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Perry Anderson IL DISASTRO ITALIANO [trad. it. da ID., The Italian Disater , in London Review of Books , 36.10 (22 Maggio 2014), pp. 3-16] L’Europa è malata. Quanto seriamente e perché sono cose che non si possono sempre giudicare facilmente. Ma tre dei sintomi sono prominenti e collegati fra loro. Il primo, e il più noto, è lo stato di degrado della democrazia nel continente, e di questo la struttura dell’Unione Europea è simultaneamente la causa e la conseguenza. La casta oligarchica dei suoi accordi costituzionali, un tempo concepiti come un’impalcatura provvisoria in vista della futura sovranità popolare di scala sopra-nazionale, si è progressivamente irrigidita con il passare del tempo. I referendum sono regolarmente ribaltati se contrari al volere dei governi in carica. Gli elettori, le cui opinioni sono disprezzate dalle élite, evitano le assemblee che li rappresentano nominalme nte, con un’affluenza alle urne che diminuisce ad ogni elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti sorvegliano i bilanci dei  parlamenti nazion ali privati persino de l potere di spesa . Ma l’Unione non è una protuberanza sugli stati membri senza la quale sarebbero in buona salute. Essa riflette, e peggiora allo stesso tempo, le tendenze al loro interno che si manifestano ormai da molto tempo. A livello nazionale, praticamente ovunque, il potere esecutivo addomestica o manipola le legislature con estrema facilità; i partiti perdono dei membri; gli elettori capiscono di non contare, mentre le scelte politiche si restringono e le promesse di differenze durante i comizi si rimpiccioliscono o svaniscono dopo le elezioni. A questo declino generalizzato si aggiunge la corr uzione dilagante della classe politica, un tema sul quale la scienza politica, molto loquace su ciò che il linguaggio dei ragionieri definisce il deficit democratico dell’Unione, di solito resta muta.  Le forme della c orruzione non han no ancora trovato una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre -elettorale: il finanziamento delle persone o dei  partiti con f onti illegali (o anche legali) con la promessa, esplicita o tacita, di favori futuri. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso della carica per ottenere soldi con l’appropriazione indebita delle entrate, o tangenti sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nelle legislature. C’è il furto diretto dei fondi pubblici. C’è la falsificazione delle credenziali per fini politici. C’è l’arricchimento dall’incarico pubblico subito dopo le votazioni, ma anche durante o prima. Il panorama di questa malavita è impressionante.

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Perry Anderson

IL DISASTRO ITALIANO 

[trad. it. da ID., The Italian Disater , in London Review of Books, 36.10 (22 Maggio 2014), pp. 3-16]

L’Europa è malata. Quanto seriamente e perché sono cose che non si possono sempre giudicare

facilmente. Ma tre dei sintomi sono prominenti e collegati fra loro. Il primo, e il più noto, è lo stato

di degrado della democrazia nel continente, e di questo la struttura dell’Unione Europea è

simultaneamente la causa e la conseguenza. La casta oligarchica dei suoi accordi costituzionali, untempo concepiti come un’impalcatura provvisoria in vista della futura sovranità popolare di scala

sopra-nazionale, si è progressivamente irrigidita con il passare del tempo. I referendum sono

regolarmente ribaltati se contrari al volere dei governi in carica. Gli elettori, le cui opinioni sono

disprezzate dalle élite, evitano le assemblee che li rappresentano nominalmente, con un’affluenza alle

urne che diminuisce ad ogni elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti sorvegliano i bilanci dei

 parlamenti nazionali privati persino del potere di spesa.

Ma l’Unione non è una protuberanza sugli stati membri senza la quale sarebbero in buona salute. Essa

riflette, e peggiora allo stesso tempo, le tendenze al loro interno che si manifestano ormai da molto

tempo. A livello nazionale, praticamente ovunque, il potere esecutivo addomestica o manipola le

legislature con estrema facilità; i partiti perdono dei membri; gli elettori capiscono di non contare,

mentre le scelte politiche si restringono e le promesse di differenze durante i comizi si

rimpiccioliscono o svaniscono dopo le elezioni.

A questo declino generalizzato si aggiunge la corruzione dilagante della classe politica, un tema sulquale la scienza politica, molto loquace su ciò che il linguaggio dei ragionieri definisce il deficit

democratico dell’Unione, di solito resta muta.  Le forme della corruzione non hanno ancora trovato

una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento delle persone o dei

 partiti con fonti illegali (o anche legali) con la promessa, esplicita o tacita, di favori futuri. C’è la

corruzione post-elettorale: l’uso della carica per ottenere soldi con l’appropriazione indebita delle

entrate, o tangenti sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nelle legislature. C’è il furto diretto dei

fondi pubblici. C’è la falsificazione delle credenziali per fini politici. C’è l’arricchimento

dall’incarico pubblico subito dopo le votazioni, ma anche durante o prima. Il panorama di questa

malavita è impressionante.

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Un suo affresco potrebbe cominciare con Helmut Kohl, cancelliere tedesco per sedici anni, che

accumulò circa due milioni di marchi tedeschi in fondi neri da donatori illegali di cui rifiutò di rivelare

i nomi, non appena fu denunciato, per paura che i favori che questi avevano ricevuto venissero alla

luce.

Dall’altra sponda del Reno, Jacques Chirac, presidente della repubblica francese per dodici anni, fu

condannato per appropriazione indebita di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitto di interessi

quando la sua immunità venne a mancare. Nessuno dei due ha subito alcuna punizione. Questi erano

i due politici più potenti di quel periodo in Europa. Un breve sguardo alla situazione di allora basta a

dissipare qualunque illusione che loro fossero un’eccezione. 

In Germania, il governo di Gerhard Schröder garantì un prestito di un miliardo di euro a Gazprom per la costruzione di un oleodotto nel Baltico poche settimane prima di dimettersi da cancelliere ed

essere assunto proprio da Gazprom con uno stipendio molto più alto di quello ricevuto per governare

il Paese. Da allora, Angela Merkel ha visto dimettersi due presidenti della repubblica, uno dopo

l’altro, travolti dalle polemiche: Horst Köhler, ex leader del Fondo Monetario Internazionale, per aver

dichiarato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo gli interessi

commerciali della Germania; e Christian Wulff, ex capo dei Cristiani Democratici in Bassa Sassonia,

a causa di un ambiguo prestito per la sua casa da parte di un amichevole uomo d’affari. Due ministri

 prominenti, uno della difesa e l’altro dell’educazione, si dovettero dimettere quando furono privati,

 per furto intellettuale, dei loro dottorati, un titolo importante per una carriera politica nella Repubblica

Federale.

Mentre uno dei due, Annette Schavan, amica stretta della Merkel (che le aveva dato piena fiducia)

tentava di restare in carica nonostante tutto, il quotidiano Bild-Zeitung osservò che avere un ministro

dell’educazione che falsificava la sua ricerca era come avere un ministro delle finanze con un conto

 bancario segreto in Svizzera.

Detto fatto. In Francia, il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahusac, in

carica per difendere l’integrità e l’equità fiscale, fu trovato in possesso di una cifra tra 600.000 and

15 milioni di Euro in depositi nascosti in Svizzera e Singapore.

 Nel frattempo, Nicolas Sarkozy, viene accusato da alcuni testimoni di aver ricevuto circa 20 milioni

di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo ha condotto alla presidenza. Christine

Legarde, il suo ministro delle finanze, attualmente a capo del FMI, è sotto inchiesta per il suo ruolo

nella consegna di 420 milioni di Euro di “risarcimento” a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con

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esattamente le stesse parole di Blair a Brooks: “Louis, ti capisco. Tieni duro. Ti chiamo domani. Un

abbraccio”. Mentre cerca di coprire uno scandalo su cui l’85% degli spagnoli crede che menta, lui

tiene stretto il suo posto al Palazzo della Moncloa.

 Nel frattempo in Grecia, Akis Tsochatzopoulos, in successione Ministro degli Interni, della Difesa e

dello Sviluppo per Pasok, e che per un pelo non ha guidato la democrazia sociale in Grecia, è stato

meno fortunato: è stato condannato lo scorso autunno a vent’anni di prigione a causa di una brillante

carriera in estorsione e riciclaggio di denaro sporco. Poco distante, Tayyip Erdogan, a lungo

acclamato dai media ed intellettuali europei come il più grande stratega democratico della Turchia e

la cui condotta ha portato il suo paese a divenire membro onorario della comunità europea ante diem,

ha dimostrato valesse la pena includerlo tra le fila dell’Unione in tutt’un altro senso: in una

conversazione registrata, in cui dava indicazioni al figlio su come nascondere decine di milioni incontanti, o in un’altra, in cui alzava il prezzo di una pesante mazzetta su un appalto edile. Altri tre

ministri si dimisero dopo simili rivelazioni, prima che Erdoğan ripulisse le forze di polizia e il potere

giudiziario per assicurarsi che la questione non venisse discussa oltre.

Mentre accadeva tutto ciò, la Commissione Europea rilasciava il primo rapporto ufficiale sulla

corruzione nell’Unione, la cui diffusione, a detta del commissario relatore era “mozzafiato”: come

minimo, costa alla UE tanto quanto il suo intero budget: 120 miliardi di euro l’anno –  la somma totale

è “probabilmente anche maggiore”. Saggiamente, la relazione copriva solo gli stati membri. La

Comunità Europea stessa, la cui intera Commissione fu recentemente forzata a dimettersi per lo

scandalo, non venne inclusa.

In un’Unione che si presenta al mondo come tutrice morale, è cosa normale che l’inquinamento del

 potere per denaro e frode sia dovuto alla perdita di contenuto o coinvolgimento nella democrazia. Le

élites, liberatesi sia dalla divisione reale dall’alto sia dalla sostanziale responsabilità dal basso,

 possono permettersi di arricchirsi senza troppe distrazioni o ricompense. La visibilità smette dicontare e l’impunità diventa la regola. Come per i banchieri, i politici al potere non vanno in prigione.

Di tutta questa fauna appena citata, soltanto un anziano greco ha subito un tale affronto. Ma la

corruzione non è soltanto un aspetto del declino dell’ordine politico. È anche, ovviamente, un sintomo

del regime economico che impera in Europa dagli anni 80. In un universo neoliberale, dove i mercati

sono l’unità di misura del valore, il denaro diventa, più facilmente che mai, il mezzo per ogni cosa.

Se gli ospedali, le scuole e i carceri possono essere privatizzati come fossero imprese per trarne

 profitto, perché non può esserlo anche la politica?

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*

In questo scenario un Paese è generalmente considerato come il più acuto di tutti i casi di disfunzione

europea. Dall’introduzione della moneta unica, l’Italia ha registrato la peggiore performance

economica di qualsiasi stato dell’Unione: 20 anni di stagnazione praticamente ininterrotta ad un tasso

di crescita nettamente inferiore a quelli della Grecia o della Spagna. Il suo debito pubblico supera il

130 per cento del PIL. Tuttavia questo non è un paese periferico di piccole o medie dimensioni che

ha recentemente aderito all’Unione. È uno dei sei membri fondatori, con una popolazione

 paragonabile a quella della Gran Bretagna e un’economia grande una volta e mezza quella spagnola.

La sua base manifatturiera è la seconda in Europa dopo la Germania ed è anche la seconda

nell’esportazione di beni capitali. Le sue emissioni governative rappresentano il terzo più grande

mercato obbligazionario al mondo e quasi metà del suo debito pubblico è detenuta all’estero: il datocomparabile per il Giappone è sotto il 10 per cento. Per questa combinazione di fragilità e importanza,

l’Italia è il vero anello debole dell’UE che teoricamente potrebbe rompersi. 

Finora, e non per caso, è il paese dove la disillusione dovuta allo svuotamento delle forme

democratiche ha prodotto non solo un’intorpidita indifferenza, ma una rivolta attiva che ha scosso il

cuore delle sue istituzioni trasformando il panorama politico. Movimenti di protesta di ogni sorta

sono emersi in altri stati dell’Unione, ma finora nessuno si avvicina per innovazione o successo

all’ondata del Movimento 5 Stelle in Italia in termini di ribellione alle urne. Inoltre, l’Italia offre lo

spettacolo più familiare di tutti i teatri continentali per quanto riguarda la corruzione. La sua più

celebrata personificazione è il miliardario che ha governato il paese per quasi la metà della Seconda

Repubblica e su cui sono state spese più parole che su tutti i suoi concorrenti messi insieme. Le

riflessioni sulla situazione raggiunta dall’Italia inevitabilmente iniziano con Silvio Be rlusconi. Che

egli si distingua tra i suoi pari per l’incastro tra potere e denaro è fuori discussione, ma il modo con

cui lo ha fatto può essere oscurato dal clamore della stampa estera su di lui, in particolare le denunce

tonanti dell’ Economist  e del Financial Times.

