piccioni e farfalle fanno la rivoluzione (capp 1-11)

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Romanzo di Maurizio Mequio Un poeta in crisi incontra una comunità viva, ma disperata, nel caotico orizzonte della periferia metropolitana. Insieme si armeranno della "parola", grazie ad un faticoso e divertente cammino verso il linguaggio. "Piccioni e farfalle fanno la rivoluzione - Neve a Primavalle" è un romanzo sociale e social che parte dalla cruda quotidianità di un quartiere romano ai margini della città per trasformarla nello sfondo di una fiaba moderna, dove personaggi invisibili - dal migrante al disoccupato, dalla prostituta all'operaio sottopagato - si muovono con la leggerezza di farfalle che insieme compieranno una poetica rivoluzione. Primavalle diventa così il simbolo di ogni luogo che vuole resistere alle tentazioni del cemento di centri commerciali e parcheggi a tempo per le esistenze umane.

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Maurizio Mequio

Piccioni e farfalle

fanno la rivoluzioneNeve a Primavalle

*Edizione “work in progress”: capp. 1-11

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Profecta edizioni

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Copyright

Titolo del libro: Piccioni e farfalle fanno la rivoluzione – Neve a Primavalle

Autore: Maurizio Mequio

© 2014, Maurizio Mequio

TUTTI I DIRITTI RISERVATI. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo,

non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell’Autore.

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Al mio quartiere,

ai miei amici,

a casa mia

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Capitolo 1. Mosche da bar

Aleggia l'odore del bagnato, in questo lurido pub di legno di Primavalle. Come ci sono capitato, non lo so nemmeno io.- Una Wellington Scotch Ale...- Che roba è? - mi risponde il cameriere, un tizio hiphoppettaro, sui trentacinque, che di tutto trasuda, tranne che di esperto sommelier.- Dammi una birra scura, che non sia amara. La desolazione di una vita attraverso una birretta di periferia. Tra i cocci del passato e la noia del presente. Lontano da casa mia, dalla mia famiglia, a vendere sim telefoniche per la Cipt.Elegante come un traditore, mi allento la cravatta e nascondo sotto le gambe la ventiquattrore. Tutto il mio lavoro è lì dentro. - Scusi, ma lei è Maurice Delemberte?Una voce leggera, timida. Pura come i miei scritti giovanili.Mi volto, stranito e indemoniato, e la voce continua, senza aspettare risposta: - Sono il tuo specchio!“Sono il tuo specchio”, quello che rispondeva Dio ad Antonine nel mio “Piccioni e farfalle fanno la rivoluzione”.- Non conto un cazzo, senza di te, mio autore.Un fulmine a ciel sereno, sotto le vesti di uno studentello universitario. Mi si sta manifestando un ente superiore?- Tu sei Dio? - azzardo a chiedergli, inebriato dalle emozioni più che dalla scura che ho appena sorseggiato.- No, Signor Delemberte. Sono un suo lettore e conosco perfettamente ogni suo libro.- Li hai trovati su una bancarella?-No, su eMule... - risponde prontamente, ma subito abbassa lo sguardo, ripensandoci imbarazzato. - Mi scusi. Non avrei dovuto dirglielo. E' che avevo bisogno di leggerla, ma non

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ho tanti soldi.- Hai fatto bene, continua così, spenditi tutto in libri seri e non in cazzate come le mie.- Ma i suoi sono capolavori!- Capolavori un cazzo, guarda che fine ho fatto. Dimenticato e umiliato da gran parte del genere umano. Costretto a fregare la gente per portare pane a casa. Nascondendo i miei sogni a mio figlio per non soffrire insieme a lui, un giorno. Quando anche i suoi sogni si infrangeranno addosso a qualche fredda Istituzione.Il ragazzo mi vede, mangiandomi con gli occhi, e sembra non ascoltarmi. Resta immobile, come se stesse godendo del nostro incontro, al punto da voler evitare qualsiasi granello d'aria che possa muoversi contro la sua idea dell'esserci, in due, lì, assieme. Finalmente.- Ma ora lei è qui, Signor Delemberte, Dovrà candidarsi a sindaco del paese. Lo prenda come un dovere.- Ragazzo, cosa ti sei iniettato nelle vene, acido muriatico? Ti stai sciogliendo dietro alla scia delle merdate che avevi sparato all'inizio. Ed io, che ti avevo preso sul serio...- Dico veramente, abbiamo bisogno di uno come lei. Abbiamo bisogno di uno sceriffo, di un sognatore che sappia poetare la nostra rivoluzione.- Ma stai scherzando... Io sindaco? Sceriffo di questo posto sperduto?- Cosa ha da perdere? Ordino un'altra birra, butto giù qualche chilogrammo di aria pesante, chiudo gli occhi e in pochi minuti intorno al mio tavolo vedo formarsi un capannello di personaggi, lenti e oziosi nei corpi, ma con uno strano fulgore negli occhi, come una speranza latente emersa improvvisamente da un lungo torpore. Rompe il silenzio il primo. - Io mi drogo di macchinette, getto spicci in una slot machine, ma non sono ancora schiattato, -inizia il primo. -

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Qui non c'è nessuno. Non la conosco, ma la prego: ci aiuti.Gli fanno eco gli altri sei: - Questo è un quartiere popolare, fatto di guerre tra poveri. Non chiediamo niente, vogliamo solo che i nostri bambini riprendano a giocare a pallone per le strade. Vogliamo gridare insieme. Piangere addosso a qualcuno e non chiusi al cesso, tra una sigaretta e l'altra. Siamo comunisti rimbecilliti. Siamo disoccupati. Gente che combatte contro lo sfratto e chiede lo sconto sulla verdura al mercato della domenica. Lei ha studiato...Penso agli anni dell'università, anni buttati. Penso che ora dovrei tirare fuori i contratti e piazzare qualche abbonamento telefonico, per concludere la giornata. Ma non ce la faccio. Li guardo in faccia, uno per uno. Afferro il bicchiere per restare indifferente. - Presentatevi, - dico bruscamente.- Sono Piero, un meccanico senza officina, campo di pezzi rimediati. Riparo le macchine sul posto, con gli strumenti di una volta. Le chiavi.- So' Gino, un muratore di cinquantacinque anni. Mi ha rovinato la trippa, guarda qua. Ho preso peso mentre facevo esperienza. Dai calcinacci alla posa delle mattonelle, poi la crisi. Le ditte chiudevano e io invecchiavo. Ora vivo alla giornata. Se qualcuno mi chiama...- Luchino, infermiere. Anzi, ex-infermiere. Mi hanno segato.- Io sono Birillo, ho abbandonato la scuola e non so che fare. - Amadou, sono uno straniero, vengo dal Mali.- Io sono Nino Ceccaretti, un pensionato che si piscia sotto, Ho problemi alla prostata, ma non si preoccupi. Sono uno tosto!Il giocatore d'azzardo si chiama Totonno e poi c'è il lettore di “Piccioni e farfalle...”, Noè.- Delemberte, si ricorda cosa dicevano i piccioni ad Antonine?

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Noè si gira verso il bancone e fa un fischio per richiamare l'attenzione del cameriere hiphoppettaro: - Dammi le chiavi del bagno.Il cameriere gliele lancia, Noè le afferra al volo e mi fa un cenno con la testa: - Si alzi e mi segua.- Voi siete fuori di testa, ma che diamine sta succedendo?Dal buio vedo spuntare fuori uno zingaro che si affretta a tirare giù la serranda per bloccare l'uscita.Inizio a tremare. Vaffanculo, dovevo tirare fuori i contratti. Maledico il mio orgoglio. Dannata scrittura. Noè fulmina lo zingaro: - Ma cosa fai? Non devo spacciare, dobbiamo andare al bagno per un'altra questione.Mi tranquillizzo per un momento, mentre la serranda si riapre, ma cerco di mettere le cose in chiaro: - Ragazzino, io non devo pisciare e finora non l'ho mai tenuto a nessuno.- Per piacere, mi segua.Amadou mi tende la mano. Cazzo, è alto quasi due metri. Ha lo sguardo innocuo, però. Un po' per timore (oramai non mi fido più di nessuno), un po' per disperazione (non ce la faccio più a rompermi le palle in giro), decido di assecondare questo siparietto. - Andiamo.Amadou e gli altri sei mi stanno dietro, Noè mi fa strada.Sulla porta del bagno è attaccato un cartello con il disegno di una scimmia che si cala le mutande e la scritta “Centrate il bersaglio, qui il bagno non si pulisce da solo”. Una volta dentro quei quattro metri quadrati, gli occhi sono tutti per le centinaia di scritte sui muri. Di colori diversi. Di grafie diverse. “Irina Troia”, “Forza Roma”, “Tutti i servi dei padroni c'hanno rotto li cojoni”. Tra bestemmie e inni alla fica, il mio sguardo si inchioda su angolo di muro. E leggo: “Il piccione guardando Antonine gli disse: - Eravamo morti di fame perché ci avevano tolto il pane. Abbiamo iniziato a

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beccare qua e là, ad arrangiarci con lo spazzatura. Eravamo considerati bestie e non più angeli, perché neri. Abbiamo continuato a volare. Ci volevano mettere in gabbia, siamo rimasti in città. Abbiamo occhi ingialliti dalle lacrime e zampe rosse che raccolgono il nostro sangue. Pieni di cicatrici, coperti di piume e di tanta polvere. Caghiamo addosso ai passanti per essere guardati. Siamo maledetti. Siamo tanti. Antonine, mettici insieme. Dacci entusiasmo, rendici reali. Antonine prese il megafono ed iniziò a cantare la loro rivoluzione.”

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Capitolo 2. Lezione numero uno: le farfalle

Non so più cosa fare, sono alla quarta pinta e inizio a pensare ad alta voce.- Nel mezzo del cammin della mia vita, mi ritrovo in una sperduta periferia...La voce è trascinata, fastidiosa, caricaturale, ma loro mi prendono sul serio. Dopo il giusto silenzio mi richiamano alla loro attenzione. - Delemberte, stia attento con le parole, questo posto non è solo una sperduta periferia, ha una storia: noi siamo primavallini. Ci ha fatti Mussolini, abbiamo ospitato le brigate rosse e anche il manicomio.- Ciò che importa è che la diritta via è smarrita... - sospiro confuso, agitando il bicchiere.- La smetta con la birra e ci dica: è dei nostri?- Ahi quanto a dir qual è è cosa dura. Questa birra scura è amara...- Non avrà mica paura?- Dante, Dante! Cosa ne volete sapere voi della poesia...- Tutto! La poesia salva la vita! - dichiara trionfante Noè.- E no! La vita si salva da sé! - ribatto con inaspettata violenza.E' un attimo. Mentre pronuncio questa frase mi accorgo che sto lentamente morendo, che tempo addietro avrei tirato fuori il coltello e lo avrei inchiodato al tavolo, avrei schiaffeggiato il parlante e fatto a botte col metafisico significato di questa frase. Ora invece sono proprio io a soffocarmi l'esistenza e a spegnere i fuochi altrui con inumano cinismo.Noé mi guarda deluso, poi cerca di giustificarmi davanti agli altri: - Lo so, è banale. Quanti cantanti, quanti scrittori hanno detto che l'arte li ha salvati solo per vendere di più?

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Mi scusi Delemberte.- E no, figlio mio, sono banale io, sono irriconoscente, sono un deficiente.Mi inizia a salire l'ansia, sto per avere una crisi, solo una cosa può illuminarmi il cammino: chiamare mia moglie. - Lezione numero uno: le farfalle.Prendo il mega-tablet del campionario Cipt, inserisco la sim dati aziendale, apro Skype e chiamo mia moglie. Loro sono lì, stretti attorno al tavolo, come se aspettassero il fischio d'inizio della finale di Champions League. Mia moglie è nel suo studio, è bellissima con i capelli sciolti, senza trucco, le mani sporche di colori ad olio, gli occhi sempre vivi.- Ma dove caspita ti sei cacciato? Chi sono queste persone? Ti ho già detto altre volte che non so dire le bugie, non mi mettere in imbarazzo.- Non è per dimostrare la convenienza di questo affare che ti chiamo. E' per quella storia sul fiore raccolto e il fiore donato.Lei è un'eroina, la mia eroina. Ne sono dipendente. E' una donna bionica che ha sostituito le droghe artificiali con la sua essenza nella mia dipendenza dall'irreale.- Allora ce l'hai fatta, stronzo!Non mi riconosceva più, erano tre anni che non mi chiamava stronzo. Sono tre anni che non facciamo l'amore. Sono tre anni che non scrivo.- Maurice, finalmente!Un po' di silenzio, sento alzarsi qualcosa nel mio pantalone, faccio finta di nulla, conto i secondi, ma niente, non si ferma. Esiste, miracolo, esiste! Willy c'è ancora. La cosa si fa imbarazzante. Tra disoccupati, migranti, zingari e studenti, il mio cazzo ha iniziato a crescere a dismisura. Loro fissano Madeleine, io la contemplo inebetito, ma vorrei abbassare lo sguardo, ho paura di fare un danno. Mi concentro sulle sue labbra sottili e appena le apre so già cosa

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sta per dire.- Tra il fiore raccolto e il fiore donato, il nulla. E mentre mi bagno come un ragazzino di dodici anni che non conosce a fondo l'arte della masturbazione, prendo la parola e mi copro il pacco con la sciarpa di qualcuno.- Antonine era un poeta del nulla, raccontava il percorso, lo spazio, la storia di un gesto. Tutto quello che c'è, che sostiene, che unisce il fiore raccolto e il fiore donato. Quel corpo chinato che si rialza, quel cammino verso di lei. Quell'insicurezza, quella timidezza. Quel segreto, quella sorpresa. La solitudine prima dell'incontro, la fine dell'esser soli, la realizzazione di un intento. Il contatto, il dono. Chi se ne frega del fiore raccolto, ma chi se ne frega del fiore donato. A noi deve importare del nulla. Perché quel nulla è la nostra vita. E solo la poesia può far sì che il niente sia più di una parola.Noè interviene dubbioso: - Ma Delemberte, lei prima ha detto che la poesia non può salvare le nostre vite...Madeleine cambia aspetto. I suoi occhi diventano rossi, temo che i suoi super poteri possano distruggere lo schermo del mio tablet. Parte un acuto con rincorsa.- Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaapureton! Ancora lui! Non ne posso più!Gino fa un salto sulla sedia e si alza in piedi: - Signo', e no così non va bene, io non ce sto a capì 'na mazza. Er nulla, la parola, il gesto. Dà dello stronzo a 'sto distinto signore e mo' pronuncia er nome de chi sa chi. Ma lei chi si crede di essere?- E' una farfalla, è mia moglie. Solo lei sa se io sarò dei vostri e solo se lei sarà con voi io mi unirò al gruppo.Gino scuote la testa: - Ma lei non sa niente. Come può decidere per te?Lo guardo, avvicino la mia bocca alle sue orecchie e gli sussurro: - Domandale se la poesia salva la vita.

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Gino gira la domanda e Madeleine sorride istericamente, si passa una mano davanti al viso, come a rispolverare un vecchio ricordo. Dopo una pausa lenta e densa, per raccogliere ossigeno e pensieri, inizia a raccontare : - Avevamo una trentina d'anni, vivevamo ancora a Dejanville. In una casa popolare, all'ottavo piano. Avevamo una stanzetta, la cucina ed il bagno. Un divano letto e quattro sgabelli, tenevamo le luci spente perché ci distoglievano dalle discussioni. Consumavamo candele su candele. Una notte Maurice litigò con Apureton, quello che più tardi sarebbe diventato il suo editore. Iniziarono con la politica, poi una cannetta placò gli animi. Maurice per farsi perdonare trovò il coraggio di leggere due poesie di una sua raccolta allora inedita. La prima parlava dell'edificio dove vivevamo. Ad ogni verso, Apureton rideva. Erano versi tristi, toccanti. Dopo aver descritto le persone che popolavano il palazzo e la nostra povertà, la poesia diceva: è la mia casa, io ci sto bene. Apureton guardò Maurice e gli disse: “Allora, cosa vuoi?”. La seconda tra l'altro recitava qualcosa del tipo: Vuoi un film? Giralo. Vuoi una donna, innamorati. Vuoi una vita, scrivi. Il nostro amico segò Maurice: “Ascolta, per me queste parole non valgono niente, sono esercizi da sedicenni. Ci sono giochi di parole, qui? C'è uno studio del verso? Non mi sembra affatto. E poi non significano nulla. Non hai equilibrio, Maurice”. Madeleine si ferma un attimo a riprendere fiato, è evidente che quel racconto non la lascia indifferente, anche se è passato tanto tempo. Guarda con ancora maggiore intensità nella piccola webcam, come per guardare negli occhi ognuno dei suoi interlocutori, e continua: - Ecco, se io dovessi descrivere Maurice, direi che ha un solo difetto: non ha stima di sé. Ha ideali forti, è coinvolgente, ha coraggio, ma per quanto possa abbaiare, non sa difendersi. Io lo amo, sono stata con lui sempre, tranne adesso e quando è stato in

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galera. Ma quei due anni sono serviti. Ci hanno dato forza. Ci hanno fatto capire cosa è la vita. Io non potevo vederlo, non eravamo sposati. Allora ci scrivevamo. E lui, per raggirare i secondini, per non tradursi e per impegnare il suo tempo, mi scriveva delle poesie. Tra quelle, c'erano anche quelle lette ad Apureton a cena da noi.Interrompo il racconto di Madeleine, sono imbarazzato, sentire mia moglie che parla apertamente di me mi emoziona ancora come un ragazzino. Decido di continuare io la storia di quella serata con Apureton: - Madeleine, in risposta alle acide accuse di Apureton, iniziò ad insultarlo. Gli disse proprio tutto ciò che avevo pensato quella sera, ma che mai e poi mai avrei potuto dire ad un ospite. “Ci hai portato del Sauvignon, ce lo hai descritto come un vino dal colore elegante, dal gusto equilibrato e tante storie, ma la verità è che sapeva di piscio di gatto. Hai detto che per risolvere i problemi della crisi economica occorre mandare via gli stranieri, senza pensare che sia io che Maurice siamo degli stranieri e che tra l'altro ti stiamo offrendo da mangiare. Fin qui passi tutto, ma attaccare un uomo che si mette a nudo è da vigliacchi. Sei un fascista, Apureton! La vita è nelle parole. Senza di queste non esiste la vita. Ma le parole non sono schifo che esce col fiato. Non sono leccate di culo o semplici giochi per intellettuali. Le parole sono la poesia. E la poesia sa di vita, non di stronzo. Fottiti, fottiti tu e i tuoi sorrisi da so tutto io”.Madeleine sorride, questa volta è lei ad essere un po' in imbarazzo, ma si vede che va ancora fiera della sua performance di quella sera, nonostante la schiettezza esagerata che aveva scalfito la sua proverbiale discrezione. Conquistata dal ricordo, riacchiappa la parola: - Apureton non era tipo da abbassare la testa ed andarsene. A quella che riteneva una provocazione, rispose spiegando, con una calma quasi snervante rispetto alla mia veemenza, che la

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poesia non era reale. Quella frase mi infiammò: ”Non è di questo mondo, ma è reale!”. A quel punto Apureton chiuse la conversazione dandomi dell'immatura. Poi guardò Maurice e gli disse: “Tu mi stai capendo, vero?”. Maurice non rispose, ma si vedeva che era felice. Io ancora più incazzata, non capivo di cosa poteva essere felice. Chiesi a Apureton se aveva il coraggio di recitarci qualcosa di suo. Lo sfidai. Lui si dilettò in quello che ancora oggi considero lo strazio letterario più stupido che abbia subito. Un ammasso di ovvietà infiocchettate per le belle occasioni. Un'elegante filastrocca per gli animali. Quando ebbe finito, nessuno osò commentare e, in quel silenzio, Apureton cambiò volto, perse la sua corazza.Madeleine si ferma ed io riprendo il racconto, anche perché l'umido del pantalone sta macchiando anche la sciarpa e non so come nascondermi: - Apureton disse che la poesia non è importante, che non faceva più parte della sua vita, che la vita si salva da sé. In realtà non l'ha mai pensato, ma fa di tutto per convincersene. Ha aperto la sua casa editrice, ma non è mai riuscito a scrivere un libro. O meglio, a farlo uscire dal cassetto. Nonostante tutto, a distanza di anni, pur pubblicando i miei testi, mi ha continuato a trattare come se l'oggetto del nostro legame fosse solo il denaro e non la parola.Hanno tutti ascoltato con attenzione, ma sui loro volti scorgo sguardi interrogativi. Amadou mi guarda perplesso e mi chiede: - Ma perché lei era felice mentre sua moglie e il suo amico se le davano di santa ragione?Io sorrido con timida soddisfazione: - Perché per la prima volta qualcuno mi stava difendendo. Anzi stava difendendo una mia poesia.Allora Amadou, ancora più confuso, si rivolge a mia moglie:- Perché il Signor Delimberte ora vende contratti telefonici?

