paolo coen, musei della shoah ieri, oggi e forse anche domani

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PAOLO COEN MUSEI DELLA SHOAH IERI, OGGI E FORSE ANCHE DOMANI, TRA POLITICHE D’IDENTITA` E ISTANZE DI RIPARAZIONE ESTRATTO da MUSEI TORINO 2011: DA CRISI A OPPORTUNITÀ Verso la Nuova Galleria Sabauda Atti del convegno internazionale di studi E E E E E E

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Paolo Coen

MUSEI DELLA SHOAH IERI, OGGI E FORSEANCHE DOMANI, TRA POLITICHE D’IDENTITA`

E ISTANZE DI RIPARAZIONE

ESTRATTO

da

MUSEI TORINO 2011: DA CRISI A OPPORTUNITÀ

Verso la Nuova Galleria Sabauda

Atti del convegno internazionale di studi

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I QUADERNI DI PALAZZO CARIGNANO

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MUSEI TORINO 2011:DA CRISI A OPPORTUNITA

Verso la Nuova Galleri

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Tutti i diritti riservati

CASA EDITRICE LEO S. OLSCHKI

Viuzzo del Pozzetto, 850126 Firenze

www.olschki.it

ISBN 978 88 222 6256 1

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PAOLO COEN

MUSEI DELLA SHOAH

IERI, OGGI E FORSE ANCHE DOMANI,

TRA POLITICHE D’IDENTITA E ISTANZE DI RIPARAZIONE*

Abitavo a Kyriat Novel, un quartiere separato dalla collina del Museo Yad Vashemsolo da un avvallamento. Era mia abitudine allontanarmi da casa e giocare, da solo. Mipiaceva molto, ero un bambino che preferiva starsene per conto proprio.1

In Israele Yad Vashem, ufficialmente l’Autorita per la Memoria dei Mar-tiri e degli Eroi dell’Olocausto (The Holocaust Martyrs’ and Heroes’ MemorialRemembrance Authorithy), e pensato all’indomani della Guerra d’Indipen-denza del 1948 e istituito cinque anni dopo con la Legge n. 5713/1953. Nel-l’occasione la Knesset, il Parlamento israeliano, gli destina due colline alla pe-riferia di Gerusalemme, fra cui l’Har Hazzikaron, o Monte del Ricordo. YadVashem, che in se vuol dire «un memoriale e un nome», rinvia a un noto pas-so biblico: «E daro loro una casa – si legge nel Libro di Isaia – e all’internodelle sue mura un memoriale [...] e un nome destinato a durare in eternoche mai potra essere dimenticato».2 I compiti dell’istituto sono molteplici econsistono, in sintesi, nel commemorare i sei milioni di Ebrei uccisi dai nazistie dai loro alleati, le comunita annientate nel tentativo di sradicare l’intera cul-tura ebraica, come pure nell’esaltare il coraggio degli Ebrei che avevano com-battuto per la liberta e quello dei Giusti fra le Nazioni (Righteous among the

* Questo saggio rielabora e amplia quanto ebbi gia modo di esporre parzialmente nel 2007, in oc-casione del primo convegno organizzato all’Universita della Calabria per il Giorno della Memoria, diritorno da una serie di viaggi che mi avevano consentito di studiare i musei ebraici e i musei della Shoahin Francia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Stati Uniti e Canada. La citazione bibliografica estesa diquesto intervento e alla nota 3.

Il mio ringraziamento va ora agli amici Nir Baram, Savyon Liebrecht, Livia Link e Nava Semel, chemi hanno aiutato a mettere a fuoco la peculiare interpretazione della Shoah e dei suoi musei in Israele.Dedico lo scritto ai miei figli Claudio e Riccardo.

1 Il brano, al pari dei seguenti in corsivo, e tratto da DAVID GROSSMAN, La memoria della Shoah.Intervista di Matteo Bellinelli, Bellinzona, 2000, pp. 16-17.

2 Isaia, 56, 5.

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Nations), ossia di quanti, sebbene non Ebrei, avevano rischiato e alle volteperso la vita pur di salvarne anche soltanto uno. Dopo alcune esposizioni, ini-ziate nel 1957, Yad Vashem apre al pubblico le prime strutture museali alprincipio degli anni sessanta. Al 1961 risale la Sala del Ricordo (RemembranceHall), disegnata alla sommita dello Har Hazzikaron dagli architetti Arieh El-hanani, Arieh Sharon e Benjamin Idelson e destinata a custodire la FiammaEterna: intorno alla fiamma si leggono i nomi di ventidue fra i principali luo-ghi di sterminio, che simboleggiano le centinaia disseminate dai nazisti in Eu-ropa. Da quel momento Yad Vashem si articola in una sequenza di interventiarchitettonici: per definizione il complesso e infatti concepito secondo la poe-tica del never ending tale, di un racconto storico per nuclei significanti, cheogni generazione ha il diritto-dovere di rielaborare e di riscrivere.3

Yad Vashem sotto il profilo museologico si caratterizza per due elementi.4

Elemento numero uno: il tema portante consiste in un fenomeno storico de-finito, vale a dire la discriminazione e la distruzione degli Ebrei d’Europa at-tuata dai nazisti e dai loro fiancheggiatori tra il 1933 e il 1945, termini corri-spondenti all’ascesa al potere e alla caduta di Adolf Hitler. E questa la Shoah,in area anglosassone ancor oggi normalmente detta l’Olocausto. Tecnicamen-te Yad Vashem rientra percio nella categoria dei musei che documentano, ri-cercano e divulgano episodi o movimenti storici in se conclusi, come peresempio succede in Italia nei musei Napoleonici, nei musei del Risorgimento

3 YISHAI JUSIDMAN, Unending Yad-Vashem: some notes toward an aesthetics of monuments andmemorials, «Art criticism», 12, 1997, pp. 48-56; ID., Yad Vashem: the Holocaust Martyrs’ and Heroes’Memorial and Remembrance Authority in Jerusalem, in Encyclopedia of Genocide, a cura di I.W.Charny, 2 voll., Santa Barbara et alii, 1999, II, p. 630; EMMANUEL SIVAN, Private pain and public re-membrance in Israel, in War and remembrance in the twentieth century, a cura di J. Winter, E. Sivan,Cambridge, 1999, pp. 177-204; MATTHIAS HASS, Gestaltetes Gedanken: Yad Vashem, das U.S. Holo-caust Memorial Museum und die Stiftung Topographie des Terrors, Francoforte, 2002; ID., To bearwitness: Holocaust Remembrance at Yad Vashem, a cura di B. Gutterman, A. Shalev, Gerusalemme,2005; NATASHA GOLDMAN, Israeli Holocaust memorial strategies at Yad Vashem: from silence to reco-gnition, «The Art journal», LXV, 2006, pp. 102-122; EAD., Yad Vashem: Moshe Safdie, the architec-ture of memory, a cura di D. Murphy, Lars Muller, Baden, 2006; DORITH HAREL, Facts and feelings:dilemmas in designing the Yad Vashem Holocaust History Museum, Gerusalemme, 2010.

4 Su questa distinzione di base si rimanda al saggio menzionato nella nota dedicatoria, vale adire PAOLO COEN, Stiamo o non stiamo camminando sulla nostra ombra? Per una museologia dellaShoah, in La memoria e la storia. Auschwitz, 27 gennaio 1945, temi, riflessioni, contesti, atti del con-vegno (Arcavacata di Rende, 2007), a cura di P. Coen, G. Violini, con una prefazione di L. Violante,Soveria Mannelli, 2010, pp. 109-150. Si vedano inoltre PATRIZIA DOGLIANI, Tra guerre e pace. Memo-rie e rappresentazioni di conflitti e dell’Olocausto nell’Occidente contemporaneo, Milano, 2001, in par-ticolare pp. 215-218; HAROLD MARCUSE, Legacies of Dachau: the uses and abuses of concentrationcamp 1933-2001, Cambridge, 2001; LUCA ZEVI, Conservazione dell’avvenire. Il progetto oltre gli abusidi identita e memoria, Macerata, 2011; STEPHANIE SHOSH ROTEM, Constructing Memory: ArchitecturalNarratives of the Holocaust Museums, New York, 2013. Un quadro vivido e per molti versi impietosodegli odierni ‘santuari della memoria’, tracciato durante una visita realizzata insieme a un gruppo di stu-denti, e offerto da MARTIN GILBERT, Holocaust Journey. Travelling in search of the past, New York, 1997.

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o in quelli della Resistenza. Elemento numero due: Yad Vashem adempie aisuoi mandati a distanza di centinaia di chilometri da dove si sono svolti i fatti.Addirittura da un continente diverso. Emerge cosı la sostanziale diversita conaltre due categorie di musei che, pure, vengono spesso associate a Yad Vas-hem, ovvero i musei della tradizione ebraica e i musei annessi ai memorialidella Shoah. I primi sono musei di natura fondamentalmente etno-antropolo-gica. Il fuoco principale risiede cioe nelle vicende del popolo ebraico, non im-porta se inteso nella sua interezza, come accade per esempio nel Jewish Mu-seum di New York o nel Museum of Jewish People di Tel Aviv – conosciutoanche come Beit Hatfutsot o Nahum Goldmann Museum of the Jewish Dia-spora – ovvero comunita per comunita, secondo quanto puo osservarsi a Ve-nezia, Francoforte, Bologna o Varsavia. Certo, quasi tutti i musei della classetrattano la Shoah, ma come uno fra i molti capitoli di una narrazione ben al-trimenti piu estesa, che dal terzo millennio a.C. giunge fino ai nostri giorni.Quanto ai secondi, la loro ragion d’essere risulta inscindibile dal sorgere, ap-punto, in prossimita o direttamente sui luoghi dove lo sterminio fu material-mente compiuto. Pochi e determinati lager, campi o prigioni sono stati percioorganizzati secondo percorsi di visita moderni, che prevedono il riutilizzo e lamodifica degli edifici originali o la costruzione di nuovi. Cosı funzionano imusei di Bergen Belsen, Maidanek, Mauthausen, della Risiera di San Sabbao infine quello di Auschwitz, per molti aspetti l’esempio piu evoluto della ca-tegoria. Al di la delle differenze, la sostanza rimane ovunque identica. Questaclasse di istituti – che si potrebbero anche definire ‘santuari della memoriadella Shoah’ – serve principalmente a documentare e custodire, a ricercaree infine a divulgare la memoria di quanto accaduto esattamente lı, in quei luo-ghi. Non altrove. Solo una volta soddisfatta questa prima istanza essi possonoe – perche no? – anche per certi versi debbono allargare l’orizzonte e cogliereil fenomeno nel suo complesso.

Il Museo di Yad Vashem, com’e noto, vanta un solo precedente diretto. Sitratta dello Itzhak Katnelson Holocaust and Jewish Resistance Heritage Mu-seum, fondato sempre in Israele nel 1949, in una fattoria collettiva – in ebraicodetta comunemente kibbutz – situata nella Galilea nord-occidentale, un centi-naio di chilometri a nord di Tel Aviv, fra le citta di Naharya ed Akko, l’anticaSan Giovanni d’Acri.5 Molti invece i successori. Il primo in ordine di tempoe lo Holocaust Museum sorto nel 1968 all’interno del kibbutz Yad Mordecai,

5 TOM SEGEV, 1949, the first Israelis, New York, 1998; ANJA KURTHS, Shoahdenken im israeli-schen Alltag. Der Umgang mit der Shoah in Israel seit 1948 am Beispiel der Gedenkstatten Beit Loha-mei Hagetaot, Yad Vashem und Beit Terezin, Berlino, 2008.

