oggi e le generazioni che hanno vissuto quei tempi.

Una lacuna abbastanza macroscopica che può trovare di-verse possibili ragioni, prima tra tutte la scarsa disponibilità di documentazioni. Intanto, va constatato che nella storia del rock palermitano (comprendendo in quest’area alquanto frastagliata ogni possibile declinazione stilistica) non sono mai state pre-senti istituzioni private o pubbliche che avrebbero potuto con-solidare, storicizzare e testimoniare nel tempo ciò che accadeva in città, come invece è capitato in altri settori, seppure in modi assai diversi, col Teatro Massimo, il Centro Django Reinhardt, gli Amici della Musica, l’Orchestra Sinfonica Siciliana, il Brass Group, Curva Minore, Ars Nova, Kandinskij e varie altre entità di tutela dei linguaggi rappresentati. È ben vero che il rock, per sua natura, è solito rifuggire ovunque da strutture più o meno stabili che lo rappresentino, lo tutelino e lo preservino ma a Palermo questa labilità ha assunto dimensioni patologiche. A ciò si aggiunga la modesta ed episodica attenzione riservata

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alle realtà musicali nascenti dai quotidiani locali, più propen-si a documentare nomi già consolidati piuttosto che la scena underground. Né maggior contributo hanno fornito le riviste specializzate, di nicchia o a diffusione popolare, più concentrate ad illustrare gli epicentri creativi e produttivi dell’Italia centro-settentrionale che non la scena di una città musicalmente peri-ferica come Palermo. Inoltre, come annota lo stesso Daniele Sabatucci, i nuovi fermenti che man mano venivano ad agita-re le acque internazionali del rock sono giunti (e continuano a giungere) a Palermo, salvo poche eccezioni, inesorabilmente in ritardo, con ciò togliendo forse slancio e interesse a racconta-re storie che altrove sono già accadute e documentate. Perfino nelle rare occasioni in cui è capitato che l’ardimento (coraggio o temerarietà?) di qualche operatore appassionato facesse giunge-re in città artisti di culto o proposte di forte spessore e attualità, ebbene anche allora Palermo e il suo scarso pubblico (scarso come consistenza numerica e scarso come curiosità intellet-tuale) hanno dato risposte davvero sconfortanti, confermando quell’inguaribile provincialismo che pretenderebbe di redimersi solo nelle occasioni in cui “esserci” è in realtà solo vanagloria di “apparire” (tra i tanti, un esempio recentissimo: la desolata pla-tea dello Zsa Zsa Mon Amour dinnanzi alla quale il 12 ottobre del 2012 si è esibito Mick Harvey, grande rocker australiano).

Da non trascurare, infine, e anche a questo accenna l’autore, gli effetti causati da quell’ineffabile tendenza all’autoreferenzia-lità e all’oblio che sembra affliggere geneticamente i palermi-tani.

Allorché Sabatucci mi comunicò l’intenzione di porre mano a raccontare la storia del rock a Palermo, confesso di aver pensato immediatamente ad un atto di superbia o di giovani-le infatuazione. Intanto, la sua appartenenza generazionale lo escludeva, a parte i decenni più recenti, da ricordi diretti delle stagioni cruciali. Per lo stesso motivo, poi, temevo che l’approv-

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vigionamento delle informazioni, reso arduo dalle considera-zioni poc’anzi espresse, sarebbe avvenuto prevalentemente (o esclusivamente) attraverso il web, oceano solitamente immenso che però, oltre a porre seri problemi di verifica, nel caso speci-fico rischiava di ridursi a stagno e di offrire ben pochi appigli in materia.

Pur avendo vissuto direttamente, sia pure con alcuni impor-tanti iati, buona parte della storia raccontata dal mio giovane collega, io stesso fatico a mantenere nitidi i ricordi, gli avveni-menti e i personaggi che hanno riguardato gli anni più remo-ti. Certo, alcune immagini sono rimaste più vivide, magari per personali inclinazioni. Ad esempio, l’ultimo scorcio degli anni Settanta, un periodo esaltante in cui, soprattutto per merito di Claudio Lo Cascio e del suo Centro Reinhardt (allora ospitato a Villa Pantelleria), un gran numero di giovani (molti dei quali oggi affermati musicisti nei campi più diversi) vissero il sogno di una musica che abbatteva ogni steccato e poneva sullo stes-so piano di valori e creatività jazz e folk, contemporanea ed elettronica, rock e cameristica, colta e popolare. Per una città così torpida fu davvero un big bang vedere collidere linguaggi fino ad allora considerati irrimediabilmente divisi e ascoltare, spesso nello stesso evento (la formula del “Musicaincontro”), figure, siciliane e non, tanto differenti come Luigi Nono, Rosa Balistreri, i Rakali, Severino Gazzelloni, Marilena Monti, Fran-co D’Andrea, Alirio Diaz, Maurizio Lanzalaco, Giorgio Gaslini, gli Aes Dana, Enza Lauricella, Bruno Biriaco, i Kalsa, Giovanni Sollima, Dusko Gojkovich, Enrico Pieranunzi, gli Agricantus, Beppe Grifeo, i Zzaccurafa, per citarne solo alcuni, oltre ad uno stuolo di jazzisti palermitani già affermati o di futuro talento come Enzo e Riccardo Randisi, Gianni Cavallaro, Ignazio Gar-sia, Gianni Gebbia, Diego Spitaleri, Stefano D’Anna, Salvatore Bonafede, Mimmo Cafiero, Giuseppe Costa e moltissimi altri. Un altro scorcio che mantiene nitidezza di contorni è l’esal-

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tante stagione delle proposte innovative che fiorivano in città negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta e che trovavano ospitalità in vari localini off di cui si è persa quasi memoria: ad esempio l’Ouroboros o il Punto Rosso, nei pressi dell’attua-le stazione Notarbartolo. Fu proprio in quest’ultimo club, uno stanzone senza arredi (ci si sedeva a terra) e senza alcun appeal se non quello di essere un focolaio aperto alle proposte più “al-ternative” ed eccitanti, che nel 1979 giunsero Franco Battiato e Giusto Pio. Battiato non era ancora Battiato, non indossava ancora gessati e panciotti, calzava sandali (piuttosto malconci) che avevano un che di francescano, i suoi piedi mostravano i se-gni della polvere di mille strade secondarie ma le sue parole e la sua musica rivelavano prospettive inedite e profonde, librandosi magicamente al di sopra di ogni coordinata di tempo e di luogo.

Come avrebbe fatto Sabatucci a ripescare memorie così la-bili perfino a chi le aveva vissute?

Le pagine che seguono hanno fugato in pieno le mie titu-banze perché l’autore ha seguito la strada più diretta e, con-temporaneamente, la più improba: quella della ricerca perso-nale delle fonti e della loro verifica meticolosa, qualità (oggi purtroppo sempre più desuete) che appartengono al metodo principe tanto del sano giornalismo quanto della rigorosa ricer-ca musicologica. È andato a caccia di ogni documento cartaceo e sonoro ovunque fosse possibile trovarlo (dagli archivi delle pubblicazioni ai mercatini dell’usato) ed è andato pazientemen-te a scovare ogni testimone diretto o indiretto che potesse for-nirgli anche solo minuscole tessere di quella storia abbastanza sconosciuta che voleva ricomporre in complessivo mosaico. Ma quel che più importa, ha verificato e incrociato tra loro le varie testimonianze, scremando l’incerto, il labile e l’improbabile da ciò che invece concordava.

Se è sorprendente la quantità e la qualità di materiale che Sabatucci è riuscito a recuperare dall’oblio dei decenni più lon-

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tani, è inevitabile che il racconto si faccia sempre più approfon-dito, pieno di dettagli e costatazioni dirette man mano che ci si avvicini al presente. Ma è proprio la storia del rock di questo primo scorcio di secolo, anni che per la loro contemporaneità ci danno spesso l’illusoria presunzione che tutto ci sia noto, che ha finito invece per svelare una realtà musicale cittadina tanto sommersa quanto, di contro, sorprendentemente frastagliata e ricca di vivacità.

Il risultato complessivo, per farla breve, è un affresco straor-dinariamente vivido, affascinante e, soprattutto, unico. Una sto-ria emozionante e avvincente per chi l’ha vissuta e decisamente preziosa per chi, non essendoci allora, la vuol conoscere oggi.

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Introduzione

Chi si ricorda del mitico festival Palermo Pop 70? O del concer-to di Frank Zappa allo stadio? Chi ha vissuto l’epoca del beat o quella del punk, mettendo su un gruppo con gli amici? Chi è riuscito, negli anni avventurosi in cui era un’impresa ai limiti del possibile, a pubblicare un disco in vinile, e quanti oggi si ser-vono di internet per fare conoscere al mondo la propria arte?

Poche città parlano di se stesse come Palermo. Allo stesso modo, poche città sono anche maestre nel cancellare la propria storia, le proprie tracce. Possibile che della musica pop fatta in città da, diciamo, prima degli anni novanta non si ricordi più niente? Possibile che le tracce dei musicisti, fossero esse dischi, concerti, interviste, recensioni si siano perse così, come se nulla fosse ac-caduto? Ok, forse niente di significativo per le sorti della musica mondiale è effettivamente accaduto. E però perché cancellarlo del tutto, se non altro a farne un esempio – magari da non imitare – per chi fa musica oggi? Perché Palermo, ancora una volta, rimuo-ve le proprie radici? Un tentativo di risposta è in queste pagine.

Questo libro nasce perciò da una genesi laboriosa oltre ogni volere e necessità. Un progetto che ha covato per anni sotto la cenere è diventato concreto in un preciso momento storico: il periodo a cavallo tra 2007 e 2008, quando ha preso piede ciò che in un certo senso può essere definita una sorta di “new wave” palermitana: una scena musicale viva, piena di idee e di energia, consapevole dei mezzi a disposizione (o di quelli, al contrario, mancanti) e di voglia di usarli per costruire un pro-prio percorso artistico.

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Una nuova verve artistica e “fattiva” (produzioni, nascita di etichette e studi di registrazione, attività dal vivo, particolare attenzione data dai locali alla dimensione “live” della musica ecc.) che si è manifestata in città, con particolari esempi positivi, identificabili in determinati soggetti tra solisti, band, promoter ecc. E che si trasformava, per appassionati e addetti ai lavori, soprattutto i più giovani, in un più generale senso di “eppur si muove”, a fronte di storiche carenze strutturali (e infrastruttu-rali) e a fronte di una latitanza di chi – in definitiva, le istituzioni – ha gestito in maniera non sempre chiara, o ha sostenuto in maniera inadeguata o insufficiente, la vita culturale cittadina.

