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Per Nello Richiesto di una collaborazione tecnica di natura linguistica, ho visitato e rivisitato lo scritto di Nello e, ogni volta che mi addentravo nella lettura, trovavo nuove consonanze tra i suoi e i miei sentimenti, tra esperienze di vita naturalmente diverse e però accomunate dall'identico denominatore dell'esistenza umana che non è mai lineare, ma si snoda tra alti e bassi, gioia e dolore, speranza e delusione, lungo percorsi spesso imprevedibili e tuttavia alla fine, "a posteriori", illuminati da un senso che più o meno rapidamente si disvela. Nello è una persona del popolo, che fin dalla più tenera età ha svolto lavori manuali, s'è costruito una cultura da autodidatta, ha risalito con determinazione gli scalini dell'istruzione pubblica arrivando a conseguire da adulto la licenza di scuola media, ha sempre coltivato con passione (eredità della sua cara mamma) la scrittura mettendo nero su bianco fatti, sensazioni, impressioni, valutazioni. C'è bisogno di trasmissioni di schegge di memoria come quella di Nello e a ciò non fa velo la semplicità del racconto né l'apparente normalità degli accadimenti narrati. A parte il fatto che la vita di ciascuno di noi è un "unicum" irripetibile, la stessa costituisce uno specchio in cui riflettersi, riscontrare analogie e differenze, in tutti i casi confrontarsi. Nello teneva molto a corredare le tappe della sua storia con le immagini puntuali che ad esse si riferiscono. Questo rappresenta un'ulteriore ricchezza del libro, che dà conto visivo, palpabile dello scorrere del tempo, dei costumi che mutano, del contesto sociale che ci avvolge. Bravo Nello!

Adriano Concari

Non c'è soltanto il fascino della semplicità in questo racconto di una vita al quale la definizione di autobiografia, pur nell'esattezza lessicale, suonerebbe come un esercizio di narcisismo, ben lontano da una narrazione che nella sua essenzialità, nel suo inesorabile ritmo scandito con periodi di folgorante nitore indaga i protagonisti con fulmineo colpo d'occhio e autentica, pudica con passione. Scena dopo scena, come in un film neorealista in bianco e nero, Nello Rieti allestisce una struggente carrellata di esistenze ignote e insieme, per dignità e pudore, degne di memoria: com'è ciascuna avventura terrena, se vissuta con la nobile accettazione del proprio compito e lo sprone dell'empatia e della curiosità. In un passo della "Promessa dell'alba", capolavoro di Romain Gary, entra in scena un sarto schiacciato dalla miseria, ma soprattutto offeso dalla condanna all'anonimato inflittagli dal destino: anonimato ingiusto, perché l'uomo, qualsiasi uomo, sente di aver dentro di sé gioie, dolori, speranze, disperazioni, valori ed esperienze degni di essere vissuti in comunanza con il prossimo. Il sarto rivolge a

Gary, giovane destinato ad avere una vita migliore, una bellissima e straziante richiesta: "Voi -gli dice- diventerete qualcuno, avrete successo: ricordatevi di me, a quel punto, e dite al mondo che sono esistito anch'io". E stringendo la mano alla Regina d'Inghilterra che lo insigniva del titolo di Sir per i meriti di pilota di guerra, Gary disse all'augusta signora: "Maestà, un tempo, a Wilno in Polonia, viveva un uomo degno d'ogni onore”. Grazie a Nello Rieti per aver provveduto di persona a farci conoscere la sua vita, così semplice, così luminosa.

Vittorio Testa

INTRODUZIONE Quando cominciai le scuole elementari la maestra mi spiegò più o meno come erano fatti il mondo e l'universo; oltre alla luce, all'aria, all'acqua, alle piante, mi disse che esistevano milioni e milioni di specie animali, esseri viventi con un cuore che batteva al loro interno, e fra essi una categoria speciale, poi definita razza umana, suddivisa in maschi e femmine, che oltre ad avere un cuore era dotata di un cervello in grado di emozionarsi, pensare e ragionare. Una razza, quella umana, che si riproduce tramite uno strano e complesso meccanismo di attrazione e accoppiamento, un'alchimia che nessuno finora è stato in grado di spiegare esaurientemente e forse non lo sarà mai, per fortuna. Pertanto da un cosiddetto "brodo" primordiale ebbe origine la vita e con essa una lunga, interminabile catena di generazioni. E così di generazione in generazione, per caso o forse no, ecco che anch'io mi trovai immischiato, senza nessuna colpa, nel pentolone della vita dal quale fui pescato da due antenati a me noti solo di nome circa centosettant'anni fa, i miei bisnonni, i quali originarono i miei nonni paterni, che viceversa ho conosciuto molto bene e che generarono quattro figli; uno di essi era mio padre. Fin da piccolo sentivo in me un approccio verso la vita difficile da esprimere, come se avessi ricevuto da qualcuno un ordine: "Ora che ci sei, datti da fare, vai avanti, impégnati, affronta la vita così come viene, con tutte le avversità che ti si presenteranno". Avvertivo in me un segnale premonitore del cammino da compiere, che sarebbe stato lungo e insidioso, non privo di eventi belli, ma sicuramente pieno di ostacoli da affrontare. Mi ritengo una persona equilibrata, discreta, che non ama apparire in prima fila, ma vuole collaborare mettendosi a disposizione degli altri, ogni qual volta la propria presenza sia ritenuta utile.

Tutti sanno che il carattere di un individuo si forma nel grembo materno e alla madre in particolare si attribuiscono meriti e colpe, così anch'io riconosco in me pregi e difetti della mia progenitrice. Sono sempre stato un po' curioso, desideroso di comprendere il mondo circostante e i suoi problemi, proprio come mia madre. Non avendo avuto la possibilità di intraprendere studi superiori, ho sempre invidiato le persone istruite che sanno ascoltare e parlare, siano esse giovani o anziane; ho sempre ascoltato volentieri le loro differenti opinioni; per questo motivo tutte le volte che mi capita tra le mani un pezzo di carta scritta, sia esso un libro o il quotidiano che acquisto ogni giorno, leggo con avidità e piacere e il leggere funge per me da digestivo delle tante notizie che si apprendono dalle trasmissioni televisive. Una tale attrattiva verso la carta stampata non poteva che portarmi a desiderare di fissare sul foglio bianco i ricordi d'infanzia e di quella che è stata la mia vita, così come me l'ero immaginata, così come poi è effettivamente stata, che mi ha visto partecipe e in qualche misura protagonista. Ciascuno è infatti artefice della propria esistenza e, anche se non lo può essere completamente e liberamente, ne è comunque e sicuramente il protagonista.

Nello Rieti

LE ORIGINI

Nella foto scattata nei primi mesi dell'anno 1916, si vedono quattro ragazzini, due femmine e due maschi, fra loro rispettivamente fratelli e sorelle, insieme ai nonni perché la loro mamma era già salita in cielo a soli 32 anni d'età, mentre il papà era stato chiamato alle armi, essendo scoppiata l'anno precedente la Grande Guerra (1915-18), durante la quale egli prestò servizio militare per 18 mesi.

La bambina a sinistra nella foto, dal lungo codino fermato da un fiocco, stile zingarella, è mia mamma Olanda Copelli, classe 1906. Tutti però la chiamarono da subito e per sempre Viola. Orfana di madre già durante l'infanzia, Viola conobbe presto le asperità vita e comprese che la sua gioventù era finita ancor prima iziare.

Suo padre, Modesto, ritrovandosi presto vedovo con quattro figli da sfamare, in condizioni di miseria permanente nonostante il duro lavoro spesso si ubriacava e in famiglia i suoi comportamenti erano alquanto rozzi. Elide, la sorella maggiore, non tardò a sposarsi e uscì di casa, così Viola, ancor giovinetta, si trovò a dover

accudire i suoi fratelli. Di questo periodo tormentato della sua vita mamma Viola ha la un ricordo toccante, un manoscritto sgrammaticato, ma molto espressivo di un mondo contadino antico assai difficile, ancor di più per una come lei figlia di una trovatella dall'esistenza avventurosa, sua madre Caterina, morta a soli 32 anni dopo aver alla luce sei figli. Riportiamo alla fine di questo capitolo il testo integrale di manoscritto. Raggiunta la maggior età, Viola rimase ancora in famiglia per più di dieci anni, poi anch'ella, come tutte le signorine, s’innamorò di un bel ragazzo, così diceva, di nome Mario.

Durante il fidanzamento rimase incinta e scoppiò il finimondo sia col papà sia col fidanzato; quest'ultimo non aveva nemmeno un centesimo e quindi non voleva

sposarla. Prevalse però la decisione di convolare a giuste nozze, anche se ciascuno dei due giovani rimase a casa propria ancora per parecchi mesi prima che le cose si sistemassero un pochino e riuscissero a trovare quei pochi soldi necessari (racimolarono alcune centinaia di lire) per andare ad abitare insieme. Nel frattempo la gravidanza di Viola procedeva e la data del parto si avvicinava; la giovane donna non aveva alcun corredino, nemmeno un indumento che potesse servire a coprire, a fasciare il neonato al momento della nascita. Il giorno 8 settembre 1938 venne alla luce una bambina che chiamarono Rosanna. Nel dicembre di quello stesso anno finalmente il marito andò a prendere Viola e la portò a casa sua. Erano passati vent'anni dalla morte della madre al suo matrimonio, un lungo calvario per la giovane donna, un periodo di miseria indescrivibile, al limite della sopravvivenza. L'anno dopo, probabilmente nel mese di novembre del 1939, fatti un po' di conti, Viola rimase incinta per la seconda volta e qui inizia la mia storia. Nacqui infatti nel mese di agosto del 1940.

LA STORIA DI COPELLI OLANDA, DETTA VIOLA

L'INFANZIA Correva l'anno 1940 quando il 10 giugno anche l'Italia entrò nel terribile secondo conflitto mondiale, scoppiato in Europa l'anno precedente. Un giorno di solleone di quell'anno, era il 16 agosto, nacque un "bellissimo" bimbo maschio, che chiamarono Nello. Ebbene, ero io. I miei genitori, Mario Rieti e Olanda Copelli, erano poverissimi come la stragrande maggioranza delle persone che vivevano in quel periodo. Avevano poco da mangiare e quasi nulla per vestirsi, ma in compenso molto da lavorare. Lavoro che all'epoca consisteva principalmente nell'accudire il bestiame nelle stalle e nel coltivare i campi. Con il mio arrivo la famiglia aumentò; allora la mia sorellina Rosanna aveva due anni.

Nonostante la guerra e le privazioni, nei miei primi mesi di vita crebbi abbastanza bene, allattato da mia madre. Dopo soli tre mesi dalla mia nascita, a dicembre, si presentò però un problema ancor più grave della miseria che affliggeva la famiglia. Papà si ammalò, aggravandosi inesorabilmente nei mesi successivi fino al 9 agosto 1941, giorno in cui Mario ci lasciò per salire in cielo a soli 37 anni. Non avevo ancora un anno quando ci ritrovammo a soffrire per la fame, la guerra e la povertà. La mamma vedova, con due bimbi in tenera età, per procurarci un pasto decise allora di recarsi presso un certo signor Maccari, casaro nei pressi di Besenzone, per il quale lavorava qualche ora sbrigando le pulizie e le faccende domestiche. Guadagnava così quel mezzo litro di latte il giorno, che allungato con la stessa quantità di acqua ci garantiva il pasto quotidiano. Era tempo di guerra ed io ero un frugoletto di pochi anni, quando mamma in sella alla bicicletta con mia sorella Rosanna sul portapacchi dietro ed io davanti seduto sul manubrio scorrazzava su e giù per le carraie di campagna allo scopo di spigolare qualche chilo di frumento e poter mangiare un pezzo di pane bianco, che era sempre troppo poco ma buono. Fu durante una di quelle scorrazzate che vidi sfrecciare veloci e rombanti sopra le nostre teste gli aerei militari, i quali scaricarono le loro bombe nei pressi di Besenzone, colpendo un deposito di barili di petrolio ben nascosti sotto i filari delle viti. Un vero e proprio inferno di fuoco! Riuscimmo a vivere (anzi a sopravvivere) grazie a molti espedienti e grandi sacrifici per quattro lunghi anni, fino a quando mamma, sollecitata anche da parenti e amici, decise di risposarsi con Guglielmo Agosti. La guerra finì. Cominciai a frequentare le scuole elementari a Cignano, piccola frazione del Comune di Villanova sull'Arda. Noi abitavamo a circa due chilometri dalla scuola, in un podere chiamato "Piombina". Il marito della mamma lavorava principalmente nelle stalle come bergamino, Viola occasionalmente in campagna da bracciante. L'anno seguente traslocammo nel Comune di San Pedretto Piacentino nel podere "Fienili". Nel frattempo, esattamente il 3 febbraio 1947, la famiglia si allargò nuovamente con l'arrivo di un'altra sorellina, anche lei come me bionda, tutta ricciolina, cui fu dato il nome di Mariella e che vedete al centro della foto.