Due cose rendono Berlusconi speciale. La prima, è che egli ha invertito il percorso tipico dalla politica

al profitto, avendo accumulato una fortuna prima di entrare in politica. Politica che ha poi utilizzato

 per preservare la sua ricchezza e proteggere se stesso dalle accuse penali sulle modalità con cui si

arricchì.

Il secondo è che la sua principale fonte di ricchezza, anche se non l’unica, è il suo impero televisivo

e pubblicitario che gli ha consentito di disporre di un potere indipendente dalla politica e che, una

volta entrato nell’arena politica, ha convertito in una macchina di propaganda e uno strumento di

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governo. Inoltre, i suoi legami politici con il Partito socialista di Milano e il suo segretario Craxi sono

stati fondamentali per la sua ascesa economica, e in particolare alla costruzione di una rete nazionale

 per i suoi canali televisivi. Anche se ha sviluppato notevoli capacità di comunicazione e di manovra

 politica, in sostanza è rimasto essenzialmente un uomo d’affari per il quale il potere significa

sicurezza e glamour, ma non azione o progetto politico. Nonostante abbia espresso la sua

ammirazione per la Thatcher e si sia auto-definito sostenitore del mercato e della libertà economica,

l’immobilismo delle sue coalizioni di centro-destra non ha mai differito molto da quelle di centro-

sinistra dello stesso periodo.

Che questo sia ciò che veramente gli critica l’opinione neo-liberale del mondo anglosassone si può

notare da come quest’ultima ha considerato due simboli di corruzione ai vertici di stati a est e a ovest

dell’Italia. Per anni, Erdoğan –  un caro amico di Berlusconi –  è stato oggetto di un numero esageratodi interviste, articoli e reportage nel Financial Times e altrove, in cui era presentato come un architetto

illuminato di una nuova democrazia turca e un ponte essenziale tra Europa e Asia, da accogliere senza

indugi nell’Unione. Diversamente da Berlusconi, tuttavia, il cui governo era anodino in termini di

libertà civili, Erdoğan ne era e ne è una minaccia. Già all’epoca del boom turco, segnato dal decollo

delle privatizzazioni, fatti come l’arresto di giornalisti, l’uccisione di manifestanti, i processi truccati,

le intimidazioni brutali all’opposizione –  per non parlare del peculato su larga scala –  contavano poco.

Anche quando l’estensione della criminalità e della corruzione non potevano più essere ignorate, idettagli sullo scandalo travolgente lo infangavano sono stati tenuti al minimo e la colpa rapidamente

gettata sulla UE, rea di non aver offerto tempestivamente il suo abbraccio redentore. In seguito alle

intercettazioni, il Frankfurter Allgemeine sottolineò che, in qualsiasi democrazia funzionante, questi

sarebbero stati motivi sufficienti a costringer e l’intero governo ad andarsene. Il Financial Times non

lo sussurrava neanche. Lo stesso commento poteva essere fatto di Rajoy e i suoi confederati in

Spagna, dove le malefatte sono ancora più evidenti rispetto al labirinto di reati di Berlusconi. Ma

Rajoy, diversamente da Berlusconi, è un affidabile intendente del regime neo-liberale: nessun bisognodi supplementi speciali in The Economist  per sciorinare i suoi misfatti, sui quali si prende la cura di

dire il meno possibile, insieme a Bruxelles e Berlino. “I leader della UE e i suoi funzionari sono restati

stranamente a bocca chiusa sullo scandalo, data l’importanza della Spagna nell’Eurozona”,

commentava Gavin Hewitt, corrispondente della  BBC  da Bruxelles. “La cancelliera tedesca Angela

Merkel e altri hanno riposto molta fiducia nel Signor Rajoy e lo considerano preparato, in vista delle

riforme dolorose che mirano a ravvivare l’economia spagnola”. Berlusconi pagherà per mancanza di

altrettanta fiducia.

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All’epoca del suo trionfo nella primavera 2008, quando  vinse le sue terze e decisive elezioni,

Berlusconi si preoccupava poco della scarsa opinione di lui all’estero. Il fronte di centro-destra, che

lui aveva organizzato e riorganizzato dal 1994 –  composto ora dal Popolo delle Libertà, una fusione

del suo precedente partito con quello del suo alleato di sempre, l’ex -fascista Gianfranco Fini, più la

Lega Nord di Umberto Bossi, che continuava a mantenere le sue basi e la sua identità separata  –  

deteneva un’ ampia maggioranza alle Camere. Nei suoi primi mesi al governo si fece un passo lungo

le linee Thatcher/Blair, il primo di una serie di cambiamenti che cominciavano dalle scuole elementari

 per finire alle università e che tagliavano le spese del sistema educativo di circa 8 miliardi di euro

negli interessi dell’economia e della competitività: riduzione del numero degli insegnati, imposizione

di contratti a breve termine, priorità agli affari, quantificando i successi della ricerca. Ma questa era

l’estensione dello zelo riformatore del suo governo. Di primissima importanza nell’agenda politica

era la legislazione ad personam per proteggere Berlusconi dalle accuse criminali che gli pendevano

addosso, di cui molte tirate per le lunghe fino a cadere in prescrizione e altre decriminalizzate. Nel

2003, il suo governo aveva approvato una legge che garantiva immunità dai procedimenti per le

cinque principali cariche dello stato, abolita dalla Corte Costituzionale sei mesi più tardi. Nell’estate

del 2008, ritornò all’attacco con una legge presentata dal suo braccio destro, l’avvocato siciliano

Angelino Alfano, che sospendeva i processi per le quattro principali cariche dello stato.

Alcuni mesi più tardi, la tempesta finanziaria attraverso l’Atlantico colpì l’Europa, prima in Irlanda, poi in Grecia. In Italia, la Seconda Re pubblica è stata caratterizzata fin dall’inizio da insuccessi

economici, nonostante i migliori sforzi dei Presidenti del Consiglio di Centrosinistra per arginarla

(Giuliano Amato ha tagliato e privatizzato, Romano Prodi ha sostenuto il paese stretto nella camicia

di forza del Patto di Stabilità). Il tasso di crescita italiano è precipitato negli anni Novanta. Dopo il

2000, è risultato stagnante a una media dello 0.25 del Prodotto Interno Lordo. Ad un anno dalla

rielezione di Berlusconi nel 2008, la differenza di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi

stava già iniziando ad aumentare. Dal 2009 la recessione è diventata più grave rispetto a qualsiasialtro paese dell’eurozona e il Prodotto Interno Lordo precipitava di più di cinque punti percentu ali.

Per tenere a bada i mercati finanziari, successivi pacchetti di emergenza tagliarono il debito di bilancio

dell’Italia, ma con i tassi di interesse che gravavano sul terzo debito pubblico più alto del mondo,

verso la fine del 2010 il governo si stava avvicinando alla catastrofe economica.

Politicamente, l’Italia avrebbe potuto passarsela meglio. Dal marzo all’ottobre del 2009, i titoli dei

giornali erano dominati da rivelazioni sensazionali sulle stravaganze erotiche di Berlusconi, dando

un colore ancor più vivo alla descrizione profetica di Giovanni Sartori del suo governo –  secondo una

definizione presa in prestito da Weber –  sultano come sultanato. Sempre vantandosi delle sue abilità

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Le dinamiche della caduta di Berlusconi non furono tuttavia le stesse. In Grecia, Papandreou governò

sul diffuso impoverimento per volere di Berlino, Parigi e Francoforte, che suscitarono proteste locali

massive. Fino alla sua improvvisa idea di un referendum, lui fu uno strumento perfettamente

accettabile della volontà dell’Unione –  una disposizione dimostrata dalla velocità con cui è sottostato

a Merkel e Sarkozy, ritirando la sua proposta. Se ne andò perchè la sua posizione diventò internamente

insostenibile. In Italia, non c’era né un impoverimento in corso né una mobilitazione popolare. La

maggioranza di Berlusconi alla Camera era a quel punto sottile come la lama di un rasoio, e alcuni

dei suoi deputati stavano perdendo entusiasmo a causa dell’incremento dello spread. Ma Berlusconi

manteneva il pieno controllo del Senato, e non era ancora sconfitto in tribunale. La sua posizione

interna era sostanzialmente più forte di quella di Papandreou. Nell’intero territorio dell’UE, tuttavia,

l’ostilità verso di lui era molto più grande, dovuta all’imbarazzo di lunga data per la sua performance

 politica; e la volontà di Berlino e Francoforte di liberarsi di lui, come un ostacolo al necessario spurgo

dell’economia italiana e l’ordine sociale, stava diventando inarrestabile. 

*

In ogni caso, per la sua estromissione, era necessario un meccanismo che collegasse l’indebolimento

della sua posizione in patria, non ancora completo, con l’assoluta avversione verso di lui all’estero.

Per sua sfortuna, tale meccanismo era pronto e innescato. Meno evidente di altri mutamenti portati

dalla seconda repubblica, c`è stato un ruolo sempre più forte della presidenza della repubblica nella

 politica italiana. Sotto il regno della DC nella prima repubblica, quando un solo partito

spadroneggiava in ogni legislatura, questo ruolo, in gran parte formale, ha avuto raramente molta

influenza. Ma una volta che, nella seconda Repubblica, le coalizioni rivali si sono scontrate per il

 potere, si è aperto un nuovo spazio di manovra per la presidenza della repubblica. Scalfaro, al

Quirinale dal 1992 al 1999, è stato il primo a usare questo potere, rifiutando di sciogliere il Parlamento

quando Berlusconi perse la sua maggioranza nel 1994, e facilitando il governo di un’alleanza di

centro-sinistra, dandole il tempo necessario per unire le forze e conseguire una vittoria elettorale con

Prodi l’anno successivo. 

Ora il Presidente era Giorgio Napolitano, come Scalfaro un ex Ministro degli Interni. Berlusconi ne

aveva sostenuto l’elezione al Quirinale nel 2006, e aveva motivo di pensare di aver fatto una scelta

sensata aiutando un veterano della classe politica tradizionale. Un “Vicar of Bray” (uno che cambia

 bandiera per rimanere in carica ndt) italiano, Napolitano aveva sempre avuto, nella sua lunga carriera,

un principio chiaro, aderire a qualunque trend politico vincente. L’incipit di una lunga sequenza è giànel suo periodo da studente, quando aderisce al Gruppo Universitario Fascista, nel momento in cui

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l’Italia stava per inviare le truppe ad aggregarsi ai nazisti nell’attacco alla Russia. Una volta caduto il

fascismo, il giovane Napolitano optò per la forza del comunismo. Iscrittosi al PCI a fine 1945, fece

velocemente strada nel partito, fino ad entrare nel Comitato Centrale in circa un decennio.

Quando le truppe e i carrarmati russi soffocarono la rivolta ungherese nel 1956, egli li elogiò.

“L’intervento sovietico ha dato un contributo decisivo, non solo per evitare il collasso dell’Ungheria

nel caos e nella contro-rivoluzione, e per difendere gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma ha

anche salvato la pace del mondo” disse al congresso del partito nel novembre di quell’anno. Salutando

l’espulsione di Solzhenistyn dalla Russia nel 1964, dichiarò: “Solo commentatori faziosi e sciocchi

 possono evocare lo spettro dello stalinismo, non accorgendosi di come Solzhenitsyn abbia spinto le

cose fino a un punto di rottura”. In questo periodo Napolitano era il braccio destro di Giorg io

Amendola che, dopo la morte di Togliatti, era la figura più straordinaria del PCI. Come il suo mentore,egli era per una ferrea disciplina interna al partito, e votò senza alcuna esitazione per l’espulsione dal

 partito del gruppo del Manifesto per aver espresso opinioni contro l’invasione della Cecoslovacchia.

Con appoggi sia nella segreteria sia nell’ufficio politico, era considerato il più probabile futuro leader

del PCI.

Per la carica fu invece scelto Enrico Berlinguer, figura che creava meno divisioni. Napolitano rimase

comunque un “ornamento di potere” del partito mentre si spostò verso l’eurocomunismo. Alla fine

del 1970, fu scelto come primo inviato del PCI per rassicurare gli Stati Uniti sull’affidabilità del

 partito nei rapporti atlantici, diventando presto il “comunista preferito di Kissinger”, secondo le parole

compiaciute del  New York Times. Nel 1980, il trasferimento di fedeltà a un nuovo sovrano era

completo. Il Terzo Reich un brutto ricordo, l’URSS in declino, adesso erano gli Stati Uniti il  potere

da coltivare. Responsabile delle relazioni estere del PCI, si sarebbe preso cura di ammorbidire i

rapporti con Washington a lungo anche dopo la scomparsa del partito. Una volta presidente, ha fatto

di tutto per ingraziarsi sia Bush che Obama.

