pastori a pereto (l'aquila)la pastorizia è una delle forme più antiche di allevamento, praticata...

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Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita a cura di Massimo Basilici edizioni Lo

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  • Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita

    a cura di Massimo Basilici

    edizioni Lo

  • 1

    Introduzione

    Quando si parla di pastori o pecore in Abruzzo, si pensa alla transumanza

    abruzzese, fenomeno migratorio che faceva spostare greggi dall’Abruzzo

    verso il Tavoliere delle Puglie e viceversa. È questo un fenomeno rimasto

    in vita fino agli inizi del Novecento. Migliaia di pecore si spostavano, con

    l’arrivo dell’inverno, verso il Sud della penisola italiana, per avere disponi-

    bilità di erbe. I pastori transumanti portavano con sé strumenti a dorso di

    muli ed asini, utilizzati durante la trasferta: bisacce, tascapani, ciotole, po-

    sate, sgabelli, secchi, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Questi stru-

    menti erano utili sia durante la trasferta in Puglia, sia quando stanziavano

    presso il paese. Gruppi di cani viaggiavano con i pastori e mantenevano

    raccolto il gregge.

    A Pereto questa migrazione non è avvenuta, secondo i racconti dei pastori

    locali ed in base alla carte manoscritte finora rintracciate. In paese si svi-

    luppò una transumanza locale e non verso il Tavoliere delle Puglie. Consi-

    steva nel far pascolare gli ovini in montagna nel periodo estivo; durante la

    stagione invernale, invece, il gregge utilizza i foraggi dei pascoli della Pia-

    na del Cavaliere.

    Pereto ha una piana posta in basso all’abitato e tre vallate montane. Queste

    distese d’erba situate in altura erano destinate a pascolo durante i mesi

    compresi da aprile ad agosto. Avveniva una movimentazione dal piano alle

    vallate presenti in montagna e viceversa. Questi pascoli montani erano uti-

    lizzati anche per gli animali equini e bovini. A queste movimentazioni di

    greggi locali si affiancavano spostamenti di greggi provenienti dal Lazio.

    È stata condotta una ricerca attraverso le testimonianze orali dei pastori an-

    cora viventi a Pereto e degli oggetti che si utilizzavano una volta per la ge-

    stione della pastorizia. Quanto raccolto è riportato nella presente pubblica-

    zione. L’obiettivo della ricerca è stato quello di raccontare la pastorizia a

    Pereto in base alle conoscenze degli anziani del luogo.

  • 2

    Ringrazio: Valentina Bove, Matilde Dondini, Antonio Giustini, Romolo

    Giustini, Alessandro Ippoliti, Fernando Meuti, Giovanni “Giovannino”

    Meuti, Pierluigi Meuti, Anna “Annina” Sciò, Giacomo “Giacomino” Sciò,

    Camillo Vendetti per le informazioni.

    Massimo Basilici

    Roma, 15 aprile 2014

    Note per questa pubblicazione

    ##

    Nella copertina della presente pubblicazione è riportata la foto di un gregge

    su Corso Umberto I, sotto dove si trovavano le baracche edificate con il ter-

    remoto del 1915. L’edificio scolastico doveva essere ancora costruito; la

    foto è datata fine anni Quaranta. Sono le pecore di Ottavio Giustini, cono-

    sciuto con il soprannome di sgherro.

  • 3

    Introduzione

    La pastorizia è una delle forme più antiche di allevamento, praticata con la

    maggior parte delle specie animali domestiche da reddito, principalmente

    ovini e caprini. Si contraddistingue dall'allevamento perché gli animali si

    nutrono muovendosi in un ambiente naturale e non sono nutriti con risorse

    dell'allevatore.

    Pecore e capre sono entrambi mammiferi domestici, ma appartengono a due diver-

    si generi e differiscono fisicamente. Grazie alle capacità di adattamento a regimi

    alimentari diversi, di selezione degli alimenti ed anche di parti della stessa pianta,

    la capra è in grado di adattarsi a condizioni che sarebbero proibitive per altri ani-

    mali considerati più "nobili", quali bovini e ovini.

    I pastori

    In paese quasi tutte le famiglie allevavano le pecore. Le capre le avevano

    tutti: tre o quattro capre andavano al pascolo con le pecore. Solo pochi al-

    levavano esclusivamente le capre. Di seguito sono elencati i pastori che gli

    anziani del paese ricordano. Per alcuni è stato aggiunto il nomignolo o il

    soprannome per distinguerli, poiché esistevano degli omonimi. Per ognuno

    è stata cercata una fotografia da giovane; il numero apposto nella didascalia

    che accompagna l’immagine riguarda l'anno in cui potrebbe essere stata

    scattata la foto. Non è stato seguito un ordine per le fotografie, a mano a

    mano che sono stati individuati dei nomi è stata inserita una fotografia nella

    lista.

    Gaspare “Caspirucciu” Meuti (Figura 1),

    Sante "Santino" Meuti (Figura 2),

    Giovanni “Giovannino” Meuti (Figura 3),

    Giacomo “Giacomino” Sciò (Figura 4),

    Romolo Giustini (Figura 5),

    Mario Vendetti (Figura 6), soprannominato mirupittu,

    Giovanni Leonio (Figura 7), soprannominato stizio,

    Alfonso Cristofari (Figura 8),

    Marziantonio Iacuitti (Figura 9),

    Giovanni Iadeluca (Figura 10), soprannominato poietano,

    Mario Camerlengo (Figura 11), soprannominato maruzzo,

    Pietro Cappelluti (Figura 12), soprannominato caoluzzo,

    Gaetano Cristofari (Figura 13),

  • 4

    Ottavio Cristofari (Figura 14),

    Alfonso Giustini (Figura 15),

    Berardino Giustini (Figura 16), soprannominato rucchitto,

    Berardino Giustini (Figura 17), soprannominato bidone,

    Francesco Giustini (Figura 18), chiamato Checco ‘e Nello,

    Giuseppe Iadeluca (Figura 19), soprannominato maccascianu,

    Giuseppe Iadeluca (Figura 20), soprannominato peppeantonio,

    Alfredo Nicolai (Figura 21), soprannominato ciocione,

    Dante Nicolai (Figura 22),

    Luigi Pelone (Figura 23), soprannominato bugiardella,

    Mario Rossi (Figura 24), soprannominato battente,

    Berardino Santese (Figura 25), soprannominato ‘ndinulei,

    Antonio Sciò (Figura 26), chiamato Antonio ‘ngicchememma,

    Antonio Sciò (Figura 27) soprannominato cialatta,

    Giuseppe “Pippinu” Sciò (Figura 28), chiamato anche Ignazio,

    Luigi Sciò (Figura 29),

    Carlo Vendetti (Figura 30),

    Gustavo Vendetti (Figura 31),

    Nello Giustini (Figura 32),

    Alfredo Malatesta, soprannominato ciuciù (Figura 33),

    Antonio Ranati, soprannominato u capraru (Figura 34),

    Antonio Ranati, soprannominato maggiorani (Figura 35),

    Ottavio Giustini (Figura 36),

    Giovanni Maria Iadeluca (Figura 37),

    Antonio Giustini (Figura 38),

    Giulio Cicchetti (Figura 39) che allevava solo capre

    Di queste persone non è stato possibile rintracciare una foto:

    Ottavio Iacuitti, soprannominato di sgherro, ##luciana

    Carmine Iadeluca, soprannominato di tinaru,

    Giovanni Iadeluca, soprannominato di pennecone,

    Fernando Vendetti,

    Giovanni Cicchetti,

    Mario Giustini,

    Nicola Cicchetti che allevava solo capre

  • 5

    Figura 1 - Meuti Gaspare, 1927

    Figura 2 - Meuti Sante, 1950

    Figura 3 - Meuti Giovanni

    Figura 4 - Sciò Giacomo, 2014

    Figura 5 - Giustini Romolo, ##

    Figura 6 - Vendetti Mario, 1959

  • 6

    Figura 7 - Leonio Giovanni, 1941

    Figura 8 - Cristofari Alfonso, 1956

    Figura 9 - Iacuitti Marzioantonio

    Figura 10 - Iadeluca Giovanni, 1953

    Figura 11 - Camerlengo Mario, 1953

    Figura 12 - Cappelluti Pietro, 1941

  • 7

    Figura 13 - Cristofari Gaetano, 1931

    Figura 14 - Cristofari Ottavio, 1936

    Figura 15 - Giustini Alfonso, 1928

    Figura 16 - Giustini Berardino, 1941

    Figura 17 - Giustini Berardino, 1950

    Figura 18 - Giustini Francesco, 1951

  • 8

    Figura 19 - Iadeluca Giuseppe, 1954

    Figura 20 - Iadeluca Giuseppe, 1943

    Figura 21 - Nicolai Alfredo, 1940

    Figura 22 - Nicolai Dante, 1954

    Figura 23 - Pelone Luigi, 1938

    Figura 24 - Rossi Mario, 1953

  • 9

    Figura 25 - Santese Berardino, 1927

    Figura 26 - Sciò Antonio, 1951

    Figura 27 - Sciò Antonio, 1951

    Figura 28 - Sciò Giuseppe, 1942

    Figura 29 - Sciò Luigi, 1928

    Figura 30 - Vendetti Carlo, 1952

  • 10

    Figura 31 - Vendetti Gustavo, 1927

    Figura 32 - Giustini Nello, 1936

    Figura 33 - Malatesta Alfredo, 1941

    Figura 34 - Ranati Antonio, 1927

    Figura 35 - Ranati Antonio, 1931

    Figura 36 - Giustini Ottavio, 1951

  • 11

    Figura 37 - Iadeluca Giovanni Maria, 1951

    Figura 38 - Giustini Antonio, 2014

    Figura 39 - Cicchetti Giulio, 1954

    In paese non esiste il termine gregge, per indicarlo si utilizzava il termine

    ‘na punta ‘e pecore. Quando il gregge era tanto si utilizzava l’espressione

    ‘na bella punta ‘e pecore. Questa era composta da alcune decine di pecore,

    fino ad arrivare ad un centinaio. Non esisteva l'affidamento delle pecore, in

    altre parole qualche possidente che dava in gestione giornaliera le proprie

    pecore a un pastore. Esisteva, invece, la soccida tra privati. Avveniva

    quando uno intendeva mettere su un gregge, ma non aveva la disponibilità

    economica per costituirlo. Un proprietario acquistava le pecore, un pastore

    le governava per cinque anni. Al termine del periodo si scioglieva la socci-

    da e si divideva tra le due parti il capitale (pecore, latte, formaggi, ricotte,

    ecc.) in proporzione. Questo tipo di soccida non era svolto dalle locali con-

    fraternite, le quali costituivano soccide con gli animali bovini.

  • 12

    Di seguito sono illustrati gli oggetti che il pa-

    store portava con sé durante il pascolo.

