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Liceo Classico Statale “Marco Minghetti” – Bologna
Esame di Stato a.s. 2014/2015
La “follia” dell’Occidente: divenire e contraddizione
Il ritorno a Parmenide di E. Severino
di Alberto Merzari
Emanuele Severino passa in rassegna la storia dell’Occidente individuando nel pensiero del divenire il comune presupposto alla base di tutte le esperienze filosofiche e culturali che portano da Platone al Nichilismo. Nel tentativo di tener fede all’evidenza che le cose divengono (che la legna, ad esempio, diventa cenere) i pensatori di tutte le epoche si sono affaticati a risolvere le contraddizioni che si sono via via poste. Di questo lungo percorso - che passa attraverso Platone e Aristotele, ma anche Eschilo - Giacomo Leopardi rappresenta l’ultimo e coerente epigono, che con lucidità ha portato questo pensiero alle sue estreme conseguenze. Severino interpreta questa come la storia di una follia, in cui l’Occidente, lasciando inascoltata la voce di Parmenide di Elea, si è ostinato a difendere proprio ciò che da principio avrebbe dovuto problematizzare, e cioè l’esistenza del divenire. La sua proposta filosofica, di abbandonare questo modo di guardare la realtà, è gravida di conseguenze: non solo perché pensare, come lui sostiene, all’eternità dell’ente potrebbe sembrare un tentativo astratto e scandaloso, ma perché con essa dobbiamo rinunciare a quella volontà di potenza che invece è proprio ciò che, alla follia del divenire, ci ha tenacemente tenuti attaccati.
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Sommario Introduzione ...................................................................................................................................................... 1
Il compito della filosofia e il peccato originale .................................................................................................. 2
L’intuizione inascoltata – Parmenide di Elea .................................................................................................... 3
Come i folli distinsero sensibile e idea – Platone e il fraintendimento di Parmenide ....................................... 3
La narrazione del Timeo – l’immagine mobile dell’eternità .......................................................................... 3
L’epamfoterìzein della Repubblica – il legame tra divenire e libertà ............................................................ 4
Kòsmos e Chàos – la volontà di potenza e gli immutabili nel teatro di Eschilo ................................................ 4
Il lògos come volontà di potenza ................................................................................................................... 4
Tò pàthei màthos ........................................................................................................................................... 5
Atto e potenza nel pensiero di Aristotele – l’aporia della contingenza ............................................................ 5
L’ultimo dei Greci – Leopardi e l’esito nichilistico del pensiero del divenire .................................................... 6
La coerenza del nichilismo – l’affermazione della contingenza e l’ente impredicibile ................................. 7
1. Tutto è indifferente ............................................................................................................................... 7
2. La natura è eterna ................................................................................................................................. 8
3. Tutto è dolore, ma il mondo è “cosa arcana e stupenda” – il poeta .................................................... 8
Leopardi ultimo dei Greci: il solidissimo nulla ............................................................................................... 9
Emanuele Severino e gli eterni – sulle orme di Parmenide ............................................................................. 10
Divenire e contraddizione ........................................................................................................................... 10
Il destino – il fondamento incontrovertibile................................................................................................ 10
Il grande scandalo: il divenire non è ............................................................................................................ 11
La libertà e la gloria – l’apparire trascendentale ......................................................................................... 12
Le conseguenze del discorso severiniano – la volontà di potenza .............................................................. 12
Bibliografia ....................................................................................................................................................... 14
Introduzione Che il destino degli enti sia il niente – e che essi, divenendo, siano già niente anche quando essi sono – non
è solo l’esito contingente di un’isolata esperienza filosofica da etichettare, genericamente, sotto il nome di
nichilismo. Rappresenta il fondamento più profondo attorno a cui si struttura l’intera storia del pensiero
occidentale – il pensiero che considera il divenire un’evidenza e coerentemente il niente una necessità.1
1 Nella preistoria dell’Occidente . cioè nella preistoria del nichilismo – se l’agire del mortale non mostra i tratti espliciti del
nichilismo li ha però in sé, li è in sé: il nichilismo appartiene all’inconscio della preistoria dell’Occidente – (anche se, uscendo alla
luce dell’Occidente, il nichilismo non appare a sé come volontà che l’ente sia niente, ma come evidenza dell’epamfoterìzein
dell’ente (Severino E., Destino della necessità. Katà tò chreòn, Milano, Adelphi, 1999, p.242)
2
Una voce si è levata agli albori di questa lunga parabola ad avvertire gli uomini che un simile pensare era
follia - Parmenide, di nome, italiota, faceva pronunciare alla dea del suo perì tès fùseos quella sentenza che
l’occidente nella sua radicalità non ha mai compreso: “l’essere è e non può non essere”. Ecco che ad oltre
due millenni da loro ci si pone l’affascinante obiettivo di problematizzare l’ovvio, di chiederci che cosa
significa pensare che in un camino la legna che brucia diventa cenere; se portiamo fino in fondo il fardello
del filosofare, ci chiederemo se persino quel che vediamo con più evidenza lo vediamo davvero, se,
insomma, questo pensare ad un mondo che diviene non è forse già in principio la follia più grande.
Severino lega a doppio filo la storia del niente a quella del divenire, due storie parallele e coessenziali2, che
cercano di ignorarsi l’un l’altra finché lo sguardo acuto di due coscienze inquiete come Leopardi e Nietzsche
non ne farà affiorare la parentela; ma con loro pensare il divenire inizia a significare gettarsi nel tragico
abisso in cui niente ha un senso, niente una direzione (“Tutte le cose dritte mentono”). Lungi dal trovare
l’antidoto, Leopardi e Nietzsche hanno drammaticamente smascherato la contraddizione. Il destino degli
enti è il niente, ed essi, divenendo, sono già niente anche quando essi sono. Esito coerente di un percorso
filosofico che ha fatto della volontà di potenza la propria maestra, il nichilismo finisce per mostrare
paradossalmente a Severino come il divenire sia una cattiva originarietà, e come viceversa il monito di
Parmenide sia il solo possibile. Quello che riguarda gli enti nel divenire non è l’essere bensì il loro apparire –
sostiene Severino. Ogni ente è in quanto tale eterno, ed eterno è lo stesso apparire dell’ente.
