pensieri viandanti 2008. l'etica del camminare

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Eraldo Affinati, scrittore e giornalista, insegna italiano ai minorenni non accompagnati della Città dei Ragazzi. Marco Aime insegna Antropologia culturale al- l’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa occidentale. Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia della storia presso l’Università di Parma, dirige la rivi- sta «La Società degli individui». Erri De Luca, scrittore, alpinista, collabora a di- versi giornali, scrive anche sulla montagna. Rita Messori è docente di Estetica al Diparti- mento di Filosofia dell’Università di Parma. Massimo Quaini, geografo umanista e storico della cartografia nell’Ateneo genovese, è consu- lente per la pianificazione territoriale. Davide Sapienza è scrittore, traduttore, gior- nalista e viaggiatore. Giuliano Scabia è drammaturgo e romanziere, dal 1973 è docente di drammaturgia al DAMS di Bologna. Italo Testa, saggista e poeta, è docente di Storia della filosofia politica all’Università di Parma. Il camminare non è solo un’attività fisica dalla valenza ricreativa ed estetica. Il vian- dante è animato pure da una tensione etica. Misurando il mondo con i suoi passi, chi cam- mina si inscrive nella dimora terrestre e dise- gna lo spazio dell’incontro con l’altro. Intraprendere un cammino significa anche ri- percorrere i passi delle generazioni passate e così stringere un’alleanza, un patto di soli- darietà che attraversa il tempo. E talvolta l’etica del camminare può essere scandita dal passo del testimone, di chi, prendendo la via, intende misurare i limiti della condizione umana, facendone esperienza nel proprio corpo e avviandosi verso l’estremo. Muoven- dosi in questa scia, la seconda edizione di Pensieri viandanti coinvolge scrittori, poeti, filosofi, antropologi, geografi, prestando particolare interesse al modo in cui la lette- ratura e la filosofia, dando conto dell’espe- rienza del cammino, possono esprimere un diverso rapporto etico con il mondo. Nascendo dal seminario Pensieri viandanti. L’etica del camminare e lo sguardo del te- stimone, Berceto, 13-14 giugno 2008, che si è snodato variamente attraverso viaggi di avvicinamento in treno, conferenze, cam- minate, lezioni all’aperto e passeggiate fi- losofiche, questo libro intende mantenerne il carattere aperto e dinamico, offrendosi come vademecum per camminatori e viag- giatori consapevoli. CAMMINANDO. QUADERNI DI PENSIERI VIANDANTI È per avere visioni che andiamo. Se vedere possiamo dove il sentiero finisce, o comincia, lontano. Giuliano Scabia Il deserto comincia qui, dove sono adesso. D’istinto mi dirigo verso le dune. La marcia del condottiero intrecciata con quella del- l’esploratore. Un’azione cognitiva e un gesto politico, impossibili da dividere, un nucleo potente che nemmeno il cristianesimo seppe intaccare e ancora oggi guida, maestoso e solenne come un barrocciaio d’antico lignaggio, la nostra percezione del mondo. Eraldo Affinati Per me il viaggio comincia quando si va a piedi. Il volo aereo, il treno, la nave non sono ancora viaggio, ma spostamenti del corpo dentro un imballaggio. Viaggio è quando partono i piedi all’aria aperta. Viaggio è il cammino del pellegrino verso il suo santuario. Viaggio è la migrazione di miriadi di esseri umani da un continente all’altro in cerca di uno scampo o di migliore sorte. A piedi ci si inoltra nel paesaggio altrui alla lentezza giusta. Erri De Luca 10,00 PENSIERI VIANDANTI L’ETICA DEL CAMMINARE DIABASIS 2008 A cura di Italo Testa L’ETICA DEL CAMMINARE A cura di Italo Testa DIABASIS pensieri_8mm:Layout 1 15-04-2009 9:47 Pagina 1

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Il secondo libro nato da un festival unico, creato dalla Provincia di Parma. Pensieri Viandanti raccoglie appunti, narrazioni, riflessioni, filosofie. Testi di: Erri De Luca Marco Aime Giuliano Scabia Massimo Quaini Eraldo Affinati Ferruccio Andolfi Davide Sapienza

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Page 1: Pensieri viandanti 2008. L'etica del camminare

Eraldo Affinati, scrittore e giornalista, insegnaitaliano ai minorenni non accompagnati dellaCittà dei Ragazzi.

Marco Aime insegna Antropologia culturale al-l’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulleAlpi e in Africa occidentale.

Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia dellastoria presso l’Università di Parma, dirige la rivi-sta «La Società degli individui».

Erri De Luca, scrittore, alpinista, collabora a di-versi giornali, scrive anche sulla montagna.

Rita Messori è docente di Estetica al Diparti-mento di Filosofia dell’Università di Parma.

Massimo Quaini, geografo umanista e storicodella cartografia nell’Ateneo genovese, è consu-lente per la pianificazione territoriale.

Davide Sapienza è scrittore, traduttore, gior-nalista e viaggiatore.

Giuliano Scabia è drammaturgo e romanziere,dal 1973 è docente di drammaturgia al DAMS diBologna.

Italo Testa, saggista e poeta, è docente di Storiadella filosofia politica all’Università di Parma.

Il camminare non è solo un’attività fisicadalla valenza ricreativa ed estetica. Il vian-dante è animato pure da una tensione etica.Misurando il mondo con i suoi passi, chi cam-mina si inscrive nella dimora terrestre e dise-gna lo spazio dell’incontro con l’altro.Intraprendere un cammino significa anche ri-percorrere i passi delle generazioni passatee così stringere un’alleanza, un patto di soli-darietà che attraversa il tempo. E talvoltal’etica del camminare può essere scandita dalpasso del testimone, di chi, prendendo la via,intende misurare i limiti della condizioneumana, facendone esperienza nel propriocorpo e avviandosi verso l’estremo. Muoven-dosi in questa scia, la seconda edizione diPensieri viandanti coinvolge scrittori, poeti,filosofi, antropologi, geografi, prestandoparticolare interesse al modo in cui la lette-ratura e la filosofia, dando conto dell’espe-rienza del cammino, possono esprimere undiverso rapporto etico con il mondo.

Nascendo dal seminario Pensieri viandanti.L’etica del camminare e lo sguardo del te-stimone, Berceto, 13-14 giugno 2008, che siè snodato variamente attraverso viaggi diavvicinamento in treno, conferenze, cam-minate, lezioni all’aperto e passeggiate fi-losofiche, questo libro intende mantenerneil carattere aperto e dinamico, offrendosicome vademecum per camminatori e viag-giatori consapevoli.

CAMMINANDO. QUADERNI DI PENSIERI VIANDANTI

È per avere visioniche andiamo. Se vederepossiamo dove il sentierofinisce, o comincia, lontano.

Giuliano Scabia

Il deserto comincia qui, dove sono adesso. D’istinto mi dirigo versole dune. La marcia del condottiero intrecciata con quella del-l’esploratore. Un’azione cognitiva e un gesto politico, impossibilida dividere, un nucleo potente che nemmeno il cristianesimoseppe intaccare e ancora oggi guida, maestoso e solenne comeun barrocciaio d’antico lignaggio, la nostra percezione del mondo.

Eraldo Affinati

Per me il viaggio comincia quando si va a piedi. Il volo aereo, iltreno, la nave non sono ancora viaggio, ma spostamenti delcorpo dentro un imballaggio. Viaggio è quando partono i piediall’aria aperta. Viaggio è il cammino del pellegrino verso il suosantuario. Viaggio è la migrazione di miriadi di esseri umani daun continente all’altro in cerca di uno scampo o di migliore sorte.A piedi ci si inoltra nel paesaggio altrui alla lentezza giusta.