    Per camminare utilizzava un bastone per

    l’appoggio e per guidare le pecore, ovvero per

    toccà le bestie. Quando qualcuna cercava di al-

    lontanarsi dal gregge, il pastore la percuoteva

    con il bastone per farla ritornare tra le altre.

    Era un normale bastone. In Figura 40 è riporta-

    to il bastone di Giacomo Sciò (classe 1924),

    che ancora oggi, che ha smesso di portare le

    pecore da alcuni anni, utilizza per spostarsi.

    Attrezzo importante per il pastore era un fazzo-

    letto. Questo, il più delle volte, era posto intor-

    no al collo per proteggerlo dal freddo e dal su-

    dore. A volte legato intorno all'addome. Era u-

    tilizzato per legature necessarie all’occorrenza

    o per contenere oggetti.

    Utile era l’ombrello, in tela colorata, di grosse

    dimensioni (Figura 42). Uno spago era legato

    alle estremità dell’ombrello e mediante questo

    spago il pastore lo portava a tracolla, come un

    fucile.

    Era utilizzato un tascapane, fatto di stoffa, che

    conteneva la colazione e il pranzo da consu-

    marsi durante il pascolo.

    Figura 40 - Bastone di Giacomo Sciò

    Figura 41 - Tascapane

  • 13

    Figura 42 - Ombrello

    L’acqua da bere durante il pascolo era contenuta in una borraccia stipata

    nel tascapane. Alcuni utilizzavano anche delle cupellette, riempite con del

    vino.

    Per camminare erano calzati gli scarponi. Dai racconti degli intervistati non

    è stato evidenziato l’uso delle ciocie, indumento tipico dei pastori. Si rac-

    conta che le ciocie, fatte di pelle di pecora, fossero utilizzate per vangare.

    Agli scarponi erano associati i guardamacchie, costituiti da pezzi di pelle

    di pecora, legati intorno ai polpacci. Servivano per proteggere le parti basse

    delle gambe. In Figura 43 è mostrato un guardamacchia utilizzato dai pa-

    stori in epoche recenti, ma non quello che era realizzato con le pelli di pe-

    cora. Questo era posto intorno alla caviglia e tenuto stretto mediante le due

    fibbie. Quelli antichi erano legati con lo spago.

    ## guardamacchie vecchio

    Figura 43 - Guardamacchia

  • 14

    Il cappello a falda larga riparava dal sole, dalla pioggia e da altre intempe-

    rie. Questo era il corredo del pastore, oltre il vestiario.

    Fondamentale per la gestione delle pecore era la presenza di cani. In epo-

    che recenti fu introdotto un tipo di cane che aggirava il gregge, facendo si

    che rimaneva sempre compatto durante il cammino o il pascolamento. Non

    è stato possibile ricavare, dalle interviste, il tipo di animale. Qualcuno ha

    segnalato che poteva appartenere alla razza del pastore maremmano. Que-

    sto animale era il compagno di viaggio del pastore, nutrito con le ossa degli

    animali macellati dal pastore o dai macellai locali.

    Figura 44 - Antonio Sciò con un suo cane

    Il pascolo

    La giornata tipica del pastore era la seguente. Prima dello spuntare del sole

    il pastore si recava alla stalla e cominciava la sua giornata lavorativa. Pas-

    savano la notte nella stalla, sia per essere difendese da eventuali predatori,

    sia per stare al caldo.

    Il pastore governava le pecore dandogli del fieno, se il gregge non poteva

    uscire per le condizioni climatiche, e cominciava la mungitura

  • 15

    (l’operazione era detta mette a magnà e a mugne). La durata della mungitu-

    ra dipendeva dalla quantita di latte disponibile da ogni singolo animale e

    dal numero di animali da mungere. Non erano utilizzate operazioni partico-

    lari, era avvicinata la pecora da mungere e iniziava la mungitura. Al termi-

    ne dell’operazione il sole era spuntato ed a questo punto il gregge si mette-

    va in cammino uscendo dalla stalla.

    A volte, per tramandare la tradizione, al pastore si aggiungeva il figlio, il

    quale dava una mano nella gestione del gregge e nello stesso tempo impa-

    rava l’arte e i trucchi del mestiere.

    Per far uscire il gregge si aspettava che l’erba del pascolo fosse asciutta, in

    quanto l’erba bagnata poteva far abortire (le ficea sconcià) le pecore incin-

    te. Raggiunto il punto dove il gregge doveva pascolare, il pastore prendeva

    una posizione per osservarle. Nel gregge, una femmina portava la campana;

    questo animale era il punto di riferimento sia per il gregge, che per il pasto-

    re.

    Anticamente si utilizzava riconoscere l’animale attraverso dei tagli praticati

    sulle orecchie, consistenti in fori, tacche o recisioni di parte del lobo

    dell’orecchio. Poi le pecore furono marcate con un liquido, chiamato la

    magra, di colore blu. Il liquido si realizzava mescolando terra blu con olio.

    In epoche recenti furono utilizzate delle vernici.

    Per marcarle si utilizzava un timbro (la merca) in ferro. In un catino era

    versata la magra. La pecora era fatta passare attraverso un corridoio (u

    vau), quindi bloccata con un uncino. A volte la pecora era marcata senza

    questo sistema di bloccaggio. La merca era immersa nel liquido e poi pog-

    giata sulla pelle della pecora. Il timbro riportava le lettere del proprietario

    per riconoscere a chi apparteneva l’animale. Ogni anno si timbrava

    l’animale poiché con la tosatura e la crescita della lana, il marchio scompa-

    riva. Se c’erano proprietari di pecore con le stesse iniziali, si apponeva il

    marchio o alla spalla o alla coscia, per distinguere gli animali dei vari pro-

    prietari.

  • 16

    Figura 45 – La merca di Giacomo Sciò

    Figura 46 - Timbro di Giacomo Sciò, particolare

    In Figura 45 è riportato il timbro di Giacomo Sciò utilizzato per marcare le

    sue pecore. In Figura 46 è riportato un dettaglio del timbro, che mostra le

    iniziali SG.

    Quando due greggi si incontravano, i pastori cercavano di tenere le pecore

    distanti tra di loro per non farle mischiare (falle ‘nfrascà) e poi doverle se-

    parare con dispendio di tempo ed energia.

    Le pecore andavano tenute vicine tra di loro, altrimenti queste mangiavano

    le cime delle erbe e danneggiavano la parte rimanente, calpestando l’erba,

    sprecandola.

    Sono ruminanti, dopo aver masticato in modo sommario il cibo, lo immet-

    tono nella cavità ruminale, dove subisce una prima grossolana digestione. Il

    cibo poi torna, sotto forma di “rigurgito” nella cavità boccale ove subisce la

    masticazione completa. Poi passare nell’omaso dove incomincia la prima

    vera fase di digestione.

  • 17

    Come tutti i ruminanti, gli ovini non possiedono gli incisivi superiori,

    mentre gli inferiori sono molto taglienti e servono per recidere l’erba al pa-

    scolo. Questa loro caratteristica provoca lo scollettamento delle erbe, cau-

    sando l’impoverimento del cotico erboso. Per questo si pratica il pascolo

    turnato, ovvero ## speiga

    La pecora quando è sazia si ferma e si corica per poi riprendere a pascolare

    dopo 1 o 2 ore.

    Durante il pascolo il pastore osservava il gregge, stando attendo che non

    sconfinasse, rispetto all’area dove doveva pascolare. Non aveva tempo per

    leggere. Qualche pastore, per passare il tempo, suonava l’organetto, ad e-

    sempio Santino Meuti. Non si ricorda se qualcuno suonasse la zampogna o

    il piffero. Nel frattempo erano raccolte erbe o funghi per essere poi cucina-

    ti.

    La pecora mangia quasi tutte le erbe. Normalmente sa distinguere bene le

    piante velenose o tossiche dalle altre. L’erba medica è una dell'erbe preferi-

    te, solo che se ne mangia tanta si gonfia, con la possibile morte

    dell’animale. L’unico rimedio preso, qualora avessero fatto indigestione di

    erba, era quello di tenere fermo l’animale con lo scopo di far sgonfiare

    l’addome.1

    In alcuni giorni il gregge era portato in prossimità di zone ove erano pre-

    senti pietre lisce, sopra le quali i pastori depositavano il sale da far mangia-

    re alle pecore. Queste località erano indicate con il termine salere. Il sale si

    acquistava in paese ed era somministrato ogni tanto.2 Secondo alcuni in-

    tervistati gli era dato come integratore alimentare, secondo altri per farle

    mangiare di più.

    Le pecore bevevano una volta il giorno; se il pascolo è verde, la pecora non

    è invogliata a bere. Non c’era un orario specifico, dipendeva quando si tro-

    vavano in prossimità di un fontanile o di un ruscello.

    1 Questa azione oggi è considerata insufficiente, in quanto esistono altri metodi per com-

    battere questo caso. 2 Non è stato possibile avere un dettaglio sulla frequenza della distribuzione o la quantità

    di sale fornito al singolo animale.

  • 18

    Nel primo pomeriggio il gregge si rimetteva in moto per raggiungere il

    punto dove passare la notte. Se le pecore avevano figliato allora si effettua-

    va una mungitura la sera.

    La vita delle pecore

    La pecora è un animale che ama vivere in gruppo. Non esiste una capo-

    gruppo, perché il primo che si muove è seguito dagli altri, è abitudinario e

    quindi tende a seguire gli stessi percorsi e gli stessi spostamenti. E’ un a-

    nimale mite, ma non pauroso come erroneamente si crede, infatti, soprattut-

    to in caso di difesa della prole, la madre attacca a testa bassa l’aggressore.

    Come la maggior parte degli animali, ha un buon fiuto, con il quale riesce a

    riconoscere la propria prole e le altre pecore del gregge da eventuali pecore

    estranee.

    Nel gregge si trovano queste tipologie di animali:

    Maschio Femmina Età

    abbacchio Abbacchio

    agnello Agnella

    Ciavarra Fino a 2 anni

    montone Pecora Da 2 anni in poi

    Dagli anziani intervistati sono citati principalmente due razze3 di pecore al-

    levate in paese:

    - Maremmana, o nostrana, che dava lana più buona; - Sardegnola, bianca, che dava più latte.

    In realtà erano allevate pecore anche della razza Frisona, Siciliana, Faccia

    rossa ovvero Comisana.

    Nel gregge c’erano tre o quattro animali maschi (montoni) su un centinaio

    di pecore. In paese si utilizzava l’esclamazione venti a montone, per indica-

    re il rapporto di quanti montoni dovevano esserci per un gruppo di pecore.

    3 Le razze ovine in genere vengono divise in 3 gruppi: razze ovine specializzate nella pro-

    duzione di latte, nella produzione di carne e nella produzione di lana.

  • 19

    Un carattere distintivo tra i maschi e le femmine degli ovini è dato dalle

    corna che di norma sono presenti nel montone e mancano nella pecora.4

    Il momento in cui i maschi producono spermatozoi e le femmine ovuli fe-

    condabili è detta pubertà. La pecora la raggiunge a circa 6-7 mesi. Quindi

    possono accoppiarsi tra di loro per procreare.

