parole per il futuro

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Parole per il futuro, piccolo vocabolario per il prossimo decennio, di Federico Pedrocchi. Prefazione di Massimo Cirri

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tascabili dell’ambiente

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Federico Pedrocchiparole per il futuropiccolo vocabolario per il prossimo decennio

realizzazione editorialeEdizioni Ambiente srlwww.edizioniambiente.it

coordinamento redazionale: Paola Fraschiniprogetto grafico: GrafCo3 Milanoimpaginazione: Roberto Gurdo

© 2012, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02 45487277, fax 02 45487333

ISBN 978-88-6627-043-0

Finito di stampare nel mese di agosto 2012 presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)

Stampato in Italia – Printed in Italy

Questo libro è stampato su carta riciclata 100%

i siti di edizioni ambiente:www.edizioniambiente.itwww.nextville.itwww.reteambiente.itwww.puntosostenibile.itwww.freebookambiente.it

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Piccolo vocabolario per il prossimo decennio

Federico Pedrocchiparoleper il futuro

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sommario

prefazione in forma di storia familiare 7di Massimo Cirri

introduzione 13

bene comune 15

big data e cloud 23

biomimesi 35

custom e standard 43

geopolitica delle risorse 55

governance 61

grafene 73

greenwashing 77

infomobilità 83

limiti 93

medicina 101

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nanotecnologie 113

nicchie 119

realtà aumentata 129

resilienza 135

sharing 145

smart city 151

smart grid 163

sobrietà 169

stampanti 3d 179

postfazione 183di Piercarlo Pirovano

bibliografia 187

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introduzione

Si parla di futuro, dunque. Intenzione non banale, dato che viviamo in tempi nei quali: 1) è in corso la più grande crisi a memoria d’uomo; 2) la morfologia geopolitica del pianeta è in totale trasformazione; 3) sul palcoscenico dell’innovazione si stanno presentando nuove tecnologie di potenziale grande impatto. Prudenza vorrebbe che si stesse zitti, quindi, trovandosi immersi in un lunapark di tale portata. Nelle pagine che seguono, però, non troverete uno di quei saggi che vogliono stupirvi prevedendo fatti di cui oggi non v’è traccia. Ecco: tracce di futuro, invece, segnali deboli che già oggi contengono tutte le frequenze di sonorità ben più corpose che ci attendono (quelle vecchie foto dei fratelli Wright, che se ne stanno a una decina di metri dal suolo, con camicia, cravatta e pure un gilet, ma si capisce già tutto...). L’intento è quello di spiegare perché ora i segnali sono tenui e perché diventeranno boati. Ma non per tutte le voci vale questa motivazione, perché si analizzeranno anche tematiche molto trasversali – un esempio? Governance – di cui si deve parlare per via di fatti ed emergenze che sono giunte, crediamo, alla stretta finale. Crediamo? Beh sì, una percentuale di auspici è presente in questo libro. Ma non si tratta di idee di chi l’ha scritto o di chi ha immaginato e realizzato questo libro. Sono tanti e tante a desiderare che una stagione di grandi trasformazioni si possa finalmente aprire. E perché le cose cambino, desiderarlo con forza è una premessa essenziale.

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bene comune

Negli ultimi decenni dell’800 avviene un fatto singolare nella storia della conoscenza prodotta dalla nostra specie. Con gli stu-di di Ludwig Boltzmann, uno dei fisici più importanti di tutti i tempi, si chiude un grande capitolo della scienza, iniziato un secolo prima da un altro grande personaggio, Nicolas Léonard Sadi Carnot. Un capitolo che va ben oltre i confini della fisi-ca. È la termodinamica, teoria che ci consegna il principio fon-damentale alla base dell’Universo, l’entropia. Poiché la Natu-ra, quella che si esprime sul nostro pianeta, altro non è che una delle tante manifestazioni locali dell’Universo, se ne ricava che l’entropia è la cornice entro la quale ci tocca vivere. Negli stes-si decenni di quella fine ’800 si sviluppa l’economia neoclassi-ca, filosofia del mercato e della produzione di beni che, nei fat-ti, pone al centro delle sue tesi la non esistenza della Natura. Un caso, dunque, di sorprendente divaricazione culturale. Come si dirà in certi passaggi delle voci di questo testo, la no-stra specie non può sostenere di aver mai posseduto una cultura ambientalista. Quando gli umani arrivarono nelle grandi prate-rie del Nord America, riuscirono in poco tempo a distruggere tutti i grandi mammiferi che colà risiedevano. Ma anche mol-to tempo dopo, verso la fine del ’700, a causa della costruzione delle navi della sua potentissima flotta, in Inghilterra gli alberi più alti rimasti erano le margherite. L’unica significativa diffe-