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MUSEI DELLA SHOAH

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ubicato nella parte sud-occidentale d’Israele, circa un chilometro a settentrionedella striscia di Gaza.6 Numerosi altri istituti del genere, disseminati stavolta intutto il mondo occidentale, sono inaugurati dall’ultimo decennio del secoloscorso. Nel 1993 due luoghi chiave degli Stati Uniti d’America, Washington eLos Angeles, vedono aprirsi rispettivamente lo United States Holocaust Memo-rial and Museum e il Museum of Tolerance; su questa falsariga si muovono nelcorso degli anni altre citta o cittadine del paese, che includono New York con ilMuseum of Jewish Heritage – A Living Memorial of the Holocaust, St. Peter-sburgh in Florida, Houston in Texas, Skokie in Illinois ed infine nuovamenteLos Angeles, dove il 14 ottobre 2010 si taglia il nastro dello Holocaust Museum.In Europa nel 2000 aprono i battenti della Holocaust Permanent Exhibition aLondra, cosı grande e impegnativa da potersi considerare una sorta di museoa se stante all’interno dello Imperial War Museum. Nello stesso torno di mesiecco schiudersi al pubblico, stavolta a Berlino, altre due grandi fondazioni, loJudisches Museum e il Memoriale degli Ebrei Assassinati d’Europa. Lo Judi-sches Museum, costruito fra il 1992 e il 1998 su disegno architettonico di DanielLibeskind, apre al pubblico nel gennaio del 1999 completamente vuoto, privocioe di ogni allestimento. All’epoca il richiamo alla Shoah risulta cosı evidente dainformare l’intero edificio: lo dimostra, da sola, la suddivisione del piano inter-rato in «Asse della Continuita», «Asse dell’Esilio» e appunto «Asse dell’Olocau-sto». L’allestimento successivo, realizzato da Petra Winderholl e Klaus Wurth eperaltro ancor oggi soggetto a ripetute evoluzioni, ha in larga parte dispersoquesta valenza originaria, puntando assai piu sul radicamento storico della co-munita ebraica in Germania, con il risultato di creare un contrasto, tanto singo-lare quanto significativo, con il messaggio originario dell’architetto. Il Memoria-le degli Ebrei Assassinati d’Europa, a sua volta frutto di una competizionebandita nel 1998, viene costruito su disegno di Peter Eisenman fra il 2003 e il2005 e solennemente inaugurato il 10 maggio 2005. Il Memoriale include nellaparte interrata un centro di documentazione ed informazioni sulla Shoah allesti-to da Dagmar von Wilcken, in collaborazione con Claudia Franke, che per icontenuti dipende in larga misura da Yad Vashem. Non basta. Altri istituti sitrovano attualmente allo stadio di progetto avanzato o in costruzione, inclusiil Museo della Shoah di Roma, lo Holocaust Museum di Dallas, il Museum ofTolerance di New York e il Museum of Tolerance di Gerusalemme.

6 MARGARETH LARKIN, L’Exile et le retour [1963], Yad Mordecai, 1975; EAD., The Hand ofMordechai, ed. cons. Londra, 1968; HAGIT RAPEL, U-mi yizkor et ha-zokhrim? Sikaron k

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ibuts Yad-Mordekhai, 2004; ARYEH TEPPER, The Old Young Guard, «Jewish IdeasDaily», 7 marzo 2011.

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Un giorno notai che su di una collina di fronte alla nostra, proprio quella di YadVashem, c’era un’attivita febbrile: un sacco di autocarri stavano trasportando tonnellatedi pietre, sabbia e cemento. Dopo due o tre giorni portai mio padre a vedere i lavori incorso e gli chiesi: «Cosa stanno facendo?».

I musei della Shoah sorgono grazie all’impegno e al coinvolgimento diret-to o almeno indiretto dei piu alti ranghi istituzionali, che si traducono in elar-gizioni in danaro o in facilitazioni di vario genere. Yad Vashem, come si e ap-pena osservato, nasce da un’apposita legge della Knesset ed e tuttoraun’emanazione dello Stato d’Israele. Lo United States Holocaust Memorialand Museum di Washington trae origine da una commissione governativadi trentaquattro membri, con a capo Elie Wiesel, formata nel 1978 dal presi-dente Jimmy Carter; il governo americano continua a sostenerlo anche nellefasi successive, fra l’altro assegnandogli un sito in precedenza occupato daun edificio federale.7 Non da meno e il Memoriale degli Ebrei Assassinatid’Europa di Berlino.8 Per quanto concepito inizialmente da un cittadino pri-vato, la giornalista televisiva Lea Rosh, il Memoriale e di fatto commissionatodalla Repubblica Federale Tedesca, grazie all’impegno del cancelliere cristia-no-democratico Helmut Kohl.

Gli investimenti necessari alla realizzazione risultano in genere assai eleva-ti. Quindici milioni e mezzo di dollari e la cifra dichiarata dai trustees del LosAngeles Museum of the Holocaust.9 Ventuno milioni di euro la somma recen-

7 Sul museo di Washington, oggetto di una nutrita bibliografia, bastino qui MICHAEL BEREN-

BAUM, The world must know: a history of the Holocaust as told in the United States Holocaust Memo-rial Museum, con fotografie di A. Kramer, Boston, 1993; MARGARETH A. DREW, U.S. Holocaust Mu-seum: annotated bibliography, Washington, 1994; JESHAJAHU WEINBERG – RINA ELIELI, TheHolocaust Museum in Washington, New York, 1995; ADRIAN DANNATT, James Ingo Freed: UnitedStates Holocaust Museum, Washington DC 1993, in Twentieth Century Museums, introduzione diJ.S. Russell, Londra, 1999 249.67526 Tm[(a)] TJETBT8.46ETBT8.4682 0 0 8.4682 136.8566116 T.8318.466 Tm[(i)] TJE0 8.4682 115.42872 136.8566116 T.8318.466 Tm[(i)]8.54808 240.6046 Tm[(.)] TJETBT8.4682 0 0 8.4682 173.99059 240.6046 Tm[(6)] TJETBT8.4682 0 0 8.4682 178.1857 8.4682 115.42873-91; EDWARD T. LIN THAL, Pre erv ng memory: th truggle toc

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temente sbloccata dal Comune di Roma in favore della Fondazione responsa-bile di erigere il Museo della Shoah;10 circa ventisei quelli spesi per il Memo-riale degli Ebrei Assassinati d’Europa. La curva s’impenna con i quarantacin-que milioni di dollari necessari per lo Illinois Holocaust Museum di Skokie11

e i sessantuno di euro per lo Judisches Museum di Berlino.12 Su livelli ancorasuperiori, fino a sfondare il tetto dei cento milioni di dollari, si collocano ilmuseo di Washington e il Museum of Tolerance di Gerusalemme: per Wash-ington le fonti parlano di centosessantotto milioni, novanta necessari alla co-struzione, settantotto all’allestimento.

L’architettura dei musei della Shoah passa il piu delle volte attraversouna serie di dinieghi preliminari. Ovunque si rigetta per esempio il linguag-gio classico o classicheggiante, anche nella sua accezione post-modernista: enon soltanto perche esso viene percepito come quello del Museo per anto-nomasia, ma anche perche – secondo quanto dichiarato esplicitamente daJames Ingo Freed, progettista dello United States Holocaust Museum andMemorial – suscita un richiamo automatico e decisamente fuori luogo allearchitetture di Albert Speer e del Terzo Reich in genere.13 Allo stesso modovengono rifiutate le copie palmari e integrali di edifici tipici della culturaebraica – sinagoghe incluse – come pure, all’opposto, dei luoghi dello ster-minio. La nuova ala dello Holocaust Museum di Houston (Fig. 28), alcunispazi dello Judisches Museum di Berlino e la facciata dello Illinois Holo-caust Museum di Skokie (Figg. 29-30) – frutto rispettivamente della matitadi Ralph Appelbaum, Daniel Libeskind e Stanley Tigerman – si limitanopercio soltanto ad alludere, a rievocare il camino dei forni crematori.«Kitsch» e la categoria estetica che Hagy Belzberg, l’ideatore del Los Ange-les Museum of the Holocaust (Figg. 31-32), chiama in causa per qualificarele riprese architettoniche letterali dai luoghi di sterminio, di prigionia o an-che di liberazione.14 James I. Freed chiarisce ancor meglio il limite di ope-razioni del genere:

10 GIULIA CERASI, Museo della Shoah, fondi sbloccati, stanziati 21 milioni di euro, «La Repub-blica», 14 dicembre 2012.

11 LISBETH LEVINE, Skokie to open new Holocaust Museum, «The Jewish Daily Forward», 8aprile 2009; G. ROSENFELD, Skokie builds to remember, «The Jewish Daily Forward», 15 aprile 2009.

12 Il costo in questo caso si riferisce al solo edificio; cfr. CLEMENS BEECK, Daniel Libeskind andthe the Jewish Museum, Berlino, 2011, p. 94.

13 Cfr. JAMES INGO FREED, The Holocaust Memorial Museum, «Partisan Review», 61, 1994, pp.448-456; ID., The United States Holocaust and Memorial Museum, in The art of memory: Holocaustmemorials in History, a cura di J.E. Young, New York, 1994, pp. 89-101.

14 C. HAWTHORNE 2010, op. cit.

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Una ricostruzione [...] svaluterebbe l’Olocausto; [...] significherebbe Disneyland,un luogo preciso, pulito, senza tensione. Con questo particolare soggetto [i.e. laShoah] esiste un grave rischio di estetizzazione e di perdita dell’energia primitiva.15

Il linguaggio architettonico dei musei della Shoah appartiene per intero einequivocabilmente al contemporaneo, nel cui panorama viene operata unascelta in favore delle tendenze piu ‘espressive’. Ovunque l’involucro fisico ol-tre che a custodire, organizzare e mettere in mostra quanto si trova all’internoassolve a due fondamentali funzioni. Da un lato il contenitore e a sua volta «aresonator of memory», per tornare a Freed, ovvero comunica in termini visiviil concetto di memoria; dall’altro contribuisce a suscitare nel fruitore una rea-zione emotiva e sentimentale. «Volevamo innescare nella comunita discussionidi ordine etico e morale, che fossero in grado di mettere in allarme le personesulle conseguenze dell’odio e del razzismo» e l’obiettivo dichiarato da Appel-baum parlando di Houston (Fig. 28).16

In taluni musei della Shoah la miccia della comunicazione e offerta daimateriali costruttivi, spesso lasciati scabri e allo stato grezzo, senza intonacoo tinteggiatura e soprattutto senza ornamento. Nella Valle delle Comunita Di-strutte di Yad Vashem (Fig. 33), gli architetti israeliani Lipa Yahalom e DanTsur, maestri negli interventi sul paesaggio, costruiscono il percorso su bloc-chi giganti sovrapposti in pietra calcarea locale, interrotti dalle centosette in-serzioni in cemento liscio che appunto ricordano i nomi delle oltre cinquemilacomunita ebraiche spazzate via dalla furia nazista.17 Pareti in mattoni a vista,travi d’acciaio e assi di legno a chiusura delle finestre contraddistinguono laSala della Testimonianza del museo di Washington.18

Ancor piu spesso la comunicazione passa attraverso le forme. Di nuovo aYad Vashem, il lungo braccio rettilineo dello Historical Museum, disegnatodall’architetto di origine canadese Moshe Safdie, con la sua desueta sezionetriangolare insinua nel visitatore un senso di chiusura asfittica e nel contempolo priva dell’elementare sistema di orientamento e di appoggio rappresentatodalle pareti in verticale.19 Nello Judisches Museum di Berlino (Figg. 34-35)

15 J.I. FREED, The United States Holocaust and Memorial Museum 1994, op. cit., p. 91.16 Si veda http://www.hmh.org/au_architecture.shtml.17 YAEL PADAN, Replacing memory, in Constructing a sense of place: architecture and the Zionist

discourse, a cura di H. Yacobi, Londra, 2004, p. 254 sg.; p. 263; SAMUEL BURMIL – RUTH ENIS, Thechanging landscape of a Utopia. The landscape and gardens of the kibbutz. Past and present, Worms,2012, in particolare pp. 263-265.