Avendo già compiuto sette anni, da buon cristiano già battezzato fui ammesso ai sacramenti della Comunione e della Cresima e per l'occasione mamma Viola volle farmi un dono, anche perché si presume che tutti i bambini a quell'età siano bravi e buoni e si meritino qualche regaluccio. Mamma inforcò la bicicletta e con me seduto sul manubrio si recò a Cremona, distante cinque o sei chilometri da San Pedretto, per fare qualche compera con pochissimi soldi in tasca. La guerra era da poco terminata e il ponte sul Po era stato bombardato, perciò non era transitabile. Era stato così costruito un ponte provvisorio di ripiego, fatto di barche affiancate l'una all'altra, con sopra stesi lunghi rotoli di assi di legno, a mo' di tappeto-piattaforma; il tragitto era percorribile a intervalli alternati, regolati da semafori con un forte rallentamento del traffico. Ricordo che davanti a noi avevamo un autocarro carico, abbastanza pesante, che andava molto piano. Sul ponte-barca era un continuo ondeggiare, sembrava di essere in alto mare; provammo molta paura, ma riuscimmo ad arrivare a destinazione. Con quei pochi spiccioli che aveva in tasca la mamma riuscì a comprarmi una piccola pistola spara-capsule ed una palla di gomma per giocare a calcio; essa però era talmente minuscola che ogni qual volta la si calciava il piede nella foga si conficcava nella terra, formando dei buchi. Dopo il mio primo anno di scuola elementare insieme allo zio Armando, fratello di Viola, e alla sua famiglia ci trasferimmo per motivi di lavoro a Cavriago, un Comune in provincia di Reggio Emilia, in un grande podere chiamato "Corte Tegge", il cui proprietario era soprannominato Cianfra (era uno dei fratelli Gavazzi di Fiorenzuola d'Arda). Cianfra era una persona che non pagava mai i suoi debiti e finì per fallire nel giro di un paio d'anni. Così il podere fu acquistato e gestito da una cooperativa agricola con la quale restammo per quattro anni. La scuola era ubicata nel vicino paese di Villa Cella, che distava tre chilometri dalla nostra abitazione, e per raggiungerla transitavo per metà del percorso sulla via Emilia. La percorrevo a piedi, sia in estate sia in inverno, senza scarpe, calzando solo scomodi zoccoli di legno.

In quella vasta azienda agricola eravamo in quattordici famiglie; si era così formato un gruppo di ragazzi di varie età che a mo' di zingarelli gironzolavano all'interno del podere, sempre pronti a litigare fra loro e spesso a combinar guai. Noi ragazzi trascorrevamo il tempo libero divertendoci con poco e in vari modi, usando creatività e immaginazione: imitavamo le gare del Giro d'Italia, giocavamo con i tappi a corona delle bottiglie o le scatolette vuote di crema per lucidare le scarpe. All'interno del podere vi era anche il caseificio e ogni giorno noi ragazzi facevamo a gomitate per arrivare primi dal casaro nel momento in cui tagliava il tosone, per accaparrarcene un pezzo. Il tosone è un piccolo scarto di formaggio grana definito "fresco", in quanto viene tagliato dalla forma prodotta il giorno prima per arrotondarla. Oltre al caseificio, nel podere c'era anche la porcilaia per l'allevamento dei maiali. All'esterno questa aveva un recinto pavimentato con mattoni, che serviva per l'ora d'aria dei maiali, ossia per farli muovere un po', perché per la maggior parte del tempo essi vivevano rinchiusi nel fabbricato; non appena tale spazio esterno era sgombro dai maiali, si dava un colpo di scopa per togliere il grosso della sporcizia e poi si disegnava su di esso col gesso il percorso delle tappe del Giro d'Italia. Così si tirava sera, fino a quando non si veniva richiamati con un fischio dai nostri genitori e si rientrava nei nostri alloggi sporchi e puzzolenti. Se ben ricordo, fu nell'estate del 1950 che, a nemmeno mezzo chilometro di distanza dal nostro podere, fu installato un grosso cantiere per la posa del metanodotto proveniente dalla Russia, che doveva attraversare una parte dell'Italia. Noi ragazzi tutti i giorni ci recavamo per curiosità sul posto a osservare e controllare l'andamento dei lavori: venivano posati tubi di ferro del diametro di un metro, che erano poi uniti tra loro tramite saldature, quindi ricoperti con rotoli di garza industriale incollata ai tubi stessi con catrame liquido sciolto sul fuoco. Questi rotoli avevano all'interno un piccolo tubo di cartone che era gettato via quando tutta la garza era stata utilizzata. L'osservazione dell'attività del cantiere sollecitò la nostra fantasia e ben presto anche noi ragazzi decidemmo di aprire un "nostro" cantiere. Furtivamente andavamo presso il vero cantiere a raccogliere gli scarti della lavorazione, cioè i tubi di cartone buttati e i pezzi di catrame residui, per utilizzarli insieme agli scarti di garza a ricongiungere i tubi. Scioglievamo il catrame facendolo bollire dentro barattoli di lamiera raccattati in giro, che sistemavamo lungo il greto del torrente e sotto ai quali accendevamo un piccolo fuoco. Ovviamente il nostro cantiere non era assicurato, neppure conosceva alcuna norma di sicurezza; non avevamo guanti da indossare, così che a fine giornata ci trovavamo le mani ustionate e spellate per aver manipolato catrame bollente. Non conoscevamo la noia. Eravamo sempre occupati in qualche attività o"prodezza". Quando poi non si era impegnati in "attività di cantiere", si andava a

caccia di uccelli con fionde di nostra produzione e spesso ci divertivamo a organizzare gare di tiro a segno, ma la mira non era sempre perfetta e talvolta capitava che qualche vetro delle abitazioni del podere andasse in frantumi, con viva e vibrante "soddisfazione" dei nostri genitori, i quali ben contenti delle nostre prestazioni ci ringraziavano e ci premiavano con svariate pedate nel sedere. Un episodio in particolare lasciò su di me un'impronta profonda e indelebile. Era l'ottobre del 1950; io avevo allora dieci anni. In cinque o sei ragazzi ci avvicinammo a una macchina agricola utilizzata per seminare il frumento, lasciata momentaneamente incustodita dai contadini in mezzo all'aia. La nostra incontenibile e in questo caso famigerata curiosità portò alcuni di noi a salire sulla macchina; così chi in cima all'attrezzo, chi a terra iniziammo a spingere avanti e indietro alcuni suoi meccanismi, finché un lacerante urlo interruppe il gioco: il dito medio della mia mano sinistra si era incastrato in un ingranaggio e mi ritrovai la prima falange completamente schiacciata. Successe il finimondo. Tutti gli adulti presenti si mobilitarono: dopo una prima fasciatura ci recammo al più vicino ospedale che era a Montecchio e distava circa dieci chilometri. Allora però non c'erano le automobili e Viola mi mise seduto sul manubrio della bicicletta. Impiegammo un'ora per arrivare al Pronto Soccorso, dove subii un intervento immediato: l'amputazione della falange. Ricordo anche che poi non volevo più andare a scuola perché mi vergognavo di avere il dito fasciato, ma dopo qualche giorno di disagio tutto ritornò nella norma. Mamma per tranquillizzarmi mi portò al cinema a Villa Cella. Era la prima volta che andavo in una sala cinematografica e il film che vidi era intitolato "Non c'è pace tra gli ulivi" e aveva come attore protagonista Falco Lulli. Anche se non era una pellicola per ragazzi, ero emozionato e soddisfatto per questa nuova esperienza. Il palazzo padronale, dove risiedeva il proprietario del podere con la propria famiglia, tuttora esistente, consisteva in un fabbricato molto bello di quattro piani, arredato con imponente mobilio, circondato da un vasto parco confinante con la corte dove si trovavano i nostri alloggi. Nel podere c'era un grande varietà di alberi da frutto. Come poteva una banda di ragazzi sempre affamati permettere a tutti quei frutti di arrivare a giusta maturazione? Come potevamo resistere a tanta tentazione? Come scimmie saltavamo da un ramo all'altro, per fortuna senza mai cadere a terra, talvolta prendendo d'assalto gli alberi di proprietà dei poderi vicini. Quando faceva caldo, i contadini dopo aver pranzato erano abituati a coricarsi per la pennichella pomeridiana e, durante queste pause-ristoro dei nostri genitori, noi ragazzi ci organizzavamo per partire alla ricerca del prezioso bottino. Un giorno di piena estate la nostra spedizione andò male: il proprietario di alcune piante da frutta, si chiamava Remo, insospettito si era appostato e ci seguiva a distanza, così fu pronto a sventare il furto e a scoprirci sul fatto. In quell'occasione volò una sfilza di ceffoni ai più grandicelli del gruppo, mentre io me la cavai con

una tirata d'orecchi; infatti, essendo uno dei più piccoli, fui il primo ad essere acciuffato dal proprietario e, preso per un orecchio, fui costretto a fare i nomi di quelli più grandi che erano fuggiti. Tutto si concluse tuttavia senza rancore. Non mancavamo d'intraprendenza. Tre o quattro ragazzi della compagnia si specializzarono nel costruire trappole per la cattura delle talpe. Nei giorni in cui non c'era la scuola, o perché eravamo in vacanza o perché era giorno festivo, partivamo all'alba per posizionarle nei cunicoli scavati dalle talpe e ogni volta riuscivamo a catturarne almeno tre o quattro. Dopo averle scuoiate, inchiodavamo le loro pelli su delle assi di legno per farle essiccare al sole e poi venderle allo strasèr.

Costui era un ambulante che passava generalmente ogni dieci giorni per raccogliere ferro, stracci e altri materiali da poter rivendere ai fini di un nuovo utilizzo o di una nuova produzione (oggi si chiama "riciclo"); le pelli delle talpe infatti venivano poi lavorate, trattate chimicamente e trasformate in pelliccia. Il guadagno per ogni pezzo di pelle consegnato allo strasèr si aggirava tra le dieci e le quindici lire. Il tempo passò in fretta e nel 1951, terminata la quinta Elementare, andai per un periodo di sei mesi circa a fare l'imbianchino. Ero talmente piccolo che, sebbene viaggiassi in bicicletta, anche pedalando di buona lena non riuscivo a tirare il carretto carico di recipienti di colore. Subito dopo, per altri sei mesi, imparai il mestiere di fabbro che però dovetti abbandonare in seguito ad un piccolo incidente a un occhio, causato dagli schizzi della rottura del carbone che si utilizzava nella fucina, la cosiddetta fusèna, per arroventare il ferro al fine di poterlo lavorare. Il 1951 fu pure l'anno che ancora oggi si ricorda per una delle più grandi alluvioni verificatasi nel dopoguerra in seguito allo straripamento del Po, che interessò tra l'altro la Bassa parmense e reggiana. In tale circostanza ospitammo in casa nostra per quaranta giorni un'intera famiglia di sfollati. Il 1954 fu invece un anno memorabile per un altro importante evento, che avrebbe modificato e condizionato i costumi degli Italiani: la diffusione dei primi programmi televisivi.

Le trasmissioni sperimentali erano iniziate nel 1939 a Torino e il 3 gennaio 1954 prese avvio il primo programma nazionale, l'attuale RAI 1. La televisione tuttavia divenne uno dei mezzi di comunicazione di massa più diffusi solo a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso. La sua introduzione nelle case fu graduale e negli anni Cinquanta solo le famiglie abbienti se la potevano permettere. La sua comparsa in ogni modo rappresentò un'importante tappa verso una condizione di progresso e di benessere che aveva iniziato a svilupparsi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il casaro che abitava nel nostro podere fu il primo fra noi, a parità più o meno di condizione sociale, che poté permettersi di avere la televisione. Tutti noi, ragazzi e adulti, eravamo affascinati da quello "scatolone" pieno d'immagini in movimento, anche se in bianco e nero e non sempre perfettamente visibili per difficoltà nella ricezione. In occasione del Giro d'Italia, in cui gareggiavano i due più grandi campioni e rivali della storia ciclistica di tutti i tempi, Bartali e Coppi, ci ritrovavamo tutti i giorni a casa del casaro dove potevamo seguire con entusiasmo ogni tappa. Fu allora che m'innamorai di questo grande sport, che tuttora mi appassiona. Tanti ricordi di vicende belle e brutte vissute nell'infanzia rimangono impressi nella mente per tutta la vita, anche avvenimenti di cui al momento non eravamo pienamente consapevoli di ciò che significavano, ma di cui respiravamo tutto l'influsso emotivo. A tal proposito mi ricordo di una famiglia composta dai genitori e dai loro due figli, di cui uno era ormai adulto e aveva una trentina d'anni. Abitavamo sullo stesso piano e il nostro alloggio era composto di una serie di stanze non comunicanti direttamente, ma poste l'una di seguito all'altra, da cui si accedeva da un lungo corridoio che separava i nostri locali da quelli dell'alloggio dell'altra famiglia, nostra dirimpettaia. Una mattina la mamma venne in camera per svegliare me e mia sorella Rosanna, che dormivamo nella stessa stanza, ma in letti separati. Aprendo la finestra, nostra madre sentì uno strano rumore e s'insospettì, guardò sotto il letto di mia sorella e vide quel giovane uomo, nostro vicino. Tutti noi ci spaventammo e la mamma, cui apparvero subito chiare le intenzioni del signorino, si recò allora in caserma per sporgere denuncia dell'accaduto. Venne il maresciallo a casa per procedere a ulteriori accertamenti e in tale frangente chiese alla mamma se avesse intenzione di confermare la denuncia, ma a quel punto Viola la ritirò per non inasprire i rapporti con i vicini. Passarono una decina di