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renza è che fino a poco tempo fa potevamo anche fare gli sbruf-foni con la Natura, ma non le si faceva che dei graffi. Ma già da non pochi anni, entrati come siamo in pieno Antropocene – era nella quale è l’umanità che può determinare i cambiamenti am-bientali del pianeta – le cose sono cambiate. Scrive Serge Latouche a proposito dell’economia neoclassica, che essa “ ... ignora l’irreversibilità delle trasformazioni dell’energia e della materia. Viene oscurato per esempio il fatto che i rifiuti e l’inquinamento, pur essendo prodotti della attività economi-ca, non rientrano nel processo di produzione così come si è an-dato determinando” (Latouche S., 2008).Appunto: della Natura possiamo farne a meno. Lo scontro con la Natura, si sosteneva, era inevitabile. Lei ha un sacco di risor-se e materie prime e non le rende disponibili facilmente. Ci si lamentava del fatto che il ferro non fosse sotto forma di mele attaccate agli alberi (il che peraltro non ci avrebbe portato alla scoperta della gravitazione, ma solo alla morte di un giovane fi-sico di nome Isaac Newton). Dopodiché, si diceva, ecco che gli uomini devono competere, perché strappare valore alla Terra è una guerra, un gioco nel quale, come tutti i giochi, se uno vin-ce è perché altri perdono. Da quell’impronta dell’economia neoclassica si fa ancora molta fatica, oggi, a liberarsi, sebbene in quell’edificio di certezze tan-to paradossali sono apparsi crepe gigantesche e crolli a vari pia-ni. Un effetto, in particolare, si fa sentire nel comportamento economico moderno, conseguenza di quella separatezza che le logiche di mercato ritengono di poter avere. Consiste nello svi-luppo di attività molto specifiche, di comparti di impresa ver-ticali, e quindi l’allontanarsi inevitabile di una visione di insie-me. L’ultimo passaggio lo descrive bene Richard B. Norgaard, docente di Economia e risorse all’Università di Berkeley: “Gli

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bene comune 17

individui si formano in una cultura che valorizza aspetti molto specifici dell’universo economico, e perdono la visione d’insie-me. Il bene comune è ignorato per far emergere ciò che è bene per il singolo” (R. B. Norgaard, 2011). La definizione che usa Norgaard è “economismo”, ovvero il credere nel primato dell’e-conomia su tutto. Eccoci al punto: il bene comune. Come in molte altri voci di questo libro, iniziamo da un contesto più ampio per arrivare a un tema molto specifico che si pone con grande forza su quel pal-coscenico che il futuro sta oggi costruendo (anche se non è det-to che la rappresentazione sarà necessariamente un successo...).Sono accaduti molti fatti importanti in questi ultimi anni che dovrebbero garantire a questo concetto una straordinaria atten-zione nel prossimo futuro. Per questo lo si è inserito nei temi di questo libro. Una scelta che contiene anche una quota di auspi-cio, ammettiamolo senza problemi. Però sono tante le voci e le competenze diverse che si stanno facendo sentire. Fatti importanti, si è detto poco fa, accaduti di recente. Quan-te persone sono rimaste sbalordite nell’apprendere che una in-tera nazione può essere attaccata da una pattuglia di operatori finanziari che, a bordo di computer, spostano colossali cifre di euro, dollari, yen, ignorando le sorti di centinaia di milioni di individui? Difficile trovare un esempio di attività che stia mag-giormente agli antipodi del concetto di bene comune. L’Euro-pa deve difendersi dalla speculazione: è oggettivamente un even-to paradossale. Ci sono anche altri marcatori che stanno a evidenziare le forze che agiscono contro la cultura del bene comune, cultura che si alimenta della “percezione” di una comunità che condivide una quotidianità, potremmo dire. Un’azienda che operi su più mer-cati internazionali può ritrovarsi così tanto priva di interessi loca-