18 Su questo punto cfr. in particolare JAMES S. RUSSELL, Bearing witness in bricks and steel, «Ar-chitectural Record», 176, 1988, pp. 65-66.

19 Yad Vashem: Moshe Safdie, the architecture of memory, a cura di D. Murphy, Baden, 2006.

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– peraltro destinato a condizionare non poco le soluzioni formali adottate nel-la Holocaust Exhibition di Londra – Daniel Libeskind utilizza ovunque ele-menti spezzati, anche qui destituiti da ogni logica.20 Le finestre squarcianole pareti esterne in metallo come ferite provocate da un’arma da taglio; i pila-stri di sostegno, anche qui eretti di sbieco, anziche in verticale, contribuisconoa imprimere nella mente del destinatario un senso di squilibrio e di incertezza.

Generatore di emozione e poi il trattamento della luce. Nel Los AngelesMuseum of the Holocaust essa decresce man mano che si procede verso lanarrazione dello sterminio, per poi aumentare di nuovo con il graduale ritornoal mondo normale, dopo il 1945. Nella Sala della Testimonianza del museo diWashington Freed maltratta e filtra la luce fino a renderla spettrale, grazie al-l’interposizione di pesanti strutture in metallo; al contrario, nella Sala del Ri-cordo un chiarore intenso e diffuso concorre a dar vita a uno spazio sereno dimeditazione e contemplazione. Nella Valle delle Comunita Distrutte a YadVashem (Fig. 33) il cielo ed il sole, pur rimanendo sempre visibili, tendonoa ridursi e quasi a scomparire man mano che lo spettatore si inoltra nel labi-rinto. Sempre a Yad Vashem, intorno al rapporto fra tenebra e luce orbital’intero Memoriale dei Bambini Uccisi, concepito nuovamente da Safdie nellaprima meta degli anni ottanta del Novecento. Esso si presenta all’inizio comeun tunnel buio, che incute nel visitatore un profondo, radicale sgomento; inol-trandosi verso l’interno, il bagliore di poche candele commemorative, un ele-mento cardine nella tradizione ebraica in rapporto al culto dei morti, riflessoall’infinito grazie a un sistema di specchi, desta l’impressione di trovarsi dinan-zi a un firmamento di milioni e milioni di stelle.

I musei della Shoah in genere custodiscono ed espongono categorie di og-getti simili o addirittura analoghe, tanto da risultare di primo acchito persinoripetitivi. In taluni casi il visitatore si trova dinanzi a originali, in altri invece acopie, eseguite in scala ridotta oppure mantenendo inalterate le dimensioni. Ilmuseo di Washington ne include per esempio una molto fedele dell’insegna inferro battuto «Arbeit macht frei» che campeggiava all’ingresso del campo diAuschwitz. Alcuni pezzi, non importa se in originale o in copia, attestano lasedimentazione degli Ebrei in Europa nei secoli successivi alla Diaspora. Equesta la funzione svolta normalmente da libri, abiti e arredi liturgici tradizio-nali, incluso fra l’altro quel raro esemplare di Shemot, o Libro dell’Esodo, stam-pato a Vienna nel 1795 ed esposto nel Los Angeles Museum of the Holocaust.

20 LIVIO SACCHI, Daniel Libeskind. Museo ebraico, Berlino, Torino, 1998; ARNT COBBERS, DanielLibeskind, Berlino, 2001; BERNHARD SCHNEIDER, Daniel Libeskind: Jewish Museum Berlin: betweenthe lines, Monaco et alii, 2005; ANTONELLA MAROTTA, Daniel Libeskind, Roma, 2007.

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l’alto, bisogna attraversare altri spazi, altre esperienze, che corrispondono auna progressiva discesa all’inferno. Solo cosı si capisce il destino di Eishishok:in due soli giorni, il 25 e il 26 settembre del 1941, la comunita ebraica subı iltotale annientamento, certificato anche qui dall’obiettivo del fotografo. Rimar-chevole, infine, risulta la presenza di opere d’arte contemporanea che si ispira-no alla Shoah.22 Alcune volte la direzione dei musei si indirizza verso tendenzeastratte. Cio e accaduto per esempio in modo sistematico a Washington, dovele collezioni annoverano lavori di maestri come Ellsworth Kelly, Joel Shapiro eRichard Serra. Gravity (Fig. 37), collocata nella zona sinistra della Sala dellaTestimonianza, si mantiene accostata alla tradizionale linea di ricerca sui mate-riali e solidi semplici, sperimentata da Serra fin dal settimo decennio del No-vecento.23 Nella maggior parte delle circostanze, in ogni modo, le scelte musea-li vedono prevalere artisti e opere che rientrano nelle tendenze figurative, disolito con forti accenti realistici, espressionisti o comunque patetici. Parla chia-ro in tale direzione l’ampio ventaglio di proposte apprezzabile a Yad Vashem, acominciare dal monumento di Boris Saktier dedicato al grande pedagogo ededucatore polacco Janusz Korczak (Fig. 38). Korczak e raffigurato nell’attodi proteggere con le mani – ma nel medesimo istante anche di riprendere, diricondurre presso di se – i ‘suoi’ bambini, ormai morti: immediato e il riferi-mento a quel drammatico episodio del 1942 in cui Korczak si vide sottrarredai nazisti un gruppo di bambini ebrei ricoverati presso il suo istituto, puravendo profuso ogni sforzo per difenderli.

Nei percorsi di visita dei musei della Shoah la vicenda e intesa come unracconto storico documentato, limpido e senza possibilita di equivoci. Nonmanipolabile, innegabile. Una mano gentile eppure ben salda afferra subitoil visitatore per accompagnarlo fino all’uscita. Ovunque si nota poi lo sforzodi rendere la narrazione semplice, essenziale, adatta a essere assimilata ancheda persone non avvezze alla lettura, a ragionare sulle vicende storiche o in pos-sesso di idee estremamente nebulose sulla Seconda Guerra Mondiale, gliEbrei e l’Olocausto. Nulla viene dato per scontato. Uno per uno vengono il-lustrati i riferimenti storici, gli snodi e i protagonisti. L’obiettivo, messo a fuo-co e raggiunto anche tramite un impiego molto esteso di sondaggi, e sempre il

22 Su questo aspetto si rinvia anche in termini bibliografici al volume Vedere l’Altro, vedere laShoah, a cura di P. Coen, Soveria Mannelli, 2012 e in particolare al saggio di PAOLO COEN, ‘‘L’artistaagisce in modo artistico: questa e la sua arma’’: riflessioni di valore introduttivo sul rapporto fra arte eShoah, da Alexander Bogen e Corrado Cagli a Nathan Rapoport e Richard Serra, pp. 7-71.

23 Cfr. Richard Serra, catalogo della mostra, (Parigi, 1983-1984), Parigi, 1983; Richard Serra: Sculp-ture, catalogo della mostra (New York, 1987), a cura di L. Rosenstock, New York, 1986; Reden uberKunst: Richard Serra: zum Holocaust-Mahnmal in Berlin [...], Hamburg, 1998. Un’analisi del rapportofra Serra e la Shoah, che parte da Gravity ed altre sue due opere a tema, e in P. COEN 2012, op. cit.

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medesimo. Il visitatore una volta fuori dal museo deve essere posto in condi-zione di rispondere a poche, ma fondamentali domande. Eccone alcune: «Do-ve e quando si svolsero i fatti? Chi furono le vittime e chi i carnefici? A quantiammontarono i morti e da dove provenivano?».

A questo scopo uno spazio chiave e assegnato alla scrittura. Alle volte ilpubblico si trova dinanzi ad ammonimenti di ordine etico, per lo piu estrapo-lati dalla Bibbia o da altri libri sacri della religione ebraica: un brano trattodal Deuteronomio, «Ricordare, mai dimenticare»,24 campeggia nel Museum ofJewish Heritage – A Living Memorial of the Holocaust di New York, disegna-to da due maestri della disciplina museografica americana, Kevin Roche eJohn Dinkeloo, e formalmente aperto il 15 settembre 1997;25 in altre circo-stanze a trascrizioni di fonti dirette, eventualmente tradotte, di testimonianzeche risalgono alla Seconda Guerra Mondiale, secondo quanto puo osservarsi aLondra con alcuni passi del Mein Kampf di Hitler o a Washington con la Di-chiarazione della Conferenza di Wannsee. La maggior parte dei testi ricadecomunque nella categoria degli apparati didattici ed e dunque frutto del lavo-ro dei curatori del percorso, dai pannelli generali d’introduzione al museo aquelli delle sezioni, fino alle didascalie degli oggetti. Qui si nota l’aspirazionea un’alta divulgazione e, insieme, a restituire i fatti nella propria concretezza: ilricorso generalizzato a un linguaggio semplice in questo caso viene dunque apatti con l’impegno a ricondurre fin dove possibile il singolo pezzo esposto alsuo contesto individuale, cosı da evitare ogni genericita o banalizzazione.

Altrettanto comune e il desiderio di coinvolgere il pubblico sul pianoemotivo. «Frastornato [...], ossessionato»: cosı il presidente americano Wil-liam Clinton descrive il proprio stato d’animo il 22 aprile 1993, al termine del-la visita al museo di Washington. Che si tratti di un preciso mandato istituzio-nale e provato nello stesso anno e nello stesso museo dal direttore esecutivoJeshajahu Weinberg: «Non vogliamo che le persone vengano qua e si depri-mano; vogliamo che ne escano sconvolte».26 Lo scopo e raggiunto in primoluogo attraverso la sollecitazione plurisensoriale. Oltre alla vista, chiamata incausa per la lettura di testi e la percezione stessa dei luoghi e degli oggetti,anche l’udito e il tatto svolgono un ruolo decisivo. Diffusi da altoparlanti op-

24 Deut. 9, 7.25 ROCHELLE G. SAIDEL, Never too late to remember: the politics behind. New York City’s Ho-

locaust museum, New York, Londra, 1996. Per una contestualizzazione del Museo nell’intera carrieraarchitettonica di Roche si rinvia al lavoro monografico di FRANCESCO DAL CO, Kevin Roche, Milanoet alii, 1986.

26 DIANA JEAN SCHEMO, A place to remember, to touch the unbearable, «New York Times», 18aprile 1993.

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portunamente dislocati, riecheggiano dunque musiche d’epoca, rumori tipicidella vita degli internati come il passaggio del treno sulle rotaie, il batteredel piccone sulla roccia o le raffiche di mitragliatrice e, ancora, ordini militari,discorsi politici nazisti o, infine, le parole dei sopravvissuti. Le potenzialita evo-cative di questo strumento si colgono al massimo nel citato Memoriale deiBambini di Safdie a Yad Vashem, dove una voce, alternativamente maschilee femminile, ricorda il nome, l’eta e la provenienza di ciascuno del milione emezzo di bambini ebrei uccisi nei campi di sterminio. In questo modo l’archi-tetto, debitore di alcuni meccanismi portanti della retorica barocca, tramuta inpochi attimi l’inizial

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done le generalita o simulandone le esperienze. Cio accade per esempio aWashington. Al momento di salire nell’ascensore verso il quarto piano, doveha inizio l’esposizione permanente, ciascuno e invitato a munirsi del passapor-to di un deportato nei campi di sterminio: il documento, ovviamente in facsi-mile, presenta in una nota a margine il destino finale del suo titolare, di voltain volta diverso. L’esperienza museale e dunque vissuta non gia – o comunquenon solo – da liberi cittadini che appartengono a un mondo democratico. Ildestinatario attraverso il proprio alias e spinto a forza nel passato, entra ideal-mente nella fabbrica della morte: a questo punto importa assai poco se, in ba-se all’identita assunta, egli finira tra i sommersi o tra i salvati. Ancor piu avantisi spinge nel 2010 David Gafni, responsabile del percorso espositivo delloHolocaust Museum di Yad Mordecai. «Volevo suscitare negli spettatoriun’impressione forte» – ha sintetizzato Gafni – «creando un’esperienza am-bientale a 360 gradi, non l’ennesimo museo convenzionale, con dipinti incor-niciati e appesi alle pareti».28 Su tali basi il visitatore e dapprima bollato conuna stella gialla di David, proiettata sulla parte sinistra del petto grazie a uncomputer. In un’altra sezione viene poi chiuso entro un vagone piombato e af-fronta un viaggio virtuale in direzione del lager: un sistema automatizzato cheimita i suoni, i rumori e gli scossoni caratteristici del treno conferisce al viag-gio un realismo piu che sufficiente. Tutto, a cominciare dai mezzi tecnologici,serve insomma a rendere l’esperienza spettacolare ed emozionante. «Volevoche le persone venute da lontano dicessero che qui esiste qualcosa che nonesiste da nessun’altra parte, qualcosa che e impossibile trasmettere via mailo con una fotografia», osserva ancora Gafni.29

Mi rispose: «Beh, stanno costruendo qualcosa...». Continuai: «Cos’e questo qualco-sa?», perche con la sensibilita tipica dei bambini percepii un tono inusuale, una sfuma-tura nella voce di mio padre, che disse: «E una specie di museo». Non sono sicuro sesapessi allora cosa fosse un museo, ma probabilmente mio padre me lo spiego. Cosı do-mandai ancora: «Beh, che tipo di museo: un museo d’arte, di dipinti, di sculture?».