giorni, dopo di che quell'uomo decise di togliersi la vita impiccandosi a un albero. La sua famiglia si trasferì in un'altra abitazione, ma sempre all'interno dello stesso podere. Questi fatti accaddero nel periodo 1952-53. Rosanna, compiuti quattordici anni, decise di andare a lavorare come mondina nelle risaie in provincia di Pavia, unendosi ad alcune donne e ragazze di Cavriago, per guadagnare un po' di soldi e contribuire anche lei al sostentamento familiare. Al suo ritorno portò con sé come guadagno 35.000 lire e 35 Kg. di riso, 1 Kg. Di riso per ogni giorno di lavoro. Dopo una quindicina di giorni dal suo rientro in famiglia, mia sorella cominciò ad accusare delle forti crisi convulsive con svenimenti: ricoverata in ospedale le venne diagnosticata l'epilessia. Nel frattempo zio Armando trovò un'altra occupazione in un'azienda agricola nel Comune di Novi Ligure in provincia di Alessandria, dove si trasferì con la propria famiglia, cosicchè noi restammo soli ad affrontare quel brutto momento. Le disavventure capitate e le preoccupazioni per la salute di Rosanna portarono la mamma alla decisione di ritornare a vivere nel Piacentino, sua terra d'origine, per essere più vicino ad amici e parenti e poter contare sul loro sostegno. Per me quella notizia fu una botta tremenda; piansi per tre giorni consecutivi, non volevo lasciare i miei compagni di scuola e di gioco, i miei divertimenti quotidiani, ma la decisione era stata presa e la dovetti accettare seppure a malincuore e seguire i miei familiari; in fondo capivo che il problema importante era trovare un sostegno di fronte alla malattia di mia sorella. Erano i primi giorni del mese di aprile del 1954. Affittammo un vecchio camion con rimorchio, simile a quelli che si usano oggi per il trasporto dei maiali, e vi caricammo quel poco che avevamo: una gabbia con due o tre galline, un vecchio tavolo, tre o quattro sedie sgangherate, una mésa, un piccolo buffet, delle fascine da utilizzare nel nuovo alloggio per scaldarci. Papà Guglielmo sedette in cabina con l'autista, mentre tutti noi ci accomodammo dietro nel rimorchio, seduti su delle fascine di legna in mezzo alla polvere e al freddo che entrava dalle fessure. Mariella allora aveva sette anni. Impiegammo quasi tre ore di viaggio per arrivare a destinazione a Cortemaggiore, in un podere chiamato "Travaccone", che era circondato da larghi canali d'acqua. Nel mese di giugno ci fu una violenta perturbazione atmosferica con forti temporali e noi ci ritrovammo la casa allagata, con oltre mezzo metro d'acqua dentro. Quando l'acqua si ritirò, lasciò nei locali un'umidità impressionante, fango e malta. L'alto tasso di umidità rendeva l'alloggio malsano. Restammo lì per sette mesi e poi ci trasferimmo a Felina di Fiorenzuola d'Arda, nel podere del signor Periti: per noi significò cadere dalla padella nella brace, perchè l'abitazione non era dotata di energia elettrica e per far luce utilizzavamo ancora candele e lanterne a petrolio, vivendo così nell'odore insopportabile del petrolio bruciato col fumo che anneriva tutti i muri. Ormai avevo 14 anni.

L'ADOLESCENZA Si può considerare terminata la mia adolescenza là dove oggi essa ha inizio, perché da quel momento, avevo 14 anni, iniziai a lavorare a tempo pieno con papà Guglielmo nella stalla ad accudire le mucche, contribuendo così al mantenimento della famiglia. A ogni uomo erano assegnate 10 o 11 mucche a testa per contratto, ma arrivammo a 13 o 14 con l'introduzione di alcune migliorie che alleggerivano le nostre mansioni. Mi alzavo ogni giorno molto presto, ancora in piena notte, alle due circa. Prima si puliva la stalla dal letame, poi si lavavano le mucche, quindi si riempiva la mangiatoia del fieno, si slegavano le mucche e si portavano a bere fuori dalla stalla dentro un'ampia e lunga vasca, l'èrbi, riempita con acqua pompata a mano, quindi si riportavano le mucche di nuovo in stalla e alla fine si procedeva alla loro mungitura a mano. E a questo punto, durante la mungitura, con la testa appoggiato all'animale, confortato dal suo tepore, succedeva che talvolta mi addormentassi. Verso le sei del mattino, terminata la prima parte della giornata lavorativa, si andava a dormire per due o tre ore, poi ci si alzava e si faceva colazione, quindi si riprendeva il lavoro andando a preparare il fieno o d'estate a tagliare l'erba medica per il pasto delle mucche, quello del pomeriggio e quello della notte. Nel pomeriggio, verso le quindici ricominciava il lavoro nella stalla, ripetendo le stesse attività svolte durante la notte: pulizia, somministrazione del pasto, mungitura. Finito il lavoro nella stalla, d'estate si andava a falciare l'erba. Generalmente ci coricavamo alle ventuno o alle ventidue; così almeno nei giorni feriali, perché crescendo d'età succedeva sempre più spesso che il sabato e la domenica non andassi nemmeno a dormire per raggiungere i miei coetanei in discoteca e, una volta rincasato, verso l'una o anche dopo, appesi gli abiti belli al chiodo e infilata la tuta, mi recassi subito in stalla a lavorare. Avrebbero dovuto essere gli anni più belli della prima gioventù, quelli in cui si comincia a capire e a prendere confidenza con il mondo che ci circonda, ma per me non furono anni sereni. Compresi che la stella che mi era stata assegnata in cielo non brillava molto; la sua luce era opaca anche nelle notti più limpide. Forse, anzi sicuramente, in quel periodo tanti altri ragazzi erano nelle medesime condizioni di vita, ma ciò non poteva essere una consolazione, poiché a ciascuno sta a cuore la propria sorte! Quasi tutti gli anni 1'11 novembre, in coincidenza con l'estate di San Martino, il santo protettore dei poveri disgraziati, si traslocava da un podere a un altro, sperando di migliorare le proprie condizioni di vita, ma in realtà andando spesso a peggiorare situazioni abitative già poco confortevoli. A 15 anni da Felina traslocai presso il podere del signor Carlo Affaticati, detto Barbis, a Chiaravalle della Colomba, paese d'origine della mamma, a lei molto caro per ricordi di gioventù e per affetti familiari. Abitavamo a duecento metri circa dal posto di lavoro; alloggio, pollaio, rifugio per topi, un habitat dove la

nostra casa aveva i muri costruiti con mattoni tenuti insieme con semplice terra al posto della calce. A Chiaravalle restammo per un anno, poi ci spostammo a Fontana Fredda, una frazione del Comune di Cadeo, presso il podere del signor Bisagni e lì restammo per ben tre anni. Dal signor Bisagni il lavoro era quello di sempre, da bergamino e bracciante agricolo. Mentre nell'industria il lavoro aumentava e si meccanizzava, in campagna il progresso era molto più lento: nelle cascine si continuava a lavorare con la forza delle braccia e un po' di arguzia. Anche il mio sviluppo fisico si adeguava a tali ritmi: crescevo molto lentamente. Per il trasporto di erba fresca dai campi alla stalla avevo a disposizione "un trattore a quattro zampe", cioè un cavallo, animale dotato per sua natura di grande intelligenza. Avevo 17 anni, pesavo circa 50 Kg. ed ero alto poco più di un metro e mezzo e tutti i giorni, quando era mio compito andare a caricare l'erba su un piccolo carro a due ruote, al tìbar, era il cavallo che mi chiamava per la "vestizione": dovendolo imbragare per il traino, la bestia abbassava la testa perché io, piccolo di statura, potessi più agevolmente infilargli al collo la collana. Un giorno imprecisato del mese di luglio del 1958, dopo aver trasportato il solito carico di erba dai campi, tornato a casa tolsi le briglie del traino al cavallo, ma non ero soddisfatto della posizione in cui avevo parcheggiato il carro, così sostituendomi al cavallo misi il timone del carro sulla mia spalla destra per spostarlo, ma la ruota prese un sasso che sbilanciò il timone. Questo scivolò giù dalla mia spalla provocandomi una lunga, ma per fortuna non profonda lacerazione di circa 35 cm. al braccio. Solo il diavolo sa come e perché nel timone si trovasse conficcato un chiodo, causa del mio infortunio! In quella calda e torrida giornata estiva, in assenza di mezzi veloci, partii ancora una volta con la mamma in bicicletta per l'ospedale di Fiorenzuola d'Arda, dove mi diedero una ventina di punti di sutura al braccio, e con lo stesso mezzo ritornammo a casa con una prognosi di venti giorni: un bel casino! Papà Guglielmo non riusciva da solo ad accudire il bestiame nella stalla, così dopo due o tre giorni mi unii alla mamma e ripresi il lavoro. Sporcizia, aria satura di gas vari, caldo e sfortuna causarono una grave infezione alla ferita di cui tuttora porto impresso il segno: una cicatrice a ricordo. Abitavamo a poche centinaia di metri da uno dei cantieri sorti per la realizzazione dell'Autostrada del Sole, pertanto passavo le poche ore libere dal lavoro andando a osservare quelle grosse macchine operatrici, possenti ruspe e scavatori, che spostavano montagne di terra. Eravamo nel 1957; adesso più nessuno farebbe caso a ciò che allora per me rappresentava più che un'attrattiva, un divertimento. Al diciottesimo compleanno, dopo cinque anni di lavoro, i genitori mi regalarono la mia prima bicicletta, una Legnano sportiva che conservo tuttora in buono stato. Più o meno in quel periodo insieme ad un amico decisi di andare a scuola di musica. E se quella fosse stata la mia strada?

A me piaceva tanto la fisarmonica, ma a causa dell'handicap al dito medio della mano sinistra, la già detta amputazione della prima falange, il maestro mi consigliò di imparare a cantare (ero ben intonato) e a suonare la chitarra, strumento che conservo ancora insieme ai libri di musica. Avevo 19 anni quando venimmo ad abitare in provincia di Parma e precisamente a San Rocco di Busseto, presso il podere del signor Annibale Bergamaschi, dove restammo per sette anni. Ero un ragazzo come tanti altri, ma con tanta voglia di fare, di conoscere, di affermarmi, anche se non avrei saputo dire in quale ambito. Mi domandavo spesso quale potesse essere il mio futuro, non avendo nessun titolo di studio e nessuna specializzazione. Ero costretto a lavorare nella stalla con mio padre, ma sognavo un futuro diverso e così cominciai a frequentare ambienti differenti: mi avvicinai a istituzioni quali il sindacato e il partito politico, allargai le amicizie, m'iscrissi a corsi serali d'istruzione e di formazione professionale, m'impegnai nel volontariato. Cercai di avvicinarmi a tutti quegli ambiti istituzionali e informali che potessero essermi utili ad accrescere e migliorare le mie capacità umane per affrontare la vita in pienezza. Ben presto compresi che con volontà e determinazione potevo migliorare la mia condizione lavorativa. Il lavoro nella stalla non era l'unico possibile; altri mestieri si stavano rendendo disponibili in settori differenti quali l'industria, la pubblica amministrazione; potevo permettermi di aspirare anche a un posto di lavoro come dipendente comunale. Allora non ero consapevole che in tale veste il lavoro che si va a svolgere dipende dalle direttive che possono mutare in base alla linea politica dell'Amministrazione Comunale in carica, direttive a volte tra loro contrastanti e talora non condivisibili, ma alle quali si deve sottostare, pertanto periodi felici di lavoro si possono alternare a momenti più difficili.

Quando ci trasferimmo nel 1959 in terra bussetana, io fino ad allora "nomade" non avrei mai pensato o sospettato di stabilirmi definitivamente in questa zona, di metter qui le mie radici. A Sant'Andrea, frazione di Busseto, mamma Viola disse di avere una cugina di primo grado, Pierina Copelli, sposata Pagani, che andammo a conoscere insieme ai suoi tre figli di nome Iole, Lino e Pierino, a me vicini d'età, con cui strinsi subito amicizia. Con il passar del tempo instaurai con questi cugini un legame sempre più stretto e confidenziale, condividendo con loro tempo libero e divertimento, allegre scampagnate in compagnia delle reciproche "anime gemelle" che nel frattempo avevamo già trovato.

LA GIOVINEZZA All'epoca si acquisiva la maggior età a 21 anni. Ero cresciuto, mi sentivo adulto, a 18 anni presi la patente di guida per i ciclomotori e mi comprai subito la Vespa 150. Era la mia prima grande soddisfazione. Cominciai così a frequentare nuove amicizie, nuovi ambienti: cinema, locali da ballo e così via, generalmente in compagnia. Fu insieme a mio cugino Pierino che decisi di collaudare la Vespa, o meglio di inaugurare il tanto desiderato bene. Così mi presi due giorni di ferie e con lui andai a trovare zio Armando che abitava a Novi Ligure. Fu una piacevole trasferta.

A 19 anni fui chiamato presso il Distretto Militare di Piacenza per sottopormi alla visita di leva per l'idoneità a svolgere il servizio militare, all'epoca obbligatorio per tutti i cittadini maschi; venni però esonerato, essendo considerato il capofamiglia, poiché papà Guglielmo era in pensione, mamma Viola era casalinga, mia sorella Rosanna era stata riconosciuta invalida a causa della sua malattia e Mariella aveva solo 12 anni.

Si dormiva poco e si lavorava molto. Non riuscivo a rassegnarmi a svolgere il duro lavoro della stalla che non mi piaceva, che non mi offriva sicurezza per l'avvenire, ma che per esigenze familiari in quel momento mi trovavo costretto a praticare. Nella primavera del 1961 le Ferrovie dello Stato del compartimento di Milano indissero due concorsi: il primo per l'assunzione di 800 operai-cantonieri, l'altro per l'assunzione di 340 operai-manovali. Non persi tempo e presentai subito domanda di partecipazione per entrambi. Ricevetti l'invito a presentarmi per sostenere la prova scritta e quella orale per i due concorsi.