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Madeleine sospira alzando gli occhi al cielo: - Tra il fiore raccolto e il fiore donato, il nulla. Sta a lui decidere se questa sua pagliacciata è parte di un gesto, oppure se è l'inizio della sua morte. L'alienazione dalla poesia. Maurice non vendeva più, i miei quadri non hanno mercato, abbiamo due figlie e Lugano è una città molto costosa. Volevo tornare a Dejanville, ma Maurice si impose. Vuole il meglio per le sue bambine. Allora ha iniziato a fare di tutto. Addetto stampa, autore di canzonette, fino a questo schifo. Agente e testimonial di un'azienda di telecomunicazioni. Ha venduto la vita al diavolo. In “Piccioni e farfalle fanno la rivoluzione” Antonine può fermare il suo cammino, c'è dell'acqua, c'è una porta aperta, ci sono i suoi genitori, c'è la pace. Lui si sdraia sul tappeto di ingresso. Saluta i suoi, odora quell'acqua, la guarda, ma non si bagna. Poi una farfalla lo distrae, la rincorre. Convinto di poterla prendere e tornare in quella dimensione di benessere. Mentre corre verso il nulla si trova dietro una folla di piccioni. Tutti a terra. Che segnano il loro percorso, lasciando impronte, segni sulla strada. Antonine manda a quel paese il diavolo e riprende il suo cammino.Noè conosce bene quella storia. Sorride e si rivolge a Madeleine: - Signora Delimberte, noi vogliamo che suo marito resti qui con noi, crediamo possa essere il nostro Sindaco. Lei è dalla nostra parte? Vi ospiteremo noi, non vi dovrete preoccupare di nulla. Chiediamo solo di essere poetati.Butto la sciarpa a terra e rapidamente mi infilo il cappotto. Mi alzo e mi risiedo nervosamente.E Madeleine sentenzia: - Partiremo domani.

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Capitolo 3. Midnight in Millesimo

La   comunicazione   si   chiude   sulle   ali   dell'emozione collettiva. Un'altra birra, poi il sorriso lascia il posto alla più concreta insicurezza sul da farsi.Mi tocco il pizzetto, me lo pettino, lo stringo tra le dita della mano destra: ­ E adesso?­   Eh,   mo'   so'   cazzi   pe'l   culo,   Delemberte!   ­   risponde sogghignando lo zingaro, rispuntato fuori da non so dove.Cosa   voglia   dire   non   lo   so,   so   solo   che   Noè   cerca   di tranquillizzarmi ed ha un'idea sulla notte: ­ Domani faremo una riunione, ci informeremo su come possiamo presentare una nostra lista alle elezioni e chiameremo a raccolta un po' di   gente.   Stanotte   la   affideremo   al   Conte   Faz.   Domani troveremo un bell'alloggio per lei e la sua famiglia.Il barista rabbrividisce: ­ Ma che sei pazzo, lo vuoi lasciare solo con quer vampiro der Conte Faz? Er collezionista di siringhe? Per me può stare qui, non c'è problema. Starà con lo zingaro a fare da guardia alle bottiglie.­ No, non dire cazzate, ­ lo interrompe Noè. ­ Il Conte sarà utile alla causa, nessuno come lui può spiegare a Delemberte dove si trova in questo momento. E poi che figura ci farebbe Delemberte  con tutta  Primavalle,  se domattina alle  6.00  i tuoi clienti lo trovassero steso sui tavoli a ronfare?Non ho sonno e l'idea di iniziare la mia avventura chiuso in questo   locale   tutta   la  notte  non mi  alletta  per  niente.  Ho bisogno di prendere una boccata d'aria.­ Va bene per il vostro amico, basta che non sia un serial killer.­ Non lo giudichi per l'apparenza ­ rispondono in coro.Amadou si alza e mi dice: ­ Venga con me, può lasciare le sue cose qui. Io so dove possiamo incontrare Faz.­ Preferirei lasciare tutto in macchina.

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­ Perché, lei ha una macchina? Non l'avrà mica parcheggiata di fronte al bidone della spazzatura?Esco fuori di corsa.­ Ma porca miseria!La mia Horizon Talbot non ha più le ruote, hanno lavorato di fino, l'hanno poggiata su quattro blocchetti di tufo.­   Non   si   preoccupi,   ­   afferma   Piero,   il   meccanico   ­   E' normale da queste parti, noi conosciamo tutte le nostre auto, sono parte del paesaggio. Quelle dei forestieri devono essere battezzate. Lei si farà conoscere e vedrà che subito le ruote riappariranno. E se qualcuno già le avrà piazzate ci penserò io   a   recuperargliene   delle   nuove,   magari   con  le   gomme termiche.Sto facendo uno degli errori più  grandi della mia vita, ma penso  che  dietro  questo  gruppo  di   sbandati   ci   sia   l'unica possibilità di recuperare la mia Magdaleine e allora spengo il fuoco dal cervello, mi calmo e mi affido ad Amadou, che mi sta indicando la strada: ­ Andiamo al Milletta, una delle poche piazze dove c'è vita di sera. Tra una cosa e l'altra si sono fatte le undici e trenta.Il Milletta, meglio conosciuto come largo Millesimo, è una piazza   che   si   sviluppa   all'esterno   di   una   curva   di   quasi novanta  gradi.  Una  luna  d'asfalto  contornata  da  macchine parcheggiate   in   doppia   e   tripla   fila,   una   chiesa   e   una gradinata. La piazza prosegue aldilà dei gradini con qualche localetto. C'è  anche un minuscolo parco di una ventina di metri  quadrati.  Vi  dormono abbracciati  due   rumeni  obesi coperti da un cartone. Hanno gli zaini per cuscino e accanto ai loro piedi, tra i calzini dentro le loro scarpe, spuntano i colli di quattro bottiglie. La luce dei lampioni si riflette sui tappi  e  mi  accorgo con sorpresa  che  si   tratta  di   tre  birre Chimay blu e di una bottiglia di Lagavulin.­  Loro sono Fred e Ginger ­ mi spiega Amadou.

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­ Si trattano bene!­ A loro piace dormire al fresco, diciamo così.­ In realtà mi riferivo a quello che bevono, non sono i soliti barboni da birra Peroni.­  Vivono qui  da  più   di  dieci  anni,   si   amano.  La  mattina presto vanno al  mercato dei   fiori,  prendono qualcosa  che vanno a vendere all'uscita della metropolitana. Fanno i soldi per un primo in trattoria e ne lasciano una parte per bere la sera. Sono innocui e si dicono felici.Il gusto piuttosto raffinato di questa coppia a cielo aperto mi sorprende quanto la capacità di Amadou di esprimersi in un italiano   estremamente   corretto.   Non   mi   trattengo   dal complimentarmi   con   lui,   ma   noto   che   la   sua   reazione   è piuttosto stizzita.­ Ho lasciato la mia casa,  attraversato a piedi il  deserto e viaggiato su un barcone per arrivare fin qui, ma questo non significa che non abbia studiato e che non ami farlo. Pensa forse che la stia accompagnando per chiederle l'elemosina?Resto   spiazzato   da   questa   risposta,   fredda   e   profonda   al contempo,   e   per   cambiare   argomento   gli   chiedo   del fantomatico Conte Faz. Amadou prima scuote la testa, poi manda giù una buona quantità di saliva. Infine mi indica la chiesa.­ A mezzanotte in punto lo vedremo fermo davanti a quel cancello ma potremmo vederlo passare prima attraverso il parchetto. Avrà un passo veloce, come una marcia di guerra e avrà una busta gialla del supermercato Pim legata al polso. Cosa ci tenga dentro è e sarà per sempre un mistero. Alcuni dicono   siano  dei   vestiti,   altri   degli   oggetti   da   collezione. Deve sapere che il Conte Faz ha delle manie strane. Io penso che la busta sia piena di medicine.­  Ma dove  va?  E  come fai   ad  essere   sicuro  che   sia   così puntuale nel suo apparire?

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­   Lo   conosciamo   tutti,   sappiamo   che   ogni   notte   lo   si incontra, ma di lui, della sua vita di giorno, non sappiamo niente.  Resta  in  giro fino  alle   sei  di  mattina,   sempre.  Ha tante   amicizie,   ma   non   ha   una   comitiva   fissa.   Preferisce scambiare   due   battute   sconvolgenti   e   poi   defilarsi.   Non prende   i   mezzi   pubblici,   non   ha   una   macchina.   Ama passeggiare.In quel momento vediamo una figura scura scavalcare Fred e Ginger.  C'è  un   riflesso  giallo,   la   sua  busta  che  scompare nell'oscurità. Deve essere proprio lui. Amadou lo indica con lo sguardo sorridendo.­   Il   Conte   Faz   per   me   ormai   è   un   fratello.   Vedi   questa piazza? E' un posto come tanti  ma per me e per gli altri è un luogo speciale.La sua voce viene improvvisamente coperta dalle campane della chiesa che rintoccano dodici volte.  Mi chiedo se sia normale da queste parti, a quest'ora. Ma ho un po' di timore a   domandarlo   ad  Amadou,  potrebbe  essere  musulmano   e non vorrei rischiare di provocarlo di nuovo. Allora mi porto le mani alle orecchie, in modo da attirare la sua attenzione. Amadou   sembra   cogliere   la   mia   sorpresa   e  mi   spiega:   ­ Questa non è  solo opera del parroco. Questa campana è... quasi clandestina. Ma ormai è una  tradizione. Risale a una manifestazione per la pace organizzata anni fa. Eravamo tutti insieme,   compresi   il   parroco   e   il   nostro   imam.   E'   stata l'ultima giornata di festa per noi. Abbiamo suonato e ballato. Abbiamo pregato.  C'era   chi   leggeva  le  poesie,   chi   faceva comizi. Giovani, vecchi, bambini. Poi la sera il Conte Faz si è intrufolato in chiesa e ha suonato dodici volte la campana. Prima di allora la si era sentita rintoccare solo per le messe. Ma   quel   gesto   è   piaciuto   a   tutti   e   da   allora   abbiamo continuato “a battere la nostra ora”. Dice il Conte che è un modo per ricordarci  che dobbiamo resistere.  Che prima o 

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poi arriverà il nostro momento. Dobbiamo solo farci trovare pronti.Guardo con interesse Amadou, la sua storia ha dell'irreale, eppure   è   così   viva   nelle   sue   parole.   Poi   gli   chiedo:   ­ Amadou, ma tu dove dormi?­ In una casa.­ E' la tua?Sorride: ­ Nei prossimi giorni sarò felice di averla ospite a cena, scoprirà la mia storia.In   quel  momento   ci   voltiamo  verso   la   chiesa   e   vediamo materializzarsi un ragazzo biondo dalla carnagione chiara, con il codino fermato da un elastico. Indossa una maglietta verde sotto il giaccone di pelle, jeans neri e anfibi ai piedi. Cammina   spedito   nella   nostra   direzione   e   quando   ci raggiunge   si   rivolge   direttamente   a   me,   come   se   mi conoscesse già: ­ Ciao, come va?­   Bene   ­   gli   rispondo   un   po'   sorpreso.   ­   Piacere,   sono Maurice Delemberte.Faz appare concentrato e distratto allo stesso tempo. Quando gli  porgo   la  mano   sembra  quasi   essere  piombato   in  quel quadrato d'asfalto da un'altra dimensione: ­ Sì sì, certo certo, dicevo?­ Ehm, ti stavi presentando...­ Sì sì, certo certo. Ciao Amadou, bello. Come va?­ Bene. Ti ha detto tutto Noè? ­ Amadou non sembra per nulla sorpreso dall'originalità del nuovo arrivato. Io invece inizio   a   capire   perché   erano   tutti   un   po'   preoccupati   di lasciarmi solo con lui. ­   Sì,   ho   trovato   una   sua   lettera   sul   tergicristallo   della macchina di mio padre. E insomma... Ah, sì sì, certo certo. Dicevamo? Ah sì, beh ciao Amadou. Andiamo che è tardi!Non mi trattengo dal chiedere : ­ Tardi per cosa?Lui alza il braccio,  solleva la manica del giaccone, non è 

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soddisfatto, arrotola la manica di pelle, guarda il suo polso, come   se   avesse  un  orologio  posizionato   al   contrario,   col quadrante rivolto verso l'interno Ma non ce l'ha. E ripete: ­ E' tardi. Andiamo bello!Di certo non è un tipo “ordinario”, il Conte Faz. Ma se mi hanno affidato a lui, ci sarà un motivo che scoprirò.

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Capitolo 4. Il Flaneur di TorrevecchiaSaluto Amadou e lo seguo. Camminando a passo svelto, ci addentriamo   in   vicoli   e   vicoletti,   alcuni   dei   quali   non illuminati.  Arriviamo di  fronte a un muro alto due metri, percorre una stradina che sembra riservata solo ai pedoni. ­ Qui le macchine non passano?­ Sì, ma non molte, solo chi ci abita. E continua, rivolto verso il muro: ­ Ti piace? Prima c'erano dei   murales,   poi   il   sindaco   ancora   in   carica   li   ha   fatti rimuovere.­ Ma è solo un muro...Stringe il palmo della mano destra sulla sinistra. Si piega un po'. Appoggia le mani sulle sue ginocchia: ­ Metti il piede qui sopra, ti faccio da scalino. Arrampicati. Mi slancio e mi appendo al muro. Lui mi spinge il sedere e sono sopra.­ Buttati, che ti raggiungo!Siamo in un percorso abbandonato,  delimitato da due alti muri e segnato dai resti di un binario. Ai lati, mozziconi di sigarette,   di   canne,   buste   dell'immondizia.   Un   paio   di materassi. ­ Vedi, qui ci sono ancora i murales!Faz inizia a camminare e senza voltarsi inizia a spiegarmi:­ Una volta il trenino passava di qui, da Ostiense a Viterbo, attraverso Torrevecchia.Io   lo  seguo guardandomi attorno e  chiedendomi dove mi porterà.   Continuiamo   la   nostra   passeggiata   fino   a   che   il muro si interrompe, il binario morto attraversa una strada e poi prosegue fino ad arrivare alla stazione nuova. ­ Tutto inizia qui, qui dove c'era il passaggio a livello. Dove il traffico schizzava, impazziva. Questa è Torrevecchia alta. La strada inizia a Monte Mario e prosegue per Primavalle. C'era   un   confine   tra   due   quartieri,   tra   due   mondi.   Oggi 

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parlano   del   quartiere   di   Torrevecchia,   un   ibrido.   Ma   noi siamo o Primavallini o di Monte Mario. Torrevecchia inizia a Monte Mario. Trecento metri, poi il confine e prosegue per circa   quattro   chilometri   per   tutta   Primavalle.   Il   cuore   di Primavalle è  all'altezza di  Torrevecchia bassa.  Io percorro questa strada tante volte di notte, ne conosco ogni traversa, ogni palazzo.Allora gli domando: ­E' comunque sempre Roma?

­ Non è Roma, è Primavalle. Per me è qualcosa di diverso. E' casa mia. Ci sono centomila persone. C'è un modo di vivere diverso.   A   volte   ci   si   sente   tutti   occidentali,   ma   qui,   in questo posto c'è qualcosa di unico. Forse la sua povertà, la sua sofferenza. Forse la sua storia. Non lo sappiamo neppure noi, forse siamo degli illusi, forse siamo dei cretini. Non ci riteniamo  più   una  borgata,  non   ci   riteniamo un   semplice quartiere  di  Roma.  Non abbiamo grandi  monumenti,   non abbiamo grandi eroi. Ci lamentiamo di ogni cosa e tendiamo a nascondere i nostri ricordi, ce ne vergogniamo. Ma sotto sotto siamo orgogliosi del nostro angolo di mondo.

Dall'esterno,   dal   confine,   la   nostra   passeggiata   cambia direzione, si vira all'interno di un mondo altro. Al buio, ci avviamo verso  il  centro di  una cittadina  in sospeso tra   la capitale   e   gli   anni   settanta.   Un   quartiere   popolare   che ricorda a tratti il  far­west, a tratti un polo cosmopolita sui generis. Un borgo fatto di moduli abitativi e cemento. ­   Facciamoci   tutta   la   Torrevecchia   e   vedrai.   Vedi   qui, allontanandoci  dalla   stazione  del   trenino,   che  non  a   caso prende il nome di Monte Mario, la strada inizia la discesa, verso la valle. Più si va in basso, più diminuiscono i soldi. ­ Perché, a Monte Mario sono ricchi?­ Eh! Si sentono ricchi! Monte Mario è un'altra storia molto 

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complicata. Quelli che ci stanno vicini  non sono ricchi ma sono fasci. E' verso lo stadio o a via Cortina D'Ampezzo che hanno  la  grana.  Ce  l'hanno eccome!   I  nostri   rivali  diretti sono i fasci, gli altri non ce li caghiamo affatto e loro non cagano noi. Tiro fuori la mia Moleskine e annoto: “Parlare della rivalità con Monte Mario. Del fascismo e della destra italiana”. Ho capito  che  qui  esistono schieramenti  antichi,  che   in  parte condivido,   ma   che   rischiano   di   trasformarsi   oggi   in   una inutile   guerra   tra   poveri.   Dalle   parole   del   Conte   dovrei presupporre   che   chi   ha   votato   Forza   Italia   risiede   a   via Cortina   D'Ampezzo,   ma   non   ne   sono   del   tutto   sicuro. Dovremo   incrociare   le   categorie,   ripercorrere   una   storia collettiva, reinterpretare dei concetti,  chiarire  la situazione attuale  e   forse  confrontarci  coi  vicini.  Combatterli  con  la poesia e “combattere" con questa anche quelli meno vicini. Un combattimento fatto di incontri e non di scontri.Il Conte si sofferma un momento davanti a un edificio giallo a ridosso della strada.­   Vede   questo   palazzo?   E'   una   vecchia   sede   dei   servizi segreti. Attivata ai tempi del terrorismo, gli anni di piombo.Gli chiedo cosa ci sia oggi e se l'abbia mai visto dentro.­  Sì   sì,   certo  certo.    Oggi  è   ridotto  ad  un  ufficio  mezzo vuoto, niente di che, cazzi piccoli e fregne mosce – mi fa il Conte,  come se fosse  la   risposta più  naturale  del  mondo. Annuisco   e   vado   oltre,   so   che   sarebbe   impossibile approfondire in questo caso.La mia attenzione viene poi catturata da una costruzione con le finestre murate.­ Perché? ­ chiedo perplesso, indicandola.­ Io sono nato lì, era un ospedale, poi una casa di cura. Ora ha   chiuso   ma   hanno   deciso   di   eliminare   le   vie   d'entrata perché ci sono ancora dei macchinari e hanno paura che li 

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rubino.   Qui   da   noi   sono   stati   capaci   di   smurare   una macchinetta distributrice di preservativi...Continuando a camminare, approdiamo davanti al benzinaio dove il Conte si ferma per salutare il suo amico bengalese. Li conosce tutti.­ Ciao bello come va?Il bengalese annuisce con la testa per ricambiare il saluto e sorridendo gli fa: ­Sempre a camminare, ma fa freddo!­ E sì, certo certo. Si è visto Due spaghi?­ Sta lì a pisciare.Una   sagoma   nera   è   anticipata   dalla   sua   ombra,   lunga   e imponente.  E'   in piedi e si  intravede un getto potente che piano   piano   prende   vita   tra   i   mattoni.   L'odore   acre   si mescola a quello di benzina e all'umido della nottata.Esce   fuori   una   signora,   una   trans   dal   viso   imbrattato   di colori,   minigonna   di   pelle   e   toppino.   Ha   un   piercing sull'ombelico e la carnagione scura. Si avvicina fissandomi.­ Ciao calino, dieci la boca, venticinquo di dietlo.Sono talmente imbarazzato e colto di sorpresa che riesco a farle solo la domanda più stupida che mi passa per la testa e allora le chiedo se sia cinese.Lei   sembra   divertita   e   guardandomi   di   sottecchi   mi risponde:­   Ti   ho   capito   a   te.   Sei   uno   di   quei   polcelloni   che   gli piacciono i mandalini – e scoppia in una risata ammiccante. Poi  continua:   ­  Sono come più   ti  piace:  cinese,   filippina, peluviana, giapponegla... anche italiana.Allora il Conte Faz interviene per togliermi dall'imbarazzo:­ E' un amico, non parlarci di lavoro.­ Li conosco bene, gli amici tuoi!­ Ancora con quella storia del vecchio Guantanamo.­  L'animale!  Non me ne pallàle.  Quel  bimbo cattivo...  Vi vanno due castagne?