Sono due i principi basilari per capire nell’ottica giusta questa storia: il primo è che il palermitano tipo va glorificando – al net-to delle eccezioni, ovviamente – se stesso e ciò che fa in maniera esponenziale rispetto all’effettivo valore che hanno personaggi e azioni. Secondo lo schema per cui “io sugnu ‘u miegghiu e l’avutri ‘un sunnu nuddu”, una specie di Marchese del Grillo, ma con le sarde e i pinoli, l’individuo palermitano primeggia su tutti i concittadini (per tacere della provincia). Il palermitano primeggia poi su chiunque provenga da fuori, e così via. Anche se poi è dall’esterno che arrivano tutti gli stimoli per produrre qualcosa, tutta l’ispirazione, quando essa non è pura e semplice imitazione – e nella maggior parte dei casi è così.

È questo il secondo punto, come e forse più fondamentale del primo: è un dato che a Palermo tutto arrivi sì, ma in ritardo. E, salvo le consuete eccezioni, sempre edulcorato. Poco o nulla vi è di originale, bene che vada c’è invece una felice freschezza che sa comunque di novità. Ma si tratta di pochi casi isolati.Tutto ciò il “palermitano” inteso come categoria potremmo dire, ironicamente, “antropologica”, non lo sa; oppure lo sa ma non ne ha piena consapevolezza, assumendolo quasi come un

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tratto genetico, somatico della propria condizione; oppure an-cora lo sa e con piena convinzione, quasi con orgoglio, lo porta avanti.

Eppure, le ottime performance di alcuni gruppi che hanno cal-cato le scene nei primi anni duemila, anche se poi non concre-tizzatesi, o concretizzatesi solo in parte, o ancora in divenire ma con buone prospettive ancora aperte, meritano di essere rac-contate, e con esse – se pure poco o nulla hanno a che spartire – tutto ciò che le ha precedute, bagaglio di fallimenti compreso. Anche se, in generale, non sono pochi tra i più “navigati” che guardano con sufficienza all’argomento. È gattopardiana anche la musica rock a Palermo, perché sembra che ogni volta ci siano i presupposti per la nascita di una “scena”, essa si sfaldi prima di compiere il passo decisivo, il salto di qualità. Che poi è, per esteso, ciò che spesso capita ai gruppi “emergenti”, che talvolta rimangono tali in maniera permanente.

Istintivamente viene da chiedersi che senso abbia un libro su una non-scena, un qualcosa di puramente autoreferenziale, in-triso di provincialismo – altri tratti tipici di una città grande per finta – e patrimonio di pochi adepti.Sembra grottesco scrivere un libro sull’intero panorama musi-cale di una città quando questo ha lasciato pochissime testimo-nianze discografiche “vere” (moltissimi, in compenso, demo e cdr di qualità spesso approssimativa, sia come suono che com-posizione). Sembra grottesco quando anche dove le ha lasciate, poco e niente hanno inciso a livello più esteso – limitiamoci all’Italia.

Questa è dunque una storia in cui le eccezioni sono eclatanti proprio in quanto tali. Il cui zelo (talvolta “sbruffone”, altre volte sincero), destinato a essere perdente, ne fa un paradigma

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non solo… romanticamente rock’n’roll, ma anche – con ama-rezza – intrinsecamente palermitano. Non sembri strano, in de-finitiva, che a livello di quantità vengano spesso dedicate poche pagine agli artisti più famosi e molte, apparentemente troppe, a quelli sconosciuti o dimenticati dopo la fama: è in questi ulti-mi, infatti, che spesso è maggiormente presente il legame con la città, e maggiori sono gli spunti per raccontare un discorso che non sia solo musicale ma, in qualche misura, “culturale”: una storia della città da un punto di vista importante eppure inedito e pressoché ignorato e che abbiamo ritenuto meritevole di essere raccontato.

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Postilla

Questo libro è frutto, oltre che dello scarso materiale reperibile (particolar-mente per gli anni che vanno dai cinquanta agli ottanta) attraverso i comuni canali di documentazione come giornali, riviste, internet ecc., soprattutto delle testimonianze dirette rese in decine di interviste dai protagonisti della musica palermitana.La scelta per la raccolta del materiale e per gli argomenti da trattare ha pre-teso che fossero fissati dei paletti: niente jazz, quindi, che ha avuto sorti mi-gliori del pop e che comunque è un campo talmente vasto che meriterebbe una trattazione a parte, così come l’ambito musicale “colto” (accademico e non) e quello sperimentale, che pure hanno dato importanti frutti. Salvo, ovviamente, i casi in cui queste esperienze abbiano avuto saldi legami con il pop-rock. Infine, niente verrà detto di quel florido mercato parallelo di musicisti che fanno riferimento alla tradizione melodica e soprattutto neo-melodica napoletana, dando vita a un’attivissima produzione discografica e concertistica, come dimostrano pittoresche manifestazioni nei quartieri più popolari della città, in particolare nel centro storico.Parecchie ore, poi, sono state passate alla ricerca di dischi pressoché intro-vabili o del tutto dimenticati nelle bancarelle dei mercatini dell’usato o in magazzini polverosi e umidi tra quintali di roba incredibile e incredibilmen-te inutile. Un signore che di lavoro sbarazza magazzini per poi rivendere la merce ebbe a dire: «Io ho tre tipi di musica: urrocchi, uggezzi e CantaNa-poli». Tali dischi si sono presentati a volte come assolutamente inservibili, altre in condizioni tanto perfette da sembrare freschi di stampa, ma quasi tutti – e il riferimento è ancora a quelli più datati – sono accomunati dall’as-soluta povertà o addirittura inesistenza di note di copertina, informazioni e dettagli utili alla comprensione e ricostruzione dei fatti.Inevitabile è, dunque, che il lavoro possa presentare delle lacune o delle imprecisioni o che sia non perfettamente aggiornato: la memoria è labile. Ma l’intera storia è stata ripercorsa cercando il massimo grado di accura-tezza, incrociando le fonti, confrontando le versioni e ciò a cui si è arrivati è sembrata, se non la “verità” della storia – o della cronaca – quantomeno la sua versione più plausibile. Conoscendo certe dinamiche “palermitane” ci può essere un timore che eventuali omissioni possano suscitare invidie e risentimenti invece di alimentare un dibattito costruttivo. Sarebbe molto bello se questo non succedesse, per una volta. D’altra parte, se nemmeno dopo anni di lavoro, colloqui, letture e ascolti un nome è emerso (di un gruppo, di un solista, di un luogo), evidentemente è stato tanto flebile da non lasciare traccia. L’occasione, dunque, è più che mai interessante per fare di questo libro un lavoro aperto, passibile di ulteriori revisioni, aggiu-stamenti e aggiunte per un futuro più ricco e migliore per le sorti musicali, e in generale culturali, di questa città.

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Le origini e gli anni sessanta

All’inizio di tutto ci sono i night e i caffè-concerto. A dispetto della “tradizione” che la vuole città soprattutto d’arte e di tea-tro, a Palermo la musica ha svolto sempre un ruolo importante. Anche indirettamente, a volte: non molti lo sanno, ma a Ce-falù ebbe casa negli anni venti, agli albori del fascismo, Aleister Crowley, la controversa figura di artista-occultista che nella lo-calità di mare impianta per alcuni anni la sua personale versione dell’Abbazia del Thelema di rabelaisiana memoria. Dura poco, perché si dice vi accada di tutto (“fai quello che vuoi sarà l’unica Legge” il motto) e il neonato regime non può tollerare abitudini e riti bislacchi e licenziosi: nel ’23 Crowley è costretto a lasciare l’Italia. Muore nel ’47, ma la sua influenza sul mondo del rock sarà profonda e ai massimi livelli: i Beatles lo avrebbero inserito sulla copertina di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, mentre Jimmy Page, il chitarrista dei Led Zeppelin, lo avrebbe a sua volta eletto personaggio di culto. La casa di Crowley a Cefalù esiste ancora, in abbandono, e poco se ne parla.

Durante il fascismo il jazz, che è approdato anche in Italia, tro-va una grande diffusione anche se ufficialmente – per le sue origini nere – viene contrastato da Mussolini: proprio il figlio del Duce, Romano sarà però nei decenni a venire apprezzatis-simo jazzista. Quando il secondo conflitto mondiale scoppia, non viene meno la musica, che è comunque riuscita a circolare grazie a radio (l’Eiar dell’epoca) e dischi. Per divertirsi nei dif-ficili anni della guerra e della ricostruzione, il nuovo sound che viene dall’America è l’ideale. «Sappiate che mentre nel 1941-2

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infuriavano i bombardamenti aerei nasceva a Palermo un com-plesso dalla bislacca denominazione 8Peppino8, cioè otto au-tentici pazzi i quali si riunivano a suonare, per nulla infastiditi dalle sirene d’allarme, purché queste non fossero troppo sto-nate rispetto ai loro strumenti», raccontava Claudio Lo Cascio, decano dei jazzisti palermitani e fondatore tra l’altro della New Jazz Society, nella sua “Storia minima del jazz palermitano” comparsa anni fa sul Giornale di Sicilia.

Il jazz lascia i segni a Palermo. Sopratutto in un gruppo di ra-gazzotti che all’epoca hanno tutti meno di vent’anni. Sono tem-pi in cui – come ricordava nel 2007 Claudio Lo Cascio nel corso di un concerto in suo onore tenutosi al Conservatorio, rievo-cando i propri trascorsi in quelle aule, negli anni cinquanta – «se gli insegnanti ti beccavano a suonare jazz rischiavi grosso». Proprio lui che, del resto, nel 1991 sarebbe diventato addirittura cittadino onorario di New Orleans, ebbe il merito, perserve-rando, di realizzare il primo concerto jazz in città e in Sicilia (nel 1956), il primo concerto jazz al conservatorio (1958) e per un’istituzione di musica classica e colta come gli “Amici della Musica” di Palermo (1962).

Curiosa, peraltro, questa chiusura di mentalità in una città i cui rappresentanti politici avevano mostrato (qualcuno dice, mali-gnamente, una volta tanto) una certa sensibilità nei confronti della cultura, istituendo pochi anni prima (1951) l’Orchestra Sinfonica Siciliana, il cui organico fu pronto per il 1958. Ma pur sempre di musica classica si trattava, e in quanto tale di cul-tura “alta”. Anni dopo sorte analoga sarebbe toccata anche al bistrattato jazz, assurto nel frattempo al rango di musica colta. Fuori dall’ambito prettamente accademico ma rimanendo nel settore della musica d’élite, Palermo si mostrava avamposto eu-ropeo della scena contemporanea, con le “Settimane di nuova

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musica” organizzate dall’associazione Amici della Musica, con la rivista parlata “Collage. Dialoghi di cultura”, con la neoa-vanguardia letteraria (il Gruppo ’63) e con interessanti risvolti anche nelle arti figurative, ben illustrati da Marina Giordano nel libro “Palermo 60”: ad esempio, il proliferare di gallerie gestite da giovani artisti intraprendenti.