Erri De Luca

€ 10,00

PENSIERI VIANDANTIL’ETICA DEL CAMMINARE

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2008

A cura di Italo Testa

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Con la collaborazione redazionale

di Sara Piovani

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

IllustrazioniRiccardo Fattori

ISBN 978-88-8103-616-5

© 2009 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

[email protected] www.diabasis.it

La pubblicazione è stata realizzata dalla Provincia di Parmacon il sostegno della Fondazione Cariparma

in collaborazione con l’Università degli Studi di Parma

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DIABA S I S

Pensieri viandantiII

L’etica del camminare2008

Con interventi di

Eraldo Affinati, Erri De Luca, Giuliano Scabia, Ferruccio Andolfi, Rita Messori, Marco Aime, Massimo Quaini, Davide Sapienza

A cura di Italo Testa

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Presentazione, Vincenzo Bernazzoli

Introduzione, Italo Testa

I. SGUARDI

Il deserto, Eraldo Affinati

Le stelle tra i piedi, Erri De Luca

Canto del guardare lontano, Giuliano Scabia

II. PASSI

La passeggiata del filosofo, Ferruccio Andolfi

L’identità in cammino, Rita Messori

III. VIAGGI

Sguardi incrociati, Marco Aime

Viaggio-turismo-paesaggio, Massimo Quaini

Il futuro della natura, Davide Sapienza

Gli autori

Pensieri viandanti IIL’etica del camminare

A cura di Italo Testa

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Per il secondo anno consecutivo appassionati da tutta Italia,insieme a scrittori, filosofi, sociologi e geografi, si sono dati ap-puntamento sull’Appennino parmense a PassoParola, il primo fe-stival nazionale del camminare.

Ideato dalla Provincia di Parma, PassoParola è nato per ren-dere omaggio alla cultura del cammino, per celebrarla ed esplo-rarla in tutti i suoi risvolti. Un modo per promuovere un ap-proccio diverso alla realtà che ci circonda, più rispettoso e piùempatico, perché camminando ci muoviamo, andiamo, viaggia-mo senza imporre i nostri tempi e i nostri spazi, ma al contrarioriscoprendo quelli dettati dalla natura. Un approccio diverso an-che verso noi stessi, quindi, perché chi è camminatore sa chenon c’è niente di più vicino al camminare del pensare. Per que-sto il festival non poteva non prevedere un momento di appro-fondimento, il seminario di studi Pensieri viandanti, che alla suaseconda edizione ha indagato il modo in cui la letteratura, dan-do conto dell’esperienza del cammino, può dare forma a un’eti-ca della testimonianza. Questo volume raccoglie gli interventidi coloro che vi hanno partecipato, studiosi e pensatori di fama,a cui va il nostro ringraziamento per aver voluto condividere connoi una parte del loro cammino.

Vincenzo BernazzoliPresidente della Provincia di Parma

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IntroduzioneSino alla fine dello sguardoItalo Testa

Il camminare non è solo un’attività fisica dalla valenza ricrea-tiva ed estetica. Il viandante è animato pure da una tensione etica.Misurando il mondo con i suoi passi, chi cammina si inscrive nel-la dimora terrestre e disegna lo spazio dell’incontro con l’altro.Intraprendere un cammino significa anche ripercorrere i passidelle generazioni passate e così stringere un’alleanza, un patto disolidarietà che attraversa il tempo. E talvolta l’etica del cammi-nare può essere scandita dal passo del testimone, di chi, pren-dendo la via, intende misurare i limiti della condizione umana, fa-cendone esperienza nel proprio corpo e avviandosi verso l’estre-mo. Muovendosi in questa scia, la seconda edizione di Pensieri

viandanti coinvolge scrittori, poeti, filosofi, antropologi, geografi,prestando particolare interesse al modo in cui la letteratura e lafilosofia, dando conto dell’esperienza del cammino, possonoesprimere un diverso rapporto etico con il mondo.

Nascendo da un seminario (Pensieri viandanti. L’etica del cam-

minare e lo sguardo del testimone, Berceto, 13-14 giugno 2008), che siè snodato variamente attraverso viaggi di avvicinamento in tre-no, conferenze, camminate, lezioni all’aperto e passeggiate filo-sofiche, questo libro intende mantenere il carattere aperto e di-namico, offrendosi come un vademecum per i camminatori e iviaggiatori consapevoli.

In Sguardi, la sezione che apre la raccolta, protagonista è la nar-razione e la figurazione poetica del camminare. Eraldo Affinati eErri de Luca ci accompagnano nei deserti dell’Africa o nei per-corsi di avvicinamento alle vette himalaiane; il viaggio fantasticodel cavallo e del cavaliere di Giuliano Scabia illustrato da Riccardo

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Fattori ci porta al passo di Pradarena, tra monti appennini favo-losi. È qui un’etica dello sguardo a prendere forma, ove il viaggio, nel-la materialità nuda del contatto fisico con i luoghi, si rivela un’a-zione cognitiva che affina le nostre facoltà percettive, la nostrasensibilità, la nostra capacità di visione all’indietro, verso il passa-to di cui ci facciamo carico attraversando gli spazi, e in avanti,aprendoci ad una lontananza ignota, tragica e meravigliosa, perché

È per avere visioniche andiamo. Se vederepossiamo dove il sentierfinisce o comincia, lontano.

Nella sezione Passi la passeggiata filosofica e l’erranza, con lemeditazioni di Ferruccio Andolfi e Rita Messori, diventano l’oc-casione per ridefinire un’etica del sé, per riappropriarsi della propriaindividualità in forme che ne rivendichino l’eccedenza, l’inopero-sità, l’irriducibilità agli input della produzione sociale, senza pe-raltro cedere alle sirene dell’origine, originaria, ma lasciandosi piut-tosto istruire dalla metafora del cammino nel ripensare il caratte-re itinerrante di un’identità che voglia essere percorso incessante.

Nella sezione Viaggi sono invece le forme contemporanee delviaggio turistico e del rapporto con la natura ad essere indagate cri-ticamente da Marco Aime, Massimo Quaini e Davide Sapienza nel-la prospettiva consapevole e avvertita dei camminatori, dei grandiviaggiatori, e alla luce di una possibile etica dell’incontro. Esplorare iltriangolo viaggio, turismo, paesaggio, per come esso si definiscenella storia del viaggiare e nelle sue forme attuali, permette di indi-viduare lo snodo in cui l’incontro con l’estraneo, che si manifesta,pur paradossalmente, anche nelle forme più mercificate di turismo,può trasformarsi in relazione etica con l’altro: un altro che non èsolo l’essere umano che di volta in volta incontriamo senza essercapaci di stabilire un vero rapporto, ma pure l’altro della natura,questo impensato cui le grandi sfide del nostro tempo ci chiedono

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di iniziare a guardare con una nuova responsabilità, per un’urgen-za di estendere il patto etico al di là della nostra specie.

A queste e ad altre esplorazioni è dedicato Pensieri viandanti.Tracciati per cui di volta in volta il camminare si rivela pratica diuna scrittura dell’esperienza, incursione poetica e vagante nellarealtà, liberazione dalla boria dei dotti, dimenticanza di sé, rifigu-razione etica del nostro rapporto con ciò che ci viene incontro.

Non è il caso di anticipare tutti i percorsi possibili, le moltepiste che saranno seguite in questo volume, anche perché vale lapena di ripetere che nel camminare, come nel pensare, ciò che piùvale è il camminare stesso, e gli incontri più importanti sono pro-prio quelli che vanno oltre la nostra capacità di previsione, por-tando alla luce un impensato che può cambiare il nostro mododi stare e di andare, di guardare e accogliere l’esperienza mutevo-le del mondo. Perché noi siamo forse sempre come la “gente inattesa” di cui ci dice il cavaliere, cantando

Chi è il conforto? Chi è l’andare?O gente in attesa: lontanoarriva il guardare: ma noisino alla fine dello sguardosapremo un giorno arrivare?