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Indietreggio   d'istinto,   non   capisco   dove   vuole   andare   a parare. Al contempo non voglio sembrare scortese, allora mi giro verso Faz, aspettando che sia lui a rispondere.La trans scorge il  mio sguardo interrogativo e sempre più divertita alza la posta: ­   Se   volete,   anche   un   pannocchione!   ­   e   inizia   a   ridere istericamente.Nel   frattempo   il   Conte   comincia   ad   emettere   stralunati vocalizzi, come per schiarirsi la voce: ­ Sì, sì, scusate, è il peperoncino che con questo freddo mi secca la gola.­ Che peperoncino? ­ mi azzardo a chiedere.­ Sì, ho sempre quattro o cinque peperoncini in tasca prima di uscire e ogni tanto me ne metto in bocca uno. Quando si ammorbidisce lo mastico un po', così, per tritarlo alla buona. Poi mando giù. Lo faccio per i capelli. Mi dà forza.Ascolto la descrizione sempre più perplesso. Questo Conte è davvero stravagante. I miei pensieri vengono interrotti dalla voce di Due Spaghi che esclama:­ Allola monto?Non   capisco   neanche   a   cosa   si   riferisca   ma   mi   affretto comunque a dirle di no. Loro però sembrano ignorarmi e in silenzio   vanno   ad   appartarsi   dietro   al   gabbiotto   del benzinaio.   Dopo   poco   inizio   a   sentire   odore   di   bruciato. Penso   alle   parole   dei   ragazzi   nel   pub,   alla   storia   della collezione di siringhe, a chi mi parlava di Faz come di un vampiro, a quest'ultima storia del peperoncino. Ora me ne vorrei proprio andare.  Invece, inizio ad avvicinarmi.Ho un po' paura, il solo pensiero di dover spiegare tutto alla polizia   mi   riempie   d'ansia.   Chiamerei   Magdaleine,   ma significherebbe   convincerla   a   non   raggiungermi.   Prendo coraggio e faccio gli ultimi passi verso quello che ormai mi sto immaginando come il più macabro dei delitti.Quando arrivo da loro quello che vedo è solo un barile di ferro con sopra un po' di carbonella: stanno arrostendo una 

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pannocchia e qualche caldarrosta. Due Spaghi è tutta indaffarata e quando mi vede allunga la mano   verso   il   Conte:   ­   Conte,   passami   giolnale   che   sta vicino al secchio.Il   Conte   glielo   passa,   lei   strappa   un   foglio,   ci   mette   le caldarroste e mi porge il cartoccio:­ Folse a lei piacciono meno cotte...L'atmosfera noir in cui mi sentivo calato solo un momento prima cede il posto ad una strana aria di familiarità. Il tepore che viene dal barile mi fa scongelare. Mi sento un po' più rilassato,   mi   frego   le   mani   e   penso   ad   alta   voce:   ­   Ci vorrebbe proprio un bicchiere di vino!Due Spaghi mi sente, fa un fischio da camionista e chiama: ­ Calletto, Calletto!Un signore alto poco più del barile arriva correndo in pochi secondi. Ha il fiatone, è un po' anziano. Ha una giacca di pile sopra alla canottiera della salute e dei boxer rosa. Sputa per   terra   e   con   voce   carica   di   saliva   e   di   stanchezza   si rivolge alla signora:­ Amore mio dimmi, che t'è successo, t'hanno importunato? Tira fuori da dietro la schiena una mazza da golf e mi fa:­ Figlio di una buona donna cosa cazzo vai cercando in giro da queste parti? Questa è  la mia donna! Ti spacco il culo sai...Ho paura che gli venga un infarto, ma ne sono ammirato. Non   sembra   solo   una   “protezione”   ma   una   sincera devozione. Non riesco a fare a meno di guardarlo stupito. Ha la  barba  sfatta,  bianca.  Ha   il  petto  villoso,  bianchiccio.   I capelli gli incoronano il cranio solo sui lati. Il volto è stanco e rugoso, segnato da due folte e nere sopracciglia che gli conferiscono un'espressione sempre corrucciata.­   No,   calo.   Stavamo   giocando!   Volevamo   sapele   se   ti   è limasto un po' di vino.

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­ All'anima de li mejo mortacci vostra e de chi v'è rimasto accanto! Certo che ce l'ho.Si rilassa e solleva la mano, fiero di poter accontentare Due Spaghi. Poi si volta e si allontana, per ritornare dopo poco con due cartoni di Tavernello. Nel frattempo il bengalese ha tirato fuori due sdraio e la trans ha avvicinato il suo divano due posti, che ha una molla che buca il cuscino di destra. Ci sediamo mentre Faz distribuisce dei bicchieri di carta e mi presenta al vecchio. Lui a sua volta mi inizia a raccontare la sua storia: ­ Sto in pensione da due mesi. M'hanno dato la minima, ma so'   contento...   de   sti   tempi!   Ora   faccio   l'angelo   de   'sti poracci.  So'  vedovo e non ho figli.  Pe'  me il  Tavernello è acqua benedetta.  E'  come bagnasse  le   labbra  ner  deserto. Questo me posso permette ma almeno me ricordo de quanno so' stato giovane. Me fa riprenne. E' questo che conta no? Te piace?­ Sì,  è...  fresco – rispondo annuendo, mandandone giù un sorso per far scendere la caldarrosta.­   Fresco   eh?   M'aspettavo   che   dicessi   “equilibrato”...   Er Conte dice che sei 'no scrittore!Mi sento all'improvviso toccato nell'orgoglio. Stiamo dietro a un benzinaio, di notte, tra caldarroste cotte su un barile, divani   rotti   e   vino   al   gasolio,   eppure   quella   frase   mi   fa sentire   “diverso”,   quasi   deriso.   Forse   sono   solo   io   a percepirla come una provocazione, magari vuole essere solo una specie di complimento. Allora decido di seguirla:­ Beh, a modo suo può essere anche equilibrato...Il vecchio ride mezzo compiaciuto. Non credo abbia inteso realmente   il  mio  pensiero  ma  a   lui  va bene così.  Mi  sto accorgendo   che   in   fondo   è   vero,   sembra   che   ci   sia   più equilibrio in questo schietto teatrino notturno innaffiato di Tavernello che in quei tanti giorni in cui, sotto i riflettori di 

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una squilibrata realtà ubriaca di champagne Dom Pérignon, sai di essere solo un attore come tanti.Il vecchio tocca il culo di Due Spaghi che fa una risatina e si toglie la parrucca mostrando il perché di quel soprannome, mentre Faz tossisce e con una scossa esclama:­ Oh cazzo, che ora è?Fa la solita mossa di arrotolarsi la manica del giaccone di pelle,   controlla   l'invisibile   quadrante   posto   sul   polso   e afferma:­ Va beh, divertitevi, divertitevi. Noi dobbiamo andare.Si alza di scatto, mi fa un cenno e si avvia rapidamente verso la strada, per proseguire questo profano pellegrinaggio alla scoperta di Torrevecchia. 

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Capitolo 5. Primavalle è il nostro villaggio

Proseguiamo   il   pellegrinaggio   per   quel   di   Torrevecchia, Siamo a metà della strada. C'è una serranda che non è del tutto abbassata, all'interno del locale si vede ancora luce.Faz  si  avvicina  e  una  voce  proveniente  dall’interno  lo   fa arrestare:­ Nun te move che c'ho la roba pe' te, ma me devi fa' er solito favore.Faz mi fa cenno di stare in silenzio. Da sotto la serranda si materializzano   quattro   bustoni   che   profumano   di   pane appena sfornato e pizzette. C’è anche un piccolo vassoio.­ Grazie – sussurra Faz prendendo il malloppo.La voce dall’altra parte, roca per la stanchezza gli ricorda il patto:­Oh, nun te dimenticà de fa' er solito giro!Il Conte ritorna verso di me con il vassoio in una mano e le buste nell’altra:­Il vassoietto è per noi, ci sono dei cannoli di Primavalle. Sono buonissimi, c'è la cioccolata del Principe, una specie di   nutella,   bicolore   però!   –   mi   spiega   soddisfatto offrendomene   uno.   Poi,   con   sguardo   quasi   allarmato   mi blocca,   come   se   si   fosse   ricordato   un   particolare importantissimo:­ O cazzo, scusa, non sapevano che non fossi solo,  me li hanno   personalizzati.   Si   potrebbe   trovare   dentro   uno spicchio d'aglio o del finocchio selvatico.Gli  sono grato di  non aver omesso questo particolare.  La sola idea di rischiare di mangiare dell’aglio in un cannolo alla   cioccolata  mi  dà   il   voltastomaco.    A  quel   punto  mi chiedo cosa mai possano contenere le buste.Il Conte con sguardo serio mi gela: ­ E’ cocaina!­ Cosa? – gli chiedo con gli occhi sbarrati. 

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­  Sto   scherzando!  Cosa  credi   che  mi  possa  aver  dato  un fornaio? C’è del pane. Due buste sono per gli albanesi del Gesù   Divino   Operaio   e   due   sono   per   una   famiglia   del Collegino – mi spiega ricominciando la sua marcia notturna. La   prima   tappa   è   in   un   palazzo.   Il   portone   d'ingresso   è spalancato, siamo al piano terra e un appartamento di una trentina di metri quadrati è adibito a chiesa. Ci sono sedie di plastica e dei tappeti finti persiani. La chiesetta è aperta e quattro   ragazzi   albanesi   hanno   pensato   di   rifugiarcisi   la notte.  Faz gli offre il pane e mi spiega:­ Tutti i giorni le signore anziane puliscono questo posto e ci recitano   il   rosario.   I   mariti   scendono   con   le   sedie   e   si mettono seduti  sul  marciapiede.  Sorvegliano  la  strada.  Se sono in vena mettono una sedia vuota al centro e si fanno la partitella a carte. La domenica viene un prete e celebra una messa.  Montano  degli  altoparlanti,   si  crea   la   fila   fuori.   I credenti e i curiosi bloccano tutta via Clodomiro Bonfigli.Il  Collegino,   invece,  è  una  struttura  storica  che  dà   anche rifugio a soggetti svantaggiati. ­  Qui  ci   sono dei  grandi  personaggi:  Micco mille   lire,   Il Tartaglia, Bucetto, Scimmia e anche la famiglia di Rosetta – mi   spiega   il  Conte   lanciando  un   sasso   alla   finestra.  Una finestra  col  vetro  già   rotto.  Lo guardo stupito,  ma  lui  mi rassicura:­ Ha il doppio vetro, stia tranquillo, è rotto solo sull'esterno. Si affaccia una ragazza in vestaglia bianca, ha le lacrime agli occhi e il labbro sanguinante.­ Ancora? – le fa il Conte preoccupato.­ No, per carità. Sono scivolata.­ E Giadina come sta?­ Dorme. Dorme.­ Io a quel pezzo di merda di tuo marito lo scanno!

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­ Ma che dici? Cosa c'entra, smettila. L'hai portata la busta?­ Sì sì, certo certo.Gliela   lancia.  Un braccio robusto con un serpente   tatuato prende   il   bottino.   Rosetta   scompare   e   la   finestra   viene sbattuta con una violenza che fa eco nella valle.­ Tacci sua!­ borbotta il Conte. Allora gli chiedo spiegazioni:­ Vi conoscete bene?­ Conosco il marito. Una notte mi voleva dare un passaggio. Mi ha portato al parchetto e si è abbassato i pantaloni. Mi ha preso la testa, faceva forza. Voleva che mi chinassi ma sono riuscito a scappare.­ E lei?­ Andavamo alle medie insieme. Poi mi hanno bocciato, ho rifatto tre volte la prima media. Alla fine ho lasciato.­ E ora lavori?­ Se lavoro? Mi ammazzo di lavoro! Vendo Herbalife, sono un pranoterapeuta,  un  wedding planner,  un  muratore.  Poi disegno.   Disegno   fumetti.   Ma   non   sempre.   Solo   quando voglio.Poi si  volta  e  mi  indica una casa:­  Lì  abita  Guantanamo. Andiamolo a trovare! Ricordo di averlo già sentito nominare. ­ Chi è Guantanamo?­ E’  un bravo ragazzo, andiamo!­ Ma sono le due di notte!Faz   sembra  non   sentirmi,   si   avvicina  ad  una   costruzione abusiva,   con   le   pareti   esterne   ancora   non   intonacate   e citofona. Sentiamo   girare   la   chiave   di   un'inferriata.   Poi   ci   viene scaraventato giù un comodino. Lo schiviamo e questo fa la fiancata ad una Ford Fiesta. Un   gigante,   alto   due   metri,   muscoloso,   pelato.   Pieno   di cicatrici e con i denti davanti spezzati si schiarisce la voce 

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roca.­ Aaah sei te! Pensavo eri er cane.­ L'hai chiuso fuori un'altra volta?­ C'ho 'na tizia, su.A quel punto sentiamo una richiesta d'aiuto: ­ Basta, fermatelo!!Sono preoccupato e mi giro verso Faz, pensando che possa fare qualcosa. Invece si limita a chiedere tranquillo:­ Tutto ok su?­ Ma sì...  – E poi,   rivolto alla  donna:  – E diglielo che ti piace!La donna lancia un altro urlo di aiuto ma poi conferma:­ Sì, mi piace!Il Conte allora si raccomanda: ­ Rapporti protetti, eh!  ­ e si gira per ricominciare la passeggiata.Ci allontaniamo da quest'altra situazione surreale e inizia a raccontare:­   Lui   è   sieropositivo.   Ha   una   forza   sovrumana,   però.   E' incredibile, riesce ad alzare una macchina senza fatica. Ha le orecchie tagliate, ci hai fatto caso?­ No, era troppo distante, era buio.­ Sì sì, certo certo. Faceva il pugile, ora fa il buttafuori. L'ho conosciuto al parco.­ Eravate amici d’infanzia?­ No, lui è molto più grande di me. Non li dimostra, ma ha cinquanta anni. Io di sera passavo per il parchetto per tornare a casa. Lui e il fratello stavano sulla panchina a farsi le pere. Poi un giorno l'ho visto solo. Avevo dodici anni e gli chiesi che   cosa   era   successo.   Lui   mi   rispose   che   era   morto   il fratello. Lo guardai mentre si bucava. Mi promise che era l'ultima volta. E così fu. E' però un assatanato di sesso, si è fatto qualche baldracca e si è ammalato anche lui. In giro quando qualcuno lo incrocia cambia strada, a me invece sta 

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simpatico.   E'   un   bravo   ragazzo,   sono   le   persone   che frequenta che non sono buone. Lo convincono a delinquere e lui ci casca. E' un ingenuo.Svoltiamo a sinistra per via Pietro Bembo.­ Questa è Primavalle! Qui c'è la polizia, lì ci sono dei lotti di case popolari.  Da qui si arriva al Break Out, un centro sociale, e in via Pietro Maffi. Arriviamo in un giardinetto dove vedo delle scintille, come piccoli fuochi che si alzano e si spengono. Sorrido e penso ad alta voce:­ Ragazzini che si fanno le loro cannette!­ No – mi ammonisce il Conte, ­ non solo. Quello è il circolo degli Scipioni. Ci avviciniamo e scopro che i ragazzi si stanno sì passando un purino d'erba, ma anche che in mezzo a loro ci sono tre candele accese.Sono seduti per terra e uno di loro ha in mano “I fiori del male”.   Legge   ad   alta   voce   dei   versi   e   si   ferma   per commentare:­ Figo eh?­ Ammazza che roba!  Che botta.  E'  come quando sono a casa, mi sento nello stesso modo. Mi sento soffocare.­ Come lo dice bene. Lui si faceva d'oppio. Secondo voi è per questo?­ Beh, è un bel viaggio!­ Non lo so, non ne sono mica sicuro. Secondo me si faceva d'erba e poi faceva il grande in giro a dire che s'era fatto de roba.­ Perché se uno si fa e lo dice ad alta voce fa bella figura?­ Boh, magari gli artisti sì!­ Guarda Morgan!­ Ma lui è Baudelaire, è vissuto nell'Ottocento, ma che cazzo gliene poteva fotte de fasse la reputazione da fattone, magari 

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nemmeno era 'na zecca...Uno di loro si infervora:­ Ma che state a dì! Smettetela di giocare, siamo qui per una cosa seria. Questa roba è viva e non è droga. E' poesia.Il Conte si intromette:­Bella regà! Ho chi fa per voi, Maurice Delemberte!I ragazzi mi mettono a fuoco:­A Conte, ma vaffanculo! Delemberte sarà pure morto...Mi gratto le palle, lo faccio come Antonine, per ventinove volte. Per essere sicuro di averlo fatto bene. Per essere sicuro di averlo fatto un tanto di volte da non essere un numero pari e di non essermi sbagliato nello strofinare bene tutte e due le palle lo stesso numero di volte. Lo faccio pensando ad un numero primo grande e lo faccio chiudendo gli occhi ogni volta che la mano ha compiuto un su toccando i pantaloni e un giù non toccandoli.Ai ragazzi non sfugge questo rituale:­ Grande! Ma allora sei proprio tu!Mi stringono la mano, ad uno ad uno. ­ Lei si fa?­ Perché?­ Per capire se è utile per scrivere.­ Non è utile per scrivere.­ Ma come no?­ Cosa è   il  mondo? E' qualcosa che non ci piace, ma che calpestiamo. Poi ci sono la televisione, la droga, le illusioni, le   ubriacate,   il   Paradiso,   l'inferno,   le   stronzate.   Ecco,   la prima   domanda   è   questa:   cosa   non   fa   parte   di   questo mondo? Rispondetemi e presentatevi.­ Ma che stiamo a scuola?­ No, passami il purino, ha un buon odore, l'avete fatta a casa vero? Idroponica riscaldata in pentolino. Non era ancora del tutto matura.

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­  Sì,   avevamo  paura   che   se  ne   accorgessero...   Sa,   per   la quantità di corrente elettrica che stavamo utilizzando per le lampade.   E   poi,   per   tutto   il   condominio   partivano   certe svampe! Abbiamo dovuto raccogliere tutto. Ma lei che ne sa? E poi ci ha appena detto...­  Anche  io  sono stato  un  coltivatore  da  condominio  e   in Svizzera c'è  bella  roba.  Io  ho appena detto  che non sono cose utili alla scrittura.Il ragazzo riprende la parola, mettendosi in gioco:­ Sono Pippetta, in questo mondo non c'è l'amore.­ Io sono Giulio, non c'è la libertà.Allora domando:­ Quando ti sballi c'è amore? C'è libertà?­ Beh, se mi faccio, in qualche modo esercito un mio diritto che il mondo mi nega. Sì, sono libero e sono pure felice.­ Bene Giulio, allora dimmi: cosa è la libertà? E cosa è la felicità? E poi, sono di questo mondo?­   Aspetti   un   attimo,   io   sono   Ernesto,     la   libertà   è   un venticello   sul   viso   che   ti   tira   via   le   lacrime,   in   maniera naturale, come quando vai sul motorino.­ Bene Ernesto, perché  usi una metafora? Quando vai sul motorino per andare a scuola sei realmente libero?­   Forte!   Non   ci   sto   capendo   nulla.   Delemberte,   scusi, riordini il discorso.­ E chi sono Babbo Natale? Voi mi dite che una cannetta è libertà   e   felicità.   Che   sul   motorino   il   vento   asciuga   le lacrime. Non mi dite però cosa è di questo mondo e cosa non lo è. Ecco, siete qui a girarvi una canna, ma non solo.­ E no, noi siamo gli Scipioni. Io sono l'ideatore, Steno. Noi commentiamo le poesie.­ Appunto. Droga e poesia. Per me la droga è come la tv. La poesia è altro. Torniamo a ciò che è di questo mondo e ciò che non lo è.

