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Piccolo Manuale della libertà
di
Vito Foschi
cell.: 3391644127
A mia moglie e a mio figlio
Indice
Introduzione.................................................................................................................................. 4Spiegare la libertà utilizzando il cinema.......................................................................................7
L’epopea libertaria di Banana Joe.............................................................................................8Più forte ragazzi, ovvero dei monopoli e dei diritti di proprietà................................................15L’A-Team, quando la protezione è in concorrenza..................................................................21La ballata antistato di Bo e Luke.............................................................................................26I danni del Welfare State spiegato dai cartoni animati............................................................31Pippi Calzelunghe, la bambina libertaria.................................................................................34
Lettura libertaria dei Vangeli.......................................................................................................38Spunti liberali nei Vangeli........................................................................................................39L’onestà come valore di mercato: da virtù cristiana a virtù capitalista.....................................48I cattolici e il censimento.........................................................................................................52
La libertà contro l’illusione..........................................................................................................56L’illusione della gratuità...........................................................................................................57L’equivoco sulla solidarietà.....................................................................................................60Un esempio di mistificazione anticapitalista............................................................................62La legge come dogma............................................................................................................66Il trasporto locale, un esempio di welfare al contrario.............................................................69Lo stato è sempre esistito? L’8 settembre alla base del miracolo economico italiano............72
La conoscenza che aiuta la libertà.............................................................................................75L’errato concetto di risorsa naturale........................................................................................76Fine delle risorse?.................................................................................................................. 79Internet e il diritto di secessione..............................................................................................84
Un po’ di storia............................................................................................................................ 89Dal Boston Tea Party all’odierno Tea Party.............................................................................90L’insorgenza vandeana, la vera rivoluzione europea..............................................................95
Introduzione
di Giacomo Zucco
Spiegare le ragioni della libertà non è facile. La parola “libertà” è una delle
più utilizzate, ma l’uso che ne viene fatto è spesso distorto, deformato, stru-
mentale, parziale, retorico o ambiguo. Proprio per questo è necessario,
quando si cerca di difendere e divulgare le ragioni di una società libera, sa-
per evitare abbagli concettuali, luoghi comuni infondati, mitologie contem-
poranee, errori logici tanto deleteri quanto diffusi. Serve, insomma, un ap-
profondimento, un’analisi che scalfisca la superficie e permetta di chiarire
equivoci, sviluppare dettagli apparentemente poco significativi, disinnesca-
re trappole retoriche, superare l’approssimazione e l’ambiguità.
D’altra parte, però, qualsiasi approfondimento teoricamente rigoroso ri-
schia di essere percepito e bollato come puramente “astratto”, accademico,
sconnesso dalle realtà di tutti giorni. E in quanto “astratto”, in ultima anali-
si, inutile. Un’analisi che eviti l’approssimazione è spesso tacciata di intel-
lettualismo, oppure semplicemente non è compresa da chi non ha gli stru-
menti, il tempo, la pazienza, l’interesse o la volontà di seguire ragionamenti
complessi.
Questo libro è un esempio di divulgazione che riesce a tenere insieme ap-
profondimento, rigore, semplicità e concretezza. L’autore non si tira indie-
tro, da una parte, rispetto a tematiche economiche ed etiche complesse,
usando dall’altra sempre esempi quotidiani, concreti, comprensibili a tutti,
in molti casi anche estremamente divertenti e leggeri.
Il primo impatto del lettore con le tematiche della libertà economica, del
mercato, della concorrenza, dell’importanza dei diritti di proprietà, è quan-
to di più “soft” e meno traumatico si possa immaginare: l’autore fa iniziare
infatti questo viaggio con un excursus tra “favole moderne”: film per fami-
glie, serie tv di culto, addirittura cartoni animati. Come spiega lui stesso:
“Non c’è nessuna forma di snobismo alla rovescia, ma solo un’osservazio-
ne pratica. Per quanto si possa fare alta teoria, liberalismo e libertarismo
sono dottrine dettate dal buon senso. Alla fine trovano la loro vera ragion
d’essere nella realtà. E la realtà la capiscono tutti, come un film di Bud
Spencer e Terence Hill.”