E Boris Vitrano, altro musicista di lunghissimo corso, aggiunge: «Nasco jazzista, una passione nata coi V-Disc dell’epoca. Poi però mi sono innamorato e per farmi una famiglia non potevo continuare, negli anni cinquanta non si campava col jazz. Fu comunque una grandissima soddisfazione quando con Claudio Lo Cascio e Enzo Randisi facemmo il concerto alla Sala Scar-latti del conservatorio. Cominciai con la fisarmonica, misi su dei complessini, era la fine degli anni quaranta – ’48 o ’49 – non c’era nemmeno il contrabbasso, si faceva senza. Con me avevo due ragazzini, i fratelli Rondinella, che suonavano sax e tromba. Li feci conoscere a Claudio Lo Cascio. Io nel frattem-po ero passato alla chitarra elettrica, strumento di cui mi inna-morai subito. Così nacque questa orchestrina con quattro fiati. Successivamente ampliammo l’organico: la formazione vedeva Claudio Lo Cascio al pianoforte, Bruno Petronio al contrabbas-so, Enzo Randisi al vibrafono, Gianni Cavallaro alla batteria, io alla chitarra, Enzo Romano al trombone, Quirino Rondinella alla tromba e Giacomo Rondinella al sax tenore. Era il 1952. Il repertorio andava da Monk al bebop. Facevamo concerti in giro, al Circolo del Banco di Sicilia, oppure al Circolo ricreativo di Sigonella, in casa degli americani… A Palermo c’era un solo posto dove si suonava quel tipo di musica, il Winter Garden, poi diventato Le Mirage. Io però non ci ho mai suonato, ci an-davo a sentire concerti: vennero Nicola Arigliano, Tony Carini».

Già, i concerti e i locali. In una galleria d’arte del centro, Colle-zionarea, spiccava pochi anni fa all’entrata un manifesto degli

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anni cinquanta. Vi erano riportati i nomi di locali dell’epoca: alcuni suonano familiari ancora oggi: la Kalesa, il Circolo dei forestieri in piazza Kalsa, Le Mirage Night Club in via Emerico Amari 148, la Tavernetta dell’Orsa maggiore dell’Albergo Sole, in corso Vittorio Emanuele 291. I night e i caffè-concerto sono i luoghi deputati alla musica, e i primi a qualcosa in più. Il più fa-moso è probabilmente il Mirage di Carmelo “Lino” Cavallaro, autentico night con signorine discinte e avanspettacolo: anzi, l’unico con un suo spettacolo, il “floor show”, mentre – fino al loro decadimento, più o meno attorno alla metà degli anni settanta – la maggior parte dei locali è solo dancing.

Di rigore in questi ritrovi sono gli standard da sala, normal-mente jazz leggero, liscio e cose ballabili suonati dall’orchestra del locale, oppure i successi melodici del momento. I caffè-concerto, quelli che allietano con le orchestre il tempo libero della “buona borghesia” palermitana, e poi i bar, non sono solo luoghi dove la musica si suona, ma anche quelli in cui se ne discute: in via Libertà «c’era il Bar-Ristorante Salerno, luogo di ritrovo di quel magnifico gruppo di jazzisti palermitani, allora giovani emergenti: Livio Civilletti, detto Gesù Cristo, con barba e chitarra, primo esempio di capellone palermitano, Enzo Ran-disi, Enzo Romano, Franco Jandolina, Gianni Cavallaro, che trascorrevano ore seduti sul muretto antistante al Bar a discute-re sull’ultimo disco di Luis [sic] Armstrong»1.

Dunque Miramare, Terrazze di Mondello, Kalesa, Birreria Ita-lia (dove suonavano gli americani), Arena Trianon, Tavernetta dell’Hotel Sole. Il Cafè Moka, tra via Ruggero Settimo e via Rosolino Pilo: night di sera, di giorno sala da tè. Gli stabilimenti balneari: Bagni Italia, Bagni Virzì… Sono solo alcuni dei nomi che negli anni successivi al dopoguerra rievocano, nel ricordo

1 Anna Maria Ruta e Ettore Sessa, “I caffè storici di Palermo”, p. 76, Dario Flac-covio Editore, Palermo 2003.

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di chi c’era, il sogno di una città innamorata già in tempi non sospetti delle suggestioni musicali che arrivano dall’America. I palermitani hanno così modo di ammirare i divi delle “canzo-nette” in manifestazioni come il “Paladino d’oro” all’Hotel Pa-lace di Mondello, con cantanti molti dei quali faranno carriera. E poi ci sono i grandi concerti: Paul Anka al Teatro Golden nel ’57, e nella stessa location anche Ella Fitzgerald e Oscar Peter-son; Louis Armstrong al Biondo, al Massimo il Modern Jazz Quartet. Tra gli artisti locali si mettono in luce soprattutto so-listi come Tony Compagno, il “Sinatra palermitano”, e Filippo Alotta, papà della cantante Francesca, voce tenorile di musica leggera. Mentre in ambito nazionale raccoglie successi Corrado Lojacono come cantante e attore di riviste (“Attanasio cavallo vanesio” nel 1952 e “Alvaro piuttosto corsaro” l’anno dopo con Renato Rascel, entrambe di Garinei e Giovannini, o l’interpre-tazione di Polifemo nella versione comica dell’“Odissea” del Quartetto Cetra nel 1964): suoi alcuni successi a cavallo tra i decenni, talvolta con lo pseu-donimo di Camicasca, tra cui la hit “Carina” e il brano “L’anel-lino”, presentato con Luciano Tajoli a Sanremo nel 1962.

È in questo contesto che na-scono, in città, i “complessi”. Sappiamo che già a cavallo tra cinquanta e sessanta ci sono diversi gruppi “da intratteni-mento”.«Con i Lords e gli Ambiziosi si suonava nei matrimoni, attivi-tà principale degli orchestrali Salvino Costa e i Jolly Boys

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italiani – raccontano Franco Gaeta e Salvino Costa, che vivo-no “in prima linea” quegli anni sui palchi – Ci si vedeva alla “Casbah”, il Bar del Teatro Massimo, che si trovava accanto al teatro, a destra. Era veramente malfrequentato e chi aveva bisogno di un complesso per una festa andava lì e chiedeva chi ci fosse disponibile in quel momento». Così nasceva un grup-po musicale. «All’epoca avevamo gli “impegni”, cioè le serate. Noi suonavamo sempre al Circolo degli impiegati civili, in un bel palazzo in corso Vittorio Emanuele gestito dagli impiegati stessi – ricorda Costa – C’erano rigurgiti artistici incredibili a Palermo, io avevo la Galleria 4 venti, a Milano se lo sognavano quello che c’era a Palermo in quegli anni.Nel 1960 Pippo Baudo presentò a Monreale il “Chiostro d’o-ro”, una manifestazione musicale a cui noi partecipammo come Black Cats: cambiavamo nome e organico a seconda delle oc-casioni. Ci chiamavamo con diversi nomi: Five Penny, Lords, Black Cats, Jolly Boys e il nostro repertorio erano i brani leg-geri dell’epoca, quelli che andavano per la maggiore» oppure «suonavamo al Circolo ufficiali e al Circolo sottufficiali come Salvino Costa e il suo complesso, c’erano sempre le serate dan-zanti». Gli fa eco Gaeta: «Andavamo poi all’Usi, una sorta di onlus di spie autorizzate dagli americani, che prestavano libri e dischi, e riviste musicali come Downbeat, per le quali alcuni di noi impazzivano».I Lords e gli Ambiziosi suonavano dunque le hit del momento ai matrimoni e sono di casa al Biondo per spettacoli e gare o per accompagnare altri artisti, come Rita Pavone. Entrambe le de-nominazioni richiamano i “canoni” della nascente moda anglo-sassone ed entrambi i gruppi sono accomunati dalla presenza in organico di Franco Gaeta, il quale era accompagnato anche da Gianni Li Vigni (quello del negozio Diskery, purtroppo chiuso nel 2012 dopo 37 anni), Silvio Faldetta e Marcello Massarella. Gli Ambiziosi cambiarono comunque organico, e già nel 1963

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si presentavano con Franco Scafidi (che cantava i pezzi in ingle-se), Li Vigni (per i brani in italiano), Faldetta, Ceraulo e Gianbar-resi. Mentre la formazione dei Lords era composta così: Salvino Costa, Piero Romano, Nino Anastasi, Roberto Gattuso, Franco Gaeta. Tra gli altri personaggi del giro troviamo Claudio Lo Ca-scio, Renato Emanuele, Franco Menchinelli, Marco Glaviano, che prima di fare il fotografo era un apprezzato vibrafonista. E poi Pippo Campisi, trombettista presente anche nella prima for-mazione del Brass Group, Gianni Li Vigni e infine Totò Palma e “Murtatella”, «che si prendevano gli “impegni” meno pagati». Sempre in quegli anni nascono alcuni storici negozi di dischi: c’era già Ricordi, poi M.A.E.R. Nel 1962 nasce La Boutique del-la musica di Paolo Taormina, che manterrà per cinquant’anni ininterrottamente il ruolo di “rifornitore ufficiale” per tanti ap-passionati in città, fino alla chiusura, anche per lui, nel 2012. «Con Lo Cascio e Randisi – ricorda ancora Gaeta – salivamo a Monte Pellegrino morti di freddo, chiusi in macchina andava-mo a sentire Radio Montecarlo per ascoltare il jazz che iniziava tardi. Andavamo da Ricordi, da Alba [D’Accardi, futura titolare

The Black Cats I Lords

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di Ellepi, altra storica discheria chiusa nel 2008, dopo 35 anni, nda], mettendola in croce per avere certi dischi americani, tipo Elvin Jones. Andrea Calzetti, in via Daita, era invece un nego-zio di strumenti musicali e il titolare, che non era palermitano, li aggiustava anche… Vi si riunivano i musicisti. E Barba, che vendeva dischi a 45 giri a 690 lire in via Rosolino Pilo. Finché non aprì D’Asta in via Narciso Cozzo, che li vendeva a 670! Mentre quelli di Ricordi erano più cari. E poi c’era il famoso negozio di strumenti musicali Sacco».