Il compito della filosofia e il peccato originale
La nascita della filosofia, dice significativamente Severino, coincide con l’esigenza di superare il mito. E con
mito intendiamo (mythos) quel discorso che per la sua stessa indeterminatezza possiede la peithò,
l’autorità di persuadere. A mano a mano che, nell’esperienza umana del lògon didònai, il mito perde la sua
capacità di soddisfarci, la filosofia, l’interrogazione razionale della realtà, ne prende il posto. Filo-sofia,
significa appunto: amore del sapere, ma anche, e forse ancora più radicalmente, sottolinea Severino, amore
di ciò che è saldo (safès). Il tentativo di stabilire qualche cosa di saldo e incontrovertibile nella selva della
apparenze – il tentativo, per dirla con Aristotele, di rintracciare la causa delle cose, la cui ignoranza ci fa
apparire il mondo come mostruosa meraviglia (thàuma) – è l’essenza più propria della filosofia.
Il divenire rappresenta in questo senso forse la domanda più grande. Che ciò che ci appare possa un istante
dopo non apparire più è senza alcun dubbio la più mostruosa (deinòtaton) delle meraviglie; tocca la vita e la
morte, riguarda il nostro stesso rapportarci, nella dimensione del tempo, al mondo. Come diremo, il
pensiero occidentale – questa la tesi del filosofo – si costituisce su un assunto fuorviante, la cui
contraddizione solo col tempo ha potuto ravvisare: l’ente diviene. Nella coerenza a questo peccato
originale, tutto il pensiero si è affaticato a mascherarne l’assurdo corollario: l’ente è niente. Platone stesso
è un nichilista; solo, inconsciamente.
2 La storia della metafisica è storia del processo in cui, rimanendo all’interno della persuasione della nientità dell’ente, ci si rende
conto della precarietà e della falsità dei risultati ottenuti sul fondamento di quella persuasione, ma non ci sirende e non ci si po’ rendere conto che tale precarietà e falsità sono da ultimo dovute al fondamento, all’interno del quale ci si mantiene e che è lo sguardo non veduto in cui ogni evento diviene visibile – la nientità dell’ente. (ibidem, p.34)
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L’intuizione inascoltata – Parmenide di Elea
E tuttavia alle soglie del cosiddetto “pensare filosoficamente” sta quella che per Severino è la riflessione più
matura e lucida di tutte quante – la dottrina di Parmenide. La storia folle del pensiero occidentale ne ha da
principio ignorato la lezione.
Il filosofo Eleate, lungi dall’essersi astratto dalla realtà sensibile e dal suo apparire, come invece a tutta la
filosofia successiva è sembrato di potergli imputare, ha colto con estrema ingenuità e sintesi il modo
corretto di vedere la realtà. Se teniamo fede al principio di non contraddizione (bebaiotàte arché) il non
essere non può esistere in alcun modo e pertanto il divenire, sul piano dell’essere, non può risultare altro
che un’illusione. Tutto ciò che diviene non diviene nel senso dell’essere, ma diviene nel senso dell’apparire
– per come esso si manifesta; giacché nel senso dell’essere, a meno di ammettere che l’ente sia al
contempo ni-ente, l’ente deve essere già e per sempre eterno (ou pot’en, oude estai epei nun esti omou
pan) . Lo “spettacolo del mondo”, per dirla con Severino, ci attesta che ai nostri sensi cose diverse
sopraggiungono, non già che le cose mutano. L’esempio canonico della sua riflessione riguarda il farsi
cenere della legna. Certo è che, nella progressione di istanti che separano la legna dalla cenere (l’istante in
cui vediamo la legna dall’istante in cui vediamo la cenere) si avvicendano enti diversi – e a ben guardare
un’infinità di enti diversi (giacché v’è la legna incandescente, nelle sue infinite sfumature, e poi gli infiniti
stadi del suo ingrigirsi e infine del suo farsi polvere); tutto ciò non ci autorizza però a dire che la legna sia
divenuta cenere, ma solo che quella legna dell’istante di tempo iniziale non appare più e che invece appare
quella dell’istante conclusivo. Ammettere un divenire dell’essere significa in ultima analisi ammettere che è
proprio la legna ad essere cenere, cioè che la legna è cenere, che A è al contempo non-A.
Come i folli distinsero sensibile e idea – Platone e il fraintendimento di
Parmenide
In “Ritornare a Parmenide”, Severino sostiene che un simile assunto è stato osservato dal successivo
pensiero occidentale limitatamente all’Assoluto. Solo una classe di enti è tale che la sua esistenza non
incomincia ad essere e non finisce di essere. Solo di essi si può fare conoscenza autentica (epistème);
quanto al resto, il mondo di sotto (to kàto), il mondo fenomenico in cui le cose divengono, esso è mìmesis,
pallida imitazione della quale occorre al più presto liberarsi per fare filosofia. Con la figura emblematica di
Talete che cade nel pozzo, la filosofia si costituisce alla sua nascita come contemplazione di ciò che è alto e
trascendente e immutabile, in contrapposizione a ciò che è mondano e transeunte. Se la conoscenza del
mondo abbisogna di qualche cosa di incontrovertibile, allora dovrà cercarlo al di fuori di questo oceano di
determinazioni in cui niente è stabile – il divenire del mondo quaggiù è l’evidenza suprema.
