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1 PASTORIZIA AGRICOLTURA AMBIENTE LA SARDEGNA E L’AREA DEL MAGHREB CONVEGNO CAGLIARI 19 NOVEMBRE 2016

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    PASTORIZIA

    AGRICOLTURA

    AMBIENTE

    LA SARDEGNA E L’AREA

    DEL MAGHREB

    CONVEGNO

    CAGLIARI 19 NOVEMBRE 2016

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    Associazione ex Parlamentari della Repubblica

    Coordinamento della Sardegna

    Sito web: sardegna.exparlamentari.it

    Col patrocinio della:

    Col Patrocinio del

    Presidente del Consiglio Regionale della Sardegna

    PUBBLICAZIONE A CURA DI:

    Sito web: www.taulara.com

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    Sommario

    INTRODUZIONE 9

    - On. Giorgio Carta, Coordinatore Associazione ex Parlamentari della Sardegna

    SALUTI ISTITUZIONALI 10

    - Dott. Carlo Salis, Consigliere di Amministrazione Fondazione di Sardegna

    L’AGRICOLTURA NEL PROCESSO DI SVILUPPO DELLA SARDEGNA 14

    - On. Pietro Maurandi, Prof. Università di Cagliari

    PERCHÉ C'È BISOGNO DI UNA POLITICA AGRICOLA «COMUNE» A LIVELLO DELL'UE? 32

    - On. Salvatore Cicu, Europarlamentare

    LA PASTORIZIA SARDA FRA PASSATO E FUTURO 39

    - Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari

    PASTORALISMO IN EVOLUZIONE, DAL MODELLO TRADIZIONALE A QUELLO MULTIFUNZIONALE 65

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    - Prof. Benedetto Meloni e Prof.ssa Domenica Farinella, Sociologia del Territorio e dell’Ambiente Università di Cagliari

    L’AGRICULTURE EN TUNISIE ET LES POSSIBILITÉS DE PARTENARIAT AVEC LA REGION AUTONOME DE SARDAIGNE 104

    - Prof. Mohamed Habib Jemli, Ecole Nationale de Médecine vétérinaire Tunisie

    - Dott. Abdelbaki Rouabeh, UGMVT

    LATTE, CEREALI, CARNE, ORTOFRUTTA: CRISI DI MERCATO E CROLLO DEI PREZZI 122

    - Dott. Martino Scanu, Presidente CIA Sardegna

    UNA BUONA POLITICA PER USCIRE DALLA CRISI 131

    - Sig. Felice Floris, Movimento Pastori

    I CAMBIAMENTI CLIMATICI E AMBIENTALI GLOBALI QUALE IMPATTO SULL’AGRICOLTURA E SULLA PASTORIZIA DELLA SARDEGNA E QUALI STRUMENTI ADOTTA LA REGIONE 137

    - Dott.ssa. Elisabetta Falchi, Assessore Regionale dell’Agricoltura e Riforma Agropastorale

    LO SPOPOLAMENTO DELLE ZONE INTERNE DELLA SARDEGNA 166

    - Prof. Pietro Ciarlo, Ordinario Diritto Costituzionale Università di Cagliari

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    AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA E NEL MEDITERRANEO 173

    - Dott.ssa Anna Rita Poddesu, Segretaria Regionale FLAI Sardegna

    LA PASTORIZIA E L’AGRICOLTURA SARDA NELL’ECONOMIA DELL’ISOLA. 192

    - On. Luigi Lotto, Presidente Commissione Attività Produttive del Consiglio Regionale della Sardegna

    DOTT. PIETRO TANDEDDU, COORDINATORE REGIONALE COPAGRI SARDEGNA 196

    AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA E NEL MEDITERRANEO 205

    - Dott. Raffaele Lecca, Presidente Regionale ALPAA

    MON TÉMOIGNAGE ENTANT QUE BÉNÉFICIÈRE DE LA BOURSE D’ÉTUDE DU PROJET «FORMED» 216

    - Dott. Saad Fikri, Gestione dell’Ambiente e del Territorio

    LA SFIDA DEL FUTURO DELLA SARDEGNA NEL MEDITERRANEO 218

    - On. Angelo Rojch, ex Presidente Regione Sardegna

    PROF.SSA MARIA ANTONIETTA MONGIU, PRESIDENTE FAI SARDEGNA 223

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    AGRICOLTURA, PASTORIZIA E AMBIENTE IN SARDEGNA E NEL MEDITERRANEO 230

    - On. Pietro Soddu, ex Presidente Regione Sardegna

    CONCLUSIONI 273

    - On. Giorgio Carta

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    On. Giorgio Carta: Coordinatore Associazione ex Parlamentari – Sezione Sardegna

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    Introduzione

    On. Giorgio Carta, Coordinatore Associazione ex Parlamentari della Sardegna

    La crisi che attanaglia, l’Occidente, l’Europa, l’Italia e in particolare la Sardegna, ha indotto l’Associazione degli Ex Parlamentari, a proporre alle diverse Istituzioni politiche e sociali, una giornata di lavoro sulle prospettive di sviluppo della nostra isola e dei paesi del Mediterraneo.

    Il confronto con le regioni del Maghreb su uno dei segmenti più importanti dell’economia (l’agricoltura e l’ambiente), non come semplice excursus storico, ma come punto di partenza per un programma, che induca a riflettere anche, su cosa sia necessario fare, per consentire alla Sardegna di modificare un modello di sviluppo industriale andato in crisi per molteplici cause e procedere verso alternative, che possono trovare un indolore mutamento degli schemi fino a qui praticati.

    La tutela dell’ambiente, lo sfruttamento delle risorse naturali, la possibilità di interagire con i mercati che offrono i paesi mediterranei, può rappresentare la svolta necessaria per un nuovo piano di rinascita, ormai non più dilazionabile.

    La politica deve ipotizzare con una visione globale le modalità per poter operare in quei settori, che oltre a dare lavoro potrebbe, frenare lo spopolamento delle aree interne e risolvere anche i problemi creati da un inurbamento tumultuoso e disorientato.

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    A me solo il compito di introdurre il dibattito e ringraziare tutti i presenti per la partecipazione e il contributo che vorranno dare ai nostri lavori.

    Un saluto ai rappresentanti Tunisini ed un grazie per la loro presenza. Grazie ai relatori, all’Assessore all’agricoltura…

    Non ci stancheremo mai di ringraziare la Fondazione di Sardegna che ci consente annualmente di svolgere la nostra attività e il presidente del Consiglio Regionale per il patrocinio.

    Saluti istituzionali

    Dott. Carlo Salis, Consigliere di Amministrazione Fondazione di Sardegna

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    La Fondazione di Sardegna è lieta di aver sostenuto questa iniziativa che giudichiamo di grande interesse e ricca di prospettive. Ci auguriamo esito di diffusione larga di questo dibattito. Al centro di questo dibattito due parole chiave: pastorizia e Mediterraneo. Consentitemi allora di illustrarvi una iniziativa della Fondazione su questi temi e di dirvi anche qualche mia opinione in proposito, perché quelle due parole - pastorizia e Mediterraneo – sono state così profondamente al centro della mia formazione prima e del mio impegno civile poi, che vorrei pubblicamente sostenere la necessità che la Sardegna cerchi la sua crescita economica sociale e culturale nell’ambito di relazioni coi paesi mediterranei profondamente innovate e rinvigorite rispetto al presente e al recente passato. Qui voglio dunque ricordare che l’attuale presidente e il consiglio di amministrazione della FdS, non appena insediatisi, hanno avviato la realizzazione di un progetto – che mi è particolarmente caro – consistente nell’offrire cento borse di studio universitarie triennali per studenti meritevoli e di modeste condizioni economiche, provenienti da Tunisia, Algeria e Marocco. Borse triennali significa un intero corso di studi universitario. Per incassare la borsa (modesta, per la verità, ma preziosissima per i beneficiari) è espressamente previsto l’obbligo di sostenere gli esami dell’anno in corso e di risiedere stabilmente nella sede universitaria. Cioè in Sardegna. Vorremmo che queste ragazze (sorprendentemente molte) e questi ragazzi apprendessero la lingua e la cultura della nostra terra. Vorremmo creare una amicizia non episodica

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    ma intimamente legata al momento formativo più importante nella vita di una persona. La nostra speranza è contribuire a creare fili che aiutino a sviluppare una relazione culturale e umana ma anche economica e sociale con i loro paesi di provenienza. Il progetto è ormai al suo secondo anno. Possiamo dire con soddisfazione che ha avuto successo. Le ragazze e i ragazzi nostri ospiti hanno superato difficoltà e diffidenze burocratiche, sono giunti in Sardegna, si sono iscritti all’Università, hanno frequentato con impegno le lezioni, superando serie difficoltà iniziali di tipo linguistico (nessuno di loro aveva studiato l’italiano negli anni del liceo) ed hanno sostenuto i primi esami con esiti più che soddisfacenti: la media conseguita ha raggiunto i 27/30mi. Un risultato davvero brillante che non era facile prevedere! Con questo progetto intendiamo perseguire anche alcuni obiettivi per noi molto chiari. Il primo consiste nell’aiutare le Università sarde ad internazionalizzarsi. Questa caratteristica è richiesta nell’ambito della valutazione di ogni Ateneo moderno. Su questo terreno – comprensibilmente – le nostre Università registrano croniche difficoltà. Il nostro aiuto consiste nel portare studenti stranieri a studiare in Sardegna. Va sottolineato che portiamo studenti fortemente motivati, che ci sono riconoscenti per l’opportunità che viene loro offerta. Uno di loro è qui fra noi invitato dalla vostra associazione, e porterà un’esperienza positiva sia dal punto di vista umana che culturale. Il secondo obiettivo raggiunto consiste nell’aver portato in Sardegna ragazze e ragazzi a cui non si chiede di allontanarsi dalla loro cultura e tradizione, ma di integrarsi

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    in una realtà simile per ambiente, clima ed economia recando il contributo di apertura che la loro sola presenza rappresenta. Per parte nostra siamo orientati a confermare il progetto per un successivo triennio e ad allargarlo puntando a coinvolgere le autorità governative italiane ed europee: intessere relazioni fra le due sponde del Mediterraneo è infatti necessità e pressante interesse sia italiano che europeo. Non solo sardo, quindi. Vorremmo inoltre imprimere una curvatura indirizzata ai temi della economia e società mediterranea, privilegiando le discipline agro-industriali e ambientali che guardano alla specifica realtà delle nostre terre. Dunque pastorizia - millenaria attività che accomuna le sponde mediterranee –, agricoltura tipica, silvicoltura, contrasto alla desertificazione (tema che riguarda drammaticamente anche la Sardegna) e pesca. O meglio, come mi fanno precisare gli esperti ricercatori così come gli operatori economici, “coltivazione del mare in un quadro sostenibile”. La nostra ambizione è di formare tecnici e dirigenti di un domani prossimo capaci di affrontare e governare i problemi comuni, mediterranei appunto, in una logica di conoscenza, amicizia e collaborazione. Per noi sardi sarebbe un passo verso il superamento di quel “maledetto incantesimo dell’isolamento” che Emilio Lussu indicava amaramente come causa di provincialismo e rassegnazione. Antichi mali, certamente, ma che ancora oggi ci affliggono.