    I montoni avevano il compito di ingravidare le femmine. Con dei salti, in-

    gravidavano più pecore al giorno.

    ## 6-7 pecore

    ## Più salti

    Ogni tre anni il montone andava rinnovato per tenere la razza più sana.

    Le pecore hanno un ciclo estrale (quella fase del ciclo ovarico in cui si ha

    l’ovulazione e la femmina accetta il maschio), ogni 19 – 21 giorni ed ha

    una durata di 48 ore. Quindi la femmina era fertile quasi ogni mese.

    Il montone con il fiuto individua subito la pecora in estro (il salto dura po-

    chi secondi, ma può compierne più di venti al giorno). Le pecore presenta-

    no un’attività riproduttiva stagionale, con inizio durante l’ estate e termine

    durante l’ inverno. La più elevata percentuale di soggetti in estro si osserva

    nel tardo autunno. Anche gli arieti possono essere considerati come ripro-

    duttori stagionali, con un’attività sessuale massima alla fine dell’estate e

    durante l’autunno.

    La pecora partoriva in genere un agnello, qualche volta ne faceva due. La

    gestazione durava cinque mesi.

    Figliava due volte l'anno: Pasqua (il periodo doveva essere tra marzo ed a-

    prile) e Natale (dicembre). Così si sarebbero venduti gli agnelli per l'occa-

    sione.

    Per non farle rimanere incinte prima del mese pianificato, il pastore utiliz-

    zava un accorgimento ai maschi del gregge. Si metteva la parannanzi agliu

    4 Le pecore, secondo la razza, possono avere o non avere le corna e alle volte le possiede

    anche la femmina.

  • 20

    montone, ovvero sotto la pancia del maschio era legato un pezzo di sacco,

    tela di iuta, per non permettere l'accoppiamento tra animali. Per

    l’accoppiamento si toglieva la parannanzi.

    Non c’era un alto grado di mortalità nel parto, era più facile che invece al-

    cune pecore morissero di fame per mancanza di erba da mangiare.

    Trascorsi i cinque mesi di gravidanza la pecora, manifesta sintomi di irre-

    quietezza belando e muovendosi di continuo, appare poi la borsa delle ac-

    que simile ad un pallone trasparente e di li a 5 minuti il piccolo è fuori con

    il cordone ombelicale spezzato.

    Usciva del liquido dalle mammelle di colore giallo, il colostro, e da dietro

    fuoriusciva la placenta che si mostrava come un filo rosso appeso.

    La madre incomincia a leccarlo. Dopo pochi minuti l’agnello è in grado di

    stare in piedi, barcollando si dirige per istinto verso i due capezzoli materni

    per suggerne il colostro, sostanza giallognola indispensabile per l’azione

    immunitaria che possiede in quanto l’agnello nasce senza anticorpi. La pe-

    cora secerne colostro per un periodo piuttosto ridotto, tanto che già 48 ore

    dopo la composizione del secreto è quasi costante e vicina a quella del latte

    normale.

    La pecora può essere portata al pascolo dopo un paio di giorni dal parto.

    Alla nascita gli agnelli hanno un peso medio che oscilla dai 2 ai 3 kg, in

    relazione alla razza ed allo stato di salute della madre.

    Durante l’allattamento c’era una produzione maggiore di latte da parte del-

    la pecora che aveva partorito.5

    Parte degli agnelli nati era destinata alla riproduzione del gregge. Altri

    venduti o macellati.

    5 La lattazione negli ovini presenta il seguente andamento: aumenta nelle prime 2-3 setti-

    mane dal parto, poi presenta un mese di stabilità e poi piano piano decresce. La durata

    media della lattazione oscilla dai 200 ai 240 giorni. 3 mesi

  • 21

    La vecchiaia di una pecora è mostrata dai denti, con il passare del tempo gli

    cadono. La pecora era considerata vecchia dopo 6/7 anni di vita.6 Passato

    questo tempo la pecora non produceva una quantità di latte sufficiente per

    la produzione dei formaggi. Cadendogli i denti per la vecchia, mangiava

    con difficoltà e di conseguenza produceva meno latte. La pecora era consi-

    derata vecchia anche quando era zoppa (cioppa), cieca (ceca) o camminava

    in modo sbilenco (struppa).

    La vecchiaia di un montone è possibile vederla dalle corna. Con il passare

    del tempo, queste gli crescono con un andamento a spirale. Più erano lunghe

    e più era vecchio. Solo che le corna potevano dare fastidio quando il ma-

    schio si muoveva. Questo era un motivo per cui le corna erano tagliate a

    partire dal secondo anno di vita. Si tagliavano con la sega. In tempi più an-

    tichi con un filo metallico.7 Le corna segate non avevano alcun utilizzo e

    per questo si buttavano.

    Anche le corna delle capre erano tagliate durante la crescita dell’animale o

    quando veniva macellato. Queste venivano utilizzate come manici dei col-

    telli. 8

    Se non macellata, era venduta. Se non erano acquistate in paese, le pecore

    da vendere venivano portate alla fiera di Carsoli, che si teneva ogni mese,

    oppure presso altre fiere che si svolgevano nel circondario.

    La pecora fornisce latte, lana, carne, pelle e letame. Di seguito sono passate

    in rassegna le lavorazioni di questi prodotti. Da tener conto che la persona

    che si occupava degli animali era generalmente la stessa che provvedeva

    alla trasformazione dei prodotti.

    6 Sono animali che possono vivere normalmente fino a 12-14 anni.

    7 Dai racconti è sucito fuori che si utilizzasse il filo della luce elettrica, quello tolto dai fili

    dei tralicci. 8 Le corna dei bovini si utilizzavano per realizzare la coa, ovvero la custodia della falce

    per il grano.

  • 22

    Il latte

    Per mungere il latte, il pastore si sedeva su uno sgabello di legno a forma di

    mezzaluna con tre piedi, chiamato prituicchia (Figura 47). Il secchio per il

    latte ben serrato tra le ginocchia, era posto avanti alla prituicchia.

    Figura 47 - Prituicchia

    In genere una pecora produceva poco più di un quarto di latte.

    La quantità fornita da ogni animale dipendeva dall’animale e se allattava.

    Per recuperarlo il pastore si sedeva sulla prituicchia, tirava a se l’animale e

    cominciava a mungere le mammelle. Negli ultimi tempi si utilizzò un mec-

    canismo per mungere le pecore chiamato la cattura. Consisteva in una spe-

    cie di una passerella delimitata ai lati. Gli animali, spinti, ad uno ad uno en-

    travano in questo corridoio, al cui termine venivano bloccati. In questo

    punto il pastore mungeva l'animale che si trovava immobilizzato.

    Il latte in genere finiva in un secchio (marmittuccio). Qualcuno utilizzava

    un secchio particolare (u sicchiu ‘elle pecore) che aveva lo scopo di pro-

    teggersi dagli schizzi del latte e soprattutto di non far disperdere gocce di

    latte.

    Figura 48 - Marmittuccio

    Figura 49 – Secchio particolare

    Alle mammelle dell’animale non erano fatte pulizie particolari (avere

    l’acqua a disposizione era un lusso).

  • 23

    Se il latte munto era poco, questo era trasportato fuori dalla stalla utilizzan-

    do il secchio stesso in cui era stato raccolto. Dopo la Seconda Guerra Mon-

    diale si utilizzò un recipiente di alluminio con un coperchio, chiamato in

    locale ghirba. Questo recipiente aveva lo scopo di proteggere il latte da in-

    setti ed impurità e soprattutto di prevenire la dispersione (Figura 50). Ave-

    va un manico, un coperchio ed un meccanismo per bloccare il coperchio.

    Il latte di pecora è meno diffuso di quello di bovino, ma è largamente im-

    piegato nell’industria casearia. Il latte ovino è ricco di grasso e proteine ed

    è adatto alla caseificazione e meno adatto come bevanda.9 Per questo si rea-

    lizzavano formaggi e ricotte.

    Figura 50 - Ghirba

    Il recipiente con il latte raccolto era portato presso un locale, dove sarebbe

    stato riscaldato. Questa cottura era svolta ogni mattina; il latte munto non

    poteva essere conservato a lungo in quanto non c’erano sistemi di conser-

    vazione disponibili. Al latte raccolto la mattina, si aggiungeva il latte rac-

    colto la sera, quello munto quando le pecore erano nel periodo di allatta-

    9 Il latte pecorino è composto da circa (dipende dall’alimentazione, sistema di allevamen-

    to etc.):

    - acqua 80%

    - proteine 6-7%

    - grassi 6-7%

    - lattosio 4,9%

    - sali minerali 1,2-1,3

  • 24

    mento. Si poteva mischiare il latte di pecora con quello di mucca (vacca) o

    di capra, se qualcuno lo aveva disponibile.

    Il latte di capra è simile a quello vaccino, ma diversa nella composizione

    chimica. È di difficile lavorazione perché il contenuto di caseina molto bas-

    so fa resistente all'azione del caglio. I globuli di grasso di cui è composto,

    molto piccoli, lo rendono un latte digeribile e leggero.10

    Il latte era versato in un caldaio (callaro) di rame o stagnato, facendolo

    passare attraverso un pezzo di tela di canapa (cola). In genere era una tasca

    di tela, da cui fuoriusciva il latte versato. Quest'operazione, detta a colà lo

    latte, serviva a filtrare le impurità presenti nel liquido. In epoche recenti fu-

    rono utilizzati dei colini in metallo con le maglie strette.

    Versato tutto il latte nel caldaio, questo era messo sul fuoco con un coper-

    chio posto sopra.

    Figura 51 - Callaro

    Si aspettava che il latte raggiungesse una certa temperatura, il latte andava

    scaldato, non bollito. Per verificare la temperatura raggiunta, si basava sul

    tempo trascorso dal callaro sul fuoco, non cerano i termometri. Per essere

    sicuri che avesse raggiunto la temperatura giusta, l’addetto alla cottura po-

    neva una mano sopra la superficie del liquido e, in base all’esperienza, ri-

    10

    Adatto alle persone con problemi di digestione, in quanto contiene poco lattosio e dun-

    que è più digeribile, ma possiede un odore forte e deciso.

  • 25

    conosceva quando il liquido era pronto. Raggiunto il punto desiderato,11

    si

    scostava il callaro dal fuoco, si scoperchiava, si aggiungeva il caglio (u ca-

    gliu).

    Il caglio era realizzato con lo stomaco dell’agnello ancora lattante. Estratto

    dall’animale, si faceva essiccare all’aria. Una volta secco era tagliuzzato

    con un coltello e ridotto in polvere. Era "condito" con l’aceto12

    e sale in un

    contenitore e conservato. Quando serviva il caglio, con un cucchiaio, se ne

    estraeva una porzione che era messa in un bicchiere con dell’acqua fredda.