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Steno: ­ Gli asini che volano non sono di questo mondo.­ Dici? La poesia non è di questo mondo? E la droga?­ Nemmeno la droga.­ Ok. Allora ti chiedo perché la droga non è di questo mondo e perché la poesia non è di questo mondo?­ Perché la droga ti porta lontano, ti fa provare cose difficili da provare, ti  toglie un peso. La poesia invece è  roba per pochi e non si usa più, noi siamo dei pazzi.­ Allora sono la stessa cosa?­ No, ma quasi.­ Allora, la libertà, la felicità, l'amore, la droga e la poesia. Credo che la droga sia di questo mondo, che l'amore e la poesia non siano di questo mondo e che la libertà, la libertà c'è se c'è la poesia e se c'è l'amore. Idem per la felicità.­ Ma che vuol dire?­   Ne   ho   parlato   oggi   in   un   pub,   anzi   lo   ha   fatto indirettamente mia moglie. Raccontando una storia. Io l'ho sentita e ho cambiato il mio progetto di vita. Ecco, la poesia è altrove, ma esiste. E' reale. Quando la si incontra ti cambia la vita.  Ti fa soffrire,   ti  fa gioire,  ti  sviscera,   ti  carica.  E' altrove, ma c'è. E' anche in noi, ma non è di questo mondo. La poesia fonda qualcosa. Qualcosa che resta, che conta. E' come l'amore. Ha un immaginario non scontato. E' parola. E voi   sapete  che  nessun discorso  è  uguale,  che  ogni   lingua viva è  aperta.  Che mai diremo la stessa cosa nello stesso modo, con lo stesso accento, con gli stessi toni, con le stesse espressioni. Non so come si incontri l'amore vero e non so come si incontri la poesia, quel che so è che la nostra sfida è quella di portare ciò che non c'è in questo mondo. Io amo la poesia   e   amo  mia  moglie,  ma  non  posso  permettermi  di goderne come godo della tv, dell'hashish o di una birra. Non è   quella   la   libertà,   non   è   quella   la   felicità.   Scrivere   è partorire un figlio adulto.  Non potrai godertene l'infanzia, 

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sarà   lui,   il   tuo  scritto,  a   raccontarti   la   tua.  Allora,  capite bene,   che   l'unico   modo   che   abbiamo   per   partecipare   di questa   avventura   è   sopportare   il   peso   della   parola. Sceglierla, pronunciarla, leggerla, interpretarla, condividerla, custodirla,   affrontarla.   Questo   lavoro   richiede concentrazione, lucidità. Pertanto la droga non aiuta. Sono convinto   che   poche   cose   possano   salvarci   e   per   averle dobbiamo   andare   oltre,   affrontare   un   viaggio   quasi ultraterreno.  Ditemi  voi:   se  dovessimo fare   la   rivoluzione contro i giganti, vi portereste uno zaino con droga, pettini e dentifricio oppure vi gettereste,  metaforicamente parlando, nudi tra le intemperie? Io farei la seconda, per sentire quel vento che ti asciuga le lacrime. E che lo fa a fondo oltre quel tratto di strada percorso da un motorino. Voi avrete sentito dire che la poesia va oltre il poeta. Addirittura pensavate che io fossi morto! E' proprio così! Scrivere è creare qualcosa di veramente grande. Ma non solo scrivere. La parola è tutto questo. E noi siamo portatori sani di parole, basta volerlo. ­ Ci fa sentire cretini.­ Cretini un corno! Voi non vi state facendo solo le canne, state lavorando la parola. Avete fondato un circolo e credo che   questa   resterà   nei   vostri   ricordi   come   una   delle esperienze più belle della vostra vita. Con questa misurerete le adolescenze dei vostri figli e loro quelle dei loro nipoti.Interviene Pippetta:­ Figo, ma lei a quest'ora perché gira per Primavalle? Mi sa che quest'erba mi ha allucinato. Ma lei esiste davvero o è un ologramma di qualche aggeggio del Conte? E poi,  Conte, ma perché stai sempre in giro a quest'ora?E il Conte:­   Pippetta,   è   un'allucinazione,   buonanotte   a   tutti,   noi abbiamo da fare!Sono  le  cinque e mi  domando cosa caspita  dovremo fare 

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ancora?­ Riprendiamo la Torrevecchia. Ti offro un caffè al bar del viandante. Gli altri sono ancora chiusi, aprono alle sei.Le serrande sono alte, ma la porta è chiusa. Provo ad aprirla, ma sembra bloccata. ­ Tira con forza!Lo faccio e un rumore incredibile accompagna una linea a semicerchio che si propaga sul pavimento bianco del bar. La porta si apre e con questa si sposta una botte da venti litri che stava dietro la porta. Un bambino rannicchiato su una sedia di paglia apre gli occhi:­ Ciao, ciao. E' l'antifurto. Due caffè?Risponde Faz:­ Sì, prendo un tavolino e due sedie, ce li porti fuori.Apre una porta, recupera l'occorrente, attrezza la tavola e mi fa:­ Ora guardi.Di   fronte   a  noi,   il   buio,  un  cassonetto  dell'immondizia   e l'aldilà della strada.Passa una zingara, ha i fianchi larghi, una gonna a fiori e un carrello della spesa. E' seguita da un volpino. Nel carrello della spesa ha un ombrello. Con questo ferma lo sportello del   secchione.  Per   prima   cosa   tira   fuori   della   lattuga,   la pulisce,   dà   gli   scarti   al   volpino   ed   il   resto   lo   mette   nel carrello.   Recupera   della   pasta,   dei   mandarini   e   del   pane secco. Poi con cura tira fuori i sacchi più grandi, li apre, li studia, sottrae da questi le cose migliori: un maglione, dei libri,  una lampada. Li richiude e li rimette a posto. Infine infila   quasi   tutta   la   testa   nel   secchione,   per   cercare   gli oggetti isolati. Ha il viso soddisfatto. Gli occhi aperti, svegli, un   sorriso   accennato,   le   sopracciglia   tirate.   Prende   in braccio il volpino. Gli dice qualcosa in rumeno, gli indica una direzione precisa all'interno di quell'affare. Lui sa cosa 

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deve fare, lei si allontana di un metro, addrizza il carrello e poco  dopo   il   volpino   zompa   fuori   dal   secchione   con   un carillon in bocca.  Tiene uno dei cavalli  della giostra  tra  i denti, lo ha graffiato, ma non lo ha spezzato. Il cane atterra nel carrello,   lei  osserva  l'oggetto,  si  accorge del  graffio  e prima dà un piccolo schiaffo sul muso della bestia e poi lo accarezza sopra la testa.Vediamo   scomparire   la   zingara   per   via   di   Torrevecchia, mentre inizia a fare giorno. Lentamente il nero che ha tinto il cemento di vita lascia spazio al sole che per un attimo, nella   tonalità   rossiccia   dell'alba,   unisce   al   cielo   tutti   i palazzoni che abbiamo davanti. Come se sacro e profano si incontrassero davanti al bar del viandante. Mi accorgo che l'altro lato della strada ha un mondo in sé. Un prato verde pieno di brina e poi centinaia di moduli abitativi con panni stesi e finestrelle.­ Quella è Bastoggi! Ma ora basta, devi riposare ed io devo andare a casa. ­ Ma dove?­ Qui.Il Conte si rivolge al bambino:­ Le chiavi del camper?­ Stanno là, però segna che le hai prese tu.Faz prende un blocco dietro alla cassa, scrive il suo nome, poi prende le chiavi e mi fa:­ E' nostro, è di tutti noi, lo usiamo l'estate. Ci puoi dormire stanotte.Mi accompagna in un garage vicino al bar e mi mostra il loro   VW.   E'   color   panna   con   le   rifiniture   celesti,   ha   la moquette   rossa   all'interno   e   c'è   un   letto   pronto   con   le lenzuola profumate. ­ Buonanotte, faccia il bravo, Delemberte.­ Buonanotte Conte, a domani!

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Chiudo il garage, spengo la luce e mi accomodo nel VW. Penso che domani è già oggi eppure è un altro giorno. Penso che   è   meglio   dormire   e   sperare   di   svegliarsi.   Penso   alla nottata in giro e penso a Magdaleine. 

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Capitolo 6.  Ceci n'est  pas une pipe:   la  peroni  del  muratore  è diversa

“Una mattina mi son svegliato...”.  Cazzo,  è   la  mia solita sveglia che mi dà il buongiorno. Apro gli occhi e da qualche spiffero filtra la luce. Sono le sette, dovrei essere in viaggio per Lugano, incontrare il mio datore di lavoro e rassicurarlo presentandogli tutti i  contratti stipulati a Roma. Invece mi sono   svegliato   in   un   pulmino.   Ho   dormito   vestito.   Mi stropiccio gli occhi e poi scorgo una macchinetta del caffè. Non me l'aspettavo, è proprio quello che ci vuole. La carico, la accendo e aspetto che la puzza di garage lasci  il  posto all'aroma del buongiorno. Me ne sparo una tazza intera, una tazza di coccio con una falce e martello disegnata con l'Uni Posca. Poi esco, lascio le chiavi al bar e mi incammino. Il paesaggio è cambiato, la notte ha portato via la pace, c'è il traffico, c'è la gente che monta le bancarelle sui marciapiedi. I  cassonetti  sono stati  svuotati,   i   ragazzi  sono  in fila  alla fermata dell'autobus con gli zaini sulle spalle. I rom hanno chitarre,   pianole   e   violini   sui   carrelli.   Anche  per   loro   si aprono le porte di una giornata di lavoro. Arrivo al pub di legno, quel pub che per me oramai sa di un buco nero, di un tunnel verso un altro mondo. La serranda è aperta a metà. Mi   abbasso,   spingo   la   porta   ed   entro.   C'è   una   lavagna appoggiata   al   bancone,   e   ci   sono   venti   persone   sedute, ordinate, in silenzio. Appena si accorge di me, Noè si alza e viene verso di me. Mi stava aspettando.­ Buongiorno Delemberte, oggi inizia la nostra avventura!Ho bisogno di una birra per reggere il colpo di quello che mi sta succedendo. Mi giro verso il cameriere rapper:­ Chiama il tuo fornitore e fatti portate della Wellington, nel frattempo dammi la scura di ieri!

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Poi mi rivolgo ai venti:­ Ditemi quanti giorni abbiamo e... preparatevi a degustare qualcosa di buono.E' Totonno a prendere la parola: ­ Abbiamo sì e no tre settimane alle elezioni.­ Ok, prima di parlare degli avversari e di metterci sotto a raccogliere  le   firme per  un nuovo partito,   facciamoci  una chiacchierata. Quanti siete in questo quartiere?­ Saremo 60.000 solo de Primavalle.­ Bene, cosa avete in comune?­ Cosa vuol dire?­ Cosa avete in comune voi primavallini?­ Beh, il posto dove abitiamo.­ Poi?­ Non lo so... niente.­ Quanti avvocati ci sono da queste parti?­ Una ventina.­ Quanti dottori?­ Un centinaio.­ Quanti laureati?­ Un par de mille­ Quanti disoccupati?­ Trentamila.­ Quanti studenti?­ Diecimila.­ Quanti migranti?­ Cinquemila.­ Quanti innamorati?­ Cinquantamila.­ Quanti hanno una casa di proprietà?­ Ventimila.­ Quanti bevono?­ Quarantamila.

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­ Ok. Noè, tu cosa fai nella vita?­ Ehm, è difficile dirlo, Signor Delemberte.­ Riformulo la domanda: cosa vuoi fare nella vita?­ Quando?­ Ora, subito, qui!­ Voglio fare un progetto con lei.­ Bene, il nostro bene comune sarà il nostro progetto. Ma ti ho chiesto cosa vuoi fare ora, subito, nella tua vita?­ E lei, Signor Delemberte, cosa vuole?­   Dalla   vita,   ora,   voglio   tutto   e   lo   voglio   subito.   Tu, ragazzino, cosa vorresti avere se fossi lo sceriffo, come lo chiamate voi, di Primavalle?­ Un campo da calcio.­ Avremo il  campo da calcio.  Lo faremo prima ancora di vincere le elezioni.­ E tu, Amadou?­  Vorrei  che  mia  figlia  acquisisse  la  cittadinanza   italiana, vorrei farla andare all'asilo nido.­ Poi, poi, poi, chiedete di più! Stiamo parlando della vita, caspita!­ Vorrei una casa.­ Vorrei un lavoro.Mi bevo d'un sorso la birra e chiedo al cameriere di portarci una birra chiara. Me la porta, alzo il bicchiere, lo osservo.­ La vedete questa? Questa è la risposta che mi avete dato. E' un timido inizio. Un niente di che. Vi immaginate Cristo la sera dell'ultima cena a condividere birra chiara con i suoi amici? Ma che figura avrebbe fatto? Eppure quanti  di voi bevono birra chiara? Semplice birra chiara. Fregandosene di che   tipo   di   birra   chiara   stanno   bevendo.   E   poi   come   la bevete? La bevete come io ho bevuto quella scura poco fa. Fregandovene dei vostri gusti, del vostro tempo. Del vostro piacere.  Volevo una Wellington, mi sono accontentato. La 

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vita invece è un piacere. E' prima di tutto un piacere. Allora vi domando: perché volete fare politica?­ Perché ci siamo rotti de 'sta gentaccia!­ Come ti chiami tu? Ieri non c'eri!­ So' Nenè, un muratore, e bevo birra chiara.­ Perché bevi birra chiara?­ Perché mi ricorda la pausa pranzo. Una rosetta spaccata in due co'n mezzo du' etti de mortazza e 'na fetta de caciotta. Un Peroncino e vai!­ Ah, ah...  Errore! Tu non bevevi una birra chiara, ma un Peroncino.   Non   che   io   ami   il   Peroncino,   ma   il   tuo   è particolare. E' una tradizione che sa di riposo dal lavoro. Di premio, di stacco, di sacrificio. L'avete mai visto il quadro di Van   Gogh,   quello   in   cui   due   persone   si   riposano   in   un campo di grano? Ecco, il tuo cantiere era il campo di grano, la tua Peroni sono i loro piedi nudi, liberi dalle scarpe con cui hanno faticato. Sorseggio la birra:­ E tu? Sei l'unica donna, cosa vuoi dalla vita?­ Voglio che mia nipote possa essere diversa da me. Io non so parlare, non ho studiato, non ho viaggiato. Strillo, dico le parolacce, sono pazza.­ Pazza?­ Sì, sono stata in manicomio, al Santa Maria della Pietà.Mi rivolgo al cameriere:­  Porta del vino a me e alla signora e presentacelo,  avrai fatto un corso da sommelier?­ No, Signor Delemberte.­ Bravo, mi stai simpatico.­  Questo  è   un  bianco  del   contadino  che   sta   ai  Poderi  di Torrevecchia,   è   nostro,   è   il   vino   della   casa.  Qualcosa   di molto  simile  alla  classica  birra  chiara,  almeno per   i  miei clienti.

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­ Spiegati meglio...­ Ecco, quando qualcuno viene qui lo fa perché si fida, non è come se andasse   in  un pub al  centro.   Io  sinceramente  di birre non ci capisco molto e nessuno si era mai lamentato prima di lei. Ma di vino sì. Mio nonno era calabrese ed io andavo   con   lui   a   fare   il   vino.   A   pranzo   le   persone   che lavorano da queste parti si fanno un primo e mi chiedono un bicchiere della  casa,   il  prezzo è   fisso:  5  euro.  Non posso dargli   un   Casale   del   Giglio,   ma   nemmeno   il   Tavernello. Allora ho scelto questo, non è male.Lo assaggio:­ Voi sapevate che è un vino primavallino?In sala sono tutti meravigliati.Chiedo  loro di  berlo e  di  gustarlo pensando a  questa  sua origine.   Sono   tutti   soddisfatti,   come   se   bevessero   linfa rigenerante. Tutti assumono una postura più diritta, hanno il petto in fuori e gli occhi pieni di orgoglio.­ Bravo rapper, sei riuscito a viseificare un vino della casa. Come il Peroncino per il nostro amico muratore.Finiamo con un whisky. ­  Portaci  un  Lagavulin,  un  goccio  però.  Abbiamo ancora tanto da fare.Invito gli amici a non prendere in mano il bicchiere, a non strafogarsi nell'ingoiare quella lacrima di distillato.­ Parliamo di povertà e ricchezza. Quanti poveri ci sono a Primavalle?­ Cinquantamila.­ Quanti ricchi?­ Dai mille ai cinquemila.­ Ok, abbiamo trovato qualcosa di realmente comune. Ma. C'è un ma. Cosa avete nel vostro bicchiere? Nené mi risponde: ­ Quello che c'ha Amadou.Amadou ha il bicchiere vuoto dall'inizio, è musulmano, non 

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assume alcolici.­ Perché? Amadou non ha niente? Amadou è con noi, ha un bicchiere come tutti noi, partecipa dei nostri discorsi, si sta facendo   delle   idee.   Ha   iniziato   un   viaggio   partendo   dai nostri liquidi. E forse qualcosa quel bicchiere vuoto lo potrà pure   significare.   Amadou   ci   sta   dando   qualcosa.   La   sua scelta di non bere.  Di degustare il  suo niente con noi. Di poetarlo   assieme,   allegramente.   Ma   torniamo   al   nostro bicchiere   quasi   vuoto.   Alla   nostra   povertà   ­   dico rivolgendomi a tutto il gruppo.­   Intanto   diciamo   che   un   bicchiere   pieno   sarebbe   una ricchezza   per   Nené.   E   allora   vi   faccio   notare   che   se raccogliessimo tutto il nostro whisky, siamo ventuno, in un bicchiere, lo riempiremmo. Avremmo davanti una ricchezza. Ma non basta  avere  tanto danaro,  avere   tanto  whisky.  La ricchezza   non   è   solo   materiale.   Guardate   il   colore   del whisky. Pensate a qualcosa che sappia di quel colore.  Un maglione, una parete, una corteccia, un paesaggio. Qualcosa che fa parte  della  vostra  esperienza.  Se  la   raccontaste,  se ascoltaste i racconti altrui, sommereste delle esperienze. Ora odoratelo. Questo odore è dovuto alla lavorazione del grano. Alla torba, alle zolle di terra bruciate per asciugarlo prima del processo di distillazione. E' il primo vero contatto con un posto altro, con un luogo che ha a che fare con il whisky e che non è  ancora nostro.  Piano piano lo facciamo nostro, sommando i nostri pensieri al suo odore. Questa lacrima di Lagavulin   si   sta   facendo   pesante.   E   poi   lo   beviamo,   ci mettiamo tutto questo insieme dentro, lo facciamo scorrere sulla  lingua,  ne sentiamo il  calore.  E lo sentiamo risalire. Non   è   andato   via.   Resta   nel   tempo.   Attenzione,   ha   altri sapori,   dipendono   dalla   botte   che   lo   ha   contenuto.   Ora, Nené, ti faccio una domanda: meglio una moneta d'oro o una dorata?

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­ Una moneta d'oro!­ Nel whisky non è così.Mi rivolgo allo zingaro:­ Al campo vi fate il caffè?­ Sì, certo.­ Avete una macchinetta buona?­ Sì, una Bialetti.­ L'avete comprata o l'avete trovata?­ L'abbiamo presa nella spazzatura.­ Nené, tu sai che nei negozi ci sono tante macchinette del caffè,  ma che se  le usi per  il  primo caffè  non daranno il meglio. E' possibile dunque che la macchinetta funzionante e già usata del nostro amico rom faccia dei caffè migliori di quelle nuove del negozio. Per il whisky è tutto più evidente. Un bicchiere  di  whisky  classico  non vale  una   lacrima  di whisky invecchiato in botti di porto. Una moneta dorata può contenere del  platino.  Ci  sono whisky che  hanno  in sé   il sapore di centinaia di annate di vini pregiati. Purtroppo noi la rivoluzione non la possiamo fare davanti ad un bicchiere, ma cazzo, qualcosa da aggiungere alla tristezza che ci veste fuori   ce   l'abbiamo,   no?   Qualcosa   dentro   da   mettere   in comune ce l'abbiamo, no?Noè si alza e va alla lavagna:­   Sono   le   dieci,   sua   moglie   arriverà   alle   13.00.   Cosa facciamo?Scrive sulla  lavagna “10.00: raccolta firme”, sotto “13.00: Magdaleine” e poi “14.00­15.00: Bastoggi”.­ Alle 14.00 andiamo a mangiare tutti  da Amadou, per le 15.00 Totonno dovrebbe aver liberato la portineria del suo condominio.   Avrà   una   stanzetta   per   la   sua   famigliola, Delemberte.Volevo ringraziarli per il disturbo e annullare l'impegno di Totonno, volevo prenotare un albergo, ma non ce l'ho fatta, 

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erano così determinati.­ Grazie, ora andiamo a raccogliere un po' di firme.