In patria, il fallimento del tentativo del PCI di realizzare il “compromesso storico” con la Democrazia

Cristiana che ne avrebbe permesso l’ingresso al governo, e l’ascesa, nonostante la corruzione sempre

 più palese, del Partito Socialista di Craxi come partner chiave della DC, portò Berlinguer a

intraprendere una svolta a sinistra. La sua denuncia della degenerazione del sistema politico era un

forte invito a ripulire la vita pubblica. Napolitano rispose con rabbia, lo accusò di isolazionismo

settario e per la “vuota invettiva”. Le relazioni fra i due erano sempre state fredde ma si trattava di

molto più che di rivalità personale. In quel periodo Napolitano guidava la corrente più a destra delPCI, i miglioristi, che sentivano una certa affinità con Craxi, con il quale non volevano alcuna ostilità.

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La base principale della corrente era a Milano, dove “la macchina” di Craxi controllava la città. Lì, a

metà degli anni 80, i miglioristi pubblicarono un giornale,  Il Moderno, non solo sovvenzionato da

Berlusconi, ma che ne celebrava lo spirito rivoluzionario nella modernizzazione dei media e nel

rendere Milano la capitale televisiva di Italia.

Questo accadeva nel 1986, mentre Craxi era primo ministro. Un tribunale avrebbe in seguito giudicato

la Fininvest di Berlusconi colpevole di finanziare illegalmente i miglioristi. Nel mese di febbraio, nel

 periodo antecedente al referendum anti-nucleare in Italia, il giornale del PCI (l’Unità ndt) rifiutò un

articolo pro-nucleare di Giovanni Battista Zorzoli, uno dei seguaci di Napolitano. Furioso, Napolitano

chiese la testa del direttore. Nel 1993 Zorzoli era in manette, condannato a quattro anni e mezzo di

carcere per corruzione risalente al periodo in cui era un alto dirigente della società statale per l’energia

elettrica.

Poco tempo dopo, Napolitano divenne ministro dell’interno nel governo di centro-sinistra del 1996.

Era la prima volta che una personalità di sinistra ricopriva questa carica. Il coinvolgimento della

 polizia italiana e dei servizi segreti nella cosiddetta strategia della tensione, una serie di attentati dal

massacro di Piazza Fontana a Milano nel 1969 a quello della stazione di Bologna nel 1980, fu a lungo

contestato ma mai messo sotto inchiesta. La tensione che poteva causare l’arrivo al ministero di un

ex comunista fu subito dissipata. Napolitano rassicurò i suoi subordinati che non sarebbe andato “in

cerca di scheletri nell’armadio”. Nessuna rivelazione incresciosa rovinò la sua permanenza in carica.

Fu nominato senatore a vita nel 2005. Divenuto Presidente della Repubblica l’anno successivo,

deplorò pubblicamente il trattamento ingiusto riservato a Craxi, morto da latinante in Tunisia, dopo

essere stato condannato in absentia a 27 anni di carcere per corruzione, e addirittura elogiò il suo

ruolo positivo di uomo di stato.

 Non ebbe lo stesso riguardo per Berlusconi, che trattò con benevola accondiscendenza, e a ragione,

non come un politico a tutti gli effetti, come lo erano stati i grandi della Prima Repubblica. Del restoi due non potrebbero essere più diversi nello stile, il decoro cerimonioso di Napolitano in studiato

contrasto con la sfarzosa spavalderia di Berlusconi. Ma avevano un passato comune nella rete di

legami e simpatie attorno a Craxi a Milano, e un interesse comune nello stabilizzare ciò che entrambi

vedevano come potenziali tornaconti della Seconda Repubblica: un sistema politico bipolare sul

modello anglosassone, ridotto ad un centro-destra ed un centro-sinistra, scevro da qualsiasi ostilità al

mercato e al suo guardiano transatlantico. Entrambi avevano inoltre ragione di temere l’insistenza

con cui i pubblici ministeri rivangavano accuse contro il leader più popolare del paese, ed ilrisentimento di minoranze irresponsabili nel servirsene.

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Per Berlusconi, queste erano, certamente, minacce esistenziali. Per Napolitano queste erano

semplicemente divisive, proprio come era stato il moralismo di Berlinguer, che temerariamente

oscillava la barca del moderato consenso di cui il pese aveva bisogno. Lui era più che disponibile ad

aiutare Berlusconi a proteggersi da questi problemi, commutando in legge senza esitazione il Lodo

Alfano del 2008 che garantiva a Berlusconi come primo ministro e lui stesso come Presidente

l’immunità da ogni processo; e quando questo fu dichiarato incostituzionale, approvando con la stessa

velocità il sostituto nel 2010, il legittimo impedimento, che permetteva ai ministri di evitare i processi

appellandosi ai loro doveri urgenti da dipendenti pubblici, che fu a sua volta giudicata incostituzionale

nel 2011. Napolitano fu pubblicamente criticato per il suo appoggio inopportuno del Lodo Alfano da

Ciampi, suo predecessore alla presidenza, e non aveva nessun obbligo a far passare alcuna delle due

leggi: piuttosto il contrario, come ebbe a dimostrare l’esito legale in ambedue i casi.

La condotta di Napolitano, però, si accordava con le aspettative di Berlusconi del modus vivendi tra

di loro, sulla cui base lo aveva sostenuto come presidente.

Un’ulteriore tagliente espressione di tale comprensione è arrivata quando la defezione di Fini ha

 privato il governo Berlusconi di una maggioranza alla Camera , e l’opposizione presentò una mozione

di sfiducia , con i voti in mano per far cadere il governo. Nel 2008 Prodi era stato in una situazione

simile dopo che Berlusconi aveva comprato abbastanza voti in Senato per farlo cadere, un episodio

 per il quale è attualmente sotto accusa per il pagamento di 3 milioni di euro ad un solo senatore per

convincerlo a fare voltagabbana, una tangente che il destinatario ha confessato. Allora, Napolitano

 perse poco tempo, meno di due settimane, per usare la sua prerogativa presidenziale per sciogliere il

Parlamento e indire nuove elezioni, che produssero una valanga di voti per Berlusconi. Questa volta

 però, Napolitano convinse Fini a fermarsi per più di un mese, mentre una legge di bilancio veniva

approvata, dando il tempo a Berlusconi di acquistare la manciata di deputati necessari per ripristinare

la sua maggioranza.

*

Questo però fu l’ultimo favore che Napolitano fece a Berlusconi. Il presidente si stava preparando a

 prendere la situazione in mano. Nella primavera del 2011 il governo annunciò che l’Italia non avrebbe

 preso parte all’azione militare in Libia guidata dagli americani, a cui peraltro la Lega Nord era

fortemente contraria, tanto da minacciare di far cadere il governo se avesse deciso di partecipare. Ma

 Napolitano sapeva cosa andava fatto: per lui, le aspettative di Washington sull’Italia erano più

importanti di sottigliezze costituzionali. Senza alcun voto o dibattito in parlamento, , e ottenuto

l’appoggio degli ex comunisti, il presidente lanciò l’Italia in guerra, mandando l’aeronautica militare

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a bombardare un paese vicino, con cui l’Italia aveva firmato un accordo di amicizia, cooperazione e

alleanza militare, ratificato da una stragrande maggioranza alla Camera, inclusi gli ex comunisti,

appena due anni prima.

Entro l’estate successiva, incoraggiato dalle lusinghe dei media che lo proclamarono la pietra miliare

della Repubblica, e con il supporto di Berlino, Bruxelles e Francoforte, aveva deciso di mettere fuori

gioco Berlusconi. La mossa chiave per sbarazzarsi del presidente del consiglio era trovare un

rimpiazzamento adeguato che soddisfacesse gli alleati e i maggiori esponenti della vita economica

italiana. Per sua fortuna, la figura ideale era a portata di mano: Mario Monti, ex commissario UE,

membro del gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale, senior adviser  per la Goldman Sachs

e all’epoca rettore dell’università Bocconi. Era un po’ di tempo che Monti non vedeva l’ora di

aggiustare la situazione in Italia, e ora finalmente l’occasione era giunta. “I governi italiani sanno prendere delle decisioni dure”, confidò nel 2005 all’ Economist , “solo se due condizioni sono

soddisfatte: deve essere in atto un’emergenza palpabile e deve essere presente una forte pressione

dall’esterno. Purtroppo”, si rammaricò, “non è ancora giunto il momento della verità.” E adesso era

arrivato.

Già a giugno o luglio, nella più totale segretezza, Napolitano preparò Monti a prendere le redini del

governo. Nello stesso periodo, chiese al direttore del più grande gruppo bancario in Italia, Corrado

Passera, di preparare un piano economico per il paese. Passera in passato aveva collaborato con l’arci-

nemico politico e rivale in affari di Berlusconi, Carlo De Benedetti, proprietario de La Repubblica e

 L’Espresso, che era al corrente delle mosse di Napolitano. Redatto in un corsivo impellente, il

documento di 196 pagine di Passera proponeva una terapia shock: 100 miliardi di euro in

 privatizzazioni, tasse immobiliari, imposte sul capitale ed un aumento dell’IVA. Napolitano, al

telefono con la Merkel e con Draghi, adesso aveva l’uomo ed il piano pronto per far fuori Berlusconi.

Monti non si era mai candidato alle elezioni, e sebbene un seggio in parlamento non era un requisito

 per la candidatura a presidente del consiglio, sarebbe stato opportuno che Monti ne avesse uno.

 Non vi era tempo da perdere: il 9 novembre Napolitano strappò Monti dalla Bocconi e lo investì della

carica di senatore a vita, con il plauso della stampa finanziaria mondiale. Berlusconi, sotto la minaccia

di distruzione per mano del mercato delle obbligazioni dovesse egli resistere, capitolò e in una

settimana Monti diventò il governante del paese alla guida di un gabinetto non eletto di banchieri,

uomini d’affari e tecnocrati. L’operazione che lo portò al potere è un esempio di cosa possano

significare al giorno d’oggi in Europa le procedure democratiche e la legge. Fu un atto completamenteincostituzionale. Il presidente italiano ha il dovere di esser e il guardiano imparziale dell’ordine

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 parlamentare, colui che non interferisce con le decisioni del suddetto, salvo nel caso in cui queste

decisioni violino la costituzione, cosa che il parlamento fallì chiaramente. Non è autorizzato a

cospirare, alle spalle di un presidente del consiglio eletto, con individui scelti da lui, nemmeno in

Parlamento, per formare un governo che sia di suo gradimento. La corruzione nel mondo degli affari,

nella burocrazia e nella politica si era ormai fusa alla corruzione nella costituzione in Italia.

I fatti avvenuti quell’estate dentro le stanze del Quirinale rimasero nascosti all’opinione pubblica. I

dettagli sono emersi alla luce solo quest’anno con le parole dello stesso Monti, un ingenuo in questo

senso, e subito smentite da Napolitano. Nel frattempo, la reazione della classe dirigente al nuovo

governo oscillava fra sollievo ed euforia. Agli occhi degli opinionisti italiani e stranieri il nuovo

governo appariva come una seconda chance per l’Italia di voltare pagina e ricominciare da dove ci si

era fermati, dopo la caduta della prima repubblica. Finalmente alla guida vi era un governo onesto ecompetente, non solo impegnato a riformare tutto quello che non andava in Italia, come un mercato

del lavoro rigido, pensioni insostenibili, nepotismo universitario, restrizioni corporative, mancanza

di competitività industriale, privatizzazioni insufficienti, un sistema giuridico lento ed evasione

fiscale, ma anche capace di navigare nella tempesta dei mercati finanziari che stava sballottando il

 paese. Una nuova, vera, Seconda Repubblica era sorta dopo vent’anni di messinscene. Forti tagli alla

spesa pubblica, dure manovre fiscali e i cambiamenti iniziali alle disastrose leggi sul lavoro degli anni

settanta, erano i primi passi per ripristinare la fiducia nello stato.

Visti da un’altra prospettiva, questi eventi ricordavano la congiuntura dei primi anni novanta quando

Ciampi, il governatore della Banca d’Italia, fu chiamato per il ruolo di presidente del consiglio nel

 bel mezzo della crisi di Tangentopoli. Ma le similitudini non erano del tutto positive.

L’amministrazione Monti era simile a quella Ciampi per composizione ed intenzioni politiche. Nel

frattempo però, molte cose erano cambiate, soprattutto se si guarda da che contesto venivano le figure

di questo nuovo ordine, Monti e Draghi, suo garante a Francoforte. Nel 1994, Berlusconi si presentò

come un innovatore con un passato da uomo d’affari, la cui vittoria avrebbe sepolto la corruzione e il

disordine creato dalla classe politica della prima repubblica. In realtà, fece la sua fortuna proprio con

l’aiuto di quella classe politica. La crisi del 2011 che attanagliava l’Europa e l’Italia era partita da

un’ondata di speculazioni finanziarie e manipolazioni di derivati su entrambe le sponde

dell’Atlantico. L’operatore finanziario più noto che ebbe la sua parte nella crisi aveva nei suoi libri

 paga Monti e Draghi. La società Goldman Sachs, che si era ampiamente guadagnata il soprannome

di “calamaro sanguisuga”, era stata complice della falsificazioni dei conti pubblici greci ed accusata

dalla Security and Exchange Commission (NdT Commissione per i Titoli e gli Scambi, ente federale

statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, analogo all’italiana Consob.) di frode,

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risolvendo poi la faccenda fuori dal tribunale con un pagamento di mezzo miliardo di

dollari. Aspettarsi un taglio netto con il passato da parte di Monti e Draghi era appena più realistico

che credere che il patrocinio di Craxi su Berlusconi non avesse lasciato segni.