Conseguii ottimi risultati nelle prove di entrambi i concorsi; il punteggio ottenuto era fra i migliori, ma non superai l'esame d'idoneità fisica, poiché alla visita medica emerse che avevo un difetto visivo, un'alterazione cromatica, un'anomalia nella percezione visiva. Un difetto visivo di cui nessuno si era fino allora accorto, irrilevante per il tipo di lavoro e di vita che conducevo, ma considerato importante e non ammissibile per l'attività che avrei dovuto svolgere. Mi crollò il mondo addosso. Avevo intensamente desiderato, creduto e sperato in un posto di lavoro in ferrovia, anzi mi ero illuso di averlo già ottenuto con il conseguimento di un'alta votazione agli esami scritti e orali. Ero andato a Milano ben cinque volte per sostenere gli esami, fra cui tre prove pratiche nei cantieri, sui binari dove erano in corso lavori di manutenzione straordinaria. Dovetti comunque a malincuore abbandonare il mio sogno di "riscatto". Misi il cuore in pace, ma solo momentaneamente: fu infatti una breve pausa. Per quanto la luce della stella assegnatami dal destino continuasse a mostrarsi alquanto offuscata, non mi rassegnai. Abbandonai anche la musica perché, nonostante suonare rappresentasse per me un bel divertimento, non dimostravo di aver doti tali da poter sperare in un avvenire da musicista e quindi ripresi a studiare altro. La Costituzione della Repubblica Italiana promulgata nel 1948 sanciva che l'istruzione era pubblica, gratuita e obbligatoria per almeno otto anni, ma la realtà per la maggior parte dei ragazzi italiani era ben diversa. Nel 1962 fu istituita con legge dello Stato la Scuola media unificata e in tale occasione fu organizzato in ambito comunale un Corso di aggiornamento di

Scuola Popolare di tipo C promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione. Il corso serale per giovani adulti della durata di un anno si teneva nella frazione di San Rocco di Busseto, dove abitavo. Da sempre la scuola esercitava su di me una forte attrattiva, pertanto m'iscrissi subito. Era l'anno scolastico 1962-1963; l'insegnante era la signorina Maria Rosa Orsi, con la quale ho sempre mantenuto buoni rapporti e che divenne moglie di un caro amico. Alla fine superai gli esami con il massimo dei voti. Il corso frequentato fu per me fonte di grande soddisfazione, colmava e completava un ciclo di studi interrotti mio malgrado per il conseguimento della licenza elementare, perché fino ad allora si esigeva solo quella per assolvere l'obbligo scolastico. A conclusione dell'anno scolastico organizzammo insieme all'insegnante e ad alcune sue amiche una gita a Venezia in pullman: una giornata indimenticabile!

Seguendo il famoso detto "Chi si ferma è perduto", sempre nella primavera del 1963 insieme a mio cugino e a due amici decidemmo di frequentare un corso al fine di ottenere la patente per la conduzione di generatori di vapore (caldaie industriali). Scelta impegnativa, ma possibile. Il corso si svolgeva a Fiorenzuola d'Arda. Ci impegnammo seriamente e, dopo un anno e mezzo di studio e due esami alquanto difficili, superammo la prova tutti e quattro. E qui devo aprire una parentesi per raccontare un fatto accaduto un tardo pomeriggio, dopo una seduta abbastanza impegnativa di una lezione teorica. Da poco tempo avevo comperato la mia "fuoriserie", la mitica Cinquecento a due posti, anche se riuscivamo ad entrarci in quattro; a turno dividevamo la spesa della benzina, pagandola una volta ciascuno. Eravamo nel mese di Ottobre, alle ore 19 circa, sull'imbrunire, e usciti dalla scuola per tornare a casa accendemmo i fari dell'auto. Chiacchierando tranquillamente del píù e del meno, ad un certo punto nello specchietto retrovisore all'interno della macchina due grossi fari puntarono una luce abbagliante dando fastidio alla guida, cosicchè da "bravo" autista innocente mi scappò una frase offensiva del genere: "Ma guarda quel... che tiene gli abbaglianti accesi". Mio cugino Pierino, che era seduto sul sedile

posteriore, all'insaputa di tutti si girò allora indietro e dal finestrino salutò l'autista che ci seguiva con un cenno non proprio carino, facendogli le corna con la mano. Noi continuammo la nostra chiacchierata tranquilla, ma dopo una ventina di secondi notammo in sorpasso un grosso autocarro rombante e con la freccia destra accesa, che cominciò a stringerci e ci obbligò a fermarci sul ciglio della strada. A questo punto le nostre menti si unirono in un solo pensiero: "Ma cosa vuole quell'autista?". In un batter d'occhio si aprirono le due portiere dell'autocamion con rimorchio, ne uscirono due uomini di grande stazza, frugarono sotto il sedile del mezzo, presero una grossa chiave a forma di stella e con fare violento si avvicinarono a noi seduti e ignari di tutto, quindi uno a destra e uno a sinistra con forza ci aprirono le portiere della Cinquecento e rivolgendosi a Pierino cercarono di tirarlo fuori con parole molto pesanti: "Le corna le fai a tua sorella e tua madre!". Tutti noi restammo fermi, impietriti, poi, vista la non reazione e le scuse da parte nostra, si calmarono e borbottando se ne andarono. Ricominciammo a respirare di nuovo, perché in quei momenti il cuore si era fermato, asciugandoci il sudore che nel frattempo, pur con la stagione fredda, ci aveva ricoperto. E' stata una bella lezione teorica, da brividi, e che può servire a tutti quando si viaggia per la strada a ricordare sempre che siamo in tanti e che c'è un codice stradale da rispettare. Quello era un grosso veicolo, di un corriere targato MC (Macerata), magari con ventiquattro ore di viaggio sulle spalle e con problemi che nessuno di noi può immaginare. Andò bene; un'avventura da ricordare e mettere in un cassetto; ancora oggi quando ci penso mi vengono i brividi, pensando a quanti casi dalla nostra ignoranza.

Chiusa la parentesi, il 10 novembre 1964 conseguimmo un certificato di abilitazione a condurre "generatori di vapore di II grado generale", rilasciato dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Il che significa che potevamo condurre generatori di vapore di qualsiasi tipo. Ora però servivano gli accertamenti di tirocinio, che riuscii ad avere non senza difficoltà dalle ditte Conserve Bussetane, SABIC (fabbrica di lavorazione del compensato) e dal Caseificio Sociale "Porta" di S. Rocco. Mi presentai presso varie ditte, dove potesse essere richiesta quella patente, ma le piccole aziende della zona in quel momento non necessitavano di una tale qualifica lavorativa e lasciavano la mia richiesta "in sospeso". Per trovare un posto di lavoro in tempi brevi, che valorizzasse la mia abilitazione, bisognava spostarsi nei grandi centri urbani, dove le grandi fabbriche erano più propense ad assumere personale specializzato. Aspettavo sempre una chiamata da ditte della zona, un invito a presentarmi che non arrivò mai. Continuai pertanto a fare il solito lavoro, finché papà Guglielmo andò in pensione per raggiunti limiti di età. Nel 1963 l'Istituto Autonomo Case Popolari (I.A.C.P.) mise a disposizione 12 appartamenti destinati a lavoratori agricoli, che potevano essere riscattati, cioè acquistati pagando la metà del loro valore in forma rateale in 25 anni, mentre l'altra metà godeva di contributi "a fondo perduto". Tramite il sindacato facemmo domanda e in base a leggi nazionali speciali allora in vigore e al punteggio ottenuto ci fu assegnato l'appartamento n. 1, all'epoca ancora in costruzione. Avendo vissuto per tanti anni in case fatiscenti, fredde e umide, senza energia elettrica e con poca legna a disposizione, per cui per scaldarsi si usavano frequentemente anche i gambi secchi della melica, i malgàss, l'assegnazione di tale alloggio ci sembrò l'inizio di una diversa vita in un nuovo mondo. Nel frattempo permaneva il problema di salute di Rosanna, che andava sostenuta e curata; non era possibile lasciarla sola. Mariella ormai era cresciuta e in età giusta da intraprendere un mestiere, pertanto provò a lavorare in proprio come magliaia. Comprammo una macchina per il confezionamento e la lavorazione d'indumenti a maglia, un'attività a quei tempi molto richiesta; così lavorando fra le mura domestiche Mariella poteva occuparsi anche di Rosanna. Dopo un paio di anni mia sorella abbandonò però l'attività per andare a lavorare come operaia in fabbrica: guadagnava di più ed era più tutelata dal punto di vista assicurativo e contributivo. Affrontammo il problema di salute di Rosanna girovagando per mezza Italia, contattando presidi sanitari pubblici e privati, raggiungendo qualsiasi luogo da dove ci pervenivano notizie di buona speranza, affidandoci anche alle credenze popolari. Ci recammo in visita da medici specialisti operanti presso gli ospedali della zona e presso gli ospedali delle città vicine di Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Cremona; ci spingemmo fino a Brescia, Torino, Arezzo.

In questa estenuante peregrinazione incontrammo anche i cosiddetti guaritori, i madgòn, persone spesso senza scrupoli, sempre pronte ad approfittarsi delle sfortune altrui. Alcuni di questi eccentrici personaggi meritano di essere menzionati, anche se nessuno di loro trovò una soluzione al problema di salute di Rosanna. Ci recammo da Mamma Rosa fuori Piacenza. Nel suo giardino aveva un pero che fioriva fuori stagione e ciò portava a credere che la donna avesse poteri di guarigione; molte persone della zona si recavano pertanto da lei. Ospitammo a casa nostra una signora di Verolanuova (Brescia), di cui mi sfugge il nome e che per tre giorni buttò all'aria tutte le stanze, svuotando- materassi e cuscini delle piume per cercare nodi, croci o altri feticci, indizi di un malefico sortilegio quale causa principale della sindrome comiziale di cui Rosanna soffriva, ma non concluse nulla, così capimmo che il suo darsi da fare altro non era che una farsa. Ci recammo da un prete esorcista a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, in piena estate con la Fiat Cinquecento appena comprata, priva di climatizzatore (all'epoca solo le auto di lusso ne erano dotate); eravamo in quattro persone a bordo per un lungo tragitto in autostrada, con un caldo soffocante! A Torino raggiungemmo un altro esorcista, sempre senza esito. Numerosi furono i personaggi di questo tipo da noi incontrati, ma nessuno di loro riuscì a trovare una soluzione per Rosanna. Spendemmo tantissimi soldi in viaggi e in spese mediche, sprecammo anche tanto del nostro tempo in ore di lavoro perse. Intanto Rosanna continuava a essere colpita da attacchi epilettici molto forti, per cui accanto a lei era necessaria la presenza continua di un familiare pronto ad assisterla in caso di crisi. Nemmeno il dottor Braibanti, un medico molto conosciuto e stimato in zona per la sua alta professionalità e competenza, che allora prestava servizio presso l'Ospedale di Fiorenzuola e presso cui Rosanna fu in cura per due mesi e mezzo, riuscì a trovare una terapia efficace. Noi non ci arrendemmo, non abbandonammo mai la speranza che la medicina prima o poi riuscisse a trovare il giusto rimedio per questo tipo di malattia, nonostante gli insuccessi delle cure mediche fino ad allora effettuate.

Per tre anni consecutivi Rosanna accompagnata una prima volta da Mariella, poi da mamma, andò in pellegrinaggio al Santuario di Lourdes insieme con altre persone di Busseto. Nel corso del terzo pellegrinaggio un pomeriggio mia sorella si trovava in camera quando fu colpita da una crisi epilettica e cadde a terra; in diversi accorsero per assisterla, ma mentre cercavano di sollevarla, lei aprì gli occhi e disse: "Lasciami stare, mamma; mi alzo da sola". Il giorno dopo in chiesa ebbe un'altra crisi del tutto simile e anche a una delle suore di Busseto che accompagnavano i malati, accorsa per assisterla, ribadì la stessa frase: "Suora, mi lasci stare, mi alzo da sola". Non era mai successo che Rosanna avesse rifiutato l'aiuto altrui e volesse rialzarsi per conto proprio; sembrò un buon segnale, ma le crisi continuarono. Questi fatti accaduti in pellegrinaggio furono raccontati dalla mamma e da chi era presente al loro ritorno. Furono anni molto difficili e pesanti, considerando che dovevo sempre lavorare nella stalla col papà, accompagnare mia madre e mia sorella alle varie visite, spostandomi in continuazione. Non era facile gestire una situazione così pesante, soprattutto perché Rosanna ormai adolescente voleva essere autonoma, frequentare con assiduità e liberamente le sue amiche. In casa era un conflitto continuo: la mamma, apprensiva, non voleva che Rosanna uscisse da sola e lei e Mariella si sentivano in dovere di accompagnarla ovunque andasse. Un giorno papà Guglielmo, che era solito andare a bere il suo bicchiere di Barbera in Cooperativa a Busseto in via Vitali, si mise a parlare con la signora Carla che gestiva il bar dei disturbi di Rosanna. Venimmo così a sapere che anche lei soffriva della stessa malattia, anche se in forma più leggera, ed era in cura da un medico di Piacenza, un neurologo di nome Ettore Valdini. La signora Carla si offrì subito gentilmente di accompagnarci da lui. Dopo un'accurata visita il dottor Valdini prescrisse a Rosanna il Tegretol, un farmaco antiepilettico che nessun medico fino ad allora le aveva ordinato. Mia sorella cominciò ad avere attacchi epilettici sempre meno frequenti, anzi pian piano a distanza di qualche mese le crisi scomparvero del

tutto, inoltre i controlli sull'assunzione del farmaco non rilevarono controindicazioni. Finalmente, dopo tanto tempo eravamo usciti da un incubo! Quale sollievo dopo diciotto anni di sofferenze, di peregrinazioni, di disagi! E questo valeva per tutti, ma specialmente per mamma Viola che fin dall'infanzia aveva vissuto una vita alquanto tribolata. Rosanna conobbe un bravo ragazzo, se ne innamorò e dopo alcuni anni lo sposò, diventando poi madre di un bel maschietto. Tuttora continua ad assumere questo farmaco che le permise di riprendersi in mano la propria vita: benedetta medicina! Dopo tanti sacrifici, finalmente arrivò il 1964, un anno per me ricco di avvenimenti: mi comprai l'automobile, una FIAT Cinquecento; conobbi una signorina mora di capelli, di nome Rita; venimmo in possesso delle chiavi dell'appartamento IACP assegnatoci a Busseto, in via Debussy n. 2.