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li da non svolgere alcun ruolo nella costruzione della comunità, mentre la dimensione del lavoro è una componente fondamen-tale nella “manutenzione” della socialità. In Italia abbiamo co-nosciuto un’esperienza di grande valore, in questo senso, quel-la della Olivetti, azienda con grande attenzione ai rapporti in-terni fra management e dipendenti, come alle relazioni con il territorio di riferimento. Nessuna semplificazione, tuttavia: la globalizzazione è anche un grande antidoto verso localismi che, ben lontani da propagare culture della condivisione, sono sta-ti levatrici di grande aggressività. L’alchimia del bene comune, dunque, è complessa, e ha più dimensioni, si muove in più spa-zi. Un problema analogo, ma che si muove su scala individua-le, lo troviamo nel territorio dei manager dei livelli alti. Oggi il problema è esploso in Cina, mentre in Europa e Stati Uniti lo si conosce già da una ventina d’anni e ora è più attenuato per via della pesante crisi. Il manager che non si sente partecipe di alcun progetto aziendale, questo è il problema. Lavora badan-do a preservare un suo status indipendente dall’azienda – quin-di evita di prendere rischi che un decisore deve mettere in con-to – ed è permanentemente disposto a cambiare lavoro, an-che entrando nell’organico di diretti competitor. Un po’ come i giocatori di calcio contemporanei, che possono giocare in due squadre cittadine in una stessa stagione. Ma anche qui, che dire: non si vorrà mica inneggiare a una delle forme più disastrose di autoreferenzialità asociale, ovvero il tifo acritico? Siamo sempre in preda a una oscillazione non facile da bloccare. Sono ormai non pochi i lavori di ricerca che, negli anni, hanno sottolineato come le contrade senesi separate dalla tradizione del palio rap-presentino un problema per la socialità complessiva del luogo.Bene comune, quindi, è un arco di comportamenti che deve comprendere il superamento del veto di giocare in cortile per

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i bambini – alcune recentissime, e poche, ordinanze comuna-li, in Italia, stanno rendendo illegale l’applicazione di tale veto; la percezione dei bambini come bene comune dovrebbe essere in cima alla lista dei valori comunitari – per arrivare alla coope-razione internazionale. Ora, ci si potrebbe anche accontentare di risultati locali, in una città, senza che questo atteggiamento culturale vada oltre? Interrogativo complesso. La storia dell’ul-timo secolo ci consegna non poche esperienze di paesi fieri del-le loro democrazie, fortemente impegnati, allo stesso tempo, a organizzare colpi di stato in altri continenti o a mantenere co-lonie. Perché poi ci sono traiettorie che dal quartiere portano dall’altra parte del globo, quando si parla di certi beni comuni. L’acqua, per esempio. Comunque: una crescita progressiva, che parta anche dal basso, dal locale, potrebbe certamente essere utile. Durante una sedu-ta del Parlamento tedesco, a fine giugno 2012, dopo una sto-rica riunione del Consiglio europeo nella quale Angela Merkel ha dovuto accettare le condizioni poste da Italia, Spagna e Fran-cia, il ministro tedesco dell’Economia, Wolfgang Schäuble, ha dichiarato: “Non mi va di discutere se la Merkel e la Germania abbiano vinto o abbiano perso. Quello che voglio sapere è se ha vinto l’Europa, ed è questo che io credo sia successo”. Quello che sta accadendo in Europa, e quello che accadrà nei prossimi anni, ci dirà se l’orizzonte politico di questo nuovo paese si sta avvicinando. Quello monetario, accompagnato anche dagli as-setti economici, è stato importante ma, come si è già detto pri-ma, pensare che l’economia sia un motore primario è un errore grave. Dal quale discende anche l’altro corno della vicenda, ov-vero il mito della crescita infinita. Ne parliamo alla voce Limi-ti. Possiamo realizzare una diffusa cultura del bene comune se rimane attiva questa idea che vi possa essere una gara continua