Vi erano altre similitudini con il passato non meno impressionanti. Nell’estate del 2012 emerse che

 Napolitano fosse intervenuto per bloccare l’interrogatorio di Nicola Mancino, democristiano  e

ministro dell’interno nel 1992, quando il magistrato palermitano Paolo Borsellino venne assassinato

dalla mafia. Mancino era uno dei quattro ministri dell’Interno –  un altro era Scalfaro –  recipienti di

fondi neri provenienti dal SISDE, i servizi segreti. Mancino aveva sempre negato il fatto di aver

incontrato Borsellino poco prima della sua morte, nonostante ci fossero le prove che dimostrassero il

contrario. La questione non era mai stata chiarita fino al momento in cui la magistratura aprì

un’inchiesta sui possibili collegamenti fra stato e mafia, minacciando così Mancino con un confrontocon gli altri due ministri dell’epoca. In grande agitazione, Mancino chiamò il Quirinale e pregò il

 braccio destro di Napolitano incaricato delle questioni legali, Loris D’Ambrosio, di proteggerlo. La

sua richiesta non fu respinta, anzi, gli venne detto che il presidente era molto preoccupato per lui.

 Napolitano in seguito chiamò Mancino, non sapendo che il telefono di quest’ultimo era sotto

sorveglianza nell’ambito dell’inchiesta. 

Quando le registrazioni delle telefonate fra Mancino e D’Ambrosio vennero pubblicate, così come la

notizia che la magistratura era in possesso delle registrazioni telefoniche fra Napolitano e Mancino,

il presidente invocò l’immunità assoluta del suo incarico e ordinò di far distruggere le registrazioni,

in pieno stile Nixon. Salvatore, il fratello di Borsellino, chiese l’impeachment di Napolitano. Negli

Stati Uniti questo sarebbe stato possibile, dal momento che vi era stata una lampante ostruzione alla

giustizia da parte del presidente. In Italia questo era impensabile. La classe politica e i media chiusero

i ranghi attorno al presidente, esattamente nella stessa maniera di quando Scalfaro usò il suo aiutante

 per soffocare lo scandalo del SISDE. L’assistente di Napolitano, l’Ehrlichman italiano, morì di infarto

 proprio nel bel mezzo di questa crisi. Come al solito, Marco Travaglio, forse il più grande giornalista

europeo, fu l’unico a chiamare le cose con il proprio nome. Nel suo libro Viva il Re! pubblicato lo

scorso anno, stilò un’esauriente condanna del comportamento di Napolitano in seicento pagine di

documentazione schiacciante. Altrove, il pericolo per la posizione del presidente fece alzare un coro

di voci ruffiane e raggiunse livelli quasi isterici.

 Nel frattempo Monti, salutato con entusiasmo all’inizio del suo incarico e insignito sul Financial

Times del nomignolo di ‘Super Mario’, si stava dimostrando una delusione. Incaricato con riluttanzasia dal centro sinistra che dal centro destra, lo spazio di manovra di Monti era limitato, dal momento

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che non aveva pieno appoggio di nessuno dei due blocchi e la base dei due movimenti politici era

scontenta di questo accordo. Presto però divenne chiaro che i suoi rimedi non stavano portando alcun

 beneficio. Sotto un regime che un critico italiano definì “austeritario”, la combinazione di Monti di

alzare le tasse ed abbassare la spesa pubblica abbassò sì lo spread ed il deficit ma intensificò anche la

recessione. I consumi crollarono e la disoccupazione giovanile aumentò. Le riforme strutturali, come

intese dalla Commissione Europea e dalla BCE, non si materializzavano. Nel 2012, il PIL arretrò del

2,4%. Dal punto di visto politico, vi era poco da guadagnare continuando a sostenere quello che era

diventato un governo molto impopolare. Alla fine dell’anno, il centro-destra uscì da questa intesa e

 Napolitano, riluttante, dovette sciogliere le camere con Monti al suo posto, finché non fossero state

indette nuove elezioni.

*

I sondaggi indicavano da qualche tempo che il centro sinistra era costantemente in vantaggio nelle

intenzioni di voto degli elettori e stava per vendicare l’umiliazione subita nel 2008. Monti si era

rivelato un fallimento. Berlusconi era sempre più in disgrazia e la coalizione di centro-destra si era

divisa in tre parti. Non solo Fini aveva rotto con Berlusconi, ma anche Bossi lo aveva lasciato,

rifiutando di dare appoggio al governo Monti, poco prima di essere poi coinvolto in uno scandalo di

corruzione e di essere messo da parte da una Lega ormai molto indebolita. In autunno, le tre parti

sparpagliate della precendente coalizione attraevano appena poco più di un quarto dell’elettorato. 

Il centro-sinistra, nonostante fosse lontano dalla prosperità, era in forma migliore. Il ribattezzato

Partito Democratico, nato dall’unione dei rimasugli di quello che era stato una volta il comunismo

italiano e di un’ala della Democrazia Cristiana, aveva avuto pessimi risultati nel 2008 sotto la guida

dell’insignificante Walter Veltroni, definito affettuosamente da Napolitano “un Obama ante

litteram”. Dopo le dimissioni di Veltroni, il PD si procurò un nuovo leader, Pierluigi Bersani,

 proveniente dalle schiere di amministratori emiliani dell’ex PC, un miglioramento dell’immagine,dall’insipido al flemmatico. 

Senza infondere entusiasmo, la leadership di Bersani per lo meno evitò ulteriori perdite di sostegno

al partito, lasciandolo abbastanza stabile nei sondaggi d’opinione, e molto in vantaggio rispetto al

centro-destra. Nell’autunno del 2012, sfidato dal giovane sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che si era

fatto un nome chiedendo che tutta la vecchia generazione della classe politica venisse rottamata,

Bersani lo sconfisse facilmente alle primarie del partito. Queste ebbero una forte affluenza che

rinforzò la posizione del partito e aumentò il distacco nei sondaggi.

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Ma restava un jolly. Tre anni prima, il comico Beppe Grillo aveva lanciato un movimento contro

l’establishment  politico che aveva ottenuto dei successi alle elezioni locali. Non era chiaro quanto

dovesse essere preso seriamente. Ma siccome non c’era niente del genere in Europa, e non c’era un

 precedente per poter farsi un’idea, non poteva essere trascurato. 

Grillo aveva iniziato come comico nei cabaret degli anni ‘70, laureandosi poi in spettacoli televisivi

molto famosi la cui satira politica si era affilata gradualmente. Nel 1986, dopo aver fatto la battuta

che ad un banchetto per Craxi a Pechino uno dei suoi associati gli aveva chiesto stupito “se tutti qui

sono socialisti, da chi possono rubare?”, Grillo fu estromesso dalla televisione pubblica.

Questa non fu la sua sola anticipazione su ciò che c’era da aspettarsi in futuro. Negli anni 1990,

gradualmente iniziò a riempire teatri e piazze con monologhi con un forte messaggio ambientale,denunciando i numerosi scandali del periodo con una combinazione di profanità crudeli e arguzia

 bruciante.

Il suo pubblico crebbe, e poi fece un salto di qualità quando iniziò ad usare internet come un mezzo

alternativo per attacchi caustici alla classe dirigente e ai suoi affiliati: centro-destra, centro-sinistra,

televisione e stampa. Il suo blog divenne un successo selvaggio. Schiavi Moderni, un libro che

raccoglieva le risposte dei lettori al blog, allargò il suo orizzonte verso le sorti della forza lavoro

 precaria. In quel periodo lavorava a stretto contatto con uno specialista di software, Gianroberto

Casaleggio, e nel 2009 insieme lanciarono il Movimento Cinque Stelle come rivolta conto il sistema

 politico.

Le stelle simbolizzavano i punti chiave del loro programma: acqua (minacciata di privatizzazione),

ambiente, trasporti, connettività e sviluppo.

I membri del M5S che si candidavano per le elezioni dovevano giurare, cosa unica al mondo, che non

sarebbero apparsi in televisione, e che se eletti avrebbero ridotto il loro stipendio parlamentare ad un

livello di media italiana, devolvendo il resto per scopi pubblici. Grillo era interdetto dal candidarsi in

Parlamento per una condanna di omicidio colposo subita quando era un trentenne, quando la sua jeep

slittò da una strada ghiacciata in un burrone uccidendo tre dei suoi passeggeri. Tuttavia la sua

interdizione non gli impediva di fare campagna elettorale. Viaggiando in lungo e in largo con il suo

“Tsunami Tour” di circa ottanta città, la sua grigia chioma agguerrita ormai familiare a tutti, attaccava 

non solo le “due caste” italiane, i politici e i giornalisti, ma anche l’intero establishment burocratico

e bancario europeo, con le sue direttive neoliberali di austerità e la moneta unica. I suoi comizi erano

 popolati da grandi folle di persone curiose o già convinte.

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Quando i voti furono contati, il PD subì uno shock doppio. Nonostante la coalizione residua di

Berlusconi perse sette milioni di voti, la sua resistenza in campagna elettorale portò il centro-destra,

che all’inizio era sembrato una causa persa, ad un pelo dalla vittoria: solo 0.35% dietro al centro-

sinistra, che a sua volta ne aveva persi più di tre milioni, e nessuno dei due blocchi raggiunse il 30%

dei voti. l M5S d’altra parta era andato da zero al 25%, diventando, se si escludono gli italiani

all’estero, il più grande partito italiano, avendo attirato voti da entrambi i campi convenzionali 

Le tre parole d’ordine di Grillo per sollevare una rivolta popolare –  risata, informazione e azione

 politica –  si erano rivelate incredibilmente efficaci. I grillini presero più voti del centro-destra e del

centro-sinistra dagli operai, i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi, gli studenti e i disoccupati;

il centro-destra predominava solo fra le casalinghe mentre il centro-sinistra fra i pensionati e gli

impiegati.

Questa fu l’aritmetica elettorale. Ma i numeri parlamentari erano un’altra cosa. Centrale alla Seconda

Repubblica, fin dalla sua nascita nel 1993, era stato un cambiamento nel sistema elettorale, cioè

l’abolizione della rappresentazione proporzionale in favore di un semplice sistema maggioritario di

tipo anglosassone.

 Nessun cambiamento era stato richiesto più passionatamente dal “pensiero unico” del tempo, che lo

vedeva come la chiave ad un governo efficiente e responsabile. Niente di tutto ciò si avverò. Dieci

anni più tardi, nel 2005, la coalizione di centro-destra al governo, temendo una sconfitta sotto quel

sistema (del quale aveva beneficiato prima) lo cambiò in un sistema nominalmente proporzionale, ma

con l’aggiunta di un premio di maggioranza alla coalizione vincente, indipendentemente dalla

 percentuale di voti ricevuti, assegnandole un’automatica maggioranza del 54% dei seggi alla Camera.

Chiamato beffardamente “il porcellum”, come poi divenne famoso, anche dal deputato che lo ideò,

lo sfacciato deputato della Lega Roberto Calderoli, era il discendente di due altre famigerate

distorsioni del volere popolare in Italia: la Legge Acerbo del 1923, spinta da Mussolini perconsolidare il suo governo, che assegnava due terzi dei seggi del Parlamento al partito che aveva il

 più alto numero di voti al di sopra del limite del 25%; e la Legge Truffa di Scelba del 1953, che

assegnava il 65% dei seggi alla coalizione che riceveva più del 50%, e fu così odiata che dovette

venire abrogata quando la DC al governo non riuscì a raggiungere il richiesto 50% dei voti più uno

nell’unica elezione che si tenne in quel periodo. 

Il Porcellum era meno generoso rispetto ai suoi antenati fascista e democristiano nella misura del

 premio (54% contro il 64 e 65% rispettivamente dei deputati), ma era anche meno esigente nei

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requisiti per ottenerlo, visto che neanche un quarto dei voti era necessario per aggiudicarsi più della

metà dei seggi alla Camera.

 Nel 2013 questo comportò che il centro-sinistra, pienamente cosciente di aver subito una sconfitta

disastrosa alle elezioni, nondimeno, grazie al piccolissimo margine di vantaggio, ricevette una

maggioranza schiacciante di deputati: 345 contro i 125 del centro-destra e i 109 del M5S, su un totale

di 630. Eppure ciò non facilitò la strada verso il governo. Infatti, in obbedienza alla costituzione, il

Senato, i cui poteri sono equivalenti a quelli della Camera, richiede una base regionale di elezione.