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    L’agricoltura nel processo di sviluppo della Sardegna

    On. Pietro Maurandi, Prof. Università di Cagliari L’agricoltura è stata spesso oggetto di interventi pubblici e provvedimenti legislativi, nazionali, regionali ed europei, rivolti a modificare l’assetto fondiario, a migliorare le condizioni di redditività per gli addetti, ad aprire prospettive e sbocchi di mercato. Per restare al secondo dopoguerra in Italia, si possono citare i decreti Gullo – allora Ministro dell’Agricoltura – e la riforma agraria del 1950, volti all’eliminazione del latifondo, diffuso in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale, e alla nascita della piccola proprietà contadina. Per quanto riguarda la Sardegna, le prime analisi e i primi interventi vanno collocati nella fase di gestazione della prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, che recita “Lo Stato con il concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola”. Dopo anni di incertezza, nel 1951 venne insediata una Commissione consultiva che cominciò a lavorare nel 1954 e nel 1958 stese un Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di rinascita, che sosteneva un programma di investimenti pubblici e privati, riguardanti l’agricoltura e l’industria. Nel 1959 venne istituito un nuovo organismo, denominato Gruppo di lavoro, che in tre mesi elaborò un Rapporto conclusivo, che assegnava un ruolo preponderante alla programmazione, da attuarsi nel territorio per zone omogenee, e attribuiva un ruolo strategico allo sviluppo

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    del settore industriale. L’aumento del peso dell’industria, nella formazione del reddito regionale e nella struttura dell’occupazione, diventava la fondamentale manovra di politica economica per modificare in profondità la struttura dell’economia regionale e per innescare un processo di sviluppo. Un mutamento rilevante di prospettiva. Che cosa era successo nel frattempo? Vi era stata, nella cultura economica e nella politica italiana, la svolta industrialista per quanto riguarda il Mezzogiorno, sostenuta con vigore fra gli altri dall’allora presidente della SVIMEZ (Istituto di Studi per lo Sviluppo del Mezzogiorno), il professor Pasquale Saraceno. Si era passati dalla cosiddetta “vocazione agraria” del Mezzogiorno e delle isole alla politica delle infrastrutture come precondizione per lo sviluppo, che aveva visto la nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Per giungere poi alla svolta industrialista. L’industria era un corpo estraneo rispetto al Mezzogiorno e alla Sardegna. Nell’isola era presente l’industria estrattiva, ma non l’industria manifatturiera se non per scarsi episodi. Ma proprio questa estraneità, rispetto al tessuto economico e sociale dell’isola, veniva assunta come la miglior cosa per fare dell’industrializzazione la strategia per lo sviluppo. In quel periodo circolavano le teorie di diversi economisti di prestigio internazionale che sostenevano sul piano teorico quelle posizioni. L’industrializzazione della Sardegna non era quindi una idea della politica e nemmeno nasceva – almeno all’inizio – da interessi precostituiti. Era il risultato di una diffusa opinione, sostenuta da illustri economisti. Si possono citare Gunnar Myrdal, Otto Hirshmann e Francoise Perraux, per i quali lo sviluppo di un’area

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    sottosviluppata si sarebbe innescato come effetto di shock esogeni. In questo clima e con questi riferimenti culturali, si giunse alla prima legge di Rinascita, in attuazione dell’articolo 13 dello Statuto. Anche l’agricoltura era naturalmente contemplata nella prospettiva adottata: l’enfasi posta sull’industria manifatturiera nasceva da un vuoto rilevante in questo settore; l’intento era quindi di instaurare un accettabile equilibrio fra agricoltura e industria. Ma nella fase di attuazione gli interventi per l’industria prevalsero e travalicarono gli altri. La prima legge sul Piano di Rinascita fu approvata dal Parlamento nel 1962: L. n. 588/1962, Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell’art.13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.3. Successivamente la Regione approvò la LR n. 7/1962, che fissava i compiti della Regione in materia di sviluppo e indicava le modalità da seguire. Successivamente, si elaborò lo Schema generale di Sviluppo, che è in senso proprio il Piano di Rinascita, cioè la definizione degli obiettivi da perseguire, degli strumenti da utilizzare e delle risorse da impiegare in un arco di tempo di 12 anni. Da questo momento incominciò, dal punto di vista economico, una storia davvero nuova per la Sardegna, che inciderà profondamente sulla sua struttura economica e sul suo tessuto sociale. Si può dire che la storia moderna dell’economia sarda incomincia con la legge 588 e con il Piano di Rinascita. Le condizioni del sistema economico regionale erano allora caratterizzate da un livello di reddito pro capite fra i

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    più bassi d’Italia, anche se il più elevato fra le Regioni meridionali, probabilmente a causa della scarsità relativa di popolazione in Sardegna. Il reddito per abitante collocava la Sardegna al 12°-13° posto fra le Regioni italiane, rispetto al dato medio nazionale oscillava, nel corso del decennio che precede la politica di rinascita, fra il 70% dell’inizio e il 60% della fine del periodo. L’attività produttiva si concentrava in settori scarsamente dinamici e utilizzava tecniche produttive tradizionali e consolidate. Il sistema economico era quindi del tutto tagliato fuori dall’imponente processo di trasformazione e di sviluppo che in quegli anni investiva l’economia italiana. Questa situazione si rifletteva in tre aspetti fondamentali. In primo luogo un basso livello di accumulazione di capitale, sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale, con investimenti concentrati in opere pubbliche, in abitazioni e in opere di sistemazione e di trasformazione agraria. In secondo luogo un basso livello di produttività, che si ridusse drasticamente nel decennio dall’83 al 73% della media nazionale, in conseguenza della crisi dell’attività mineraria. Infine, un flusso migratorio interno verso le città, ed esterno verso le regioni dell’Italia settentrionale e verso altri paesi europei. Il flusso migratorio, in dimensioni fino ad allora sconosciute in Sardegna, era la risultante del basso livello di reddito in agricoltura, che spingeva fasce mature di forza lavoro ad abbandonare il settore, e delle scarse possibilità di trovare occupazione, che le spingeva ad abbandonare l’isola. La scelta che venne fatta con la legge 588, e che si concretizzò in termini operativi con il Piano dodecennale, fu quella dell’intervento pubblico nell’economia regionale

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    e della programmazione come metodo di intervento. Questa scelta nacque dalla consapevolezza che i meccanismi e i comportamenti spontanei del mercato non fossero in grado di innescare un processo di sviluppo in un’area arretrata come la Sardegna. Con gli interventi previsti, l’azione pubblica non si limitò più alle infrastrutture, come era accaduto fino ad alcuni anni prima per il Mezzogiorno, ma l’intervento si proponeva di realizzare determinati interventi per lo sviluppo e di predisporre a questo scopo gli strumenti e le risorse necessarie. Interventi di programmazione settoriale si erano già avuti negli anni Cinquanta. In particolare, la legge 646 del 1950 e la legge 634 del 1957 possono intendersi come prime leggi di programmazione in Italia. La prima riguardava l’infrastrutturazione del Mezzogiorno, la seconda riguardava, sempre per il Mezzogiorno, le agevolazioni finanziarie per lo sviluppo di attività industriali. Ma si trattava pur sempre di leggi di carattere settoriale, oppure di programmazione di interventi pubblici o di interventi delle partecipazioni statali. Il Piano di Rinascita per la Sardegna era invece un intervento intersettoriale, che si proponeva obiettivi di sviluppo generale relativi all’intero sistema economico regionale. Si trattava quindi della prima esperienza di programmazione organica condotta in Italia. Il modello adottato per la politica di intervento pubblico nell’economia regionale fu quello dello sviluppo squilibrato, che si concretizzò nella politica dei poli di sviluppo. La teoria identifica il processo di sviluppo con la creazione di una serie di shock esogeni, che mettono in crisi l’equilibrio di sussistenza e le sue circolarità, e contemporaneamente creano nel tessuto economico un

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    vuoto di iniziative che può essere colmato da nuove intraprese, esogene rispetto al sistema originario. Una volta sconvolto l’equilibrio di sussistenza, e una volta aperte le relazioni economiche con il resto del mondo, il sistema economico sottosviluppato si specializzerà nelle produzioni in cui possiede un vantaggio comparato. I nuovi insediamenti di attività produttive così sorti daranno luogo ad altri insediamenti, grazie agli effetti di collegamento “in avanti” e “all’indietro” con altre attività. In tal modo si realizza un processo di sviluppo che investe numerosi settori economici e vaste aree territoriali. La rottura dell’equilibrio di sussistenza, attraverso la nascita di imprese di dimensioni adeguate, è quindi il necessario presupposto affinché il processo di sviluppo si verifichi e si generalizzi. Il modello dei poli di sviluppo, che venne prescelto con la programmazione regionale degli anni Sessanta è caratterizzato da una sorta di tensione fra due elementi contradditori: gli effetti diffusivi e gli effetti di polarizzazione, che avrebbero drenato risorse dagli altri comparti a favore dei “poli”. La possibilità che lo sviluppo possa effettivamente diffondersi su tutto il territorio e che possa investire altri settori oltre quelli degli interventi originari, resta affidata alla semplice eventualità che gli effetti diffusivi siano maggiori degli effetti di polarizzazione. Il Piano di Rinascita del 1962 esprimeva, in modo organico e dettagliato, una concezione dirigista dell’intervento pubblico, già presente nella formulazione dell’articolo 13 dello Statuto, secondo la quale “lo Stato con il concorso della Regione” deve determinare le trasformazioni strutturali necessarie per innescare un processo di sviluppo. Significa che gli investimenti

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    pubblici non devono limitarsi a fornire sostegno alle attività produttive ma devono provocarne la nascita e lo sviluppo sul territorio. L’idea sottostante è che il mercato non fosse in grado di innescare un processo di sviluppo, e che i capitali necessari per farlo non esistessero in Sardegna, dato il basso livello di accumulazione. Era un’idea corrente negli anni sessanta e pervadeva le scelte relative alla programmazione. Si tratta di un dirigismo forte, che permea il Piano di Rinascita e che sta in buona misura alla base delle difficoltà che si incontreranno. Si trattava infatti di una concezione sostanzialmente anomala rispetto alle condizioni di un’economia di mercato, che alla prova dei fatti si dimostrò velleitaria: benché capace di modificare in profondità l’economia e la società sarda, si rivelerà impotente a realizzare gli obiettivi così come erano stati prefissati, che era proprio la logica e la natura stessa del Piano. Tuttavia, se era velleitario pensare di realizzare meccanismi di accumulazione non di mercato in un’economia di mercato, l’intervento pubblico ha avuto effetti rilevanti e duraturi, come l’aumento del reddito e l’espansione dei consumi, solo che essi non erano quelli previsti e ricercati dalla programmazione regionale. Inoltre, in assenza di un tessuto economico adeguato all’interno dell’isola, la domanda di beni di consumo si rivolgeva in grande misura a beni e servizi prodotti al di fuori della regione. Il più importante effetto fu proprio quello di introdurre nel sistema economico regionale un meccanismo anomalo di accumulazione di capitale, poiché l’intervento pubblico si innestò in una situazione di fallimento dell’iniziativa privata nel generare un processo di sviluppo.