Ma la palma di veri pionieri del pop palermitano spetta a un gruppo di cui anche Boris Vitrano, fino ad allora alle prese col jazz, entra a far parte: i Moritat. «A un certo punto – racconta – si formò il primo complesso commerciale: una volta avem-mo l’occasione di suonare alla Tavernetta dell’Orsa Maggiore di Hotel Sole in corso Vittorio Emanuele. A quei tempi tutti gli artisti che recitavano a Palermo, per esempio al Biondo, an-davano ad alloggiare là. Quindi automaticamente venivano giù in tavernetta a mangiare, faceva anche da ristorante. Ci andai coi Moritat, il cui nome deriva da un pezzo nell’“Opera da tre soldi” di Brecht e che erano composti da Franco Costanza al pianoforte, Pippo Rizzo a contrabbasso e tromba, Ciccio Ca-ruso alla batteria, me alla chitarra, Ernesto Dolcinelli a sax alto, sax tenore e clarinetto. Questo era il primo gruppo ufficiale da locale notturno, poi ne avevamo altri per fare matrimoni, feste private, negli stabilimenti a Romagnolo, allo Sperone… Le or-chestrine lavoravano perché su questo litorale c’era da suonare, da Spanò, al Lido Petrucci, al Lido Virzì. Qui il repertorio era di musica da ballo, swing, polke, mazurke, valzer. Con i Moritat, invece, si comincia a cantare. Si entra nel night: Pippo Rizzo cantava le canzoni melodiche e io cantavo le canzoni caratteri-stiche, Buscaglione, Carosone».«Anche nei pezzi commerciali che facevamo noi il jazz mi ha

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sempre accompagnato. Io ero l’arrangiatore dei pezzi. Nei Mo-ritat il leader era Franco Costanza. Avevamo alcuni suoi pezzi in repertorio, non cantati e senza testo, da ballare. Eravamo con-tenti perché avevamo buoni consensi degli artisti che ci ascolta-vano, qualcuno diceva di volerci portare a Roma, a Milano, ma poi regolarmente non se ne faceva niente. Ma un impresario tedesco ci fece davvero un contratto per suonare in Germania e partimmo dal 1959 al 1963. Per noi fu una scelta coraggiosis-sima ma dettata anche dal vile guadagno: a Palermo avevamo tremila lire al giorno al Sole, in Germania mille e cinquecento marchi al mese. Al cambio ci guadagnavamo: prendevamo più di un impiegato di banca. Mandavamo anche i marchi alle no-stre famiglie ed eravamo felici e contenti. Facevamo una bella vita là, anche se il gruppo per l’occasione diventò Franco Co-stanza Quintet, e la cosa mi dispiace un po’ perché le cose si facevano insieme».«Lì era completamente un’altra vita. La Germania ricostruì con molta più veemenza che in Italia, sul modello americano: come stare negli Stati Uniti. Io, sempre camaleontico, imparai subito il tedesco, dopo sei mesi lo parlavo perfettamente. Facevamo un mese per città, con l’impresario Van Ritz. I tedeschi volevano ascoltare buona musica italiana, fatta bene, roba tipo Natalino Otto, o quella che si sentiva nei vari festival, ma niente roba inedita nostra. Facevamo il Tanztee [momento musicale pomeri-diano, ad accompagnare appunto il tè, nDa], in due turni, poi si chiudeva a mezzanotte. Nel turno di pomeriggio, un giorno un cameriere ci disse che c’era un gruppo che era venuto a veder-ci e che lavorava a Sankt Pauli, e che faceva musica moderna, “bordellosa”. Noi, curiosi, finendo a mezzanotte, ricambiam-mo la visita: siamo andati a sentirli in un localaccio vicino al porto, credo lo Star Club. Ci indicarono chi erano: “Quei cin-que seduti là”. Erano i Beatles! Andammo via di là disgustati, suonavano con strumenti scordati, erano stonati, però c’era il

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sound nuovo di chitarre sparate… Non mi piacevano ma ho colto questa novità. C’erano tanti complessi rock’n’roll, ma loro facevano qualcosa di nuovo: buttavano le basi per il beat. Quan-do poi fecero “She Loves You” dicemmo: “Talè, quegli imbe-cilli che non sapevano suonare!”. Ci rimanemmo un po’ male ma loro si erano ripuliti, grazie anche al lavoro dei discografici. Nel 1963 mia moglie rimase incinta per la seconda volta e non voleva partorire là perché aveva paura che avrebbero mandato il figlio in guerra, avevamo la psicosi del tedesco guerrafondaio. Conclusi i contratti che avevo e tornai nella nostra Panormus».

Cosa succede nel mondo, nel frattempo? La storia è arcinota, gli anni sessanta sono densi di eventi e personaggi cruciali: Ken-nedy, la guerra nel Vietnam, la crisi dei missili di Cuba, e via avanti negli anni coi primi accenni di crisi sociale e ribellione congiunta di giovani, studenti, lavoratori, classi medie intellet-tuali. In Italia, i morti del governo Tambroni e un paio di golpe tentati sono solo alcuni episodi che connotano l’instabilità che si riverserà con ancora maggiore violenza negli anni settanta. In musica, l’ascesa del Mersey Beat e in particolare dei Beat-les, l’avvento dei Rolling Stones e la stella splendente ma già in declino artistico di Elvis Presley sono solo i tratti più noti di una composita vicenda musicale che vive un decennio epocale: gli anni sessanta sono Bob Dylan come i Velvet Underground, i Doors, Jimi Hendrix e tutta la scena garage-psichedelica, e molto altro ancora. Sono il decennio terminato il quale, dopo lunghi flirt, il jazz sposerà il rock.

Anche Palermo diventa patria di tanti piccoli complessi beat, mentre si assiste contemporaneamente alla proliferazione di lo-cali che diventano dei cult: Grant’s, Life, Escalation, Black and White, Il gatto nero, La tartaruga. Ma soprattutto l’Open Gate e il Club America. Il bowling era il ritrovo dei giovani beat. Ci

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suonavano nel pomeriggio ed erano tantissimi i ragazzi sotto i 19 anni ad avere un gruppo. Alcuni artisti che hanno vissuto quell’epoca sostengono che fossero addirittura in 1000-1500 nel “giro”, con almeno 300 complessi, la cui esplosione mette insieme figli di papà e borgatari, in un incontro tra classi sociali (e con parecchi sacrifici per comprare gli strumenti).«L’Open Gate tolse le inibizioni», afferma Vitrano. Si raccon-ta che i musicisti fossero circuiti dalle ragazze con varie scuse. «Infatti si verificò un gran numero di aborti in quel periodo. Il pubblico era composto da gente bene per varie ragioni: solo famiglie benestanti davano alle ragazze certe libertà e solo loro andavano a ballare lo yé-yé, e chi si arricchì furono i medici, che si facevano pagare tantissimo, essendo gli aborti ancora illegali».

Ma il posto allora di moda per i giovani, nascente categoria “so-ciale” (e commerciale), è il Bar Adriana. Qui si esibisce pure Giuni Russo, che si fa chiamare ancora col suo vero nome,

Al Bar Adriana: Guido Di Blasi, Gianfilippo Abbaleo, Carmelo Pagano, Nino Muratore, Toni Vinci (1964)

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Giusy Romeo. Il Bar Adriana è a piazza Castelnuovo, dove c’è il palchetto della musica, che per l’occasione viene recintato. Si chiama così dal nome del bar tra via Dante e via XX Set-tembre. Sono però anni poveri per l’intrattenimento giovanile e nella memoria di chi c’era la frase è sempre la stessa: la città offre ben poco. La cosa divertente, però, è che sono in molti a vantare il merito di avere “importato” il beat a Palermo. Infatti, i ragazzi dei sixties, già capelloni e spesso impegnati sul profilo politico (Palermo e la provincia sin dagli anni cinquanta erano in prima linea nelle lotte contadine, operaie e poi studentesche), non perdono però tempo, organizzandosi per suonare sin dagli anni del liceo.

Come ricorda Pippo Cataldo, ex direttore artistico dell’Or-chestra Sinfonica Siciliana, che vive gli anni sessanta e settanta come protagonista della scena rock, prima locale e poi nazio-nale: «Tutto ciò che precede la svolta del ’70 si ricollega a un periodo di grande fermento culturale, anche se definirlo così può sembrare un po’ pretenzioso. Fermenti musicali che riflet-tevano la società e che, dal 1966, coincidevano con il pop o il beat. La Sicilia e Palermo non erano rimasti a guardare, pur ritrovandosi all’estrema periferia dell’Europa. Io ricordo che i gruppi sorgevano come funghi, ce n’erano almeno un centinaio tra Palermo e provincia». I nomi sono tanto originali e curiosi quanto allo stesso tempo “classici”, “già sentiti”, pur essendo invece del tutto sconosciuti o rimossi dalla memoria. Abbiamo così anche qui, lungo tutto il decennio, i Baronetti, i Preferiti, i Moderns, i Gattopardi, le Scimmie. Molti di essi vengono citati (e basta, senza troppi particolari) nel libro di Tiziano Tarli “Beat italiano”. Ne abbiamo alcuni che, a distanza di anni, verranno riesumati in meritorie compilation che andavano scandagliando i meandri più oscuri del beat tricolore (il cosiddetto “bitt”) per recuperare le gemme perdute, come la serie “60’s Italian Beat

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Resurrection”, dodici vinili della Destionation X usciti a inizio anni novanta: Fabio e i Novelli (“Mai più ti vedrò”); I Premiers (“Yhe… e e e!”); gli Asteroidi (“Sesto Sincronismo”), questi ultimi formati dai giovanissimi Nino (armonica elettronica), Franco (basso), Tony (chitarra), Enzo (batteria) e che alcune fonti riconducono a Castelvetrano. O in “Magic Bitpop vol. 1”, dove Enzo Dima e gli Apaches compaiono con i brani “Dolce Campagna” e “Se ci sei”. «Questo fiorire – prosegue Cataldo – era un fatto quasi naturale, era un discorso legato a fenomeni musicali che arrivavano dall’esterno. È un elemento importante perché mette in evidenza la capacità evocatrice che la musica dovrebbe sempre avere: la speranza, gli ideali. Nella semplicità di quelle cose c’era la stessa intensità espressiva che può esserci in Mozart».