    Andava utilizzato mezzo cucchiaio di caglio per 10 litri di latte. Con il cuc-

    chiaio si mescolava questa miscela (lo da sciolle) e poi, filtrata, era versata

    nel callaro. In Figura 52, sulla destra si trova un barattolino contenente il

    caglio, realizzato con l’aceto. Al centro dell’immagine è mostrato un bic-

    chiere con un cucchiaio di legno. Questo cucchiaio era utilizzato per prele-

    vare il caglio e mescolarlo nel bicchiere con l’acqua.

    Aumentando la quantità di caglio diminuisce il tempo di coagulazione e vi-

    ceversa. Aumentando la temperatura del latte si accelerava il tempo di coa-

    gulazione e viceversa. Per il latte troppo freddo o troppo caldo il caglio

    cessa il suo effetto.

    Figura 52 - Caglio

    Versato il caglio nel callaro, bisognava mescolare il latte. Per eseguire que-

    sta operazione si utilizzava un bastone di legno con alcune biforcazioni in

    11

    La temperatura doveva essere tra 35/40 °C. 12

    In mancanza di aceto si usava il succo di limone.

  • 26

    una delle estremità, detto spino, conosciuto in locale con il nome di squa-

    gliarello (Figura 53).

    Si girava il latte per un breve periodo.

    Figura 53 - Squagliarello

    Dopo aver mescolato, si aspettava che il latte cagliasse, lasciandolo riposa-

    re. Mentre il latte riposava, si formava una sostanza gelatinosa sulla super-

    ficie del caldaio.13

    A occhio si vedeva quando era stato raggiunto questo

    stato, in quanto il liquido era diventato una gelatina. Esisteva anche una

    prova per verificare se il latte si era quagliato correttamente. S'immergeva-

    no due dita nel liquido, se questo rimaneva attaccato alle dita era segno che

    la cagliata non si era ancora formata, viceversa se uscivano asciutte, ovvero

    non si attaccava il liquido, era segno che la cagliata era pronta.

    Il latte cagliato è chiamato giuncata (juncata) ed era il primo lavorato del

    latte della pecora.

    Dopo la formazione della cagliata, si rimetteva il callaro sul fuoco per poco

    tempo (#10/15 minuti) e si tagliea la cagliata, facendo con lo squagliarello

    una croce nel latte (forse come azione propiziatoria). Poi si tagliava ancora

    la cagliata, sempre con lo squagliarello, eseguendo altre linee. La cagliata

    andava rotta per favorire la separazione del liquido chiamato siero (seru).

    Rotta la cagliata, la si mescolava per non farla riaggregare. La sostanza ge-

    latinosa, grazie all’azione di mescolamento, si divideva in parti più piccole.

    Si girava più volte la cagliata per ricavare dei chicchi molto piccoli, della

    grandezza dei chicchi di granturco.

    13

    Il caglio ha le proprietà di coagulare le proteine del latte (caseine) formando la cagliata.

    Questa si forma nell'arco di 45-60 minuti.

  • 27

    Al termine del mescolamento, era tolto il callaro dal fuoco e la cagliata in-

    tanto si depositava sul fondo del recipiente. A questo punto andava separata

    la cagliata dal liquido. Chi lavorava questo preparato, infilava le mani nel

    callaro e cominciava a mettere insieme i vari pezzi di caglio che si erano

    depositati e cominciava a premerli tra di loro.

    Raggiunta una certa consistenza, era estratto un pezzo (pallocca) della ca-

    gliata e messo in apposite forme (cassi) di legno di faggio, dove veniva

    pressato con le mani, a più riprese, per eliminare il siero eccedente. I cassi,

    prima dell’utilizzo, erano bagnati.

    Il liquido che fuoriusciva dalla pigiatura del formaggio nel casso non anda-

    va buttato poiché era ancora utile. Per questo si utilizzava u cacieru, una

    specie di piatto di legno, scavato, dotato di una punta, che raccoglieva il li-

    quido che fuoriusciva. Questo liquido si rimetteva nel caldaio, niente anda-

    va buttato.

    Figura 54 - U cacieru

    Il casso era di varie altezze, in funzione della grandezza della pizza di for-

    maggio che si intendeva realizzare. Era possibile regolare il diametro del

    casso utilizzando uno spago, quindi a parità di altezza si potevano realizza-

    re pizze di formaggio di vario diametro. Questa variabilità del diametro era

    utile, in quando era variato in funzione della quantità di cagliata disponibile

    in quel momento. In Figura 55 sono mostrati quattro cassi, di varie altezze

    e gli spaghi per variare il diametro.

    Figura 55 - Cassi

  • 28

    Durante la cagliata, occasionalmente, quando c’erano presenti dei bambini,

    alcuni pastori realizzavano con il caglio una specie di mozzarellina calda,

    chiamata u surgittu, da mangiare subito. Infilavano le mani nel callaro,

    prelevavano un pezzetto di caglio (u pezzittu 'ello cacio) e formavano una

    piccola palla. La forma ricordava quella di un topolino bianco, da qui il

    nome surgittu/sorcetto. Era priopriu bona.

    Il siero di latte avanzato dalla lavorazione del formaggio veniva utilizzato

    per fare la ricotta. Il callaro era messo nuovamente sul fuoco, per questo si

    utilizza il termine ricotta,14

    ovvero due volte cotta. Per fare la ricotta più

    bianca, all’inizio di questa nuova cottura si aggiungeva un bicchiere di lat-

    te, altrimenti la ricotta sarebbe venuta con un colore giallo pallido.

    Il siero era mescolato continuamente ed era portato a una temperatura mag-

    giore rispetto a quella del formaggio.15

    Dopo un po’, la ricotta saliva in su-

    perficie e, raccolta continuamente con la schiumarola, era messa in conteni-

    tori conici (frucelle) di giunco e fatta scolare.

    Figura 56 - Schiumarola

    Figura 57 - Frucella

    La lavorazione termina quando le particelle solide non salgono più in su-

    perficie, lasciando il siero. La maggior parte dei pastori lo dava ai maiali

    per nutrimento (u seru pegli porchi), mediante beveroni o impasti. Questo

    accadeva quanno gli tocchea all’animale, ovvero era possibile darglielo. In

    tempi non tanto antichi, per la fame, era bevuto da chi non aveva da che

    sfamarsi.16

    Qualcuno faceva il ## formaggio con i vermi

    ## le mele

    14

    È un latticino prodotto dal siero, privo della caseina. È costituita da proteine, le quali

    con il calore tendono a denaturarsi e quindi coagulano 15

    La temperatura doveva essere tra 80/85 °C. Non deve sobbollire. 16

    Questo liquido conserva un valore nutrizionale.

  • 29

    Da evidenziare che durante la stagionatura il formaggio poteva essere il po-

    sto dove il moscone poteva deporre le uova. Da queste nascevano i vermi,

    ma erano diversi da quelli che nascevano dalla stagionatura del formaggio.

    Quelli del moscone erano più grandi.

    Non si faceva il burro con il latte di pecora o di capra.17

    Il casso con il formaggio era stipato in qualche locale, su tavole di legno,

    rialzate dal pavimento. Qui riposava per la stagionatura. Due/tre giorni so-

    po si metteva del sale sulla faccia superiore del formaggio, ovvero avveni-

    va la salatura a secco. Qualche giorno dopo si girava sottosopra il casso,

    mettendo il sale su questa altra faccia della forma di formaggio. Messo il

    sale sulle due facce della forma, non ci si metteva più sale.

    Dopo alcuni giorni il formaggio aveva già cominciato ad asciugarsi e per

    questo si levava dal casso. La stagionatura durava in base al prodotto che si

    intendeva realizzare, per il formaggio al taglio qualche mese, per grattarlo

    diversi mesi. Con il passar del tempo la forma di formaggio assumeva un

    colore dapprima giallo chiaro, poi più scuro fino a raggiungere una colora-

    zione marrone o nera.

    Ogni tanto si andava a visionare le forme di formaggio e notare eventuali

    formazioni di muffe sulla superficie.18

    Queste andavano subito rimosse con

    uno straccio per non dover poi gettare il lavorato. Il fatto di girare conti-

    nuamente le forme, riduceva la formazione di queste muffe. In estate poi si

    riponeva il formaggio in luoghi freschi per non farlo trasudare, ovvero far

    uscire gocce di grasso.

    Formaggio Dai 7-10 giorni formaggio fresco

    Formaggio fresco (a cortello), di breve stagionatura Da 2-4 mesi a taglio

    Formaggio secco per grattugiare, di lunga stagionatura4 mesi pecorino da

    grattuggiare

    17

    Qualcuno in paese produceva rararmente il burro con il latte di mucca. 18

    Il formaggio è composto da sostanze organiche con la presenza di acqua, ambiente idea-

    le per il proliferare di microorganismi. Il formaggio con le muffe sono un connubio na-

    turale. Alcune sono sinonimo di "salute" del prodotto, altre invece no.

  • 30

    Durante la stagionatura, alcune forme potevano deformarsi, spaccare, ri-

    gonfiarsi, rammollire, diventare gessose o assumere un sapore amaro. Se si

    gonfiava, in altre parole presentava delle bolle internamente,19

    era comun-

    que mangiato. Questo formaggio alla lunga tendeva a sgonfiarsi. Se era

    gessoso, almeno nella parte esterna, si cercava di raschiare la parte esterna

    per recuperare parte del prodotto. Se era amaro, si dava la colpa a certe er-

    be che la pecora aveva mangiato. Nella maggior parte delle forme prodotte,

    questi casi di cattivo prodotto erano rari. Se il prodotto andava a male, que-

    sto era dato in pasto ai maiali.

    La lana

    La caratteristica posseduta dalle pecore è il vello formato da bioccoli e fi-

    lamenti di lana. In inverno è molto lungo e folto che le serve per ripararsi

    dal freddo. La qualità della lana dipende dalla razza dell’animale e dalla

    parte del corpo da cui proviene.

    Il pelo della capra generalmente non è lanoso come quello della pecora, e

    per questo non andavano tosate.20

    La tosatura delle pecore si faceva una volta l’anno, in primavera, prima di

    portare il gregge in montagna per il pascolo estivo. L’operazione consenti-

    va una migliore pulizia e un maggior benessere dell’animale. Le capre non

    si tosano perché perdono da sole il pelo.

    I tosatori (carosini) venivano da fuori, pochissimi in paese facevano questa

    operazione. Di gente del luogo si ricordano: Fulvio Dondini, Giammaria

    Dondini, Ottavio Cristofari, Mariano Iadeluca, conosciuto con il sopran-

    nome di papà Mariano. Questi utilizzavano la macchinetta per tosare le pe-

    core.

    19

    Si pensa che le bolle internamente si formavano a causa di colpi di vento che alteravano

    la stagionatura. 20

    in alcune zone assai fredde del pianeta spesso sono ricoperte da una soffice peluria iso-

    lante, oltre ad un primo strato di lana più ruvida; tale peluria viene utilizzata per produr-

    re vari tipi di lana, di cui la più nota è il cashmere.