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    L’intervento pubblico rappresentò una forma di accumulazione surrogata, nel senso che si diffuse per sopperire all’assenza del meccanismo di accumulazione tipico delle economie capitalistiche. L’assenza di accumulazione privata in Sardegna, va collegata all’assenza di borghesia imprenditoriale che, a sua volta, deriva dalle vicende storiche dell’isola, in particolare dalla sconfitta di Giovanni Maria Angioy alla fine del Settecento. Angioy e il suo movimento erano portatori delle idee dell’Illuminismo, che nell’Europa centrale avrebbero creato il clima sociale per lo sviluppo e l’egemonia della borghesia. In Sardegna la sconfitta di Angioy, e la distruzione di ciò che costituiva il suo movimento, ha ucciso sul nascere un clima ideale e culturale favorevole alla nascita e alla espansione di una classe borghese, lasciando campo libero al consolidarsi di un’economia legata ad attività e modalità arcaiche di produzione e di distribuzione della ricchezza. Il carattere anomalo dell’accumulazione di capitale in Sardegna, portava con sé due effetti. In primo luogo il meccanismo non era ripetibile; si trattava infatti di scelte che erano affidate a decisioni politiche consapevoli e perciò destinate a ripetersi solo se si fossero ripetute le condizioni socio-politiche che le avevano rese possibili. In secondo luogo, in assenza della borghesia protagonista dell’accumulazione, questa funzione venne svolta da nuove categorie sociali, che assunsero una funzione centrale nel processo di sviluppo. Questa circostanza rappresenta una modificazione strutturale della società, dei suoi equilibri e delle sue relazioni interne.

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    Verso la fine degli anni Sessanta si approfondì e si diffuse la consapevolezza della difformità fra obiettivi del Piano di Rinascita e dati macroeconomici, che non erano dati meramente statistici ma assumevano i tratti di un disagio sociale profondo, spia del fatto che le trasformazioni della società sarda non avevano assunto il carattere dinamico che ci si proponeva e che probabilmente nuove tensioni e nuovi disagi si erano aggiunti agli antichi. La spia macroscopica di questa situazione fu il riemergere, nel corso degli anni Sessanta, di fenomeni di criminalità che sembravano scomparsi. In particolare i sequestri di persona, che fra il 1966 ed il 1968 furono 33 contro una media di 1 all’anno nel decennio precedente. Mentre la mappa dei luoghi dei sequestri copriva quasi tutta l’isola, la mappa dei luoghi dei rilasci dei sequestrati coincideva con le zone interne ad economia agro-pastorale. Un’attività di riflessione e di indagine fu condotta, all’inizio degli anni Sessanta, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, istituita con la legge 755 del 1969 e presieduta dal senatore Giuseppe Medici. La conclusione della Commissione fu che le origini profonde delle forme di criminalità tipiche delle zone interne della Sardegna andavano ricercate nelle condizioni della pastorizia nomade. Storicamente il banditismo sardo nasceva dal conflitto fra regole e valori della società pastorale e le leggi degli Stati conquistatori. Anche l’avvento dello Stato italiano, l’approvazione della Costituzione repubblicana, la costituzione della Regione autonoma e l’avvio della politica di industrializzazione, non avevano dato luogo al rinnovamento delle campagne nelle zone interne. La criminalità aveva modificato i propri metodi e spostato i propri obiettivi, dalle forme

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    tradizionali dell’abigeato e dei danneggiamenti di colture, alle estorsioni e ai sequestri di persona. L’ostilità del mondo pastorale nei confronti dello Stato, il sentimento di comprensione e di solidarietà verso i fuorilegge da parte delle popolazioni, richiedeva trasformazioni radicali dell’ambiente economico, neutralizzando o riducendo i fattori che favorivano la persistenza delle forme tipiche di criminalità dell’isola. La soluzione presentata dalla Commissione stava quindi nella trasformazione della pastorizia nomade in attività di allevamento stanziale. Bisognava fornire al pastore quella stabilità e quella sicurezza che possono derivare dalla certezza dei pascoli, attraverso attività di allevamento in imprese moderne. Premessa per ottenere questo risultato era affrontare il problema della proprietà dei pascoli, che solo per il 40% appartenevano ai pastori, favorendo in tal modo la persistenza di una pastorizia nomade e seminomade. Erano quindi necessari processi profondi di riforma, che portassero a far coincidere l’impresa pastorale con la proprietà dei pascoli. Ciò comportava il reperimento di terreni da accorpare e da migliorare, per essere poi assegnati in proprietà o in godimento ai pastori, singoli o associati. Il frutto di questa riflessione fu la legge 24/06/1974 n. 268, che aveva come asse portante la riforma agro-pastorale, nella convinzione che trasformare il pastore in allevatore e il passaggio dallo sfruttamento della fertilità naturale del terreno alla sua coltivazione razionale per sostenere il bestiame, fossero le chiavi di volta per modificare radicalmente l’economia delle zone interne e la cultura ad esse legata.

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    Di conseguenza, agricoltura e pastorizia acquistano un ruolo centrale nella nuova programmazione derivante dalla L. 268. Si trattava di innescare un processo di modernizzazione e di razionalizzazione di un settore fondamentale dell’economia regionale. Nel 1975, la pastorizia rappresentava il 25% della produzione agricola regionale e occupava il 33% degli addetti all’agricoltura. Anche le esportazioni ragionali erano alimentate in misura elevata dai vari tipi di formaggio: nel 1973 l’esportazione di prodotti zootecnici, ma in gran parte di formaggio, era aumentata del 411% rispetto al 1960. Rilevante era anche il peso dell’allevamento ovino e caprino nel quadro dell’economia nazionale. La Sardegna infatti era la regione con il maggior numero di ovini e caprini: si andava dal 23,5% e dal 22,7% rispettivamente del 1951, al 30,5 e 25,4 del 1961, al 23,5 e 29,1 nel 1975. Si trattava quindi di incidere profondamente su di un settore che produceva una quota rilevante del reddito regionale. La legge 268/1974 prescriveva la formazione di un “monte dei pascoli”, con terreni acquistati o espropriati, dando la priorità per gli interventi alle zone omogenee a prevalente economia pastorale, che erano state individuate con la legge del 1971. Per dar luogo ad una più estesa e più articolata partecipazione alla definizione dei programmi, voluta dalla L.R. n 33/1975, fu indetta una conferenza regionale, nell’aprile del 1976, cui parteciparono rappresentanti degli enti locali, delle organizzazioni sindacali, imprenditoriali e professionali, per discutere la proposta di programma predisposta dalla Giunta regionale.

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    La conferenza fu preparata da una capillare consultazione popolare, che aveva avuto in Sardegna un unico precedente: l’assemblea del popolo sardo organizzata dalle Camere del Lavoro nel 1950. Il programma triennale 1976-1978 rappresenta il primo intervento di aggiornamento del Piano di Rinascita e comprende, oltre al programma di intervento sui fondi della L. n. 268, politiche e azioni di coordinamento di risorse finanziarie provenienti dal bilancio ordinario della Regione, dai provvedimenti anticongiunturali del governo centrale, dalla Cassa per il Mezzogiorno e da altre assegnazioni dello Stato. L’asse portante della legge 268 era tuttavia rappresentato dalla riforma agropastorale, che fu specificata in termini operativi dalla LR n. 44/1976. Si individuò una superficie di 400.000-450.000 ettari suscettibili di sviluppo agro-pastorale, dislocati per il 46% in provincia di Nuoro, il 19% in quella di Cagliari, il 18% in quella di Oristano, il 17% in quella di Sassari. L’enorme complessità del processo di trasformazione della pastorizia si manifestò immediatamente attraverso le difficoltà sorte per la formazione del “monte dei pascoli”. Difficoltà che si possono rilevare dal fatto che la riforma agro-pastorale incise in misura minore proprio nelle zone interne. Infatti, nel 1986, a più di dieci anni dalla L 268, risultavano acquisiti al “monte dei pascoli” circa 16.000 ettari ed esistevano programmi di acquisizione per altri 26.000 ettari. Inoltre, la distribuzione provinciale dei terreni acquisiti vedeva al primo posto la provincia di Cagliari (75%), seguita dalla provincia di Nuoro (17%), da quella di Sassari (8%), e da quella di Oristano (1%). La situazione non era molto diversa nel 1996, a più di venti anni dalla 268. In quell’anno i terreni acquisiti al “monte

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    dei pascoli” ammontavano a circa 20.000 ettari, il 69% in provincia di Cagliari e il 17% in provincia di Nuoro. L’aspetto più rilevante di questo fallimento della riforma agro-pastorale sta nella difficoltà di rendere compatibili due obiettivi: quello politico-sociale di trasformazione della pastorizia da nomade in stanziale, e quello strettamente economico della nascita di aziende di allevamento efficienti. Il tentativo di conciliare questi due obiettivi, in una realtà caratterizzata da modelli sociali arcaici e da un assetto fondiario polverizzato e frantumato, fu un progetto ardito e ambizioso, che da un lato esprime un alto livello di progettualità, dall’altro rappresenta la causa ultima delle difficoltà incontrate. Con la politica di intervento pubblico, attuata mediante gli incentivi, l’apparato politico-amministrativo della Regione diventa arbitro della penetrazione delle risorse finanziarie pubbliche nel tessuto dell’economia regionale. Su di esso ricade il potere di individuare i canali attraverso i quali le risorse si diffondono nel sistema economico: si determinano cioè i settori interessati, le singole iniziative da incentivare, le aree territoriali da privilegiare, gli obiettivi da perseguire. Naturalmente vi sono vincoli da rispettare: il volume complessivo di spesa da destinare a determinati settori, o a determinati territori, che sono posti da leggi e dai diversi livelli di contrattazione. Ma se si considera l’attività complessiva della Regione come un insieme di scelte, legislative da parte del Consiglio Regionale, esecutive da parte della Giunta e degli Assessori, operative da parte degli organi amministrativi, il quadro che emerge è quello di un apparato politico-amministrativo che controlla la spesa pubblica e la sua destinazione.