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verso traguardi sempre più alti? Perché di questo si tratta: una gara. E allora ritorniamo al fatto che vi saranno vincitori e vin-ti. Gara collaborativa, con le regole attuali del mercato, è una espressione che suona come deserti boscosi e lumache veloci. Quando si deve valutare se un comportamento che non va be-ne ha la possibilità di evolvere in una pratica positiva, è sem-pre bene domandarsi se ciò che non va bene sia effettivamente non conveniente. La storia, come sempre, ci è d’aiuto. Varen-na è un paese sul Lago di Como, e da Como dista 35 chilome-tri. Nel 1126 Varenna fu attaccata e saccheggiata dai comaschi. Un po’ di anni dopo, nel 1169, fu Varenna ad attaccare l’Iso-la Comacina (600 metri di lunghezza per 150 di larghezza) che le sta di fronte nel lago, circa un chilometro dalla riva. La di-strusse. Se oggi Como attaccasse Varenna, questa azione avreb-be gravi conseguenze per i comaschi. E anche un attacco all’I-sola Comacina sarebbe visto molto male. Nove secoli fa queste cose, invece, potevano convenire a chi le faceva. Anche molto. Christian de Duve, Nobel per la medicina nel 1974, in Geneti-ca del peccato originale (Raffaello Cortina, 2010), scrive: “La se-lezione naturale ha privilegiato i tratti che favoriscono la coe-sione all’interno dei gruppi e l’ostilità fra gruppi diversi. [...] Ha favorito tratti come la solidarietà, lo spirito di cooperazione, la tolleranza, la compassione, l’altruismo, fino al sacrificio perso-nale [...] Queste buone disposizioni sono però generalmente li-mitate ai membri di determinati gruppi. [...] Ciò che io come biologo ho voluto sottolineare in questo libro, è che esse deri-vano da tratti innati, iscritti e preservati nei nostri geni dalla se-lezione naturale. Utili in passato, in una certa fase della nostra evoluzione, questi tratti sono diventati nocivi”. Per cambiare le cose cattive e farle diventare buone, allora, bisogna verificare in che punto del percorso ci si trova.

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Un insieme di ricerche, provenienti da più aree di studio, og-gi ci dicono che ignorare la necessità di un cambiamento che ci porti verso una cultura del bene comune, è “tecnicamente” errato. Come attaccare Varenna: non è più un’iniziativa disdi-cevole, è tecnicamente sbagliata, ed è per questo che non può più accadere. Molti indicatori sullo stato dell’ambiente ci se-gnalano questa evidenza, lo sappiamo. Gli inquinamenti sono transnazionali e così troviamo le bottiglie di plastica delle ac-que minerali del Trentino che galleggiano fra la Groenlandia e l’Islanda. Oppure ci si deve difendere, in Lombardia, da insetti che ci arrivano con gli aerei cargo dalla Tanzania, e qui ci man-giano la corteccia degli alberi. Come si vedrà nella voce dedica-ta alle nuove frontiere della Medicina, le popolazioni del mon-do si stanno mischiando – e questo per molti aspetti è un dato positivo, produttore di pace – ma è un cambiamento che richie-de capacità di confrontarsi, riconoscersi e stare insieme, muta-mento senza alternative perché niente ha mai fermato, nella sto-ria dell’umanità, questo processo. Ma è abbastanza inutile pro-durre i mille esempi che supportano questa realtà. Ci troviamo quindi in uno di quei passaggi critici nella storia di una specie, dove l’insieme delle condizioni ambientali, intese nel senso più ampio possibile, richiedono un cambiamento. L’evoluzionismo ci dice che, solitamente, se non lo si mette in atto, si scompare.