In conclusione desidero ringraziare coloro che hanno resopossibile tale iniziativa. La Provincia di Parma, senza il cui soste-gno nulla di tutto ciò avrebbe potuto realizzarsi. Il Dipartimentodi filosofia, che ha patrocinato il seminario. Gli autori, che hannodato vita all’incontro, affrontandolo con disponibilità intellet-tuale e spirito d’avventura. Sara Piovani, che ha coordinato legiornate del seminario e collaborato all’ideazione e alla progetta-zione dell’evento. E naturalmente i camminatori, gli studenti e glistudiosi che si sono iscritti a Pensieri viandanti e vi hanno preso par-te con entusiasmo, convenendo a Berceto da tanti luoghi diversi.

Castell’Arquato, 15 marzo 2009

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Le stelle tra i piediErri De Luca

Per me il viaggio comincia quando si va a piedi. Il volo aereo,il treno, la nave non sono ancora viaggio, ma spostamenti del cor-po dentro un imballaggio. Viaggio è quando partono i piedi al-l’aria aperta.

Viaggio è il cammino del pellegrino verso il suo santuario.Viaggio è la migrazione di miriadi di esseri umani da un conti-nente all’altro in cerca di una scampo o di migliore sorte. A piedici si inoltra nel paesaggio altrui alla lentezza giusta. E conta ancheil valore della stanchezza per gustare un cibo locale, un sorrisodel posto. Sono stato in Nepal, casa delle più alte cime della ter-ra. Per un alpinista è una visita dovuta alle montagne leggendarie.Il lungo volo aereo è stata premessa, non il viaggio. Quello co-mincia dove le strade smettono e iniziano i sentieri. Lukla ha unpiccolo aeroporto con una pista corta e in salita. Il bimotore nonpressurizzato ci arriva passando in un corridoio di montagne eper atterrare, anziché scendere, sale. Si atterra dal basso in alto, èun buon avviso di una terra ripida e senza ruote. Da lì in poi nonesistono auto, moto, bici. Da Lukla in poi contano solo i piedi.Da lì si va nella valle del Kumbu, residenza delle cime giganti delpianeta. Prima di vederle ci vogliono giorni di cammino e di cam-bio di quota. Il sentiero è uno solo, traversa villaggi e perde ossi-geno, sale e fa lentamente scomparire il colore verde.

Per arrivare a quelle montagne è giusto andare a piedi, non so-lo per adattare il corpo alla quota, ma per rispetto della loro gran-dezza. A piedi è chiedere permesso. Per ora è tecnicamente im-possibile, ma presto si potrà arrivare in cima all’Everest con l’eli-

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cottero. Salteranno lassù evitando i crepacci, il vento, i corpi con-gelati di quelli che non sono riusciti a tornare e stanno ancora lì.Il progresso contiene sfizi impensabili a quelli venuti prima. Ame fa piacere, ma preferisco avvicinarmi a piedi alle montagne. Ilrespiro si abitua ai loro gradini, il sangue si ispessisce, il sonno èpiù leggero, il corpo brucia le sue riserve per compensazione.

Ho percorso il sentiero che da Lukla porta ai campi basedell’Everest e del Lhotse, sapendo che su quei centimetri di lar-ghezza erano passati i più grandi alpinisti della storia, in fondorecente, dell’alpinismo. Uomini e donne carichi di rischi affron-tati e di esperienze si sono spostati con ogni mezzo per essere fi-nalmente lì, a piedi, con lo zaino. Per alcuni di loro non era desti-no il ritorno. Andavano a raggiungere le più ostili condizioni dinatura, a tentare una linea di salita tra tempeste e valanghe pertoccare un cocuzzolo a quota di aerei di linea.

Un anno fa, affacciato a un finestrino verso l’alba ho visto al-la mia altezza la sagoma imponente del Dhaulagiri (8140 m) chegli amici Nives Meroi e Romano Benet sarebbero riusciti a scala-re senza uso di bombole di ossigeno. Eravamo seduti vicino. «Lì?»ho chiesto. Nives ha sorriso, Romano ha fatto sì con la testa.Andavamo lì. Ci saremmo arrivati con otto giorni di marcia e diaccampamenti.

Una montagna la gusti da lontano. Più ti avvicini, meno la ve-di, perché ti sovrastano i suoi avancorpi. A un’isola più ti accosti,meglio la distingui. Una montagna no e quando ci sei addossonon la vedi più. Si scala su una faccia verticale e la testa può stac-carsi non più di una trentina di centimetri dalla superficie. È la vi-suale di chi sta sdraiato a pancia in giù su un campo, basta un sas-so a chiudere la vista. In parete puoi vedere bene solo quello chehai alle spalle o in basso. Nives mi ha raccontato una sua visione.Scalava di notte a lume della lampada frontale. In Himalaia spes-so ci si muove col buio, partendo prima dell’alba dalla tenda.

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Nives si trovava già sopra i settemila metri, ha guardato in bassoe le è sembrato di vedere le luci di una città. «E quelle? Da dovespuntano? Non c’è nessun centro abitato là sotto». Ci ha messoun po’ di fiato e di sbirciate per accorgersi che erano stelle, piùbasse di lei sull’orizzonte. «Stelle! Avevo sotto i piedi stelle a grap-poli». Ci sono punti di felicità in una scalata che non hanno nien-te a che vedere con la cima. Felicità improvvise: fanno scaturiredal corpo un’energia pulita in risposta alla bellezza. MarinaZvetaeva, poeta russa, ha scritto: «solo in cima all’entusiasmo l’es-sere umano vede il mondo esattamente». A Nives è arrivato quelcolpo di entusiasmo quando ha visto le stelle in mezzo ai piedi. Ela salita è stata più leggera.

Non sono speciali gli alpinisti, ma il loro ambiente sì. Nonsolo perché il vuoto fa il vuoto, e non c’è gente intorno, ma per-ché le alte quote sono un posto in cui si è di passaggio, senza di-ritto di residenza. A quelle altezze non spunta desiderio di pos-sedere, nessun istinto di proprietà dove comincia la zona dellasopravvivenza. Salgo alle montagne per approfondire la miaestraneità, ribadire che sono precario e di passaggio. Dentro que-sta evidenza fisica mi procuro felicità improvvise come quella diNives coi piedi tra le stelle.

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La passeggiata del filosofoFerruccio Andolfi

Una premessa quasi autobiografica

Il titolo volutamente ambiguo di questa conversazione itine-rante lascia indeterminato chi sia il passeggiatore. I filosofi primadi chiudersi nelle biblioteche hanno amato il movimento in spaziaperti. Socrate andava a zonzo per la città interpellando i suoi con-cittadini sulle più diverse questioni e mettendone in crisi le cer-tezze – forse un po’ troppo sicuro di sé per apprendere da loro.Epicuro raccoglieva i suoi discepoli in un giardino, mentre i peri-patetici erano detti così perché discutevano passeggiando.

Forse per noi però sono più interessanti i casi di filosofi mo-derni, come Rousseau e Nietzsche, che si abbandonano a fanta-sticherie solitarie o concepiscono aforismi in consapevole oppo-sizione ad altri stili ‘siste matici’ del filosofare e a una «passionesociale» divenuta dominante, che distoglie dalla solitudine e spin-ge gli uomini ad aggregarsi in grandi città e a deputare luoghi ap-positi (Università, biblioteche) alla ricerca.