  • 31

    Si ricordano persone forestiere, provenienti dal Cicolano, in particolare dal-

    la frazione di Sant’Elpidio, nel comune di Pescorocchiano (RI). Questi si

    portavano gli attrezzi per tosare.

    Figura 58 - Forbice

    Per tosare le pecore si usava la forbice (Figura 58), poi venne introdotta la

    “macchinetta” a mano ed a seguire quella elettrica.

    Prima di tosarle si dovevano abbagnà, ovvero lavare. Si portava il gregge

    agliu ponte risiccu, una località in prossimità delle nuci ‘elle mole, verso il

    paese di Oricola. L’acqua era quella del fosso Fioio. Qui andavano i vari

    pastori di Pereto a “lavare” le pecore.

    In questa località si formava un laghetto e le pecore erano fatte scendere in

    questo bacino. Bastava mandare una pecora nel laghetto che le altre la se-

    guivano. Uscite dall’acqua non erano spazzolate, si aspettava che si asciu-

    gassero con il sole. Se avevano addosso pezzi di terriccio o escrementi (pa-

    tacche), queste gli rimanevano, la lana era pulita dopo la tosatura.

    Dopo qualche giorno avveniva la tosatura. Non c’era un punto preciso per

    quest'operazione; ogni pastore faceva carosare le proprie pecore in prossi-

    mità della stalla, o dello stazzo, o in un punto dove c’era la commodità.

    Per non far muovere l’animale durante la tosatura, si legavano le zampe (la

    pecora era 'mpastorata). In altri casi, se c'erano più persone disponibili, si

    tosavano senza legare l'animale; due reggevano le gambe ed uno tosava la

    pecora.

  • 32

    Figura 59 - Alfonso Cristofari, mentre tosa unna pecora

    Per proteggere le reni delle agnelle dagli agenti atmosferici, sul dorso era

    lasciato, dopo la tosatura, un rettangolo di lana, chiamato la bardella.

    Tutti i batuffoli di lana raccolti da un unico animale costituivano un toso.

    Principalmente la lana era di colore bianco, era raro avere lana scura dovuta

    a qualche pecora di colore bruno o nero. La lana tosata era messa in sacchi

    per essere poi portata alla lavorazione.

    L’operazione di tosatura poteva protrarsi anche per giorni, in base al nume-

    ro di pecore; il proprietario all’occorrenza preparava il pranzo e/o la cena.

    La maggior parte della lana era venduta. Ci furono varie modalità di vendi-

    ta della lana in base ai tempi. Inizialmente si vendeva ai privati che inten-

    devano acquistare la lana. Ai tempi del Fascismo fu attivato l'Ammasso. I

    proprietari dovevano conferire obbligatoriamente o volontariamente i pro-

    dotti agricoli per essere poi distribuita sul mercato, tra cui la lana delle pe-

    core. Era portata a Carsoli. Era pagata poco al pastore e rivenduta cara a

    chi la comprava. Il pastore ne poteva trattenere poca per un proprio utilizzo

    familiare. Si racconta che alcuni che avevano venduto privatamente dei

    prodotti agricoli, furono incarcerati.

  • 33

    In seguito furono vendute al Consorzio di Carsoli, oltre che a privati. Il

    Consorzio si trovava ## via del fioraio all’angolo

    ##Adaveni la resa

    In tutte le epoche analizzate, non c’era alcun controllo di qualità sulla lana

    prodotta e venduta.21

    Per la famiglia erano lasciati alcuni tosi per la produzione della biancheria

    intima (maglie di lana, calzini, sottane e camicie). Di seguito sono descritte

    le operazioni eseguite in paese per utilizzare la lana recuperata dalla tosatu-

    ra. Dopo il taglio la lana veniva messa a bagno con soda e acqua tiepida per

    una settimana in grossi recipienti; ogni giorno l’acqua veniva cambiata.

    Figura 60 - Lavaggio della lana

    In Figura 60 è mostrata una foto d'epoca che mostra un callaro con dentro

    l'acqua e la lana che era a bagno per sciogliere le patacche. L’obiettivo era

    di sciogliere le incrostazioni di terra o escrementi che erano ancora attaccati

    alla lana. In seguito era messa nei cesti, se era poca, o nei tini (piunzi) e tra-

    sportata con i muli fino al lavatoio comunale o al fosso. Qui si sciacquava e

    si portava poi a casa.

    21

    Oggi si considerano: Finezza, ovvero diametro del filo di lana, Purezza, ovvero presenza

    di altre lane, Increspatura, ovvero il numero delle ondulazioni del filo di lana, Lunghez-

    za del filo.

  • 34

    Nella case, per una settimana, rimaneva ad asciugare sopra i teli (i pannu-

    ni), o qualunque straccio che permettesse l’asciugatura. La sera davanti al

    fuoco, le donne la scioglievano, allargando fiocco per fiocco (se scellea).

    Figura 61 - Lavorazione della lana

    In Figura 61 sono mostrati due donne ed un ragazzo che di fronte l'abita-

    zione, su via Vittorio Veneto, stanno scellendo la lana.

    Con questa prima lavorazione, la lana prodotta poteva essere utilizzata per

    riempire il materasso.

    Per essere tessuta la lana andava separata, in altre parole cardata (scardata).

    Per fare quest'operazione serviva un artigiano, lo scardalano. A Pereto non

    esisteva e per questo la gente del luogo doveva portare la lana ad Anticoli

    Corrado (RM), dove viveva, uno scardalano, nativo di Pereto. Era Pasqua-

    le “Pasqualino” Giustini. Questi aveva sposato una donna di Anticoli e

    quindi si era trasferito li. Il padre di Pasquale, Domenico, abitava a Pereto

    ed era soprannominato scardalano.

    L’attività dello scardalano era di cardare la lana. Questi riusciva a produrre

    fili di lana della lunghezza di un metro (i maccaruni). La lana cardata era

    poi trasportata in paese e con i fili si formavano dei gomitoli (ciammelle).

    Con la lana cardata si potevano realizzare anche piccoli rettangoli, alti

    qualche millimetro (le pernecchie), utilizzati per produrre le imbottite.

    Le coperte si realizzavano con la lana o un misto lana e cotone. Le matasse

    di lana utilizzate per le coperte, dopo essere state lavate con acqua tiepida e

    soda, erano tinte con i colori rosso, verde, nero e azzurro per realizzare stri-

  • 35

    sce colorate. Le tinture erano acquistate presso qualche negozio del paese.

    Con i fili colorati, la tela era lavorata creando strisce o quadrati di diversi

    colori.

    I processi di filatura e tessitura della lana erano analoghi a quelli della ca-

    napa.

    La carne

    Alcuni agnelli erano fatti crescere per ripopolare il gregge. Altri erano ven-

    duti o macellati per sfamare la famiglia.

    La capra veniva anche allevata per la carne.22

    Ha un sapore piuttosto simile

    alla carne d'agnello, tuttavia, secondo l'età e le condizioni dell'animale, la

    carne può assumere sapori simili alla selvaggina.

    La carne macella della pecora, in genere, non era conservata, essendo poca

    rispetto ad una mucca, era consumata nel giro di due/tre giorni. Qualcuno

    la essiccava per poi mangiarla all’occorrenza, ma erano rari questi casi, vi-

    sta la fame.

    La parte più ricercata della pecora era la coscia, per il sugo era meglio la

    spalla.23

    Il piatto tipico realizzato con la carne di pecora era la pecora al

    sugo, il quale sugo era preparato per condire le sagne o gli gnocchi. Il piat-

    to semplice erano le bistecche cotte al fuoco. La pecora alla cottora, una

    ricetta conosciuta oggi in paese, è stata introdotta di recente. Della pecora

    non si buttava niente.

    Uno dei piatti ricercati era la scannatura. Quando veniva scannato

    l’animale, il sangue veniva fatto cadere in una bacinella e qui coagulava

    con il passare del tempo. Una volta raffermo, si separava a pezzi, si cuoce-

    va nell’acqua e poi era fritto, quindi si mangiava. Sembrava un cioccolato!

    Con le interiora si preparava la coratella. Il fegato era fritto.

    L’ultimo pezzo dell’intestino, quello fino all’ano (u mazzu), era ricercato.

    Una volta estratto, era pulito l’interno, lavato e tagliato in tre strisce. Con

    22

    Dal punto di vista nutrizionale contiene meno grassi e colesterolo di quella di pecora. 23

    la carne è gustosa, bianca, digeribile, ricca di acqua, di discreto valore nutritivo, la fra-

    zione proteica rappresenta il 20%, quella in grassi appena l’1%, sono carni ipocalori-

    che.

  • 36

    queste strisce si costruiva una treccia, intrecciando le strisce. Questa si

    cuoceva in padella con le patate oppure allo spiedo.

    I zampetti si facevano al sugo, con la testa si faceva il brodo ed il cervello

    era fritto.

    Le ossa degli animali macellati erano date in pasto ai cani che seguivano il

    gregge.

    L’agnello è associato a Gesù Cristo ed in particolare alla Pasqua. Per que-

    sto in quel periodo era richiesta la carne di agnello (abbacchio) per essere

    poi cotta alla brace durante le scampagnate del periodo pasquale.

    La pelle

    Una volta macellato, l’animale era scuoiato. La pelle era stesa ad asciugare

    all'aperto, appesa a dei bastoni. Succedeva che a volte erano stese sulle reti

    dello stazzo, prima con la faccia interna rivolta a sole, dopo alcuni giorni

    veniva rovesciate. Sulla pelle, nella zona prossima agli arti, erano apposti

    dei bastoncini di legno. Con l'essiccazione la pelle tendeva ad accattocciar-

    si, per mantenere stesa la parte di pelle riguardante gli arti, si mettevano

    questi bastoncini per tenere aperta e non farla accartocciare.

    Localmente, le pelli erano usate per realizzare le ciocie e i guardamacchie.

    Ogni tanto in paese veniva un pellicciaio che comprava queste pelli. Qual-

    cuno ha segnalato che proveniva dai Castelli romani, altri da Riofreddo, chi

    da Carsoli. Inizialmente veniva con degli animali da soma, poi con un ca-

    mioncino. Non è stato possibile capirne che uso ne era fatto.

    Il letame

    Durante la giornata, le pecore producono escrementi che rappresentano un

    letame naturale. Chi aveva un terreno ed intendeva concimarlo, chiamava

    un pastore che con il suo gregge concimava (stabbiava) il terreno con il po-

    steggiare sul luogo. Da segnalare che le vallate montane di Pereto erano

    coltivate a grano. Le pecore erano richieste per concimare, in modo natura-

    le, gli appezzamenti montani di terreno per i prossimi raccolti.