Quindi il premio assegnato dal Porcellum su base nazionale non poteva essere applicato al Senato,

come fece notare Ciampi, che era presidente quando il Porcellum era stato introdotto. La maggioranza

al Senato invece doveva andare alla coalizione con il maggior numero di voti in ciascuna regione. Il

risultato era molto meno favorevole al PD, che guadagnò solo 123 seggi su un totale di 315. Performare un governo era necessario un voto di fiducia in entrambe le camere.

Per assicurarsi la fiducia, Bersani doveva fare un accordo, di coalizione o di tolleranza, con Berlusconi

o Grillo. Il primo era anatema per la base del PD, così lui provò il secondo. Ma Grillo non era

interessato. Per il M5S, il risultato ideale dell’impasse post-elezioni era un governo di coalizione

Berlusconi-Bersani, che avrebbe costituito la prova delle sue affermazioni che il centro-destra e il

centro-sinistra erano due facce della stessa moneta (dato che l’acronimo del partito di Berlusconi è

PDL, Grillo chiamava il partito di Bersani PD meno L) contro la quale il M5S era l’unica

opposizione. Questo f ece sì che l’unica opzione era un governo di minoranza di centro sinistra che

avrebbe chiesto la fiducia quando fosse necessario.

 Napolitano, da cui era necessario essere invitati per presentare il governo ed ottenere l’investitura in

 parlamento, respinse questa proposta. Scontento per il fatto che il regime Monti che lui aveva

 progettato, sostenuto sia dal centro-sinistra che dal centro-destra, era caduta prematuramente, ne

voleva una seconda edizione.

In linea con una carriera costruita sull’adesione ai poteri forti del momento, per lui adesso

contava l’UE, le cui direttive erano la pietra di paragone della responsabilità. Così l’imperativo era

un governo bipartisan che avrebbe protetto la stabilità e l’austerità richieste da Francoforte e Bruxelles

contro il malcontento popolare. Bersani si oppose a questa prospettiva. Questo impasse sembrava

senza soluzione quando, dopo 6 settimane di trattative post-elettorali, il mandato presidenziale di

 Napolitano scadette. La stampa si riempì di editoriali che lo supplicavano di accettare di rimanere per

un altro mandato come una garanzia contro il caos. Ma era una regola non scritta che nessun

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 presidente italiano fosse rieletto, e Napolitano categoricamente e ripetutamente rifiutò questa

 possibilità. Aveva fatto il suo dovere e ora era pronto ad andarsene.

Prima di andare assolse ad un ultimo compito. Il 5 aprile perdonò il colonnello americano Joseph

Romano, condannato in absentia a sette anni per il suo ruolo nel rapimento di un imam egiziano, che

fu poi portato con un aereo militare americano al Cairo per subire mesi di tortura nelle mani della

 polizia di Mubarak. Secondo la costituzione, un perdono presidenziale può essere concesso solo per

motivi umanitari ma non politici. Romano non aveva passato neanche un giorno in prigione perché

era scappato dal Paese. Ma Obama aveva personalmente richiesto che la sua marachella fosse

trascurata, e Napolitano non esitò, come aveva spesso fatto prima, a calpestare la costituzione,

spiegando che aveva perdonato Romano “per ovviare ad un situazione evidentemente delicata con un

 paese amico”. Il sovrano era cambiato, e i crimini pure. Ma l’attitudine ai poteri alti era sempre lastessa.

Un presidente italiano viene eletto con una sessione unificata delle due camere del Parlamento, con

dei rappresentanti delle regioni e con voto segreto. È necessaria una maggioranza di due terzi per

l’elezione nelle prime tre votazioni, mentre per le successive basta la maggioranza semplice. Siccome

i voti sono segreti, le direttive del partito sono deboli, e sono necessari molti tentativi prima di ottenere

un candidato vincente. Nel 2006 Napolitano fu eletto alla quarta votazione. Nel 2013 con 1007

elettori, ci volevano 672 voti nelle prime 3 tornate, e 504 dopo. Il centro sinistra aveva 493 di questi,

una posizione di partenza di forza mai vista prima. Ma siccome il presidente deve essere super partes,

la convenzione vuole che il candidato vincente abbia una certa misura di consenso di tutti i partiti. Il

PD quindi cercò di accordarsi con il centro-destra per qualcuno che entrambi gli schieramenti

 potessero appoggiare. Allora fu scelto Franco Marini, un democristiano di lunga data ed ex-presidente

del Senato. Immediatamente definito un fossile senza credibilità da Renzi, la cui fazione nel PD

disertò, Marini ottenne 521 voti, meno dei necessari due terzi ma sufficienti per una maggioranza

semplice.

 Nervosi per questa sconfitta, invece di resistere fino al quarto round, il PD abbandonò Marini, e nello

scompiglio generale votò scheda bianca nelle due elezioni successive, nelle quali Stefano Rodotà,

candidato proposto dal M5S, fu il più votato con 230 e 250 voti. Grillo, lasciando perdere il suo rifiuto

di avere qualcosa a che fare con il PD, li esortò a unire le forze per eleggere Rodotà al turno

successivo, suggerendo che questo avrebbe potuto portare ad una collaborazione tra i due

schieramenti per un accordo di governo. Quella di Rodotà non era una scelta settaria; molto rispettato,era un ex-presidente di una precedente incarnazione del PD. Però, essendo un pedante della legalità

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costituzionale, non era una figura accettabile per ciò che era diventato il PD, dove si temeva che

avrebbe potuto impedire le alterazioni istituzionali in programma, per non parlare poi della possibilità

di distruggere qualunque apertura con Berlusconi, che lo considerava un anatema.

Radunando le sue truppe, Bersani propose invece Romano Prodi, il cui nome ricevette un lungo

applauso dal suo partito. A questo punto era necessaria solo una semplice maggioranza. Il centro-

destra abbandonò l’aula. Eppure quando i voti furono contati, Prodi ne aveva ricevuti solo 395, un

centinaio in meno dei voti che il centro-sinistra aveva a disposizione. Questa volta non era solo la

fazione di Renzi, ma tra i sabotatori c’erano anche i seguaci del suo grande oppositore D’Alema, che

ce l’aveva ancora con Prodi dai tempi della loro rivalità negli anni ‘90. Il PD si era rivelato essere

una marmaglia demoralizzata, apparentemente incapace di un minimo di lealtà politica e unità. In

lacrime Bersani si dimise da leader, e fra le grida assordanti della stampa sul pericolo diingovernabilità incombente sul Paese, il partito si affrettò ad unirsi a Berlusconi nel pregare

 Napolitano di salvare l’Italia con un secondo mandato. Con innumerevoli proteste, dicendo che non

voleva farlo, alla fine accettò gentilmente, e alla sesta votazione ritornò facilmente al posto che aveva

apparentemente appena lasciato. All’età di 87 anni, era sorpassato solo da Mugabe, Peres e il

moribondo re saudita.

Il governo non era stato ancora formato, ma dimessosi Bersani, un personaggio troppo diretto per

essere adatto, Napolitano poteva procedere a ricreare il governissimo dei suoi desideri, centro-sinistra

congiunto al centro-destra. Adesso poteva farlo più apertamente, chiamando i vari leader a consultarsi

con lui e suggerendo le loro scelte. Come presidente del consiglio scelse il vicepresidente del PD

Enrico Letta, un ex-democristiano il cui zio Gianni Letta era stato il più civile dei consiglieri di

Berlusconi. Alfano, il responsabile della legge che aveva assegnato l’immunità a Berlusconi e

 Napolitano, diventò vice-premier. Un funzionario della banca centrale fu assegnato al Tesoro come

garanzia di continuità con il governo Monti, e in obbedienza al compatto fiscale

Berlusconi tuttavia, che doveva molto della sua rinascita elettorale alle sue promesse che avrebbe

cancellato la tassa sulla casa di Monti e bloccato un ulteriore aumento dell’IVA, rese

l’implementazione di queste promesse una condizione necessaria per dare il suo assenso alla

coalizione.

Il risultato fu un governo che navigava inefficientemente a zig-zag tra impegni incompatibili. Alla

fine dell’anno, l’economia aveva contratto un ulteriore 1,9% e il debito pubblico era salito al 133%

del PIL. A parte i suoi risultati economici, il governo Letta fu rapidamente macchiato da due tipici

scandali. Alfano, che era anche ministro degli interni, fu coinvolto nel trasporto della moglie e della

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 probabile destino del centro-destra se ci fossero state delle elezioni in quelle circostanze. Il risultato

fu una spaccatura, con Alfano che sottrasse dal controllo di Berlusconi un numero di deputati tale da

formare un nuovo partito di centro-destra che dava al governo una maggioranza stabile non più

soggetta ai suoi capricci. Dieci giorni più tardi Berlusconi fu cacciato dal Senato.

La vittoria di Letta sembrava completa. Le sue capacità diplomatiche, apprese in una tradizione

democristiana, avevano giocato un ruolo chiave nel distaccare Alfano e i suoi seguaci dal loro leader.

Fini era sempre stato un outsider . Ma Alfano era uno dei suoi, quasi l’erede di Berlusconi: la sua

defezione fu la prima spaccatura reale del partito che Berlusconi aveva costruito intorno a sé. Ma il

trionfo di Letta si rivelò breve. Pochi giorni dopo Renzi vinse le primarie per la presidenza del PD,

in seguito alle dimissioni di Bersani, e licenziò la vecchia guardia del partito, affollando il direttorato

in carica del suo apparato con esperti e ammiratori della sua generazione. Ancora sindaco di Firenze,e senza neanche essere stato eletto al Parlamento, ma ora al comando del suo più grande contingente

di deputati, aveva più potere reale di Letta e non perse tempo a dimostrarlo.

Berlusconi sarà un criminale condannato ma non era certo un paria, ma  piuttosto l’interlocutore

naturale del nuovo leader, un politico che si era ritirato all’opposizione ma non era stato eliminato

dal ring, e il capo del secondo maggiore partito del paese. La mossa successiva era di fare un patto

con lui. In breve tempo Renzi aveva iniziato delle conversazioni confidenziali con Berlusconi, e i due

uomini avevano raggiunto un accordo sulle riforme elettorali e costituzionali che dovevano essere

fatte passare in un Parlamento del quale nessuno dei due era membro, in un patto che ignorava la

maggioranza di Letta. Cosa ne sarebbe stato del Presidente del Consiglio? In tweets che suonavano

un po’ come quelli di un adolescente che vuole far calmare una fidanzata che sta per lasciare, Renzi

gli scrisse: “Enrico stai sereno nessuno ti vuol prendere il posto”. Un mese più tardi Renzi aveva

eliminato Letta e preso il suo posto come il più giovane Presidente del Consiglio italiano.

Come la sua vittima, Renzi viene da un passato da democristiano (suo padre era un consigliere DCnella loro cittadina d’origine fuori Firenze) anche se per ragioni di età crebbe nel movimento degli

scout cattolici e non, come Letta, nell’organizzazione giovanile della DC. La sua famiglia aveva

un’azienda di marketing nella quale egli fu impiegato fino a quando entrò a tempo pieno in politica;

fra i suoi clienti c’era il quotidiano regionale  La Nazione. Quando si unì ad uno dei gruppi rimasti

dopo la dissoluzione della DC , Renzi li seguì nel partito di centro “la Margherita” che poi più tardi

si unì a sua volta con ciò che restava del Comunismo Italiano per formare un’ala di destra del PD, e

all’età di 29 anni fu scelto per diventare il presidente della Provincia di Firenze: il tipo di impiego chein seguito denuncerà come uno spreco di soldi e che cercherà di abolire.

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 Matteo Renzi sulla copertina di ‘ Vanity Fair ’  , Novembre 2013, e in parlamento prima di un voto di fiducia, Febbraio 2014.

Fin dal periodo in cui era a capo della provincia, Renzi aveva costruito una rete di connessioni con le

aziende locali. Il suo più importante sostenitore finanziario era il capo di un’azienda di costruzioni,

Marco Carrai, i cui interessi arrivavano fino all’America, e che aveva legami persino con l’Opus Dei.

Una volta che Renzi si stabilì a Palazzo Vecchio, Carrai fu incaricato di occuparsi del redditizio

 parcheggio cittadino e dell’aeroporto, mentre Renzi si sistemava in un appartamento fornitogli gratis

da Carrai, una situazione che al momento è oggetto di un’inchiesta giudiziaria. Come candidato alla

 presidenza del PD tre anni più tardi, la sua campagna elettorale costata €600.000 alla Fondazione BigBang, i cui donatori rimasero segreti, Renzi non si fece mancare niente. Uno dei contributi maggiori

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interlocutore chiave del centro-destra. Da sindaco, Renzi partecipò ad una cena confidenziale con

Berlusconi nella sua villa di Arcore, in un pellegrinaggio considerato tabù nel PD in quel periodo, e

rivelato solo più tardi. A legare i due non c’era tuttavia solo una comune simpatia per Blair e

l’apprezzamento del valore dell’imprenditoria. Berlusconi ha spesso spiegato che lui vede in Renzi

una versione più giovane di se stesso: le stesse intuizioni, l’audacia e il fascino con cui aveva attratto

la nazione venti anni prima.