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    Questa situazione comporta che l’intervento pubblico nell’economia regionale, al di là degli effetti strettamente economici, ha modificato radicalmente la società sarda, i rapporti sociali e politici, le relazioni fra ceti e classi sociali e la distribuzione del potere fra essi. Dato il ruolo essenziale che i trasferimenti hanno assunto nel determinare il livello degli investimenti e dei consumi in Sardegna, il controllo e la gestione di essi, assegna all’apparato politico-amministrativo un ruolo centrale nel determinare gli assetti economici, sociali e politici della società sarda. In precedenza, il livello dei consumi ed il tasso di accumulazione era sempre stato assai limitato a causa del basso livello di produttività del sistema economico regionale. In quelle condizioni, il reddito proveniva essenzialmente dall’agricoltura, dalla pastorizia, dall’attività mineraria e dal commercio. Consumi e accumulazione, sia pure in misura limitata, derivavano in gran parte da un elevato tasso di sfruttamento delle popolazioni agricole e successivamente dei minatori. Le classi che controllavano il limitato processo di accumulazione erano le classi dominanti della società sarda, cioè la nobiltà feudale fino alla prima metà dell’Ottocento e successivamente i proprietari terrieri e la borghesia commerciale delle città. Con la politica dei trasferimenti pubblici, è possibile che il processo di accumulazione si sia ulteriormente depresso. I trasferimenti hanno assunto un peso preponderante, anche perché nel frattempo era entrata in crisi l’agricoltura tradizionale e l’attività mineraria. Questa circostanza, unita alla tradizionale debolezza della borghesia manifatturiera, ha comportato che agli agrari e alla borghesia commerciale come classi egemoni si sia sostituito l’apparato politico-amministrativo, una nuova

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    classe, che sinteticamente si può chiamare classe politica. Il termine classe è giustificato da due circostanze: il personale politico-amministrativo esercita funzioni differenziate ma combinate per coprire l’iter complessivo dei trasferimenti; l’apparato politico-amministrativo controlla il grosso degli investimenti nell’economia regionale e quindi l’impiego dei mezzi di produzione. La trasformazione dell’apparato politico-amministrativo in classe politica è l’effetto più rilevante sul piano sociale dell’intervento pubblico nell’economia, certamente più duraturo degli affetti rilevabili con gli indicatori macroeconomici. Questa trasformazione ha sconvolto la struttura economica e gli assetti sociali e politici della società sarda, ha posto su nuove basi le relazioni fra l’apparato politico-amministrativo e le altre formazioni della società. Questa situazione è il risultato dell’intenso processo storico-sociale che si è sviluppato nel corso degli anni dell’Autonomia, con aspetti notevoli di sviluppo economico e di progresso sociale. Le vecchie classi egemoni erano l’espressione di una economia e di una società arretrata, di cui era vistosa spia l’assenza di una borghesia manifatturiera. Per queste ragioni le vecchie classi egemoni non sono mai riuscite a innescare un processo di sviluppo per l’isola, paragonabile al livello medio di accumulazione dell’Italia postunitaria. É proprio dalla consapevolezza di questa situazione che derivò la politica dell’intervento pubblico nell’economia regionale. Lo sconvolgimento dei rapporti di classe, della natura delle classi e il ruolo della classe politica è entro certi limiti un risultato voluto dall’intervento pubblico, o perlomeno è strettamente conseguente ad esso.

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    La situazione della Sardegna di oggi è ovviamente molto diversa non solo dal periodo dell’intervento pubblico nell’economia regionale ma anche dagli anni immediatamente successivi all’esaurirsi dei suoi effetti. Fra le modifiche intervenute si possono citare l’avvento dell’Unione Europea, i processi di globalizzazione che obbligano a confrontarsi con il resto del mondo, la finanziarizzazione dell’economia occidentale, la crisi che oggi attraversa le economie mature. Situazioni che complicano la nostra vita. Ma c’è anche la presenza in Sardegna di una borghesia manifatturiera, dotata anche di attività con punte di eccellenza, in grado di competere su mercato nazionale e internazionale. Nell’immediato dopoguerra fu la classe dirigente a reinventare la questione sarda e a dotarla di strumenti operativi. La classe dirigente attuale, pur così diversa da quella per composizione e per ruoli svolti, ha nuovamente la responsabilità di ridefinire l’autonomia come progetto di autogoverno dei sardi, in presenza di mutate condizioni in Italia e nel mondo. Quello della classe dirigente regionale è più un problema di oggi che del recente passato. Nel dopoguerra regioni povere e regioni ricche erano alle prese con lo stesso problema, quello di innescare un processo di sviluppo; quindi le classi dirigenti delle diverse regioni avevano gli stessi obiettivi. Oggi le regioni economicamente forti hanno il problema di competere con altre aree forti dell’Europa e del mondo. La Sardegna e le altre regioni deboli, oltre a dover competere con altre economie, sono ancora alle prese con il problema dello sviluppo. Da ciò deriva la necessità di selezionare una classe dirigente che sia in grado di svolgere il proprio ruolo, di esprimere un nuovo progetto di autonomia, analogamente a ciò che fece la classe dirigente del dopoguerra.

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    C’è anche un nuovo clima col quale deve misurarsi la classe dirigente regionale. Ci sono innanzitutto sono forti pulsioni accentratrici da parte dello Stato. C’è anche la diffusa idea che le Regioni a statuto speciale non servono a niente e bisogna eliminarle. Gli esempi recenti di privilegi e corruzione in diverse Regioni, servono a corroborare questa idea. Tuttavia è bene chiarire una circostanza. La specialità nasce formalmente da un riconoscimento della Costituzione repubblicana, quindi da una concessione dello Stato. Ma sostanzialmente la specialità non è una concessione ma una realtà che esiste prima e a prescindere dal riconoscimento costituzionale. Essa nasce dalla struttura, dalla storia e dalla cultura delle Regioni speciali, quelle di confine e le altre. Nessuno può pensare di togliere la specialità senza una forzatura che altererebbe il patto che lega, attraverso la Costituzione, tutti i cittadini. Molte delle situazioni che hanno caratterizzato il periodo delle leggi di Rinascita non ci sono più; molte alternative sono venute meno, quelle positive e quelle negative. Ne cito 3: 1. La politica meridionalistica non c’è più; 2. La pianificazione/programmazione/ i poli di sviluppo, insomma la strategia per la crescita-sviluppo non esiste più; 3. L’UE è ancora presente e importante ma è indubbio che l’asse Nord/Sud per le politiche di sviluppo si indebolisce sempre più, si veda il caso della Grecia, e viene sostituito dall’asse Ovest/Est In queste condizioni, l’unica possibilità, piaccia o non piaccia, è la mobilitazione di forze endogene. All’interno di esse l’agricoltura e l’agroindustria acquistano

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    ovviamente un ruolo centrale. Diventa centrale il problema dell’assetto fondiario, della pastorizia nomade, dell’innovazione, della qualità dei prodotti, degli sbocchi di mercato. Per questo abbiamo scelto questo tema. La mia relazione ha solo il compito di richiamare le esperienze storiche recenti, di collocare la situazione attuale all’interno di un processo che non ha creato il vuoto, ma esperienze consolidate, negative e positive, errori e successi, ma da cui è necessario partire per delineare prospettive possibili per il presente e per il futuro della nostra terra. Per questo abbiamo interpellato alcuni attuali protagonisti dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna e abbiamo deciso di dare ad essi la parola.

    *Il presente testo è la riproposizione, con alcune revisioni, rielaborazioni e aggiornamenti, di uno scritto da me pubblicato nel 1998: L’avventura economica di un cinquantennio, in Aldo Accardo (cur.), L’isola della rinascita, Editori Laterza, Bari, 1998.

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    Perché c'è bisogno di una politica agricola «comune» a livello dell'UE?

    On. Salvatore Cicu, Europarlamentare

    Nell'UE sono presenti 12 milioni di agricoltori a tempo pieno. Complessivamente l'agricoltura e l'industria agroalimentare — che dipende in larga misura dal settore agricolo per i suoi approvvigionamenti — rappresentano il 6% del PIL dell'UE, 15 milioni di imprese e 46 milioni di posti di lavoro. Le aree rurali coprono oltre il 77% del territorio dell'UE (il 47% è infatti rappresentato da terreni agricoli, il 30% da foreste) e i loro abitanti, comunità agricole e altri residenti, rappresentano circa la metà dell'intera popolazione dell'Unione. L'agricoltura è un settore sostenuto praticamente esclusivamente a livello europeo, contrariamente alla maggior parte degli altri settori oggetto di politiche nazionali. È importante avere una politica pubblica per un settore che assicura la nostra sicurezza alimentare e che pertanto svolge un ruolo chiave nell'utilizzo di risorse naturali e nello sviluppo economico di zone rurali. Per assicurare condizioni eque attraverso un insieme comune di obiettivi, principi e regole, occorre una politica definita a livello europeo. Una politica collettiva consente di utilizzare i fondi disponibili in modo molto più efficiente rispetto a un insieme disparato di politiche nazionali. Oltre alla gestione del mercato unico, vi sono altre questioni che vanno affrontate a livello transnazionale: la coesione tra i paesi e le regioni europee, le emergenze ambientali transfrontaliere, le sfide globali come i

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    cambiamenti climatici, la gestione delle risorse idriche, la biodiversità, senza dimenticare problemi più specifici come la salute e il benessere degli animali, la sicurezza degli alimenti e dei mangimi, le questioni fitosanitarie, la salute pubblica e gli interessi dei consumatori. La politica agricola comune dell'UE vuole sostenere un'agricoltura che garantisca la sicurezza alimentare (nel contesto dei cambiamenti climatici) e promuovere uno sviluppo sostenibile ed equilibrato nell'insieme delle zone rurali europee, comprese quelle in cui le condizioni di produzione sono difficili. L'agricoltura è quindi chiamata a svolgere più funzioni: venire incontro alle esigenze dei cittadini per quanto riguarda l'alimentazione (disponibilità, prezzo, varietà, qualità e sicurezza); salvaguardare l'ambiente e assicurare agli agricoltori un tenore di vita dignitoso. Al tempo stesso, occorre preservare le comunità rurali e i paesaggi in quanto componente preziosa del patrimonio europeo. Contrariamente alle opinioni diffuse in alcuni paesi, l'attività agricola non è una miniera d'oro, anzi. L'investimento in tempo e denaro degli agricoltori è sempre alla mercé di fattori economici, sanitari ed atmosferici che sfuggono al loro controllo. L'agricoltura richiede investimenti pesanti, sia umani che finanziari, che producono risultati solo diversi mesi, se non anni, più tardi e possono costantemente essere vanificati. Senza il sostegno pubblico, per gli agricoltori europei sarebbe estremamente difficile competere con gli agricoltori di altri paesi e continuare a soddisfare le esigenze specifiche dei consumatori europei. Inoltre, con l'accentuarsi dei cambiamenti climatici, il costo di un'agricoltura sostenibile è inevitabilmente destinato a crescere.