    Il letame era prodotto anche nella stalla, quando le pecore si trovavano rin-

    chiuse. Il pastore tra aprile e maggio metteva fuori dell’area questo letame,

  • 37

    per rendere agibile la stalla. Era sparso sul terreno prima dell’aratura così

    da ottenere una concimazione organica utile per le erbe foraggiere da

    mettere a disposizione degli ovini stessi.

    Era fertilissimo a tal punto che acquirenti venivano dalla piana del Fucino

    per comprarne sacchi di questo concime. Questi erano armati di zappa e pa-

    la e loro stessi svuotavano la stalla dal letame. Lo riponevano nei sacchi e

    lo portavano via. Anticamente con animali da soma, poi con dei camion.

    È stato raccontato che alcuni di questi acquirenti facevano cambio a zuc-

    chero. Invece di pagare in soldi consegnavano dei sacchetti di zucchero,

    prodotto che era realizzato nel Fucino.

    Gli intervistati di questa ricerca hanno raccontato che con il formaggio e la

    carne il pastore ci viveva, la lana ed il letame invece erano il guadagno del

    pastore.

    Le stagioni

    Il movimento dalla pianura alle vallate montane e viceversa dipendeva dal-

    le condizioni metereologiche. Dal 15 marzo le pecore erano portate in mon-

    tagna.24

    A causa del protrarsi della cattiva stagione si aspettava in alcuni

    casi la fine di aprile o gli inizi di maggio. Così, con l’arrivo della primave-

    ra, lasciavano la stalla in cui avevano passato parte dell’inverno.

    Per pascolare in montagna si pagava una tassa comunale. Il termine fida è

    sconosciuta agli intervistati, era utilizzato per i pastori forestieri.

    Il pastore non seguiva un percorso preciso per andare in montagna. Le zone

    di pascolo erano Campo catino, Campo secco, Macchia lunga e Serrasecca.

    A queste distese d’erba vanno aggiunte le località di Santo Maro, Pirumaru

    e l’Oppieta. Non c’era un punto preferito per il pascolo, dove capitava si

    portavano. Il pascolo più buono in montagna era quello di Campo secco e

    dell'Oppieta. Riguardo il piano, il pascolo più buono erano gli appezzamen-

    ti di terra situati a Prato marano in quanto erano rigogliosi e c’era vicina

    l’acqua.

    24

    I vari intervistati non conoscono i riferimenti riguardanti le date di Sant’Angelo di mag-

    gio o di settembre.

  • 38

    Si utilizzava qualche animale da trasporto (mulo, somaro) per portare mate-

    riali utili per il soggiorno in montagna.

    Non c’era un punto preferito dove impiantare lo stazzo (u stazzu), ovvero il

    recinto fatto con la rete di spago di canapa, utilizzato per riparare il gregge

    durante la notte. In Figura 62 è riportata una fotografia di una rete utilizzata

    per uno stazzo.

    Figura 62 - Rete

    Si infilavano dei bastoni nel terreno per delimitare l'area dello stazzo. Per

    questa operazione si utilizzava u magliu, una specie di martello di legno,

    fatto apposta per questo lavoro.

    Figura 63 – U magliu

    In cima, nella parte rigonfia del legno si trovava un buco, ed era questo che

    aiutava nell'azione di infilare il paletto dello stazzo nel terreno. In Figura

    64 è mostrata la cavità di questo attrezzo.

    Figura 64 – U magliu, particolare

  • 39

    Su questi bastoni veniva posta la rete che così delimitava lo stazzo.

    Pastori, che non avevano le reti per delimitare lo stazzo, realizzavano

    un’area recintata delimitandola con dei spini. Alcune volte più pastori ra-

    dunavano i loro greggi realizzando degli stazzi attigui tra loro (u precojo).25

    Dai racconti è stata segnalata la presenza di un muro a secco in località

    Coppetegli (Figura 65). ## ara ciocione Sembra uno stazzo delimitato da

    pietre, in realtà era un terreno coltivato a grano, delimitato dalle pietre. In

    un determinato periodo dell’anno vi sostava un gregge per stabbiare la zo-

    na.

    Figura 65 - Stazzo in pietra

    Un elemento di fastidio del gregge è il sole, ovvero non amano i pascoli

    troppo assolati del pieno giorno; per questo le pecore si mettevano vicine,

    a contatto tra di loro, per stare più fresche o cercavano dei punti ombreg-

    giati. Si proteggono tenendo la testa all’ombra della pancia delle altre peco-

    re e tutte insieme stanno ammassate allo stesso modo.

    Questa operazione era chiamata ‘ngozzaturo. Quando il pastore aveva mes-

    so le pecore vicine tra loro per stare al fresco si utilizzava l’espressione,

    rivolgendosi a lui, le si ‘ngozzate le pecore, ovvero hai messe le pecore al

    riparo.

    Resistono, invece, bene alle basse temperature, perché coperte dal vello ol-

    tre che da uno strato di grasso, la lanolina, ancora oggi usata come base per

    25

    Non si comprende se costruissero una costruzione per condividerla tra loro.

  • 40

    creme di bellezze. La lana ha un odore caratteristico dovuto alla lanolina,

    grasso che la impregna e serve all’animale per rendere impermeabile il

    mantello.

    Per dormire il pastore utilizzava u capanno, costituita da 5 o 6 archi di le-

    gno ricoperti con la paglia. Potevano dormirci due persone. La costruzione

    non era fissa, si spostava con il gregge, caricandola in spalla. Ogni giorno

    veniva posizionata in un altro posto. Il luogo dove dormivano i pastori era

    chiamato iaccio. Nel capanno erano sistemate le rapazzole, sacchi ripieno

    di paglia, utilizzati come materasso. Quando il terreno era bagnato, era po-

    sto uno strato di sassi, sopra a questi venivano messe delle frasche, poi

    poggiate le rapazzole e sopra messa la capanna.

    Alcune famiglie del luogo realizzarono, per non portarsi appresso la capan-

    na, delle costruzioni a secco, realizzate con delle pietre. Erano queste delle

    costruzioni patronali, utilizzate per uso proprio durante il pascolo. Di segui-

    to sono riportate quelle rintracciate:

    La casetta di ‘ngicchememma, in località Oppieta, realizzata da Francesco

    Sciò, bisnonno di Maria Sciò, soprannominata Maria la bionda.26

    Si rac-

    conta che chi costruì questa casetta aveva fatto un sogno, che in quella lo-

    calità c’erano sepolti dei soldi, un tesoro. Non si sa se li trovò o meno, solo

    che vi realizzò questa costruzione.

    26

    Si racconta che chi costruì questa casetta aveva fatto un sogno, che in quella località

    c’erano sepolti dei soldi, un tesoro. Non si sa se li trovò o meno, solo che vi realizzò

    questa costruzione.

  • 41

    Figura 66 - Casetta di ‘ngicchememma

    In Figura 66 è riportata la struttura. In basso all’immagine si trova una ma-

    cera, realizzata a secco con sassi, che delimitava lo stazzo. Sopra a questa

    macera si notano due muri che sono le strutture della stalla. In Figura 67 è

    riportata una foto di questa stalla, realizzata con pietre a secco. In cima

    all’immagine è riportata la casetta, che anticamente era realizzata anch’essa

    in pietre a secco; ultimamente# quando 1995-1996

    è stata restaurata con la stuccatura tra un sasso e l’altro per evitare che en-

    trassero topi o rettili.

    Figura 67 - Casetta di ngicchememma, stalla

  • 42

    La casetta di Pennacchia, ovvero di Luigi Cristofari, situata all’inizio

    dell’Oppieta, quando di sale dalle Coste del banco;

    ## quando fu realizzata

    Figura 68 - Casetta di #

    La casetta di Furiè fu realizzata da Domenico Camerlengo, dopo che ritor-

    nò dalla Svizzera, dopo la Seconda Guerra Mondiale. La realizzò in località

    Piaseri.

    Figura 69 - Casetta di Furiè

    Quando il gregge era in montagna, il latte era munto sul luogo poi le donne

    del paese lo andavano a prendere per portarlo in paese e lavorarlo. Nel frat-

    tempo le donne portavano da mangiare a chi accudiva le pecore. Questo

    succedeva ogni giorno, ovvero con un'animale da trasporto le donne rag-

    giungevano lo stazzo. Qualcuna, non dotato di animale di trasporto, ci an-

    dava a piedi con non poca fatica. Dagli intervistati non si è fatto riferimento

    ai figli per prelevare il latte in montagna.

    Il piatto tipico serale del pastore era la mpanata, il latte con un po' di pane

    secco, messi in una scodella. Qualcuno racconta, che mancando anche le

    scodelle, si inzuppava il pane direttamente nel secchio dove si trovava il

    latte. I pastori più poveri, per nutrirsi, bevevano il siero, ovvero lo scarto

    della lavorazione del latte della pecora.

  • 43

    Il gregge rimaneva in montagna fino alla fine di agosto. A quell'epoca le

    pecore scendevano nel basso del paese poiché il grano, il granturco e la pa-

    glia erano stati già raccolti e quindi non c’era pericolo che danneggiassero

    le culture. Inoltre si risparmiavano i viaggi ai membri della famiglia che

    ogni giorno erano costretti a raggiungere il pastore per recuperare il latte e

    portare i viveri. Al ritorno al paese il gregge era fatto sostare in terreni per

    stabbiare.

    Figura 70 - Gregge alla Piana del Cavaliere

    In Figura 70 è mostrata una foto che riporta Giacomo Sciò con le sue peco-

    re nella piana. In lontananza si vede il paese di Pereto.

    Alcuni proprietari di appezzamenti di terreno, per motivi vari, non deside-

    ravano che un gregge brucasse l’erba del loro terreno. All’epoca non esi-

    stevamo i recinti, ma una convenzione. Il proprietario metteva una biffa,

    ovvero il terreno era biffato. La biffa consisteva in una o più frasche infisse

    nel terreno che segnalavano ai pastori di non transitare o sostare in quel ter-

    reno. In caso di non osservanza del divieto era richiesto dal padrone del ter-

    reno un risarcimento. Il proprietario del terreno negava l’accesso alle peco-

    re in quanto avrebbe utilizzato il pascolo per animali di sua proprietà (ca-

    valli, mucche, pecore, ecc.). Questa non disponibilità di pascoli nella piana

    del paese creava difficoltà ad alcuni pastori. Questi, nel periodo settembre-

    aprile, migravano verso altri paesi del limitrofi. È il caso di Santino Meuti

    che per diversi anni passò l’inverno con il gregge in terreni della Campa-

    gna romana, non avendo un proprio terreno dove far pascolare le pecore.

  • 44

    Quando faceva freddo o c’erano precipitazioni, le pecore rimanevano nella

    stalla ed il pastore le accudiva fornendo del fieno che era stato raccolto du-

    rante l’estate. Per somministrare alle pecore del fieno questo era messo in

    cesti cilindrici (u cajone). Erano realizzati con i rami di nocciolo, intrecciati

    in alto, al centro ed in basso. 27

    Uno specialista di queste costruzioni era Menestra .Erano poggiati in terra e

    per non farli cadere erano appesi al soffitto della stalla, mediante le corde.