Ma il buon senso è veicolato tra le persone semplici anche da tradizioni e
conoscenze ben più antiche del cinema e della televisione. In particolare, la
cultura popolare italiana è (per quanto sempre di meno, soprattutto tra le
nuove generazioni) intrisa di quel concentrato di buon senso che è rappre-
sentato dalla tradizione cristiana. Anche in questo caso, l’autore affronta al-
cuni esempi che qualunque assiduo frequentatore di Messe domenicali do-
vrebbe conoscere molto bene, ma che in molti casi è stato probabilmente
presentato e spiegato loro ribaltandone completamente il significato: forse
scoprirlo sorprenderà molti, ma come spiega bene Wilhelm Röpke nel libro
omonimo “in Vangelo non è socialista” (nonostante certa propaganda, tipi-
ca soprattutto degli ultimi decenni e caratteristica del “cattolicesimo demo-
cratico” italiano, abbia oramai fatto passare presso i più l’idea opposta).
Il libro si addentra poi nelle principali illusioni che caratterizzano alcuni
concetti (“gratuità”, “solidarietà”) e nelle conoscenze necessarie per evitare
errori concettuali molto diffusi (come quelli riguardanti il concetto di “ri-
sorse naturali”).
L’ultimo capitolo è dedicato ad alcuni episodi storici spesso non raccontati,
oppure malamente abbozzati o peggio ancora totalmente distorti nei libri di
scuola e nella divulgazione di massa: perché anche la storia della libertà (e
della sua negazione violenta) è un esempio di come il discorso su di essa
sia tutt’altro che “astratto". Anzi: non c’è nulla di più drammaticamente
concreto.
Spiegare la libertà utilizzando il cinema
L’epopea libertaria di Banana Joe
Il film Banana Joe fa parte di uno dei tanti filoni della commedia italiana
indirizzato ad un pubblico di bambini e famiglie, cosa sempre positiva. La
trama è semplice, piena di buoni sentimenti, debitrice del mito del buon
selvaggio, reinterpretato per la bisogna e ricucito sul simpatico Bud Spen-
cer, che è anche l’autore del soggetto. In breve, il classico film per famiglie
che nella semplicità e nell’economia di mezzi serve a far passare allegra-
mente un po’ di tempo. Sembrerebbe, quindi, uno di quei film che non han-
no nulla da dire, ma in realtà, ad un esame poco più attento, è in grado di
insegnare molto, in particolare sul rapporto fra individuo e società e su
quello fra individuo e stato.
Il protagonista è Banana Joe, che vive in una foresta commerciando bana-
ne. L’uomo è analfabeta, fatto importante, ma in grado di provvedere a sé e
di aiutare il prossimo, dato che provvede al sostentamento di alcuni bambi-
ni. Un individuo perfettamente integrato nella società in cui vive, che oltre
a lavorare per sé, dedica parte delle proprie risorse alla comunità da cui è
ricambiato dall’affetto. Nel villaggio in cui vive, lo stato non esiste e gli
abitanti sono lasciati a loro stessi. Lo stesso Banana Joe non possiede docu-
menti che testimoniano la sua nascita ed il suo piccolo commercio è ovvia-
mente fatto senza licenza statale.
Fermiamoci ad esaminare questa situazione. La prima cosa che possiamo
notare è che la società preesiste allo stato e semmai è lo stato che in qual-
che modo discende dalla società. Gli uomini nascono, crescono, amano, la-
vorano, commerciano, si organizzano in comunità anche senza che esista
uno stato qualsiasi che fornisca un qualche bene pubblico. Banana Joe an-
che senza documenti esiste e vive. E la sua mole è quasi simbolicamente
l’affermazione della voglia di esistere. Certo il film è cucito sul corpulento
personaggio di Bud Spencer, ma non è semplicemente casuale. Quando più
tardi, il buon Banana Joe si scontrerà con l’impiegato dell’anagrafe, come
si potrà negarne l’esistenza?
Il villaggio, nel cuore della foresta, vive e cresce nella mancanza dello stato
e i cosiddetti beni pubblici che dovrebbero essere forniti dallo stato, sono
forniti dal privato, ovvero nel film, da Banana Joe che con la sua barca tra-
sporta gratuitamente beni per la comunità. È indubitato che questa parte del
film è tributaria del mito del buon selvaggio creato da Cristoforo Colombo,
però rileva inconsciamente che la società preesiste allo stato e che può esi-
stere una società senza stato.