Ma i gruppi, come si diceva, spuntano come funghi. Molto spesso di età media piuttosto bassa. Un breve elenco: le Bisce, i Burps (Bebo Cammarata, R. Riccobono, E. Guarino, F. Palma), i Megaton, i Grifoni, i Daini, i Beat Boys, i Fantasmi (Pino Patti, Vito Lupo, Vito Virzì, Antonio Soldano, Angelo Crocetti, ma in un’altra formazione: Angelo Crocetti, Mimmo Carmucco, Massimo Melodia), Giants, Ram Tam Group, Gli Avvoltoi, The Black Pirates, The Crazy Boys, I Supersonici, I Pipistrelli, I Fi-libustieri, I Favoriti (Paolo Gennaro chitarra, Tony Compagno voce, Sergio Caminita contrabbasso, Franz Cammarata batte-ria). C’erano poi i Misteriosi, i Diavoli, i Delta 5, i Gattopardi 777 (F. Zacco, M. Tutone, P. Borruso, M. Carbo), i The New Secret, i Filosofi (Salvatore Pirrello chitarra, Francesco Pirrello voce e organo, Sergio basso e Claudio batteria), The Percussion 5, Orazi e Curiazi. Nei Misteriosi suonano Enzo Rausei, Miche-le Seffer, Marcello Marinaro, Salvo Giralucci e Mimmo Giraluc-ci, per una sera si unisce anche Pippo Cataldo (prassi consueta, quella di “scambiarsi” musicisti per singole serate): fanno mu-

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sica alla Moody Blues. Ma un’altra versione accredita il gruppo con una formazione che vede Mimmo Taibbi al piano, Mimmo Rovello alla batteria, Enzo Rausei alla chitarra, Guido Malta alla voce e Massimo Melodia al basso. Ci sono i Baronetti (Ninni Bonetta basso, Attilio Marrone chitarra ritmica, Salvo Azzarone chitarra solista, Giuseppe Glorioso voce, Franco Sorti batte-ria) che fanno cover in maniera perfetta e forse anche qualche brano loro; il cantautore Marcello Sanchez; Marchello Megna; i Fantasmi, già citati pure loro, dove suona anche Pippo Cataldo, col cantante Crocetti, parrucchiere, dalla voce simile a quella del leader dei Corvi. Inoltre, abbiamo ancora Vito e i Ritmici (Salvo Azzarone chitarra, Vito Rinella voce, Giuseppe Gambi-no batteria, Angelo Baio basso) e le Estensioni (Salvo Azzarone alla chitarra, Guido Malta – che faceva parte anche del gruppo I Cavalieri di Malta – voce e batteria, Peter Russo dei New Juice al basso e Sandro Cottone, che aveva un gruppo ad Alcamo, all’organo hammond). Alcuni di questi complessi, in una sorta di revival, si sarebbero riformati negli anni successivi, solo per il gusto di suonare un po’.

Nei Monks ci sono Michele Seffer (voce e basso), Nunzio La Mantia (tromba), Pippo Neglia (pianoforte), Giovanni Geno-vese (tromba), Gaetano Bertucci (sax tenore) e Tony Mauro (batteria), ma fanno piuttosto pezzi per fare ballare la gente, più da night, con escursioni nel pop e nel rock. E hanno all’attivo un disco anche loro: “La ragazza di un sogno”/“Angeli negri”, la prima a firma Russo-Di Vita, la seconda cover di un successo di Fausto Leali. Abbiamo poi le Ruote, che assieme al Clan 712 e ai Misteriosi si contendono la scena palermitana. «Avevamo un cantante italo-americano, Larry Castelli – racconta Cataldo – grazie al quale potemmo realizzare e proporre una serie di musiche completamente sconosciute, come Grateful Dead e Doors. C’era Giovanni Garofalo, poi Gaetano Palazzo al basso.

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Facevamo anche pezzi nostri, mai però messi su disco. Inaugu-rammo noi il Piper di Palermo nel ’68, facevamo il pomeridiano per i giovani, mentre i Moderns inaugurarono il serale».

Nasce persino una casa discografica, probabilmente la prima di cui si abbia memoria in città, sulla quale appare un trafiletto nella rivista “Noi giovani” in un numero del ’68: «La Musical Records è una nuovissima Casa discografica palermitana che si propone di lanciare cantanti, parolieri, complessi e compositori di musica leggera. Incidono già per questa nuova Casa disco-grafica: Elio Alonge (che ha partecipato al Cantagiro 1965), Gli Asteroidi, I due Menestrelli, Umberto Sacco, Rosalba Falbo, The Black Pirates, Fabio e i Novelli, Salvo e gli Accademici». È rimasta qualche traccia di tutto ciò? No, non è rimasto niente.

Insomma, è il boom del rock in città. Ed è simbolo di gioia e rivoluzione, per citare gli Area. Ma c’è poco di politico in senso stretto, è più che altro l’ondata giocosa di chi, costretto dai lacci di una società più chiusa e arretrata di altre, assapora il profumo e l’ebbrezza di una libertà infinita. Ci sono comunque distinzioni nette tra chi fa night club e chi invece i “pomeriggi”. È questo il discrimine artistico tra chi fa musica pop a Palermo. Anche il compianto jazzista Enzo Randisi si presta a un reper-torio r’n’b in qualche occasione. E ovviamente in questa rasse-gna non possono mancare gli Scouts, che accolgono, a un certo punto del loro percorso, un giovane musicista che farà parlare di sé: Carmelo Lucà. «Nel 1968 subentrai a Salvo Calista, allora “organista”, come venivano chiamati, degli Scouts, che – tro-vando lavoro – lasciò il gruppo. Gli amici di piazza Marina mi dissero dell’opportunità. Il gruppo era nato nel 1965 ed entran-doci ho voluto dare un nuovo indirizzo: loro facevano intrat-tenimento nei matrimoni suonando repertorio altrui. Io prima suonavo la fisarmonica. Dopo le prime esperienze facemmo

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vari concorsi, tra cui “Complessissimo”, organizzato dai quo-tidiani Paese Sera e L’Ora, nel 1969. Gli Scouts suonarono al Teatro Capitol, vicino al Policlinico». In un’autentica bolgia, la finale li vide vincere sui Gattopardi, che si aggiudicarono però il “Premio Simpatia”. Alle selezioni regionali gli Scouts si classi-ficano primi. «La finalissima nazionale si svolse al Titan Club di Roma e ci classificammo secondi dietro ai Romans, che erano di un’altra categoria».

Al ritorno dall’esperienza romana agli Scouts spetta di diritto incidere un 45 giri: “Credimi/Se credi a quello che”, quest’ulti-ma cover dell’Equipe 84. «Il repertorio era principalmente ba-sato sulle cover. Qualcosa di nostro però c’era. Facevamo soft prog. Alcuni dancing del nord mi proposero dei contratti. Il primo fu Wainer Barbati, uno degli impresari dell’agenzia Er-pic. Era la fine del 1969 e ci scritturò per suonare a Padova». Gli altri Scouts (Pippo Caccìa batteria, Pino Ferrara basso, Pino Messina chitarra, un chitarrista-bassista, Karl Über, austriaco, e Franco Messina alla voce, oggi scomparso) “tradirono” Lucà, che precisa «anche se tutt’ora siamo amici. Ecco come andò: una settimana prima di iniziare il lavoro al dancing Columbus di Padova dissero che non erano d’accordo a rispettare questo contratto, lasciandomi in un mare di guai. Non mi persi d’ani-mo e siccome avevo appena conosciuto alcuni componenti dei Titani, feci loro la proposta e accettarono. Erano forse il miglior gruppo di Palermo, anche se poco conosciuto: Rosario Vizzini chitarra, Renato Faldetta basso, Enzo Cusimano pianoforte e organo e Giulio Alessi batteria. In una settimana si provò un po’ di repertorio e, arrivati a Padova, la prima cosa che feci fu spiegare all’impresario cosa era successo. Per l’occasione deci-demmo di chiamarci Alisei, una ventata d’aria calda». Una storia che prosegue negli anni settanta.

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Altra parabola che sorge negli anni settanta e si incrocerà suc-cessivamente anche con gli Alisei per le vicende di alcuni com-ponenti è quella che porta alla nascita delle Nuvole gialle. Gli esordi sono a dir poco “avventurosi”, in senso naïf. Il primo gruppo era formato da quattro elementi: Pippo Caradonna alla chitarra, Nino Gibiino alla chitarra, Mimmo Calantropio bat-teria, Toti Di Paola voce e chitarra. «La batteria che Mimmo si era inventato – racconta Caradonna nella biografia del gruppo – era formata da: rullante (tamburello da spiaggia con molle metalliche applicate), grancassa (fusto di ducotone privo del co-perchio), tom 1 (fustino di detersivo tondo), tom 2 (fustino di detersivo tondo ma accorciato), piatti e charleston (piattelle del passapomodoro). La chitarra di Nino era stata costruita da noi stessi utilizzando materiali di recupero ed aveva la forma della allora famosa chitarra dei Rokes, a freccia. La nostra sala prove era la strada, o meglio un angolo di campagna, dove potevamo suonare senza disturbare. Il nostro genere musicale era influen-zato dai tanti gruppi italiani che negli anni sessanta impazzava-no – Corvi, Camaleonti, Dik Dik, Equipe 84, Giganti, Rokes – e dai gruppi inglesi come Beatles e Rolling Stones»2.

La prima registrazione a casa di un amico, Carlo Russo, che possiede un registratore a bobina. Il brano è “Deborah” di Fau-sto Leali. Risultato non eccezionale ma già un successo per il quartetto, orgoglioso di fare ascoltare il nastro ad amici e paren-ti. «Il nostro primo disco lo incidemmo nella cabina che aveva-no allestito alla stazione centrale e che permetteva con 1000 lire di incidere la voce con eventuale musica su di un disco in vinile. Armati di chitarre e percussioni varie entrammo in quattro nella cabina ed eseguimmo il brano scritto da un amico che si chia-

2 Pippo Caradonna, “La vera storia delle nuvole gialle (ricordi by Pippo Caradon-na)”, riportato in http://www.playrecstudio.it/Nuvole%20gialle/nuvolegialle%20biografia.htm.

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mava Bugio (non ricordo il nome), il titolo del brano era “Io come un povero”. È inutile dire che nonostante la scarsa qualità del disco per noi rappresentava già un grande traguardo, l’unico rammarico è quello di non averlo conservato»3.

Per motivi familiari, dopo due anni il gruppo si scioglie. Nel 1968, in un caldo pomeriggio d’estate, avviene l’incontro di Caradonna con Piero Biancato. «Mi chiese se volevo formare una nuova band con lui come cantante, un batterista e un altro chitarrista, Giovanni Lo Giudice, già nelle Rocce, un gruppo palermitano conosciuto che si era sciolto. Io accettai senza in-dugio, anche perché Piero era molto convincente ed entusiasta. Ci incontrammo a casa di Giovanni, una piccola discussione per conoscerci e poi via a suonare. Fu una esperienza indimen-ticabile, il batterista era alle prime armi però era molto musicale e faceva del suo meglio, Giovanni era molto bravo, aveva un bagaglio tecnico invidiabile ed una voce simile a quella di Nico dei New Trolls. La vita di questo gruppo fu breve, infatti dopo tre mesi ci fu una svolta»4.