    Quando il foraggio presente nel cesto era finito, il pastore lo riempiva con

    del nuovo foraggio. La pecora si avvicinava al cesto e con la bocca adden-

    tava il fieno.

    Figura 71 - U cajone

    Si racconta che per permettere di addentare più facilmente il fieno, si ta-

    gliavano le corna al montone, il quale, se le aveva, poteva non riuscire a

    mangiare o poteva dare fastidio agli altri animali che si avventavano al ce-

    sto.

    Nella stalla era presente un abbeveratoio, mentre mancava la condotta idri-

    ca. Per questo motivo il pastore, appena aveva l’opportunità, faceva uscire

    le pecore sia per mangiare, sia per bere. Se le condizioni climatiche non lo

    permettevano, era costretto a fornire alle pecore di fieno ed acqua, traspor-

    tata con i secchi.

    Per mantenere al caldo le pecore nella stalla, si utilizzava la paglia, metten-

    dola in terra come lettiera. Se era possibile si cambia più volte nell’arco del

    mese, ma era difficile in quanto la paglia era fornita come alimento. Per ri-

    sparmiare la paglia durante l’inverno, come lettiera era utilizzata lo scarto

    della lavorazione della canapa (i cannucci).

    Appena faceva bel tempo in inverno, comunque sia, si faceva uscire il

    gregge per brucare l’erba disponibile. Dai racconti sembra che le grosse

    nevicate in tempi antichi non erano frequenti e per questo bastava portarle

    ad esempio sopra le Fonticelle, località posta vicino all’abitato per sfamare

    il gregge. A marzo ricominciava il ciclo della transumanza montana.

    27

    In seguito saranno realizzati in ferro da Giorgio Eboli, fabbro del paese.

  • 45

    Le avversità

    Le pecore sono soggette all’attacco di virus, parassiti ed animali. Di seguito

    sono passate in rassegna le avversità raccontate dai pastori del luogo.

    Le malattie

    Le malattie a cui le pecore possono andare incontro sono tante, in base alle

    attuali conoscenze. In passato molte di queste avversità erano sconosciute

    alla gente del luogo e non se ne capiva la pericolosità per gli animali e per

    le persone. Non c’era alcuna disinfestazione delle stalle o degli ambienti

    dove gli animali si radunano, neanche con l’utilizzo della calce. Una volta

    l’anno si puliva la stalla per recuperare il letame.

    La zoppia

    La zoppia28

    è una malattia dei piedi degli ovini causata da batteri. Le lesio-

    ni sono inizialmente localizzate nello spazio tra i due unghielli, ma possono

    estendersi causando il distacco parziale o totale dell'unghia. Un'insufficien-

    te cura degli unghielli favorisce la proliferazione di questi batteri e l'insor-

    genza della malattia. Il sintomo più evidente è l’animale che cammina zop-

    picando. Questa malattia era la più diffusa tra le pecore. A Pereto era chia-

    mata u forcone. Questo termine aveva origine dal fatto che lo spazio tra i

    due unghielli a causa dell'infezione aumentava mostrando una specie di

    forcone. Andava fatta scoppiare questa bolla che nasceva tra i due unghiel-

    li, spaccandola, facendo uscire il pus e curando la zampa.

    Afta epizootica

    È una malattia molto infettiva causata da un virus, facilmente trasferibile e

    che può infettare vaste aree in pochi giorni. Le cause di diffusione sono gli

    stessi animali infetti, il vento, altri animali che possono trasportare la ma-

    lattia, l’abbigliamento. 29

    A Pereto sono stati registrati dei casi. Il rimedio preso erano delle punture.

    28

    Conosciuta anche con il nome di zoppina, o pedaina. 29

    L’afta tende ad essere una malattia invernale, Il virus è facilmente ucciso attraverso di-

    sinfettanti o condizioni mediamente acide, ucciso anche dalla luce del sole.

  • 46

    Gonfiamento della pancia

    Quando troppo gas è prodotto nel rumine delle pecore, il fianco di sinistra è

    dilatato e respirare diventa difficile per l’animale. Ciò può accadere im-

    provvisamente, particolarmente quando l'animale sta mangiando sul pasco-

    lo bagnato di mattina. Può causare la morte anche in una ora. Oggi si cono-

    scono le cause ed alcuni rimedi. In passato l’unico accorgimento preso era

    quello di non far muovere la pecora, con l’obiettivo di far svuotare l’aria

    presente nell’animale.

    La lingua blu

    La lingua blu, febbre catarrale degli ovini, è una malattia infettiva dei ru-

    minanti trasmessa da un insetto. Questo succhia il sangue da un capo e lo

    trasmette all'altro. Gli animali infettati avranno febbre molto alta per un pe-

    riodo di una settimana. Il morbo colpisce l'apparato boccale con incapacità

    quindi di nutrirsi e conseguente calo di peso dell'animale. La zona della

    bocca e le zone vicine presenteranno delle erosioni dell'area boccale e delle

    gengive con colore cianotico in un secondo momento.30

    È di diffusione recente; gli intervistati più anziani non la ricordano.

    La assuccarella

    Si racconta che gli animali colpiti, prima avevano la febbre, a seguire si in-

    grossavano le mammelle e producevano così poco latte da rendere secche

    (assucche) le mammelle.31

    In questa situazione non potevano allattare i fi-

    gli. Erano curate con delle punture.

    ## mastite

    La visciòla

    Era un verme che si propaga all’interno delle viscere dell'animale.32

    30

    Lingua blu deriva dalla cianosi della mucosa linguale osservata negli animali colpiti in

    modo più grave. 31

    Questa malattia è conosciuta con il nome di mastite ed ha varie forme, più o meno peri-

    colose per l'animale. 32

    Si tratta della Fasciola hepatica, un verme piatto molto diffuso, parassita delle vie biliari

    di molti animali domestici ed in particolare di bovini ed ovini. È lungo 20-30 mm e lar-

    ga 8-12 mm. Questo verme ha un ciclo di vita complesso. Quando dei mammiferi erbi-

    vori, pascolando lungo i corsi d'acqua o sulle rive dei laghi o degli stagni, mangiano le

  • 47

    Anche in questo caso si risolveva con delle punture o delle pillole.

    I vermi

    Sono dei parassiti intestinali. Ogni tanto gli si dava della polvere per bocca

    per farli sverminare.

    Esistono altre malattie della pecora, che non erano conosciute dai pastori.

    Eventuali comportamenti anomali di una pecora erano visti come se

    l’animale fosse diventato scemo.

    Le zecche

    Le pecore, pascolando, venivano attaccate dalle zecche. Non c’era alcuna

    prevenzione in merito e nessun controllo, da parte del pastore, se un ani-

    male era stato attaccato dalle zecche. Questo parassita, mediante il rostro di

    cui è fornito, si infila nella carne dell’animale producendo dei fastidi e delle

    infezioni di cui alcune mortali. Gli intervistati hanno raccontato che non e-

    rano tanto pericolose le zecche che attaccavano la cute dell’animale, quanto

    quelle ingerite, mangiando l’erba, che si annidavano nell’apparato digeren-

    te.

    La rogna

    È una patologia infiammatoria della cute degli animali provocata da paras-

    siti. Sintomi comuni sono: perdita del pelo, prurito ed infiammazione cuta-

    nea. L’animale attaccato era curato con la creolina.

    Dai racconti non si ricordano abbattimenti di animali per epidemie.

    I lupi

    In tempi antichi i lupi facevano stragi delle pecore, ma con la loro diminu-

    zione le razzie sono diventate sporadiche.

    Il lupo era capace di staccare dal gregge qualche decina di pecore, poi le

    scannava saziandosi del loro sangue.

    erbe su cui sono fissate le metacercarie, queste si introducono nell'apparato digerente

    dell'animale e raggiungono poi il fegato, danneggiando poi vari organi.

  • 48

    Il lupo attaccava anche i cani messi a protezione del gregge. Per questo mo-

    tivo, diversi cani erano dotati di collare antilupo. Era un collare con degli

    spuntoni in ferro che uscivano in fuori. Serviva per proteggere il collo del

    cane, uno dei punti vulnerabili dell’animale. Lo proteggevano dai lupi, ma

    anche da altri cani più violenti. In casi estremi i pastori utilizzavano dei

    bocconi avvelenati per uccidere i lupi. Dai racconti sembra che le razzie di

    questi animali, che potevano uccidere diverse pecore in poco tempo, sono

    state rare, segno che i lupi erano pochi. Da tener conto che i lupi attaccava-

    no altri animali, come buoi, mucche e cani. Si racconta che un pomeriggio,

    dal ritorno dal pascolo, battente (Mario Rossi) si trovava in località are pa-

    pa. Di scatto le pecore si sono bloccate ed i cani che erano al seguito del

    gregge erano scappati. Correndo, battente si accorso che un lupo aveva az-

    zannato una pecora e la stava trascinando. Per difendersi e per non perdere

    queste e altre pecore del suo gregge, battente si scaravento contro il lupo,

    colpendolo più volte sulla groppa. Alla fine l’animale, lasciò la preda e

    scappò all’interno della vegetazione. Al ritorno in paese, battente mostrava

    a tutti il suo bastone a cui erano rimasti impigliati dei peli del lupo.

    Erano incirca gli anni 1984-1985

    Curiosità

    Di seguito sono evidenziate alcune differenze tra le pecore e le capre. La

    coda delle capre è sempre rivolta verso l'alto, mentre quella delle pecore

    punta sempre verso il basso. Le corna della capra sono cave, lunghe e dirette verso l’alto e all’indietro, mentre quelle della pecora hanno un andamento a spira-

    le e sono quasi piene.

    Le capre hanno delle evidenti protuberanze cutanee sotto la gola, conosciuti

    con il nome di lacinie, barbazzali o tettole; in dialetto si chiamano i cerce-

    gli. Questi sono assenti nella pecora. I maschi della capra sono dotati di barba e non possiedono un folto pelo, caratteri-

    stico invece della pecora.

    Gli ovini riescono a vedere anche di notte e ciò fornisce specialmente in

    estate il pascolamento notturno.

    La Forestale, ovvero il Corpo Forestale dello Stato, vietava di portarle in

    montagna in quanto le capre mangiano le foglie delle piante e quindi dan-

    neggiano il bosco. Sono in grado di arrampicarsi sugli alberi che abbiano il

    tronco un po' contorto e/o rami sufficientemente bassi.

  • 49

    Questi animali non forniscono lana, bensì latte e carne. Per questo motivo

    erano poco allevati in paese. Si allevavano perché la capra è meno signora

    della pecora. La pecora predilige le erbe del piano, mentre la capra mangia

    anche le erbe che nascono tra i sassi e questi non sono mai mancati a Pere-

    to.