Chiaramente, in effetti i due hanno molto in comune nello stile politico. Prima di tutto, un’inossidabile

fiducia nella propria eccezionale abilità di governare il paese. La personalizzazione della politica da

 parte di Berlusconi è leggendaria. La proiezione di Renzi di se stesso ha un tono diverso ma è molto

simile. Raffigurato nei poster lungo il tragitto del suo viaggio in giro per l’Italia, lo slogan della sua

campagna per essere eletto alla guida del suo partito non faceva riferimento affatto al suo programma,ma solo alla sua persona. Diceva semplicemente: “Matteo Renzi adesso!”. Come con Silvio, questo

 bastava. Questa fiducia in se stessi li innalza al di sopra dei dubbi o degli scrupoli dei loro pari. Le

forme della loro spietatezza tattica sono diverse. Ma come politici entrambi hanno il pregio del “non

mi ferma nulla”, la cui giustificazione viene da due convinzioni: che solo loro possono realizzare ciò

che il momento richiede, e che solo loro hanno un rapporto con gli elettori (non tutti gli italiani, ma i

migliori, quelli che costituiscono la maggioranza del paese) che investe tutto ciò che fanno di una

legittimazione incontestabile. Entrambi naturalmente sono arrivati alla ribalta in un periodo di crisi, promettendo al paese un nuovo inizio in un momento in cui l’ordine politico costituito era largamente

in discredito.

Questi sono i parallelismi evidenti. Ma ci sono anche delle differenze ovvie. Di queste, quattro sono

le più significative. Berlusconi entrò in politica a capo di un impero commerciale, usando le sue

enormi risorse per vincere un potere che poteva proteggere i suoi interessi. Aveva quasi 60 anni

quando lo fece. Il suo principale strumento nel raggiungere e mantenere il potere era il controllo della

televisione. Le sue abilità nella comunicazione erano quelle di un professionista del piccolo schermo,

di cui conosceva i rituali e le risorse intimamente, da venditore e proprietario dei canali sui quali

appariva in comizi alla nazione, attentamente preparati. Renzi, al contrario, è una creatura politica.

La sua ascesa potrebbe aver lasciato un leggero odore: pecunia non olet  raramente è una verità. Ma i

fondi, dubbi o meno, sono stati solo un mezzo per le sue ambizioni: la ricchezza non è un fine.

L’obiettivo è il potere. 

La seconda maggiore differenza è che questa volta il potere è stato preso da un individuo non ancora40enne, non da un 60enne: una generazione più giovane. Berlusconi basò molta della sua attrazione

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iniziale non solo sulla sua affermazione di essere un “outsider” del sistema politico, ma anche di

essere una persona che aveva dimostrato le sue capacità nel creare ricchezza come imprenditore e

manager: poteva quindi governare l’Italia allo stesso modo in cui aveva diretto le sue stazioni

televisive e la sua squadra di calcio.

Il fascino di Renzi è l’età, non l’esperienza. Da solo, il giovanilismo è una carta banale giocata dai

 politici in ascesa un po’ ovunque nelle società post-moderne. Ma Renzi ha fatto della sua gioventù

molto di più che un semplice attributo: la spada emblematica di un futuro ringiovanimento collettivo,

che squarta le disfunzioni geriatriche del sistema politico e dei suoi detriti in tutta la vita sociale ed

economica. Questo tipo di promessa non ha le credenziali tangibili di successo materiale che

Berlusconi poteva vantare ma, grazie al collegamento diretto con le frustrazioni di due generazioni

d‘italiani soffocate dall’immobilità e dal decadimento della Seconda Repubblica, è un richiamoestremamente potente.

Insieme con la differenza nel messaggio, c’è anche la variazione nei mezzi. Renzi inizialmente giunse

all’attenzione pubblica come il vincitore di un famoso quiz televisivo, e da allora non ha mai perso il

suo entusiasmo per apparizioni in televisione di tutti i tipi, in cui il suo gradevole aspetto paffuto e i

suoi modi spavaldi lo hanno reso naturalmente attraente una volta entrato in politica. Ma col tempo

il web è diventato la sua reale forza. Facebook per mettere in luce la sua immagine e coltivare i suoi

sostenitori in modo molto più veloce di quanto possa offrire uno studio televisivo, e sotto un controllo

 più completo (anche se soggetto alle gaffes occasionali, come quando postò una sua immagine al

fianco di Mandela in ospedale, qualche instante dopo l’annuncio della morte del leader africano);

Twitter per fornire un flusso continuo dei suoi motti e delle sue opinioni sull’attualità. Berlusconi,

anche se amava raccontare barzellette da bar in situazioni informali, tendeva alla pomposità formale

nei suoi comizi politici sempre accuratamente programmati, pronunciati con giacche a doppio petto

in un’imponente studio di Arcore pieno di libri. Renzi al contrario, è ostentatamente casuale nel modo

di parlare e di vestire. Quando diventò Presidente del Consiglio, si rivolse al Senato con le mani in

tasca. La cosa non fu ben accolta. Ma in generale è un comunicatore molto superiore a Berlusconi,

molto più veloce nelle sue reazioni politiche, con una destrezza eccezionale verso battute fulminanti

e rimbeccate pungenti. Al paragone, i suoi modelli Blair e Obama sono le creature legnose di coloro

che gli scrivono i discorsi. Renzi non è solo molto più veloce dal lato verbale. Come il suo migliore

 biografo ha notato, a differenza di praticamente tutti i leader occidentali di oggi, lui non ha bisogno

di alcun portavoce. Lui è se stesso senza fare alcuno sforzo. Il pericolo sta nella sua arroganza troppo

evidente, che invita allo scherno. Durante la sua ascesa, sapeva come trasformare le satire su di sé in

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un’allegra auto-ironia. Se questo continuerà adesso che è al vertice, dove troppe battute velenose e

commenti sprezzanti rischiano di irritare, è tutto da scoprire.

*

Per il momento sta andando a gonfie vele. Per vent’anni i discendenti del comunismo italiano hanno

cercato invano ciò che lui [Renzi] ha ottenuto in un paio di settimane con una stretta di mano a

Berlusconi. Per il PD, come per i suoi predecessori, la rovina di ogni votazione in Italia è stata la

 presenza, ammessa dal sistema elettorale, di minoranze rivali alla sua sinistra o  –  un male minore –  

di alleati tendenti a destra. Se solo avesse potuto, il partito avrebbe eliminato tali avversari con un

doppio turno alla francese, in cui dopo una dimostrazione di proporzionalità al primo turno e una

vittoria a maggioranza semplice al secondo, sarebbe senza difficoltà entrato in possesso del suostatuto naturale di partito di governo di centro-sinistra in un sistema politico che si tiene al sicuro

limitandosi ad esso e ad un omologo di centro-destra.

Ciò era sempre stato fuori portata, in parte a causa della naturale riluttanza dei partiti destinati

all’estinzione o all’impotenza in un sistema simile a farlo passare in Parlamento. Ma soprattutto

 perché Berlusconi, pur avendo spesso sollevato la questione, non solo se la cavava meglio del centro-

sinistra a mantenere dietro di sé una vasta coalizione di forze con meno da guadagnare da una drastica

riduzione del loro numero, ma aveva anche bisogno del supporto di una forza particolare, la Lega

 Nord, che con la sua forte identità e la sua base organizzata difficilmente avrebbe potuto essere

inquadrata in una Gleichschaltung [allineamento] di quelle immaginate dagli ex comunisti.

Il principio di equa rappresentanza dell’opinione politica in Italia, una caratteristica della Prima

Repubblica, è stato buttato a mare al momento della nascita della Seconda. Ma i sistemi elettorali

ibridi installati in seguito non sono piaciuti a nessuno. Tra questi, il Porcellum è stato ampiamente

considerato il peggiore. Napolitano, una volta ben saldo sulla sua sella ultra-presidenziale, haesercitato pressioni sul Parlamento perché se ne liberasse. Come per il partito cui apparteneva una

volta, e per gli stessi motivi, non era un segreto che considerasse il doppio turno la soluzione ideale.

Il risultato delle elezioni del 2013, e la protesta contro lo stallo istituzionale che ne seguì, rilanciarono

la questione della riforma elettorale –  per anni ossessione dei media –   in maniera più forte e urgente.

Questa era la situazione quando nella prima settimana di dicembre dello scorso anno la Corte

Costituzionale ha dichiarato finalmente incostituzionale il Porcellum per due motivi. Il premio di

maggioranza assoluta assegnato al partito con il numero maggiore di voti, non importa se pochi, era

una distorsione della volontà democratica. Le liste bloccate presentate da ciascun partito, che fissano

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i candidati in una gerarchia di importanza in ogni distretto elettorale, negava agli elettori la libertà di

scelta dei propri rappresentanti.

La decisione della corte arrivò come un’improvvisa doccia fredda per il PD. Se le cose fossero rimaste

così com’erano, le prossime elezioni avrebbero dovuto essere combattute su un sistema

 proporzionale, senza nessun premio di maggioranza, e gli elettori avrebbero potuto scegliere tra i

candidati della lista che preferivano  –  cosa aberrante per i bonzi di partito di qualsiasi natura, che

avrebbero visto indebolirsi il proprio potere sulle truppe. Un simile scenario era quello che il PD

aveva maggiori motivi di temere. Era di vitale importanza metterlo al bando. Provvidenzialmente era

arrivato l’uomo per farlo. Cinque giorni dopo la decisione della Corte, Renzi prendeva la guida del

PD. In poche affrettate sedute a porte chiuse, Renzi e Berlusconi, ciascuno assistito da un

collaboratore con competenze tecniche –  il politologo Roberto D’Alimonte, da tempo all’Universitàdi Firenze, per Renzi; per Berlusconi il suo faccendiere Verdini  –   hanno raggiunto un accordo per

dividersi la torta elettorale tra di loro. Insieme avrebbero forzato in Parlamento un sistema pensato

 per garantir loro la parte del leone nella rappresentanza politica in futuro.

Dopo modifiche minori, le misure della legge che doveva entrare in vigore darebbero un premio del

15 per cento dei seggi alla Camera a qualsiasi partito che ottenga il 37 per cento o più dei voti nella

 prima tornata, con un limite superiore del 55 per cento dei seggi; e se nessun partito raggiungesse il

37 per cento, un totale del 52 per cento dei seggi a quello dei due partiti con i maggiori voti al primo

turno che arrivasse primo al secondo. In ogni circoscrizione elettorale, che diventerebbero molte di

 più, ci sarebbero ancora liste bloccate, ma più corte –  da tre a sei candidati –  ciò renderebbe più facile

la scelta per gli elettori. Lo scopo di tale metodo era aggirare le obiezioni della Corte al Porcellum,

specificando un limite sotto il quale il premio non scatterebbe, pur preservando l’essenza del

Porcellum –  un’evidente distorsione dell’opinione degli elettori, addobbato con un gesto simbolico

in direzione di una maggior libertà di scelta tra i candidati. A completare il pacchetto  –  

grandiosamente intitolato Italicum dai suoi ideatori e definito Renzusconi dai suoi critici  –   c’era

un’ulteriore assicurazione contro tentazioni ribelli dell’elettorato. Erano state definite tre diverse

soglie di ogni tipo di rappresentanza politica: un partito che corresse da solo avrebbe dovuto superare

l’ostacolo dell’8 per cento per aver diritto a un qualsiasi seggio; un partito interno a una coalizione il

4,5 per cento, e qualsiasi coalizione il 12 per cento.

Il patto tra i due leader, tuttavia, prevedeva anche che il Senato fosse a suo tempo abolito come un

organo elettivo tout court, aprendo la via a una debole assemblea di notabili regionali  –  di fatto unafoglia di fico per una legislatura monocamerale. Ma mentre un nuovo sistema elettorale può essere

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approvato a maggioranza semplice in entrambe le Camere, la Camera alta non può essere modificata

senza cambiare la Costituzione italiana. Letta aveva tentato un corto circuito delle procedure per

questo, ma aveva fallito. L’articolo 138 della Carta rimane in vigore, inalterato: prevede che le

modifiche alla Costituzione richiedano due votazioni successive di ciascuna Camera, con un

intervallo non inferiore a tre mesi tra di esse, e nella seconda occasione le modifiche devono ottenere

l’approvazione della maggioranza assoluta in ciascuna Camera, e devono essere sottoposte a un

referendum popolare entro tre mesi dalla loro pubblicazione, se un quinto dei membri di ogni Camera,

o mezzo milione di cittadini lo richiedono; una misura che solo due terzi della maggioranza in

entrambe le camere può evitare, la quale non ha al momento nessuna possibilità. La legge elettorale

 potrebbe essere fatta passare nel giro di pochi giorni. L’abolizione del Senato richiederà almeno un

anno, con la certezza di un referendum al termine del procedimento.

