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Pelli e cuoio nell’antica Roma

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Pelli e cuoio nell'antica Roma

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Pelli e cuoio nell’antica Roma

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La Concia

I romani estraevano l'alunite a Tolfa e Allumiere, nel Lazio, producendo con essa

l'allume, un solfato d'alluminio che si trova in natura. L'allume era fondamentale

nell'industria tessile come fissatore per colori, per le stampe su pergamena, per la

concia delle pelli, la produzione del vetro e come emostatico.

I romani conciavano le pelli esponendole al fumo dei fuochi, specialmente di

quelli alimentati con foglie o legno fresco, era la "concia alle aldeidi", una classe di

composti chimici di cui il fumo è ricco e alcuni dei quali ancora oggi vengono

utilizzati. C'era poi la "concia al vegetale" con tannini, in quanto a contatto

con acqua e con rami o foglie, la pelle si colorava di marrone e durava molto di

più. Le foglie ed il legno, infatti, contengono tannini vegetali che venivano estratti

dai vegetali ed assorbiti dalla pelle producendo la concia. Infine conciavano con

l'allume, con materie grasse e con prodotti vegetali contenenti tannino, dapprima

con l'orina, poi con il sommacco (Rhus coriaria), le noci di galla, la corteccia di

quercia, quella di pino e le scorze di melograno importate dall'Africa. Le pelli

potevano anche essere conservate per lunghi periodi con il metodo della salatura

appreso dai Galli e dai Germani. C'era poi l'uso della calce per ottenerne

la depilazione.

I Romani non indossavano indumenti ai piedi, tranne che al nord dove faceva

più freddo, ma non erano veri calzini bensì fasce di lana.

Pelli e cuoio nell’antica Roma

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Nell'Urbe invece si girava a piedi nudi dentro le calzature. Quest'ultime

erano chiuse come stivaletti o aperte come sandali, fatte con tante strisce di

cuoio e talvolta chiodate, come si usava un tempo, per i soldati o i contadini

europei, per non consumare la suola.

Plutarco narra che già nel periodo regio gli addetti alle lavorazioni di cuoio e

pelli erano organizzati in una corporazione che, come altre, fu regolamentata

dai re Numa Pompilio e Servio Tullio; queste corporazioni, precorritrici delle

"arti" medioevali, agirono durante tutto il periodo repubblicano e ricevettero

nuove regole da Giulio Cesare (100 - 44 a.c.), tanto che, nel foro di Ostia c'è

un mosaico che illustra le attività dei "Coriarii" ossia degli artigiani che si

occupavano dell'artigianato di cuoio e pelli. I romani facevano ricorso al

calzolaio civile (Sutor), a quello militare (Caligarius) o al fabbricante di

sandali (Solearius o Baxearius), artigiani specializzati e mercanti sempre

presenti nel Foro. I loro laboratori sono installati in un quartiere il cui

ingresso era vegliato da una statua di Apollo, calzato di sandali, da cui il nome

di Apollo Sandalarius.

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Pelli e cuoio nell’antica Roma

Le calzature

Le scarpe romane potevano essere lucidate con cera d’api e colorate con

zafferano per il giallo, sali ferrosi o tannini per il nero, guado per l’azzurro e

porpora o oricello per il rosso (tipico delle calzature più lussuose).

Le tomaie erano cucite con lino e unite alle suole con strisce di cuoio,

tendini o budello ritorto. La suola era oggetto di una attenzione e un lavoro

particolare.

I chiodi venivano disposti in modo che potessero lasciare impronte

perfettamente leggibili e riconoscibili. Ogni reggimento possedeva pertanto

una sua particolare disposizione di chiodi. Di certo un disertore aveva poco

scampo, ma un commilitone amico non era difficile da ritrovare. Ma pure le

cortigiane romane lasciavano impronte particolari che indicavano

chiaramente: “Seguimi !” Inoltre delle spesse suole di sughero permettevano

a queste signore ed anche alle altre di apparire più alte. I sandali in epoca

imperiale divennero raffinati e sfarzosi, ornandosi di fili e fibbie di bronzo, di

rame, d'oro e d'argento, di piume colorate, di ciondoli, di catenine, di

conchiglie e madreperle, di incrostazioni di pietre fini o semi preziose. Giulio

Cesare portava in pubblico dei sandali con la tomaia in oro, si pensa guarnita

o rivestita, altrimenti sarebbe stata piuttosto scomoda. Ma pure la suola

poteva rivestirsi in oro. Fu con i sandali con la suola d’oro, secondo la moda

imperiale, che Nerone colpì, si dice, il ventre di Poppea incinta, uccidendola.