La tentazione a cui non ho saputo però resistere nel formula-re il titolo è di propormi io stesso come filosofo passeggiatore.Quindi sovrapporrò le mie ragioni di filosofare passeggiando aquelle dei miei illustri predecessori. Forse così riusciremo anchea intravedere ragioni nuove, cioè legate a trasformazioni recenti– non esclu sivamente mie ma per così dire culturali – per ripri-stinare quella modalità piuttosto trascurata del filosofare.

Leggiamo, per cominciare, un brano di Rousseau:

Che cosa ho ancora da temere da loro ora che tutto è compiuto?Non avendo più il potere di peggiorare il mio stato non possono più in-

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cutermi timore… Da allora mi sono rassegnato senza riserva e ho ri-trovato la pace.

Dopo che mi hanno mosso a sdegno, la loro compagnia sarebbe perme insipida, persino gravosa, e io sono assai più felice nella mia solitu-dine che se vivessi con loro.

Solo per il resto della vita, poiché non trovo consolazione, speran-za e pace che in me, non devo né voglio occuparmi d’altri che di me.Dedichiamoci interamente alla dolcezza di conversare con la mia anima,giacché è la sola cosa che gli uomini non possono togliermi.

Io scrivo le mie Fantasticherie soltanto per me… La loro lettura miricorderà la dolcezza che provo a scriverle… A dispetto degli uomini,saprò gustare ancora la gioia della società, e vivrò decrepito con me inun’altra età come se vivessi con un amico meno vecchio1.

L’impulso a passeggiare fantasticando qui è dato da una co-cente delusione per quanto concerne i rapporti sociali e il rico-noscimento atteso e negato. Questo induce a un elogio della so-litudine e a chiudersi in un’autoanalisi. La pace conclamata è an-cora piena di rancore. L’unica socialità che si riesce a immaginareè quella di sé con sé nel ricordo.

Il brano suggerisce che ci si rifugia nella campagna e nella vi-ta solitaria per sfuggire alla infelicità, o come Rousseau aggiungecon accenti un po’ paranoici, alla persecuzione degli uomini.Anche a me accade di cercare il rifugio in campagna – per me l’al-topiano di Leonessa, nell’alta Sabina, dove possiedo una casa –in uno scenario familiare e, almeno in alcune stagioni, ristorato-re per la purezza e la limpidità dell’aria, quando voglio sfuggire atensioni troppo lungamente accumulatesi di varia origine. L’arenapolitica non suscita grossi entusiasmi, i luoghi di lavoro sonocompetitivi, le relazioni private difficili. Vivere per un tratto – nonriuscirei a staccarmi dalla città troppo a lungo e non solo per im-pegni e obblighi – a contatto con paesaggi rasserenanti è un far-

macon. Che non agisce però da solo ma crea semplicemente lecondizioni perché i problemi privati e relazionali da cui si è assil-lati possano essere reinquadrati con maggiore serenità e un giu-

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sto distanziamento. Non di rado da queste meditazioni non deri-vano soltanto soluzioni private a propri problemi (una migliorearte di vivere) ma anche approfondimenti teorici che a partire daesperienze limitate e di corto raggio si aprono verso visioni delmondo complessive.

Mondo selvaggio e sentirsi a casa

L’esperienza di camminare tra i prati e tra i boschi può esserecompiuta sulla base di motivazioni diverse e persino opposte.Tutte legittime, corrispondenti di volta in volta a bisogni pro-fondi della nostra vita, in una certa sua stagione. Possiamo volerstimolare il nostro sentimento vitale con l’euforia che deriva dal-la scoperta dell’ignoto oppure coltivare un più quieto sentimen-to del ritorno a casa tra paesaggi familiari e più contenuti.L’avventuroso Thoreau ci ha lasciato una bella descrizione delprimo di questi stati d’animo in Walking (1851):

Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera,accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del camminonon facciamo che ritornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anchesul percorso più breve, con imperituro spirito d’avventura, come se nondovessimo mai far ritorno.

L’Ovest di cui parlo è solo un altro modo di definire la natura sel-vaggia; e […] dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mon-do. […] La vita è stato selvaggio. Quel che è più vivo è più selvaggio, equel che non è ancora soggetto all’uomo, lo rinvigorisce. […] La miaesistenza dipende in gran parte dalle paludi che circondano la città, enon dai giardini ben coltivati nel villaggio. […] Il mio stato d’animo in-fallibilmente si innalza in misura proporzionale all’essenzialità del pae-saggio. Datemi l’oceano, il deserto, la natura incontaminata!2

In qualche rara occasione, in viaggi lontani della mia giovi-nezza o prima maturità ho sperimentato qualcosa del genere. Main generale la natura che mi è cara è più mite e accogliente. Nonsono alla ricerca dello «stato selvaggio», di quell’assoluta libertà

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che Thoreau cercava nella natura in opposizione alla cultura e al-la società. Mi manca lo spirito del camminatore e dell’esplorato-re che non sa se tornerà sui suoi passi. Forse anche perché so chequeste peregrinazioni infinite, che a metà Ottocento negli spazi il-limitati e poco popolati dell’Ovest americano era ancora possi-bile concepire, si vanno riducendo e sono prossime a diventare leproposte più esclusive delle agenzie di viaggio. Thoreau potevaancora vagabondare venti e più miglia senza incontrare alcunaabitazione e rallegrarsi per quanto poco spazio occupassero nelpaesaggio l’uomo coi suoi traffici, e spregiare i giardini coltivatifacendo dipendere la sua vita dalle «paludi che circondano la cit-tà», ma vedeva già con preoccupazione i recinti (le staccionate)invadere i luoghi fino ad allora occupati dai boschi. Ce la senti-remmo ancora di dire che «la sopravvivenza del mondo dipendedalla natura selvaggia»? Saremmo già paghi di avere città attor-niate e invase da spazi verdi.

I sentimenti sublimi, l’elevazione dell’animo trovano sempremeno appigli nella essenzialità del paesaggio. E se dovessimo fardipendere la nostra salute dai grandi spazi che ci circondano, sa-remmo tutti irrimediabilmente malati. Ci sono temperamenti in-clini alla solitudine ed altri più socievoli, ciascuno organizza unproprio equilibrio tra questi momenti, ma certo perdersi into the

wild è diventata un’impresa vana. Si tratta allora di capire qualifunzioni assolveva il vagabondaggio nella natura incontaminatae se nelle nuove condizioni di civiltà è possibile ancora trovarequalche forma di refrigerio e di stimolo vitale in quella immer-sione attiva nella natura, che suppone uno sforzo preliminare perraggiungerla prima ancora di poterne godere.

La natura è un luogo di bellezza e possiamo ben dire che il pri-mo movente che ci spinge a cercarla è la soddisfazione del nostrosenso estetico. Anche qui è difficile prescindere dalla quantità dibrutture del nostro mondo artificiale. Ogni volta che torniamo in

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un luogo che ci è caro troviamo che l’inquinamento visivo è cre-sciuto: non solo si è modificato il rapporto tra spazi costruiti e no,ma soprattutto le costruzioni non sono concepite in armonia conl’ambiente che le contiene. Dove questa armonizzazione si realiz-za, pensate alla strada che stiamo calpestando, non c’è nulla darimpiangere. Ma è un fatto raro, per lo più siamo costretti a riti-rarci altrove, più lontano, e un senso di impotenza ci impedisce dibatterci per evitare che si producano questi peccati estetici. Unaparte sempre più significativa dell’agire politico è destinata in fu-turo a passare di qui. C’è un paradosso dunque: si richiede un im-pegno attivo per proteggere la natura dalle violazioni a cui è sog-getta e consentirle così di consolarci dal le infelicità che proven-gono dal mondo civile e dalla nostra partecipazione ad esso.