La narrazione del Timeo – l’immagine mobile dell’eternità Questa dicotomica distinzione trova la sua narrazione nel Timeo platonico (37d). C’è un’originaria
distinzione tra quegli enti il cui apparire è eterno (ou gignontai, aeì ontes) e esente dal tempo e quegli enti
di cui la “ghè” invece si compone, lo spettacolo dei divenienti. Il demiurgo, con gesto ordinatore (kòsmikos)
e non creatore, ha posto mano (epicheìrese) allo spazio vuoto (chòra): essa che era niente, giacché era
scevra di determinazioni - era aèides, informe - comincia così ad essere; lo spazio che era niente, diventa
non-niente. Per un verso esso è dunque essere del niente, e cioè è un qualcosa, se non altro un ti che cade
sotto i nostri occhi; ma per l’altro esso è sempre il niente dell’essere. Qualificare come fa il Timeo platonico
lo spettacolo dei divenienti come un’immagine mobile dell’eternità – kinetòn tin’aiònos eikòna – o, se si
preferisce, come l’immagine di un eterno che non è sempre, rappresenta il modo greco di mascherare la
contraddizione del divenire. A essere è l’eterno, mentre il suo darsi fenomenico è, per così dire,
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un’intermittenza: nell’esempio della legna che diventa cenere, la legna non è cenere – sarebbe
evidentemente contraddittorio pensarlo – bensì la legna, poiché è solo eikòna aiònos, deve cessare ad un
certo punto di essere, e il suo cessare coincidere di necessità con l’incominciare ad essere di qualche cosa
d’altro. Il divenire è pertanto pensato come un entrare e un uscire dal nulla, in cui, per dirla con Aristotele,
“E’ necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è”
L’epamfoterìzein della Repubblica – il legame tra divenire e libertà Questa condizione dell’ente è quella che, indirettamente Platone chiama altrove (Rep. V, 479 c)
epamfoterìzein. Quale conoscenza è quella dell’opinione? ci si chiede al termine del quinto libro della
Politèia. La risposta è che essa né può essere definita un niente, poiché non riguarda un niente, né
un’epistème, giacché non riguarda un incontrovertibile; la dòxa è piuttosto una terza via, qualche cosa di
conteso (erìzein) tra due estremi (epì amfòtera), dove questi due estremi sono costituiti dall’essere e dal
non essere. La condizione di ciò che non è eterno è appunto l’intermittenza: in questo modo il pensiero
greco scavalca apparentemente la contraddizione del divenire, addebitandola alla diversa qualità
ontologica del mondo della dòxa rispetto a quello degli immutabili.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere per quale motivo il pensiero greco si affatichi in questa soluzione e
non si accontenti dell’intuizione parmenidea. La suggestiva risposta di Severino, nel suo “il destino della
necessità”, è la seguente:
In quanto indecisione (epamfoterìzein) tra l’essere e il niente l’ente in quanto ente è libertà. (…) Esso è in sé
stesso libertà perché non è legato né all’essere né al niente. In quanto libero dall’essere e dal niente, l’ente è
libero da ogni legame, libertà assoluta. (p.30)
Conservare l’evidenza originaria del divenire delle cose significa primariamente salvare l’evidenza originaria
della libertà. Nel perì tes ermeneìas Aristotele scrive (19 a, 7-10) : “Vediamo infatti che le cose future
prendono principio dalle deliberazioni e dalle azioni e che in generale esiste negli enti che non sono sempre
in atto la capacità di essere e di non essere”. Pensare il mondo sensibile nei termini parmenidei, cioè vedere
gli enti come eterni eternamente dispiegati, comporterebbe la dissoluzione dell’evidenza della libertà.
Poiché tutto quanto già è, non è in noi la possibilità di farlo cominciare ad essere, e noi siamo puramente
coscienze che assistono allo svolgersi di uno spettacolo pre-determinato. È la volontà di potenza – la
volontà del far diventar altro, la volontà di far cominciare ad essere – quello che impone al pensiero
Occidentale fin dalle sue remote origini la costrizione del divenire. Tutto oscilla tra l’essere determinato e
l’essere indeterminato perché sia l’uomo a pensarsi demiurgicamente come colui che tali determinazioni
può controllare.
Kòsmos e Chàos – la volontà di potenza e gli immutabili nel teatro di
Eschilo
Il lògos come volontà di potenza Stabilito che il divenire è il presupposto di ogni libertà, perché ogni libertà è volontà di potenza sugli enti
che divengono, la domanda assumerà allora una nuova formulazione e ci si chiederà come l’uomo possa
esercitare questa potenza. Il mondo greco pensa in questi termini: gli enti divengono, e però non in un
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modo del tutto caotico e disordinato, bensì secondo un ordine. Sono pur sempre immagine dell’eternità,
essere del niente: l’atto ordinante del demiurgo fa del mondo un kòsmos. Compito principe della filosofia
sarà allora rinvenire il filo rosso di questo spettacolo, il lògos in base a cui questa processione degli enti dal
niente accade. Una volta che lo si sia rinvenuto – e questo vuol dire uscire dalla Caverna platonica, o
contemplare il pyr aionios di Eraclito – quel che ci sembrava caotico assume un ordine logico e la nostra
potenza si manifesta nella precomprensione di un tale ordine.
Tò pàthei màthos Esemplare è nel contributo a questo pensiero della libertà il teatro di Eschilo, sul cui spessore filosofico il
prof. Severino insiste a più riprese (in “il Destino della Necessità”, “Cosa arcana e stupenda” e soprattutto
“Il giogo” ). Nell’icastica formulazione del tò pàthei màthos il tragediografo mette in luce l’originaria
correlazione tra verità e dolore. Fintanto che la suprema evidenza del divenire resterà deposta nel suo
chàos, continuamente aperta (chàskei) è, per ogni cosa, la possibilità di non essere. Tutto vive con
l’angoscioso peso della propria fine imminente appunto perché sembra non esserci ragione per cui esso è o
non è. Ma la tragica esperienza di questo peso (pàthos), capace di annientare la nostra volontà di vita e di
farci sospirare, con Sileno, che sarebbe meglio non essere mai nati, si risolve in realtà nella scoperta che il
dolore è superabile, nella suprema coscienza che esserci non è indifferente e che tutto ciò che c’è ha una
ragione e un ordine. L’epi-stème è ciò che etimologicamente sovrasta saldamente ogni divenire, quel
sapere incontrovertibile degli incontrovertibili che ci rassicura dal chàos (cioè dall’indifferente apertura)
dell’epamfoterìzein. Poiché è sapere incontrovertibile esso ci dice che all’uomo è dato conoscere un che di
esente dal mutamento; poiché e sapere dell’incontrovertibile esso ci dice che lo stesso mutamento si lascia
dominare. Nell’inno a Zeus del’Agamennone (vv. 170 e segg.), questo sapere incontrovertibile viene
chiamato Zeus; “soppesando tutte le cose con un sapere che sta e non si lascia smentire”, il dolore viene
meno, la morte stessa non ci fa paura:
«Zeus, chiunque egli sia, a lui mi rivolgo con questo nome, se gli è caro esser chiamato così. Se il dolore, che
getta nella follia, deve esser cacciato dall'animo con verità, allora, soppesando tutte le cose con un sapere
che sta e non si lascia smentire, non posso pensare che a Zeus. Uranos, infatti [il dio del cielo], che pur fu in
passato potente e traboccante di audacia spavalda, è come se non fosse mai stato. Ed è svanito chi poi
venne ad esistere, Cronos [il dio del tempo], che si imbatté in Zeus, il vincitore per sempre. Chi ha la mente
protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria, perviene al culmine della sapienza. Guidando il pensiero dei
mortali, Zeus ha stabilito che attraverso il dolore il sapere acquisti potenza. Quando, nel sonno, goccia
davanti al cuore l'affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza la volontà dei mortali, sopraggiunge in
essi un sapere che salva. Questo è un dono dei démoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus»
La volontà di potenza, rispondiamo dunque all’interrogativo che abbiamo sollevato, risulta possibile
nell’orizzonte dell’epamfoterìzein perché, mentre niente di stabile può essere fatto oggetto del nostro
dominio, il rapporto tra ciò che, instabile, esce ed entra nel nulla è pensato come qualcosa di
intrinsecamente dominabile. Tò pathei màthos vuol dire anzitutto: la scoperta del divenire è la scoperta che
qualche cosa non diviene.