I musei della Shoah, come si e appena osservato circoscrivibili entro unaclasse relativamente omogenea e contrassegnati da molte linee comuni, non dimeno presentano cospicui margini di autonomia e individualita. A secondadelle istituzioni mutano ad esempio gli estremi cronologici del percorso. Alcu-ni musei, secondo quanto puo osservarsi fra l’altro a Washington o in Florida,

28 Cfr. A. TEPPER 2011, op. cit.29 Ivi.

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iniziano dunque con l’ascesa al potere di Hitler nel 1933; altri, incluso lo Ju-disches Museum di Berlino, illustrano il radicamento dell’antisemitismo inEuropa e dunque fanno partire la narrazione decenni o addirittura secoli pri-ma. Significative risultano anche le differenze che si riscontrano nel terminedel racconto. L’esposizione di Londra si conclude nella primavera del 1945,vale a dire con la liberazione dei campi di sterminio da parte delle truppe al-leate. A New York o al Los Angeles Museum of the Holocaust il raccontocomprende «I postumi» (The Aftermath) e giunge percio fino alla fondazioned’Israele, nella primavera del 1948. In altre circostanze ancora il passato si sal-da all’oggi. L’ultima sezione del museo di Washington, intitolata Present, co-pre l’arco di tempo che va dal 1946 al 1993, data di apertura del museo. AYad Vashem, il braccio rettilineo dello Holocaust Historical Museum terminanel panorama della Gerusalemme contemporanea: protagonista viva e concre-ta in fondo a un lungo tunnel di sofferenza e la citta delle origini e della Dia-spora, che in tal modo resta negli occhi come il luogo principe del movimentomigratorio di ritorno alla Terra Promessa, l’aliyah (Figg. 40-41).

Un secondo motivo di discontinuita e rappresentato dal peso di volta involta conferito ad alcuni temi specifici dell’intera vicenda. Si guardi in primoluogo all’antisemitismo. Se dunque la Germania nell’esposizione di Londra onei musei di Washington e di Saint Petersburgh e individuata come la solanazione colpevole, altrove le campagne discriminatorie naziste sono diluitenel sentimento razzista e antisemita comune a molti paesi dell’Occidentefra diciannovesimo e ventesimo secolo: ecco dunque spiegato fra l’altro l’am-pio spazio conferito nello Judisches Museum di Berlino all’affaire Dreyfus.Oscillazioni del genere si colgono anche nel giudizio sulle responsabilita dellaChiesa cattolica. Nel Los Angeles Museum of the Holocaust o anche a Wash-ington non si fa alcuna menzione dei ‘silenzi’ di Pio XII, ovvero della sua man-cata condanna ufficiale dei crimini commessi dai nazisti ai danni degli Ebrei.Una questione che, per quanto notoriamente ancor oggi lontana da una solu-zione univoca e definitiva, e invece sollevata in altri musei, a cominciare daYad Vashem. Non a caso alcuni critici hanno giudicato la scelta di Washing-ton «imbarazzante». Parimenti diversa e la valutazione del ruolo svolto nellalotta contro Hitler dalla resistenza partigiana ebraica e, piu in generale, dellacomponente ebraica delle forze armate alleate. Se dunque i tre musei d’Israelela considerano un elemento fondamentale, negli istituti europei e americaniviene citata di sfuggita e in determinate circostanze persino ignorata, secondoquanto risulta fra l’altro nel Los Angeles Museum of the Holocaust.

Anche il montaggio dei singoli episodi puo differire da percorso a percor-so. Emblematico in tal senso e il museo di Washington. L’elemento caratteriz-zante – e veramente unico nell’intera classe – consiste nella presenza degli Sta-

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ti Uniti, che si articola secondo un tema ad arco. Il percorso narrativo, infatti,letteralmente si apre e chiude nel segno della bandiera a stelle e strisce: letruppe alleate, dunque, al principio della visita liberano i campi di sterminioe ne testimoniano l’esistenza grazie ai loro reportage; al termine si ergono agaranti della liberta e del progressivo ritorno degli Ebrei ad un’esistenza nor-male, in Israele oppure negli Stati Uniti stessi.

Originale risulta poi il grado di sensibilita mostrato verso le altre minoran-ze coinvolte nello sterminio nazista, dai Rom e Sinti ai Testimoni di Jeovah, gliomosessuali, i dissenzienti politici e i disabili di varia natura. Yad Vashem ri-serva dunque una vetrina ai Rom e ai Sinti, una sezione ai disabili fisici e men-tali. Piu oltre si spinge il Los Angeles Museum of the Holocaust, al cui internosi contano piu spazi centrati sui diversi «nazi targets»: non a caso, dunque,l’esposizione include un modello del castello di Hartheim, uno dei principalisiti della Aktion 4, il programma di eutanasia attuato dai nazisti appunto perlo sterminio dei disabili fisici e mentali. Ancora piu singolare e l’indirizzo scel-to nel Museum of Tolerance di Los Angeles, o Beit hashoah, inaugurato comesi e gia esposto nel 1993.30 Pochi istituti possono vantare un legame altrettan-to solido con la tradizione ebraica e con i sei milioni di vittime dell’Olocausto:alla sua radice vi sono infatti la biblioteca e l’archivio del Simon WiesenthalCenter, il centro di ricerca messo in piedi dal piu accreditato ‘cacciatore’ dicriminali nazisti. Nelle intenzioni di Wiesenthal l’esperienza della Shoah,ancor piu che strumento per rivendicare la specificita della sofferenza ebrai-ca, diviene un monito per intervenire concretamente sull’oggi e sul domanie cosı lanciare alle vecchie e nuove generazioni un messaggio di pacificazione,rispetto e convivenza civile. Si spiega in questo modo l’ampio spazio nel per-corso di visita devoto non soltanto a ‘bersagli nazisti’ diversi dagli Ebrei, maanche la proiezione nei conflitti etnici e religiosi del presente, dal Rwanda allaCambogia, fino alle bande metropolitane di Los Angeles e di Detroit. Su cri-teri molto simili dovrebbe impostarsi il Museo della Shoah di Roma. Secondole intenzioni di Luca Zevi, responsabile del progetto architettonico insieme aGiorgio Tamburini, l’istituto dovrebbe porgersi come un luogo per ricordarel’orrore passato, ma al tempo medesimo per stabilire un fruttuoso dialogo conil futuro: «[...] un luogo che riscatti anche le ingiustizie inflitte ai portatoridi handicap, ai gay, al popolo armeno. E che spezzi la morsa delle intolle-ranze».31

30 Beit hashoah: Museum of Tolerance. Simon Wiesenthal center, Los Angeles, 1993.31 PIERO MELATI, Museo della Shoah, una casa contro l’intolleranza, «La Repubblica. Il Vener-

dı», 29 luglio 2011.

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E mio padre, in modo molto amaro e ironico: «No, e un museo per il genere uma-no». Chiesi ancora cosa volesse dire, e lui rispose: «E un museo consacrato a quello chegli uomini sono capaci di fare». E non aggiunse altro.

In Israele i musei della Shoah, come si e osservato eretti a valle della Di-chiarazione d’Indipendenza del 14 maggio 1948, oltre a rispondere a un’effet-tiva urgenza di natura etica obbediscono a una chiara istanza politica: in par-ticolare, essi sorgono in rapporto alla costituzione dell’identita nazionaleisraeliana, un progetto di rimarchevole ampiezza e complessita intrapreso an-cor prima del 1948 da David Ben Gurion e dagli altri ‘padri della patria’.32 Intale contesto servono in primo luogo a integrare i sopravvissuti alla Shoah nel-la nuova dimensione israeliana. Fino al 1948 costoro, dopo avere affrontato ladiscriminazione, i ghetti e i campi, avevano dovuto infatti superare gli ostacoliposti dall’embargo britannico e in particolare dalla sua politica basata sul Mac-Donald White Paper, volta in sostanza a impedirne o quanto meno a regolarneil flusso. Gli arrivi, fra il 1940 e il 1947 pari a circa ventiquattromila unita, sierano naturalmente impennati non appena raggiunta l’indipendenza: nel solo1948 si registrano infatti ventiduemila immigrazioni. Israele si trova dunquenella necessita di fornire una dimensione di accoglienza a un gruppo demo-grafico in rapida crescita e di difficile assimilazione. Al di la della comune ra-dice religiosa e culturale ebraica, i profughi affrontano una realta aliena allapropria. Non soltanto sono proiettati in un clima arido, caldo e semi-deserticoe in contesti di vita e di lavoro per lo piu agricoli o semi-rurali, ma debbonoanche familiarizzare il piu in fretta possibile con lo strumento basilare di co-municazione, l’ebraico moderno, una lingua diversa non solo da qualunquealtra del continente, ma anche dallo yiddish e perfino dall’ebraico biblico.Tutto cio contribuisce a creare una distanza con il tessuto sociale preesistente,formato in massima parte dai coloni ebrei che si erano insediati in Palestinasull’onda del movimento sionista, fondato da Theodor Herzl nel 1897 e par-ticolarmente attivo negli anni venti e trenta del Novecento. Forgiati dal lavorodella terra, almeno in apparenza scevri da complessi di natura intellettuale eresi orgogliosi dalla raggiunta autonomia ai danni del nemico britannico, que-sti coloni si considerano l’elite del paese e percio guardano con un misto di

32 TOM SEGEV, Le septi

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curiosita e sospetto i nuovi venuti dall’Europa, non di rado affetti da profondeferite psicologiche. Queste ed altre situazioni analoghe stavano creando alloscadere del quinto decennio un solco profondo e potenzialmente assai perico-loso tra i due gruppi. Il Museo, in quanto macchina della memoria collettivaper antonomasia, offre ai sopravvissuti alla Shoah un luogo per elaborare ladimensione del lutto e nello stesso tempo un pieno riconoscimento pubblicoe istituzionale, concorrendo cosı a smussare e appianare le differenze fra leparti.