La fuga dal mondo dei dotti

Il cammino nel libero spazio della natura, acquista per un fi-losofo, ma presumo per chiunque nella misura in cui partecipadella sua condizione, un valore liberatorio in un senso particola-re. Rappresenta una fuga dal gravame della cultura, di cui per al-tro verso egli non può fare a meno. Un filosofo camminatore par-ticolarmente critico rispetto alle ristrettezze del mondo dei dottiè stato Nietzsche, che nello Zarathustra rimpiange di esser statoseduto troppo a lungo alla loro mensa.

Mentre giacevo nel sonno, una pecora trovò di che pascersi alla co-rona d’edera che mi cinge il capo, ne mangiò, e disse: «ecco, Zarathustranon è più un dotto».

Giacché questa è la verità: io sono uscito dalla casa dei dotti: e pergiunta ho sbattuto la porta alle mie spalle.

Troppo a lungo la mia anima sedette affamata alla loro mensa; ionon sono addestrato alla conoscenza al pari di loro, per cui conoscere ècome schiacciare le noci.

Io amo la libertà e l’aria sulla terra fresca; preferisco dormire sullevostre pelli di bue, che sulle vostre dignità e rispettabilità.

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Io sono troppo ardente e riarso dai miei stessi pensieri: spesso mi simozza il fiato. E allora bisogna che fugga all’aperto, via dal chiuso del-le stanze polverose.

Loro invece siedono freddi nell’ombra fredda… aspettano e guar-dano a bocca spalancata pensieri, che altri hanno pensato.

Se fanno i saggi, le loro piccole sentenze e verità mi raggelano:spesso alla loro saggezza è mischiato un odore, che sembra venga dal-la palude.

Abili e con dita versatili: che mai può la mia semplicità a petto dellaloro complicatezza! Quelle dita sanno infilar l’ago, intrecciare i fili e tes-sere la trama: e così tessono le brache dello spirito!

Noi siamo estranei a vicenda… Che uno cammini sulle loro teste nonvogliono neppure sentirlo dire… ciononostante io cammino coi mieipensieri al di sopra delle loro teste, e perfino volendo camminare sui mieierrori, mi troverei pur sempre al di sopra di loro e delle loro teste3.

La vita e il movimento all’aria aperta contro la clausura in am-bienti chiusi ed espressamente dedicati alla ricerca – il mondo deidotti, questo è il senso di questa pagina di Nietzsche, una tra tan-te, rivolta a dissociarsi dal proprio stesso mondo di provenienza.La situazione è indubbiamente paradossale: il filosofo ha, oggipiù di un tempo, obblighi di studio, lettura, apprendimento, chelo vincolano a spazi chiusi, a stare seduto al tavolo di lavoro, ma-gari con un computer acceso e la schiena curva. Tuttavia è pro-prio questo stile di vita a distoglierlo dal libero pensiero creativo,dalle verità semplici, a imbracare lo spirito entro griglie offertedal pensiero degli altri. Anche il successo nella vita, o almeno nel-la carriera, sembra dipendere da questo disciplinamento, dallaproduzione di opere che siano ostensibili e accette alla critica deipropri pari. Molta produzione scientifica nasce da questa ambi-zione di acquistare una certa rispettabilità e non sarà degna di al-cun ricordo. Tuttavia è proprio questa la piega che la filosofia staprendendo ai nostri giorni con la pretesa, non nuova a dire il ve-ro ma solo rinnovata con maggior forza, di costituirsi come scien-za. Bando allora a ogni riflessione che non si sottoponga al va-

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glio della logica, che non sia riportabile a idee chiare e distinte, aproblemi ben formulati, a ipotesi confutabili. Prima di comin-ciare a pensare s’impone a chi voglia fare il mestiere del filosofo– un mestiere appunto con le sue regole e corporazioni – di leg-gere tutto ciò che c’è da leggere (ma quanto?), di familiarizzarsicon discipline molto tecniche, di cui nessun che non sia addettoai lavori verrà mai a capo: filosofia di questo e filosofia di que-st’altro, mai filosofia tout court. Tutto il resto è giudicato chiac-chiera. E non la scampano neppure i grandi: il povero Hegel conla sua dialettica confusa è diventato il capro espiatorio dei nuovifilosofi-scienziati. Tuttavia lo spirito resiste all’imbracamento. Laricerca di saggezza per la vita si prende la sua rivincita. A volte lofa nella forma dubbia dell’offerta di aiuto – la «consulenza filo-sofica» – che distrae dall’uomo interiore. A volte prende la stradadi una meditazione che trascende gli apprendimenti, pur neces-sari, per puntare diritto a cose come il senso dello stare al mondo,la cura di sé, l’amore per gli altri, le responsabilità verso il mondo– i grandi temi della filosofia morale e politica, che non copronol’intero campo della ricerca filosofica, ma la distolgono dal nar-cisismo della domanda epistemologica su come si apprende e sul-la natura della verità.

Di fronte all’aggressività della filosofia dei dotti – la pesan-tezza della ricerca storica e filologica, l’imperativo di restare nel-l’ambito delle sole domande formu labili correttamente – lo spi-rito si riprende la propria libertà a contatto con la natura, anche sedifficilmente riesce a liberarsi dal risentimento, che abbiamo vi-sto affiorare nella pagina di Nietzsche ma anche in quella diRousseau, rivolto d’altronde non solo contro gli altri ma anchecontro il proprio nemico interno, il «dotto» che anche i filosofipiù trasgressivi non hanno smesso di essere.

Il brano di Nietzsche si conclude con un’affermazione di su-periorità e di disuguaglianza: «perché gli uomini non sono uguali:

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così parla la giustizia». Eppure la pratica della filosofia cheNietzsche raccomanda produce una comunicazione più facile eallargata. Non per nulla le opere di Nietzsche sono così popolari.Sul terreno filosofico di elezione, che è quello della meditazionesu di sé e sui fenomeni morali, tutti possiedono competenza esono interlocutori possibili. Chi il filosofo lo fa per professionedeve certo farsi carico di un fardello storico e teorico assai com-plicato, ma nella misura in cui ritorna al nucleo della sua missio-ne – Beruf vuol dire l’una e l’altra cosa, professione ma anche mis-sione –, se non vuole fallire, gli si impone un immane lavoro disemplificazione, a cui forse gli altri scienziati non sono tenuti.

La dimenticanza di sé

Tuttavia il risentimento uccide ed occorre liberarsene.Camminare nella natura cura dall’infelicità e anche dal risenti-mento. Per lo meno in rari attimi di beatitudine il viandante di-mentica se stesso e le proprie lotte, la necessità di farsi valere in unmondo ostile. In un brano che ricorda l’idea nietzscheana del me-riggio, Robert Walser ha espresso proprio questo tema della di-menticanza di sé che la visione della natura favorisce:

Ecco, l’anima del mondo si è aperta, e ogni e qualsiasi cattiveria, sof-ferenza, dolore è in procinto di scomparire: così fantasticavo. Il quadromeraviglioso del presente assurse subito a sensazione dominante. I gior-ni del futuro impallidivano, il passato dileguava. Nell’incendio di quel -l’attimo arsi anch’io. Da ogni direzione avanzò luminoso, con splendi-do gesto beatificante, tutto ciò che è grande e buono. In mezzo alla bel-la contrada, io pensavo solo ad essa: qualunque altro pensiero venivameno. […] Io non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più chemai me stesso4.

La meditazione silenziosa durante il cammino ha una primafunzione, che è quella di portarci lontano dalle preoccupazioniquotidiane, dalla sfera dell’utile e del lavoro. A questo sembra al-ludere Thoreau.