Già nel 215 a.c. la Lex Oppia cercava di limitare la ricchezza degli abiti

femminili. In seguito lo stesso Giulio Cesare e poi altri imperatori,

intervennero contro l'eccessivo sfarzo delle vesti di uomini e donne

stabilendone anche il prezzo massimo consentito, ma non ottennero

granchè. Solo gli uomini potevano usare il colore rosso per le calzature,

ma Marco Aurelio, l’imperatore saggio, nelle leggi suntuarie vietò agli uomini

l’uso di scarpe colorate.

Le scarpe bianche erano riservate all’imperatore.

Le prime calzature dei romani furono le solae, usate da uomini e donne.

Sorta di scarpa aperta, da cui l’italiano “suola”. Erano tipi di sandali fissati al

collo del piede con una cinghia, primitivi calzari costituiti da suole di cuoio

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allacciate alla gamba da corregge e che in seguito divennero calzature da

casa. Le soleae, o sandalia, si usavano solo dentro le case, sarebbe stato

sconveniente uscirci. Ma era anche sconveniente andare in visita o nei

banchetti con le scarpe con cui si era usciti, per cui gli schiavi portavano

appresso per i padroni i sandali di scorta.

All’interno delle case uomini e donne portano normalmente

il soccus, calzatura leggera e bassa simile alla pantofola di origine greca. I

socci erano le calzature da casa senza lacci, come pantofole, con suola di

cuoio o di sughero. Naturalmente gli ospiti se li portavano da casa loro. Il

soccus è la calzatura usata anche dagli attori comici.

Il coturno invece era usato normalmente dagli attori tragici: calzatura con

allacciatura alla caviglia o al polpaccio e suola molto spessa così da rendere

più elevata la statura e più imponente la persona.

Successivamente indossarono altrimenti le “calcidae”, o calcei, usati da

uomini e donne, con suole senza tacco di uno spessore di circa 5 mm,

con tomaie in pelle morbida che ricoprivano tutto il piede; dai lati di ogni

suola partivano due larghe strisce che si incrociavano e venivano annodate

sul dorso del piede mentre altre strisce più sottili potevano partire dal

tallone, si avvolgevano sulla caviglia per circa 15 cm. e vi venivano annodate

lasciandone pendere le estremità a volte decorate da fibbie d'avorio a

mezzaluna. I calcei portati dai senatori (calcei senatorii) erano di colore

nero, quelli delle più alte cariche civili erano rossi ed esistevano anche i

calcei ripandi (o calcei uncinati) dalla punta rialzata probabilmente di

derivazione etrusca. Nella stele funeraria del calzolaio Caio Giulio Elio,

risalente al 1° sec. a.c. esposta a Roma nel museo Montemartini,

sono scolpiti un esemplare di calceo ed uno di caliga.

In pratica i calcei erano morbidi mocassini, anche a stivaletto alto fino a

mezza gamba e stretto con dei lacci. I calcei erano molto amati dai ricchi

romani, sicuramente le calzature più care e confortevoli, ma dentro casa ogni

calzatura usata all'esterno veniva tolta, si tratti di padroni o di ospiti, per una

questione di igiene. Oppure i romani maschi, specie i militari, indossarono le

“caligae” o “caligulae”, calzatura militare con suola ferrata, che dette poi il

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soprannome all’Imperatore Caligola ed erano scarpe completamente

chiuse. I militari, fino al grado di centurione, i contadini e chiunque dovesse

percorrere lunghi tratti su terreni accidentati portavano le caligae, scarpe

dalla pesante suola senza tacco chiodata con bullette (clavi caligares) tanto

che nelle sue satire Giovenale commiserava chi avesse posto il piede sotto la

suola di un soldato. La tomaia era simile a quella dei Perones, ma senza

apertura affibbiabile, come quella di uno stivaletto moderno. Sul bordo

superiore, per aiutarsi a calzarle, erano praticate, davanti e dietro, due fessure