I tre musei della Shoah in Israele contribuiscono poi a legittimare storica-mente il ritorno degli Ebrei in Palestina e la fondazione di uno Stato proprio.Una volta di piu, la chiave di lettura e il rapporto con gli Arabi. Com’e noto,la presenza ebraica – volendo qui ridurre a sintesi una vicenda di rimarchevolecomplessita – era stata posta in discussione dagli Arabi fin dai primi insediamentisionisti. Ed ancora su questa linea, le popolazioni arabe avevano mosso un attac-co contro le ebraiche all’indomani della decisione delle Nazioni Unite del 29 no-vembre 1947 di costituire nella regione due stati, l’ebraico e l’arabo, appunto. Larisposta dei responsabili delle istituzioni museali israeliane consiste nell’inserirela Shoah in una prospettiva storica di lungo periodo, che ha il suo punto piu lon-tano proprio nell’insediamento originario ebraico in Palestina e un momento difondamentale rottura nella Diaspora, ovvero nella cacciata degli Ebrei sotto l’im-peratore Tito. Essi recepiscono un’istanza chiave del nuovo Stato ebraico. Cosırecitano infatti i primi paragrafi della Dichiarazione d’Indipendenza, letta il 14maggio 1948 nell’allora Museo d’Arte di Tel Aviv da David Ben Gurion:

Eretz Israel [La terra d’Israele] fu il luogo d’origine del popolo ebraico. Qui siformo la sua identita spirituale, religiosa e politica. Qui per la prima volta esso e di-venuto nazione, ha creato valori culturali di significato nazionale e universale, qui die-de al mondo l’eterno Libro dei Libri.

La catastrofe che ha recentemente colpito il popolo ebraico – il massacro di mi-lioni di Ebrei in Europa – e stata un’altra chiara dimostrazione dell’urgenza di risol-vere il problema della sua mancanza di una patria attraverso il ristabilimento nella ter-ra di Israele di uno Stato ebraico, che aprira la sua porta a qualunque ebreo e checonferira al popolo ebraico lo status di membro a pieno diritto della comunita dellenazioni [...].

I sopravvissuti all’Olocausto nazista in Europa, come del resto gli Ebrei di ogniparte del mondo, hanno continuato a migrare nella terra d’Israele, nonostante le dif-ficolta, i pericoli e le restrizioni; costoro non hanno mai cessato di asserire il propriodiritto a una vita dignitosa, libera e onesta nella loro patria nazionale.33

33 Per la versione ufficiale in inglese, a cura del Governo israeliano si veda: http://www.mfa.-

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Il cerchio si chiude nel 1978, con la costruzione nel campus dell’Universitadi Tel Aviv di Beit Hatfutsot, il Museo del Popolo Ebraico, gia noto comeMuseo della Diaspora. Qui la Shoah viene reinserita e rielaborata entro unpercorso che dalla distruzione del Tempio giunge attraverso meccanismi evie multiformi fino al ritorno degli Ebrei in Palestina e alla costituzione delnuovo Stato. In tale chiave Beit Hatfutsot e Yad Vashem possono leggersiin simbiosi, come due modi di interpretare la medesima storia. L’uno lo fapartendo dalle fasi piu antiche del popolo ebraico alle moderne; l’altro dallemoderne alle piu antiche. Volendo utilizzare il paragone della Storia umanacome una freccia, Beit Hatfutsot procede da sinistra verso destra, Yad Vas-hem da destra verso sinistra.

I musei della Shoah servono infine ad accreditare e a definire l’immaginedi Israele sul piano militare. La guerra, d’altro canto, e una realta con cui gliEbrei della Palestina debbono fare i conti ancor prima di costituirsi come Sta-to autonomo e indipendente. La strada stessa della Dichiarazione del 1948 elastricata da una serie ininterrotta di sabotaggi, assalti e aggressioni, indirizzativuoi alle comunita arabe e beduine, vuoi con intensita e frequenza superioriall’esercito regolare britannico, avvertito dalla comunita ebraica, appunto, co-me una forza occupante ed imperialista. Di qui la costituzione di bande e cor-pi armati di varia natura, incluse la Banda Stern e l’Haganah, letteralmente Di-fesa: giusto dall’Haganah, particolarmente attiva ed efficace nell’intero arcocompreso dal 1920 e il 1948, hanno origine le forze armate israeliane. La sen-sibilita verso la guerra procede senza effettiva interruzione di continuita neidecenni successivi, dal primo conflitto ufficiale arabo-israeliano del 1948-1949, noto in Israele come Guerra d’Indipendenza, alla Guerra del Sinaidel 1956 fino a quella dei Sei Giorni del 1967, per tacere naturalmente di sca-ramucce e scontri minori. Del resto, dal 1948 in avanti i nemici rimangono piuo meno sempre i medesimi: la Siria e talora il Libano a nord; la Trans-Gior-dania o Giordania e l’Iraq ad est; infine, l’Egitto a sud, sud-ovest. Bene: la di-mensione della guerra trova nei musei della Shoah d’Israele una risposta, unsostegno concreto. Lo scopo e raggiunto attraverso il largo spazio che vieneconcesso all’interno dei loro percorsi agli eroi dell’Olocausto, ovvero a quegliEbrei che nel corso del secondo conflitto mondiale anziche arrendersi ai na-zisti ed ai loro fiancheggiatori avevano preferito ribellarsi, imbracciare le armie dare battaglia. Un ruolo chiave giocano in tal senso i protagonisti della resi-stenza ebraica e in particolare della rivolta del Ghetto di Varsavia. La vicenda

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e ben nota. Il 14 aprile del 1943 un manipolo di Ebrei, guidati da MordecaiAnelewicz e del quale faceva parte, tra gli altri, Itzhak Katnelson, si ribello alletruppe naziste e per quanto mal armato e nutrito le tenne in scacco per diversesettimane, infliggendo loro perdite molto gravi. Che alla fine il manipolo ve-nisse annientato e che lo stesso Anelewicz dopo una strenua resistenza nelbunker MILA 18 fosse costretto a suicidarsi, pur di non cadere in mano alnemico, non ha in fondo molto rilievo. L’episodio servı comunque a intaccarela fama della macchina da guerra nazista, tanto da assurgere al valore di unanuova Masada, ovvero al paradigma del coraggio del popolo ebraico dinanzialla tirannia dell’oppressore. Non a caso, a pochi mesi dal termine della guerral’artista polacco ed ebreo Nathan Rapoport ne fornı una celeberrima interpre-tazione scultorea in Rivolta, un monumentale rilievo in bronzo campeggiantenel Memoriale degli Ebrei del Ghetto, a Varsavia. Il senso dell’operazione emolto chiaro. Porre l’accento sulla resistenza ebraica equivale a trasmettereche il popolo d’Israele si opporra con fierezza a qualsiasi attacco. Accaddea Masada; e accaduto a Varsavia; accadra di nuovo, ogni volta che gli Ebreidovranno lottare fino all’ultimo uomo.

Questo spirito e alla base dello Itzhak Katnelson Holocaust and JewishResistance Heritage Museum. Gia il nome rimanda a uno degli eroi della ri-volta di Varsavia, il menzionato Itzhak Katnelson, e piu in generale all’interomovimento della resistenza ebraica. Il museo, d’altro canto, viene realizzatoall’interno del kibbutz Beit Lohamei Hagetaot, letteralmente Casa dei Com-battenti del Ghetto, fondato tre anni prima, nel 1946, da un gruppo di ex par-tigiani. Lungo la stessa falsariga si orienta il percorso del museo. Basti pensareal ruolo delle opere di Alexander Bogen, tra i fondatori della ‘Casa’. Bogen,34

originario di Dorpt, in Lituania, dal 1936 si era spostato in Estonia per studia-re pittura presso l’Accademia di Vilna. Qui nel 1940 era stato imprigionato erinchiuso nel ghetto. L’artista, noto per il suo carattere fiero e intraprendente,nel giro di qualche mese era tuttavia riuscito a evadere e dallo stesso 1940 ave-va vissuto come clandestino e membro della resistenza nelle foreste che cir-condano la citta. Nel 1943 Bogen era divenuto capo di Vendetta, o Nekama,una brigata ebraica di partigiani il cui obiettivo principale consisteva nel libe-rare altri compagni dal ghetto e, come tale, responsabile di una serie di azioniad alto rischio contro le forze naziste. Lungo tutto l’arco della guerra, si tro-

34 Cfr. ALEXANDER BOGEN, Revolt: Hamered, catalogo della mostra (Gerusalemme, 1984), Ge-rusalemme, 1974; ID., And I never put my pencil down, in With proud bearing, 1939-1945: Chaptersin the history of Jewish fighting in the Naroch Forests, a cura di M. Kalcheim, Tel Aviv, 1991; SORIN

HELLER, Bogen as a shaper of cultural memory, in Alexander Bogen. Drawings for poems in Yiddish,catalogo della mostra (Haifa, 2002), a cura di S. Heller, Haifa, 2003.

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vasse in prigionia oppure in clandestinita, Bogen aveva continuato a disegnaresenza interruzione.

Da partigiano – ricordera Bogen a guerra finita – mentre mi recavo in missionerealizzavo schizzi di qualunque cosa, non importa se fossi piegato sull’arma oppuresdraiato in attesa di cogliere i nemici in un’imboscata. Disegnavo il bosco, i miei com-pagni e alle volte persino la battaglia stessa. Non vi erano il tavolo, ne carta, ne matitecolorate. Avevo trovato della carta da pacchi; con alcuni stecchi di legno preparai delcarboncino per realizzare degli schizzi. [...] Inoltre collezionavo pezzi di carta per di-segnarvi sopra. [...] Ogni uomo quando si trova faccia a faccia con un pericolo cru-dele, con la morte, reagisce a suo modo. L’artista reagisce in un modo artistico. Que-sta e la sua arma. Questo dimostra anche che i tedeschi non potevano distruggere ilsuo spirito.35

Questo genere di produzione e alla base del cosiddetto Diario d’artista,per la maggior parte conservato ed esposto proprio nello Yitzak Katnelson.Non solo. Fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2010, Bogen pur ispirandosiad altri temi continuera a realizzare opere dedicate alla resistenza ebraica de-stinate alla ‘Casa’, come dimostra fra l’altro la xilografia dal titolo Partigiani(Fig. 42).

L’esaltazione degli eroi caratterizza poi Yad Vashem, in obbedienza a unadelle missioni enunciate dalla legge costitutiva del 1953, come gia ricordato.Cosı va letto l’ampliamento condotto all’inizio degli anni sessanta della piazzaintitolata ai combattenti del Ghetto di Varsavia e al contestuale montaggio sulmuro di fondo di repliche in bronzo a grandezza naturale di Rivolta ed Esilio,i due bassorilievi eseguiti da Rapoport per il gia citato Memoriale di Varsavia.Cosı il Pilastro dell’eroismo, concepito nel 1967 da Buky Schwartz. Il Pilastro,ben visibile anche dal viale d’accesso al museo, reca alla base l’iscrizione:

In memoria di quanti si ribellarono nei campi e nei ghetti, combatterono nelleforeste, nella Resistenza e nelle forze degli Alleati; che affrontarono un cammino co-raggioso verso la terra d’Israele; e morirono santificando il nome di Dio. Oggi e persempre.

Cosı il Memoriale dei Soldati e Partigiani Ebrei, realizzato da Bernie Finknel 1985 e dedicato appunto al milione e mezzo di ebrei che in vario modo eforma avevano combattuto nel conflitto (Fig. 43). Cosı, per porre termine aquesta breve rassegna, l’intera zona del percorso museale dedicata al milionee mezzo di Ebrei che fecero parte della milizia o della resistenza ebraica, il

35 A. BOGEN 1991, op. cit., p. 35.

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cosiddetto Partisan’s Panorama. Dal 2003 il Panorama reca al centro la scul-tura in ferro dell’artista israeliano Zadook Ben-David, dal titolo For the Treeof the Field is Man’s Life. Alta sei metri, essa raffigura appunto un albero, do-ve ogni elemento, tronco, rami e foglie, ha un profilo antropomorfo.