Atto e potenza nel pensiero di Aristotele – l’aporia della contingenza
Tale rapporto – che è poi il verso per cui il niente è, se torniamo alle formulazioni di poc’anzi riguardo al
Timeo platonico – viene pensato da Aristotele nei termini di una relazione potenza-atto. Il tempo
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rappresenta nient’altro che il dispiegarsi o l’accadimento, con cui ciò che adesso è potenza si muove in
direzione del proprio atto. Conoscere la causa finale di questo movimento (lo ou èneka) significa ad un
tempo dominarne già la sua forma attuale, per così dire, anticipandola. Aristotele però, ultimo epigono
della grecità filosofica, compie un passo ulteriore in direzione di quell’esito coerentemente nichilistico del
divenire, allorché nota in questa formulazione una problematicità logica. Se vogliamo salvare quella libertà
che sembra a tutti gli effetti essere l’evidenza originaria, allora dobbiamo coerentemente pensare che ciò
che ora è potenza possa liberamente venir meno al proprio atto – dice Aristotele in Metaph. 1047a, 20-22:
ciò che è in potenza ha la possibilità di passare e di non passare all’atto. “ Difatti se così non fosse quel
divenire non sarebbe libero, e all’intelletto capace di dispiegarlo interamente esso apparirebbe come non
diverso da quell’eterno di cui è immagine. Poiché invece la libertà è l’evidenza prima, questa libertà deve
potersi esimere da quelle costrizioni di cui la predicibilità dell’ente rappresenta la figura suprema. Il màthos
eschileo, sottraendo l’accadimento alla sua contingenza, lo sottrae, ad un tempo, all’accadere: sul piano
dell’essere esso figurerebbe come un già accaduto, e non già come un da accadere. Così facendo il divenire
si convertirebbe in permanenza; il fuoco di Eraclito sarebbe cristallizzato dal fatum semel dictum. Fanno
notare infatti i Megarici: “c’è potenza solo quando si agisce (ossia quando c’è l’atto), e quando non si agisce
non c’è neppure potenza” (1046 b 29-30) e dunque “se l’impossibile è ciò che è privo della capacità di
divenire, per ciò che non è divenuto sarà impossibile divenire, sì che tale dottrina sopprime il movimento e il
divenire. Infatti chi è in piedi starà sempre in piedi e chi è seduto starà sempre seduto: se sta seduto non si
alzerà mai giacché per chi non ha la capacità di alzarsi sarà impossibile alzarsi “(1047 a, 10-17) . Certo in
gioco nel pensiero aristotelico stanno le determinazioni accidentali dell’ente, giacché è l’avvicendamento di
queste a non essere prevedibile: l’ente nella sua sostanzialità soggiace come un che di immutabile al di
sotto di ogni movimento (upocheìmenon), ed è attraverso la sua conoscenza che siamo al riparo dal chaos.
L’evidenza del divenire attrae dunque a sé quella della contingenza3: l’ente che è in un certo modo, se
diciamo che diviene, avrebbe potuto anche non divenire in un certo modo; e questo significa che mai
avremo ragioni sufficienti per determinare anticipatamente se esso verrà o non verrà a quell’atto: il nostro
sapere di esso è puramente ipotetico. Poco importa se, ancora in Aristotele, questo sillogismo, riguardando
il sumbebekòs e non lo upokèimenon, non sembra mettere in crisi il fondamento della volontà di potenza.
L’ultimo dei Greci – Leopardi e l’esito nichilistico del pensiero del divenire
queste sensazioni, sole nostre maestre, ci insegnano che le cose stanno così, perché così stanno, e non
perché così debbano assolutamente stare
Il passo è compiuto oltre due millenni più tardi da Giacomo Leopardi, “primo pensatore dell’età della
tecnica e insieme il pensatore del compimento di questa età” (L’Occidente e il Nulla, E. Severino). Il merito
della sua riflessione consiste nell’aver portato ai suoi estremi e coerenti esiti il pensiero occidentale del
divenire, contemplando con lucidità quel deserto della vita che il pensiero greco era da sempre destinato a
3 Se tutto preesiste ed è conservato nel dio, lo slegarsi dal niente e dall’essere, da parte degli enti, è impossibile; ma questo
scioglimento è l’evidenza; dunque l’evidenza della libertà esige l’inesistenza del dio e di ogni immutabile che predetermini e anticipi il concreto divenire storico delle cose. Liberandosi da dio, la pura essenza della libertà si pone come totalità dell’ente. (ibidem, p.36)
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produrre, e tracciando quella originaria coimplicazione, tenacemente mascherata dai filosofi antichi, tra
divenire e nientità dell’ente.
La coerenza del nichilismo – l’affermazione della contingenza e l’ente
impredicibile Il nichilismo è la matrice fondamentale della nostra tradizione filosofica, , Platone, Eschilo e Aristotele non
ne sono altro che apologhi inconsapevoli. Per maturare questo il ragionamento leopardiano sembrerebbe
partire proprio laddove Aristotele lo aveva lasciato: queste sensazioni, sole nostre maestre, ci insegnano che
le cose stanno così, perché così stanno, e non perché così debbano assolutamente stare4; l’esperienza ci
attesta che nulla è pre-dicibile, esistono solo fatti o , per dirla con lessico aristotelico, solo atti. E questi
fatti, proprio in quanto impredicibili e non obbedienti ad alcuna ragione, si esauriscono nel momento
stesso in cui accadono. “Anche quando sono, anche intanto che sono, le cose sono nulla, perché un nulla,
in esse, la capacità di resistere stabilmente, eternamente al nulla. Nessuna cosa è assolutamente
necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere o non essere in quel tal modo.”