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Capitolo 7. I Griot di Borromeo: “Basta 'na firma, che ce vo'?”

Abbiamo un megafono, uno sgabello, un tavolino del pub, una penna e un blocco di schede ritirate in Municipio dal buon   Noè.   Siamo   di   fronte   alle   Poste   di   Via   Federico Borromeo. Qui vicino ci sono una Biblioteca, una scuola, un piccolo teatro, la Asl, un mercato della frutta. Sulle pareti la scritta “Walter vive!”. La strada è fiancheggiata da alberi in fiore e sul lato opposto all'ufficio postale c'è una schiera di case popolari colorate di giallo canarino.Prendo il megafono mentre i miei nuovi amici danno il via all'opera di convincimento. Loro usano le loro parole: ­  Riprendiamoci   il  quartiere!  Finalmente  una persona per bene ci ascolta! Ce la  possiamo fare! Daje,  daje,   te  stò  a chiede' 'na firma mica 'na sigaretta! Ah Signò' sveglia!Io penso al mito che si fa coraggio, al poeta che prende un rotolo di scottex lungo un chilometro, lo infila nella canna della macchina da scrivere. Si accende una sigaretta dopo l'altra ed inizia a comporre sulla tazza del cesso, sperando di non interrompere mai il suo flusso creativo:­ Il linguaggio. Iniziamo tutto da qui. Tu che cammini, dove vai? Girati, voltati, ascoltami, parlami. Si gira un signore che porta a spasso un cagnolino.­ Buongiorno!­ Ma che cazzo voi?­ Il  linguaggio. Iniziamo tutto da qui. Io voglio tutto e lo voglio subito.­ Ma da 'ndo cazzo vieni? Ah scemo!­ Se vuole le mostro la carta di identità, ma non è corretta. E' un foglio che traduce me stesso. Sono parole finite. Invece io sono qui, fermo, che apro un discorso.

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­ Mo' lo sento 'sto discorso del cazzo. Dimme: che voi?­ Voglio un mondo dove si parli, dove se incontri qualcuno per strada e lo saluti questo non si spaventi, voglio che ci rendiamo conto che in una città  abbiamo una sola grande fortuna, quella di essere in tanti. In campagna c'è la natura, ma in città c'è l'uomo. Suo figlio il pomeriggio se ne va nei centri commerciali, guarda le vetrine, racimola due euro per farsi un pezzo di pizza, passa le ore in un non luogo. Senza dire  niente  di   importante.  Alla   sua  età   lei  viveva,  perché oggi   suo   figlio   non   può   vivere?   Lei   passeggia   col   suo cagnolino,   le   roderà   il   culo   per   qualche   motivo,   magari vorrebbe essere a Sharm, oppure ancora nel letto, o magari invece vorrebbe essere al lavoro. Non si capisce. Questo è drammatico. A Primavalle le persone non chiedono niente. Chiedono  di  vivere  normalmente.  Ma non   lo   fanno.  Non siamo a Roma, siamo a casa. Potrei prometterle di eliminare l'Imu,   di   abbassare   le   tasse,   di   costruire   una   funivia   che colleghi la stazione del trenino a quella della metropolitana. Ma non è   così   che   si  costruisce  un  mondo migliore.  C'è qualcosa   di   magico   in   questo   posto:   c'è   la   gente.   Gente incredibile   che   non   è   mai   stata   su   una   prima   pagina   di giornale, se non per qualche reato. C'è chi magari sogna di andare a “Uomini e donne”, ma in realtà ha un mondo dietro che  andrebbe   tramandato.  C'è   chi   si  è   convinto  di   essere inferiore, ma ha vissuto gli anni settanta da protagonista. C'è chi la politica l'ha fatta e c'è chi per mandare avanti baracca e burattini si è svegliato sempre alle sei di mattina. C'è chi si arrangia e ne ha costruito un'arte, c'è chi primavallino lo è sempre stato e chi lo è diventato. Ci sono tanti stranieri e tutti  provenienti  da paesi diversi.  Ci sono uomini e donne della notte e uomini e donne della mattina al bar, c'è chi è deluso e c'è però chi ha ancora dei sogni. Ne sono sicuro. Io dico questo: ci dobbiamo provare un'ultima volta. Se andrà 

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male,   non   sarà   successo   niente,   continueremo   il   nostro declino, ma se va bene... Se va bene, allora ci divertiremo un mondo. Io non sono una persona per bene, sono un poeta qualunque. Non voglio essere sindaco di questo posto e fino a poco fa non conoscevo il vostro mondo, ma oramai ci sono dentro. Cittadini indefiniti mi hanno rapito, mi hanno detto attingi   a   questo   immaginario   e   non   scrivere.   Come?   Un poeta che non scrive? E' qui che entra la politica, la politica è  di tutti,  ma c'è  una questione di linguaggio. Per dirla in modo comprensibile, lei ha i suoi cazzi, io i miei, potremmo aspettare che qualcuno ci faccia delle proposte e fidarci di quelle   più   convenienti.   Continueremmo   ad   essere   morti. Potrei scrivere la mia poesia su Primavalle, buttare giù un programma elettorale e sottopormi alle prossime elezioni. In fondo questa è la democrazia, vero? Vero un cazzo! I tuoi concittadini mi hanno chiesto, certo non esplicitamente, ma con   i   loro  volti,   con   i   loro  abbracci,   con   i   loro  gesti,   di attingere al loro mondo, di farne parte e di aiutarli ad usare la parola.  Anzi,  le loro parole.  Perché  sanno di poter dire qualcosa.  Qualcosa  di   fecondo.   Io  sono  lo  specchio.  Non sono   un   incantatore   di   serpenti.   Mi   vedi   brutto,   allora mandami a fare in culo, però dovrai farlo e lo dovrai fare con le  parole  giuste.   In  un  modo costruttivo.  Ho  l'incarico  di connettere delle persone, di individuare il bene comune. Le dirò   di  più:   non  voglio   solo   tutto   e   subito,   lo  vorrei  per sempre. Per questo vorrei essere un manovale che ogni tanto si siede e si riposa. Vorrei un'alternanza di idee, vorrei un luogo dove potermi relazionare  liberamente.  Vorrei  essere primavallino anch'io.­ A bello, il Sert sta a Via Da Vinci! Però sai che te dico, 'sta firma te la metto. E dietro di lui vedo altri  passanti che si erano man mano fermati ad ascoltare e che, tra uno sguardo perplesso e un 

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mezzo sorriso, si avvicinano al banchetto per lasciare la loro firma.La voce di una signora che litiga con la figlia mi distoglie per  un attimo dal  banchetto e   la  piccola folla  che vi  si  è raccolta intorno.­ A disgraziata! Come t'ho messa ar monno te ce tolgo!­ Signora, signora! Tanta poesia per tanta violenza!La signora arrossisce mentre la figlia scoppia a ridere.­ Ma chi te c'ha mannato?­ Le va di dirmi cosa la fa agitare tanto?­   Ho   incassato  quattro   soldi   e   subito   lei   a   chiedeme   du' spicci, se vole fa' le scarpe nove.­ In che mondo l'ha messa sua figlia? E da quale mondo la toglie? Potrebbe avere ragione, ha usato immagini toccanti, ma è caduta nel linguaggio. Allora mi risponda: quando è nata sua figlia cosa c'era a Primavalle?­ C'era lo schifo! ­ Ed ora?­ C'è ancora lo schifo! ­ esclama la ragazza.La signora si arrabbia di nuovo: ­ E no, adesso non è come prima!   Prima   giravamo   per   strada   in   vestaglia,   nessuno aveva i  soldi  per  farsi   la  macchina,  molte  strade erano di terra battuta. La gente si bucava, c'era un furto dietro l'altro.Riprendo il discorso in quel momento: ­ Lei ha messo sua figlia in un mondo che non le piaceva e adesso ce la toglie, se vuole. Ma lei può davvero togliere sua figlia da questo mondo?­ Sì, m'ammazza de botte! ­ risponde la figlia.­ Una volta si faceva così, si pensava che fosse l'unico modo per avere dei figli migliori degli altri. Migliori di sé stessi. Si pensava che  crescere  un  figlio   fosse  la  cosa  più  difficile, perché   se  cresceva bene  in  casa,   fuori  non avrebbe avuto problemi. E' un errore, ci siamo chiusi tutti nelle nostre case, 

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non   accorgendoci   che   necessitavamo   di   uno   spazio   più grande, di una città, di una casa comune. Ora tua madre non sa come fare e tu, che cerchi di sfuggirle, sai dove andare? In quale mondo vuoi andare?­ Vole sembra'  ricca,   la bella!  ­ risponde la madre al  suo posto.­  Assodato,   signora,   che   lei   non  ha  modo  di   togliere   da questo mondo schifoso sua figlia, che la sua espressione di rimprovero   può   essere   letta   come   espressione   violenta: “t'ammazzo   di   botte”,   ma   anche   come   espressione salvifica­apocalittica:   “ti   ho   messo   nel   casino,   ora   ti   ci tolgo”, io leggo sul suo volto che non ha voglia di menare sua   figlia  e  che  non ha  la   forza  di  proteggerla  da  questo circo.  Qualcosa però  nelle vostre espressioni mi fa vedere che è come se vi teneste per mano. Con   tempismo   svizzero   Nené   porta   la   scheda   e   strappa allora due firme.Un'ora: cento sostenitori.Allora   invito   il   mio   staff   a   prendere   il   megafono   e   a raccontare le loro storie più belle legate al quartiere. Storie personali. Familiari.Inizia   la   donna   che   si   dice   pazza:   ­   Quando   uscivo,   la domenica,   mio   padre   mi   portava   qui.   Ve   lo   ricordate   il mercatino dei russi? Dall'altra parte c'erano solo russi.­   Avoja!   Chi   sa   che   fine   hanno   fatto?   ­   rispondono   di rimando due passanti incuriositi dalla situazione. ­Stavano tutti seduti per terra, avevano dei fazzoletti di seta e ci mettevano i loro marchingegni. Non era come ora, che tra cinesi e Apple la tecnologia ci esce dalle orecchie. Quelli erano prodotti diversi. Avevano i carillon, le matrioske, ma anche gli  orologi da taschino, gli  occhiali  da intellettuale, con una sola stecca, i binocoli.Nené si entusiasma al ricordo di quel mercatino : ­ Io m'ero 

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preso un cannocchiale, poi andavo al Parco di Monte Mario e  me  mettevo a  vede'   la  partita  della  Magica,   l'Olimpico allora sì ch'era 'no stadio, era tutto aperto.Poi, impadronendosi del megafono, continua:­ Primavalle è romanista, nun ce so' dubbi. Qua dietro c'era 'na  baracca,   io  e  mi'   cugino  legammo  le   lenzuola  de  mi' madre,   de   mi'   zia   e   de   mi'   nonna.   Era   il   mio   primo striscione.  Avevamo una bomboletta da carrozziere nera e due grafie da gallina. Volevamo scrive' qualcosa de' unico, ma   non   ce   veniva   niente.   Magica,   mitica,   unica,   sola, magnifica. Poi capimmo che a fa' la storia non era lei, 'sta volta, eravamo noi. Allora scrivemmo “Ultras Primavalle”. 'Na vorta asciutto ce lo caricammo sulle biciclette e tra il primo e il secondo tempo de quel Roma­Pisa tirammo fuori il nostro lavoro. In curva se misero a ridere, poi partita dopo partita ci conobbero e ci lasciarono 'na parte degli spalti. La più bella, la nostra.Mi accorgo che il gioco funziona, i racconti prendono piede, il pubblico si allarga, tanto che qualcuno butta un cappelletto a terra per farsi lasciare qualche quattrino. Vengono invitati anche  i  passanti  a   raccontare   le   loro  storie  e   finisce  che, essendo coinvolti, si sentano importanti, decidano di firmare e   chiedano   persino   di   avere   più   spesso   iniziative   come questa.Alle   12.00   abbiamo   trecento   firme.   Nel   pomeriggio   ci saranno due banchetti distinti, uno davanti alla chiesa, l'altro all'ingresso   del   centro   commerciale.   Di   questo   passo   in quattro   giorni   avremo   tutte   le   firme   necessarie   per formalizzare la nostra candidatura.

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Capitolo 8. Verso Bastoggi, oltre muri ciechi

Riposto il megafono nella sacca di Noè, guardo l'orologio:­ Oh cazzo, mia moglie!Proprio   mentre   la   sto   pensando,   sento   suonare   il   mio telefono,“una mattina mi son svegliato...”­ Ciao Magdaleine, sei a Roma?­ Sono all'aeroporto.­ Prendi un taxi e fatti portare a... ­ rivolgendomi a Nené ­ Dove abita Amadou? ­ Bastoggi.­ Bastoggi, Magdaleine.­ C'è un numero civico, qualcosa?Chiedo ancora a Nené:­ Qualche informazione in più?­ Si faccia lasciare a Torrevecchia bassa, all'ultimo fioraio prima della Boccea.E Magdaleine:­ Ho sentito, ci vediamo lì, ah... sono sola. I ragazzi stanno da mia madre.Loro camminano, contenti. Io credo di poter spiccare il volo da   un   momento   all'altro.   Immagino   questo   soggiorno primavallino come una nuova luna di miele.  Una seconda Panama, senza mare, ma con la stessa passione.“Una mattina mi son svegliato...”­ Pronto, Magdaleine!­ Volevo dirti, beh... non ti fare illusioni!­ No, certo...Chiudo la chiamata con un sorriso tirato, ma resto fiducioso. La conosco, vuole sembrare dura ma so che insieme ce la possiamo fare. Ci avviamo verso casa di Amadou e dopo pochi  metri  ci ritroviamo   travolti   da   una   folla   di   studenti   all'uscita   da 

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scuola. Sono assorto tra i miei pensieri in equilibrio tra la “giusta distanza” presa da Magdaleine e l'euforia ingenua e fresca dei miei nuovi collaboratori e di questi ragazzi appena liberati dal suono della campanella.Nené mi guarda sospettoso, non vuole che il mio entusiasmo appena acceso possa raffreddarsi:­   Nun   te   preoccupà!   C'ho   un   piano   .   “O   sfregio dell'Insugherata”.In  quel  momento  una  ragazza  appena uscita  da  scuola  si volta verso di noi ed esclama elettrizzata:­ Nooooooooooo! Grandi! E quando?­   Alla   mezzanotte   della   presentazione   delle   liste,   tra   tre giorni. Un giorno pe' spaesalla, un giorno pe' spiegaje de che stamo a tratta' e l'artro, quanno l'avremo conquistata...Non capisco:­ Ma di cosa state parlando?­ T'aiutamo noi, tranquillo!La ragazza inizia a strillare:­ O sfregio dell'Insugherata! O sfregio dell'Insugherata!E saltella, e balla, con la felpa legata in vita che le casca a terra. I suoi amici intorno iniziano ad intonare cori e al loro richiamo vedo uscire di corsa anche i clienti del tabaccaio di fronte, con le schedine del Super Enalotto ancora in mano. Mi  accorgo che   la   ragazza  ci   sta   indicando  e  che  al   suo richiamo anche le finestre e i balconi dei palazzi vicini si iniziano   a   popolare   di   vita.   Guardano   tutti   nella   nostra direzione e sembrano così entusiasti che il loro vociferare mi avvolge come una melodia.Nenè mi guarda compiaciuto e un po' divertito, sa che non ci ho capito ancora nulla ma dalla mia espressione trasognata intuisce che non saprò rifiutare questa proposta.­   Non   so   di   cosa   si   tratti,   ma   ti   dico   che   sì,   lo   faremo davvero!

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Scrosciano allora  gli  applausi,  come se  avessi  performato una serenata.Un vecchietto  pelato  alla   fermata  dell'autobus  si  mette   le mani in testa e  inizia a muoverle in senso orario, come a volersi strappare l'ultimo pelo a forza di massaggi:­ Complimenti straniero!Nené mi si avvicina all'orecchio e mi fa:­ Nel giro di trenta minuti tutti sapranno di te, vita, morte e miracoli.Primavalle mi sta regalando emozioni che non provavo da tempo, sorprese inattese ad ogni passo che mi regalano la voglia   di   accettare   qualsiasi   sfida.   Usciti   da   questa situazione chiedo delucidazioni e Noè mi racconta:­ E'  una storia antica.  C'è  una valle a Monte Mario che i cugini   avevano   dimenticato   ma   a   cui   noi   di   Primavalle eravamo tutti affezionati. Un posto sperduto, dietro i palazzi, alle   spalle   del   ritrovo   dei   fasci.   Ora   l'hanno   recintato   e nessuno ha più la possibilità di accedervi. C'è un prato dove tutti si sono fatti la loro prima canna e c'è un fiumiciattolo dove andavamo a bagnarci  i  piedi.  Ci sono  i   funghi e  un promontorio   pieno   di   asfodeli.   Ci   sono   gli   animali   e   c'è anche   una   zona   dove   mettere   le   tende.   Gli   adulti   ci portavano i figli per fargli le ramanzine, e gli innamorati... Gli innamorati di Primavalle hanno costruito lì il centro del loro mondo. La regola era:  niente scopate, qui solo l'amore. C'è   un   cubo   di   cemento   in   mezzo   al   campo,   è   su   un rialzamento del terreno. Una volta lì sopra si guardano i due mondi: Primavalle e Monte Mario. Si è di fronte al dirupo, dietro la valle,  e ai  lati  altre discese.  Basta sussurrarsi “ti amo” che se ne sentono le eco. Si dice che due persone che fanno l'amore sul cubo restino legate per sempre. Devono guardare la luna, dirsi tutto di loro. Superata la mezzanotte devono scrivere qualcosa sul cubo e, insomma, i giochi sono 

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fatti.­ E poi?­ E poi ce l'hanno tolta.­ Ma chi? I fasci?­ No, a loro andava bene, ci prendevano per il culo, questo sì. Ma ci lasciavano stare.­ Allora chi? Gli altri abitanti del posto?­ Ma che? Quelli ci prendevano per raccoglitori di cicoria. Se   l'è   comprata   un   signorotto,   spera   che   la   rendano edificabile da un giorno all'altro. L'ha chiusa ed ogni volta che abbiamo provato a violare la sua proprietà ha chiamato la polizia.  Non gliene frega niente,  allo stronzo. Non si  è fatto problemi a mandare dentro anche padri di famiglia, a far   piangere   ragazzini   di   tredici   anni.   E   alla   fine gliel'abbiamo lasciata  vinta.  Ma Nené  gliele  ha promesse. Lo sfregio significa proprio questo: riprendercela, e lasciare tutti di stucco. Cazzo, siamo ancora vivi, sì o no?Mi ritrovo alla testa del gruppo, mentre varchiamo insieme le   porte   di   Bastoggi   per   raggiungere   il   garage   con   il furgoncino VW.Allora Nené tira un fischio: ­ Caronte! Carò!Da un cancelletto esce un cane lupo dal pelo lungo, anziano, che mi si avvicina e mi annusa.E Nené  mi poggia una mano sulla  spalla:   ­  Statte  fermo! Daje Caro'!Il cane parte da dietro, poi mi lecca le palle, mi mordicchia le tasche, salta e mi tasta il petto con le zampe. Si abbassa, fa su e giù con la testa, non abbaia, emette un suono rauco, come un grande sospiro catarroso. Tutti   passano   dall'attenzione   al   sorriso:   ­   Sei   pulito! Andiamo!Caronte attraversa la strada e noi con lui. Passiamo per un parco giochi abbandonato, verso il Bronx. Il cemento si fa 