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    La politica agricola comune permette agli agricoltori europei di soddisfare le esigenze di 500 milioni di persone. I suoi obiettivi fondamentali sono assicurare agli agricoltori un tenore di vita adeguato e garantire ai consumatori la costante disponibilità di prodotti alimentari sicuri, a prezzi accessibili. Oggi la Politica Agricola comune (PAC) tende a raggiungere 3 obiettivi: 1. una produzione alimentare efficiente; 2. una gestione sostenibile delle risorse naturali; 3. uno sviluppo equilibrato delle zone rurali nell'insieme dell'UE. I fondi della PAC sono impiegati per tre scopi principali: 1. Il sostegno al reddito degli agricoltori e al rispetto di pratiche agricole sostenibili: ricevono pagamenti diretti purché condizionati al rispetto di norme severe in materia di sicurezza degli alimenti, protezione dell'ambiente e salute e benessere degli animali. Questi pagamenti sono interamente finanziati dall'UE e corrispondono al 70% del bilancio della PAC. La riforma del giugno 2013 prevede che il 30% dei pagamenti diretti sono legati al rispetto, da parte degli agricoltori europei, di pratiche agricole sostenibili, benefiche per la qualità dei suoli, la biodiversità e, in generale, per l'ambiente, come, ad esempio, la diversificazione delle colture, il mantenimento di prati permanenti o la conservazione di zone ecologiche nelle aziende agrarie. 2. Misure di sostegno al mercato: attività, ad esempio in caso di destabilizzazione dovuta a condizioni climatiche sfavorevoli. Questi pagamenti rappresentano meno del 10% del bilancio della PAC.

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    3. Le misure di sviluppo rurale: misure destinate ad aiutare gli agricoltori a modernizzare le loro aziende e diventare più competitivi, proteggendo nel contempo l'ambiente, a contribuire alla diversificazione delle attività agricole e non e alla vitalità delle comunità rurali. Questi pagamenti sono parzialmente finanziati dai paesi membri e corrispondono al 20% circa del bilancio della PAC. Questi tre ambiti sono strettamente legati e devono essere gestiti coerentemente. Ad esempio, i pagamenti diretti, che assicurano agli agricoltori un reddito stabile, costituiscono anche un compenso per i servizi da loro resi per l'ambiente, nell'interesse pubblico. Analogamente, le misure per lo sviluppo rurale favoriscono la modernizzazione delle aziende incoraggiando la diversificazione delle attività nelle zone rurali. La Politica Agricola Comune 2014-2020 rappresenta una grande opportunità per l’agricoltura Italiana, in particolare per i giovani agricoltori e per chi si appresta ad avviare un’attività agricola. Il Bilancio della Politica Agricola Comune ammonta a ben 420 Miliardi di euro per il periodo di programmazione 2014-2020. Una tale politica è seconda solo alla Politica di Coesione dell’Unione Europea che vanta un bilancio di 508 Miliardi. In Italia, sempre nel corso del periodo 2014 - 2020 le aziende agricole potranno fare affidamento su ben 52 miliardi di euro tra Primo e Secondo Pilastro, così ripartiti: 27 miliardi circa destinati ai pagamenti diretti, quasi 21 per lo sviluppo rurale e 4 circa diretti agli interventi di mercato. Al bilancio della Politica Agricola comune si aggiungono inoltre le opportunità che l’Europa offre attraverso

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    l’allocazione dei fondi a gestione diretta, vale a dire quei fondi che l’Unione Europea concede direttamente ai cittadini e che attraverso l’elaborazione di progetti rappresentano un potenziale di crescita, di innovazione e di creazione di nuovi posti di lavoro che certamente non possono essere trascurati. I più importanti per la regione Sardegna sono certamente i bandi diretti per le misure di promozione riguardanti i prodotti agricoli. Ma vediamo più nel dettaglio cosa sono i bandi di promozione e quali obiettivi intendono perseguire. Il 22 ottobre 2014 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato il regolamento (UE) n. 1144/2014 relativo ad azioni di informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi. L’obiettivo generale delle azioni di informazione e di promozione consiste nel rafforzare la competitività del settore agricolo dell’Unione. Gli obiettivi specifici delle azioni di informazione e di promozione sono i seguenti: · migliorare il grado di conoscenza dei meriti dei prodotti agricoli dell’Unione e degli elevati standard applicabili ai metodi di produzione nell’Unione; · aumentare la competitività e il consumo dei prodotti agricoli e di determinati prodotti alimentari dell’Unione e ottimizzarne l’immagine tanto all’interno quanto all’esterno dell’Unione; · rafforzare la consapevolezza e il riconoscimento dei regimi di qualità dell’Unione;

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    · aumentare la quota di mercato dei prodotti agricoli e di determinati prodotti alimentari dell’Unione, prestando particolare attenzione ai mercati di paesi terzi che presentano il maggior potenziale di crescita; · ripristinare condizioni normali di mercato in caso di turbative gravi del mercato, perdita di fiducia dei consumatori o altri problemi specifici. Pubblicazione in italiano dei bandi Il bando integrale per i PROGRAMMI SEMPLICI 2016 (una o più organizzazioni dello stesso Stato Membro) per azioni di informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi è pubblicato sulla gazzetta ufficiale al seguente indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2016_041_R_0003

    Il bando integrale per i PROGRAMMI MULTIPLI 2016 (organizzazioni di diversi Stati Membri) per azioni di informazione e di promozione riguardanti i prodotti agricoli realizzate nel mercato interno e nei paesi terzi è pubblicato sulla gazzetta ufficiale al seguente indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2016_041_R_0004

    I bandi per il 2017, saranno pubblicati a gennaio 2017, e successivamente ogni anno.

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    Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari

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    La pastorizia sarda fra passato e futuro1

    Prof. Giuseppe Pulina, Ordinario di Agraria Università di Sassari

    Premessa

    Il pastoralismo è uno degli aspetti distintivi della Sardegna. Rimasto quasi immobile per millenni, il mondo agropastorale isolano ha subito una repentina evoluzione a partire dalla fine del secolo XIX, con l’introduzione della tecnologia di trasformazione del latte ovino in Pecorino Romano, e una ulteriore accelerata dal secondo dopoguerra per effetto delle grandi trasformazioni economiche e sociali che hanno interessato l’Isola. Recentemente sono stati pubblicati due libri sull’argomento: il primo scritto da me, in collaborazione con Gavino Biddau, dal titolo “Pascoli, pecore e politica: 70 anni di pastorizia in Sardegna (EDES, Sassari 2015), dal quale è stata estratta la prima parte di questo scritto; il secondo, di gran lunga più corposo e completo, “Formaggio e pastoralismo in Sardegna” edito dalla ILLISSO (Nuoro, 2015), al quale si rimanda per ogni doveroso approfondimento del tema. Il secondo capitolo di questo scritto, tratterà degli scenari futuri del settore agropastorale della Sardegna in riferimento a quello

    1Lavoro effettuato nell’ambito delle attività della Commissione di studio dell’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali (ASPA) “Scenari zootecnici” [ZooScenari Lab.0] di cui G. Pulina è coordinatore nazionale.

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    italiano, con specifico riferimento alla produzione di latte ovino.

    1. Breve storia recente del pastoralismo in Sardegna

    La Sardegna è un’Isola il cui paesaggio è forgiato dall’attività pastorale. Ampie superfici a pascolo erbaceo, estese aree occupate dai Meriagos, fitto reticolo di muri a secco, emergenze architettoniche primordiali, latte ovino e suoi derivati quale principale produzione agricola sono elementi che tendono a identificare l’immagine della Sardegna con quella dei suoi pastori. Se la pastorizia ha rappresentato, fin dalle epoche protostoriche, una delle principali, se non la principale, attività degli abitanti dell’Isola, il secondo dopoguerra e le profonde trasformazioni sociali ed economiche che si sono succedute fino ai nostri giorni hanno comportato un’evoluzione, non sempre positiva, ma carica di significati, del pastoralismo e degli assetti sociali a esso legati. La Sardegna che riemerge dalla guerra è una terra che non ha subìto le devastazioni che hanno interessato gran parte dell’Europa e quasi tutta l’Italia. A parte i bombardamenti su Cagliari e dintorni del 1943 e quelli su Olbia e Alghero del maggio dello stesso anno, le campagne e gli altri centri abitati non limitrofi ai bersagli principali, furono risparmiati. Il che significò che il sistema agricolo e il tessuto urbano, invero molto povero, potettero immediatamente riprendere l’attività interrotta dall’evento bellico. I cittadini avevano riscoperto il mondo pastorale durante la guerra per effetto del fenomeno dello “sfollamento”: i rifugiati, provenienti soprattutto da Cagliari, furono ospitati nei centri della Barbagia e si

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    sfamarono nel lungo e freddo inverno del 1943, rimasto famoso negli annali della Sardegna come “s’annu ‘e su famine”, con carni e formaggi soprattutto ovini. Gli anni ’50 furono, per il mondo della pastorizia, un susseguirsi di sogni e delusioni, legati principalmente ai moti per la distribuzione delle terre ai contadini, che sfociarono, nelle aree migliori, nella confisca, bonifica, appoderamento e consegna dei poderi da parte dell’Ente di Trasformazione Fondiaria e Agraria della Sardegna (ETFAS), che cambiò letteralmente il volto di vaste plaghe dell’Isola e consentì l’accesso alla terra di una cospicua frazione di contadini e pastori che iniziarono un nuovo percorso di vita, i cui risultati sono visibili ancora oggi nelle zone di Arborea e della Nurra di Alghero. Contemporaneamente, la lotta alla malaria, promossa dalla fondazione Rockefeller e condotta dall’Ente Regionale Lotta Anti Insetti della Sardegna (ERLAAS), liberava l’Isola dalla millenaria plaga consentendo, con la bonifica di vaste aree paludose, l’instaurarsi di una agricoltura e di un insediamento umano in zone fino ad allora considerate insalubri. Ѐ il periodo delle prime transumanze senza ritorno in quanto nuclei familiari provenienti dall’interno iniziarono a colonizzare e a stabilirsi nelle aree dei Campidani, della Nurra e delle piane di Olbia. La pastorizia uscì dal primo decennio postbellico sostanzialmente immutata rispetto agli assetti anteguerra, ma con un anelito di modernizzazione che si rivelerà il fattore chiave dell’esodo dalle imprese armentizie e che sarà uno dei motivi portanti della dinamica del settore agropastorale dei successivi lustri. Il decennio è anche caratterizzato dalla vasta emigrazione che colpì soprattutto i ceti meno abbienti e, fra i pastori, le storiche figure bracciantili dei servi pastori i quali, agli albori degli anni ’70, saranno praticamente scomparsi dagli ovili della Sardegna.