Dall’impredicibilità dell’ente, e cioè dalla necessità della sua contingenza, ne deriva immediatamente la sua
nientità, nello stesso senso per cui l’entità della chòra platonica deriva dal suo essere ordinata: l’entropia
del mondo, assunto il divenire come l’evidenza originaria, è la prova filosofica che tutto è niente; giacché
niente è l’ordine con cui si avvicendano, niente l’essere conformandosi al quale gli enti sarebbero. “In
somma, il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla5 (…) Vale a dire che un primo e universale principio
delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esisté, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo
noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose avante le cose, e conoscerle al di là del puro
fatto reale “ (1342).
1. Tutto è indifferente Il primo corollario è il seguente: tutto è indifferente - e su questo si gioca l’ambigua utilizzabilità di
Leopardi come pensatore della civiltà della tecnica. L’indifferenza di ciascuna cosa rispetto ad ogni altra è
l’altro nome, se vogliamo, della contingenza. Nel momento in cui nessun nesso necessario vincola gli
accadimenti, non c’è differenza, sul piano ontologico, tra un evento o un altro: tutti potrebbero essere
parimenti causati. E tutti quegli accadimenti che non sono accaduti non avevano altra ragione per non
accadere che il loro fattuale non essere accaduti. Ciascuno dei mondi possibili è reale non meno del nostro,
a cominciare da quello in cui non siamo mai nati. È questa la fatale constatazione e la sublime vertigine del
“nodo quasi di stelle” della Ginestra, vedere come il nostro mondo affianco agli altri, viene ad essere
nient’altro che un punto accanto a punti. Il concatenamento degli accadimenti, che fa essere questo mondo
qui piuttosto che gli altri, e che ci fa essere piuttosto che non essere, è un mero gioco della divinità (cfr.
Dialogo di Ercole e Atlante), le cui ragioni è tanto assurdo trovare quanto cercare. Appare evidente che un
4 L’affermazione del divenire dell’ente rimane l’incontrovertibile (il mondo è l’evidenza);ma l’incontrovertibile consiste ora nel
riconoscimento dell’assoluta imprevedibilità e impossibilità di anticipazione di ci che esce dal niente (e la cui esistenza non puà quindi essere preceduta dall’essenza): consiste cioè nell’esclusione di ogni incontrovertibile che non sia il puro riconoscimento del divenire evidente. (ibidem, p.50) 5 La metafisica afferma gli dei immutabili, ponendosi come epistème, cioè come sapere non ipotetico e incontrovertibile della
totalità dell’ente. Per questo suo carattere, nella storia del nichilismo l’epistème si pone come la forma trascendentale della
costrizione della libertà, cioè come il dio immutabile che guida i modi spefici in cui, di volta in volta, la forma metafisica del pensiero
metafisico ha affermato gli immutabili. È quindi inevitabile che, nella storia del nichilismo, la liberazione della pura essenza della
libertà dalle costrizioni che la circondano si presenti in modo sempre più esteso e intenso, come negazione di ogni verità definitiva
(ibidem, p.45)
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simile presupposto sembra il terreno perfetto su cui costruire una legittimazione della tecnica – e in certo
senso, almeno agli occhi di Heidegger, questo farà Nietzsche. L’indifferenza radicale di ogni ente rispetto ad
ogni altro e la destituzione di ogni divinità a garanzia di un ordine (In somma il principio delle
cose, e di Dio stesso, è il nulla» (Zib, 1341)) può legittimare la libertà suprema della volontà di potenza, del
tutto libera da vincoli e capace di replicare, nell’assecondare l’annichilimento degli enti, il gioco supremo
del divenire. La civiltà della tecnica sembrerebbe fondata dal pensiero nichilistico, perché con la nientità
dell’ordine viene meno ciò che solo imbriglia e confina la volontà di potenza. Ma ad un simile pensiero
Leopardi irride non meno che alla divinità: “le magnifiche sorti e progressive” finirebbero per produrci un
ulteriore e vano idolo da adorare, un illusorio contenimento del chaòs; ciò che appunto, se guardiamo il
divenire nella sua radicalità, è del tutto impensabile.
2. La natura è eterna Il secondo corollario è il seguente: la Natura, ossia il gioco di questo divenire, è eterna6. Poiché un gioco è il
sopraggiungere degli enti, tale che nessun ente è mai necessitato nel suo sopraggiungere, tanto meno
potrà sopraggiungere quell’ente che chiude la fila di tutti gli altri enti: se così fosse, ad un tratto, tutti gli
enti che possono ad un tempo essere e non essere potrebbero solo non essere, e quell’epamfoterìzein che
è il divenire del mondo si assesterebbe su una parte soltanto, diventando improvvisamente necessario.
L’oscillazione tra essere e non essere del divenire implica l’eternità di entrambi; l’orizzonte della Natura,
cioè dello spettacolo dell’essere del divenire, deve restare aperto, proprio perché il divenire possa essere
oscillazione indifferente tra i due poli.
3. Tutto è dolore, ma il mondo è “cosa arcana e stupenda” – il poeta ll terzo: tutto è dolore, ma il mondo è “cosa arcana e stupenda” – in questo si condensa il valore, oltre che
del Leopardi filosofo, di Leopardi poeta. Scrive Leopardi il 19 aprile 1826, nel suo Zibaldone:
"Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli
animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi,
i mondi. Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell'anno. Voi non
potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di
souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là
quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose,
pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini.
Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e
cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche;
quest'altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco;
troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello
stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in
istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola
con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co'
tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente
sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro".
Ciò che si conserva – si è detto - è il divenire, ma il divenire è in sé stesso patimento, dal punto di vista delle
singole cose che sono. Infatti esso è il processo in cui solo se c’è produzione di cose nuove c’è distruzione di
6 “Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine”, dice egli stesso in una postilla
al Cantico del Gallo Silvestre
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quelle vecchie e solo se c’è distruzione delle vecchie c’è produzione delle nuove. Proprio perché il divenire
nel suo complesso possa conservarsi, occorre che niente di stabile resista: “Ogni parte dell’universo, si
affretta infaticabilmente alla morte” (Cantico del Gallo Silvestre). Il nostro esserci qui è condannato a finire
dal fatto stesso che avremmo potuto non esserci; poiché siamo contingenti, moriamo; poiché moriamo,
siamo contingenti: sono due facce, queste della stessa medaglia. A chi guarda il mondo con la schietta
verità di Tristano appare chiaro che tutto ciò che non ha ragione per incominciare ad essere non ha ragione
per non finire di essere. Le vite parziali degli enti sono meri strumenti attraverso cui passa la sopravvivenza
del tutto- Natura “ognor verde.”