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sempre  più   cupo.  Caronte  attraversa   i   cortili.  L'erba  man mano che ci addentriamo scompare anche dagli angoli dei marciapiedi. I colori non esistono più. Ci sono solo il bianco e nero: il grigio, nulla di più. Inferriate, ringhiere. Dodici, tredici piani. Finestrelle che solo ad immaginare come siano state  montate  mettono  l'asfissia  nei  pensieri.  Ai   lati  delle strade pezzi di motorini. I cassonetti sono per metà bruciati e   per   il   resto   sfondati.   Scoperchiati,   trafitti   da   proiettili, ribaltati.   Ci   sono   macchine   senza   ruote,   altre   senza parabrezza. Arriviamo su una stradina dove non è possibile passare con  le  macchine.  Ci   sono montagne di   televisori, stereo e computer che limitano il passaggio.­ Benvenuto al residence!Il primo palazzo che incontriamo ha un portone di ingresso murato.­ E' vuoto?­ No, è pieno.­ Come entrano a casa?­ C'è una finestra aperta, guarda là.C'è uno ragazzino rom che ci guarda e Noè mi spiega:­ Lui controlla che non arrivi gente strana, si dà il cambio con gli altri.  Se sei uno del lotto ti cala la scaletta e puoi entrare.   Se   sei   una   guardia,   un   assistente   sociale,   o   un ficcanaso, si fa aiutare da qualcuno e sposta un mobile per chiudere l'accesso.Sono case popolari,  alcune assegnate, altre occupate,  altre rivendute e di nuovo occupate. Chi ci vive ha costruito una comunità di mutuo­aiuto. Sa che per entrare dovrà chiudersi un anno nelle sue mura, non dovrà aprire a nessuno, dovrà arrangiarsi come può, senza luce, senza gas. Sa che prenderà delle   denunce,   ma   non   ha   niente   da   perdere   e   tutto   da conquistare.   Può   finire   in   galera,  ma  può   anche  divenire proprietario di uno spazio. Un umile spazio che diverrà la 

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sua casa. C'è posto per tutti, ma con una doppia selezione. Dietro i palazzoni ci sono dei campi, c'è spazio per costruire qualcosa di abusivo, ma di salvifico. Occorre stare attenti, lavorare di  notte,   lavorare in  segreto.  C'è  chi pensa che a Bastoggi ci sia solo chi è stato respinto dalla società, invece per   stare   qui   dentro   bisogna   saper   vivere,   arrangiarsi   e andare avanti. Occorre essere primavallini dentro. Ninetto lo traduce a parole sue: ­Pé vive qua ce vojono le palle. Devi esse preciso, devi sapé tené   un  cecio   'n  bocca.  Devi   sapé  mantené   la   robba  che scotta senza bruciatte. Devi avé l'occhi aperti, ma te devi fa i cazzi tua. Devi sapé er linguaggio della strada. I suoi codici, te devi difenne. Se c'è da sputà a terra ce se sputa, ma nun se deve   mai   sputà   sur   piatto   dove   se   mangia.   Un   vicino   è n'amico.   Un   fratello.   Una   guardia   è   'na   spia.   Qui   semo violenti,  ma nun se famo male. L'educazione è   tutto. Nun sapemo   camminà   cor   culo   a   punta,   nun   sapemo   masticà colla bocca chiusa, ma sta sicuro che all'amicizia ce tenemo. Che   semo   veri,   che   te   dimo   le   cose   'n   faccia   e   nun   te nasconnemo nulla, Sapemo perdonà, sapemo chiede scusa. Semo esseri umani e ce conoscemo pelle nostre bruttezze, pelle nostre debolezze. Semo forti pe'  questo, a differenza d'artri.  A  Bastoggi  nun   se  entra   facile,  questo   è   'n  posto chiuso. Dicono che semo come Scampia, ma se sbajano, qua i ragazzini nun devono da lavorà, devono giocà. Sò creature, se devono divertì. Noi nun semo delinquenti, nun rubbamo mai e se lo famo, lo famo solo quanno stamo colle pezze ar culo.  E lo  famo co'  gentilezza.  Lo famo ai  ricchi  e no ai poveracci.  Quarcuno spaccia,  ma no  la  merda da  fighetti. Qua gira solo er puzzone, a prezzi modici, pé arrotondà. Chi va ortre c'ha 'n problema e allora è n'artra storia. Je dovemo stà vicini.Andiamo   avanti   e   man   mano   che   ci   muoviamo   questo 

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mondo diventa molto più   familiare. Ci sono galline libere nei   giardini,   ci   sono   i   tricicli   dei   bambini,   ci   sono   dei ciclamini   sulle   ringhiere.  E  nei   cortili   interni  vedo pareti dipinte di viola, di giallo canarino, di rosso, di rosa, di blu. Dei murales che raffigurano degli  indiani in  lotta con dei cowboy   obesi   ed   infine   una   tavolata   allestita   in   mezzo all'asfalto di questa lunga e larga strada chiusa. Una tavolata fatta   di   una   decina   di   tavoli   diversi,   tutti   accostati.   Poi blocchetti  di   tufo  e   tante  palanche per   creare  dei  posti   a sedere. E poi ci sono le sedie. Sedie spaiate, rimediate. In vimini,   di   plastica,   di   ferro,   verdi,   bianche,   di   legno, arancioni e nere.­ Qui abita Amadou!Scende il nostro amico del Mali, ha in braccio le sue due bellissime figlie.  Hanno le  treccine,   il  sorriso spensierato. C'è   anche   sua  moglie,  una  donna   incantevole  di  un  nero intenso. E' incinta, ha un vestito rosso, stretto, lo porta con disinvoltura,   nonostante   il   pancione.   Dietro   di   loro   altre quattro famiglie, tre italiane e una asiatica. Sembrano amici da sempre, hanno in mano teglie e leccornie di ogni specie e riempiono subito l'enorme tavolata.Dopo le presentazioni di rito, Amadou mi indica di seguirlo e mi accompagna all'interno del piazzale tra il suo edificio e quello di dietro. C'è un signore anziano, con i dread bianchi. E' seduto su uno sgabello, tra le gambe ha un pentolone di alluminio   posato   su   un   fornelletto   alimentato   da   un bombolone di gas. Ha in mano una stecca di legno e gira, gira continuamente.­   Buongiorno   Signor   Delemberte,   tra   trenta   minuti   la polenta sarà pronta!Amadou mi pizzica la guancia:­ Sua moglie sarà felice di questo posto!

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Ascella,   l'uomo   del   bitume   che   ha   incontrato   la gentilezza

Un   uomo   dal   viso   di   bambino   eternamente   imbronciato. Qualche   pelo,   lungo,   sulle   gote,   la   carnagione   scura,   la frangia che copre tutta la fronte. E' grasso, molto grasso, e indossa   un   completo   Michelin,   pantaloni,   maglia   e giubbotto. Ha nella mano destra un panino con la mortadella e nella sinistra la pompa della benzina che contrasta con la luce   di   un   anello   di   notevoli   dimensioni,   portato   con orgoglio all'anulare. Il suo distributore ha il marchio Shell, da cui deriva il soprannome.­ Buongiorno Capo!­ Buongiono Ascè!­ Quanto?­ Venti euri!­ Oh, vota Delemberte, me raccomanno!­ E chi è?­ N'amico, n'amico.­ E vabbè!E così, cliente dopo cliente.­ Buongiorno Cico! Vado di pieno?­ Sì, riempimi 'sta lambretta!­ Ricordate de votà Delemberte, il poeta!­ E come no!Le ore di punta di un benzinaio coincidono col traffico, ma sono le più veloci a scorrere. Il lavoro inizia la mattina alle 6.00, quando i bengalesi lo salutano, lo ringraziano per le mance guadagnate durante la nottata e si apre il gabbiotto. Dalle 7.00 alle 9.00 si susseguono impiegati e genitori che accompagnano i propri figli a scuola. Poi i negozianti e gli addetti alle vendite. Poi il vuoto, fino al traffico del rientro per  il  pranzo. Nel pomeriggio stessa storia,  alle 18.00 chi 

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rientra   dall'ufficio,   poco   più   tardi   chi   ha   anticipato   la chiusura delle botteghe.Ascella è già sceso in campo per sostenere Delemberte.­ Guarda, mo' te spiego er programma de Maurice. Lui dice che   tradurre   quarcosa   è   sminuilla.   Allora   te   lo   dico   de pancia, coe parole mie, come me sò  arrivate. Pò  esse che non c'entrano niente co' quelle sue, ma lui va dicendo ch'è mejo. Che hanno senso er doppio, ch'hanno proliferato.­ Sì t'ascorto, però intanto famme er cambio dell'olio...­ E' come se vivessimo in un mondo de merda ma nun ce n'accorgessimo. Famo n'esempio: io lavoro  'na cifra e nun me posso lamentà. Ma perché? C'ho l'arretrati dee bollette da spiccià, qui nun arrivo a mille euro de utili a fine mese e in più 'no stronzo m'è pure venuto a batte er pizzo. Nun me posso lamentà perché lavoro e perché in questo momento de crisi il lavoro è l'obbiettivo. Ma se io m'accorgessi che 'sta parola è na trappola, che la parola lavoro è 'na condanna... Se te dicessi che er lavoro pe' me è quarcosa de diverso da questo?­ Te direi embhé?­   Vedi,   io   c'ho   n'idea,   quella   de   nun   diventà   'na   bestia. Mentre 'n po' na bestia ce so già. ­ Ascella 'o sapemo tutti che sei 'n porco!­ E no, qua te sbaji! Ho le mani sporche de grasso, l'alito che sa de tabacco e i vestiti che puzzano de petrolio, ma io sò diverso. Sò diverso dentro. ­ Che me voi dì, che sei raffinato?­ Raffinato no, ma manco benzinaio dentro casa.­ Ma che c'entra Delemberte?­ Prima de lui nun c'avevo mai pensato, sta parola, “lavoro”, m'ha dipinto addosso un personaggio de merda. M'ha reso parte de sta pompa. Le parolo so' pietre, Pippo mio!­ E allora?

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­ La rivoluzione parte da qua. Er mio è 'n lavoro de merda, ma io so' diverso. Non sono il mio lavoro. Io so' quello che te sorride quanno arrivi, che dopo che t'ha cambiato l'olio te lava er parabrezza. So' quello che te chiede 'ndo stai annà. Che te vede colle dita dentro er naso mentre te rifornisco. Che se subisce i tuoi nervosismi, la tua fretta. Che te vede fischiettà quanno te l'hanno data. Io te conosco, ma tu me sfuggi, nun me caghi. Ho capito che er lavoro nun è tutto e pe' fallo ho dovuto combattela sta parola, l'ho dovuta... te lo dove propo dì alla Delemberte... de­po­ten­zia­re. Stà parola me'n grifa! O sai che c'è? Mo 'a sera si te becco t'offro 'na biretta e se famo 'na chiacchierata. Sì trovo er tempo nun me sbrago sur divano, arzo er telefono e chiamo quarcuno. E si c'ho problemi ne parlo,  perché  so n'essere umano.  No  'na bestia.­ Vabbeh, famme n'artro esempio.­ Come me chiamo io?­ Ascella. ­   E   perché?   Perché   quarcuno   ha   pensato   bene   de identificamme co' sto posto e siccome è  'n posto de merda m'ha voluto pure prenne per culo. E come te chiami te?­ Gianfilippo, Pippo.­   Sì   e   te   sei   chiesto   perché   tutti   te   chiamano   Pippo,   no Gianfilippo?­ Perché è un diminutivo.­ Diminutivo de 'sta minchia. Te chiamamo Pippo perché sei de  Primavalle  e  non dei  Parioli.  Te  chiamo Pippo perché sinno eri frocio. E quarcuno te chiama Pippo perché pippi. N'somma  io ho  sfiga,   tu   'nvece   forse co'   'sto  nome  te  ce identifchi pure.­ Bho, ma poi sto Delemberte, ma nun è arrivato solo ieri?­ Ma che voi dì?­ Te me parli de'n programma, ma quanno te l'ha spiegato sto 

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programma?Ascella entra nel gabbiotto e tira fuori una copia di “Piccioni e Farfalle fanno la rivoluzione”.­ Sta scritto qua, a 'gnorante!Nel frattempo avvita il tappo dell'olio e sbatte il cofano, poi gli porge il testo:­ Leggitelo tutto che te fa cresce l'uccello!Un ragazzino, detto Er Nutria, s'affaccia alla pompa e grida:­ Taxi!­ Cazzo è lei, bella Pippo, do' devi annà a mangià a pranzo?­ Da nessuna parte. ­ Allora vie' co' me. Prendo la macchina, chiudo sta pompa e se divertimo. Tu affianchi quer taxi da destra, io da sinistra. Poi te tiro 'n telo, te l'afferri e lo blocchi chiudendolo nel finestrino.­ Ma sei scemo?­ Fidate!I   due   partono   sfrecciando,   si   accostano   al   taxi,   uno camminando   con   due   ruote   sul   marciapiede,   l'altro invadendo   l'altra   corsia   contromano.   Nel   taxi   c'è Magdaleine. Lei è spaventata, i due la salutano, lei inizia a piangere.Ascella si allunga sul  lato destro, guidando per un istante alla   cieca   e   tenendo   il   volante   con   una   mano   sola.   Ha avvolto un sasso all'angolo del telone, lo lancia a palombella dal   finestrino.   Il   tassista   suda   freddo,   pensa   che   sarà rapinato.   Dall'altro   lato   Pippo   afferra   la   presa,   alza   il finestrino.I due accelerano e superano il tassista.Magdaleine grida: ­ Faccia qualcosa, si fermi, vada in retromarcia! Chiami la polizia!Il telo si alza in cielo, si rovescia sorretto dal vento. E' un 

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telo bianco e si legge, scritto con una grafia fiorentina:“Fragili  ali  e  notti   insonni.  Lotto perché   in  un mondo di merda una farfalla ci sia!”  Magdaleine   interrompe   la   sua   agonia   e,   aprendosi   in   un sorriso, sospira rasserenata:­ Ancora una volta Antonine!Il tassista è spiazzato:­ Cosa cazzo devo fare?­   Fermi   la   macchina   e   chieda   a   questi   due   chi   diamine sono...­ Ma lei è più strana di loro!Il tassista suona il clacson a tutto spiano, Ascella e Pippo mettono le quattro frecce e poi si fermano. Anche il taxi è costretto a inchiodare. Ascella esce dalla sua Bmw del 1985 e si dirige verso la macchina che ospita Magdaleine:­ Scommetto che siete diretti all'ultima pompa prima della Boccea...Il tassista:­ Non sono affari che la riguardano.­ A Mezzacorsa! Se vede che sei de Monteverde, nun fa' il fichetto  scandalizzato!  Qua c'è   'na bella   signora  e  nun  je posso mica permette d'annà alla concorrenza.Poi si affaccia verso l'interno, verso Magdaleine:­   Signora,   io   so   'n   benzinaio,   sarga   sul   mio   Bmw   che l'accompagno diretto da su' marito, lei alla pompa prima de Bastoggi nun ce deve mette piede. Er privilegio de dì che er primo c'ha incontrato a Primavalle a puzzà de petrolio è er sottoscritto moo deve da concede, oppure sbajo?Magdaleine non ha paura, paga il tassista sbigottito, prende la sua valigia e senza aprire bocca si accomoda nella vettura di   Ascella.   Lui   gongola   nel   silenzio   e   accelera   scortato dall'auto dell'amico verso Bastoggi.  Passa da  una stradina nascosta, allungando per Battistini e poi immettendosi sulla 

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Boccea. Da lì vola per Bastoggi Due, cerca di distrarre la signora indicandole tutti i santini che ha attaccato sul suo cruscotto. Accede al Bronx da dietro. Un po' per i postumi di quel  che era accaduto prima,  un po'  per   il   forte  odore di petrolio che stagna nella Bmw e che trasuda dagli abiti di Ascella,  Magdaleine   si   accorge  di   essere   arrivata   davanti alla mensa di Amadou senza aver visto ciò che c'è di brutto attorno. E' come se riprendesse i sensi quando il polentaro grida:­ C'è Magdaleine e daje collo stereo!Allora le bimbe con le treccine spingono il tasto play di una radio cinese collegata a delle casse alte un metro:­ Una mattina mi son svegliato...E tutta la tavolata:­ A bella ciao, a bella ciao...

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Capitolo 10. Bronx: l'umanità sfida il non luogo

Er polentaro alza con una mano il pentolone riparandosi il palmo e le dita con uno strofinaccio ripiegato su se stesso, nell'altra mano agita un mestolo:­ Tutti al loro posto!Magdaleine   si   accomoda  vicino  a  me,   io   le   accarezzo   la spalla. Con maestria la polenta viene spalmata sulla tavolata comune.   Le   donne   del   posto   la   coprono   dei   loro   sughi, travestendola da cartina geografica ricca di mari di salsicce, isole di funghi, montagne di pomodoro, vallate di melanzane e laghetti di zucchine. Poi Amadou prende in braccio le sue piccole e loro cospargono a caso di parmigiano. Alla destra di ogni posto c'è una forchetta, alla sinistra un fazzoletto di carta, a trenta centimetri di distanza da ogni testa, più in là dell'ombra di ogni naso, inizia quella delizia collettiva.Le   forchette   intagliano,   afferrano,   fluttuano   nell'aria, suonano lo stare  insieme.   I  soffi  che raffreddano iniziano una canzone e il masticare tenero costruisce assonanze che sanno di legami senza pregiudizi.Nonostante   il   clima   familiare   mi   sento   al   centro   delle attenzioni, come se prima o poi si debba parlare di tutto ciò che   in   questo   momento   mi   sembra   naturale   dare   per scontato, e allora gioco d'anticipo:­ Questo posto sembra una grande comune, ma Primavalle in realtà com'è?Mi risponde uno dei signori italiani che abitano nel palazzo di Amadou. Si chiama Rino, ha fatto il liceo classico e poi il muratore:­ Primavalle era rossa, ma rossa che più rossa nun se pò. Mo è  macchiata,  è   'na   farsa.  E'  molto più   simile  ar   resto  der Paese.Sono  molto   incuriosito.  Mi   interessa  andare  più   a   fondo, 

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conoscere la storia da chi l'ha vissuta.­  Fino   agli   anni   novanta   abbiamo   retto,   poi   quarcosa   s'è ingrippato. Non c'è stato il ricambio – inizia a spiegare Rino. ­  Non ci   siamo capiti,   c'è   stata   'na   frattura.  Anzi  no,   'na crepa.Resto affascinato da questa immagine e allora gli chiedo: ­ Che differenza vedi tra una frattura e una crepa?­ Non lo so, forse penso ai miei genitori. Io je scappavo dalla finestra, l'avrei presi a carci pe' scenne 'n piazza. E loro lì a rincorreme. 'Na vorta, 'na vorta sola, j'ho dato 'na pizza. A mi   padre,   ma   piano.   Lui   s'è   messo   a   piagne.   Poi   l'ho abbracciato,   ma   avevo   creato   'na   frattura.   Er   movimento aveva creato 'na frattura, evidente, insanabile. Loro, i vecchi, avevano   davanti   un   modello   borghese,   inarrivabile   e accettavano la loro inferiorità. Erano sempre pronti a sta' a novanta e noi nun lo sopportavamo. Allora prendevamo 'na chitara e nun importava che non la sapevi sona',  sonavi e basta.   Perché   non   serviva   prenne   lezioni   pe'   esse'   'n chitarrista. Come nun serviva avecce 'na bella voce p'esse 'n cantante. A noi nun ce fregava niente d'esse ben vestiti pe sentisse  belli.  E  allora  daje  a  uscì   a   torso  nudo,  omini  e donne, senza timore. E sotto sotto quei bastardoni dei nostri genitori  ce stimavano pure.  Me ricordo quanno mi madre m'ha beccato in camera colla fija dell'amatissimo dottore. Io me la stavo a spigne, come 'na cagna. Me faceva schifo e avevo   lasciato   la   porta   spalancata   apposta.   Volevo   fajelo vedé che non c'era niente da'nvidiaje a st'animali da salotto. Facevamo scandalo, quante vorte me sò sentito dì: “Me fai prenne l'infarto! Assassino!”. Ma a me nun me ne fotteva 'n cazzo.   Pe'   me   loro   avevano   fallito   e   io   dovevo   esse   er contrario.  Dovevo rompe  le  catene.  Le catene mie,  quelle d'en fijo, perché loro alle loro c'erano troppo affezionati.­ Quindi la frattura è una rottura? ­ Gli chiedo per trovare 