In termini ancora piu concreti parla lo Holocaust Museum nel kibbutzYad Mordecai. Il museo ripropone la stessa esaltazione degli eroi della resi-stenza ebraica e in particolare della rivolta del Ghetto di Varsavia. Il nucleocentrale del percorso consiste infatti in una sorta di spettacolo multimedialevolto a riprodurre le fasi salienti della battaglia. Grazie all’accorta regia di Da-vid Gafni lo spettatore compie un viaggio nel tempo e nello spazio, ritrovan-dosi nella primavera del 1943 all’interno del bunker MILA 18: suoni e luciriproducono l’esplodere delle case, il fragore dei combattimenti, la grida deiferiti e il pianto dei bambini, il rombo dei cannoni e il crepitio delle mitraglie-re. Anche qui in realta nulla di anomalo. Il museo sorge infatti in un kibbutzlegato a doppio filo con Mordecai Anelewicz. La sua fondazione si deve all’i-niziativa della Nuova Guardia, o Hashomer Hatzair, una particolare frangiadel movimento sionista internazionale connotata da una declinazione agricola,collettivista e marxista, della quale faceva appunto parte anche il giovanissimoAnelewicz. Nell’autunno del 1943, trascorse poche settimane dalla battagliadel Ghetto di Varsavia, la comunita era stata trasferita nel sito attuale e ride-dicata giusto ad Anelwicz, in onore della sua duplice veste di esponente dispicco della Hashomer Hatzair e di padre della resistenza ebraica. Vi e tuttaviaanche dell’altro. Nel museo di Yad Mordecai, infatti, il collegamento fra pas-sato e presente – ovvero l’esaltazione del coraggio dei partigiani ebrei dellaSeconda Guerra Mondiale quale presupposto della potenza militare dell’eser-cito israeliano – trova uno sbocco concreto nell’oggi, fino a indirizzarsi control’esercito egiziano. Ancora una volta e il contesto a suggerirlo con estremapuntualita. Per via di un episodio storico preciso e estremamente celebre,l’immaginario collettivo israeliano considera infatti Yad Mordecai un baluar-do contro questo nemico. Nel 1948 il kibbutz era divenuto teatro di un’aspracontesa fra le truppe egiziane e le israeliane. Le une erano riuscite a prenderlonella primavera, distruggendone pressoche ogni edificio: soltanto la torre del-l’acqua, per quanto crivellata di colpi, era rimasta in piedi in cima alla collina.Nell’autunno dello stesso 1948 gli Israeliani avevano pero riconquistato il luo-go in via definitiva, dando inizio alla sua completa ricostruzione. A futura me-moria i coloni avevano lasciato alcuni ricordi dello scontro, a mo’ di reliquie:la piu significativa era stata proprio la torre dell’acqua, con in bella mostra leferite inferte dagli Egiziani. Questa sequenza di eventi aveva conferito natural-mente al luogo una carica straordinaria. Tre anni dopo, nel 1951, proprio di-nanzi alla collina e alla torre Nathan Rapoport aveva collocato una statua in

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bronzo a grandezza superiore al naturale raffigurante Anelewicz che lanciauna granata in direzione del nemico (Fig. 44). Si badi: un Mordecai Anelewiczvestito da colono israeliano, anziche da membro della resistenza polacca. Ne-gli anni successivi il kibbutz, divenuto sempre piu prospero grazie all’alleva-mento delle api, aveva fornito alle forze armate un numero di giovani ufficialinettamente superiore alla media del paese. A fugare ogni dubbio sulla valenzadel museo e la sua data di fondazione: come si ricordera, esso sorge all’indo-mani della Guerra dei Sei Giorni, che segna il trionfo delle armate d’Israele e,piu in generale, lo zenith di quel particolare indirizzo politico volto al control-lo militare sull’intera regione mediorientale.

Nel corso del tempo i musei della Shoah in terra d’Israele si sintonizzanocosı da offrire nuovi e moderni contributi alla formazione dell’identita nazio-nale, dando prova di una singolare flessibilita al mutare delle esigenze. Esem-plare quanto accade nei primi anni sessanta del Novecento, nel clima creatosisulla scia del processo ad Adolf Eichmann. Com’e noto, Eichmann, in quantoregista della Soluzione Finale, fin da subito era stato individuato come uno deiprincipali responsabili della Shoah. Ricercato in tutto il mondo, era stato pro-tagonista di una fuga rocambolesca, fino al suo riconoscimento in Argentina:catturato dagli agenti del Mossad e trasferito di forza a Gerusalemme, era sta-to sottoposto a un processo pubblico, conclusosi con la sentenza di morte perimpiccagione, puntualmente eseguita. A sconvolgere l’opinione pubblica, su-scitando una vasta riflessione, era stata soprattutto la linea difensiva di Eich-mann: «Non ho nessuna colpa. Stavo solo obbedendo agli ordini. Ordini cheperaltro nessuno poteva disattendere, pena la morte immediata. Io, come delresto tutti i miei colleghi». Ecco la strategia, ridotta al nocciolo: lo stesso cir-colo vizioso destinato peraltro ad essere percorso, di nuovo e ancora, da ognicriminale nazista nelle medesime condizioni, si tratti di Herbert Kappler o diErich Priebke. A questo sostanziale scarico di responsabilita Israele rispondecon i Giusti fra le Nazioni, un progetto ideato fin dal 1942, ovvero a guerra incorso, e inserito nei mandati principali di Yad Vashem nel 1953, ma cui soloadesso viene dato sviluppo concreto. Il riconoscimento di Giusto, la sola ono-rificenza civile concessa da Israele, intende rendere omaggio – come si e inqualche misura premesso – a quei non Ebrei che durante il secondo conflittomondiale senza alcun tornaconto avevano posto a repentaglio la propria vitapur di salvare anche un solo ebreo. Il 1º maggio 1962 viene cosı istituita lacommissione apposita e in contemporanea sono inaugurati all’interno del per-corso museale di Yad Vashem il viale ed il giardino dei Giusti: il giardino, de-stinato a crescere con il tempo fino a diventare una piccola foresta, e formatoda alberi sempreverdi, ciascuno dei quali reca appu

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come illustra la nota fotografia che ritrae Oskar Schindler intento a scavare larelativa buca. «Aiutare era invece possibile, in qualsiasi condizione»: ecco, an-che qui ridotta a una sigla, la risposta formulata da Israele attraverso il suoprincipale museo della Shoah, Yad Vashem appunto, alla pericolosa asserzio-ne di Eichmann. Si apre cosı la via a un processo di rielaborazione ufficiale,volto da un lato a proiettare la memoria della Shoah da un piano storico aduno etico, nei termini dell’educazione alla cittadinanza; dall’altro a crearegli strumenti adatti a condividerla con altri paesi. Se infatti la responsabilitae strettamente individuale, condannare una nazione nella sua globalita nonha piu senso, qualora l’avesse mai avuto. Ogni nazione puo infatti trovareun riscatto morale attraverso i propri Giusti. In contemporanea con l’aperturadelle prime grandi strutture museali e in particolare della Sala della Rimem-branza, Yad Vashem – e Israele con esso – diviene cosı la tappa preliminaree imprescindibile della diplomazia internazionale. Oggi come allora, un rigidocerimoniale obbliga qualsiasi dignitario straniero che visiti Israele nel crismadell’ufficialita a recarsi in prima istanza a Yad Vashem per tributarvi l’omag-gio alla Fiamma Eterna. Da questo momento il protocollo rappresenta l’impe-gno concreto di ciascun individuo – tanto piu importante laddove tale indivi-duo svolge compiti di governo – a non commettere piu gli errori di un tempo.

Fuori dallo Stato ebraico le cose procedono su binari sostanzialmente di-versi. In Europa e negli Stati Uniti il paradigma di museo della Shoah stabilitoe messo a punto in Israele e ripreso soltanto dopo il 1989. Anche in questocaso i motivi risiedono nella politica, in particolare nel riassetto degli equilibricomplessivi in seguito al crollo del Muro di Berlino. Certo, nel 1945-1946 ilpopolo statunitense, dopo aver scoperto i campi, si era reso interprete diun autentico sentimento collettivo di «rabbia, disgusto, colpevolezza e aliena-zione», lo stesso fatto proprio da Dwight D. Eisenhower, a suo tempo coman-dante in capo delle truppe alleate.36 Era questa l’aria che si respirava ai pro-cessi di Norimberga, che avevano portato alla condanna di oltre trentunomilacriminali nazisti, inclusi molti gerarchi vicini a Hitler. Tuttavia lo spirito diNorimberga si era ben presto spento. Gia alla fine degli anni quaranta laShoah era stata costretta nel dimenticatoio. Nel volgere di questi pochi mesila Repubblica Federale Tedesca da paese alla sbarra era divenuta un elementochiave dello scacchiere NATO, in contrapposizione al blocco sovietico e alPatto di Varsavia. In tale ottica anche semplicemente menzionare la Shoahequivaleva a mettere in scacco o comunque in forte imbarazzo un alleato stra-

36 Cfr. ROBERT H. ABZUG, Inside the vicious heart. Americans and the liberation of nazi concen-tration camps, Oxford, 1985; E.T. LINENTHAL 2012, op. cit., p. 5.

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tegico, peraltro senza ottenere un adeguato tornaconto. Cio fra l’altro spiegacome mai la Germania solo con grave ritardo prendesse coscienza dei proprierrori e soprattutto del suo profondo legame con il Nazismo. Un meccanismodi rimozione collettiva, questo, che sovente fece rima con un’iniqua tenerezzagiudiziaria verso gli aguzzini di un tempo. Assai meglio delle pur numeroseinchieste su esecrabili episodi di connivenza, il sentimento generale d’impuni-ta trovo espressione in Elie Wiesel, secondo quanto emerge in un brano delmanoscritto originale che fu intenzionalmente escluso dalla prima edizionefrancese di Notte:

E adesso, trascorsi a malapena dieci anni da Buchenwald, mi accorgo che il mon-do dimentica in fretta. Oggi la Germania e uno Stato sovrano. L’esercito tedesco estato resuscitato. Ad Ilse Koch, che notoriamente fu il mostro di Buchenwald, e statoconsentito di avere figli e di vivere felicemente da allora... Criminali di guerra scorraz-zano per le strade di Amburgo come di Monaco. Il passato sembra essere stato can-cellato, costretto all’oblio.37

Le cose erano iniziate a cambiare nei primi anni sessanta. Un primo squil-lo di tromba era giunto dal citato processo ad Eichmann.38 Intorno al proces-so ruoto il pensiero di Hannah Arendt, destinato a divenire ben presto in Eu-ropa e negli Stati Uniti, assai piu che Israele, un punto di riferimentoessenziale per ogni riflessione sul tema inerente all’etica. Soprattutto, in palesecontrasto con i tribunali di Norimberga, l’intera questione aveva avuto un for-te impatto mediatico. Sul banco dei testimoni erano saliti oltre cento soprav-vissuti: la loro parola era rimbalzata in tutto il mondo, grazie alle cronache deiquotidiani, alle trasmissioni via etere e alla pubblicazione degli atti. Si era trat-tata di

una forza galvanizzatrice, che porto gli [Ebrei d’America] faccia a faccia con emozio-ni fino allora represse, con eventi il cui scopo complessivo e i cui effetti d’insieme era-no stati tenuti segreti, a rimuginare, sotto la superficie della coscienza.39

Un secondo momento chiave, stavolta di rottura, aveva avuto luogo nelbiennio 1967-1968. Da soli, la distruzione dello Stato ebraico e il nuovo Olo-causto auspicati dal presidente egiziano Nasser avevano sollevato negli StatiUniti e in una parte d’Europa un’ondata di autentica indignazione. Israele,dal suo canto, grazie soprattutto alla piena vittoria nella Guerra dei Sei Giorni