Mi sembrava di vivere un sogno. Disporre di un'automobile fu una soddisfazione indescrivibile, sia per me che la guidavo che per tutti in famiglia. Ormai era diventata un mezzo indispensabile, considerato che abitavamo a sette chilometri circa dal paese e dovevamo affrontare tanti viaggi per curare Rosanna. Era un'auto seminuova, di colore grigio; azzurro, che acquistai presso la concessionaria Fiat di Fidenza, dove lavorava un mio amico, Franco Schiaretti.

Rita, una graziosa giovane dai bei capelli mori, abitava a San Rocco a poche centinaia di metri da casa mia e lavorava nei campi dello stesso datore di lavoro, il signor Annibale Bergamaschi; cominciammo a frequentarci e poco tempo dopo ci innamorammo.

Entrammo nel nuovo appartamento l'11 novembre 1966, abbandonando definitivamente il lavoro nella stalla. Anche Rita si trasferì nella periferia di Busseto insieme alla sua famiglia. Dopo circa un mese trovai un posto di lavoro come operaio vicino a casa, alla M.I.E.S., una fabbrica di Busseto dedicata alla produzione e alla lavorazione della ceramica. Tale ditta in quel periodo stava assumendo molto personale, così anche Rita e Mariella entrarono in fabbrica come operaie. Io ero stato assegnato a un reparto dal lavoro molto pesante, che si svolgeva in mezzo all'acqua, con enormi sbalzi di temperatura tra l'interno e l'esterno, con umidità e gas provenienti dagli essiccatoi che toglievano il respiro, con polveri sottili molto pericolose per la salute (c'era il rischio di ammalarsi di silicosi), ma al momento il lavoro era quello. Restai alla M.I.E.S. quasi sette anni, sperando sempre di trovare un posto migliore. Nell'anno scolastico 1970-71 mi si presentò l'opportunità di completare gli studi del cosiddetto obbligo scolastico. Il Ministero della Pubblica Istruzione istituì a Busseto, su iniziativa della Scuola Media Statale di Soragna, un corso serale per il conseguimento del diploma di licenza di Scuola Media. M'iscrissi subito e così il 25 giugno 1971 ottenni il prezioso diploma. Gli anni Sessanta del secolo scorso, quelli della giovinezza, furono comunque un periodo bello, per i momenti spensierati trascorsi con la fidanzata e con i miei cugini, per la fiducia nell'avvenire. Un giorno inaspettatamente Lino e Pierino ci comunicarono la decisione di sposarsi e di trasferirsi con le loro consorti ad Alessandria, dove insieme avrebbero aperto un'attività commerciale di vendita di generi alimentari; tale opportunità lavorativa era stata loro offerta da un conoscente, un certo signor Rossi, esperto del settore. I rapporti con loro rimasero comunque stretti. Quando i suoceri di Pierino, che abitavano a Bersano, un paese della campagna piacentina a pochi chilometri da Busseto, e che non avevano nè patente nè automobile non riuscivano più a contenere il desiderio di far visita alla figlia, bastava incontrarli e con un semplice sguardo d'intesa si stabiliva di accompagnarli ad Alessandria. In occasione di una di quelle visite, che feci con Rita, al nostro arrivo decidemmo con Pierino e sua moglie di compiere in giornata una gita al mare. Arrivammo in prossimità di Savona, a poco più di un'ora di distanza da Alessandria, parcheggiammo l'automobile sul lungomare e corremmo subito in spiaggia. C'erano pochissime persone; il blu e l'immensità del mare giocarono su di noi un'attrattiva irresistibile, ma non avevamo portato i costumi; fu così che io e Pierino ci arrotolammo i pantaloni fino alle ginocchia per andarci almeno a bagnare i piedi. Improvvisamente arrivò un'onda anomala, che ci tolse la sabbia sotto ai piedi; Pierino cadde e fu subito travolto da una seconda onda. Nessuno di noi sapeva nuotare, ma per fortuna fui abbastanza svelto da afferrargli un braccio ed ebbi la forza di tirarlo a riva. Passato lo spavento, ci ritrovammo con tutti gli abiti bagnati, che un caldo sole provvide presto ad asciugare. Di quell'avventurosa

giornata è rimasto nel nostro lessico familiare il detto "Pierino, sempre Pierino", con cui ci trastulliamo a ricordare e a canzonare bonariamente, prendendo spunto dal famoso personaggio delle barzellette. Dopo circa sette anni di fidanzamento Rita ed io decidemmo finalmente di sposarci: io avevo 31 anni e Rita 27. Così il 17 ottobre 1971 iniziammo un lungo cammino di vita comune. Nella foto è immortalato l'importante evento celebrato nella Chiesa di Spi-garolo di Busseto con gli sposi al centro, tra i rispettivi genitori.

Dopo la cerimonia religiosa gli invitati si portarono in un noto ristorante di Cortina di Alseno, presso il quale furono scattate le istantanee di rito, in primis quella di Rita e Nello.

Nel mese di Agosto comprai una NSU Prinz nuova. D'accordo con la famiglia l'usammo per il viaggio di nozze: l'iniziale meta era l'isola di Capri, ma alcuni

nostri conoscenti ce la sconsigliarono per i frequenti furti e gli atti vandalici alle macchine di cui loro stessi erano stati vittime, così la preoccupazione di preservare indenne l'auto ci portò a scegliere come destinazione la bella Toscana: Firenze, Pisa e tutta la Versilia. Rita ed io ci sposammo consapevoli di dover restare in famiglia per un certo periodo; avevamo infatti trovato la disponibilità di un appartamento in affitto nel centro storico del paese, in via Pasini, di proprietà del signor Gino Gelmetti, che era in ristrutturazione, per cui dovemmo aspettare sei mesi prima di entrarci. Nel frattempo visitammo alcuni mobilifici, poi tramite un'amica di mamma conoscemmo un giovane che vendeva mobili per conto della Ditta Ricci di Ciano d'Enza, in provincia di Reggio Emilia, ancor oggi uno dei più riforniti e migliori store della zona; lì ci servimmo spendendo poco e trovando mobili di buona qualità per cucina, camera da letto e sala. Quel giovane dopo alcuni anni aprì una propria rivendita di mobili a Noceto denominata Guber Arredamenti, acronimo del proprio nome Guido Bertolini, e divenne per' una decina d'anni un caro amico che purtroppo, ammalatosi, ci ha lasciati troppo presto; tuttora la moglie porta avanti l'azienda con il suo nome. Nell'aprile 1972 entrammo a "casa nostra", nell'appartamento di via Pasini. Terminato il trasloco, dopo qualche giorno di relax, arrivò da Rita la bella notizia che aspettava un bambino. Benissimo, era ciò che desideravamo! I mesi della gravidanza trascorsero serenamente; Rita preparava con cura tutto l'occorrente per il lieto evento. Un sabato di una fredda serata invernale, erano le ore venti circa, Rita cominciò ad avere le prime doglie; chiamai l'ostetrica e partimmo subito per l'ospedale di San Secondo; sulla strada c'erano circa venti cm. di neve. La visita ginecologica risultò regolare, ma le doglie continuarono fino al giorno dopo; il bimbo non voleva saperne di uscire allo scoperto. Finalmente alle cinque del pomeriggio di Domenica 4 febbraio 1973 venne alla luce un bel maschietto, che chiamammo Lorenzo.

Furono momenti preoccupanti e nello stesso tempo gioiosi e pieni di speranza. Nell'attesa tanti pensieri mi frullavano per la testa e fra essi un dubbio assillante: "Andrà tutto bene?", finché si aprì la porta della sala parto e si presentò il ginecologo dottor Enore Gotti con una battuta scherzosa: "Ritèn è stata brava, tutto a posto". Sospirai di sollievo non tanto perché la pena dell'attesa era terminata, ma soprattutto sentendo che Rita, dopo ben venti ore di travaglio, e il bambino erano sani e salvi. Durante l'astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, poichè Lorenzo cresceva abbastanza bene, decidemmo insieme che sarebbe stato bene che pure Rita prendesse la patente, così s'iscrisse a scuola guida: fu per lei un impegno gravoso, ma riuscì nell'impresa, anche se la concluse con qualche chilo in meno.

LA MATURITÀ — VITA NUOVA Il 1973 oltre alla nascita di nostro figlio fu un anno molto importante per noi, perché il Comune di Busseto aveva deciso di assumere operai di varie categorie, così mi presentai al concorso confidando di avere buone probabilità di successo. Infatti, il 1° febbraio del 1974 fui assunto come operaio addetto alla custodia degli impianti sportivi. Era un posto di lavoro che avevo tanto desiderato, cercato e voluto con tutte le mie forze. Non avendo alcun titolo di studio di scuola superiore era difficile ambire a un posto di lavoro nel settore pubblico, che rappresentava uno stipendio garantito, pertanto non potevo lascíarmí sfuggire una tale opportunità. In questo frangente devo molta gratitudine a Walter Paniceri, uno stimato politico bussetano che ha creduto in me, mi ha incoraggiato a fare domanda, ma che non ho potuto ringraziare come avrei voluto perché di lì a poco morì. Lo stipendio iniziale da dipendente comunale era un po' basso rispetto a quello percepito come operaio in fabbrica, ma ero comunque contento perché lavoravo fuori, all'aria aperta presso i nuovi impianti sportivi di Busseto, in un contesto gradito. Mí sentivo davvero soddisfatto perché lo sport in generale a me piaceva tanto, in più si rivelò un ambito dove potei stringere ottimi rapporti di collaborazione e di amicizia. Eccomi nella foto con un gruppo di dipendenti comunali dell'epoca.

Fin da subito potei contare sul sostegno e sulla cooperazione del signor Leopoldo Remondini, che già conoscevo, anch'egli impiegato comunale, Direttore responsabile degli impianti sportivi, una persona precisa, meticolosa, molto competente nel suo settore, con diversi incarichi anche fuori dall'ambito lavorativo, fra cui quello di arbitro di Pallavolo e giudice internazionale di Atletica leggera. Persona assai disponibile e collaborativa, era impossibile non andare d'accordo con lui; ben presto egli m'insegnò i vari segreti che riguardavano il lavoro e tutte le regole dei diversi sport, sia quelli che si praticavano in loco che altri ancora. Entrambi dovevamo ottemperare alle direttive dei vari Assessori allo Sport e, poiché le direttive delle varie Giunte comunali che si succedettero nel corso dei miei vent'anni di servizio erano talvolta contrastanti al loro interno e con le precedenti, i problemi certo non mancarono.

Io e Remondini andammo in pensione a pochi anni di distanza l'uno dall'altro, ma continuammo a collaborare come volontari con le Società sportive, alle quali in seguito fu data la manutenzione e la custodia degli impianti sportivi, tutte le volte che la nostra esperienza era ritenuta utile ed era richiesta: dov'era lui c'ero anch'io. Insieme e grazie a lui conobbi anche moltissimi personaggi sportivi di alto livello professionale di diverse discipline e categorie: atleti e dirigenti ancora oggi in auge. Nel corso di tutti i miei vent'anni di lavoro Leopoldo Remondini fu per me un sostegno, un riferimento, un amico: Poldo, così da tutti era conosciuto e chiamato, ci lasciò il 14 settembre 2012; di lui conservo un ricordo profondo e mi ha lasciato un vuoto incolmabile. Nato nostro figlio, acquisito un sicuro e gratificante posto di lavoro, Rita ed io ci prefiggemmo come ulteriore obiettivo una casa davvero "tutta nostra", ovvero un'abitazione di proprietà. Cominciammo a fare qualche sacrificio e a mettere da parte un po' di soldini. Lorenzo aveva appena compiuto due anni quando venne ricoverato all'ospedale per un'asma bronchiale, una patologia frequente e non allarmante in bambini della sua età, così la pediatra ci consigliò un soggiorno al mare. Al ritorno dal mare, Rita, quale mamma molto attenta e sensibile, si accorse che Lorenzo dava segnali di stanchezza nel salire le scale; ne parlammo col nostro medico che prescrisse una radiografia a seguito della quale Lorenzo fu ricoverato all'ospedale di Fidenza, per poi essere trasferito dopo una settimana al Maggiore di Parma nel reparto di chirurgia infantile. Diagnosi: tumore intercostale tra la seconda e la terza vertebra. Apriti cielo! Il mondo ci crollò addosso. Dopo aver ricevuto il dono di un figlio il destino volle subito metterci alla prova con questo enorme dispiacere. Il primario Professor Caccia ci invitò nel suo studio, cercò di spiegarci la situazione e la necessità di un intervento chirurgico. Fu un momento veramente drammatico; il medico mise i documenti sanitari sul suo tavolo e ci disse: "Pensateci, ma non c'è altra strada da seguire". Firmammo i documenti necessari a dare il nostro consenso all'intervento, con il pensiero rivolto al buon Dio. Lorenzo entrò in sala operatoria alle ore dieci. Attendemmo ben sette ore nel corridoio antistante al reparto della sala operatoria; il nostro amico mobiliere, Guido Bertolini, era con noi. Dopo una lunga, interminabile attesa finalmente si aprì una porta, apparve il chirurgo che mi chiamò dentro, mi mostrò un piattino con sopra una specie di uovo senza guscio e disse: "Questo è quello che aveva suo figlio". Non ricordo più cosa disse o accadde dopo, ma ho solo vivo il ricordo dell'espressione rassicurante che lessi sulle sue labbra. Lorenzo restò ricoverato ancora una ventina di giorni dopo l'intervento. Quella specie di "uovo senza guscio" fu addirittura mandato a Parigi per essere analizzato, così disse il primario. L'esito delle analisi arrivò dopo due lunghissimi mesi. Non trovo le parole per descrivere quale fosse nel frattempo lo stato d'animo mio e di Rita, di noi genitori. Il risultato delle analisi fu "ganglioneuroblastoma"; non erano