Mentre la ragione che ci fa guardare la realtà del mondo non porta consolazione, ma è infelicitante, il
dolore nichilistico prodotto dal sentimento della propria indifferenza sa solo aggravarsi : rovesciando il
motto eschileo del to pàthei màthos, Leopardi dimostra come la ragione è foriera di un dolore ineludibile.
Non siamo più capaci, e su questo sembra insistere con un certo rimpianto, di credere come gli antichi in
una qualche forma di gloriosa eternità. Ciò che la ragione ci attesta non sono le verità intramontabili
(epistème) che ci mettono al riparo dalla furia del divenire, ma è la drammatica vicenda di questa furia,
destinata ad inghiottirci, come le belve del Dialogo della Natura e di un Islandese, per salvare la propria
sopravvivenza. Tutto è dolore, dunque, una volta fatta la scoperta che tutto è irrevocabilmente destinato
ad una definitiva fine. “E’ funesto a chi nasce il di’ natale”, la saggezza silenica scongiurata da Eschilo ritorna
potente, solo adesso compresa, più che mai vera.
Fin qui, a parlare, è però Leopardi filosofo soltanto. Leopardi poeta dice nel Coro dei Morti all’inizio del
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie che il “mondo è cosa arcana e stupenda”. Benché tutto sia
condannato al niente e dal niente esca, riesce ancora a suscitarci meraviglia? A ben vedere, per lo stesso
motivo per cui suscitava meraviglia ad Aristotele, perché di esso “non si conoscono le cause”. Se però la
meraviglia era per Aristotele ciò che preparava la filosofia, intesa come indagine razionale e possibile di
queste cause, la meraviglia poetica di Leopardi è ciò che dalla filosofia, come conseguenza scaturisce,
allorquando si scopra che queste cause sono del tutto inconoscibili. “e’l naufragar m’è dolce in questo
mare”, una volta compreso che l’oceano di determinazioni in cui abitiamo sfugge del tutto ad ogni nostro
tentativo di dominio, la volontà di vita deve di necessità coincidere con la volontà di creazione di senso
poetico. Quel senso che razionalmente appare insondabile, si inventi con la poesia; i versi traccino quei
nessi necessari che la Natura non conosce – poco importa che essi non siano veri; giacché essi sono belli ci
salvano. Se il vero è dolore, il bello è vita: “il filosofo non è perfetto s’egli non è che filosofo”. Il tramonto
degli incontrovertibili che avrebbe potuto legittimare il dominio tecnico del mondo, converte invece la
volontà di potenza in volontà di bellezza: in questo forse l’intuizione più umanamente elevata di tutta la
riflessione leopardiana.
Leopardi ultimo dei Greci: il solidissimo nulla L’estremo corollario, o, per così dire, il corollario postumo, reciterebbe: l’ente, anche sino a che esiste, è
niente. Benché questo esito scaturisca come conseguenza logica immediata di tutta la riflessione
leopardiana, di questo solo Leopardi non poté avvedersi mai con piena autocoscienza. “Leopardi riesce a
pensare e a dire che, poiché le cose si annullano ed escono dal nulla, esse sono nulla. Riesce a raggiungere il
pensiero essenziale dell’Occidente, il pensiero che sorregge l’intera storia della nostra civiltà e della nostra
cultura. Ma proprio perché il pensiero di Leopardi appartiene all’Occidente esso, portandosi verso quella
linea più avanzata, non la oltrepassa né può oltrepassarla, cioè non vede la follia essenziale dell’Occidente –
quindi non vede la propria follia essenziale - : non vede alcuna “contraddizione evidentissima e
formalissima” nel pensiero che pensa che le cose esistenti sono nulla. E intende tener fermo che le cose
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esistenti sino a che esistono non sono cose da nulla (2936).” (L’Occidente e Leopardi, E. Severino).
Continuando a vedere, come tutto il pensiero filosofico che lo precede, il divenire come l’evidenza
suprema, egli giunge sì al punto di riconoscere che coerentemente il divenire implica il venire e il tornare al
niente di ciò che diviene. Ma appunto perché vuole e deve ancora essere un diveniente, questo nulla
dell’ente viene ancora pensato come un “solidissimo nulla”, un nulla che fintanto che è e che nonostante
potesse non essere ha nel divenire ancora una realtà. In questa commistione di essere e non essere,
Leopardi non rinviene alcuna contraddizione. Il passo successivo, o se vogliamo, circolarmente, il “ritorno a
Parmenide”, è ciò che Severino attribuisce a se stesso: bisognerà ammettere fino in fondo che il nulla in
nessun senso e in nessun modo può originare un ente (perché se nel niente sta la facoltà di far uscire da sé
qualcosa, il niente è già, contraddittoriamente, non-niente); e che dunque, accolta l’evidenza dell’ente,
bisognerà togliere quel peccato originale che ci ha indotto in contraddizione, ossia l’evidenza del divenire.
Emanuele Severino e gli eterni – sulle orme di Parmenide
Divenire e contraddizione Il pensiero di E. Severino ha il fascino di suscitare oggi una domanda apparentemente inattuale, di mettere
in questione l’evidenza prima su cui si è costituita tutta la nostra civiltà. Il percorso che abbiamo sin qui
tracciato vuole mostrare come, per salvare l’evidenza apparente del divenire, il pensiero occidentale abbia
indotto se stesso in una contraddizione logica: se “A diventa non-A”, e se ammettiamo che questa
proposizione ha un significato diverso da “non-A comincia ad essere”, allora dobbiamo dire che in un
qualche senso è proprio “A ad essere non-A”, cioè la più grave delle contraddizioni. I tentativi di
mascheramento di questa che Severino chiama “la follia dell’Occidente” hanno voluto chiamare in causa la
contingenza e il nulla: e a meno di non apparire immediatamente contraddittori, questo dovevano fare. Il
nichilismo non è semplicemente una filosofia, ma l’esito maturo e coerente di un intero percorso filosofico
che già nel concetto di contingenza aristotelica avverte il bisogno di postulare il nulla: “A diventa non-A”
significa che c’è un istante in cui l’essere niente di A, determina l’essere non-niente di non-A. Ma questo
pensiero pure, benché persino Leopardi non giunga a questo grado di autocoscienza, contiene in sé una
contraddizione, e se vogliamo una contraddizione ancora più lampante della precedente; e cioè che, in
quale senso che sia, il nulla comincia ad essere, che il niente è non-niente.