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limiti

Il concetto non è affatto nuovo in quel vasto territorio delle que-stioni ambientali, al quale questo libro dedica una considerevo-le attenzione. Non è nuovo perché il limite si affaccia nel tea-tro delle grandi questioni economiche e politiche nel 1972 con il famoso rapporto su I limiti dello sviluppo commissionato dal Club di Roma (Meadows D.H., Meadows D.L. et al., 1972). Quella apparizione, quarant’anni fa, fece, come si usa dire, un botto trasversale. Qualcuno osava affermare che il pianeta non poteva reggere uno sviluppo continuo, e ciò non piacque né a destra, né al centro; e nemmeno a sinistra, dove fu spesso criti-cato come il tentativo di bloccare una evoluzione della ricchez-za generale che, redistribuita, poteva finalmente arrivare a tut-ti e non a pochi. Fu avversato, il limite, anche da componenti significative delle estreme sinistre nate dal ’68. Insomma, non piaceva a nessuno, eppure con quel rapporto si era prodotto uno degli strumenti fondanti dell’ambientalismo. Nel futuro che ci attende, sull’intera strumentazione, teorica e pratica, basata sul concetto di limite, si giocherà una partita decisiva che potrebbe essere sintetizzata in questo modo, ricorrendo a un gergale da film d’azione: diamoci un taglio oppure si ballerà forte. Come già segnalato in altre voci di questo testo, l’idea che il “taglio” debba significare enormi sacrifici e una vita austera – del resto garantiti dalle periodiche crisi economiche, e sarà il caso di ri-

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flettere su questo aspetto – è un’idea sbagliata, perché possiamo perfettamente costruire un modus vivendi piacevole, suggestivo, stimolante, e non sprecone.Una delle cose più singolari, quindi, che emergono da una ana-lisi delle idiosincrasie espresse dalla nostra specie nei confronti del concetto di limite, è che tale paradigma è alla base del fun-zionamento dell’intero Universo, e quindi anche del nostro pic-colissimo pianeta. Gli stati della materia sono ancorati al con-cetto di soglia; quella delle temperature che consentono acqua negli oceani e non ghiaccio, per esempio, oppure la loro com-pleta evaporazione. O quelle soglie di pressione che su certi pia-neti danno luogo a laghi di metano. Se la forza nucleare forte, quella che tiene insieme i protoni e i neutroni che si trovano nel nucleo dell’atomo, cambiasse la sua intensità per un 2%, l’idro-geno, che è alla base del funzionamento delle stelle, si sarebbe consumato tutto nei primi 5 minuti dopo il Big Bang. Per ogni aereo, data la sua struttura e il suo peso, esiste una velocità criti-ca di guasto a un motore in fase di decollo. Se il guasto avviene prima che tale velocità sia raggiunta, allora si può interrompere il decollo, se si è oltre non c’è altro da fare che alzarsi in volo e pensare al guasto dopo – ed è già un bel problema – perché fre-nare il velivolo è decisamente sconsigliabile. C’è poi una soglia anaerobica per ogni essere vivente, ovvero il limite oltre il quale non si possono chiedere sforzi ulteriori al fisico.Non basterebbe un milione di pagine per elencare l’oceano di limiti e soglie nel quale siamo immersi. Come è possibile, allo-ra, che questo dato così uniforme e compatto non faccia ancora parte del codice genetico dei nostri pensieri? Non ne faccia par-te stabilmente e in modo pervasivo, perché va detto che c’è sen-za dubbio una crescita costante di sensibilità in questa direzio-ne. Un segno importante lo si è avuto con l’edizione 2011 del

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Festival dell’Economia di Trento, uno degli appuntamenti più significativi, in questo campo, a livello mondiale, edizione che aveva come tema centrale “I confini della libertà economica”. Come ha sottolineato l’economista Tito Boeri, direttore del fe-stival trentino, nella conferenza stampa di lancio dell’iniziativa, “non è più un tabù anche parlare di ‘nuova politica industria-le’ tra chi in passato si era pronunciato apertamente contro gli aiuti di stato a settori specifici. Si discute non solo di imporre tetti alle retribuzioni delle superstar, ma anche di limitare la di-mensione di alcune imprese, soprattutto nel settore finanziario, per impedire che queste diventino ‘troppo grandi per fallire’. Ci si difende dall’arrivo di capitali esteri, definendo come stra-tegici settori che hanno ben poco a che vedere con considera-zioni legate alla difesa nazionale, alla sicurezza o all’ambiente”. Si può quindi affermare: se le cose vanno male, ecco che i pila-stri dell’economia liberista sono messi in discussione dagli stes-si che li hanno eretti. Il che fa pensare che queste criticità sia-no ben note, come sostiene l’economista cileno Manfred Max-Neef (da un’intervista alla rivista statunitense Democracy Now, settembre 2010): “Ci comportiamo in modo sistematicamente contrario all’evidenza delle cose. Sappiamo perfettamente quel-lo che dobbiamo fare. Non c’è nessuno che non lo sappia. I po-litici, in particolare, lo sanno perfettamente. [...] [il problema è] che gli economisti non sanno come funzionano gli ecosiste-mi, non sanno nulla di termodinamica, né della biodiversità”. È vero: che una economia in sviluppo costante, ovvero un pro-cesso con crescita infinita, non possa trovare spazio all’interno di un sistema fisico finito – tale è il nostro pianeta – dovreb-be, prima d’ogni altra considerazione, risultare evidente da un punto di vista termodinamico. Ritorna la domanda da cui sia-mo partiti: come può essere che si usino da più di un secolo le