a mezzaluna e, poiché era fatta di cuoio molto spesso e quindi rigido, la

punta era aperta onde evitare di ferire le dita con lo sfregamento. Per

assicurare meglio queste scarpe al piede e per irrobustirle ulteriormente,

la tomaia era attraversata da una serie di corregge ed era dotata di rinforzi,

alleggeriti da fessure, nel tallone. I lati della suola erano collegati da una

striscia di pelle che passava sopra il dorso del piede; altre due strisce più

strette univano la tomaia con la suola verso la punta ed erano tenute

distanziate da una striscia trasversale posta all'altezza dell' apertura sulla

punta stessa.

Il campagus, che poco si differenziava dalla “Caliga”, era la calzatura

ordinaria dell’Imperatore.

Le donne spesso portavano una specie di ciabatta infradito, simile alla

krepis greca, di cuoio, oppure di palma e pure colorate.

All’epoca del tardo impero le matrone adottarono dei sandali dorati o degli

stivaletti al polpaccio, in cuoio allacciato.

Oppure portavano, sia donne che uomini, le crepidulae, antica calzatura

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greca o romana, con suola molto alta, allacciata al collo del piede mediante

strisce di cuoio (corregge), che erano adottate dalle classi agiate con strisce

che coprivano interamente il piede fino alla caviglia e che a seconda della

ricchezza e dell’elevazione del rango, potevano essere più o meno decorate,

fino addirittura ad avere le suole in oro o argento. Portavano anche calzari

simili a scarpe basse, ma senza tacco.

In occasione di cerimonie i patrizi indossavano i mullei, ovvero calcei di

colore rosso dalla suola molto spessa in modo da innalzare la statura di chi li

calzava come testimoniano Plinio e Svetonio. Una statua di Settimio Severo

(146 - 211 d.c.) proveniente da Alessandria ed esposta al British Museum di

Londra mostra un paio di mullei caratterizzati dalla mancanza delle strisce di

pelle che, dai lati della suola, si incrociavano sul dorso del piede per poi

avvolgersi intorno alla caviglia ed esservi annodate.

Sia i calcei che i mullei erano scarpe costose, complicate, difficili da

indossare e scomode, per cui, nella vita di tutti i giorni, si portavano sandali

con le suole fissate ai piedi con svariati sistemi basati su cinghie di pelle.

Dopo la conquista della Gallia nell’Impero Romano andarono molto di moda

le scarpe “gallicae”, i sandali dei Galli, per gli uomini,con la suola di legno,

allacciati sul davanti. Un altro tipo di sandali erano le urinae, in pelle bovina

schiarita, per sole donne. I popolani ed i contadini, uomini e donne,

indossavano altri tipi di calzature; i più usati erano i perones, scarpe dalla

suola senza tacco con una tomaia in pelle alta alla caviglia allacciata sul

dorso del piede con fibbie o stringhe e che potevano essere indossate sul

piede nudo o interponendo una specie di calza in feltro. Praticamente

semplicissime calzature fatte con un taglio di cuoio grasso fermato attorno al

piede che potevano essere portate a piede nudo o con una specie di calzino

di feltro. Schiavi e proletari, uomini e donne, portavano zoccoli di legno, le

sculponea, di pelle e pelo di pecora non colorata.

I campagnoli potevano avere anche gli adonei, ancora più semplici e poveri,

suole rettangolari con lunghe cinghie di cuoio che le assicuravano ai

polpacci protetti da pezze di lana o di feltro.

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Pelli e cuoio nell’antica Roma

L’abbigliamento

L’abbigliamento in pelle era piuttosto comune nella Roma primitiva. Nella

Roma repubblicana e poi imperiale i vestiti erano principalmente di lana e di

lino. Vestirsi di pelle, salvo nei casi di pellicce esotiche, era considerato un

segno di barbarie. Infatti i Romani descrivevano i popoli contro cui

combattevano in base alle pelli e/o pellicce che indossavano

Parlare di una persona come appartenente ad una famiglia i cui antenati

indossavano pelli di animali dava un connotato negativo.