necessarie ulteriori cure, ma solo un attento monitoraggio, per cui ogni sei mesi per quasi dieci anni Lorenzo fu sottoposto a controlli consistenti in esami clinici, che per fortuna risultarono sempre negativi. Passarono gli anni, Lorenzo cresceva bene, bello e sano. All'età di 18 anni arrivò anche per lui la cartolina di chiamata alla leva per svolgere il Servizio Militare. Ritornammo in ospedale per acquisire la certificazione sanitaria attestante l'intervento subito e le valutazioni in merito ad un eventuale esonero dal servizio militare. Ci trovammo di fronte il dottor Ghillani, che aveva fatto parte dell'équipe medica che aveva eseguito l'intervento e che nel frattempo era diventato responsabile del reparto, sostituendo il professor Caccia trasferitosi all'ospedale di Brescia, con molto rimpianto da parte dei suoi pazienti. Ghillani insieme alla caposala verificò la documentazione inerente l'intervento; entrambi si ricordarono di quel bel bimbo biondo, così carino, che la stessa caposala amava tener in braccio mentre distribuiva i pasti ai degenti. Il dottore ci guardò in faccia, poi dette una pacca sulla spalla di Lorenzo per rassicurarlo ed esclamò: "Vai pure a fare il militare, non ci sono problemi". Nostro figlio portò tutta la documentazione al Distretto Militare di Piacenza, dove fu comunque esonerato dal prestare servizio militare. Lorenzo si dedicò allora con più tranquillità allo studio, diplomandosi in Ragioneria. Messo di fronte alla scelta se continuare gli studi o cercarsi un lavoro, Lorenzo, con nostra grande soddisfazione, decise di proseguire a studiare. Insieme ad un amico s'iscrisse all'Università, laureandosi poi in Economia Aziendale. Giunti "nel mezzo del cammin di nostra vita", laddove si esce dagli enta e si entra negli anta, organizzammo il primo pranzo dei quarantenni della classe 1940 a Bacedasco, al Ristorante da Rino. Ancora oggi, e speriamo ancora per molto tempo, ogni cinque anni ci ritroviamo insieme. Guardo oggi questa foto scattata nel 1980 con un certo rimpianto per chi non è più fra noi; eravamo proprio un bel gruppo di persone serie e gioviali.

Nel 1980 un'altra tegola cadde dall'alto sopra le nostre teste: Piero, fratello di Rita, al quale lei era molto legata, perse la vita in un incidente col proprio autocarro. Il dispiacere fu talmente forte che Rita cadde in depressione, per cui le fu prescritta dal nostro medico una cura ricostituente somministrata tramite iniezioni endovenose. Si usavano ancora le siringhe di vetro con gli aghi da immergere in acqua bollente per la loro sterilizzazione; si suppone che fu proprio in tale circostanza, a causa di una disinfezione mal riuscita, che Rita contrasse l'epatite, una malattia seria che, se non curata, può degenerare in cirrosi con prognosi nefasta. Successivamente Rita dovette affrontare pesanti cure farmacologiche e ancora oggi deve sottoporsi due volte all'anno ad esami di controllo poiché dall'epatite difficilmente si guarisce. Nel frattempo lo stato depressivo e malesseri vari costrinsero Rita ad abbandonare il lavoro in fabbrica per le troppe assenze. Nel 1982 Rita trovò lavoro come domestica presso la signora Bergamaschi, farmacista, nostra conoscente e amica di famiglia. Era un'attività meno pesante del lavoro in fabbrica, ma anche meno retribuita, pertanto la meta che c'eravamo prefissati di acquistare casa sembrava allontanarsi. La particolare situazione socioeconomica in cui versava all'epoca il nostro Paese venne però in nostro aiuto. In quel periodo infatti la svalutazione della lira era molto forte, pertanto i risparmi investiti davano alti interessi. La voglia di raggiungere l'obiettivo "casa" era tanta, era troppa e, sebbene non avessimo soldi abbastanza, ci buttammo nell'avventura rischiando un po', ma quando si è giovani determinati e fiduciosi si può osare e arrivare. Erano i primi anni Ottanta, l'impresa edile del signor Maurizio Mora stava costruendo una palazzina di quattro appartamenti in via Mozart, vicino al campo sportivo, sull'ultimo lotto di terra rimasto in zona. Ci pensammo un attimo, o

forse più, e convinti di farcela trattammo l'affare. Perdemmo qualche ora di sonno, ma ne valse la pena. Nel giro di tre anni ci liberammo delle varie preoccupazioni e il 4 novembre del 1984 entrammo a casa "nostra", portando con noi un buon ricordo della famiglia Gelmetti presso la quale eravamo rimasti con contratto d'affitto per ben dodici anni, abitando nell'appartamento sovrastante il loro. Avevo seguito per un paio d'anni, giorno dopo giorno, dall'inizio alla fine, i lavori di edificazione della palazzina nella quale sarei andato ad abitare. Non furono anni privi di dispiaceri: nel 1983 venne a mancare dopo breve malattia papà Guglielmo; nel 1992 morì Nella, la mamma di Rita, anche lei per malattia, ma con decorso più lungo. Nessuno dei due era riuscito a vedere la nostra casa ultimata. Negli anni Ottanta ho avuto la fortuna di conoscere un grande artista del pennello e della spatola, Giancarlo Pizzelli, un Bussetano D.O.C. In verità l'avevo conosciuto anni prima, quando lavorava come muratore, poi la pittura, che per lui era inizialmente un hobby, svolta via via con sempre maggior impegno ed entusiasmo divenne la sua principale attività, che lo portò ad affermarsi come artista, a tal punto da essere stato giudicata dalla critica "il Ligabue della Bassa", "il pittore del Po", famoso per i suoi dipinti di barche e di lanche del Grande Fiume.

I suoi quadri iniziarono a esser valutati fior di milioni di lire. Eravamo diventati talmente amici io e Giancarlo, che tutti i giorni, accompagnato dall'inseparabile cane boxer durante la sua passeggiata giornaliera, si fermava al campo sportivo per fare quattro chiacchiere, aggiornarsi delle notizie sportive e non solo. Era un "grande" nella sua arte: pieno di fantasia e d'iniziativa arrivò a progettare una statua ad altezza naturale di Padre Pio e a realizzarla con polvere di gesso, calce e scarti di materiale edilizio. Pian piano cominciò a imbastire il telaio interno con scarti di materiale metallico e di legno, che io stesso gli procuravo; poi, usando cazzuola e spatola, con pazienza lo riempiva e lo modellava. Così, giorno dopo giorno seguivo lo sviluppo del suo capolavoro, che dopo mesi di impegno Giancarlo riuscì a finire con grande entusiasmo. Si trattava per l'appunto della scultura che rappresentava Padre Pio da Pietrelcina (1887-1968), proclamato poi Santo il 16 giugno 2002 in piazza San Pietro da papa Giovanni Paolo II,

realizzata dal Nostro il 2 Maggio 1999, come si può notare con anticipo profetico sui tempi della canonizzazione. Terminata l'opera, occorreva trovare alla, statua una degna sede. Pizzelli aveva inizialmente offerto il manufatto per la sua esposizione alla Chiesa Collegiata di Busseto, ma la sua proposta fu declinata e allora gli venne concessa l'opportunità di collocarlo nella Chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli a disposizione dei fedeli in preghiera. Un gruppetto di amici si prestò per trasportare l'opera dall'abitazione dell'artista alla Chiesa. La sistemammo sopra un carrettino gommato, che trainammo a piedi con molta attenzione, sostenendo la statua con le nostre braccia perché rimanesse in posizione eretta lungo tutto il tragitto, poi la posizionammo dove ancora oggi si trova, all'ingresso della Chiesa, nella navata di sinistra, poco prima della Cappella di S. Antonio da Padova. Nella foto è immortalato il momento della posa da parte dei collaboratori di Giancarlo.

Non so se ci sia un nesso tra la realizzazione della statua religiosa e il fatto che dopo pochi mesi Giancarlo, "il Van Gogh della Bassa9”, un altro appellativo con cui era chiamato, salì in cielo, lasciando quaggiù una valanga di dipinti del suo amato territorio, quadri che troviamo appesi in molte case del nostro paese, tuttavia questi eventi presentano una singolare concomitanza. Aveva da poco ricevuto a San Marino il "Nobel per la pittura —Anno 1983" da parte dell'Associazione artistica "Amici del Quadrato — Sezione Emilia Romagna", che aveva pure provveduto a segnalare il suo nominativo per l'assegnazione degli Oscar alla Biennale di Venezia, dopo aver anche ottenuto fra i

vari riconoscimenti il "Cesare d'oro" con diploma e statuetta in oro assegnatogli dal Comitato Direttivo della "Gazzetta Europea", un periodico indipendente di pubbliche relazioni che premia ogni anno artisti affermati in ambito nazionale. Siamo al 1984. Erano trascorsi ormai dieci anni dall'assunzione presso il Comune di Busseto come operaio addetto alla custodia degli impianti sportivi, un lavoro nel quale dovevo dipendere dalle direttive dei politici ed ero tenuto a collaborare con numerose persone che non la pensavano sempre allo stesso modo. Svolgevo un servizio impegnativo: sabati, domeniche, festività non esistevano più; dovevo essere continuamente a disposizione per le diverse attività e manifestazioni sportive e non solo. Finii anche nell'album dello sport bussetano, divenni anch'io una figurina Panini, il che mi onora molto. Mancavano però adeguate attrezzature e così gran parte del lavoro comportava grande fatica. Ad esempio, il taglio dell'erba per

la manutenzione dei quattro campi e di parte del verde pubblico era effettuato con la motofalciatrice BCS, una delle prime immesse sul mercato, ma la raccolta dell'erba medesima doveva poi essere effettuata a mano con il rastrello. Solo nel 1985 fu acquistato un trattore, che oltre ad eseguire il taglio era provvisto di una spazzolatrice raccoglitrice del verde. Fra le varie incombenze dovevo anche provvedere alla pulizia degli spogliatoi. Nello svolgimento di tutte queste mansioni (pulizia dei locali, raccolta a mano del verde) veniva spesso in mio soccorso Rita, che ringrazio ancora oggi per il prezioso aiuto: ella, nonostante lavorasse in fabbrica, accudisse alla casa, seguisse nostro figlio e provvedesse a molte altre faccende familiari, trovava sempre il tempo per darmi una mano. Nel periodo 1970-80, anche grazie alla diffusione sui mass-media dei successi sportivi del prodigioso Bijorn Borg, giovane vincitore del torneo di Wimbledon, e dei nostri campioni nazionali Adriano Panatta e Lea Pericoli, fu molto attiva a Busseto la Società del Tennis Club. Per giocare nel campo comunale era necessario prenotarsi almeno quindici giorni prima; venivano organizzati dai tre

ai quattro tornei all'anno che si svolgevano fino a tarda notte; il campo in terra battuta necessitava di molta manutenzione, data la frequenza del suo utilizzo. Dai vari Amministratori comunali succedutisi in quel periodo nei momenti di maggior impegno lavorativo trovavo poca comprensione ed aiuto; anzi molti giorni ero chiamato a coadiuvare gli altri operai comunali (meccanici, muratori, spazzini) in officina o in lavori di idraulica, manutenzione edile, scavi e pulizie urgenti. Dovevo occuparmi da solo della manutenzione e della pulizia di quattro campi da calcio, tre campi da tennis (erano nel frattempo aumentati), quattro spogliatoi. Spesso non contavo più nemmeno le ore di lavoro, non conoscevo più tempo libero. Facendo un raffronto con allora, faccio solo notare che adesso vi sono quattro macchine per tagliare l'erba e tre persone in servizio! Il lavoro mi piaceva comunque tantissimo, perché ero a contatto con bambini, ragazzi, giovani di ogni età e con le loro famiglie, impegnati in attività sportive ora ludiche, ora agonistiche che si svolgevano all'aria aperta; insomma mi sentivo parte di una grande famiglia allargata. Insieme a "Mondina" vivevo il mio lavoro come una missione. Riporto l'affettuoso necrologio comparso sulla "Gazzetta di Parma" quando l'animale venne a mancare. "Arrivò di prima mattina presso gli impianti sportivi una quindicina d'anni fa.

L'adottò il custode Nello Rieti e poi tutti i ragazzi che frequentavano il campo sportivo. L'hanno chiamata Mondina forse perché si era affezionata in particolare ad Edmondo Grandini uno dei più assidui frequentatori dello stadio. Poi con l'inverno Nello se l'è portata a casa e Mondina è sempre stata la cagnetta del campo sportivo amica di tutti. E questo fino a qualche giorno fa quando un automobilista l'ha investita e uccisa". Ho visto crescere intere generazioni: ragazzi, che a loro volta divenuti adulti e poi genitori, accompagnavano i figli a giocare e ad allenarsi. E’ stata un'attività che mi ha regalato tante belle emozioni, preziosi incontri umani. Vorrei ringraziare tutti, dico davvero tutti, per la collaborazione ricevuta: dirigenti, Società sportive, atleti e genitori. Ben presto mi accorsi di lavorare in un ambiente stimolante e interessante perché lo sport è vita, salute e sviluppo di amicizie sia tra gente locale sia tra persone di diversa provenienza geografica ed estrazione sociale. Lavorando

in mezzo a tante persone, così differenti fra loro, è necessario essere dotati d'infinita pazienza, ma sono immensamente contento per aver vissuto trentacinque anni in un ambito lavorativo così ricco di umanità e sono soddisfatto di essere riuscito a mantenere con tutti buoni rapporti. Non posso nascondere la soddisfazione di aver visto crescere i tre campioni olimpionici bussetani Paolo Scaramuzza, Fabrizio Tosini e Samuele Romanini, anche se la disciplina sportiva in cui si sono poi affermati, ossia il Bob, non è praticata nei nostri impianti sportivi, inoltre rimane ancora in me la gioia provata nel ricevere i loro saluti da alcune delle importanti località in cui hanno disputato le gare.