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leggi della termodinamica in migliaia di applicazioni diverse, e poi ci si dimentichi di questa scienza nel valutare il sistema che le contiene tutte, la Terra? Tim Jackson, in Prosperità senza cre-scita (Edizioni Ambiente, 2011), fornisce i numeri di questa sfi-da irrazionale: “Se [l’attuale economia globale] continua a cre-scere allo stesso ritmo, nel 2100 sarà 80 volte quella del 1950. Questa eccezionale escalation dell’attività economica globale non ha precedenti nella storia. [...] Ma che dire di un mondo nel quale 9 miliardi di persone (cifra prevista per il decennio 2040-2050, ndr) potrebbero tutte raggiungere il livello di ricchezza e abbondanza atteso per le nazioni dell’Ocse? Ci sarebbe bisogno di un’economia pari a 15 volte quella attuale, e 200 volte quel-la del 1950”. Guardiamoci intorno e cerchiamo di immaginarci una quotidianità della nostra vita nella quale tutti i consumi siano cresciuti di 15 volte rispetto a oggi. Vi viene in mente co-me potrebbe essere un supermercato? Dobbiamo, però, essere più accurati nell’analisi di questa vicen-da, analisi che non può limitarsi alla lunga enumerazione di cifre e parametri che dimostrano la necessità di acquisire la saggezza di una società limitata. C’è altro da prendere in considerazione, perché esiste un problema culturale che va posto al centro del-le riflessioni. Naturalmente: c’è una quota di personaggi in cir-colazione, sia con capacità decisionali rilevanti sia semplici cit-tadini, che – come sostiene Max-Neef – intuisce perfettamente come stanno le cose ma non ha alcuna intenzione di occuparsi del futuro, soprattutto di quello che sta immediatamente oltre le stime sulla propria longevità. Al di fuori di questa cerchia tro-viamo “modi di pensare” – bene o male questa è la definizione migliore – che presentano deficit culturali di varia provenienza. Molti di natura scientifica, per esempio. Affermare che la storia dell’umanità è sempre quella, segnata da una crescita sostanzial-

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mente progressiva del benessere, senza comprendere che è mol-to sospetta una curva che per ogni secolo cresce di qualche unità e poi, in pochi decenni, si impenna con valori pari a 200 volte quelli precedenti, bene, tale affermazione deriva da una man-canza di conoscenze scientifiche di base. È una falla da riparare, quindi, se vogliamo muoverci nella direzione giusta. Una sequenza di ricerche molto accurate nel campo della cosid-detta psicoeconomia hanno dimostrato quanto sia profondo il comportamento irrazionale che il pubblico esprime nei confron-ti dell’acquisto di prodotti, nell’uso dei fidi bancari, e in quella gestione di prodotti finanziari che da un paio di decenni è di-ventata una attività molto diffusa. Irrazionalità che pessimamen-te si accoppia con quelle teorie economiche che disegnano una razionalità intrinseca del mercato. Il caso Bill Miller è uno de-gli esempi più lampanti. Brillante gestore di fondi statunitense, di lui si scrisse negli anni ’90 “nessun altro fondo ha mai fatto meglio per quindici anni consecutivi negli ultimi quarant’an-ni” (Consilien Observer, prestigiosa rivista del Credit Suisse). De-scrive bene la vicenda Paolo Legrenzi in Psicoeconomia della vita quotidiana (Laterza, 2011): “In realtà ci sono seimila gestori co-me Bill Miller... La questione va quindi riformulata: se migliaia di persone lanciano una moneta all’inizio dell’anno, e lo fanno per molte decadi, qual è la probabilità che qualcuno, per quin-dici anni di seguito, ottenga sempre croce? Immaginate che vi siano mille gestori di quel tipo di fondi... che comincino a fare un lancio di moneta all’anno a partire dal 1991. Il calcolo del-le probabilità ci dice che dopo un anno a circa metà dei gestori è uscita croce; dopo due anni è un quarto dei gestori a ottenere sempre croce, dopo tre anni un ottavo, e via così. La probabili-tà che dopo quindici anni un gestore specifico, il Bill Miller del 1991, abbia sempre avuto croce come risultato, è una su 32.768.