La svolta è un nuovo incontro, quello con il gruppo dei fratelli Paolo e Tonino Sampino, rispettivamente cantante e batterista. «Conobbi anche il tastierista Angelino Mangano (bravino) e il chitarrista Totò detto “mpi mpi”. Fummo invitati a suonare con loro, ricevendo il consenso dei due fratelli che mi propo-sero di entrare nel loro organico. Io in un primo tempo non volevo tradire Piero e compagni, ma poi, incoraggiato da Pie-ro stesso, accettai. Inizia così un lungo periodo di prove, affit-tammo un magazzino, la domenica noleggiavamo gli strumenti che mancavano e provavamo tutto il giorno. Eravamo pronti

3 Ibidem.4 Ibidem.

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per affrontare il pubblico»5. Nascono The Conquerors, formati da Tonino (batteria), Pippo (chitarra e basso), Totò “mpi mpi” (chitarra), Paolo (voce), Angelino (organo). Nel 1969 Paolo Sampino riceve la chiamata alle armi e la band è costretta a cer-care un cantante: si aggrega Piero Biancato, la cui voce grintosa e rockeggiante ha caratteristiche diverse di quelle di Sampino, più potente e melodica. «Un giorno che dovevamo andare a suonare in una festa, il nostro organista Angelino si ammalò. Eravamo disperati, non sapevamo chi contattare. Allora Piero ebbe un’idea: ci fece conoscere un giovane pianista, Giovanni Alamia, era bravo ma non possedeva strumenti, lo invitammo alle prove e fummo colpiti dalla sua tecnica. Giovanni convince il padre a comprargli un organo Farfisa Professional e prende definitivamente il posto di Angelino. Nel frattempo anche Totò “mpi mpi” viene sostituito da Toto Spanò, e arriva anche Gio-vanni Lo Giudice che era passato al basso». La band cambia nome: nascono Le Nuvole Gialle con Pippo Caradonna (chitar-ra), Toto Spanò (chitarra), Giovanni Alamia (organo), Giovanni Lo Giudice (basso), Tonino Sampino (batteria), Piero Biancato (voce) e ha inizio un periodo di fortuna per la band, che grazie alle numerose serate può permettersi di comprare microfoni e impianto di amplificazione. «Il gruppo conosce il successo e la popolarità, nei paesi vicino Palermo le ragazze vanno in delirio ai nostri concerti e si tingono i capelli a ciocche gialle». Toto Spanò abbandona il gruppo, al suo posto si aggrega un sasso-fonista, Pino Trafficante. Siamo nel 1970 e ci saranno molti altri cambiamenti in organico, tra cui gli innesti di Ivan Pollicino al basso e Tony Sardisco al sax e al flauto (già bassista del gruppo Le Utopie, composto da Nino detto “U Turcu” batteria, Nino Di Carlo chitarra solista, Pippo Esposito chitarra ritmica, Fran-co Nodari organo), e Rino Martinez in veste di co-autore di molti brani del gruppo.

5 Ibidem.

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In città, intanto, fiorisce anche il teatro, da quello sperimentale al cabaret. Il 20 dicembre 1967 apre i battenti a Cefalù, in via XXV Novembre, il Club “La Caverna”. Gli spettacoli sono re-alizzati dai soci Pippo Maranto (attore chitarrista), Gigi Nobile (cantante chitarrista, componente di una formazione musicale di successo: gli Apaches 91), Antonio Augello (attore), Nico Marino (attore chitarrista), Pio Pollicino (cantante), Romilda Palamara (attrice), Mara Vazzana (attrice), Peppe La Rosa (tec-nico delle luci), Giuseppe Cicio (scenografo). Durante i fine settimana e in estate, si unisce loro saltuariamente il palermita-no Leandro Parlavecchio (attore, cantante e bassista) che diven-ta “effettivo” nell’estate del 1969. Vengono ribattezzati “Quelli della Caverna” dal giornalista locale Michele Bellipanni e ini-ziano a proporre i loro spettacoli al Club, una settimana dopo l’altra: “Questo pazzo, pezzo, pizzo, pozzo, puzzo mondo”, “Il polpo di Stato”. Ben presto lasciano Cefalù per approdare alla Kalesa di Palermo: nascono I Cavernicoli. Lo spettacolo è “Sodoma e Camorra” e da lì si continua con “Il sesso unico”, “Sette noci”, “I compromessi sposi”, “Cabaredia”. Melo Freni, giornalista Rai della sede di Palermo, scrive i testi di alcuni loro spettacoli e di diverse canzoni di stampo folk siciliano. L’attività del gruppo proseguirà praticamente fino ai giorni nostri, con numerose apparizioni anche nelle emittenti tv nazionali.

Nel 1968, invece, nasce il Teatro Libero di Beno Mazzone, sta-bile d’innovazione votato al teatro contemporaneo ancora oggi in attività, e spesso direttamente coinvolto nella crescita della scena musicale locale e non solo dei teatranti. Più o meno con-temporaneamente fa la sua comparsa anche un’altra imprescin-dibile esperienza. Salvo Licata, dopo la prima esperienza al CUT (Centro Universitario Teatrale) di Paolo Ursi, Antonio Marsala,

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Gabriello Montemagno, poi di Michele Perriera e Gaetano Te-sta, tra il 1966 e il 1967 crea I Travaglini. Tra cabaret politico di stampo tedesco e identità palermitana, i Travaglini prendono il nome da Les Travailleurs, una compagnia del seicento-settecen-to di funamboli francesi. È la fucina da cui provengono Luigi Maria Burruano, Alda Bruno, Giorgio Li Bassi, Ignazio Garsia, Norino Buogo, Enzo Fontana, Giovanni Nanfa, Bibi Bianca e altri. Alla fine del 1968 nasce il teatrino Aziz, in via Amari, la cui unica stagione è inaugurata con “Scherzo per tromba, fisarmonica e guitti”. In un amarcord della compagnia, Antonio Marsala ricorderà le «risate spesso amare delle serate in via XX Settembre. Serate di ogni sera perché i Travaglini stavano aperti il martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e la domenica, due spettacoli pomeriggio e sera. E ne veniva di gente»6.

***

Tornando alla musica, dal calderone dei gruppi beat come dal nulla spunta fuori uno che col Rock in realtà non c’entra molto, perché si rifà piuttosto alla tradizione melodica italiana, e che per qualche stagione godrà di un successo clamoroso: Nico e i Gabbiani. A guidarli è Nico Tirone, studente di Sciacca fuori sede che si ritrova matricola diciottenne a Palermo e in poco tempo si inserisce nell’ambiente musicale cittadino. «Questo gruppo cercava un cantante e subito ci siamo messi insieme. Allora c’erano meno mezzi e meno tecniche, bastava essere in-tonati e avere capacità espressive e magari una voce particolare che attirasse i discografici». L’incontro tra Tirone e gli altri, tutti di Carini (Giulio Prestigiacomo, Franco Mannino, Vito Balsa-mo, Vick Cataldo), avviene all’università, facoltà di Scienze bio-logiche. «Facevamo le serate con un repertorio vario per fare

6 Antonio Marsala, “Amarcord dei Travaglini” in Repubblica Palermo del 24 gen-naio 2008, p. 9.

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ballare le persone, abbiamo iniziato alle feste di paese e al risto-rante Giardino, all’interno della Fiera del Mediterraneo, dove c’era anche un dancing. La gente visitava la fiera e poi veniva a mangiare o a ballare. Ci chiamammo subito Nico e i Gabbiani e suonavamo roba italiana melodica, Jimmy Fontana, Little Tony e Bobby Solo».

I cinque ragazzi siciliani preparano quindi un 45 giri, con il brano “Ora sai”, con le tipiche sonorità beat, mentre il retro, “Parole”, è un brano melodico considerato minore. Giulio Pre-stigiacomo (tastierista) rivendica la paternità del pezzo7, anche se Tirone ha dato una versione diversa. «C’era il bassista [Vito Balsamo, nda] che aveva scritto un testo e a un certo punto io lo ascolto, mi piace e comincio a cantarlo. La musica era di un milanese, un certo Friggieri: così viene fuori la canzone da due milioni di copie, il primo successo». Li sente allo Star Club di Misterbianco un ragazzo palermitano «che impazzisce e ci porta a Milano, Elio Traina, un antiquario e imprenditore che aveva contatti in quella città cercati telefonicamente. Ci fissa un appuntamento con delle case discografiche. Portiamo con noi il provino di “Parole”, ma riceviamo solo rifiuti perché non è rock. Incidiamo dunque a pagamento: mille copie presso un’e-tichetta, una topaia, la City Records di Milano, senza distribu-zione, con strumenti di fortuna». Il “mistero” della paternità del brano è svelato dalle note presenti sul disco, che attribuiscono il brano a Friggieri-Prestigiacomo.

Siamo nel 1967. «Ma una volta che eravamo a Milano non po-tevamo pensare di essere arrivati, pur essendo molto contenti di avere inciso il disco. Avevamo una strumentazione di merda e non potevamo fermarci là, allora – da minorenni – ci siamo

7 Biografia sul Myspace ufficiale del musicista (http://www.myspace.com/giulio-prestigiacomo), consultato più volte tra il 2008 e il 2010.

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comprati, spendendo non so quanto, l’ira di dio di strumentazio-ne, dalle chitarre ai microfoni, agli amplificatori, e abbiamo co-minciato a girare per l’Europa. Siamo partiti per l’Olanda dopo aver cercato contatti: Eindhoven, Amsterdam, l’Aia. Dopo tre mesi le nostre fidanzate, oggi mogli, ci chiamano al telefono e ci dicono che siamo in radio. Noi non ci credevamo… Eravamo andati là per rimediare soldi e pagare i debiti per gli strumenti, ma il disco cominciava a funzionare benissimo in Italia, quindi siamo tornati in fretta e furia. Attraversata l’Europa ci siamo fermati al ristorante Paradiso di Viareggio. C’era una radiolina in una mensola con Lelio Luttazzi che presentava “Hit Parade” e a un certo punto annuncia, gridando, la novità di “Parole” di-rettamente al terzo posto in classifica: “Non sappiamo da dove vengono né chi sono: Nico e i Gabbiani!”. Ti lascio immaginare cos’è successo: abbiamo cominciato a spaccare tutto, quadri, sedie… Il proprietario del locale chiama la polizia e ci mettono dentro! L’indomani, all’arrivo del commissario, abbiamo chia-rito la situazione e abbiamo pagato 700mila lire (lo stipendio medio di un insegnante di allora era di 120 mila lire). Avevamo distrutto tutto, tipo Far West, è stato uno sfogo esagerato per la situazione in cui ci trovavamo. In hit parade restiamo 18 set-timane con due milioni di copie vendute: diventiamo dei divi. Allora andavano forte i juke box e il brano era gettonatissimo. Il discografico aveva deciso di fare una tiratura di diecimila copie, di cui cinquemila per i negozi: sono sparite in due giorni. Poi centomila nei negozi: sparite in un mese, e così via».