37 ELIE WIESEL, Night, Londra, 2006, p. XII.38 T. SEGEV 1993, op. cit., p. 272.39 E.T. LINENTHAL 2012, op. cit., p. 9.

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si era rivelata a un occhio occidentale e ancor piu statunitense affidabile siapoliticamente che militarmente, anche in virtu del carisma di generali comeMoshe Dayan o Ariel Sharon. Ne era venuto fuori il rovesciamento degli equi-libri strategici nell’intera regione mediorientale. Da un lato, in Unione Sovie-tica il favore mostrato verso gli esperimenti di matrice socialista, comunista opiu genericamente anarcoide-collettivista – che pure avevano caratterizzato iprimi due decenni di vita della nazione ebraica, fino a creare ad esempio ilmito del kibbutz – veniva messo da parte per schierarsi con decisione a favoredella causa araba. Dall’altro, negli Stati Uniti e nei partiti di destra di un con-gruo numero di stati occidentali si registrava l’ascesa progressiva delle simpa-tie filo-israeliane. Nel 1968, al culmine della contestazione studentesca controla Guerra del Vietnam, alcune universita statunitensi avevano attivato corsisulla Shoah, individuata come il rasoio fra il Bene e il Male, su cosa in guerrafosse giusto combattere e cosa no. Una terza fase del cambiamento era cadutainfine nel 1977-1979. La crisi petrolifera, la rivoluzione islamica in Iran e ilconseguente, rinnovato interesse verso lo scacchiere mediorientale avevanoportato con se un’ulteriore ridefinizione dei rapporti. Erano stati gli annidei trattati di pace siglati a Camp David fra Israele e l’Egitto, che dopo unalunga parabola di fuoco avevano per la prima volta incrinato la compattezzadel fronte arabo ostile all’esistenza stessa dello Stato ebraico. Ed erano nelcontempo stati gli anni della serie televisiva Olocausto, che sebbene annuncia-ta da polemiche di varia natura, aveva ottenuto un formidabile successo po-polare, grazie a centoventi milioni di audience soltanto negli Stati Uniti. Nelnuovo clima il presidente Jimmy Carter, come si ricordera, aveva formatouna commissione governativa che aveva fra i suoi obiettivi promuovere unGiorno della Memoria, lo Holocaust Remembrance Day – in effetti approvatodal Congresso gia nel 1980 – e decidere se, dove e come costruire un memo-riale per le vittime. Questo complesso di fattori, pur cosı sommariamente ab-bozzati, spiega il progressivo emergere nei vent’anni successivi al 1967 di ini-ziative volte a ricordare e a promuovere la conoscenza della Shoah. Nel 1987nei soli Stati Uniti si contavano oltre cento fra memoriali, archivi, bibliotechee centri di ricerca e documentazione.40

A questo stadio la memoria della Shoah aveva senza dubbio subito unprocesso di irrobustimento. Per renderla collettiva attraverso il Museo biso-gna pero attendere il crollo del Muro di Berlino, nel novembre del 1989. Intale diverso contesto la Germania, ossia il frutto della riunificazione tra la Re-pubblica Federale a ovest e la Repubblica Democratica ad est, perde il suo

40 JUDITH MILLER, One, by One, by One: facing the Holocaust, New York, 1990.

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compito di baluardo strategico contro il nemico rosso e contestualmente iniziaa configurarsi nelle vesti di ‘locomotiva d’Europa’, ovvero di un reale antago-nista economico degli Stati Uniti. Ecco finalmente le condizioni giuste per ini-ziare a parlare della Shoah, per riprendere dopo mezzo secolo un discorso la-sciato interrotto. Nel caso della Germania non soltanto si puo, ma addiritturadiviene necessario discutere, scrivere e appunto costruire musei della Shoah.Perche il futuro della nazione passa ora attraverso la resa dei conti con i fan-tasmi di ieri e di oggi. Perche affrontando il tema in modo serio, senza le ‘te-nerezze giudiziarie’, gli episodi di connivenza con i gerarchi e al tempo stessocombattendo il risorgere di gruppi neonazisti, la nuova Germania s’impegna achiudere una volta per tutte con il passato. I musei progettati a Berlino daEisenman e da Libeskind non rappresentano dunque «l’ennesimo dazio dapagare agli Ebrei e a Israele», come riportano alcune vulgate di estrema destrao di estrema sinistra, dando cosı prova di una formidabile ingenuita politica.Tali musei rappresentano piuttosto il sigillo di garanzia di un avvenuto proces-so di democratizzazione, della presa di coscienza di un’intera nazione. Essi co-municano a tutti – in primo luogo ovviamente ai Tedeschi stessi – che il Paesenon ripetera mai piu gli errori di un tempo, tanto meno si fara tentare dai ri-gurgiti di una destra xenofoba e antisemita. Per questo motivo entrambi i mu-sei vengono costruiti nella rinata capitale, Berlino appunto. E per questo ilmuseo di Eisenman porta la dedica agli «Ebrei assassinati» (fur die ermordetenJuden), anziche agli «Ebrei morti» o agli «Ebrei» tout court; sorge a poca di-stanza dalla porta di Brandeburgo e dall’originario percorso del Muro; infine,e concepito quale fattore integrante ma anche condizionante degli edifici nuo-vi o completamente rinnovati del Bundestag e del Reichstag, trasparenti comeil vetro. Una simile presa di coscienza delle proprie responsabilita storichenon sarebbe completa in mancanza di almeno un garante strategico. Ebbene,chi potrebbe interpretare il ruolo, se non gli Stati Uniti? Il passaggio non eaffatto scontato. Appena due anni prima, nel 1987 – quando il Muro, perquanto eroso, non aveva ancora ceduto – gli Stati Uniti si erano resi protago-nisti di un clamoroso strappo diplomatico: il Governo a stelle e strisce avevainfatti escluso ufficialmente la Germania dal novero delle nazioni consideratedegne di offrire il proprio supporto finanziario nella costruzione dello UnitedStates Holocaust Museum and Memorial. L’onta della maglia nera era toccataad una sola altra nazione: l’Unione Sovietica, formalmente ancora comuni-sta.41 Trascorsi appena due anni lo strappo e ricucito: sono infatti propriogli Stati Uniti, gli eredi di George Washington, Thomas Jefferson e Abraham

41 P. DOGLIANI 2001, op. cit., p. 173.

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ta di un paese che per tradizione fuori dall’Europa si rese interprete di unapolitica aggressiva, espansionista e apertamente razzista, causa di massacri edi veri e propri genocidi. Ma perche fu capace di elaborare prima e megliodelle altre concorrenti un modello di dominazione estremamente efficace, so-prattutto in termini economici. Un modello che, non a caso, negli anni trentadel ventesimo secolo gli ideologi dell’antisemitismo tedesco continuavanoa guardare con ammirazione, tanto da sentirsene i legittimi eredi. «A noi[nazisti] pare evidente che anche l’Impero Britannico sia fondato su un crite-rio di dominanza su base razziale», affermava per esempio nel 1936 AlfredRosenberg.43 Cinque anni piu tardi, nel 1941, Adolf Hitler, euforico per ilbrillante andamento delle fasi iniziali dell’Operazione Barbarossa, confessavaa Martin Borman: «Quello che l’India e stata per l’Inghilterra saranno per noii territori della Russia [...]. L’Europa non e un’entita geografica, ma un’entitarazziale».44

Ecco dunque spiegato perche il Governo di Sua Maesta decide di aprireuna grande e costosa esposizione permanente sul tema dell’Olocausto proprionell’Imperial War Museum di Londra. E questo infatti il museo che, posto alcentro del quartiere di Lambeth, a poche centinaia di metri in linea d’aria daWestminster, fin dalla sua nascita era stato concepito come luogo principe dicustodia e trasmissione delle memorie militari del paese e insieme ad esse dellasua potenza, dei suoi traguardi: potenza, traguardi che si erano poggiati in lar-ga parte sulla ricchezza generata dalle colonie. Attraverso la Shoah, il piu cru-dele e il meglio organizzato dei genocidi operati in base al criterio di ‘razza’,l’Inghilterra multietnica del suo leader del tempo, Tony Blair, vuole comuni-care a tutti – e anche qui ovviamente in primo luogo a se stessa – di avere ab-bandonato le politiche espansioniste e l’ideologia che ne aveva rappresentatoil brodo di cultura.

Nel settembre 1982 il Primo Ministro inglese Margaret Thatcher nel suoviaggio a Pechino negoziava il futuro di Hong Kong, l’estremo brandello di unimpero che poteva a suo tempo contare su oltre mezzo miliardo di anime. Dueanni piu tardi, nel 1984, venne siglato l’accordo: il 30 giugno 1997 HongKong sarebbe tornata nelle mani del Governo cinese, sotto forma di una re-gione amministrativa speciale. La cerimonia di riconsegna e stata spesso chia-mata «la fine dell’Impero».45 Guardando oltre le scelte di comodo, le contrad-

43 ALFRED ROSENBERG, Die rassische Bedingtrheit der Aussenpolitik, in Blut und Ehre: ein Kampffur deutsche Wiedergeburt, Monaco, 1936, p. 340.

44 Hitler’s table talk 1941-1944, Oxford, 1988, p. 23.45 JUDITH BROWN, The Twentieth Century, in The Oxford History of the Empire, 5 voll., Oxford,

New York, 1998-1999, IV, 1998, p. 594.

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dizioni e le ambiguita, la presa di coscienza dell’Inghilterra del New Labour siqualifica come un’azione istituzionale fra le piu solide nel doloroso processodi riconoscimento dei debiti del mondo occidentale nei confronti delle ex co-lonie. Un livello di coscienza che altre nazioni stentano a raggiungere. Lo di-mostra forse al meglio il caso dell’Italia che, ancor oggi in larga misura cloro-formizzata dal mito del ‘buon italiano’, degli ‘Italiani brava gente’, solo intempi recenti e con immensa, colpevole fatica inizia a fare i conti con le ope-razioni di stampo razzista attuate a cavallo fra Otto e Novecento nel Cornod’Africa come in Libia, in Etiopia come nell’impresa ‘internazionale’ dei Boxerin Cina: operazioni che rappresentarono la base di partenza della politica asua volta razzista e antisemita di Mussolini.46

Un quadro ancora differente si registra negli Stati Uniti. Qui un primoobiettivo dei musei consiste nel dare sfogo a un senso di colpa collettivo versogli Ebrei.47 A New York e a Washington ampio spazio viene dunque concessoad alcuni episodi che rappresentano dei punti oscuri, delle macchie nella con-dotta della nazione: cio vale per il mancato bombardamento dei campi di ster-minio da parte dell’aviazione alleata e ancor piu per il caso della Saint Louis, lanave passeggeri proveniente dall’Europa cui il Governo americano nel 1939nego il permesso di attracco, con l’effetto di condannare alla morte quasi tuttii novecentotrentasette ebrei imbarcati. Queste situazioni, comunque in nume-ro ristretto, vengono portate alla luce come ferite aperte, con un misto di ver-gogna e umiliazione. Eppure, proprio in quanto eccezionali servono anch’esseda rampa di lancio per promuovere altri valori della societa americana, stavol-ta di segno nettamente positivo. Il principale fra questi valori e l’opzione infavore di una societa multietnica, dove chiunque e in grado di costruirsi il pro-prio cammino con le proprie sole forze, indipendentemente dalla religione,dal sesso o dal colore della pelle. A New York questo valore – espresso chia-ramente dal percorso di visita – e sottolineato dalla decisione di ubicare il con-tenitore a Battery Park, la zona all’estrema punta meridionale di Manhattandove nel diciannovesimo secolo e nei primi decenni del ventesimo attraccava-no le navi passeggeri provenienti da tutto il mondo, Europa in testa. Si stabi-lisce in questo modo un filo conduttore con il mito della land of opportunitiese i simboli canonici dell’emigrazione, entrambi perfettamente visibili sullosfondo, la baia di New York, la statua della Liberta e, ormai nel New Jersey,

46 Sul tema si rinvia a DAVID BIDUSSA, Razzismo e antisemitismo in Italia: ontologia e fenome-nologia del bravo italiano, Roma, 1992; ID., Il mito del bravo italiano, Milano, 1994. Si vedano ancheANGELO DEL BOCA, La nostra Africa, Vicenza, 2003; ID., Italiani, brava gente? Un mito duro a morire,Vicenza, 2005.