*

La mancanza di sincronia tra le due procedure ha consentito ai partiti minori della coalizione del

governo di centro-sinistra e ad una minoranza del PD stesso di mettere i bastoni tra le ruote del carro

dietro Renzusconi. Se la legge elettorale fosse stata approvata così come proposta, cioè applicabile

ad entrambe le Camere prima dell’abolizione del Senato, niente avrebbe impedito a Renzi di indire

immediatamente le elezioni anticipate. Elezioni che avrebbero annientato i partiti minori e spazzato

via quella parte del PD fedele a Bersani o D’Alema, a dispetto dei quali Renzi era salito al potere.

Invece con la riforma elettorale limitata alla Camera, nell’attesa del completamento della lunga

 procedura di modifica costituzionale per abolire il Senato, per questi gruppi ci sarebbe stato almeno

un anno di grazia prima di affondare definitivamente. Nel frattempo qualcosa avrebbe potuto salvarli.

Tuttavia il nervosismo della minoranza interna al PD non poteva essere totalmente ignorato,

nonostante i numeri si stessero riducendo grazie al fatto che molti ex-avversari adesso si

raggruppavano attorno al nuovo leader. Così improvvisamente il nuovo sistema elettorale è stato

limitato alla Camera, precludendo di fatto il ricorso alle urne fino all’abolizione del Senato, visto che

altrimenti i senatori sarebbero stati eletti col Porcellum, ora ripulito del premio di maggioranza e delle

liste chiuse, e ciò non avrebbe impedito un risultato opposto a quello della Camera, come accaduto

nel 2013.

Gli obiettivi di Renzi nel raggiungere un accordo con Berlusconi erano duplici. L’obiettivo a breve

termine era dimostrare che con questo importante patto con il maggiore partito d’opposizione Letta

era diventato irrilevante e poteva essere eliminato senza indugi. Ben più importante e di lungo termineera l’evidente vantaggio che l’accordo avrebbe portato al PD che ora poteva spostarsi molto più al

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centro, invadendo l’elettorato di Berlusconi senza la paura di perdere i suoi elettori di sinistra. Questo

duplice obiettivo era stato per molto tempo il Sacro Graal del partito, e ora era stato raggiunto.

Con Renzi molto più avanti di lui nei sondaggi d’opinione, perché Berlusconi ha accettato un accordo

da cui aveva così poco da guadagnare e tanto da perdere? Tre circostanze lo hanno spinto nella

trappola. La Lega Nord, che in passato era sempre stata necessaria per vincere le elezioni e per ovvie

ragioni aveva posto il veto su qualsiasi accordo, in seguito alla malattia di Bossi era ormai in declino,

e Berlusconi aveva compreso che ora poteva ignorarla. Inoltre, lui stesso aveva una condanna

criminale sulle spalle, era stato interdetto dai pubblici uffici per almeno due anni, ed era reduce dal

tentativo fallito di far cadere il governo avendo pagato il prezzo della frattura del suo partito. Così

grazie al patto con Renzi per trasformare il sistema elettorale e costituzionale, poteva rimettersi al

centro della vita politica, non solo eludendo le decisioni giudiziarie contro di lui, ma anche con lasperanza che il suo servizio disinteressato al Paese nella veste di statista responsabile gli avrebbe

garantito un’adeguata ricompensa, ovvero il superamento dei suoi guai giudiziari. Alcuni degli

elementi del pacchetto, come il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo a scapito del parlamento,

erano dopotutto quelli che egli stesso aveva spesso proposto, seppur non riuscendo mai a metterli in

atto. Berlusconi poteva quindi sentirsi autorizzato a condividere l’ispirazione dell’accordo e a ricevere

una ricompensa commisurata al suo ruolo di co-artefice di un nuovo e migliore ordinamento.

Infine, e crucialmente, dalla primavera del 2012 in poi, quando il cerchio dei procedimenti aveva

iniziato a chiudersi attorno a lui, il giudizio politico di Berlusconi era gradualmente diventato sempre

 più eccentrico e incostante. Deposto dal potere da Napolitano senza neanche rendersi conto

 pienamente di ciò che gli succedeva, prese sempre più distanza dai suoi consiglieri più esperti,

circondandosi di alcune show-girls del Sud che a stento sanno leggere e scrivere, di cui una, la sua

attuale compagna, ha iniziato a prendere le decisioni nel suo partito, del suo barboncino e di un

giornalista televisivo indefinito. In questo rifugio di sottovesti si era illuso che sarebbe stato facile

scacciare la Lega dal Nord e scampare più o meno indenne alle sentenze contro di lui. Persino Verdini,

rischiando l’esilio da Arcore, si mostrò sgomento. In queste condizioni, Renzi, vedendo quanto

Berlusconi si era indebolito, poté essenzialmente dettare le linee principali di un affare favorevole al

PD.

La manipolazione dei sistemi elettorali per orientare i risultati non è una rarità nelle democrazie

liberali: piuttosto è la regola invece che l’eccezione. In Inghilterra e in America i sistemi maggioritari

uninominali hanno origine dagli arrangiamenti premoderni di una società nobiliare di tipo gerarchico,scarsamente evolutasi dalle sue origini feudali, in cui si indicevano poche elezioni. Nei primi anni del

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17esimo secolo solo il 5-6% delle circoscrizioni aveva più di un candidato; persino nel “Long

Parliament” non più del 15%. Il loro mantenimento nei tempi moderni la dice lunga sulla natura della

democrazia anglosassone. La quinta repubblica in Francia e la monarchia restaurata in Spagna offrono

altri esempi familiari di sistemi elettorali truccati per tenere fuori la sgradita competizione della

sinistra. In Italia, il regime oligarchico che seguì il Risorgimento (nel 1909 l’elettorato era di tre

milioni su una popolazione di 33 milioni) copiò dall’Inghilterra un sistema maggioritario uninominale

modificato. Dopo la Prima Guerra Mondiale, suffragio universale maschile e sistema proporzionale

arrivarono insieme, come complementi logici della democratizzazione. Il fascismo, non meno

logicamente, annullò il sistema proporzionale con la legge Acerbo. Quando la democrazia fu

ripristinata dopo la Seconda Guerra Mondiale, la costituzione italiana, che nacque dalla Resistenza,

fu progettata in modo tale da prevenire un ritorno a un governo autoritario. Con la Prima Repubblica

si ebbe una presidenza di tipo onorifico e di portata strettamente limitata, due camere legislative di

uguale peso che si compensavano l’un l’altra, l’impossibilità del premier di congedare i ministri, il

voto segreto sui progetti di legge, i referendum popolari proposti dai cittadini e allo stesso tempo una

rappresentanza proporzionale.

Con la Seconda Repubblica questa configurazione cominciò a essere distorta ai due estremi. Dal

 basso, la rappresentazione proporzionale fu prima ridotta a un residuo del sistema elettorale, poi

negata con l’introduzione di un premio secondo le linee della legge Acerbo. Dall’alto, la presidenzafinì per diventare la carica con più potere dello Stato, con la capacità di fare e disfare i governi. Il

 patto tra Renzi e Berlusconi introdurrà la Terza Repubblica, concentrando il potere nell’esecutivo e

riducendo ancora più drasticamente la scelta dei votanti. Il nuovo sistema elettorale, che ha già passato

la prima udienza, è una mostruosità sotto tutti i punti di vista. Non contento del premio che assicura

al vincitore un bonus pari a quasi la metà dei seggi che ha ottenuto secondo il voto, fa persino più del

governo Mussolini nell’allineare ostacoli sul percorso dei partiti o coalizioni minori per impedire loro

di assicurarsi dei seggi. Come ha detto l’avvocato Aldo Bozzi, nelle vesti di privato cittadino il cuiappello ottenne il verdetto della Corte Costituzionale contro il Porcellum, il Renzusconi è un Super-

Porcellum. Per fino D’Alimonte, uno dei suoi ideatori, ha pubblicamente dubitato sulla

costituzionalità delle sue soglie di accesso.

Si potrebbe pensare che anche la nuova legge, come la precedente, sarà bocciata dalla Consulta, ma

è un’ipotesi ingenua. In Europa, le cor ti costituzionali sono in genere attente alle esigenze del governo

in carica (la flessibilità del  Bundesverfassungsgericht   in Germania è abbastanza tipica) e quella

italiana più di tutte. Dieci dei suoi quindici membri sono di nomina politica, per metà scelti dal

 presidente e per metà dal Parlamento. Per avere un’idea degli effetti di tale prassi, è sufficiente notare

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che la più recente nomina di Napolitano è stata quella di un ex consigliere di Craxi, Amato, mentre il

suo attuale vice-presidente, Mazzella (scelto dal Parlamento durante il governo Berlusconi), è stato

ospite di Alfano, Berlusconi e Gianni Letta ad una cena privata pochi mesi prima che la Corte si

 pronunciasse sul Lodo Alfano. A dicembre la Consulta ha bocciato le liste bloccate del Porcellum,

ma già a gennaio, con la pubblicazione delle motivazioni, ha lasciato aperta (“dopo consultazioni

informali”) la loro legittimità, in circoscrizioni più piccole. Tre giorni dopo, Renzi e Berlusconi, dopo

essersi accordati con la Corte, hanno presentato la nuova legge elettorale con una modifica minima

rispetto al Porcellum.

“Imprese” giudiziarie come questa non sono peculiari dell’Italia. Basti pensare ai giudici Denning,

Widgery o Hutton in Gran Bretagna. Unico, tuttavia, è lo spettacolo di un parlamento composto da

deputati i cui seggi sono dovuti ad una legge considerata un abuso incostituzionale dei diritti delcittadino, che non solo continuano imperturbabili ad occupare i propri scranni e a legiferare, ma che

 pretendono addirittura di riscrivere la Costituzione. Negli annali di diritto pubblico non si era mai

visto niente di paragonabile. Ma in Italia la Corte Costituzionale è imperturbabile. Spiegando che “la

continuità dello Stato” sarebbe in pericolo se l’illegittimità del Porcellum dovesse metter e in

discussione la legittimità del Parlamento eletto con esso, la Corte ha già di fatto intimato al

Parlamento di cambiare la Costituzione. Secondo questa logica da Alice nel paese delle meraviglie,

se domani un governo si rendesse responsabile di grossi brogli elettorali o proclamasse lo stato diemergenza sospendendo le libertà civili, avrebbe sbagliato, ma dovrebbe continuare a governare, pena

il rischio di esistenza della continuità della Repubblica, la teoria dei due corpi del Re aggiornata al

 postmodernismo.

Durante la Rivoluzione del 1848, all’alba dei principi della democrazia proporzionale (il primo

sistema di rappresentanza politica equa era stato proposto da un seguace di Fourier due anni prima),

Lamartine commentò: “Le leggi elettorali sono le dinastie della sovranità nazionale”. Non sapeva

quanto esatta e profetica sarebbe stata l’analogia. La dinastia imposta oggi al popolo italiano sarebbe

retrograda anche per i suoi contemporanei: Bourbon alla napoletana, si potrebbe dire. Ma il suo

creatore può legittimamente esultare. Con questa legge elettorale, il momento d’oro di cui Renzi al

momento gode potrebbe durare un bel po’. 

Improvvisamente, il suo partito è diventato una falange compatta alle sue spalle e in gran parte

sottomessa. Troppo pieno di sé quanto sprezzante degli altri (al di fuori della sua cricca fiorentina)

 per essere apprezzato da distanza ravvicinata, Renzi tuttavia promette di offrire una forza di cui il PDnon ha mai goduto. Il partito ha alla fine trovato un vincitore, e per il momento le fronde saranno

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 poche. I membri del suo governo sono pesi leggeri incapaci di fronteggiarlo, la loro funzione è quella

di proiettare all’esterno un’immagine di gioventù e parità di genere, e di mettere in rilievo la sua

 preminenza. La stampa tradizionale è di supporto su tutta la linea, se non addirittura enfatica. Anche

se l’entusiasmo dei media ricorda l’euforia dei media britannici sul primo Blair, il contesto è tutt’altro.

Il neo-liberalismo era sulla cresta dell’onda. Oggi la sua corrente si f a ancora sentire, ma le ondate

sono più deboli, l’esuberanza è scomparsa. Cameron e Clegg possono anche spingersi al di là della

Thatcher, ma non c’è sostegno popolare per il loro programma. Sotto Hollande o Rajoy, Kenny o

Passos Coelho, per non parlare di Samaras, i tagli alla spesa e la liberalizzazione del mercato del

lavoro vanno avanti, ma in uno spirito di dura necessità, non di festosa emancipazione.