Bisognerà allora che, preso atto della impossibilità di un pensiero logicamente consistente sul divenire,
quella filosofia che ama ciò che è consistente (safès) cambi strada, non insistendo più, come sinora ha fatto,
nel difendere strenuamente l’evidenza del divenire da tutti i suoi accusatori, ma appunto accogliendo ciò
che risulta dalla sua impossibilità.
Il destino – il fondamento incontrovertibile Il discorso di Severino, preoccupato di mostrare l’inconsistenza e l’artificio di questa precedente evidenza
del divenire, va anzitutto alla ricerca, con Parmenide, di un’evidenza prima: che cos’è autenticamente
destino, quale verità è tale che nemmeno un dio onnipotente potrebbe cambiarla? De-stino, dalla radice
indoeuropea “sta”, è ciò che sussiste senza poter essere in alcun modo scalfito: e qual è l’unico contenuto
di questo destino che andiamo dicendo? “Che i differenti differiscono”, con linguaggio proprio della logica
che “A non è non-A”. Diremo che il destino di ogni ente è il suo esser sé. E tuttavia non si accontenteranno
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di questo gli obiettori del destino, coloro che con tutto l’Occidente e la civiltà della tecnica vogliono
sostenere che il divenire non solo è un’evidenza, ma è l’evidenza da salvare ad ogni costo. Ebbene:
bisognerà dir loro che falsa è la loro obiezione, e cioè, dire che è falso che i differenti non differiscono.
Possiamo permetterci di confutare questa obiezione appunto perché il destino è l’incontrovertibile, ciò che
neanche dai suoi obiettori si lascia smentire: agiscono nel destino anche coloro che il destino vorrebbero
negare7. “L’essere è il tratto trascendentale del dire”, dice Severino in Destino della Necessità, chiunque
pretenda di smentire questa affermazione, ancora è costretto a pensare l’esser sé della sua affermazione, e
dunque a smentirsi. Se i differenti non differiscono, dunque non differisce neanche il dire “i differenti non
differiscono” dal dire “i differenti differiscono”: quale contraddizione più grande?
Dunque il de-stino, questo stare che non si lascia smentire e che appare come incontrovertibile, si erge
saldamente al di sopra di ogni determinazione8 da sempre, indipendentemente che gli uomini lo abbiano o
no dimenticato. L’Occidente realizza con il nichilismo la suprema alienazione di se stesso dal proprio
destino e costruisce nel divenire una narrazione mitica del mondo – questa condizione, che Severino
chiama la terra isolata è per l’appunto ciò da cui la filosofia, tornando a volgere lo sguardo al destino, deve
imparare a uscire.
Il grande scandalo: il divenire non è Quale scandalo primariamente deriva alla terra isolata, all’Occidente nichilistico, dall’affermazione
dell’esser sé dell’essente? Che il divenire non è; che quel susseguirsi di istanti che l’esperienza ci attesta
non va pensato come sinora lo si è pensato. Il destino è l’esser sé dell’essente vuol dire: l’ente che è non
può smetter di esser sé; il che, ulteriormente, significa: ogni ente è eterno. Dunque eterni sono tutti gli
istanti – se ascoltiamo il destino; eterni nel senso che dal punto di vista dell’essere essi non devono mai
smettere di essere ciò che sono. Riprendiamo l’esempio della legna: ciascuno degli infiniti istanti che
separano l’istante iniziale della legna e l’istante finale della cenere è un ente che in quanto ente è eterno. Il
fatto che al sopraggiungere dell’uno, il precedente smetta di apparire non ci autorizza a dire che il
precedente abbia smesso di essere; ciò che non appare più è precisamente ancora quel ciò non apparente.
In quanto l’essere è tratto trascendentale del dire del destino, anche il dire, nel destino, che qualcosa non
appare più, dice ‘identità trascendentale dell’essere, dice cioè che qualcosa è non più apparente (ossia dice
che il qualcosa-che-non-è-più-apparente è il non-esser-più-apparente-del-qualcosa), ma il “non più” e il
“non ancora” indicano la ptòsis dell’apparire, il cadere al di fuori dell’apparire, nel permanere della totalità
dell’ente (ibidem, p.147)
E solo la luce dell’apparire può posarsi sugli enti senza alterarli, giacchè essa è appunto il loro apparire, il
loro mostrarsi così come sono. L’inoltrarsi nell’apparire non è inoltrarsi nell’essere. (p.127)
Il divenire, detto in altre parole, lungi dall’essere negato, è qualche cosa che però, alla luce del destino, non
riguarda l’essere di ciò che diciamo diveniente, il quale resta eterno al di qua e al di là dell’apparire, bensì
proprio quell’apparire che porta quell’ente a sopraggiungere. Con formula severiniana: “il divenire è
l’apparire dell’incominciare ad apparire degli enti”. Ma ora bisognerà essere disposti ad accogliere un
secondo scandalo derivante da questa ammissione. Poiché l’incominciare ad apparire dell’ente è esso
7 Il destino della verità è la casa e non la prigione del Tutto, perché chi abbandona questa dimora non trova alcun luogo ove abitare:
è travolto dagli stessi passi che muove per attraversare la soglia del destino (ibidem, p.125) 8 “Aletheìes atremès ètor (fr.1, v.29)
Il tutto non trema, perché ogni cosa è destinata all’essere, non è un epamfoterìzein tra l’essere e il niente (ibidem, p. 126)
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stesso un ente (giacché un non-niente), allora esso stesso sarà eterno. È da sempre e sempre sarà
l’incominciare ad apparire di ogni ente; e poiché nessun nesso necessario si crea, quel nesso necessario che
lega l’ente al suo incominciare ad apparire (quello che chiamiamo accadimento) è eterno; cioè, è da sempre
e sempre sarà pre-scritto nel destino quando l’ente – e ciascun ente – comincerà ad apparire. Con altre
parole quel destino che è l’esser sé degli essenti potremo chiamarlo la storia degli incominciare ad apparire
degli essenti; e non apparirà nessun incominciare ad apparire che non sia contemplato dal de-stino.