La band comincia a girare l’Italia con spettacoli un po’ dap-pertutto e viene quindi rilevata dalla Ariston. «Alfredo Rossi, proprietario dell’etichetta e fratello di Carlo Alberto [tra i più famosi discografici italiani di sempre, nda] ci chiama per scrit-turarci, ma ci ha inculato perché gli abbiamo regalato le edizio-ni. Siccome ci aveva stampato i manifesti ci siamo sentiti dei

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divi, ma quelle edizioni valevano molto di più». Di fatto la band non riesce però a bissare il successo clamoroso di “Parole” con nessuno dei dischi che seguiranno (“Amore”/“Qualcosa reste-rà” del 1967, “Ritornerà l’estate”/“Amore” del 1968, “Nico ricordami”/“Serenata celeste” del 1968), il che porterà il grup-po a essere dirottato verso la sottoetichetta First, per la quale incidono, nel 1969, “Fiumi di parole”/“Vivo”. Con la prima canzone partecipano al “Disco per l’estate” e, nello stesso anno, viene pubblicato l’unico lp del gruppo, “Successi di ieri e di oggi”, che Tirone descrive come un «33 giri di pezzi riesumati dal produttore Corrado Lojacono, fatto di cover antiche come “Il tango della gelosia”, ma di poco successo», a dispetto del titolo. Poi, di colpo, la chiamata alle armi per il frontman. «Mi arriva per il 1970 e non posso rifiutare. La leva durava 15 mesi, i ragazzi si sono incazzati e preferirono continuare da soli». L’ul-timo spettacolo del gruppo si tiene a Courmayeur il 31 dicem-bre del 1969. «Ma la gente non ne voleva sapere niente senza di me e in sei mesi hanno chiuso». Durante il servizio militare, Caterina Caselli cerca Nico Tirone e lo lancia nella sua carriera solista. Primo disco di quella nuova era, che esce a nome Nico e le Ali Bianche, è “Raggio di sole”/“L’uomo del tuo cuore”. Un’era che dura fino al 12 aprile del 2012, quando Nico Tirone muore nella sua casa di Mazara del Vallo a seguito di una lunga malattia.

Resterà comunque il ricordo di un’esperienza incredibile, che tutt’ora fa di Nico e i Gabbiani uno dei gruppi palermitani di maggior successo di sempre, con numerosi tour anche all’este-ro. Ricordava in proposito Tirone: «La prima tournée in Ameri-ca coi Gabbiani fu straordinaria e piena di imprevisti. Assieme a noi c’erano Wilma Goich ed Edoardo Vianello. In uno degli spettacoli a Newark, in New Jersey, dopo un quarto d’ora siamo scappati via, il posto era in cenere: i neri stavano incendiato

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tutto per l’assassinio di Martin Luther King. È stato un evento che ha segnato la mia vita, mi sono impressionato. Un altro episodio avvenne al Manhattan Center, uno dei locali più bel-li, non c’era ancora il Madison Square Garden. Eravamo sulla ribalta di questo grande palcoscenico, io allora ero belloccio, facevo anche fotoromanzi… Le ragazze erano impazzite e una riuscì a strapparmi una scarpa e scappò inseguita da un agente dell’Fbi!».

***

Tra i vari ragazzi che all’epoca si divertono con la musica, emer-ge anche un giovanotto che si ritrova catapultato, praticamente da un giorno all’altro, dall’assoluto anonimato alle ribalte più prestigiose della musica popolare italiana: si chiama Carmelo Pagano e anche lui, come molti coetanei dell’epoca, inizia la ga-vetta a scuola, da adolescente. «Abitavo in via Pisacane, a poca distanza dalla casa di Lando Buzzanca. Quando ho cominciato era il periodo di Beatles, Stones, Cliff Richard e dei film musi-cali come “Summer Holiday”, con gli Shadows, che vedevamo all’Arena Tukory e in altri cinema della città. Verso i 15-16 anni provavamo in un negozio di tabacchi in via del Vespro: suonavo la chitarra e cantavo, avevo la capacità di imparare subito. Al liceo c’erano diversi complessi, ma erano dilettanti. La prima volta in pubblico è stata all’Oratorio di Sant’Antonino nell’in-tervallo della commedia di Martoglio “San Giovanni Decolla-to”. Cantavo “La casa del sole”, le cose che andavano di moda all’epoca. Non avevamo neanche la batteria…».

Pagano decide di fare sul serio formando un gruppo, The Sava-ges. Siamo nel 1964. In via Maqueda sorge l’arena Trianon, un luogo da cui passano tutte le riviste d’avanspettacolo e i Savages ottengono una scrittura dopo essersi fatti una buona fama in

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giro. Pagano si fa chiamare Remo Pagani, per fare un’assonan-za con Remo Germani, il cantante. I Savages sono la classica formazione in quartetto dell’epoca, tre chitarre (con basso) e batteria. Il batterista è Giovanni Florà, detto Giannuzzo. Il re-pertorio è composto da canzoni dei Beatles, a partire da “She Loves You”. «Suonavamo ai matrimoni come Remo Pagani & The Savages. Parecchie volte abbiamo suonato a piazza Polite-ama, vicino al Tempietto della musica, al Bar Adriana. Cantavo non solo Beatles, ma anche Morandi, Ferrer, “Cuando Calienta el Sol”. Avevamo cambiato bassista e c’era Guido Di Blasi a suonarlo». Negli anni sessanta vicino al porto c’erano ancora le navi americane, e la sera i soldati andavano a sentire le can-zoni dei Beatles. «Di sera c’era un po’ di movimento nei locali. C’era già il Teatro Zappalà che faceva le commedie siciliane, era abbastanza gradevole come situazione cittadina. Anche a Mondello c’erano locali adatti per fare musica. C’era l’Hotel del Sole a Valdesi. I soldati ci davano le mance, soprattutto quando si ubriacavano, oppure ti regalavano l’accendino. Per noi era una fortuna trovarci in mano i dieci dollari… Era davvero una fortuna, alla Vucciria c’era uno che ci cambiava i dollari in lire… Ancora ho qualche dollaro dell’epoca».

La gente rispondeva bene al beat, al rock di quel periodo. Non che Palermo fosse priva di problemi. Appena poco tempo prima, nel 1963, la mafia aveva inaugurato la lunga stagione di stragi con l’attentato a Ciaculli. Il temperamento della po-polazione è sempre piuttosto caldo, come testimoniano certi episodi. Ma la musica sembra ancora un mondo più giocoso e, sostanzialmente, più tranquillo e spensierato. «Una volta mi presi una paura fottuta col mio compagno Giuseppe Bonanno. Eravamo a vedere “Summer Holiday” all’arena Tukory. Mentre guardiamo il film, sentiamo una cosa in dialetto, al buio… A un certo punto circa duecento persone scatenano la rissa più

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colossale che abbia mai visto, con le bottiglie pesanti di gazzosa dell’epoca. Noi cercavamo di guadagnare l’uscita rasentando i muri dell’arena, con queste bottiglie che volavano… Appena uscimmo arrivò la celere. Per la musica non si è mai arrivati a una cosa del genere, chi veniva era un estimatore e non si assi-steva a scene così».

Il grande salto per la carriera di Pagano arriva quando lascia il beat per diventare cantante solista. «Io ho sempre avuto l’i-dea di andare via da Palermo, anche per conoscere cose nuove. Sono tornato talvolta a Palermo e dintorni, per fare delle serate. Mi ricordo Ballarò, il Capo… Da ragazzi in dieci ci mettevamo dentro una Seicento affittata e andavamo a Mondello a pren-derci il caffè, in dieci per risparmiare perché si pagava il chi-lometraggio… Lì c’erano i banchetti di legno con le lampare sopra e i venditori di polipo e ricci. Sul lungomare, dove ora c’è la spiaggia libera, c’erano i venditori e per non salare il polipo usavano l’acqua di mare».

La prima esperienza da solista arriva nel 1965 al concorso “Le ugole verdi”. L’avventura fuori dalla città comincia a decollare per il giovane cantante – la cui voce calda viene subito notata dagli addetti ai lavori – al “Festival degli sconosciuti”, una ribalta prestigiosa su cui c’è la mano del potente Teddy Reno. Superate le selezioni regionali, Pagano si ritrova a Roma e, per la finale, ad Ariccia, dove è ospite di un caro amico d’infanzia. Legger-mente smarrito per l’impatto con la capitale, viene comunque in contatto con Teddy Reno e Rita Pavone, con i quali nasce subito una simpatia reciproca. Di più: il produttore diventa il suo mentore. Il secondo posto nella manifestazione dietro a Titti Bianchi è l’inizio della “vera” carriera del palermitano che, grazie all’intercessione del suo influente manager, approda nella più grande casa discografica dell’epoca, la potentissima RCA.

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L’etichetta americana, allora, aveva in Italia un gruppo ca-rico di pezzi da novanta, dai dirigenti ai musicisti sotto con-tratto. La lista, parzialissima, lascia intendere cosa significas-se allora e negli anni successivi la RCA per la musica italiana: Domenico Modugno, Ennio Melis, Luis Bacalov, Ennio Morricone, Lucio Dalla, An-tonello Venditti, Francesco De Gregori, Piero Ciampi, Patty Pravo, Gianni Morandi, Ric-cardo Cocciante, Paolo Conte, Enzo Jannacci…

Peraltro, pochi mesi dopo il “Festival degli sconosciuti”, Paga-no ottiene il successo che gli fa fare il definitivo salto di qualità, vincendo la terza edizione del “Festival delle Rose” con il bra-no “L’amore se ne va”, scritto da Giulio D’Ercole e Alberto Morina con musica di Piero Melfa. È proprio la RCA italiana a organizzare la competizione, una delle più importanti, al pari del “Festival di Castrocaro”, del “Cantagiro” o del “Disco per l’estate”. In coppia con Luisa Casali, come si usa in quegli anni, Pagano sbaraglia un’agguerrita concorrenza fatta da nomi già affermati o dal futuro ricco di successi: Jimmy Fontana, Pooh, Don Backy, Little Tony, Paul Anka, Nicola Di Bari e il super-favorito Gianni Morandi, che presenta “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”. Un presagio, qua-si: catapultato in questa sorta di empireo del panorama pop italiano, Pagano si trova a tu per tu con gli idoli dell’adolescen-za. Come ha dichiarato a Christian Calabrese in una bella in-

Un manifesto della RCA per Carmelo Pagano

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tervista per Hit Parade Italia: «Non riuscivo a pensare a quello che mi stava succedendo, a maggior ragione quando incontrai per la prima volta Gianni Morandi, il mio cantante preferito! Da studente, con il complesso che avevo formato insieme ad alcuni miei amici, cantavo le sue canzoni, e adesso lo avevo di fronte!8». E lo superava in concorso, per giunta!