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    Il decennio del boom economico italiano è stato caratterizzato da varo di due piani di rinascita. Per quanto riguarda il primo, la logica dell’intervento, basata sul concetto dei poli di sviluppo, aree a elevata concentrazione industriale che sarebbero dovute servire da volano per lo sviluppo complessivo del territorio regionale, si mostrò immediatamente insufficiente a innescare la rivoluzione industriale che, a oltre 150 anni dal resto dell’Europa, avrebbe dovuto investire la Sardegna. La scelta di impiantare l’industria petrolchimica, struttura produttiva ad alto investimento di capitale ed elevato impatto ambientale, quale impresa leader, comportò una momentanea sensazione di benessere, registrata dal forte inurbamento delle cittadine di Sarroch e Porto Torres, ma saturò immediatamente l’esigenza di nuovo lavoro, anche a causa dell’elevata specializzazione richiesta alle maestranze e difficilmente riscontrabile nelle aree rurali della Sardegna. Il polo di Ottana, l’ultimo nato nell’ordine e sopranominato da subito Cattedrale nel Deserto, più degli altri registrò un reclutamento delle maestranze nel mondo pastorale: le cronache di allora raccontano del disagio di molti pastori che, venduto il gregge, si rinchiudevano per 8 ore al giorno in un ambiente malsano, costretti dal sogno di un tenore di vita subitaneamente (e purtroppo in modo effimero) diventato consono ai tempi che cambiavano rapidamente ed esigevano modernità. Negli stessi anni si affermava un fenomeno delinquenziale noto con il nome di banditismo. I fermenti degli anni ’50 e la mancata rivoluzione industriale dei primi anni ’60 generarono un profondo senso di malessere in gran parte della società rurale delle zone interne dell’Isola tagliata fuori, se non isolata, dai processi di modernizzazione che investivano repentinamente le due maggiori città

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    dell’Isola, i comuni costieri interessati dalla nascente industria turistica e gli assi di comunicazione fra le grandi concentrazioni urbane. La figura del pastore, una volta cardine degli assetti sociali delle aree interne della Sardegna, divenne un epiteto da indirizzare verso coloro che si mostravano meno proni ad assecondare la modernità dilagante, tanto da isolare la comunità degli allevatori di pecore e capre dal resto della società. Su questo substrato si sviluppò l’industria del sequestro di persona, solitamente gestita da esponenti della piccola o media borghesia inurbata e praticata da manodopera reclutata negli ambienti pastorali. L’estensione del fenomeno e il ripetersi degli episodi criminali, diversi dei quali si risolvettero purtroppo con la morte o la scomparsa dell’ostaggio, obbligarono lo stato a una reazione feroce che portò a una vera e propria occupazione militare dell’Isola e finì con conflitti a fuoco sanguinosi e l’arresto di noti esponenti del banditismo, da molti anni latitanti. I fenomeni malavitosi e la reazione dello Stato indussero il Parlamento, nell’autunno del 1969, ad approvare una legge per la costituzione di una commissione di inchiesta sul fenomeno del banditismo in Sardegna presieduta dal Senatore Giuseppe Medici. Gli esiti dell’indagine, dopo due anni e mezzo di lavori, sancirono che soltanto "un integrale piano di sviluppo capace di investire in pieno il mondo agro-silvo-pastorale", che interessasse "tutta la vita culturale e sociale delle comunità barbaricine", sarebbe stato l’antidoto al dilagare dei fenomeni malavitosi nell’Isola. Fu così varato il secondo piano di rinascita, nel 1974, con al centro la riforma agro-pastorale e con una dotazione finanziaria di 600 miliardi di lire. Alla denominazione dell’assessorato per l’agricoltura fu da allora aggiunta la qualifica “e riforma agropastorale” che oggi, a distanza di quasi mezzo

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    secolo dal varo e dal fallimento della stessa, ancora mantiene. Ma altre trasformazioni hanno in quegli anni interessato il mondo agropastorale isolano. La pastorizia in Sardegna è stata per lungo tempo esercitata su terreni di proprietà collettiva o su terreni privati per i quali i pastori pagavano un canone annuo (o mensile, nel caso delle stoppie di cereali), di solito corrisposto sotto forma di prodotti dell’allevamento. La proprietà fondiaria era una forma di possesso poco diffusa e non consona alle modalità di conduzione degli allevamenti che prevedeva la monticazione (spostamento degli animali fra pianura e montagna nella stessa area) e la transumanza (spostamento delle greggi per lunghe distanze) per assicurare alle pecore la risorsa foraggera stagionale in grado di sostenerne la produzione di latte. La riforma agraria e la creazione della Cassa per la formazione della proprietà contadina (istituita nel 1948) consentirono anche in Sardegna la nascita di numerose piccole proprietà coltivatrici e l’ingrandimento delle dimensioni delle proprietà, soprattutto di quelle pastorali. Negli anni ’60 si verificò una sensibile estensione delle aree pascolive che incorporarono quelle un tempo destinate alla cerealicoltura e quelle pianeggianti irrigabili o potenzialmente tali; ciò fu dovuto anche al favorevole andamento dei prezzi dei prodotti ovini, come meglio esposto nei successivamente. Poiché sino agli anni ’60 i latifondisti pretendevano un affitto pari a una remunerazione fondiaria del 7% circa, al pastore comprare conveniva più che prendere in affitto un terreno, in quanto la Cassa per la proprietà contadina consentiva di acquisire le terre in 30 anni a un tasso annuo pari a metà del valore d'affitto. Comprarono, però, solo quelli più informati sui contributi e sovvenzioni pubbliche. Ѐ tuttavia con la legge

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    sugli affitti dei fondi rustici del 1971, nota come De Marzi-Cipolla, che il secolare conflitto di interessi tra i proprietari della terra e i proprietari delle greggi mostrò una svolta fondamentale. Con tale legge, infatti, centinaia di migliaia di ettari cambiarono proprietario e molti pastori si stabilizzarono nelle pianure formando aziende moderne. Questa sedentarizzazione degli allevamenti permise l’avvio degli investimenti aziendali (i cosiddetti miglioramenti fondiari), costituiti soprattutto dalla costruzione di ovili razionali e dal miglioramento dei pascoli, dall’introduzione della meccanizzazione per la messa a coltura di superfici prima occupate dalla macchia mediterranea, ma soprattutto per la coltivazione dei cereali foraggieri (erbai di orzo e avena) a ciclo autunno-primaverile più produttivi del pascolo naturale. Gli erbai, infatti, mostravano un utilizzo versatile per le aziende pastorali, in quanto durante l’inverno rappresentavano un’importante fonte di approvvigionamento di erba da pascolare direttamente con gli animali e in primavera potevano essere destinati alla produzione di granella, oppure alla produzione di fieno come scorta foraggera. Queste trasformazioni agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso portarono alla maturazione di un processo di apprezzamento del latte iniziato circa un secolo prima con l’avvio della produzione su larga scala del Pecorino Romano. Infatti, alla fine del XIX secolo l’arrivo in Sardegna dei primi industriali romani comportò per la pastorizia un radicale cambiamento: in quegli anni, infatti, si allargò all’Isola la produzione industriale di un formaggio salato laziale, il Pecorino Romano, fatto esclusivamente con il latte di pecora, venduto molto bene negli Stati Uniti e in Argentina. Questo prodotto si impose immediatamente come una commodity in quanto facilmente trasportabile e

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    conservabile e disincentivò i pastori dalla trasformazione domestica del latte per la produzione del tradizionale formaggio ovino, il Fiore Sardo. Il Pecorino Romano subì nel corso del XX secolo varie crisi di sovrapproduzione e conseguentemente di prezzo, ma la semplicità del processo caseario e il consolidamento dei mercati transoceanici lo resero, nel secondo dopoguerra, il prodotto di riferimento dell’industria casearia privata e cooperativa della Sardegna. L’inserimento del Pecorino Romano fra i prodotti dell’UE per i quali era prevista una restituzione all’esportazione, il ciclo economico espansivo, trainato dalla new economy digitale, che caratterizzò l’economia americana degli anni ’90, congiuntamente al rafforzamento del valore del dollaro sulla lira dovuto alla crisi finanziaria dell’Italia, contribuirono a spingere il prezzo del latte ovino verso valori mai raggiunti prima. La conseguenza fu un accelerarsi dei processi di acquisto di terre da parte dei pastori con un contemporaneo forte rialzo dei valori fondiari e il drenaggio di parte degli utili dal reinvestimento per l’ammodernamento degli allevamenti ad altri settori, in particolare quello edilizio. I pastori ristrutturarono le loro case nei paesi di residenza, cambiandone il volto, e acquistarono immobili nelle maggiori città per destinarli principalmente a residenza per lo studio dei figli. Il periodo delle vacche grasse però non durò a lungo. La buona posizione di mercato del Pecorino Romano, che spostò ingenti masse di latte verso questo prodotto e ne causò una sovrapproduzione, e la riforma della PAC, che inizialmente ridusse e poi abolì le restituzioni alle esportazioni, esposero la stragrande maggioranza della produzione del latte ovino della Sardegna a un crollo dei prezzi che raggiunse il minimo storico agli albori del nuovo millennio. I sistemi politico e

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    produttivo cercarono di reagire con il varo di un massiccio piano di investimenti strutturali che comportò l’ammodernamento degli edifici e degli impianti aziendali per renderli coerenti con le nuove norme sulla qualità del latte. Ma l’investimento di maggiore rilevanza fu quello diretto all’introduzione degli impianti di mungitura meccanizzata e della refrigerazione del latte. In pochissimi anni si assistette all’abbandono della modalità primigenia di estrazione del latte ovino, la mungitura a mano (molte volte operata all’aria aperta in recinti di frasche), per passare a quella meccanizzata capace di migliorare il benessere del pastore e di garantirne l’aumento dell’operatività. Dalle 120-150 pecore mungibili giornalmente a mano, si passò alle 250-300, con importanti ripercussioni sulle consistenze aziendali dominabili dalla singola unità operativa e l’avvio di importanti processi di accorpamento di imprese o di acquisizione di greggi dismessi da pastori ritiratisi dall’attività. Fu anche un periodo di grave malessere per il sistema lattiero-caseario sardo, crisi aggravata dal flagello della blue tongue che si abbatté sull’Isola agli albori del nuovo millennio e che comportò la morte o la soppressione di mezzo milione di capi ovini e caprini, malessere che sboccò in manifestazioni e proteste dei pastori, inizialmente sostenute dalle organizzazioni tradizionali (Coldiretti, Confagricoltura e Confederazione Italiana Agricoltori - CIA) e successivamente sfociò in movimenti autonomi di rivendicazione, il più rilevante dei quali fu il Movimento Pastori Sardi di Felice Floris e Fortunato Ladu. Nato alla fine degli anni ’90 del XX secolo, sulla scia dei COBAS del latte che avevano infiammato le campagne lombarde per combattere il trust delle quote latte europee, il Movimento mostrò subito ambizioni