Durante l’Impero, l’abbigliamento in pelle rimase una prerogativa delle

popolazioni del Nord. Talvolta, qualche capo entrava nel guardaroba di un

romano, o per proteggersi dal freddo oppure perché si trattava di servi che

lavoravano all’esterno o certi artigiani. Era invece in pelle il cingulum che

serviva a modellare la stola, liscio o decorato con borchie od ornamenti in

metallo, o pietre dure, in genere si usava doppio, cioè con due giri incrociava

sui seni mettendoli in evidenza e poi intorno alla vita. L’uso della cintura era

basilare, tanto che solo malfattori e prostitute non ne usavano (cioè discinti),

mentre ne era dispensata la donna gravida (incinta appunto), che però

ricorreva ad una striscia di tessuto sotto il seno. Questa della vita alta fu

anche’essa una moda, tanto che la vita alta denotò in certe epoche moderne

il cosiddetto stile impero, di ispirazione romana.

I guanti

I guanti fanno la loro prima comparsa sulla scena biblica. Isacco è vecchio e

cieco, sentendo avvicinarsi la morte, chiama Esaù, il figlio primogenito e

preferito, per dargli la sua benedizione e con essa l’investitura di

capofamiglia. Lo prega di andare a caccia e di preparare con la selvaggina

catturata un pasto come piace a lui.

A Rebecca, sua moglie, non sfugge questa importante conversazione.

Decide in un lampo che sarà Giacobbe, il suo prediletto, a ricevere la

benedizione paterna. Cucina a dovere due capretti, veste Giacobbe con gli

abiti di Esaù e lo convince a presentarsi al padre invece del fratello. Ma

Giacobbe protesta che saranno le sue mani glabre a tradirlo. Esaù infatti è

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molto peloso e al tatto il padre scoprirà l’inganno. Ma Rebecca non si perde

d’animo e“con le pelli dei capretti gli ravvolge le mani”. Guanti, dunque, di

pelle di capretto, materiale intamontabile, anche se un po’ rudimentale.

Isacco ci casca: prende le mani del figlio tra le sue per sincerarsi della sua

identità e “non lo riconosce, perché le mani di lui sono pelose come quelle

del fratello maggiore”. Quindi lo benedice e a Esaù non resta che piangere.

Ma questa dei guanti non è solo un’idea di Rebecca. In Egitto essi hanno

enorme prestigio. Vengono offerti ai Faraoni dalle popolazioni vassalle come

tributo quando salgono al trono e rivestono le mani regali al momento della

morte. Sono lunghi e preziosamente ricamati. Guerrieri e lottatori in tutto

l’Oriente portano grossi guanti di cuoio a sostegno delle loro battaglie. Sono

indumenti dignitosamente virili e assai funzionali, comunque sporadici. I

persiani invece, al tempo di Ciro, vuoi per i rigori del clima, vuoi per una

particolare propensione all’eleganza, ne fanno un uso più comune,

impreziosendoli on decorazioni di diversa pelle. E’ questo che indigna lo

strorico greco Senofonte, che non fa mistero del suo disprezzo:

“Portano alle estremità delle mani certi covrimenti pelosi e fatti alla misura

delle dita”. Inamissibili mollezze! Ricerca di piacere estetico “degni della

femminile debolezza!”. E i greci in generale sono d’accordo, preferiscono la

mano nuda e mostrano per i guanti un interesse molto marginale.

Anche i re, quando si dedicano a lavori di giardinaggio li portano: così Laerte

e perfino Ulisse, che era ricoperto di una

Tunica sozza, ricucita e turpe.

Dalle punture degli acuti rovi

le gambe difendeva gli schinieri

di rattoppato cuoio e le man guanti.

Li chiamano cheifìdes e sembra si tratti di mezzi guanti, quelli che poi si

chiameranno alla francese mitaines. I guanti propriamente detti sono invece

i chirìdes dactulôtai ma non hanno, come abbiamo detto, fortuna.

Neppure i romani si fanno sedurre da questa usanzm che rimane sempre un

costume barbaro, come le brache, del resto. Chi li porta, e sono casi isolati,

veste “alla maniera dei Galli” I guanti, dai romani, sono addirittura fatti a pezzi:

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Pelli e cuoio nell’antica Roma

chi raccoglie le olive mette una specie di ditale di cuoio sul pollice; su tutte

le dita li portano invece i commensali dei banchetti patrizi.