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Vorrei, nei miei vagabondaggi pomeridiani, – scriveva già Thoreau– dimenticare le occupazioni del mattino e gli obblighi sociali. Ma tal-volta non è facile liberarsi delle cose del villaggio. Il pensiero di qualchelavoro si insinua nella mente e io non sono più dove si trova il mio cor-po, sono al di fuori di me. Perché rimanere nei boschi se continuo a pen-sare a qualcosa di estraneo a quel che mi circonda? Diffido di me stes-so, e non posso non rabbrividire quando mi accorgo di essere sino a talpunto coinvolto nelle faccende quotidiane, per utili che siano, – e tal-volta questo accade5.

Lo scopo è quello di concentrarsi nell’io. Anche le passeggia-te di Nietzsche sembrano avere quest’obiettivo principale. Egligiunge anzi a rivendicare il diritto a non dimenticarsi, in nomedella natura, di noi stessi. Nell’aforisma 327 de Il viandante e la sua

ombra, intitolato «La natura dimenticata», scrive: «Noi parliamodi natura e intanto ci dimentichiamo di noi stessi: noi stessi siamonatuta, quand même –. Per conseguenza la natura è qualcosa di af-fatto diverso da quello che sentiamo nel farne il nome».

Tuttavia questa concentrazione su di sé non rappresenta lostadio più alto dell’elevazione. A questo livello può darsi persinoche i problemi si aggroviglino e i risentimenti si esaltino. La ca-pacità di immergersi nella contemplazione della bellezza e di dis-togliersi dalla stessa dimensione temporale, da ricordi e aspetta-tive, per riempire la mente dello spettacolo del presente porta ol-tre l’io e le sue cure. Forse permetterà, dopo, di risolvere meglioanche le tensioni che lo riguardano.

Leopardi ne La vita solitaria ci ha dato una bella rappresenta-zione di quest’io che «sedendo immoto», al margine di un lago,tra gli alberi, circondato nella quiete immota di un sole sfolgo-rante, quasi oblia se stesso e il mondo o piuttosto li confonde.

Talor m’assido in solitaria parteSovra un rialto, al margine di un lagoDi taciturne piante incoronatoIvi, quando il meriggio in ciel si volve,

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la sua tranquilla imago il Sol dipinge,Ed erba o foglia non si crolla al vento,E non onda incresparsi, e non cicalaStrider, né batter penna augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o motoDa presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete;Ond’io quasi me stesso e il mondo obblioSedendo immoto; e già mi par che sciolteGiaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commuova, e lor quiete anticaCo’ silenzi del loco si confonda.

Qui viene a proposito una riflessione sullo stile della cono-scenza facilitata dal vagabondare, o meglio da questo vagabon-dare/sostare. Sebbene l’idea del ‘discorrere’ e del ‘discorso’ siaimparentata con quella di un passaggio graduale da un tratto a unaltro di un ragionamento, e dunque da una premessa a una con-clusione, il procedere del camminatore apre piuttosto la strada aintuizioni, quando non a folgorazioni, che ci rendono chiaro edevidente ciò che prima era aggrovigliato e contorto. Non siamopiù noi a possedere le idee o a giostrare con esse ma sono piutto-sto esse che ci prendono.

Il dolce far niente

Rispetto ai ritmi stressati della nostra vita produttiva – di la-voratori ma anche di studenti – la decisione di destinare una quo-ta del nostro tempo a un’attività così poco produttiva come quel-la del camminare e sostare (le due cose sono relative, un cammi-nare senza sosta, magari con un contapassi, sarebbe di nuovol’inserzione di una logica di efficienza in un contesto estraneo),nella natura ma, perché no?, anche in un parco cittadino o nelcentro storico di una città d’arte – costituisce una interruzioneche può indurre a ripensare anche il nostro modo abituale, datoper scontato, di «investire» il tempo e di «finalizzare» la nostra esi-

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stenza. Il filosofo come figura improduttiva è sempre stato daquesto punto di vista un battistrada. Anche prima che Marcuse silevasse contro il principio di prestazione.

La gerarchia delle forme di vita, con il primato assegnato allavita contemplativa, è forse uno dei pochi principi condivisi da fi-losofi di ogni indirizzo. Nella quinta fantasticheria così Rousseau,nel ritiro felice dell’isola di Saint Pierre, ha dato voce a questoideale di vita:

Il prezioso «far niente» fu il primo e principale godimento che volliassaporare in tutta la sua dolcezza, e tutto quel che compii durante quelsoggiorno non fu in realtà che l’occupazione deliziosa e necessaria diun uomo votato all’ozio.

Una delle mie più grandi delizie era di lasciare i libri sempre chiusi enon possedere una scrivania.

Di che si gioisce in uno stato simile? Di niente di esteriore, di niente senon di se stessi e della propria esistenza; finché dura questa condizione,siamo sufficienti a noi stessi, come Dio. Il sentimento dell’esistenza, spo-gliato da ogni altro affetto, è per se stesso un sentimento di contentezzae di pace che basterebbe da solo a rendere questa esistenza cara e dolce achi sapesse allontanare tutte le impressioni sensuali e terrestri di continuosopraggiungenti a distrarci e a turbarne, quaggiù, la dolcezza. Ma la mag-gior parte degli uomini agitati da continue passioni, poco conoscono que-sto stato, e avendolo gustato soltanto imperfettamente durante pochiistanti, ne conservano appena un’idea oscura e confusa, incapace di farneloro sentire il fascino. Del resto non sarebbe neanche bene – nell’ordina-mento presente delle cose – che, avidi di tali dolci estasi, si disgustasserodella vita attiva di cui i bisogni sempre rinascenti impongono l’obbligo6.

I pochi tentativi di mettere in dubbio questo ideale – l’am-monimento a trasformare il mondo invece che interpretarlo(Marx), l’esaltazione dell’agire politico, penso ad Hannah Arendt– non hanno portato in realtà a nessuna inversione di tendenza,e d’altronde i valori dell’otium filosofico permeano di sé anche ilregno della libertà marxiano, ultima figura del «socialismo», el’improbabile comunità politica della Arendt.

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La richiesta rivolta alla filosofia di «servire a qualcosa» suonaoscena, se non vuole richiamare semplicemente l’esigenza che es-sa si confronti con questioni di importanza vitale, e non sia dun-que per questo lato «oziosa». La questione sarà piuttosto di stabi-lire un equilibrio tra la sua esigenza costitutiva di raccoglimento ela sua proiezione pubblica. Le domande provenienti dalla sferapubblica non possono essere evase rifugiandosi in una impossibileatarassia (anche di questo c’è traccia nel brano riportato diRousseau). Ma la coscienza che ci troviamo in una società domi-nata dai valori dell’efficienza e della produttività ci renderà sospettitutti i messaggi filosofico-politici rivolti a istaurare una società del-la competizione e del merito. Un’importante funzione di resi-stenza a queste lusinghe, che hanno dalla loro un’apparenza di ra-gionevolezza, appartiene proprio a noi filosofi, che svolgiamo unafunzione sociale proprio difendendo la nostra improduttività.

Un corollario di questa ripugnanza della filosofia, o almenodella filosofia che ho in mente, per l’istanza moderna della pro-duttività è la sua sensibilità, classica e un po’ retro, per la felicitàdegli individui: un tema che, come vide bene Marcuse cinquan-t’anni fa, in un saggio sull’edo nismo, la filosofia morale modernaha ostracizzato, in concomitanza, per non dire altro, con l’esi-genza del capitalismo moderno di crescere sulla base dei com-portamenti sacrificali di lavoratori efficienti.