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una conferma.­ Non proprio... ­ Mi risponde incerto Rino.­ Vediamo se ho capito...Mi   alzo   e   vado   verso   i   secondi,   prendo   una   costoletta d'abbacchio che avevo adocchiato. E' stata impanata e fritta dalla moglie di Amadou. La spezzo ­ si sente lo scricchiolio dell'osso ­ ma in modo da non dividerla. Resta appesa, come se   parte   di   un   tendine,   o   un   ossicino,   o   quel   che   si   è solidificato di un impasto, di un lavoro artigianale, tenesse ancora unite le due parti.­ E' qualcosa del genere?­ Bravo, c'hai preso! ­ Bene, ora resta da definire la crepa...­ La crepa e' 'n misto tra 'na rota bucata e 'n buco pe' strada. O forse è  'na rota che se buca pe'  'na buca pe' strada. Ner senso che nun sai mai se te sei bucato te o se s'è rotto tu fijo. Fatto sta che s'è crepato 'n rapporto e co' questo te e tu fijo.­  Mi sembra un'immagine molto diversa dalla  precedente, forse  meno  prevedibile,  meno  voluta,  ma  più   difficile  da recuperare.Rino si commuove, tira fuori  un fazzoletto di stoffa usato chissà  quante volte.  Lo cerca di aprire, nonostante sembri essersi   seccato su se stesso a  mo'  di  cartapesta.  Riesce a recuperarne   un   pezzettino   ancora   elastico   e   giù   con   la tamponata al naso. Poi col mignolo lo introduce all'interno della narice destra. Ruota il mignolo, prima in senso orario e poi in senso antiorario, si riprende bevendo un bicchiere di vino   e   fa   scomparire   il   fazzoletto,   riponendolo  nelle   sue tasche.­ Er fatto è che nun te n'accorgi. Che da 'n giorno all'artro te li ritrovi grossi e qualunque cosa je proponi è troppo tardi. Te la bocciano. Nun ce capisci niente de quello che vojono fa'.  Nun  te  cagano.  Poi   te  ce  abitui,  passa  er   tempo e  se 

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smette de comunica'. Io per esempio nun so 'n cazzo de mi fijo, a vorte penso pure che sia frocio. ­ Crede che invece suo figlio sappia tutto di lei?­ Ma de che... Nun me becca mai. Sa che so' stanco, che me lavo, che magno a pranzo e a cena.­ Ma sa se è felice oppure se è triste?­ Che sa... Non so nemmeno se je fregherebbe.­ E suo figlio come è?­ E' triste, Madonna quant'è triste! Ma che je devo fa'... Qui semo 'n po' tutti tristi.­ Ma a voi, quelli della vostra generazione, cosa è successo? Perché vi siete spenti?­ Da 'na parte c'è stato Berlusconi. Per esempio la Standa, che qua ha chiuso subito, tra l'artro, c'ha cambiato il modo de   fa'.   Quanno   se   l'è   comprata   lui,   se   semo   spaccati. Andacce o non andacce? Poi il sogno, che bene o male s'è 'nfirtrato, ha preso tutti: meno tasse, il lavoro, er Drive In, la televisione commerciale, il sogno americano. Dall'altra parte l'eroina. L'eroina ha fatto tutto.Si ferma e per un istante resta assorto con gli occhi al cielo.­ Qui l'eroina ha portato via 'n sacco de compagni. C'è chi s'è bruciato, ma molti so' proprio morti. E quanno se ne so' annati hanno portato co' loro anche parte de chi è restato. C'erano siringhe ovunque, non solo pe' tera. C'erano siringhe nei   giardini   de   scola,   sulle   cortecce   dell'arberi.   Sulle gradinate, sui terazzi, nell'ascensori, nei parcheggi, dentro le macchine parcheggiate. E noi, in mezzo a sta robba, c'avemo cresciuto   i   nostri   fiji.   Quanno   li   portavamo   a   gioca'   nel parco,   dovevamo   scanza'   le   siringhe   e   a   vorte,   in   giro, dovevamo portalli 'n braccio pe' paura che se pungessero.­ Ma perché ha avuto tanto successo questa droga?­ Mah, nun lo so. Io credo pure che è stata 'na cosa mirata. Ce volevano fa' fori.

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­ E come è entrata nel vostro mondo?­  Noi se divertivamo con niente,  qua da ragazzi  era   tutta campagna. Se rotolavamo giù pe' la valle. Oppure annavamo a vede' la partita der Tanas, quanno venivano a giocà da noi c'era l'inferno. Er pomeriggio stavamo nei pressi de quella che mo chiamamo piazza Mario Salvi, pace all'anima sua. Se c'era da fuma', se facevamo le canne. Ma nun te crede, er fumo nun se trovava, se ne facevamo quarcuna, ogni tanto, e se  la passavamo.  'Na cazzata de qua,  'na cazzata de là,   'n discorsetto politico, 'na manifestazione, 'na sonata. Poi, m'o ricordo come fosse ieri, nun se trovava da fuma' in nessuna maniera.   Erano   settimane,   ma   niente   niente   niente.   Noi stavamo 'n piazza come sempre, era estate, c'era 'n sole che spaccava   le   pietre,   saranno   state   le   tre   de   pomeriggio. Vedemo arriva' er Mucchetta, che poraccio è morto quattro anni   fa...  O vedemo bianco,  che se  trascina.  Je  dimo:  “A Mucché, che c'hai?”, e lui: “Ho provato 'na cosa bellissima, è come 'na bomba, ma morto mejo”. E quell'estate in tanti se bucarono. E' stato 'n flip. Ce so' entrati a rota e noi tutti ce se semo   abituati.   Piano   piano   da   punk   semo   ridiventati poveracci. E 'nfine come l'artri, co' a differenza ch'eravamo de meno e sempre in ritardo.Mentre Rino fa un'altra pausa, deglutendo rumorosamente, cerco   di   cambiare   discorso   e   gli   chiedo   dove   facessero politica in quegli anni.­  Pe'  strada – mi risponde come se fosse scontato.  Poi ci pensa su e aggiunge: ­ Mah, a di' la verità, pure in sezione. Andavamo a  quella  der  PCI.  Quanno entravi   là  dentro   te sentivi a casa. Io correvo a dà n'occhiata a L'Unita e er capo d'a   sezione   se   'ncazzava.   Mi   diceva:   “Tu   se   voi   esse comunista   nun   te   devi   legge'   L'Unità,   lascialo   perde   'sto giornaletto.   Te   devi   impara'   a   legge'   Il   Sole   24   Ore,   er giornale   der   padrone.   Perché   solo   così   poi   capi'   come 

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ragiona er nemico, solo così poi capi' come risponneje”. Mi giro verso Noè che segue attento la conversazione:­   Tu   avrai   vent'anni   meno   di   Rino:   ci   sei   mai   stato   in sezione?­ Lì dai fasci mascherati? ­ mi chiede polemico.­ Non lo so, dimmelo tu.­ Sono entrato nella sezione del Pci, poi Pds, poi Ds, poi Pd. Convertita in Prc, poi Sinistra Arcobaleno, poi Rivoluzione Civile, poi confluita in Sel. Beh, c'è  un corridoio lungo e stretto, alla fine del quale trovi una cattedra da maestro, con uno sfigato, uno solo che custodisce il posto. Non sai se c'è qualcosa  oltre  quella  cattedra   tanto  è   il   timore  misto alla rabbia che ti mette quest'uomo. Lui è lì a trattarti come un pivello, come se dovessi meritartelo quel tempo con lui. Ed è geloso e ti controlla ogni passo. Sembra pronto a tirar fuori una bacchetta per dartela in testa nel caso in cui tu cerchi di scorgere qualcosa oltre quel corridoio. Lui ti blocca la strada e   infine   scopri   che   oltre   quel   corridoio,   aldilà   di   quella cattedra, non c'è più niente e nessuno. Le stanze sono state affittate a un gruppo che fa balli latinoamericani e la sezione per  cinque giorni su sette  non ha attività  programmate,  è praticamente chiusa al pubblico. Noè potrebbe essere figlio di Rino. L'altro punto di vista del suo racconto. E' per questo che decido di chiedere anche a lui del rapporto con i suoi genitori. Per capire meglio quali dinamiche intergenerazionali vivano in questo posto.­ Sono il loro contrario, ­ mi risponde schietto Noè, ­  vorrei esserlo per lo meno.­ Non ti sto chiedendo come vorresti essere ma come ti vedi realmente.   E   quello   che   ho   capito   è   che   sei   un   ragazzo fortunato. Hai un'idea netta perché netto è stato il modello che hai avuto davanti. E' come uno che mangia tutti i giorni la pizza e poi ha voglia di pasta. Beato lui. Sei affamato di 

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qualcosa e lo devi ai tuoi genitori, anche se sono diversi da te.  Ci   resterai  male,  ma si  può  dire  che   i   tuoi  genitori   ti abbiano dato tutto. ­ Delemberte non mi faccia parlare...­ Senti giovanotto, rispondimi: cosa significa essere umano?­ Uomo, vivente –  balbetta, colto di sorpresa.­ No, intendo “essere” umano. Io sono umano, tu sei umano, ecc.­ Significa io sono uomo, io vivo.­ Ok, vuoi giocare. E cosa significa vivere da uomo?Noè mi guarda perplesso: ­ Avere una storia che ha un inizio e una fine. Quindi essere destinati a morire.­ No, quello significa smettere di vivere, magari anche da uomo.   Ma   vivere   da   uomo   oppure   essere   uomo   cosa significa?   Signor   benzinaio,   vediamo,   cosa   significa?   ­ chiedo guardando Ascella che ci sta seguendo incantato e al mio richiamo sobbalza sulla sedia.­ Io? Che culo! Beh, io de uomo c'ho che 'na lacrimuccia ogni tanto me scappa. Che 'na cazzata ogni tanto la faccio. Che   'e   botte   ce   'e   prenno.   Che   devo   fatica'.   Che   vorrei sempre fa' de più, pure se nun ce la faccio. So de n'esse 'n dio. De n'esse miliardario, però 'a mattina, si arrivo presto, 'n caffè  ar  bar  'o pago a n'amico e  lascio pure du spicci de mancia   se   er   cameriere   me   sta   simpatico.   Sì,   perché   so' rozzo, ma so' 'n signore.E tutti in coro: ­ Eeeeeeeeeeeeeeeeeeh! ­ Bravo il nostro amico. L'uomo è vivo percorrendo i suoi limiti.   Lì   è   la   sua   esistenza.   Nell'errore,   nel   limite,   si manifesta   per   quello   che   è.   Si   mette   continuamente   alla prova, si fa creatura. Smette di non vivere, di non essere. I tuoi,  caro Noè,   ti  hanno fatto uomo. E  le  tue  idee,   i   tuoi progetti sono umani?­ Non lo so, mi dica lei...

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­ Noè, la certezza che tu hai si sgretolerà insieme alla nostra battaglia. Allora sarai come i tuoi genitori e poi diverso da loro. Ma non sarà per sempre. Non ci avranno mai!­ Ora gliela faccio io una domanda: qual è il suo progetto politico?­ Ci sono poche certezze in questo mondo, mi rivolgo ad Amadou per  esempio.  Sei   italiano o  maliano? Romano  o straniero? Hai una bella famiglia o una famiglia povera? Hai una casa o è di un altro? Sono scelte, scelte che fanno gli altri per noi. Allora prendo la testa di Magdaleine tra le mie mani e le bacio la fronte. Lei non si oppone.  A quel punto domando alla piccola platea: ­ Cosa è successo?Rino risponde prontamente: ­ C'hai provato!­ E si potrebbe aggiungere che lei ci sarebbe stata! ­ affermo provocando Magdaleine che replica stizzita: ­ Ti sbagli! Da cosa lo avresti dedotto?­  Non   lo  avevo  dedotto,   infatti.  Era  un   tranello,  ho   fatto questo esempio per avere maggiori elementi per capire se ci saresti stata.E Rino: ­ Che fio de 'na mignotta! Questo colle parole e co' ste cazzatelle ce se rivorta a tutti quanti!­ E no, caro Rino, non è così. Magdaleine mi ha fatto capire che non ci sarebbe stata. Questo significa che con le parole non ho ottenuto quello che volevo. Anzi, le parole, queste parole   che   sto   usando   in   questo   momento,   mi   stanno allontanando   da   lei.   Lei   si   sentirà   in   imbarazzo   e   starà pensando: “Che cretino Maurice! Ma è questo il modo? Ma son queste le parole?”. Il linguaggio è la nostra arma, ma è un'arma dalla doppia lama. E' un'arma che non si acquista dal ferramenta. E' un'arma che sa di noi, che sa del nostro corpo,   della   nostra   nudità,   del   nostro   tempo,   del   nostro spazio.  Se  non   rincorri   la   tua   soggettività,   se  non   sei   in 

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grado   di   distruggerti   e   ricomporti   velocemente,   se   non occupi uno spazio, se non ti denudi di ciò che ti appiccica addosso   questa   sporca   società   e   se   non   sei   in   grado   di entrare in relazione con l'altro, l'arma non funziona. Il mio progetto è semplice: ognuno di noi deve essere se stesso, con i suoi limiti. Deve sfidare questi limiti e deve essere aiutato dall'altro   a   tentare   di   superare   questi   limiti,   correndo   il rischio di cadere. Ognuno dovrà   trovarsi uno spazio, farlo suo e aprirlo all'altro. La voce viene da sé, sarà allora che saremo chiamati a scegliere le nostre parole. Non le stesse. Nell'incontro di diverse soggettività, nella somma dei nostri lessici più  cari,  avremo costruito un altro mondo. Avremo posato parole più pesanti delle pietre ed eretto un castello senza pareti. Lo abiteremo e lo faremo come stiamo facendo già in questo momento.Nené alza il calice: ­ Che bella magnata! E' proprio vero che colla   panza   piena   tutti   insieme   se   sta   bene.   Evviva   le cuoche!Parte  un applauso ed  io  mi concentro proprio su di   loro. Sono   delle   donne   fantastiche,   forti,   passate   dall'essere convinte rivoluzionarie all'essere casalinghe e poi lavoratrici e   ancora   disoccupate.   Infine   mogli,   madri,   di   nuovo casalinghe e a tratti lavoratrici in nero. Comunque, ancora rivoluzionarie.   La   moglie   di   Amadou   è   una   delle   poche maliane arrivate in Italia.­ E' incredibile quello che abbiamo fatto – mi racconta ­ di solito parte prima l'uomo, cerca di trovare una sistemazione e se Dio vuole dopo tanti anni torna nel suo Paese. Del suo percorso in Italia non si deve sapere nulla, sarebbe pieno di vergogne. Ma io non ce l'avrei fatta a lasciarlo solo. Amadou mi  ha  caricato   sulle   spalle  nel  deserto,  mi  ha  dato   forza quando forza non ce l'avevo. Io gli ho promesso il rispetto, l'amore. Arrivati qui è stato difficile, la nostra cultura vuole 

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che io resti a casa e Bastoggi in questo mi ha aiutato. Ho difeso il  nostro appartamento con tutta  me stessa,  non ho fatto   entrare  nessuno.  Ma  col   tempo  abbiamo  capito   che dovevamo diventare un po'   italiani.  Ho cercato  lavoro,  ho fatto la donna delle pulizie, la badante, la parrucchiera. Poi sono arrivate loro, le nostre piccoline e io ho perso il mio ultimo lavoro.La moglie di Rino è stata una prostituta.­ Battevo sulla Salaria, nun me vergogno. Lo so che je faccio male   a   Rinuccio   mio   a   dillo   in   pubblico,   ma   'ntanto   lo sanno. Nun batto più e lo devo solo a lui. E' er core mio. Ma chi ce l'ha mannato! M'ha preso ch'ero sporca de fango, tutta 'nsanguinata. M'ha portato qua, m'ha curato le ferite, come se ero 'na cagnetta abbandonata, m'ha coccolata colle parole. E c'ha ragione Delemberte, le parole so' tutto. Quella sera nun m'ha toccata. Alla mattina me ne sarei dovuta torna' al palo. So' uscita de casa sua, l'ho ringraziato e me so' avviata. Poi però ho pensato che ce l'avrei potuta fa', che ar monno nun so' tutti zozzoni. Che io ero quarcosa de più de quella fessa tra le cosce.  Ma c'avevo paura! Quello è  n'ambiente dove te ce mettono e nun te ce fanno più  usci'. Quelli so' polipi che te strangolano. Arrivano dappertutto, nun te poi nasconne. Quell'omo là, quell'omo là ­  dice indicando Rino, ­ m'o so'  ritrovata dietro, come n'angelo.  M'aveva seguita. Me fa: “Vieni con me! A Bastoggi i papponi non possono entrare”. Ed io che nun ce credevo: “E le puttane sì?”. Sì le puttane ce possono entra'.  Mai nessuno m'ha detto niente, eppure   lo   sapevano.   Mai   nessuno   m'ha   torto   er   saluto. M'hanno voluto bene e io oggi so n'essere umano.La   donna   orientale   che   le   sta   seduta   accanto   è   timida   e minuta. Quando si accorge che è arrivato il turno della sua presentazione, si limita a sorridere e si nasconde dietro al marito, che spiega:

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­   Lei   era   stata   promessa   in   sposa   ad   un   imprenditore bengalese. Aveva solo dodici anni. Noi ci amavamo, ma io sono orfano dall'età di otto anni, non avevo la possibilità di essere   rappresentato   davanti   alla   sua   famiglia.   Siamo scappati   il   giorno   prima   del   suo   matrimonio.   Se   oggi tornassimo nel nostro Paese forse potremmo finire impiccati.Allora la donna decide di prendere la parola e racconta:­ A Roma stiamo bene, Sakil ogni sera mi porta le rose che non riesce a vendere mentre io tutto il giorno sto con i miei bambini e con quelli  delle mie amiche italiane.  Sono una specie di baby­sitter.  Certo,  non mi paga nessuno, ma ho tante amiche e ci facciamo favori reciproci. Che ne so, noi non abbiamo la macchina,  se ci  serve un passaggio ce lo danno loro. La moglie del fruttivendolo ci  porta la frutta, quella del macellaio la carne.Chiedo se mangiano sempre insieme e Amadou sorride:­ No, questo è un grande evento! Siamo sempre a Bastoggi amico mio! Si guardi intorno!­ Male, da domani mangeremo sempre insieme e lo faremo qui. Gli  uomini devono attrezzare una veranda.  I residenti pagheranno tre euro a pasto, i non residenti saranno tenuti sott'occhio dal vostro cane e pagheranno dieci euro. I soldi andranno alle donne, li gestiranno loro. Piano piano avrete più clienti, più persone fidate che potranno mettere piede in questo   luogo   sicuro.   E   man   mano   che   vi   ingrandirete colorerete e pulirete questo posto.Noècerca di riportarmi con i piedi per terra:­ Non è possibile, ci vogliono dei permessi, la licenza!Ma io, fingendo una sicurezza che darà forza a tutti gli altri, gli rispondo:­ Non tutto è scritto nei miei libri. Siamo a Bastoggi: qui la polizia non può entrare. Perché dovrebbero farlo la guardia di finanza oppure gli omini della Asl? E domani fai venire 

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qui a cena anche i tuoi!Le donne sembrano preoccupate da questo progetto che le vede protagoniste: ­ Ma se non ce la faremo a fare pranzo e cena? Dobbiamo cucinare per casa e anche per tutti!­ Non avete capito, cucinare per casa coinciderà col cucinare per   tutti.   E   poi   se   sarete   stanche   resterete   chiuse.   Che problema c'è?­ Ma come facciamo con la pubblicità?­ Direte che ci sono io! Useremo questa nuova bettola per degli incontri di politica clandestina!Ninetto è entusiasta:­ Sei 'n genio Delemberte! Ma tu' moje che ne pensa? Non ha spiccicato 'na parola.Magdaleine a suo modo mostra di essere dei nostri:­ Sono una pittrice, mi piacerebbe lavorare per voi, datemi solo un po' di tempo.­ Finalmente un sorriso! ­ festeggia Ninetto.Magdaleine   ha   una   sensibilità   più   profonda   della   mia, difficilmente   sgorga   in   superficie.   E'   violenta,   la   sua sensibilità, la smuove nelle viscere, ma si perde nel labirinto che  avvolge   la   sua  corazza.    Poche volte   sono  riuscito   a metterla a nudo, ma ora più che mai non demordo:­ Mi ero veramente sbagliato poco fa?E lei: ­   Cretino.   Ti   sei   ricordato   di   prenotare   due   camere d'albergo?Consapevole  del   fatto  che   il   suo viso angelico  si  sarebbe trasformato   in   un   broncio   pieno   di   rughe   e   che   le   sue sopracciglia da bambola di porcellana si sarebbero spettinate e accavallate come quelle di un vampiro, prendo coraggio e rispondo:   ­  Staremo da un amico!  Non ti  preoccupare,   tu starai sul letto ed io mi arrangerò.