Dopo la parte iniziale del film in cui ci viene presentato il protagonista, si
passa alla parte in cui sorgono le sfide che l’eroe deve affrontare. E come si
presentano i problemi per il nostro eroe? Con l’appalesarsi dello stato natu-
ralmente. Dopo anni passati a commerciare banane, gli viene chiesto di
avere la licenza di commercio, oggetto misterioso per l’analfabeta Banana
Joe. Il commercio è semplice: vendere le banane in cambio di beni per sé e
per il villaggio. Cosa c’è da capire? Cosa è ‘sta licenza? Ci si rende conto
di come la nostra mente sia malata di statalismo? Per noi è naturale chiede-
re licenze, concessioni, sottostare a tutti una serie di cervellotiche assurdità
burocratiche, ma che c’entra tutto questo con il vendere banane? O con
qualsiasi attività economica? Le cose si producono e si vendono, tutto il re-
sto è semplicemente un sovrappiù. Quindi la prima comparsa dello stato nel
film, è per frapporre ostacoli al libero commercio di Banana Joe e la conse-
guente crisi del villaggio dato che il commerciante garantisce tutta una se-
rie di servizi alla comunità.
All’eroe bisogna imporre un nemico ed ecco comparire un gangster che
vuole impiantare una coltivazione di banane nell’idilliaco villaggio, con an-
nessa casa da gioco in cui riprendersi i soldi degli operai della piantagione.
Anche qui ritorna il mito del buon selvaggio, che vive nella semplicità e
nell’assenza del vizio rappresentato nel film dalla casa da gioco e con la ci-
viltà vista come distruttrice dell’idillio. In realtà non è proprio così e lo ve-
dremo in seguito.
Intanto pensate che il gangster si presenti con la violenza per impiantare la
sua piantagione e costruire la sua casa da gioco? Ma no, lui le licenze le
possiede e pretende che lo stato gli tolga dai piedi Banana Joe che si frap-
pone ai suoi piani. Ancora una casualità? Il delinquente che si fa forte dello
stato? O semplicemente una convergenza di interessi fra criminali, il predo-
ne singolo che si allea con il grande predatore statale contro la singola per-
sona che soccombe? Se si riflette, quante imprese italiane vivono grazie
agli appoggi statali più o meno palesi a danno delle persone?
Fortunatamente il film è a lieto fine e il nostro eroe raccoglie la sfida per
ottenere la sconosciuta licenza. Nel frattempo, Banana Joe, conosce un truf-
fatore che cerca di imbrogliarlo. Personaggio indubbiamente comico questo
delinquente, ma che alla fine sarà la salvezza di Joe. L’imbroglione rappre-
senta una sorta di Robin Hood, con la sua abilità nell’inganno, caratteristica
che gli permette di sopravvivere ai soprusi dello stato. Un’indicazione per
il cittadino italiano?
Vediamo qualche altro dettaglio della trama. Il nostro eroe cerca di ottenere
la licenza, ma ciò è impossibile perché lui non esiste all’anagrafe. Bellissi-
ma, ma realistica, la scena del rimpallo fra uno sportello ed un altro. Gli
viene consigliato di fare il servizio militare per ottenere l’iscrizione all’ana-
grafe: gli viene imposto di lavorare gratis per lo stato per un anno, per di-
mostrare che esiste! Ci si rende conto dell’assurdità? Come si fa a dire che
il corpulento commerciante non esiste? Fuggito dalla caserma, perché giu-
stamente non voleva stare lì, mentre aveva da attendere ai suoi commerci,
si presenta all’ufficio anagrafe. L’impiegato gli chiede il documento atte-
stante l’espletamento del servizio militare, al che il povero Joe non può che
mostrare l’evidenza della divisa che indossa. Perso il controllo per l’ennesi-
mo intoppo, il nostro eroe raggiunge l’ufficio del ministro, e impossessatosi
del timbro si mette a timbrare tutti i documenti che gli irritatissimi cittadini
gli sottopongono, giubilandolo come eroe: un tripudio di libertà. La vita di
tante persone bloccate da un timbro, o meglio dalla volontà di sopruso di
un politico, che non ha avuto nessun problema, dietro lauta tangente, a rila-
sciare tutte le licenze del caso, al gangster. Insomma, lo stato si pone come
tappo per le attività degli individui e chiede una tangente per toglierlo. Ba-
nana Joe, ovviamente finisce in carcere dove rincontra il truffatore che nel
frattempo con le sue innumerevoli amicizie è riuscito a fare ottenere la li-
cenza al commerciante. Ancora un riferimento all’Italia, dove per superare
gli inghippi burocratici è necessario rivolgersi all’amico giusto?