Solitudine e socialità

Siamo così giunti ai margini di una questione più generale –quella del rapporto tra la vita solitaria del passeggiatore e la pre-senza degli altri nel suo orizzonte. Per dirla con Emerson, che diThoreau è stato maestro, tra «società e solitudine». Il saggio cosìintitolato (Society and solitude, 1870) si apre con una narrazione poe-tica, la storia di Saadi. Questi, dopo aver apprezzato le gioie del-la compagnia di uomini di ogni condizione e le piacevolezze del-

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la vita di corte, si lascia alle spalle i riti della civiltà e condivide, so-litario, la vita degli elementi.

Saadi mesceva i giorni come coppe di perle,serviva i nobili e gli umili, i signori e i pezzenti,amava le campanule ondulanti sulle pareti rocciose,una capanna adorna di spire fumose,il suono lacerante dell’ascia o brusii di ruote,o il luccichio che l’uso dipinge sulla spada,e tende e baracche; e nondimeno gli piacevanoi magnifici signori nei palazzi,le incontentabili donne regali,circondate di forme e cerimoniali,ornate di riti e vestiti cortigianied etichetta e gentilezza.Ma, divenuto consorte della neve e del vento,si lasciò dietro ogni civile ordinamento:dai numi dei boschi nutrito di mieli selvaggi,la sua memoria ne fu incantata.Entrava in caverne e cavità di alberi,dormiva accanto al lupo e alla pantera.Stava dinanzi al mare agitatocon gioia inquieta, incontrollata;condivideva la vita degli elementi,legami di sangue e stirpe erano infranti:come se in lui il cielo camminasse,e il vento s’incarnasse, il monte parlasse,e lui, poeta, anima di cristallo terso,fosse una sfera concentrica con l’universo.

Perché ognuno possa star nella sua casa:per questo la natura è così spaziosa.

Il senso del rapporto tra queste due dimensioni dell’esistenza,è così chiarito alla fine del saggio:

La solitudine è impraticabile e la società fatale. Dobbiamo tenere latesta nell’una e le mani nell’altra. La condizione per riuscirci è conser-vare la nostra indipendenza senza perdere la simpatia. Questi meravi-

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gliosi destrieri hanno bisogno di una mano ferma che regga le redini.Abbiamo bisogno di una solitudine capace di tenerci avvinti alle sue ri-velazioni anche quando ci troviamo per strada o in un palazzo […] Nonè la circostanza di vedere tanta o poca gente che importa, ma la pron-tezza a simpatizzare…7

Un seguace di Emerson, il giovane Christopher McCandless,di cui ab bia mo imparato a conoscere la vicenda attraverso la bio-grafia di Jon Krakauer, Into the Wild, esem plifica bene questo per-corso8. La sua ricerca radicale di una lontananza dalla società edai sui riti borghesi arriva fino alla crudeltà di una rottura senzaspiega zioni con la famiglia, una famiglia in definiva né migliorené peggiore di altre, e, dopo varie esperienze di comunità di ele-zione, fino alla prova della solitudine estrema nelle terre selvaggedell’Alaska. La sfida sarà mortale, ma da quello che si può ricava-re dalle scarse memorie ritrovate, il giovane Christopher primadi morire era pronto a tornare con una nuova forza inte riore mapacificato nel consorzio umano. Tra i suoi ultimi appunti i cac-ciatori che ritrovarono le sue spoglie poterono leggere: Happiness

is real only when shared.Si è voluto connotare a volte questo individualismo emerso-

niano come ‘democratico’ in opposizione a quello aristocratico diNietzsche, che peral tro di Emerson fu grande ammiratore. Maforse siamo in presenza solo di un nuovo modo d’intendere lanobiltà. Anche nel caso del filosofo americano il principio fon -dante è la fiducia in se stessi (self-reliance), ed essa si combina perlui con un’immagine alta della democrazia in quanto illimitata ca-pacità di apprezzamento dei propri simili piuttosto che con le suepratiche spesso degradate. Com’è possibile che un uomo conse-gua in solitudine un forte senso di sé (e persino della propria su-pe riorità) e poi divenga aperto agli altri e desideroso della lorocompagnia? Perché impara, risponderebbe Emerson, la tolle -ranza della natura che, «spaziosa» qual è, ammette nel suo seno

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come legittime e amabili tutte le differenze. Non c’è uomo comenon c’è creatura vivente che non abbia una propria amabilità. Perraggiungere quest’atteggiamento di accettazione si richiede, ap-punto, una particolare elevatezza d’animo.

Note1. J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, BUR, Milano 1998, pp.

200-205 passim.2. H.D. Thoreau, Camminare, SE, Milano 2007, p. 12 e pp. 34-38.3. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, II, «Dei dotti», pp.

151-153.4. R. Walzer, La passeggiata, Adelphi, Milano 1976, p. 73.5. H.D. Thoreau, La passeggiata, cit., p. 18. 6. J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, cit., p. 258 e p. 264.7. R.W. Emerson, Società e solitudine, Diabasis, Reggio Emilia 2008, pp. 36 s.8. Il romanzo di Jon Krakauer, Into the Wild, pubblicato nel 1996, è stato tradot-

to in italiano con il titolo Nelle terre estreme, Corbaccio, Milano 2008. Un film basatosul romanzo, diretto da Sean Penn, è apparso nel 2007.

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Gli autori

Eraldo Affinati è nato a Roma, dove vive e lavora. Insegna italiano aiminorenni non accompagnati della Città dei Ragazzi. Collabora al«Corriere della Sera». La sua scrittura nasce spesso da un viaggio. Hapubblicato: Veglia d’armi. L’uomo di Tolstoj (1992); Soldati del 1956 (1993);Bandiera bianca (1995); Patto giurato. La poesia di Milo De Angelis (1996);Campo del sangue (1997); Uomini pericolosi (1998); Il nemico negli occhi (2001);Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer (2002); Secoli di gioven-

tù (2004); Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori (2006); La Città

dei Ragazzi (2008); Berlin (2009). Ha curato inoltre l’edizione completadelle opere di Mario Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano (2003).

Marco Aime è nato a Torino e insegna Antropologia culturale pressol’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa occi-dentale. Oltre a numerosi articoli scientifici ha pubblicato: Chalancho, ome,

masche, sabaque. Credenze e civiltà provenzale in valle Grana (1992); Il mercato e la

collina. Il sistema politico dei Tangba (Taneka) del Benin settentrionale (1997); Le

radici nella sabbia (1999); Diario dogon (2000); Sapersi muovere. Pastori transu -

manti di Roaschia (2001); La casa di nessuno. Mercati in Africa occidentale (2002);Eccessi di culture (2004); L’incontro mancato (2005); Gli specchi di Gulliver (2006);Timbuctu (2008); Primo libro di antropologia (2008). È autore anche di alcuneopere di narrativa: Taxi brousse (1997); Fiabe nei barattoli. Nuovi stili di vita

spiegati ai bambini (1999); Le nuvole dell’Atakora (2002); Nel paese dei re (2003);Sensi di viaggio (2005); Gli stranieri portano fortuna (2007).

Ferruccio Andolfi è nato a Roma ed è docente presso l’Università diParma, alternandosi nei due insegnamenti di Filosofia teoretica e Filosofiadella storia. Ha pubblicato i volumi: L’egoismo e l’abnegazione. L’itinerario eti-

co della sinistra hegeliana e il socialismo (1983); Figure d’identità (1988); Lavoro e

libertà. Marx Marcuse Arendt (2004). Ha edito opere di Ludwig Feuerbach,Karl Marx, Jean-Marie Guyau e Georg Simmel. I lavori più recenti inda-

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gano le varie forme dell’individualismo nella filosofia otto-novecentescae l’ipotesi di una legge individuale di sviluppo etico. Dal 1998 dirige la ri-vista «La società degli individui», quadrimestrale di teoria sociale e storiadelle idee. È membro del Comitato scientifico dell’editore MUP e coordi-na, insieme a Italo Testa, per le edizioni Diabasis, la collana «La ginestra –Biblioteca per un individualismo solidale».