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Quindi la probabilità che uno qualsiasi, tra i mille iniziali, sia ri-uscito a farlo... è circa del 3%”. Fatevi i conti e vedrete che è co-sì. Quindi: la corsa degli investitori a versare soldi a Bill Miller, probabilmente dopo aver letto articoli vari su sofisticate strate-gie finanziarie, dovrebbe essere in realtà motivata da fattori ben diversi e cioè, per dirla efficacemente, che il signor Miller è do-tato di un robusto fattore B. Nella percezione del pericolo che si corre a non porre limiti in-terviene un altro scenario emotivo, quello che riguarda la perce-zione del rischio. Dan Gardner, in Risk (Virgin Boooks, 2009), raccoglie un lungo elenco di contraddizioni, che lui declina sulla realtà americana ma che si possono facilmente estendere a ogni paese e relativa popolazione, contraddizioni che è corretto defi-nire paradossali. Grande è il timore di essere sottoposti a più di due o tre esami radiografici in un anno, ma nessuno si soffer-ma a pensare che l’esposizione al sole estivo su spiagge e mon-tagne è ben più pericolosa; solo negli Stati Uniti si ha un milio-ne di persone colpite da cancro alla pelle ogni anno. Non si la-sciano giocare fuori casa i bambini, per il timore di agguati di maniaci, ma il tasso di obesità fra i minori è cresciuto in modo impressionante negli ultimi decenni, con i gravi effetti che que-sta condizione può sviluppare nella vita di una persona. Ci so-no controlli severi, con relative punizioni, per gli sportivi che usano prodotti chimici di varia natura per aumentare le presta-zioni, ma, scrive Dan Gardner, si accetta che il football ameri-cano generi individui “disarticolati nel corpo, aggrediti da dolo-ri permanenti, veri e propri relitti di mezza età”. Né si può dire che il terrorismo internazionale sarebbe percepito come un ri-schio mortale per la società se le sue gesta fossero prive di vitti-me. E infatti è così, la sua pericolosità è sostanzialmente valuta-ta in questo modo. Eppure negli ultimi cento anni “non sono

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più di 20 le azioni terroristiche che hanno causato più di cen-to morti, mentre nei soli Stati Uniti, ogni anno abbiamo, come effetto della criminalità comune, cinque volte tanto le vittime delle Torri Gemelle”. Eppure nella battaglia contro il terrori-smo si investono cifre enormi, assolutamente non comparabili con quelle dedicate a prevenire le condizioni nelle quali si svi-luppa la criminalità. È quindi rilevante il peso che queste – come vogliamo complessi-vamente definirle? Distorsioni interpretative della realtà? – han-no sul riconoscimento del limite come paradigma non aggirabi-le nella nostra esistenza. Possiamo tornare a Manfred Max-Neef: “Abbiamo raggiunto una fase della nostra evoluzione nella quale si è generata una conoscenza enorme... Mai nella storia dell’u-manità si è accumulato un patrimonio conoscitivo confronta-bile con quello sviluppato negli ultimi 100 anni. Il punto è che la conoscenza non è sufficiente. Quello che ci manca è la com-prensione. [...] Possiamo sapere tutto dal punto di vista socio-logico, antropologico, teologico, biologico e biochimico di quel fenomeno che si chiama amore, ma non ne comprenderemo mai la sostanza fino a quando non ci innamoreremo”.

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bibliografia

Amendola G., Tra Dedalo e Icaro, Laterza, 2010

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