Sempre a proposito di personaggi speciali dell'ambiente calcistico a cui ho avuto l'onore di stringere la mano, non posso scordare Federico Rossi,

Bussetano doc che dal settore dilettantistico è poi direttamente approdato alla serie A (Fiorentina, Avellino, Udinese) e ha giocato in tante altre squadre della serie B. Un Antonio Cassano in serie A col Bari ancora giovanissimo e già allora con un caratterino speciale è venuto a Busseto, dove ha disputato nel nostro impianto un'amichevole; con lui però non mi è stato possibile intrattenermi, perché è salito subito dopo sul pullman con le cuffie della radiolina alle orecchie. Un altro personaggio che ha gareggiato nei nostri impianti sportivi e ho avuto l'onore di conoscere è stato il saltatore in alto Giordano Ferrari di Salsomaggiore,

nel 1975 primatista italiano con 2,20 m. e medaglia d'oro ai Giochi del Mediterraneo con 2,16 m.

Eccolo in esibizione a Busseto il 15 Settembre 1973 nel corso dei Campionati Regionali di Atletica Leggera e alle premiazioni con il suo più agguerrito avversario, Rodolfo Bergamo. Intanto il pensionamento si avvicinava velocemente e sempre più spesso mi ritrovavo a riflettere su come avrei occupato il tanto tempo libero che avrei avuto a mia disposizione.

Il 1° febbraio 1994, dopo venti anni trascorsi a lavorare come dipendente comunale, con un po' di rammarico per dover lasciare la grande famiglia sportiva cui mi sentivo di appartenere, andai in pensione, che come si vede nella foto festeggiai alle Roncole presenti il Sindaco di Busseto Giorgio Cavitelli e il Presidente della squadra di calcio Carlo Boreri, ma per mia fortuna lasciai solo "ufficialmente" l'attività. L'Amministrazione Comunale di allora decise di appaltare gli impianti sportivi a Società private. Quella che ne prese l'appalto mi chiese di restare per continuare a occuparmi di alcuni servizi con un amico, Sergio Copercini, anche lui pensionato, che già frequentava gli impianti lavorando per conto di una squadra di calcio locale. Ci trovammo tanto bene a collaborare che prestammo la nostra attività per altri quattordici anni, fino a quando il destino volle che egli ci lasciasse. Oltre che un collega, Sergio era un amico e alla sua morte non mi sentii più di continuare. Così a fine maggio del 2006 mi congedai definitivamente dal lavoro. Potrei anche essere soddisfatto della mia esistenza per quello che sono riuscito a realizzare, ma la vita non è mai come ce l'aspettiamo. Non so fin dove può arrivare la fortuna o la sfortuna di un individuo; certamente, prima di fare delle valutazioni sulla propria condizione, soprattutto se c'è motivo di lamentarsene, si dice che sia sempre bene voltarsi indietro perché quasi sicuramente ci sono persone che stanno peggio di noi, ma ciò non riusciva e non riesce tuttora ad essere per me fonte di consolazione. Ciò che penso è che la nostra parte di fortuna a quel punto si sia esaurita o abbia comunque avuto una battuta d'arresto. La stella assegnatami, che nel corso della vita avevo cercato di far brillare, ritornò a essere opaca. Avendo cominciato a lavorare molto presto, a 54 anni andai in pensione con il massimo dei contributi. Ne ero felice, mi sentivo ancora giovane, pertanto mi aspettavo d'iniziare una nuova vita, ossia di condurre un'esistenza più tranquilla, più libera, senza più obblighi o vincoli di impegni, di orari e di disposizioni altrui; insomma una meritata e beata vita da pensionato. Invece, il diavolo ha voluto ancora prontamente metterci le corna della sfortuna, perché Rita, già in condizioni di salute precaria per aver contratto l'epatite, cominciò ad avere dolori allo stomaco. Rita stava facendo un ciclo di terapia farmacologica a base d'interferone, un potente farmaco per la cura dell'epatite, quando dovette interromperlo per accertamenti diagnostici conseguenti ai pesanti effetti collaterali. Così, dopo la solita routine di esami, ecco il verdetto: tumore allo stomaco. Anche in questo caso non vi era nessun'altra alternativa al di fuori dell'intervento chirurgico, per il quale nessuno dava garanzie di piena riuscita. Un altro dramma per la nostra famiglia, che ci riportava indietro nel tempo, alle preoccupazioni già vissute con la situazione di salute di Lorenzo bambino.

Il mio medico, dottor Paolo Mezzadri, mi disse che a San Secondo operava un bravo chirurgo, il dottor Rusconi di Parma, così decidemmo per l'intervento, che fu eseguito il 12 luglio 1994. Dopo sei lunghe ore di attesa, riuscii a parlare con il primario, il quale mi disse che l'operazione era riuscita, ma aveva comportato l'asportazione completa dello stomaco (gastrectomia totale). Rita rimase in ospedale ventidue giorni. La convalescenza fu drammatica, perché si presentarono delle complicanze post-intervento. Giorno dopo giorno Rita era sempre più debole; la speranza di una sua ripresa si allontanava sempre di più, finché i medici decisero di trasferirla in day hospital a Reggio Emilia per un intervento diagnostico di gastroscopia più approfondito. Da quel momento Rita cominciò lentamente a migliorare, allontanando così lo spettro dei brutti pensieri, ma i medici si riservavano di pronunciarsi definitivamente sul buon sull'esito dell'intervento decorsi cinque anni dal medesimo. Non era finita però. Probabilmente a causa dell'intervento allo stomaco subito, o forse per la solita sfortuna, tre anni dopo, nel 1997, Rita cominciò a gonfiarsi e ad avere coliche renali tali da dover essere ricoverata d'urgenza all'ospedale a San Secondo. Fu immediatamente portata in sala operatoria per la sostituzione dell'uretere, che si era occluso. Rimase internata per altri trenta giorni con grande disagio per tutta la famiglia. Dovevo provvedere alla sua assistenza in ospedale, accudire alle faccende domesti che per distrarre il meno possibile Lorenzo dai suoi studi, perché si stava preparando a sostenere l'esame di maturità. Ero talmente preso da questi impegni e preoccupato per ciò che stava accadendo, che ero diventato come un robot, agivo in automatismo, in uno stato continuo di estraniazione: schiacci un tasto e via... Ingenuamente, pensando alla mia comparsa in questo mondo, mi ritenevo un essere umano innocente, indenne da ogni difetto, privo di qualsiasi colpa, pertanto in grado di superare tutte le avversità, ma mi resi subito conto che la vita non era così facile come pensavo, per cui dovevo accettare, senza capirne bene le ragioni e senza sentirmene responsabile, anche tutto il male che si presentava giorno dopo giorno.

L'ETA' DELLA VENDEMMIA "Fructus autem senectutis est ... ante partorum bonorum memoria et copia". La frase non è mia, ma è tratta dal"De Senectute" di Cierone. Essa sta a significare che si raccoglie quello che si semina, che il frutto della vecchiaia è il ricordo e l'abbondanza dei beni conseguiti

in passato. Mi è stato consigliato di metterla in testa a questo capitolo a compendio di ciò che di seguito esporrò. Siamo alla fine degli anni Novanta. Finalmente dopo tante preoccupazioni, arrivò una notizia bella e inaspettata. Un bel giorno di primavera del 1998 Lorenzo arrivò a casa comunicandoci che aveva intenzione di sposarsi. Rita ed io sapevamo della morosa, Sabrina, una giovane residente a Castione Marchesi, che egli frequentava da quattro anni. I due fidanzati non avevano alcuna urgenza, se non quella di trascorrere insieme la maggior parte del proprio tempo, di condividere ogni momento della propria esistenza, perché da innamorati così si desidera, così si ragiona. La notizia sul momento ci preoccupò. Lorenzo era studente universitario, non aveva ancora completato gli esami, gliene manca vano ancora quattro o cinque e la tesi per laurearsi, ma confidavo nel suo carattere tranquillo, assennato e determinato. Egli infatti portò prima a termine gli esami, ma a Settembre del Duemila i due giovani, impazienti di aspettare, decisero di sposarsi. Al completamento degli studi mancava solo la tesi, che arrivò l'anno successivo, dopo il matrimonio. Il giorno della discussione della tesi di laurea di nostro figlio Rita e io eravamo preoccupati, ma nello stesso tempo molto soddisfatti. Lo accompagnammo in Università insieme alla moglie; con al tre persone, parenti e amici dei laureandi, fummo invitati ad accomodarci in silenzio nella tribuna dell'aula universitaria, dove davanti a un gruppo di professori, in veste di giudici togati, gli studenti dissertavano le tesi rispondendo alle loro insidiose domande. Notavamo in Lorenzo molta tranquillità, mentre in noi c'era forte apprensione, ci tremavano le gambe per l'attesa emozionante. Eravamo comunque orgogliosi di essere riusciti a offrire a nostro figlio l'opportunità di un futuro migliore, in cui poter esprimere al meglio le proprie potenzialità, avere condizioni di vita più agiate. Lorenzo rispose a tutte le domande e alla fine fu proclamato Dottore in Economia Aziendale con la votazione di 98/110 presso l'Università degli Studi di Parma.

Fu un giorno indimenticabile, concluso con una cena memorabile in trattoria. Varchiamo il Duemila. Nel corso degli studi universitari Lorenzo aveva sempre espresso il desiderio di trovare impiego in banca, così dopo la laurea cominciò a inoltrare domanda e a spedire il proprio curriculum vitae a varie agenzie. Nel frattempo la ditta Coppini Olearia di San Secondo cercava personale addetto alla vendita di olio di oliva: Lorenzo venne assunto e ivi rimase per circa un anno, fino a quando un bel giorno ricevette una lettera di invito a presentarsi presso la Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza per un periodo di prova della durata di seimesi. Al termine del periodo di prova, disilluso, Lorenzo tornò ancora dal Signor Coppini a vendere olio: pazienza, per lui era stata comunque un'esperienza positiva. Invece passarono pochi mesi e Lorenzo fu richiamato in banca; quando pochi giorni dopo si presentò presso l'ufficio del personale per firmare l'assunzione a tempo indeterminato la gioia e la soddisfazione furono immense! Per lui e per tutti noi! Il sogno tanto desiderato si era avverato. Nel mezzo di tutti questi eventi pian piano mamma Viola era arrivata a 90 di età ancora in buona salute, nonostante le dure prove riservatele dalla vita. Al suo 90° compleanno noi figli le strappammo una promessa: ad ogni suo futuro anniversario doveva offrire un pranzo ai parenti più stretti fino ai festeggiamenti del centenario! Mamma Viola accettò la sfida. Il primo anno si presentò al pranzo in trattoria a Bacedasco leggendo un piccolo discorso che aveva preparato all'insaputa di tutti, uno scritto commovente in cui ringraziava i presenti e in particolare noi figli, poi anche Dio per la sua salute, poiché nel corso degli anni non si era mai ammalata, e augurava a tutti un buon proseguimento, "firmato mamma Olanda".

Riuscì a mantenere la promessa per cinque anni, ma la sua buona volontà non bastò ad arrestare l'inevitabile processo del tempo: infatti cominciò a perdere le forze sia fisiche che mentali intorno ai 95 anni, avviandosi lentamente verso la fine del suo percorso terreno, che arrivò il 2 settembre 2004 a quasi 98 anni assistita dai figli e da una badante. Addio mamma Viola! Negli anni a seguire finalmente un po' di tranquillità sia per Lorenzo, dopo anni di studio e sacrifici, sia per tutti noi, visto che anche Rita si era ripresa dai suoi vari interventi chirurgici. Dopo quattro anni di matrimonio, ecco per Lorenzo e Sabrina realizzarsi una nuova famiglia o, per meglio dire, ampliarsi la stessa: arrivò infatti la bella notizia che era in arrivo la cicogna. La gravidanza di Sabrina fu portata a termine senza problemi e il 17 luglio 2005 nacque una bimba che venne chiamata Elena e che ci rese tutti felici. Quattro anni dopo arrivò una seconda cicogna: il 9 marzo del 2010 nacque infatti Arianna, la sorellina.

Due bambine molto vivaci e molto intelligenti. Eravamo diventati nonni e con Rita speravamo di fare i nonni se non a tempo pieno, almeno part time, ma la concorrenza con i nonni materni fu ed è pressoché insuperabile, perchè genitori di Sabrina abitando a Castione nella casa attigua a quella della figlia e di Lorenzo, stesso paese, stesso cortile, hanno avuto la fortuna e il privilegio di poterle assistere e coccolare quotidianamente. Le nipotine sono cresciute praticamente a casa loro, ma va bene così, anche perchè le vediamo spesso: quasi tutte le domeniche Lorenzo e famiglia, liberi da impegni, vengono a pranzo da noi. 2009, anno di abbondante raccolto! La buona uva prometteva ottimo vino per i produttori e nella mia famiglia ci si stava arricchendo ulteriormente con l'imminente nascita della seconda nipotina. Anno dunque ricco di eventi e di opportunità: a me personalmente si presentò l'occasione di una nuova avventura e chissà... di una nuova vita. Si era sparsa voce in paese che una troupe televisiva della RAI cercava delle comparse per girare in Busseto alcune scene di un film sulla vita della famosa principessa Sissi. Colsi subito l'occasione, pertanto io e un mio amico, Felice Bedini, ci presentammo con i documenti richiesti per essere ingaggiati. Facemmo alcuni provini, vestizione compresa: ci presero. Eravamo in tanti e tutti o quasi c'eravamo illusi di essere presto scritturati per qualche altro importante film, di sbarcare presto a Hollywood, la città dei VIP, il famoso distretto di Los Angeles centro dell'industria cinematografica americana, convinti che in fondo "non è mai troppo tardi", già pronti per una nomination agli Oscar.