Erri De Luca è nato a Napoli e ha esercitato diversi mestieri manuali inAfrica, Francia, Italia: camionista, operaio, muratore. Collabora a di-versi giornali. Alpinista, scrive anche sulla montagna. Alla prima operapubblicata Non ora, non qui (1989), seguono numerosi volumi, tra i qua-li: Una nuvola come tappeto (1991); In alto a sinistra (1994); Alzaia (1997);Tu, mio (1998); Tre cavalli (1999); Montedidio (2003); Il contrario di uno

(2003); Mestieri all’aria aperta (2004); In nome della madre (2006); Sottosopra

(2007); Pianoterra (2008); Il giorno prima della felicità (2009). Per la poesia hapubblicato Opera sull’acqua e altre poesie (2002); Solo andata. Righe che vanno

troppo spesso a capo (2005); L’ospite incallito (2008). Ha tradotto: Libro di

Rut (2000); Kohèlet/Ecclesiaste (2001); Giona/Iona (2001); Esodo/Nomi

(2001); Vita di Sansone (2002); Vita di Noé/Nòa (2004); L’ospite di pietra.

L’invito a morte di Don Giovanni. Piccola tragedia in versi (2005).

Rita Messori è docente di Estetica presso il Dipartimento di Filosofiadell’Università di Parma. Il suo ambito generale di interesse è il rap-porto tra esperienza estetica e linguaggio, a cui sono riconducibili le ri-cerche intorno al rapporto tra estetica ed ermeneutica, tra estetica etradizione retorico-poetologica. È autrice dei volumi Le forme dell’ap-

parire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi (2001);La parola itinerrante. Spazialità del linguaggio metaforico e di traduzione (2001).Di Ernesto Grassi ha tradotto e curato Il colloquio come evento (2002); diPaul Ricoeur ha tradotto e curato Cinque lezioni. Dal linguaggio all’imma-

gine (2002). Ha inoltre curato i numeri monografici Affettività, spaziali-

tà e forma artistica (2002) e Martin Heidegger trent’anni dopo (2006) della ri-vista «Studi di estetica».

Massimo Quaini, geografo umanista e storico della cartografia nell’A -teneo genovese, consulente nel campo della pianificazione territoriale, haattraversato con i suoi contributi scientifici, culturali e didattici i momentipiù significativi della geografia italiana ed europea dell’ultimo trenten-

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nio. Attualmente lavora alla costruzione di una geografia che sia in gra-do di rispondere alla domanda di una pianificazione urbana e rurale piùaderente al territorio, in riferimento alla tematica dei beni culturali e delpaesaggio come spazio abitato dall’uomo. Ha pubblicato: Marxismo e geo-

grafia (1974); La costruzione della geografia umana (1975); Dopo la geografia

(1978); Tra geografia e storia: un itinerario nella geografia umana (1982); Fortuna

della cartografia (1982); Il mondo come rappresentazione (1992); Levanto nella

storia (1987-88); La mongolfiera di Humboldt (2002); Il mito di Atlante. Storia

della cartografia occidentale in età moderna (2006); L’ombra del paesaggio.

L’orizzonte di un’utopia conviviale (2006); Visioni del celeste impero. L’immagine

della Cina nella cartografia occidentale (2007).

Giuliano Scabia, nato a Padova, è poeta, drammaturgo e romanzie-re. Dal 1973 docente di drammaturgia al DAMS di Bologna, è stato ilprotagonista di alcune tra le esperienze poetiche e teatrali più vive evisionarie degli ultimi quarant’anni. Dopo aver collaborato con LuigiNono nella scrittura del Diario italiano e de La fabbrica illuminata, è sta-to uno degli iniziatori del Nuovo Teatro e l’ideatore di situazioni tea-trali e comunitarie memorabili, come quelle dell’Ospedale Psichiatricodi Trieste (Marco Cavallo, 1976), o quella con un gruppo di attori-stu-denti attraverso l’Appennino emiliano (Il Gorilla Quadrumàno, 1976),o quella de Il Diavolo e il suo Angelo (1979-1985) attraverso paesi e città.Negli ultimi tempi ha quasi completato i circa 40 che costituiscono ilciclo del Teatro Vagante, che frequentemente va in giro a recitare dasolo, in case di conoscenti e amici, in piccole comunità che si forma-no per ascoltare seguendolo a volte in lunghe camminate nei boschi.Tra le sue opere per il teatro: Padrone & Servo (1964); All’improvviso &

Zip (1967); Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno (1972); Forse un dra-

go nascerà (1973); Teatro nello spazio degli scontri (1973); L’animazione tea-

trale (1978); Dire fare baciare (1981); Scontri generali (1983); Teatro con bo-

sco e animali (1987); Fantastica visione (1988); Visioni di Gesù con Afrodite

(2004). Il suo lavoro sulla lingua è confluito anche nei romanzi In capo

al mondo (1990); Nane Oca (1992); Lorenzo e Cecilia (2000); Le foreste so-

relle (2005) e nelle Lettere a un lupo (2001). Per la poesia ha pubblicato Ilpoeta albero (1995); Opera della notte (2003) e la raccolta di saggi Il tremi-

to. Che cos’è la poesia? (2006).

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Davide Sapienza, nato a Monza, è scrittore, traduttore, giornalista eviaggiatore. Dal 1984 ha lavorato nell’editoria musicale come giornali-sta ed è stato curatore di diversi libri sulla musica rock (U2, Waterboys,Neil Young, Nirvana, Frank Zappa), svolgendo anche l’attività di con-sulente discografico. Dal 1998 si è dedicato principalmente alla lettera-tura e ai viaggi in montagna. Ha scritto articoli e reportage di viaggioper diverse riviste (Specchio/La Stampa, Rolling Stone, GQ, Diario,Rivista della Montagna). Ha debuttato in narrativa con I Diari di Rubha

Hunish (2004), libro-diario centrato sul rapporto tra paesaggio, cultura,e spostamento fisico sul territorio. Ha pubblicato in seguito il romanzoLa Valle di Ognidove (2007). Studioso di Jack London, ha pubblicato nu-merose traduzioni di testi classici e inediti del grande autore americano.

Italo Testa, nato a Castell’Arquato, è docente di Storia della FilosofiaPolitica presso l’Università di Parma. Insegna inoltre Storia dellaFilosofia a Ca’ Foscari. I suoi studi hanno interessato l’idealismo tede-sco, la teoria critica, la teoria dell’argomentazione e la filosofia della let-teratura. Per la saggistica ha pubblicato i volumi Ragione impura (2006);Teorie dell’argomentazione (2006); Hegel critico e scettico (2002) e curato le rac-colte di saggi Hegel contemporaneo (2003); Ragionevoli dubbi (2001). Per lapoesia ha pubblicato Gli Aspri inganni (2004); sarajevo tapes (2004);Biometrie (2005); canti ostili (2007); Luce d’ailanto (2009). È co-direttoredella rivista di poesia e letteratura «L’Ulisse» e, presso Diabasis, dellacollana di classici dell’individualismo solidale «La ginestra». Fa parte del-la segreteria di redazione della rivista «La Società degli individui».

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Zainetto leggeroagile compagno di viaggio

sull’antica artedi camminare pensando

praticatasui sentieri e sui campidel più creativo festival

che sia stato mai realizzatogiunto al suo secondo anno di vita

questo libro viene stampatonel carattere Garamond

su carta Arcoprintdelle cartiere Fedrigonidalla tipografia Sograte

di Città di Castelloper conto di Diabasis

nell’apriledell’annoduemila

nove

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