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Capitolo 11. Origliare l'amore sul cemento

A Primavalle la giornata dura di più. Non conosce il limite della notte, come se la vita ricordasse a tutto un quartiere che va vissuta più  a lungo. Va pensata, cavalcata, domata, coccolata,   scopata,   corteggiata,   urlata,   sussurrata, camminata, sudata.Totonno   ha   fatto   un   ottimo   lavoro,   ha   trasformato   una vecchia portineria in una bomboniera per due innamorati. La moquette blu segna il cammino verso l'unica stanzetta, un soggiorno  con  una  branda   ad  una  piazza  e  mezza   e   una poltrona.  La  brandina  è   preparata  con  cura,  con  lenzuola bianche orlate di merletti   ricamati a mano. C'è  un angolo cottura, con un frigo e un tavolino. Sul tavolino, un vassoio con  due cannoli  giganti,   farciti  di  cioccolata  del  principe come  quelli  del  Conte  Faz,   e   una  bottiglia  di  vino  della Tenuta di  Torrevecchia.  Accanto ai  bicchieri,  un biglietto, segnato   da   una   scrittura   tremolante,   in   stampatello: “Buonanotte Dottore, Buonanotte Dottoressa”.Una piccola porta di legno dà accesso al minuscolo bagno: tazza, lavandino e doccia in 2 metri quadri. Mi accomodo sulla poltrona, Magdaleine sulla brandina.Siamo stanchi, ma felici. C'è il silenzio di un film muto. I nostri   sguardi   si   incrociano   ogni   qualvolta   voltiamo   una pagina.   Lei   legge   Murakami,   “Kafka   sulla   spiaggia”,   io Foucault, l'“Archeologia del sapere”. Lo faccio con brama, ma non me ne frega più  molto di quei discorsi, li  ho fatti miei  da un bel  pezzo,  voglio  solo  accorciare  i   tempi  che separano il mio sguardo dai suoi occhi. Vorrei una scusa per attaccare bottone, sono come un dodicenne davanti ad una bella coetanea, mi chiedo se è il caso di parlare del tempo, di prevedere   la   pioggia,   così,   tanto   per   vedere   se   suscita qualche reazione, oppure penso di chiedere l'ora, ma subito 

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mi freno. Ho paura mi risponda che sia tardi, che posi quel dannato libro giapponese e si metta a dormire. Vorrei aprire quella bottiglia, ma non ne ho il coraggio. Mi ricordo di mia nonna, della sua preghiera del cuore, del fatto che mi sono sempre promesso di non usarla per stupidaggini e allora tra me e me recito: “Cuore, amore, Gesù, sono una pecora e tu sei il mio pastore, apro a te tutto il mio cuore, entra e cerca di capire  quel che voglio da te”.La religione è la mia scaramanzia, Gesù è il mio talismano. Sono  un   comunista   che   si   vende  bene  di   fronte   ad  ogni ostacolo insormontabile e lassù  qualcuno vede e provvede anche per quelli come me. Un po' atei, ma così religiosi da farsela sempre una chiacchierata con Dio, pur di non sentirsi soli. La sacralità di questo raccoglimento viene scossa dalle voci provenienti   dall'appartamento   vicino.   Voci   che   sembrano onde,   prima   calme,   poi   mosse.   Diventano   urla, imprecazioni.   Onde   che   si   scontrano   sugli   scogli,   che   si perdono nel mare, che si rincorrono, fuggono, si avvicinano, si sfiorano, non si placano.E' una voce femminile, la prima ad animare la nostra serata che   sembrava   stesse   già   volgendo   al   termine.   E'   agitata, violenta, ma anche trascinata come un lamento. ­ Questo non me lo puoi fare! Mi stai distruggendo. Sei un bastardo egoista!E subito il presunto bastardo egoista che risponde:­ Sei orgogliosa! Io mi sto solo difendendo. Non esisto per te. Ho il diritto di dirti quello che non va.La donna si altera ancora di più e in tono quasi disperato urla:  ­ Ma cosa vuoi? Cosa cazzo vuoi da me?­ Voglio un figlio e lo voglio ora e tu invece stai sempre a rimandare. Dimmelo almeno, non mi prendere per il culo!

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­ Sei uno stronzo, sei un egoista schifoso. Come ti permetti?­ Sono quattro anni che stiamo insieme, ci amiamo: perché no?­ Mi colpevolizzi di ogni cosa. Credi sia colpa mia?­ Ma che cazzo dici, non ci abbiamo mai provato!­ Io speravo di essere già incinta, ma no! Non è così.­ Vaffanculo, io non ti colpevolizzo di niente. Abbiamo fatto l'amore   tre  volte  negli  ultimi   tre  mesi,  nemmeno se   fossi stata la Madonna saresti rimasta incinta. Che c'è? Ti faccio schifo ora? E sì, perché è questo il problema, dimmelo!­ No!A quel punto lei scoppia, piange, ma quando poi interviene, è dura. Lui non piange, ma ha il tono più basso e tra uno sfogo   e   l'altro   immagino   perda   delle   lacrime   pesanti,   di quelle che rigano il viso, che infiammano la pelle. Sia io che Magdaleine   abbiamo   posato   i   libri   e   siamo   assorti dall'ascolto.Mentre io mi alzo e, dopo aver tirato fuori il mio coltellino da   campeggio,   provo   finalmente   ad   aprire   la   bottiglia, riprende il ragazzo:­ E' da quando abbiamo deciso di provare che sei cambiata! Dopo due giorni hai iniziato quella terapia, non avevi mai voluto prendere medicine, ma ora invece sembra che godi ad abusarne. Poi pensi solo al tuo lavoro.­ Ma cosa stai dicendo? Sei impazzito? Ma io ti ammazzo...­ Ammazzami, ammazzami pure, ma questa è la verità!­ Ma lo capisci che io sono una donna, che mi fanno subito fuori se aspetto un bambino? Il contratto mi scade tra due mesi, mi sto dando da fare perché voglio che almeno me lo rinnovino.   Con   cosa   lo   campiamo   nostro   figlio,   col   tuo misero stipendio?­ Lo vedi? Poi sarei io a distruggerti! Non ci è mai mancato niente, io me ne fotto del tuo contratto, di qualche centinaio 

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di euro in più al mese me ne sbatto. Cogliona!­   Sono   costretta   a   dire   cose   che   non   penso,   a   fare   la razionale. A dover passare per quella che rimanda quello che sogna. Beh, vaffanculo! Sei proprio uno stronzo!Ogni   rumore   sembra   soffocare   di   colpo   la   propria   voce. L'assenza  di  suono è  un  buco nero che   rimanda a  quella povera ragazza, alla sua condizione di donna in un mondo fatto   di   milioni   di   parole   senza   significato,   di   musiche mangia frastuoni, di promesse spezza sogni. Lei innamorata del  suo uomo costretta  a  soffiare sulla   fiamma delle   loro passioni per restare con i piedi per terra in un percorso di cemento   che   si   tramuta   sempre   più   velocemente   in pericolose sabbie mobili. E lui lì, senza le giuste parole, a muoversi tra la rabbia e i gesti di un disperato malinconico innamorato che ha nostalgia dell'attimo prima, del bacio che non  può   più   chiedere,  ma   che   ricorda   come  se  gli   fosse appena stato dato.­ Amore, scusa.­ Scusa un cazzo!­ Ah sì, allora vaffanculo te! Qui stiamo parlando della cosa più   importante   della   nostra   vita   e   tu   continui   a   fare l'orgogliosa. L'egoista sei tu! Forse è la prima volta in cui i nostri momenti non coincidono. Tu non te la senti, ma io ne ho la necessità. Cazzo, quest'anno ho pensato di morire dopo l'incidente. Io ho un debito con la vita. Rimandare sarebbe sputare   su  me   stesso,   sulla   forza   che  ho   tirato   fuori   per andare avanti, per costruire una famiglia. E tu? Tu che volevi restare   incinta   mentre   io   pensavo   di   morire,   ora   ti   tiri indietro?­ Io non posso sentirmi vecchia a trent'anni. Cazzo, non sono vecchia, ma lo sono! Non avrò altre possibilità di lavoro! Io non mi compro niente da più di un anno. Vado in giro con quello che indossavo quando avevo vent'anni. Non usciamo 

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mai, non incontriamo mai nessuno. Tu stai sempre al lavoro e per cosa? Per ottocento euro al mese.  Dobbiamo essere realisti... ­   Sono   realista,   non   abbiamo   debiti   e   se   non  usciamo   è perché lavoriamo tutti i sabati e tutte le domeniche. I nostri amici in mezzo alla settimana lavorano!­ Non lo vedi come siamo ridotti?­ Lo vedo, sì che lo vedo. E' per questo che ho bisogno di avere un figlio ora. Ci siamo conosciuti che avevamo tanti sogni, passavamo il tempo in radio. Avevamo un sacco di speranze e ora? Ora stiamo cadendo a pezzi. Se aspettiamo un   altro   anno   cosa   gli   mostriamo   a   'sto   ragazzino?   Due derelitti? Io gli voglio far vedere quello che non ho avuto. E per farlo ho bisogno di essere forte. Sento di avere ancora delle possibilità, di non essermi venduto del tutto a questo mondo.  E finché   resisto voglio avere un figlio,  mostrargli tutto quello che un uomo qualunque non può.­  Ma cosa  gli  vuoi  mostrare,  che per   la   fatica  non riesci nemmeno a rimanere sveglio per scambiare due parole? Che per uscire la mattina all'alba non riesci nemmeno a farti una doccia?­ No, gli voglio far vedere che suo padre con ottocento euro al mese fa un lavoro pulito, onesto, che aiuta gli altri, che fa volontariato, che sa amare. Che non tradisce la moglie, che è innamorato.  Che  ha  memoria,  che  crede  che   il  mondo si possa cambiare. Voglio giocare con lui, voglio sbagliare con lui. Voglio fargli vedere che non bisogna eccellere a questo mondo,  che può   essere  eroico   riconoscere  i  propri   limiti. Che  del   tempo   trascorso   insieme   è   la   qualità   quello   che conta, non la quantità. Voglio fargli vedere che mi fido di te, che è con te che voglio crescerlo. Voglio raccontargli quello che abbiamo vissuto, voglio ridere degli altri con lui e voglio che si senta a casa, qui. In mezzo a noi.

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Lei  piange,   piange.  Sembra   strozzarsi.  Si   sente  un  botto, come un pugno sul legno.Magdaleine mi fa segno di alzarmi,  di andarle vicino.  Ne approfitto, mi butto sulla brandina e la abbraccio.Lei   tende   l'orecchio   verso   la   parete   e   mi   sussurra preoccupata:­ Se l'ha toccata chiamiamo la polizia.Non   le   rispondo,  ma   sarei  pronto  a   farmi   ridurre   in  una pozza di sangue pur di continuare ad abbracciarla.Poi sentiamo la donna ridere e l'uomo bestemmiare.Magdaleine si agita:­ E' una risata isterica, per favore, fa' qualcosa!Prendo “Kafka sulla spiaggia” e lo scaravento a terra, per fare   rumore,   con   l'intento   di   far   sentire   a   loro   la   nostra presenza.Dall'altra parte l'uomo continua:­ Mi sono fatto male! Sta zitta che i vicini ci sentono!Magdaleine, respirando sollevata, si scosta da me e trova lo spunto per criticarmi.­ E' identico a te, quando ti incazzi prendi a pugni le pareti!­ Ma sarà successo due volte. Una quando il cane di tua zia mi ha fatto cadere l'hard disk ed ho perso venti pagine di racconto, l'altra quando...­ Ricordatelo bene l'altra...­ Non sono violento!E cerco di riabbracciarla.Lei sorride e per un attimo si lascia avvolgere senza difese. ­ No. E' vero, non sei mai stato violento, ma sei geloso. E quella volta eri andato fuori di senno. Ora però tieni le mani al tuo posto e sentiamo invece di chiacchierare.Magdaleine  mi   stacca  dalla  mano   la  bottiglia   aperta   e   si attacca. Una goccia di vino le cade giù  fino a bagnarle la sottoveste. Se glielo facessi notare si innervosirebbe, allora 

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mi   godo   lo   spettacolo,   sperando   che   arrivi   a   bagnarle   il seno,   per   intravederne   i   capezzoli.   Mentre   ho   il   solito problemino lì sotto, Miss Capezzolo Bagnato è sempre più appassionata   alla   vicenda.   Questo   mi   toglie   nuovamente dall'imbarazzo.I   due   ora   parlano   sottovoce,   sembrano   aver   ritrovato   la bussola poetica.­ Sorcio, hai sbattuto il ginocchio al tavolo come quella volta al Taggino. Eri in panchina e io ero sugli spalti a vedere mio fratello.   Il   tuo allenatore  ti  ha fatto cenno di  entrare e   tu alzandoti,   imbarazzato,  hai   sbattuto sul   tavolo  dei   ragazzi che segnavano i punti.­ Sì, ma poi sono entrato. E quando ho fatto canestro ti ho guardata.­ E mio fratello si è incazzato.­ E l'allenatore ci ha fatto uscire entrambi. Ma ne è valsa la pena.­ Era il 1996!Sghignazzano,   i  malefici,  mentre  Magdaleine   si  allontana rasserenata, allora io cerco di richiamare la sua attenzione per tenerla ancora vicina a me.­ Senti, senti...Prego   Dio   di   far   uscire   dalle   loro   bocche   qualcosa   di interessante e anche questa volta mi sento ascoltato. E'   la donna a riaccendere la serata.­   Mi   piacerebbe   risentirti   in   radio,   hai   una   voce sensazionale. Non ti perdonerai mai di averla lasciata. Eri un altro.­ Non puoi dirmi questo, lavare il culo ai vecchietti non avrà lo stesso appeal, ma io sono la stessa persona.­ Amore mio, ti stimo tanto, ma prima o poi dovevo dirtelo, sei sprecato. Tu sai parlare. Sai accompagnare le persone, sai entrare in contatto con tutti. Metti tutti a loro agio. Certo, 

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quelle stupide trasmissioni sulla Roma le avrei evitate, ma ti ricordi   quando   trasmettevi   dal   Pronto   Soccorso   del   San Filippo Neri? Le tue trasmissioni tra le ire degli utenti e poi le  cronache dei  codici   rossi...  E  “La voce dei  Rom” o  le interviste fuori dal Centro per l'impiego? Era bello sentirti leggere i giornali, inveire contro i politici. Era bello tornare a casa e trovare la tua voce dal vivo, ogni parola la vedevo di persona. La sentivo sul mio corpo. Insomma, era eccitante! Ora sei diventato un orso, brontoli invece di raccontare.­ Ci abbiamo creduto finché  abbiamo potuto,  quelli  come noi non dovevano andare avanti con gli studi. Si sono fatti del   male   e   basta.   Non   prendiamoci   in   giro,   la   gavetta   è infinita. O sei figlio di, o devi avere una botta di culo. Che poi,  anche quella,  diciamoci   la  verità,  è  quasi  sempre più una botta al culo che una botta di culo. Io non ci credo a quelle puttanelle che dicono di essere state selezionate o a quei   leccaculo che dicono di  essersi  meritati   il  posto...  O l'hanno dato, il culo, o l'hanno preso in culo. La fortuna non esiste!­ Un figlio costa, non possiamo permetterci di tirarlo su con l'acqua alla gola. Io non voglio che debba rinunciare al suo talento. Voglio sostenerlo lì dove i nostri poveri genitori non hanno potuto.­ Ma che cazzo dici? Vuoi mettere da parte un milione di euro?­ No, ma i soldi per un'altra persona sì.­   Io   di   meglio   non   posso   fare.   Ho   cercato,   ma   niente. Arrotonderò facendo l'imbianchino il fine settimana!­ Se va male rischieremo, continueremo ad arrangiarci e ci convinceremo delle tue belle parole, che sono le stesse che rimbombano  nel  mio  cuore:   “Come  si  mangia   in  due,   si mangerà in tre”. Ora però diamoci un'ultima possibilità. Io cercherò   di   farmi   rinnovare   il   contratto.   Tu   però   che 

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possibilità ti darai?­ Ti aspetterò.Si sentono scoppi di baci, fruscii di carezze.Mi alzo in  piedi  e   lascio i  due al   loro amore.  Strappo la bottiglia   a   Magdaleine,   divento   serio   e   al   contempo   mi accorgo di essermi messo in moto. Alzo le pupille, guardo il vuoto,   lasciando  negli  occhi   tanto  bianco  da   sembrare   in trans.   Magdaleine   odia   questa   scena,   ma   sa   che   sto   per partorire qualcosa di straordinario. Di vivo.­Diamo una possibilità a questo ragazzo. Sembra bravo, no?­Vuoi   arruolarlo   tra   i   piccioni?  Lascia   stare,   già   ha   tanti problemi.­Una radio, faremo una radio clandestina, come da ragazzi. La   sua   radio.   L'autofinanzieremo   con   parte   dei   giri   di cappello nei comizi. Poi useremo il metodo del nostro amico Jean. Troveremo centoventi sostenitori che gli daranno dieci euro  a   testa  ogni  mese.  Lui   in  cambio  dovrà   organizzare delle belle serate e li dovrà sempre far entrare gratis.Magdaleine mi allunga la mano destra, con il palmo rivolto verso   l'alto.   Vorrei   darle   la   mano,   ma   so   che   mi   sta chiedendo il vino.  Glielo passo, lei manda giù  un sorso e interrompe le mie fantasie.­Ti ricordi come si fa a montare tutto?­Io no, ma ti pare che non ci sarà un pirata informatico da queste parti?Magdaleine   sghignazza,   forse   pensa   che   sia   il   solito sognatore inconcludente, poi si infila sotto le coperte e mette la   testa   sotto   il   lenzuolo.   Io   scrivo   una   lettera   al   nostro vicino,   domani  gliela  metterò   sotto   la  porta.  Mi   tolgo   le scarpe, spengo la luce e mi siedo, avvolto nel sonno. 

Ci sono terreni così fertili dove la fortuna del contadino è avere la testa fra le nuvole e il far cadere ogni tanto un seme 

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dalla tasca, a volte anche perdendolo, significa far nascere cose   nuove.   Inaspettate.   Migliori   anche   dei   più   rosei progetti. A volte in questi campi non servono ingegneri del sapere,   architetti   della   vita,   ma   narratori   che   vedono   e pensano meno veloce di quel che dicono, ma non per questo sguinzagliano   la   voce   senza   onorare   il   rito   della   parola. Narratori ce onorano l'essere umani sentendosi poeti. E' così che in pochi giorni la mia lettera piantata sotto la porta di due   sconosciuti   ha   fatto   crescere   una   radio:   il   vicino   ha accettato il mio invito, un ex­poliziotto amico del Conte Faz ci ha rimediato il materiale, il cameriere rapper del pub di legno  ci  ha   sistemato   il   software  e   ci  ha  agganciato  alle frequenze FM.La   prima   trasmissione   se   l'è   sparata   in   solitudine   per riprendere   confidenza   con   il   mezzo.   Ha   parlato   della fortuna,   cercando   di   convincersi   e   di   convincere   tutti   i radioascoltatori della sua esistenza. Poi ha fatto un appello simbolico:   ha   iniziato   a   nominare   e   a   descrivere   tutte   le persone del quartiere che conosce, per farle sentire partecipi, per fargli capire l'importanza di questa radio. Una radio che li  conosce,  una  radio   tutta  per   loro.  Ha promesso di  non svelare   la   sua   identità,   lasciando   capire   che   solo   chi   lo conosce lo può riconoscere. E visto che solo chi lo conosce lo ascolta, ha già vinto. Ha creato un segreto tra lui e i suoi radioascoltatori.

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Le foto di Alessandro Schiariti

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