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    politiche, tanto da sganciarsi immediatamente dalle grandi confederazioni rappresentative del mondo agricolo e agire motu proprio nei confronti della politica regionale e nazionale. I leader del Movimento si resero subito conto dell’importanza dei media, tradizionali e nuovi, per il sostegno e la propaganda a favore del movimento: qualsiasi iniziativa, e tante se ne contano nella pur breve vita del sodalizio, fu da allora accompagnato da un clamore mediatico, sia tradizionale per mezzo di una bravissima addetta stampa, sia innovativo con l’apertura di pagine su Internet e su Facebook. L’eclissarsi delle rivendicazioni pastorali non ha spento i riflettori sui leader del MPS, presi dalla tensione di formare una rappresentanza politica, almeno di spessore regionale, o di unirsi alle frange indipendentiste che sempre più ne agitano il panorama politico. Se un risultato è stato raggiunto dal Movimento in oltre due decenni di battaglie, è stato il riconoscimento ufficiale del pastore sardo quale elemento politico attivo e la sua collocazione fra i portatori di interessi reali organizzati nel panorama sempre frastagliato delle rappresentanze sociali isolane. La profonda crisi del Pecorino Romano, stretto fra sovrapproduzione e cancellazione delle restituzioni all’esportazione, comportò un crollo del prezzo del latte ovino che, a metà del decennio, si attestò a valori vicini ai 50 cent al litro (circa la metà del massimo prezzo raggiunto nel decennio precedente). Le analisi dei bilanci delle imprese agropastorali mostrarono che tale livello era insostenibile in quanto rappresentava circa la metà del costo medio di produzione del litro di latte. Il rischio di default per il sistema era diventato reale. Lo schiacciamento del reddito da lavoro, vero ammortizzatore dei momenti di crisi del prezzo del latte, non sembrò ai tempi sufficiente per arginare un crescente indebitamento

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    delle imprese pastorali verso i fornitori e verso le banche. I debiti a breve termine raggiunsero il 75% della produzione lorda vendibile e, sommati a quelli a medio termine, superarono di gran lunga il fatturato annuo delle aziende. L’Assessorato all’Agricoltura colse il suggerimento che arrivò dal Dipartimento di Scienze Zootecniche dell’Università di Sassari: proporre, nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale in corso, una misura sul benessere animale tarata in modo tale da consentire un premio pari a 19,4 euro per pecora. La misura, predisposta dal suddetto Dipartimento con l’ausilio dell’agenzia regionale LAORE Sardegna e gestita di concerto con l’Associazione Regionale Allevatori della Sardegna (ARAS), si rivelò un successo e consentì, nella temperie delle crisi, la sopravvivenza delle aziende armentizie, il miglioramento della salute degli animali (soprattutto la riduzione delle mastiti subcliniche) e l’adeguamento tecnologico di migliaia di impianti di mungitura sparsi per il territorio regionale. La riuscita dell’intervento fu tale da indurre l’Assessorato per l’Agricoltura a vararne nel 2010 una nuova versione, sempre sotto consiglio degli studiosi dell’Università di Sassari, tutt’oggi in fase di piena attività. Uno degli effetti più rilevanti della misura sul benessere animale, unitamente alla efficacia dell’azione dell’ARAS, è stato il miglioramento della qualità del latte ovino che, a oggi, si trova allineato agli standard europei di carattere sanitario e tecnologico. Tale miglioramento ha consentito, tra le altre cose, un’apertura alla diversificazione delle produzioni lattiero-casearie che consentono a tutto il settore la possibilità di modulare le produzioni anche in relazione al contingentamento del Pecorino Romano auspicato da più parti.

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    Tuttavia, per certi versi inaspettatamente, le quotazioni del Pecorino Romano hanno iniziato a crescere nel biennio 2013-2015, fino a superare nei mercati internazionali quelle di formaggi italiani più blasonati quali il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano. Se questo evento da un lato ha portato un effimero sollievo a un comparto compresso dalle decennali diseconomie, dall’altro ha richiamato ingenti quantità di latte verso questo latticino: già alla fine della stagione 2015/16 il prezzo del Pecorino Romano registrava fortissime flessioni (-27% sul mercato nazionale) e l’allarme lanciato dalle confederazioni sindacali degli allevatori, Coldiretti in testa, sfociava in un contenzioso con i trasformatori, ancora in corso, sul prezzo del latte. Poiché la Sardegna è stata per molto tempo, e resta tutt’ora, la regione del mondo a più alta specializzazione ovina da latte, il futuro della pastorizia sarda sarà legato inscindibilmente alla capacità che avrà la filiera agropastorale di rinnovarsi e consolidare la propria leadership sui mercati internazionali. Il prossimo capitolo sarà dedicato a questa analisi, in una prospettiva nazionale.

    2. Le prospettive del sistema ovino da latte Sardo nel contesto italiano e internazionale

    L’Italia, e la Sardegna, sono indiscutibilmente leader mondiali nell’esportazione di formaggi ovini (Figura 1) Il grafico mostra anche alcune anomalie legate agli importanti volumi di export dell’Olanda e il saldo commerciale elevato e paritario del Lussemburgo, a dimostrazione che quote rilevanti di pecorino prodotto nel nostro Paese sono commercializzate da piattaforme residenti in altri Stati dell’Unione.

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    USA e Germania si presentano quali maggiori importatori mondiali (Figura 2), relegando ad un ruolo marginale gli altri Paesi. Tuttavia, occorre rilevare che metà circa del latte ovino mondiale è prodotto in Cina e una quota importante in Turchia; ma che queste sono destinate esclusivamente all’autoconsumo. Figura 1 – Import-export di formaggio pecorino nei Paesi europei.

    Figura 2 – Principali importatori di formaggio ovino nel mondo.

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    Il mercato mondiale del pecorino si mostra finora fortemente polarizzato (due players, Italia e Francia e due importer, USA e Germania); tuttavia, recentemente la Cina sta iniziando una campagna di apertura di mercati in Nuova Zelanda, in cui stanno nascendo nuove imprese ovine da latte, e anche in Sardegna, per acquisire quote di prodotto disidratato da destinare all’alimentazione infantile; la Spagna, inoltre, con una aggressiva campagna commerciale incentrata sul formaggio Manchego, sta conquistando importanti quote di prodotto da tavola sul mercato nordamericano. La Sardegna è la regione italiana di gran lunga più specializzata nella produzione del latte ovino: la metà del patrimonio nazionale è allevata nell’Isola (Figura 3) e in essa si producono circa i 2/3 del latte nazionale (Figura 4). La consistenza dei capi allevati, dal trend storico, sembra destinata a calare al 2025 sia in Italia che in Sardegna. A questo trend si adegua anche la produzione del latte che soltanto nelle ultime annate ha risentito di una leggera

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    inversione a causa del miglioramento del prezzo del prodotto. Figura 3 – Andamento del patrimonio ovino nazionale e proiezione al 2025

    Figura 4 – Andamento della produzione di latte ovino in Italia

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    Pur rappresentando il latte ovino una quota pari al 3,5% di quella di latte bovino nazionale, i due settori mostrano una profonda differenza, analizzata nella Tabella 1. Se il bovino da latte è una economia a prevalente carattere nazionale, tecnologicamente avanzata, concentrata in alcune aree e che soffre della concorrenza internazionale, l’ovino è un allevamento diffuso sul territorio, a bassa tecnologia e a forte inclinazione all’esportazione. Purtroppo, la fragilità degli assetti agropastorali italiani e la mancanza di politiche specifiche di settore, stanno portando all’abbandono degli allevamenti e alla conseguente diminuzione della potenzialità produttiva del sistema. Tabella 1 – Raffronto fra settori bovino e ovino da latte in Italia.

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    Il prezzo del latte ovino all’ovile è senz’altro uno dei temi più caldi del dibattito agricolo della Sardegna. É importante anche sul piano nazionale per le pesanti influenze che il prezzo praticato sull’Isola ha per i contratti chiusi nelle altre regioni. Il primo approccio per la definizione di un prezzo di una materia prima quale è il latte, è la determinazione del prezzo di succedaneità, che rappresenta il valore al quale due beni simili possono essere sostituibili. Nel nostro caso, essendo una quota di produzione di pecorino (semicotti e i freschi) in concorrenza con analoghi latticini vaccini nella grande distribuzione organizzata, questo esercizio indica il punto di equilibrio fra i due latti. L’analisi del prezzo di succedaneità fra latte ovino e latte bovino, calcolata sui valori medi delle sostanze casearie utili (SCU; grasso e proteine) è la seguente:

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    a) Il latte bovino contiene mediamente 70 g/L di SCU (Grasso + Proteine) b) Il latte ovino contiene mediamente 125 g/L di SCU (Grasso + Proteine) Il valore di succedaneità fra i due latti è perciò di 125/70 = 1,8, il che significa che se il prezzo del latte bovino è di 40 cent/L, quello ovino dovrebbe essere di 0,72 cent. Se superiore, rappresenta il “valore proprio” del latte ovino, se inferiore, denuncia l’inefficienza del sistema pastorale. Il Pecorino Romano rappresenta, come abbiamo detto, il principale formaggio ovino prodotto nel mondo. La sua importanza risiede nel fatto che alla sua produzione è indirizzato circa il 30% del latte ovino munto in Italia e che dai suoi corsi dipende, pertanto, in maniera determinante il prezzo del latte italiano. Purtroppo, come è possibile verificare dalla Figura 5, gli andamenti delle produzioni di Pecorino Romano hanno subito oscillazioni elevate, chiaro risvolto della totale mancanza di una minima programmazione. Figura 5 – Andamento della produzione di Pecorino Romano.