47 Per l’analisi del rapporto della societa americana con la Shoah cfr. J. MILLER 1990, op. cit.

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il complesso di Ellis Island – dove peraltro esattamente nello stesso periodoviene fondato lo spettacolare centro sull’immigrazione e sulla civilta america-ne.48 Il cerchio si chiude con il rinvio al Liberty State Park, sempre sullo sfon-do, il cui fulcro monumentale e il gruppo bronzeo di Nathan Rapoport daltitolo Liberation, un soldato americano raffigurato nel salvare un sopravvissu-to ebreo dai campi di sterminio.49

Una diversa e ancor piu scoperta declinazione del medesimo tema puo co-gliersi al Museum of Tolerance di Los Angeles. La Shoah e in questo caso la stellapolare nella ricerca di una via d’uscita ad alcuni problemi tipici delle societa mul-tietniche. Martin Gilbert, lo studioso britannico di origine ebraica responsabiledella sezione storica, miscela dunque passato e presente, intrecciando il temadella Shoah con le guerre fra bande a sfondo razziale caratteristiche della LosAngeles moderna: la stessa citta, vale ricordare, che appena qualche mese prima,nell’aprile del 1992, era divenuta teatro di una spaventosa rivolta della minoran-za nera ai danni dei bianchi. Ora, proporsi nei primi anni novanta del ventesimosecolo come apostoli di una societa multietnica – anche a costo di aprire alcuneporte buie e dolorose della propria coscienza nazionale – significa spedire unmessaggio politico estremamente preciso. Uno dei tratti salienti della situazioneinternazionale di allora consiste infatti nel disfacimento progressivo di molte na-zioni gia nell’orbita comunista, da Jugoslavia, Polonia e Cecoslovacchia alla stes-sa Unione Sovietica. Un processo talora dai contraccolpi drammatici sul pianoumanitario, anche per via dei frequenti episodi di genocidio, tanto da richiederein determinati casi l’azione di truppe al comando dell’ONU e l’intervento del tri-bunale internazionale dell’Aja. Il massacro di Srebrenica, ad esempio, cade nelluglio 1995. Ricordare l’Olocausto, erigere musei dell’Olocausto mentre altrovesi eseguono pulizie etniche – vale a dire si e discriminati o uccisi solo in quanto siappartiene a una qualche etnia, si e qualcuno – diventa cosı strumento per pro-porre un modello civile democratico e vincente rispetto a un altro.

Ancora negli Stati Uniti la Shoah contribuisce a perseguire ulteriori finiistituzionali, come risulta evidente soprattutto nel National Mall di Washing-ton. Si e talora affermato che dare una sistemazione alla Shoah nel Mall signi-fichi ricondurla nell’alveo di una tradizionale politica imperialista, volta in so-stanza a rivendicare agli Stati Uniti la priorita nei vari campi del sapereattraverso il possesso fisico di oggetti culturali: secondo tale lettura lo UnitedStates Holocaust Memorial and Museum andrebbe semplicemente ad aggiun-gersi ad altri istituti ubicati nelle immediate vicinanze, dallo Smithsonian alla

48 Immigrants and Minorities, a cura di T. Kushner, «Heritage and Ethnicity», X, 1-2.49 Sulla valenza di Liberation di Rapoport cfr. P. COEN 2012, op. cit.

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National Gallery of Art fino alla Library of Congress. Questa spinta, quandomai esistente, si rivela comunque minoritaria rispetto ad altre. Il museo di Ja-mes Ingo Freed – e di Elie Wiesel – va infatti assai piu d’accordo con l’inter-pretazione generale che il Mall sta ormai acquistando negli ultimi anni, volta aplasmare, rinsaldare e per certi versi a rifondare l’identita nazionale. Bene:questa nuova identita passa attraverso i memoriali ai caduti eretti nella zona,sempre piu numerosi dall’ultimo decennio del Novecento. Giusto nel Mall gliStati Uniti si ritrovano come un paese che al termine della Guerra Fredda puodire a se stesso di avere portato a termine la sua missione di pacificare l’interopianeta. Una nazione che finalmente puo ed anzi deve ricordare le proprie vit-time. Attenzione: che e talmente forte da potersi persino permettere di rende-re omaggio a tutte le vittime. Il computo dei torti e delle ragioni passa in se-condo piano, rispetto all’incombenza morale di piangere la sorte di tanti e cosıvalorosi soldati. L’edificio di Freed e i memoriali ai caduti in guerra servonopercio un comune scopo: sanare le ferite, ricucire gli strappi interni di una na-zione che, per quanto ormai vittoriosa, quasi paradossalmente nell’assolverealla propria missione aveva visto progressivamente perduta la propria spintaideale. Quella spinta ideale, quell’identita, che – basti qui solo accennarlo –vengono sancite esattamente nello stesso luogo dai memoriali a George Wash-ington, Thomas Jefferson e Abraham Lincoln. Non solo in termini cronologiciil legame piu stretto fra questo museo – e, si ricordi, anche memoriale – del-l’Olocausto va percio ravvisato con il Monumento ai Caduti del Vietnam, lapiu controversa e lacerante fra le guerre combattute dopo il 1945.

CONCLUSIONE

Un passo dopo l’altro misuro il parco di villa Torlonia, a Roma. Dall’entrata mo-numentale su via Nomentana ho percorso il tragitto che porta fino al sito destinatoin futuro ad accogliere il Museo della Shoah. Ora mi trovo lı, in piedi. Ne ricostruiscomentalmente il progetto, dalle linee moderne e quasi tecnologiche al dettaglio minimo.Inclusi i nomi degli Ebrei deportati su uno dei prospetti laterali.

Il pianto di un bimbo poco lontano rompe la concentrazione e mi fa voltare di scat-to. Nel rincorrere una palla ha messo un piede in una buca e adesso si dispera nelle brac-cia della madre. Ne vedo chiaramente i lucciconi, che vanno gia asciugandosi. Scene divita quotidiana in un qualsiasi parco di una qualsiasi citta. Ma in questa circostanza ilcammino va dipanandosi all’ombra di Benito Mussolini, che durante il suo regime abitoinsieme alla famiglia nel Casino Nobile della villa.

In molti paesi del moderno Occidente, come si e visto, i musei della Shoahsi ricollegano alle politiche di costituzione delle rispettive identita. Questo e

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valso in passato e varra anche in futuro. I musei della Shoah continuerannocioe a prosperare fino a quando rimarra vivo il senso della memoria collettivadi cui sono portavoce: ossia finche la Shoah servira a plasmare nazioni.

Negli ultimi anni il vento sta cambiando di nuovo. La divulgazione e l’in-segnamento della memoria della Shoah sono da tempo al centro di critiche eobiezioni, che vanno facendosi piu pungenti con l’approssimarsi ogni annodel 27 gennaio, Giorno della Memoria. Iniziate come vessilli di intellettualianticonformisti, espressioni come «Shoah business», «massificazione dellaShoah», «cerimonializzazione della Shoah», «pornografia della Shoah», «litur-gia della Shoah» sono ormai divenute di uso corrente.

A tutto questo non fa eccezione Israele, che anzi per molti aspetti ne e sta-ta l’origine. Dai tardi anni ottanta del Novecento, in stretta coincidenza con laprima Intifada palestinese, una pattuglia di storici formata da Tom Segev,Benny Morris, Ilan Pappe, Avi Shlaim, Hillel Cohen e Baruch Kimmerlingha messo in luce gli impieghi e le manipolazioni della Shoah attuati dal gover-no, quasi sempre in funzione di una politica ostile agli Arabi e ai Palestinesistessi. Questa corrente di studi, generalmente riunita sotto l’ombrello deiNew Historians, gode oggi di ampio credito e ha posto di fatto in seria crisila storiografia ufficiale. Nulla percio di strano che in parecchi fra le nuove ge-nerazioni di israeliani tendano a disertare i musei tradizionali e ancor piu i mu-sei della Shoah, tacciandoli di «spazzatura di regime».50

Sia Yad Vashem che Beit Hatfutsot hanno dimostrato di saper reagire,adattandosi alle nuove condizioni. «Il museo di oggi trasmette effettivamenteun senso di buio e di scoramento nel raccontare la storia della Diaspora», di-chiara Avinoam Armoni, a capo di quest’ultimo. «Noi pensiamo che la storiadegli Ebrei, sebbene abbia i suoi momenti di tragedia e di buio, non sia sol-tanto una storia di buio» prosegue Armoni, fresco di un finanziamento stataledi oltre quattordici milioni di euro, grazie al quale il museo verra completa-mente rinnovato.51

Da questi processi di azione e di reazione, di svolte e revisioni brilla perassenza l’Italia. Attenzione: esattamente come le altre nazioni del Patto Atlan-tico anche la nostra si e allineata con il clima venutosi a creare dopo il 1989 edunque ha fatto molto per approfondire e divulgare la memoria della Shoah.Basti pensare al congruo numero di iniziative realizzate, specie dopo l’istitu-zione nel 2000 del Giorno della Memoria. Fuori dal cerchio e rimasto, appun-

50 ETHA BRONNER, The New New Historians, «The New York Times», 9 novembre 2003.51 SARAH CARNVEK, Second life for Beit Hatfutsot Museum of the Jewish People, «Israel Ministry

of Foreign Affairs», 18 gennaio 2012.

PAOLO COEN

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to, il Museo della Shoah. Sulle ragioni parla chiaro il progetto di Roma, veracartina al tornasole. L’idea di costruirlo proprio su un terreno contrassegnatodalla presenza di Mussolini, l’alleato europeo di Adolf Hitler, responsabile diuna campagna antisemita e delle leggi razziali, denuncia i limiti nel nostro pae-se nel perseguire una memoria collettiva realmente condivisa e, per ricaduta,la sua incapacita di mettere a fuoco e dare corso a una politica di costruzionedella propria identita nazionale.52

Inizio di nuovo a camminare per Villa Torlonia. Il bambino, cessato il pianto, haripreso il pallone e adesso calcia, in giro per il prato. Nel guadagnare l’uscita penso auna conversazione di qualche settimana or sono con un alto funzionario dell’ambasciatastatunitense. Stavamo affrontando il tema dell’architettura contemporanea a Roma. Itasti battevano percio su Renzo Piano, Richard Meier e Zaha Hadid. Fino a quando ar-riviamo all’edificio di Zevi e Tamburini, il Museo della Shoah nell’area di Villa Torlo-nia. «Ah, sı, il museo che non c’e», fa lui. E solo un attimo, un’espressione da salotto.Ma allora perche ho ancora in mente la piega ironica del suo sorriso, mentre alza il calicedi champagne?

52 ANNA PAOLA AGATI, La residenza di Mussolini a Villa Torlonia, in Villa Torlonia. Guida, acura di A. Campitelli, Roma, 2006, pp. 183-190. Per alcune considerazioni museologiche in meritoalla scelta di questo peculiare sito, si veda PAOLO COEN, Il sito di alcuni musei della Shoa fra capo-volgimenti e redenzioni della memoria, in Opporsi al negazionismo. Un dibattito necessario tra filosofi,giuristi e storici, a cura di F. Recchia Luciani, L. Patruno, Genova, 2013.

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MUSEI DELLA SHOAH

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FINITO DI STAMPARE

PER CONTO DI LEO S. OLSCHKI EDITORE

PRESSO ABC TIPOGRAFIA • SESTO FIORENTINO (FI)

NEL MESE DI NOVEMBRE 2014

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