Fu una carriera fulminante, si compì in un giorno, poi svanì portandosi via il sogno di diventare attore. Peccato! Affossato il castello dei sogni, ritornammo a frequentare il solito bar con le solite balle, delusi ma soddisfatti di aver vissuto una giornata diversa, fuori dall'ordinaria e monotona routine. Sempre nel 2009 l'Amministrazione Comunale di Busseto, guidata dal Sindaco Luca Laurini, era riuscita a realizzare il "Parco della salute e dello sport" e a costruire al suo interno una pista ciclopedonale della lunghezza di un chilometro e cento metri, un vero capolavoro per tutti quelli che amano camminare e pedalare in tutta sicurezza e tranquillità, un circuito usato anche per effettuare gare ciclistiche e podistiche. Prima che l'opera fosse inaugurata, si era sparsa la voce che il Comune di Busseto cercava un volontario di fiducia con compiti di controllo della pista, per segnalare eventuali anomalie che di volta in volta si fossero presentate.

Il Sindaco e i diversi Assessori della Giunta comunale mi chiesero se potevo essere interessato a prestare un tale servizio ed io accettai volentieri, ringraziando per la fiducia accordatami. Impossibi le rifiutare visto che ero stato addetto agli impianti sportivi per 34 anni, attività lavorativa che avevo svolto volentieri, con vera passione. M'iscrissero all'Auser (Associazione per l'autogestione dei servizi e la solidarietà), tessera n. 179630, come addetto al servizio di manutenzione del patrimonio, della viabilità, del verde pubblico, dell'elisoccorso. Trascorsero più di quattro anni senza alcun problema, addirittura alla fine dell'anno 2012 mi fu data la nuova divisa dell'Auser. Al termine del mese di gennaio 2013 però, mentre consegnavo il solito rapportino mensile al responsabile dell'Ufficio Tecnico, mi sentii dire che la mia presenza non era più indispensabile; così venivo congedato da un servizio che svolgevo come volontario, senza che mi venisse data alcuna spiegazione al riguardo e senza che in precedenza mi fosse mai stato mosso alcun appunto. Chiesi più volte, anzi pretesi spiegazioni ai componenti della nuova Giunta comunale e al responsabile dell'Auser, ma nessuno di loro seppe darmi una risposta; solo parole di convenevoli scuse. Sono rimasto molto deluso e amareggiato per le modalità con cui sono stato sollevato da un servizio reso comunque come volontario per le seguenti ragioni: molte di loro, che ben mi conoscono, sono le stesse persone che mi hanno cercato e mi hanno proposto di svolgere un tale servizio; in un minuto con poche parole è stata cancellata un'intera vita dedicata al volontariato, senza addurre alcun motivo, senza alcun riconoscimento per la collaborazione offerta nei momenti di bisogno, per un impegno profuso per anni e anni. Forse il compenso forfettario che ricevevo gravava sul bilancio comunale, che si voleva così risanare? Non credo proprio; era appena stato richiesto l'impegno di due nuovi volontari Auser. Il modo con cui sono stato congedato mi ha profondamente offeso. Per quanto fossero da poco subentrati due nuovi volontari Auser, sensibilità e riguardo non sarebbero dovuti venir meno nel congedarsi da una persona che per cinquant'anni si è sempre messa a disposizione degli altri nelle diverse associazioni (Auser, Assistenza Pubblica, Società promotrici del Carnevale, ecc.). Quale futuro di buona amministrazione possiamo aspettarci da persone che non riconoscono, non hanno attenzione e rispetto del prezioso e gratuito servizio reso dai propri concittadini? Riassumendo allora la lunga storia della mia vita, mi viene da pensare che siamo una razza di disgraziati, mai soddisfatti di ciò che abbiamo ricevuto e conquistato; desideriamo sempre di più, sempre di più... fino al punto da mettere in pericolo la nostra stessa esistenza. Tantissime volte potremmo anche fare a meno di certe ricchezze, di alcune comodità, evitare di lasciarci coinvolgere in fatti incresciosi e inutili, avere la saggezza di saperci fermare al momento giusto. Impossibile tornare indietro. Ormai siamo entrati in un ingranaggio talmente potente e travolgente, che nemmeno gli influenti mass-media, qualora lo volessero, sarebbero in grado di arrestare e di porre rimedio agli errori causati nel tempo dall'uomo, in primo luogo i danni provocati alla nostra salute. Spesso ci domandiamo il perché di certe malattie, alcune delle quali di nuova insorgenza, di cui nessuno sembra comprenderne le cause. Nonostante il progresso della medicina, l'esistenza di tecnologie avanzate, l'invenzione e la realizzazione di complicati strumenti di precisione, non riusciamo ad affrontare e risolvere tanti piccoli problemi che riguardano il vivere quotidiano. Il destino di ciascuno di noi può essere crudele e generoso nello stesso tempo, tuttavia quando si nasce sfortunati spesso ci si sente impotenti, è come se ci fosse una calamita che continua ad attrarre "scalogne". Ho conosciuto mia moglie quando aveva vent'anni, ben poche volte l'ho vista serena, star

bene. Speravo almeno che avanzando con l'età certi inconvenienti di salute non si presentassero più, ma non fu così. Nel 2011 Rita subì un altro intervento, alla mano destra, che non risolse il problema del dolore, anzi lo aggravò, per cui oggi, a distanza di cinque anni, stiamo ancora girovagando per i vari studi medici e presidi sanitari per trovare un rimedio ad esso, con previsioni molto scarse di completo recupero dell'uso della mano. Non si può stare in pace un attimo. L'anno dopo un altro imprevisto piombò in casa nostra come un fulmine a ciel sereno. Il papà di Sabrina, mio consuocero, nella foto con la moglie,

in poco tempo si ammalò e il 7 luglio 2012 se ne andò in cielo, lasciando un grande vuoto in famiglia e nuovi problemi da affrontare. Era una persona molto attiva, sempre disponibile; non c'era cosa di ordinaria manutenzione, piccola o grande che fosse, che non sapesse fare; tutti in famiglia contavano su di lui. Non bisognerebbe mai pretendere troppo da sè stessi, crearsi troppe aspettative, perché il "nemico" è sempre in agguato; siamo tutti di passaggio purtroppo in questa vita. Perché mai mi è venuta dunque l'idea di ricordare il passato, di provare a mettere nero su bianco quel che è successo in tanti anni della mia esistenza? Non tanto per mettere alla prova la memoria, quanto per testimoniare i valori che mi hanno accompagnato. Assolta la fatica del lavoro quotidiano, che dobbiamo svolgere per il necessario sostentamento, un lavoro che nella giovinezza ho vissuto come un'imposizione, allorchè il tempo lo permetteva è sempre rimasto vivo in me il desiderio di aiutare chi è nel bisogno, di rendermi e sentirmi socialmente utile. Cominciai a impegnarmi in ambito sociale dall'età di vent'anni: nel partito, nel sindacato; dodici anni come volontario nell'allestimento del Carnevale e quarant'anni da milite nell'Assistenza Pubblica, di cui ho contribuito alla fondazione, ritirandomi dal servizio attivo nell'estate del 2011 per motivi di salute con qualche rammarico. Sempre disponibile per tutte le richieste dove poteva essere utile la mia presenza, ho cercato di dare il meglio di me stesso. Grazie all'impegno profuso nelle varie associazioni, nel lavoro svolto come dipendente comunale e poi come volontario per ben trentacinque anni nel settore sportivo, in paese sono ben conosciuto e penso stimato, e ciò mi riempie di orgoglio: mi sono state consegnate sei targhe di riconoscimento per le varie attività prestate, di cui una dall'Assessore allo Sport, alcune esposte a casa mia, altre negli impianti sportivi.

A questo punto mi chiedo: "Caro Nello, non pensi che sia giunta l'ora di appendere le scarpe al chiodo, come si dice in gergo calcistico, visto che hai calpestato per tanti anni un terreno che non era tuo, continuando a tenerlo in ordine con cura, anche se sapevi benissimo che subito dopo qualcuno si sarebbe divertito a distruggere il tuo lavoro e a renderlo del tutto inutile?". A questa domanda non saprei rispondere, oppure non voglio. Certamente un po' di riposo me lo sono meritato. Ora, se la fortuna e la salute mi assisteranno, desidero dedicarmi completamente ai doveri e agli affetti familiari e ai miei hobbies: l'orto e le mie due grandi passioni che sono la raccolta dei funghi

e la pesca. Mentalmente in questo momento mi sto arrampicando su un monte in cerca di funghi, ma non so se riuscirò ad arrivare in cima alla vetta, anche se ci proverò, me lo prometto! Per ora sono 76 le "vette" scalate e al momento non mi preoccupo: sono figlio di una mamma longeva! Con Rita ci stiamo avviando ai festeggiamenti delle nozze d'oro! Nel 1996, in occasione del nostro 25° anniversario di matrimonio, avevamo organizzato un pranzo presso la trattoria Vernizzi di Frescarolo, con una larga partecipazione di parenti. Per fortuna riuscì tutto bene, poiché il timore era che Rita, che all'epoca non stava bene, non potesse godere di quel giorno.

Nel 2011 l'anniversario dei quarant'anni di matrimonio fu invece organizzato diversamente, con più tranquillità: partecipammo al rito liturgico della Santa Messa nella Collegiata di Busseto con il rinnovo della promessa matrimoniale, poi pranzammo con i parenti più stretti.

Giorno dopo giorno, siamo arrivati all'anno 2016. Andando indietro nel tempo, a quand'ero ancora un ragazzino, ricordo che, vedendo i nostri padri, i nostri nonni, per la maggior parte braccianti agricoli, i quali apparivano vecchi, anche se anziani ancora non erano, mal vestiti, magri, sdentati, sciupati per la fatica del duro lavoro, mi ponevo di fronte alla vita con grande preoccupazione. All'epoca giudicavo longeva una persona che arrivava a compiere sessant'anni. Oggi che grazie al cosiddetto "progresso" quell'età l'ho abbondantemente superata e mi trovo in condizioni di vita migliori non posso che provare gratitudine. Siamo nell'era dei computer; lo sbarco sulla luna non è più un miraggio fantascientifico, ma una realtà; basta premere un pulsante che sei catapultato verso l'infinito. Spero solo in una promessa segreta, fatta tempo fa, con scadenza 2040 e che rivelerò al momento opportuno...

CREDITI Un grazie speciale ai miei genitori che mi hanno catapultato in questo mondo senza chiedermene il permesso. Ringrazio soprattutto mia madre, una donnetta esile, alta poco più di un metro e mezzo, ma con una forza fisica e morale impressionanti e un coraggio ammirevole, una mamma eccezionale, che è riuscita a farsi amare da tutti coloro che l'hanno conosciuta. Ringrazio Rita, mia moglie, perché senza il suo sostegno non avrei intrapreso questo percorso di vita, che comunque mi ha dato, accanto alle preoccupazioni e alle inevitabili sofferenze, anche tante belle soddisfazioni. Ringrazio mio figlio e mia nuora Lorenzo e Sabrina per la preziosa collaborazione e i consigli che mi hanno fornito. Ringrazio Antonella Bonini e Michelangelo Gamba per aver pazientemente visionato e trascritto il mio testo al computer. Ringrazio il prof. Adriano Concari per la consulenza offerta alla realizzazione e alla presentazione di queste mie memorie. Ringrazio Vittorio Testa per la lettura e la presentazione della mia storia. Ringrazio Rino Sivelli che ha collaborato al trattamento delle immagini. Ringrazio tutti i parenti e gli amici che mi hanno permesso con il loro affetto di gustare quest'affascinante avventura che è la vita. E alla fine ringrazio anche me stesso per non essermi scoraggiato di fronte alle difficoltà, per il desiderio e l'impegno messo nel cercare di essere ogni giorno migliore per me stesso, per i miei familiari, per la collettività alla quale sento di appartenere. Le immagini contenute nel libro appartengono per la maggior parte all'Archivio famigliare dell'Autore. Le rimanenti sono state fornite da parenti e amici.

Nello Rieti nasce a Mercore di Besenzone, in provincia di Piacenza, il 16 agosto 1940. Dopo varie peregrinazioni in piccoli paesi delle campagne del Piacentino, del Reggiano e del Parmense, ancor giovane approda in territorio bussetano. Scopre allora Busseto, un altro paese di campagna di circa 7.000 abitanti che tuttavia si fregia del nome di Città dai tempi dell'imperatore Carlo V nel 1500, situato fra le province di Parma, Piacenza e Cremona, avvolto d'inverno nella nebbia, e che si distingue per alcune specialità gastronomiche che lo proiettano nel mondo: il Parmigiano-Reggiano, il culatello, il "prete", la mortadella. Un paese tranquillo, abitato da gente con radici agricole profonde, semplice nella sua vita quotidiana e che, attraversato dalla ferrovia, può ritenersi fortunato perché è collegato con tutt'Italia. Un paese in cui Nello si sente orgoglioso di abitare, ricco di illustri personaggi di fama mondiale, come Giuseppe Verdi, Giovannino Guareschi, Carlo Bergonzi e altri ancora. Gradualmente egli viene a contatto con un territorio che non conosceva bene, se ne innamora, entrando a farne parte a pieno titolo. Figlio di Mario, Nello non ha mai conosciuto il padre morto per malattia poco tempo dopo la sua nascita. La madre, Olanda Copelli, per tutti Viola, molto longeva, lascia questa vita a 98 anni. Nello ambisce a superare in età e in buona salute la progenitrice.