    Secondo le voci dei paesani, il protettore delle pecore è San Pasquale. Non

    c’era un ricorrenza particolare da parte dei pastori o della gente del luogo.

    Da segnalare che in paese esiste nel rione Aota un dipinto scolorito. I locali

    indicano una figura presente nell’affresco come San Pasquale (vedi Figura

    72).

    Figura 72 - San Pasquale nel rione Aota

    Il giorno di Sant’Antonio abate, il 17 gennaio, avviene per tradizione la be-

    nedizione degli animali. In passato i pastori di Pereto portavano il proprio

    gregge in prossimità della chiesa di Sant’Antonio, situata fuori dell’abitato,

    nelle vicinanze del castello. I vari animali, condotti dai loro padroni, rice-

    vevano la benedizione da uno dei sacerdoti locali, al termine della celebra-

    zione svolta preso la chiesa. In Figura 73 è mostrata un’immagine degli an-

    ni Settanta, che mostra il sacerdote che benedice un gregge.

    Figura 73 - Benedizione delle pecore

    Una festa connessa con le pecore è l’Ascensione, considerata la festa dei

    pastori. Presso lo stazzo i pastori si radunavano e si cantava, mangiava e

    ballava per tutta la giornata. Quel giorno non era prodotto il formaggio.

  • 50

    In paese, in questa occasione, i vari rioni preparavano dei falò. Al calare

    della notte la gente del rione si radunava intorno al falò e quindi era dato

    fuoco alla catasta di legna. I pastori offrivano ai presenti la giuncata.

    Quando si faceva la prima cottura del latte, si recuperava la cagliata e si di-

    sponeva in un piatto per offrirla. Vista la fame che c’era, era una manna per

    la gente del luogo.

    È stata ricercata una possibile preghiera che i pastori recitavano in qualche

    occasione. Viste le alzatacce, prima del sorgere del sole, la giornata passata

    nelle condizioni climatiche più disparate, il ritorno a casa a tarda sera, era

    più qualche parolaccia (ca biastima) che un’invocazione.

    A Pereto visse Enrico Cicchetti, conosciuto in paese con il soprannome di

    Richetto il cieco. Nato nel 1908, era non vedente dalla nascita ##. Suonava

    l’organetto come sua attività.33

    Si racconta che alcuni pastori, al ritorno dal

    pascolo, la sera erano allietati dalla musica di Richetto. Al termine della

    giornata riusciva a rimediare qualcosa da mangiare, offerto dal pastore a

    cui aveva suonato.

    Un proverbio paesano riporta u maglio, ovvero lo strumento in legno utiliz-

    zato per fissare i paletti dello stazzo nel terreno. Riporta: mamma, moglie o

    magliu, per indicare ##

    I pastori forestieri

    Oltre ai greggi locali, i pascoli montani del paese erano utilizzati da pecore

    forestiere. Greggi provenivano dal Lazio per pascolare sui monti di Pereto,

    ovvero vi era una transumanza dalla Campagna romana verso l’Abruzzo.

    Ad ogni padrone ( u mercante) il Comune assegnava un lotto (posta) su cui

    pascolare, dopo il pagamento di una tassa (fida), proporzionale al numero

    delle pecore e che andava alle casse comunali.

    ## Come venivano aggiudicati i pascoli? Con aste con le candele

    Le greggi arrivavano i primi giorni di giugno. Agli inizi del Novecento il

    percorso si copriva a piedi e durava circa tre giorni. Negli anni che segui-

    33

    La professione registrata nella sua carta d’identità è: suonatore ambulante e venditore di

    storie.

  • 51

    rono, i trasferimenti si svolsero metà con il treno, fino alla stazione di Ori-

    cola - Pereto, metà a piedi, risalendo le montagne di Pereto. A seguire si u-

    tilizzarono autotreni, adattati al trasporto degli ovini.

    Qualche giorno prima della partenza del gregge alcuni addetti portavano le

    masserizie sul lotto loro assegnato. Raggiunto il posto, realizzavano gli

    stazzi, il dormitorio, i mungitoi, la cucina da campo, la dispensa. Queste re-

    alizzazioni servivano a far operare gli addetti che seguivano il gregge e per

    fornire un servizio di “vitto e alloggio”. Nei giorni successivi arrivava il

    gregge.

    Esistevano due figure particolari tra le persone al seguito della masseria.

    - U biscino, un ragazzo (vaglione), che era al seguito del gregge ed ese-guiva alcune operazioni, tra cui spingere le pecore verso colui che le

    doveva mungere.

    - Un altro ragazzo che trasportava formaggio fresco e ricotta dallo staz-zo a Pereto o Cappadocia per venderli ai negozi, ai villeggianti e agli

    abitanti del luogo. Dopo la mungitura del mattino, sistemato nelle ceste

    le forme e le ricotte, montava su un somaro o mulo e si metteva in vi-

    aggio alla volta del paese. Qui cerca di piazzare i prodotti che traspor-

    tavano. Nel frattempo faceva la spesa per acquistare eventuali generi

    alimentari necessari in montagna.

    ## rapporti con i locali

    ## coabitazione negli stessi pascoli

    A settembre era tempo di ritornare. I pastori forestieri abbandonavano le

    costruzioni realizzate per il soggiorno montano e la transumanza verso la

    Campagna romana aveva inizio.

    Aneddoti

    In tempi di miseria, diversi paesani avanzavano delle pretese, anche se ine-

    sistenti, verso un pastore, il quale era chiamato a risarcire con il formaggio

    o con la carne di pecora l’eventuale misfatto.

    I furti di pecore, o meglio degli agnelli, in tempi in cui la fame era tanta,

    erano all'ordine del giorno. Trovare un agnello, nasconderlo sotto la giac-

    chetta o in qualche sacco era facile. Disgraziato chi perdeva l’animale. Di

  • 52

    seguito riporto due aneddoti raccontati in paese relativi a questo tipo di fur-

    to.

    Un affamato del paese seguiva da lontano un gregge. Ad un certo punto

    riesce ad arraffare un agnello e lo nasconde sotto la giacca. La madre

    dell’agnello sente l’odore del figlio e comincia a belare forte verso il ladro,

    avventandosi contro di lui. Questi si rivolge al pastore gridando: Sta pecora

    messe magna, vella a leà.

    La madre bela sempre più forte per richiamare il figlio e non molla il ladro.

    Questi continua a richiamare il pastore per far allontanare questa pecora. Il

    pastore si avvicina e con due, tre toccate sulla schina (dei colpi di bastone

    sulla groppa dell’animale) lo allontana. La sera, il pastore parlando con il

    proprietario delle pecore racconta l’accaduto segnalando che una pecora si

    era aizzata contro uno che era passato nei paraggi del gregge. Il pastore

    termina il suo racconto dicendo: Issu (riferendosi all’uomo che aveva avu-

    to paura della pecora) è proprio stupitu, se missu paura de ‘na pecora. Il

    proprietario gli rispose: Conta po’ gli abbacchi. Lu stupitu non è issu, ma si

    tu che te si fattu frega ‘n agnello.

    Un ladro incallito di pecore viene continuamento ammonito dal prete del

    paese, il quale lo invita a smettere con i furti e soprattutto di confessare le

    sue ruberie. Un giorno il ladro si convince a confessarsi. Il prete, vista

    l’occasione, comincia una lunga predica al ladro. Il prete lo esorta a non

    rubare più, di trovare un lavoro, di procurarsi il cibo in modo onesto, e così

    via. Mentre avviene la confessione, sta per avvicinarsi alla chiesa un greg-

    ge, possibile occasione per compiere un altro furto. Il ladro rapidamente si

    rivolge al sacerdote dicendo: Zi pre’, sbrigate che sento la campana. Que-

    sto per indicare che stava per perdere un’occasione se la predica fosse con-

    tinuata ancora.

    Anni fa da Francesco Giustini (Checco ‘e Nello) aveva messo su un gruppo

    di capre tra cui c’era un grosso ariete (u zappu). Questo esemplare era

    combattivo e protettivo nei confronti delle femmine del suo branco. Non

    c’era giorno che Checco ritornando a casa, tornava con qualche livido pro-

    dotto dalle cornate dell’animale che non voleva che fossero toccate le ca-

    pre. In paese diverse persone avevano visto la aggressività di questo anima-

    le. Il padrone fu costretto ad abbatterlo in modo cruento, aiutato da varie

    persone.

  • 53

    Considerazioni

    Oggi i vecchi pastori, quelli ancora viventi, rimangono con la loro espe-

    rienza ed i loro ricordi. Una persona di Pereto, Domenico “Mimmo” Giu-

    stini, ha messo su un allevamento di pecore, con non poche difficoltà. I pa-

    stori di una volta, la loro storia è quasi scomparsa.

    La capra è considerata una specie a ciclo poliestrale stagionale in quanto

    presenta cicli estrali continui solo in alcuni mesi dell'anno, intervallati da

    un periodo di anaestro la cui lunghezza è variabile in funzione della latitu-

    dine e della razza. In determinati climi, le capre sono in grado di riprodursi

    per tutto l'anno; le razze di provenienza nordica o montana tendono invece

    ad avere un ciclo riproduttivo basato sulla lunghezza del fotoperiodo.

    La stagione riproduttiva, per questi animali, inizia quando le giornate co-

    minciano ad accorciarsi, per terminare all'inizio della primavera. Alle no-

    stre latitudini il primo calore si manifesta, solitamente, nei mesi di giugno -

    luglio; se non vi è accoppiamento si può presentare una lunga serie di estri

    ad intervalli regolari (21 giorni), oppure si può verificare un ulteriore peri-

    odo di anaestro. Di norma la ciclicità diventa regolare a partire da agosto -

    settembre fino alla metà di dicembre.

    Nel periodo fertile, la femmina è ricettiva per un periodo che va dalle 2 alle

    48 ore; le femmine manifestano il loro stato sventolando spesso la coda,

    vocalizzando più spesso, stando sempre nella vicinanza del caprone (se

    questo è presente), a volte perdendo l'appetito e diminuendo la produzione

    di latte.

    La gestazione dura in media 150 - 155 giorni, al termine dei quali nascono

    solitamente due gemelli, anche se non è raro trovare parti trigemini o di un

    solo cucciolo, mentre è assai poco comune assistere a figliate di quattro,

    cinque o addirittura sei capretti. I parti si verificano tra novembre ed aprile

    con punte massime in gennaio - febbraio. Dopo il parto, solitamente, la

    madre mangia la placenta, per rimpiazzare parte dei nutrienti persi nello

    sforzo e per calmare l'emorragia da parto.

    Il parto coincide con l'inizio della produzione di latte: una capra d'alleva-

    mento produce circa 2,5 l di latte al giorno per 305 giorni (tanto dura l'allat-

    tamento), anche se tale quantità può variare a seconda del numero di parti e

    della razza di capra (in casi eccezionali si arriva ad oltre 7 l di latte giorna-

    lieri).

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