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    A queste oscillazioni ha fatto eco la quota di latte ovino sardo destinata a questo latticino, che ha mostrato lo stesso andamento. Il che significa che non sono stati gli allevatori a creare problemi di sovrapproduzione, come è evidente dalla produzione calante registrata nelle Figura 4, ma la mancata programmazione della fase di trasformazione (Figura 6). Come già accennato nel capitolo precedente, ad una breve fase di prezzi alti della vendita di Pecorino Romano, e di relativi prezzi elevati per il latte ovino, è seguita recentemente una fase di rapida recessione, con il crollo del prezzo del 27% negli ultimi mesi della campagna 2015/2016 e l’apertura delle contrattazioni per il latte dell’annata 2016/2017 attestate a meno della metà dei saldi ottenuti nelle due annate precedenti. Tuttavia, il mondo vuole sempre più latte. Dalle proiezioni FAO, riportate nella Figura 7, risulta che la domanda di

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    questo alimento è in forte crescita e che si prevede ne siano necessarie 230 milioni di tonnellate in più da oggi al 2035. Il che, tradotto in termini di latte ovino, che rappresenta il 3,5% della produzione mondiale, significa che ci sarà necessità di un quantitativo ulteriore di circa 8 milioni di tonnellate, pari a 2,5 volte l’attuale produzione di latte della Sardegna. Una prateria sconfinata da conquistare, a patto che si sappia prendere per tempo questo treno in corsa. Figura 6 – Quota di latte ovino sardo destinato alla produzione di Pecorino Romano

    Figura 7 - Andamento delle produzioni mondiali di alimenti di origine animale dal 1967 e proiezione al 2030 (FAO, 2015).

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    Al fine di valutare il trend di produzione del latte ovino nazionale (del quale, ricordiamolo, il latte sardo è la quota preponderante), ho elaborato una proiezione sulle serie storiche, tenendo conto delle variabili rilevanti che hanno influenzato nel passato l’andamento produttivo di questa derrata: il patrimonio di pecore da latte, il PIL, la popolazione residente e la % trasformata in Pecorino Romano. L’equazione che è risultata, calcolata con la tecnica StepWise, è la seguente: LATTE (q/anno) = 0,353 PECORE (n.) – 101,8 POPOLAZIONE (X1000) + 4,44 PIL (€x1000) + 16947 PECORINO ROMANO (% latte) [Sqr = 82%; Sqr pred = 52%]. Ho sviluppato l’equazione al 2025 applicando due livelli (alto e basso) di proiezione della popolazione residente italiana, ottenuti dal modello DEMO dell’ISTAT, utilizzando il trend decrescente del patrimonio ovino ottenuto dalla serie storica, risolvendo per tre livelli di incremento annuo del PIL (basso 0,5%, medio 1% e alto 2%) e ipotizzando due valori della quota di latte trasformata in Pecorino Romano a livello nazionale (40%

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    e 50%). I risultati della proiezione sono riportati nella Figura 8, per sviluppo della popolazione basso, e nella Figura 9, per lo sviluppo alto. Figura 8 – Proiezioni della produzione del latte ovino nazionale al 2025 con scenario ISTAT di sviluppo della popolazione basso (PIL B,M,H = PIL 0,5%, 1%, 2% anno; PR 40,50 = quota di latte destinato a Pecorino Romano)

    Il modello dice che PIL e quota di latte destinato a Pecorino Romano sono i principali drivers dell’evoluzione produttiva e che con uno sviluppo della popolazione alto, le prospettive produttive tendono a peggiorare per tutti gli scenari indagati. Tuttavia, in tutti i casi la tendenza generale delle curve è in crescita, il che significa che il settore ha ancora margini di espansione anche in relazione alle sole variabili di natura interna. Figura 9 – Proiezioni della produzione del latte ovino nazionale al 2025 con scenario ISTAT di sviluppo della popolazione alto (PIL

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    B,M,H = PIL 0,5%, 1%, 2% anno; PR 40,50 = quota di latte destinato a Pecorino Romano)

    Ho infine esplorato tre scenari di tipo qualitativo, con previsione al 2025 dello stato di salute del sistema ovino da latte italiano: business as usual, che configura condizioni future simili a quelle storiche recenti; open market, che ipotizza una ulteriore apertura dei mercati internazionali; regionale, che preconizza una chiusura progressiva dei mercati internazionali e una frammentazione a livello regionale degli stessi. Il primo esercizio è riportato nella Tabella 2. Tabella 2. Primo esercizio di scenario per il latte ovino italiano al 2025 con tre ipotesi.

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    La tendenza generale, per un settore fortemente dipendente dalle esportazioni, non può che essere negativa se non in presenza di una ulteriore apertura dei mercati (il che significa che anche in presenza di un trend generale di chiusura, la ricerca specifica di nuovi mercati diventa una priorità). La governance dei sistemi di trasformazione, in questa prospettiva diventa cruciale, così come la necessità di maggiore competitività del settore, soprattutto sul versante della produzione unitaria per capo e dell’efficienza delle imprese pastorali. Uno schema di governo della filiera è riportato nella Figura 10. In sintesi, il patrimonio ovino da latte italiano può orientarsi alle produzioni tipiche locali (in Sardegna il Pecorino Sardo e il Fiore Sardo), sfruttando le razze locali (in Sardegna anche gli ecotipi della razza Sarda specifici delle regioni geografiche interne) con sistemi di allevamento pascolivi estensivi e le relative politiche di sostegno del reddito tipiche dei programmi rurali per le aree svantaggiate; sul versante dei formaggi industriali, occorre trovare il continuo punto di equilibrio fra quote destinate al Pecorino Romano, per le quali sono adeguati i sistemi produttivi semiestensivi basati sul pascolamento e

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    da adottarsi idonee politiche per l’export, e le quote destinate ai formaggi in competizione con i vaccini, per i quali è indispensabile sviluppare forme anche intensive di allevamento di alta efficienza e produttività. Figura 10 – Schema di governo del sistema ovino da latte Italiano

    3. Conclusioni

    La pastorizia sarda ha subìto, dal dopoguerra a oggi, tali trasformazioni che le condizioni di origine sembrano tanto remote quanto incredibili. I drivers principali sono stati la stabilizzazione aziendale, l’aumento, a volte anche notevole, del capitale bestiame dominato dal singolo allevatore, la mercantilizzazione quasi totale della produzione, la meccanizzazione aziendale, l’introduzione delle tecnologie alimentari, sanitarie e di gestione in grado di migliorare decisamente il livello di vita dei lavoratori e l’apertura della pastorizia verso ambiti di servizio una volta esclusivo appannaggio dei compendi naturalistici o dei parchi. Sul versante delle prospettive va rilevato che il latte ovino rappresenta una quota limitata della produzione mondiale

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    e che l’Italia, all’interno della quale la Sardegna gioca il ruolo determinante, è leader mondiale nell’export dei formaggi pecorini Tuttavia, il settore soffre di arretratezza e mancanza di politiche specifiche, per cui il futuro è legato a scelte chiare e di sistema per cui da ultimo dei sistemi agricoli, la pastorizia con l’ovinicoltura da latte può diventare uno degli asset strategici dell’agroalimentare italiano. Il futuro della professione pastore in Sardegna si presenta migliore del cinquantennio appena passato: un mercato del formaggio in via di espansione, nonostante i corsi delle esportazioni congiunturalmente in flessione, fanno ben sperare per la conservazione del più importante settore produttivo agricolo isolano. La condizione è che la pastorizia rientri al centro dell’attenzione collettiva della Società sarda e che non sia relegata ai fatti di cronaca nera o alle proteste, a volte violente, degli allevatori per reclamare il sostegno per la loro sopravvivenza.

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    Pastoralismo in evoluzione, dal modello tradizionale a quello multifunzionale

    Prof. Benedetto Meloni e Prof.ssa Domenica Farinella, Sociologia del Territorio e dell’Ambiente Università di

    Cagliari

    1. Il modello agro-pastorale tradizionale

    Il saggio2 ripercorre a grandi linee l’evoluzione dei sistemi agropastorali della Sardegna, focalizzando l’attenzione soprattutto sull’evoluzione dal secondo dopoguerra, evidenziando le pratiche di gestione dello spazio e delle risorse, le forme di produzione economica, così come i fattori endogeni ed esogeni che hanno causato mutamenti

    2 Il saggio si colloca nel lungo dibattito sulla pastorizia mediterranea e sarda, tra gli altri Le Lannou 1979; Salzman e Galaty 1980; Ortu 1981; Manconi e Angioni 1982; Ravis-Giordani 1983; Meloni 1984; Da Re 1982; Angioni 1989; Murru Corriga 1990; Fabietti e Salzman 1996; Bandino 2006; Mienties 2008; Mattone e Simbula 2011 ed il recente Mannia 2014. Le analisi presentate si basano su un lungo lavoro di ricerca empirica realizzato a partire dagli anni ottanta da Meloni in alcune aree interne (Barbagia centrale, Cixerri e Sarrabus-Gerrei) e su diverse ricerche attualmente in corso presso il Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni dell’Università di Cagliari, dirette da B. Meloni e cui partecipano D. Farinella, E. Cois, M. Locci, E. Sois, M. Salis, C. Locci. Queste ricerche riguardano i cambiamenti nel pastoralismo contemporaneo e nella filiera agroalimentare, così come l’emergere di nuove imprese contadine e sono finanziate da diversi enti, tra cui la Fondazione Banco di Sardegna, la Regione Sardegna, la Camera di Commercio di Cagliari, il Ministro per la Ministro per la coesione territoriale. Si tratta di ricerche su ambiti micro (comunità locali o regioni storiche specifiche) realizzate a partire dalla costruzione di profili sociografici e dalla raccolta di storie di vita ed etnografie di casi aziendali. La raccolta di una grande mole di dati qualitativi su studi di comunità consente di generalizzare alcuni modelli idealtipici, estrapolando elementi di carattere generale e alcune tendenze del processo di cambiamento dei sistemi locali analizzati.

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    nelle modalità di regolazione sociale, modificando i rapporti tra le diverse componenti delle comunità locali.

    A grandi linee, è possibile tracciare un processo di cambiamento dei sistemi agropastorali scandito dal susseguirsi di tre modelli di gestione delle risorse, in cui si verifica la transizione dal sistema tradizionale a quello attuale, attraverso meccanismi di disarticolazione di vecchie componenti e riassesto su nuove.

    Mediante un’analisi dell’evoluzione dei sistemi economici locali d’uso ed accesso alle risorse, intendiamo cogliere i mutamenti e le strategie messe in atto a livello locale, partendo dal presupposto che, sebbene esistano dei vincoli esterni, le forme di aggiustamento sono sempre specifiche dei diversi contesti territoriali. Le modalità con cui questi fenomeni avvengono mostrano continuità, non solo rottura, rispetto al sistema produttivo e riproduttivo tradizionale che si riorganizza, offrendo nuove opportunità rispetto al passato.

    Il termine “tradizionale” non assum