Acclamato dal pubblico, Pagano subisce però le critiche della stampa giovanile per un brano giudicato eccessivamente morbi-do rispetto alle nuove tendenze del tempo. «Mentirei se dicessi di non esserne dispiaciuto! – racconta l’interessato – Posso an-che comprendere che, essendomi presentato con “L’amore se ne va”, un brano melodico, non rispecchiavo l’immagine di ciò che ci si aspettava in un momento in cui furoreggiava la musica beat9». Ma si giustifica dicendo: «Riuscivo a dare qualcosa di più cantando canzoni romantiche: mi piacevano, era il periodo di “Figlio unico”, “In ginocchio da te”… La mia è stata una precisa scelta artistica10».

Mettendo in secondo piano queste critiche il successo, fra le altre cose, ha delle conseguenze importanti, perché “L’amore se ne va” diventa una hit mondiale nella versione inglese di Dusty Springfield, “Give Me Time”. L’anno di grazia 1966 fa registra-re altre due situazioni positive: una nuova vittoria in concorso, stavolta al “Festival della canzone invernale” di Torino, e l’esor-dio discografico col 45 giri “L’amore se ne va”/“Questa volta”. Ed è proprio il territorio discografico il passaggio successivo su cui si confronta Pagano per consolidare i riscontri ottenuti nelle esibizioni dal vivo. Negli studi di via Tiburtina ogni esperienza

8 Christian Calabrese, “Intervista a Carmelo Pagano”, riportata in http://www.hitparadeitalia.it/voli/articoli/i_pagano.htm9 Ibidem.10 Ibidem.

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è un apprendimento, ed è legata anche a episodi spassosi. In questi anni è celebre il bar della RCA, dove stazionavano gli artisti già in scuderia, ma anche quelli alla ricerca di un dirigente da accalappiare per sottoporgli i propri brani: tutto l’ambiente è raccontato con numerosi aneddoti da Maurizio Becker nel libro “C’era una volta la RCA”. Un bar che riserva ricordi divertenti anche per Pagano, il quale ne racconta uno nella già citata inter-vista allorché il grande pianista Arthur Rubinstein capita in sala di registrazione per incidere un disco: «Eravamo un gruppo di persone, adesso non mi ricordo con precisione chi, sicuramente oltre a me vi erano il direttore artistico Melis ed altri avventori. Stavamo consumando qualcosa quando, tra il brusio di sotto-fondo, nella sala del bar entrò una ragazza molto appariscente, ma un po’ volgare. Portava una minigonna cortissima, stivaloni alla coscia e trucco marcato. Insomma, rispecchiava un certo “tipo” che a quel tempo andava di moda. Sapemmo poi che stava facendo un provino, uno dei tanti che si facevano alla RCA. Bene! In un angolo della sala, tranquillamente seduto in una poltroncina davanti ad un tavolinetto basso, vi era Arthur Rubinstein che sorseggiava con gusto una Coca-Cola. Adesso viene il bello, si fa per dire. La ragazza, forse in difficoltà per l’ambiente in cui si trovava, per darsi un tono, si avvicinò al grande maestro, che di sicuro non conosceva, e facendogli un leggero “puffettino” sulla guancia gli disse in dialetto romano: “Ah nonnè… Te piace la Coca-Cola, eh?”. Un silenzio tombale cadde nella sala! Rubinstein la guardò freddamente senza avere una benché minima reazione. Inutile dirti che la ragazza guar-dandosi intorno capì che aveva fatto qualcosa di grave… Ci sentimmo sprofondare al suo posto!».11

Il mondo della discografia è duro, la RCA pare un porto di mare e la concorrenza è spietata tanti sono gli artisti che pro-

11 Ibidem.

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vano a sfondare con i propri pezzi o affidandosi ai numerosi autori dell’epoca. Inizialmente Pagano non sembra risentirne, anzi: pare lanciatissimo. Il nuovo disco ha come lato A la can-zone “Il giorno tutto giusto”, contenuta nella colonna sonora del film “Spia spione”, interpretato da Lando Buzzanca. Nel lato B, il tema del film eseguito da Bruno Canfora e dalla sua orchestra. È il primo contatto di Pagano col mondo del cinema. «Canfora cercava una voce alla James Bond e mi ha fatto fare il provino per una canzone sua. Io ero alla RCA, io e il can-tante Dino avevamo fatto il provino». A quel punto, l’etichet-ta discografica decide che il giovane palermitano è pronto per la più importante ribalta della musica leggera italiana, il Teatro Ariston di Sanremo. Nella “città dei fiori” Carmelo arriva però con una decisione non lineare. Il suo nome, infatti, viene tirato in ballo da Teddy Reno dopo una girandola di possibili parte-cipanti: prima Johnny Rivers, poi gli Hollies e, solo dopo che questi ultimi sono stati scartati, salta fuori la chance per il giova-ne emergente12. Il quale sembra inconsciamente risentire della scelta, tanto più che non gradisce particolarmente la canzone, né la partner che gli è stata affiancata, l’altra esordiente Roberta Amadei. E così “Devi aver fiducia in me” non raggiunge la fi-nale, per Pagano l’esperienza si rivela ben poco divertente ed è la prima battuta d’arresto in quella che sembrava un’ascesa irre-sistibile. «Avevo troppo poca esperienza per impormi. Se avessi dovuto scegliere avrei preferito partecipare con Orietta Berti… Se non altro sarei stato “nazionalpopolare”»13. E aggiunge: «Mi sono ritrovato a Sanremo in un clima di poca chiarezza e forse con il senno del poi sarebbe stato meglio non andarci! Non ave-vo neanche un lato B inedito! Qualche giorno prima era uscito

12 Verdier il Vampiro, “Carmelo Pagano – Devi Avere Fiducia In Me (Sanremo 1967) / Scialpi – Bella Età (Sanremo 1987)”, riportato in http://cverdier.blogspot.com/2009/02/carmelo-pagano-devi-avere-fiducia-in-me.html13 Ibidem.

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il mio secondo singolo, colonna sonora del film “Spia Spio-ne”. Cos’ha fatto la RCA? Ha messo come lato B la facciata A del disco appena uscito, fermando in questo modo le eventuali vendite del 45 giri»14.

Si tratta peraltro, quella del 1967, dell’edizione del Festival di Sanremo funestata dal suicidio di Luigi Tenco, che Pagano aveva cominciato a frequentare proprio in quel periodo: «Po-trei parlare di sincera simpatia per Nicola di Bari, Patty Pravo, Bobby Solo, Rita Pavone, Edoardo Vianello, Domenico Modu-gno eccetera. Un ricordo speciale lo conservo di Luigi Tenco. Nell’ambiente era considerato un tipo taciturno, introverso e un po’ scontroso, con me invece parlava e scherzava volentieri. Delle volte, quando entravo nel bar interno della RCA, sentivo una voce gridare alle mie spalle: Carmeluzzu! Mi giravo… era lui! Mi è rimasto il grande rimpianto di non avere avuto il tempo di coltivare e rafforzare quel rapporto»15.

Archiviata la deludente parentesi sanremese, la tappa successiva è rappresentata da un altro importante concorso dell’epoca, il “Cantagiro”: il brano che viene presentato è “Va”, che finisce anche sul terzo 45 giri, con lato B “Vivrò”, versione in italiano di “My Prayer” dei Platters. Nello stesso periodo si moltipli-cano le sue apparizioni televisive: tra queste, “Settevoci”, con-dotto da Pippo Baudo, e “Il signore ha suonato?”, presentato dal maestro Enrico Simonetti. E sempre nel 1967 c’è la nuova esperienza cinematografica in “Soldati e capelloni” di Ettore Maria Fizzarotti, con Peppino De Filippo, Aroldo Tieri, Lia Zoppelli, Gianni Agus e Fiorenzo Fiorentini, seguita l’anno successivo dalla partecipazione a “Vendo cara la pelle”, sempre

14 Ibidem.15 Christian Calabrese, “Intervista a Carmelo Pagano”, op. cit.

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di Fizzarotti. È il 1968 ed è un nuovo anno importante per Car-melo Pagano: l’esperienza RCA si chiude col 45 giri “Torna con me”/“Tema dal Concerto di Varsavia”. Passa poi alla Ariston Records, dove incide “Il mio amore vivrà”/“Mi hai dato un’ani-ma”, quest’ultima scritta per lui dal compianto Umberto Bindi, e pubblica il 33 giri “Melodie eterne”. «Tutto andava troppo veloce per me: un giovane siciliano, provinciale, sprovveduto, un po’ sempliciotto se vuoi, per alcuni versi immaturo e certa-mente impreparato ad entrare nel favoloso mondo dello spetta-colo. Diciannove anni, allora, erano davvero pochi! Oggi è tutta un’altra cosa!»16. Sul suo rapporto con l’etichetta discografica racconta: «Io ero venuto fuori vincendo il Festival delle Rose, dove c’erano i migliori cantanti dell’epoca: foto, prime pagine, giornali. All’epoca la RCA aveva un cast certo non indifferen-te. Ci sono rimasto male che nel libro sulla RCA non sia stato nominato. Non l’ho capito. Me lo spiego solo pensando che abbiano dovuto puntare sul certo e non rischiare su di me, che ero stato l’outsider quando loro non se l’aspettavano. Si sono trovati impreparati».

La parabola artistica di Pagano prende a questo punto una piega discendente. Le uscite discografiche restano costanti al ritmo di un 45 giri all’anno: “Chi vede te”/“La notte del sì” per Ari-ston nel 1969, “Magia”/“Un amore per i miei sogni” per Jet nel 1970, “Ad un tratto impazzirei”/“Ehi, guardami un po’” per Beat Records Company nel 1971, “Io non vivrò”/“Tu sei lì che mi aspetti” per Picci nel 1972. Quest’ultimo è l’atto finale. «Non avevo una posizione tale che mi consentisse di stare vent’anni senza fare niente e così ho scelto di trovare la mia strada facen-do un altro lavoro completamente diverso, diventando procac-ciatore d’affari per una compagnia di assicurazioni e poi passan-do all’organizzazione produttiva, fino a diventare con gli anni

16 Ibidem.

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