La libertà e la gloria – l’apparire trascendentale L’esito di tutto questo è intanto: la libertà (e con essa la contingenza) è il contrario del destino. Il destino
che afferma l’esser sé dell’essente afferma anche l’esser sé dell’incominciare ad apparire di quell’essente; e
dunque accade e solo può accadere, quell’ente il cui incominciare ad apparire era eternamente pre-visto.
Ma l’altro esito è questo: “se il variare delle cose è il sopraggiungere degli eterni allora ogni ente è glorioso,
cioè all’infinito oltrepassa tutto ciò che va, via via, sopraggiungendo” (Emanuele Severino, Festival della Filosofia –
Gloria, Modena, 13/09/2014). Ogni sopraggiungere all’apparire ha bisogno di uno sfondo intramontabile entro
cui collocarsi, appunto, come apparire incominciante. Ogni ente, incominciando ad apparire, fa apparire ad
un tempo anche tutti quegli enti che, non incominciando ad apparire, ne costituiscono lo “sfondo
trascendentale, sicché “L’essere in eterna compagnia di tutti gli altri enti appartiene all’essenza di ogni
ente.” (p.114) Tutto ciò che appare non solo non smette di essere allorquando sopraggiunga un altro ente;
esso non smette neppure di apparire, giacché l’apparire dell’ente che sopraggiunge è ad un tempo
l’apparire dell’ente che ora è sfondo come ente che non-appare. L’incominciare ad apparire di ogni ente è
l’eterno apparire degli altri. Ogni ente è glorioso perché sopravvivrà – apparendo – a tutto ciò che via via
sopraggiunge.
Quando la cenere sopraggiunge alla legna non solo la legna in quanto legna non ha smesso di essere; essa è
gloriosa perché appare ancora come non-apparente, diciamo: “la legna non la vedo”.
"Nel contenuto che si manifesta, il grande fiume delle determinazioni che compaiono e scompaiono è trattenuto da sponde
intramontabili: la scorta di quegli enti, il cui apparire è di necessità richiesto dall'apparire di un qualsiasi ente. Essi sono lo 'sfondo'
intramontabile di ogni disvelamento dell'essere, lo spettacolo che sta eternamente dinanzi all'uomo e in cui si svolge ogni tempo."
"Essenza del nichilismo" (1982), Adelphi, Milano 1995, p. 199
Le conseguenze del discorso severiniano – la volontà di potenza Tutto questo discorso, con cui Severino prende le distanze dal pensiero nichilistico-occidentale del divenire, sembrerebbe destinato ad arenarsi in un narcisismo teorico. “Mi rendo conto che queste affermazioni devono fare i conti con tutta un’esperienza filosofico-scientifica, ma anche artistica, in cui la modernità – e soprattutto la contemporaneità – ha allontanato ogni pretesa metafisica di dire qualcosa al di là dell’esperienza. E certamente se parlo così è perché credo che questi conti che la modernità ha fatto nei confronti della metafisica, siano conti sbagliati.” Ebbene: che senso ha allora porsi oggi simili questioni e in sostanza a quale visione del mondo dobbiamo legare il discorso severiniano? Prima di tutto il tema della Gloria deve metterci in guardia da ogni tentativo di atomizzare il sopraggiungere degli enti del mondo. Abbiamo detto: ogni ente necessita per apparire di ciascuno degli altri e col suo incominciare ad apparire ne fa apparire ogni altro. Questo significa: nessuna regione dell’essere si lascia ritagliare come qualcosa di autonomo. Il nostro progetto sul mondo non può non tenere conto in ogni istante che il nostro intervenire sul mondo è un intervenire su tutto il mondo. La civiltà della tecnica, pretendendo di realizzare un dominio sul mondo, rappresentando dominante e dominato, soggetto e oggetto, come qualche cosa di autonomo, è il contrario del destino; è un modo cattivo di guardare al sopraggiungere degli enti.
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In secondo luogo l’eternità degli enti fa essere ciascuno di loro un imperativo incontrovertibile. Passato e futuro non sono a nostra disposizione come qualche cosa di dominabile, qualcosa il cui senso possa essere posteriormente rimaneggiato. Essi convivono con noi nella loro eterna presenza come de-stino irrevocabile. Possono anzi parlarci, dirci molto, nella dimensione della loro Gloria: siamo chiamati ad un colloquio col passato, ma anche col futuro, nella certezza che essi non hanno meno realtà di ciò che adesso comincia ad apparire.9 La filosofia di E.Severino, e forse con ciò potremmo riassumere tutto quanto sin qui si è detto, è radicale nemica della volontà di dominio; quella pretesa folle con cui l’uomo ha insistito a inseguire il particolare perdendo di vista l’universale e l’essenziale. In fondo, condannando se stesso alla morte. Ci troviamo nella condizione dei cacciatori che guardando gli uccelli vogliono catturarli, e in questa loro bramosia non tengono
conto del cielo che si staglia sullo sfondo del volo degli uccelli. Allora: il cielo, che il cacciatore non cura, siamo noi. Noi come eterno
apparire degli eterni e come eterno apparire del sopraggiungere degli eterni. Il cacciatore non intende il volo degli uccelli come un
sopraggiungere degli eterni, lo intende come ciò che vuole dominare e catturare. Ma la volontà di catturare, dominare, prevalere, di
vincere è la volontà di potenza che oggi sta scatenando sulla terra tutta una molteplicità di conflitti. Questa volontà di dominio che
è presente nelle cose abiette come nelle cose nobili, presuppone la dimenticanza di ciò che noi abbiamo chiamato destino, di ciò che
noi siamo. Noi siamo il cielo che crede di essere i cacciatori. Altre volte dico che noi siamo re che si credono mendicanti; questa volta
possiamo concludere dicendo che la regalità che noi siamo, questa regalità che ci destina alla Gloria infinita, è la negazione più
radicale della volontà di potenza. È la negazione più radicale dell’ignoranza che ci fa dimenticare appunto il nostro essere l’eterno
apparire del destino. (Emanuele Severino, Festival della Filosofia – Gloria, Modena, 13/09/2014)
9 L’ermeneutica del testo, ad esempio, rappresenta una delle modalità con cui alla gloriosa immortalità del passato
possiamo renderci presenti.
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Bibliografia
Severino E., Essenza del nichilismo. Saggi, Milano, Adelphi, 1982
Severino E. Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano, Adelphi, 1989.
Severino E. Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 2005
Severino E. Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 2006
Severino E., Destino della necessità. Katà tò chreòn, Milano, Adelphi, 1999
Severino E., La Gloria, Milano, Adelphi, 2001