Il vero ingresso del guanto come indumento segue la scie delle invasioni

barbariche. Nelle fredde contrade del Nord è in uso da sempre, da quando

l’uomo ha pensato di proteggersi con pelli di animali. All’inizio si tratta

probabilmente di sacchetti di pelle dura in cui riparare mani, poi le pelli si

affinano e si stacca il pollice, fino a raggiungere la forma a cinque dita.

Quando si scontrano i romani, i galli ne fanno già uso di rappresentanza in

occasione di feste solenni.

Equipaggiamento

In pelle e cuoio venivano realizzati tutti i finimenti per gli animali da lavoro e

da guerra, così come l’equipaggiamento militare . Anche certi tipi di

imbarcazione venivano realizzate con il cuoio, ed erano particolarmente

efficaci. Innanzitutto erano realizzabili con un’economia di costi e di tempo.

In genere erano di piccola taglia, ma molto più resistenti di quelle di legno:

la loro flessibilità permetteva di navigare anche su mari ricoperti di ghiaccio

e con la loro leggerezza erano facilmente trasportabili sia sulla terra ferma

che sulla banchisa.

Arredamento

Durante il periodo dell’impero, le pellicce venivano comunemente usate per

l’arredo. In tutti i luoghi, anche i più poveri, le pelli di capretto o di agnello si

utilizzavano come tappeti o come copriletti.

Nelle case patrizie si utilizzavano pelle di bestie selvaggie, di orsi e di lupo,

ma anche di giraffe e tigri.

Spesso il cuoio veniva utilizzato per bordare le stuoie, realizzate in fibra

vegetale. Alcune stuoie di questo tipo sono state ritrovate in alcune zone

aride in un ottimo stato di conservazione.

Altri oggetti

Il cuoio veniva anche utilizzato per contenitori destinati al trasporto, alla

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conservazione o alla trasformazione dei liquidi. L’uso di questo tipo di

contenitori in pelle risale certamente agli albori della storia dell’umanità.

Sono presenti in Mesopotania ed in Egitto, frequentemente rappresentati

nei bassorilievi assiri, più volte citati da Erodoto. In Grecia i produttori di otri

facevano parte della nobiltà. Venivano prodotti anche per conservare il

burro, come sorta di bombole per i sommozzatori e galleggianti per zattere.

Gli otri autorizzati per il trasporto e la conservazione dei liquidi erano di

tagli differenti, dalle borracce in pelle di montone di capra fino a quelli fatti

con pelli intere di bovini e trasportati su carretti. Gli otri servivano a

trasportare acqua, olio e vino. Successivamente vennero sostituite dalle

anfore, più costose, ma che potevano essere accatastate.

Medicina e magia.

Alle pelli e alle pellicce gli antichi attribuivano, tra l’altro, virtù magiche o

curative. La pelle di capra, ad esempio, decotta, bollita con il pelo, veniva

utilizzata per fermare la diarrea.

Si curavano le lesioni provocate dalle calzature applicando un miscuglio di

cenere di pelle di capra e olio. La testa tagliata di una lucertola infilata in una

piccola borsa sempre di pelle di capra era un antidoto contro la febbre.

Le pelli di cervo servivano per certi rimedi magici o contro gli attacchi dei

serpenti, quelle di capriolo per la realizzazione di amuleti contro l’epilessia.

Alle pelli di certi animali selvaggi si attribuiva il potere di rendere più potenti

i guerrieri. La pelle di lupo combatteva i malefici ed i dolori di denti.

Con le pelli di castoro si realizzavano calzature che curavano la gotta e le

malattie articolari. Anche le pelli di foca calmavano la gotta e proteggevano

dai fulmini. E’ la ragione per cui le vele delle navi venivano bordate di pelle

di foca. Qualche volta anche di jena.

A queste ultime venivano attribuite altre virtù. In una pelle di jena si

conservavano le sementi e ciò garantiva un raccolto più abbondante. In altre

occasioni, una zampa di camaleonte e un pezzo di pelle di jena preveniva i

furti e scacciava gli incubi notturni.

Le pelli di jena, di coccodrillo o di foca proteggevano dalla grandine.

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