Lo stile di Renzi questo non lo permette. Il suo messaggio di speranza ed eccitazione impone misure

 ben diverse dal tirare la cinghia. Salito al potere con un golpe interno al partito, senza mandato popolare, ha necessità di essere confermato dal voto, e le elezioni Europee sono imminenti (L’articolo

originale è del 22 Maggio 2014 NdT). Tipicamente, in passato, le varianti di centro-sinistra del neo-

liberalismo sono state di tipo compensatorio, con incentivi economici che compensassero gli

interventi strategici riducendone l’impatto sociale. Con la crisi, il margine per questo tipo di

concessioni si è ridotto. Per Renzi, è fondamentale che tale margine riacquisti ampiezza. Le

compensazioni devono arrivare, e senza perdere tempo, prima che gli elettori incomincino a essere

delusi. Così, il suo pacchetto di apertura di misure sociali si combina con legislazioni che rendonotalmente facile il licenziamento dei nuovi lavoratori che persino l’ Economist  ha mostrato perplessità,

e con un taglio fiscale di €1.000 per le classi di reddito più basso, che è stato sfacciatamente presentato

come un trofeo per attirare voti alle elezioni.

Per potersi permettere queste e altre spese d’incentivo alla crescita, Renzi ha chiarito che i lacci del

fiscal compact saranno allentati. L’Italia, ha detto a Bruxelles, non deve più prendere lezioni come

uno studentello davanti alla lavagna. Poiché i calcoli della Commissione Europea, come anche quelli

della Banca Centrale Europea, e non ultimi quelli del governo di Berlino (le tre autorità che contano)

sono in ultima analisi sempre più politici che tecnici, è probabile che riesca a farla franca. Lo zelo di

Renzi per le riforme strutturali può ricevere fiducia, mentre quello di Berlusconi non poteva, per cui

non c’è motivo di rendergli la vita difficile mostrando di prender troppo alla lettera i limiti consentiti

 per i deficit. Le regole nell’Unione Europea, qualora si dimostrino poco convenienti, sono destinate

a venir piegate, e non a essere seguite meccanicamente. Un discorso molto simile vale per Manuel

Valls, in Francia, che non ha ricevuto dalla stampa un’accoglienza meno entusiasta, con un editoriale

del Financial Times  che faceva proprio questo punto: “I New Boys dell’Europa alla ribalta –  

Bruxelles dovrà prendere in considerazione budget più permissivi per Valls e Renzi”. Quanto simili

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accorgimenti potranno fornire linfa vitale all’economia italiana nel più lungo periodo rimane da

vedere. Quel che conta a breve termine è l’ossigeno elettorale per il nuovo capo di governo. Al

momento, Renzi ha tutte le ragioni per essere ottimista.

*

E riguardo all’inverno del patriarca? In una farsa tipica della giustizia italiana, la sua condanna per

un’evasione fiscale multimilionaria è terminata con l’accusa che esenta ogni pretesa di arresti

domiciliari e con la Corte –  mossa dal suo cambiamento di atteggiamento –  che gli ha assegnato un

gravoso servizio alla comunità di quattro ore a settimana in una casa di riposo per anziani vicina alla

sua residenza di Arcore: proprio l’esito necessario per tenere in sella il Renzusconi, che egli aveva

minacciato di affondare se gli fosse stata imposta una punizione peggiore  –  ma chi avrebbe potutosospettare che i governanti del paese fossero in linea con i rappresentanti della legge? Tuttavia,

nonostante abbia mantenuto fino ad oggi la sua libertà personale, Berlusconi dovrà fare i conti con

 pene molto più severe, non appena la sentenza a suo carico dello scorso giugno, a sette anni di carcere

 per induzione alla prostituzione minorile, verrà resa definitiva in una corte di secondo grado ed è

 probabile che la sua vita politica sia vicina alla fine. Il suo partito, Forza Italia, già naufragato ai

sondaggi, colerà a picco o si ribalterà, nel caso Berlusconi non sia più in grado di gestirlo

quotidianamente. Dato che il suo nome è il suo solo vero e proprio patrimonio, ci saranno delle

 pressioni tra i suoi ranghi affinché uno dei suoi figli sia nominato “porta- bandiera”. Un figlio

 perdigiorno è impresentabile. Tra le sue figlie egli è più vicino alla maggiore, Marina, avuta dal suo

 primo matrimonio, a capo delle aziende Fininvest e Mondadori del suo impero. Ma lei è piuttosto

riservata e non mostra grandi segni di voler raccogliere lo scettro. Barbara, sua figlia di mezzo, ha 29

anni e aiuta a gestire la squadra di calcio di Berlusconi, il Milan AC. E’ affascinante, estroversa e

ritenuta molto più tagliente. Sua madre, Veronica Lario, oggi tenuta alla lontana da suo padre, l’ha

cresciuta proteggendola quanto più possibile da lui, perciò il rapporto tra i due è più distaccato. Meno

 popolare della sorellastra, ha più passione per la politica. A tempo debito una lista di Barbara

Berlusconi potrebbe essere possibile.

Gli eredi biologici, tuttavia, sono la parte meno importante del retaggio storico di Berlusconi. Per i

vent’anni della Seconda Repubblica l’Italia ha segnato il tempo, in una sorta di equivalente

 peninsulare dell’epoca della stagnazione’ nell’URSS. La corruzione è stata scarsamente ridotta e il

 paese è andato verso un declino sociale ed economico. I governi di Berlusconi sono stati peggiori di

quelli dei suoi avversari, ma non di ampio margine, visto che nessuno ha lasciato una grande improntalegislativa. Il cambiamento principale del periodo si è avuto con l’ingresso dell’Italia nell’unione

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monetaria sotto Prodi, ma è stato ambiguo, riducendo i costi dell’indebitamento del paese, ma

minandone le esportazioni. A parte questo, il libro mastro è quasi completamente bianco e poiché

Berlusconi ha governato un po’ più a lungo del centrosinistra, la sua responsabilità è in qualche modo

maggiore.

Ma sarebbe sbagliato concludere che non ha raggiunto nulla, alla fine neanche l’immunità per la quale

è entrato in politica. Il grande traguardo di Berlusconi fu quello di trasformare i suoi oppositori nella

sua immagine. L’Italia ha una lunga tradizione di scienze politiche di alta qualità. Lo scorso anno,

una delle sue menti migliori, Mauro Calise, ha pubblicato un libro chiamato Fuorigioco,  in cui

l’autore sostiene che la personalizzazione della politica non è uno spettro anti -democratico che

richiama le tentazioni di un passato screditato, come a lungo temuto dalla sinistra italiana, ma che è

la forma di governo egemonica di ogni democrazia atlantica tranne l’Italia. Weber aveva pensato chela leadership patrimoniale o carismatica era storicamente in declino nel mondo occidentale. In realtà,

a essere superato era proprio il tipo di autorità legale-razionale che lui credeva caratteristico delle

forme moderne di governo. La video-politica ha ricreato la leadership  carismatica. Che non è un

 pericolo. Perché oggi la macro-personalizzazione del potere è pubblica, tenuta a rispondere e

criticabile. Risponde a un mondo in cui la comunicazione non è più uno strumento di politica, ma la

sua essenza, e di cui non c’è bisogno di aver paura. Perché la video -politica si auto-controlla,

 producendo leaders che sono allo stesso tempo molto potenti e molto fragili, vulnerabili ai sondaggi popolari e ai ballottaggi. Ciò che questa politica innalza può essere altrettanto velocemente abbattuto.

La verità è che la macro-personalizzazione non è in antitesi con la democrazia, ma la sua condizione

in un tempo in cui i partiti hanno perduto la loro forza. La sinistra italiana ha rifiutato di comprendere

questo, associando erroneamente la norma liberale di un “presidenzialismo monocratico” con le

memorie del fascismo e stigmatizzandolo come berlusconismo. Ritirandosi in forme collettive

introverse di leadership, senza alcun carisma, hanno consegnato il campo della competizione a

Berlusconi, un maestro in quest’arte. 

Il libro di Calise fu pubblicato un paio di mesi prima della presa del PD da parte di Renzi e lo si può

leggere come una nota di programma di esemplare lucidità su ciò che sarebbe successo appena il

centro-sinistra avesse trovato un capo capace di sconfiggere Berlusconi sul suo stesso terreno.

Ovviamente, nella sua diagnosi ottimista delle necessarie forme di vita democratica di oggi, è lasciata

tra parentesi qualunque riflessione sulla sua sostanza. La macro-personalizzazione non è

ideologicamente neutra. Per usare i termini di Calise, essa risponde a un mondo in cui le personalità

sono grottescamente ingigantite –  Super Mario e il resto –  mentre le differenze di partito, e con esse

le scelte dei votanti, di pari passo si restringono. L’ultimo traguardo di Berlusconi, di cui lui stesso è

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cosciente, è di aver riprodotto in Renzi non semplicemente uno stile di leadership ma un tipo di

 politica paragonabile al suo, proprio come Thatcher fece con Blair. È grazie a lui, ha ripetuto diverse

volte, che Renzi ha trasformato il PD, seppellendo una volta per sempre ogni resto del passato

socialista e comunista. È un’affermazione legittima. 

Ma l’Italia, che nel dopoguerra ha conosciuto più ribellioni di ogni sorta contro l’ordine stabilito di

qualsiasi altra società europea, non si è ancora del tutto liberata di queste. Mentre Berlusconi e Renzi

capitalizzano l’uno sull’altro, la loro forma più recente resta irreperibile. Il M5S sfugge a malapena

l’eziologia di Calise, anche se non si tratta di video-politica. Grillo impersona il Movimento Cinque

Stelle, come da fondatore e leader. Un autocrate che non tollera dissenso, anche lui opera al di fuori

del Parlamento, tiene sotto stretto controllo i suoi seguaci, espelle chi esprime disaccordo. Tutto

questo mentre il numero di quelli che votano alle deliberazioni online del movimento rimane piccolo,non più di trenta mila o giù di lì. La rozzezza di molti degli interventi di Grillo respinge tanto quanto

attrae. Allo stesso modo, l’indeterminatezza ideologica di gran parte delle sue proposte consente

intonazioni sia a destra sia a sinistra. Il suo generale  –  non del tutto invariabile  –   rifiuto di ogni

rapporto con gli altri partiti, lo ha reso inefficace. Se dopo il successo del M5S alle elezioni dello

scorso anno fosse stato disponibile ad offrire un sostegno esterno a Bersani in cambio di un accordo

sulle riforme politiche, oggi il Quirinale sarebbe privo di Napolitano, Renzi sarebbe ancora ad agitarsi

Palazzo Vecchio e l’Italia avrebbe evitato un neo-Porcellum.

Per essere efficace, la protesta richiede manovre d’intelligenza,insieme all’intransigenza della

volontà. Forse Grillo in futuro, apprendendo dall’esperienza, si dimostrerà più abile e meno

dittatoriale e il movimento che ha creato si dimostrerà una breve turbolenza. Gli italiani devono

sperarlo, perché con la scomparsa di ogni significativa forza di sinistra, per la quale non è un sostituto,

il M5S potrebbe ben emergere come l’unica opposizione di qualche importanza nel paese, e

nonostante tutti i suoi difetti e paradossi, in Europa rappresenta ancora l’unico abbozzo di

contrappeso a quello che oggi ha sostituito la democrazia rappresentativa. Fortunatamente, in mezzo

a un deserto di conformismo mediatico  –  una volta un senatore di centro-sinistra privatamente ha

descritto La Repubblica, il principale quotidiano nazionale, con cinica benevolenza come “la nostro

 Pravda”  –  l’Italia possiede un giornale, Il Fatto Quotidiano, fondato quattro anni fa da un gruppo di

giornalisti indipendenti, che non teme nessuno e infrange ogni tabù: un caso unico da un capo all’altro

del continente. Generalmente amichevole con il M5S,  Il Fatto è anche spesso fortemente critico:

 proprio ciò che è necessario.

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I discorsi sul “miracolo italiano”, di moda all’epoca di Fellini e della Vespa, si sono da tempo

trasformati nell’opposto. Per decenni gli italiani hanno superato gli stranieri nel lamentare il Disastro

Italiano con, al meglio, pochi spiriti coraggiosi a mantenere qualche nicchia redentrice di eccellenza

qui e là: la moda, la Ferrari, la Banca Centrale. Non c’è dubbio che il paese oggi occupi un posto

speciale tra gli stati dell’Europa occidentale. Ma di solito è frainteso. L’Italia non è un membro-tipo

dell’Unione. Ma non è neanche lontana da qualsiasi standard al quale si potrebbe adeguare. Esiste

un’espressione apposita per descrivere la sua posizione, molto usata dentr o e fuori dal paese, ma è

sbagliata. L’Italia non è un’anomalia in Europa. E’ molto più vicina ad esserne un concentrato.