Usciti dal carcere, i due raggiungono il villaggio nella foresta dove ormai è
stata costruita la casa da gioco. Fedele al suo personaggio, Joe la demolisce
prendendo a pugni tutti i banditi. A demolizione avvenuta si presenta la po-
lizia, ma stavolta inviata dal presidente del paese alla ricerca del truffatore
per ringraziarlo. Il presidente è convinto che la moglie finalmente partorirà
un figlio maschio, grazie alle misteriose pillole procuratogli dal furbo im-
broglione. La polizia, non più guidata da funzionari corrotti, riconosce il
gangster come un pluriricercato e lo arresta. Una scena comica, ma che
spiega più di mille discorsi, è quella in cui il truffatore pensa di chiedere al
presidente come ricompensa, il ministero dell’economia e Banana Joe, stu-
pito, dice all’amico che un ladro non può diventare ministro. E il simpatico
imbroglione non che può che rispondere che Joe è proprio ingenuo. Si può
dire che l’unica figura statale positiva è il presidente credulone, che come
un vecchio sovrano concede il perdono al simpatico truffatore. Sarà un
caso? O forse come insegna lo studioso Hans-Hermann Hoppe le monar-
chie non erano poi tanto male? Dopotutto se in Italia il fascismo non è stato
totalitario, fu grazie alla presenza della Monarchia e della Chiesa.
Un’ultima nota, il personaggio femminile. Come ogni eroe che si rispetti
anche Banana Joe deve avere la sua bella. Sempre per rimanere nel filone
dei buoni sentimenti, la bella è la pupa del gangster, che Banana Joe in
qualche modo redime. Il trionfo dei buoni sentimenti, ma il film piace pro-
prio per quello. Interessante, il fatto, che la bella rimane nel villaggio per
diventare la maestra dei bambini protetti da Joe e ovviamente di Joe stesso.
Qui c’è una grossa differenza da evidenziare: la civiltà portata dallo stato è
quella del vizio di cui è promotore il gangster, mentre il privato sotto le bel-
le forme della maestra porta un po’ di cultura senza imporre niente. Da una
parta prepotenza, corruzione e vizio, dall’altra una scuola all’aperto per tut-
ti. Che bella differenza! Questa ci riporta alla mente la colonizzazione,
quando a grandi linee, il privato sottoforma di Chiesa agiva in modo più o
meno corretto, mentre quando agiva lo stato iniziava lo sfruttamento.
Più forte ragazzi, ovvero dei monopoli e dei diritti di proprietà
Ci soffermiamo su un film che questa volta vede in coppia Bud Spencer
con Terence Hill. Qualcuno potrebbe trovare curioso il soffermarsi su film
comici o “leggeri” secondo altra definizione per spiegare concetti inerenti
la politica o l’economia. Non c’è nessuna forma di snobismo alla rovescia,
ma solo un’osservazione pratica. Per quanto si possa fare alta teoria, libera-
lismo e libertarismo sono dottrine dettate dal buon senso. Alla fine trovano
la loro vera ragion d’essere nella realtà. E la realtà la capiscono tutti, come
un film di Bud Spencer e Terence Hill.
Questo film ci mostrerà in modo semplice i danni provocati dai monopoli e
l’importanza di diritti di proprietà certi e non soggetti a vincoli arbitrari e di
come questi influiscono in maniera determinante sullo sviluppo economico.
I nostri eroi sono due provetti piloti che “arrotondano” imbrogliando le as-
sicurazioni facendo precipitare aerei già da rottamare. È abbastanza curio-
so, che la coppia di attori per quanto faccia film per famiglie, spesso inter-
preta ruoli di furfanti, buoni si, ma sempre al limite della legge e qualche
volta oltre. I film della coppia sembrano attraversati da una forma di ideo-
logia anarchico-individualista, in cui i protagonisti sono gli individui e non
lo stato. I problemi non vengono risolti da qualche potere statale, ma dall’a-
zione dei due protagonisti che spesso agiscono soli contro il cattivo di tur-
no. L’individuo al centro e il potere statale visto come corrotto o come inef-
ficiente. I due attori hanno fatto tanti film con svariati ruoli, interpretando
anche ruoli di poliziotti, quindi per amor di precisione, specifichiamo che
non tutti i loro film sono pervasi da questa idea anarchico-individualista.
In uno dei tanti voli truffa, i due piloti, Salud(Bud Spencer) e Plata(Terence
Hill) precipitano veramente nella giungla e cercando di uscirne fuori, sco-
prono una comunità di minatori sfruttata dal cattivo di turno. Il fatto rile-
vante è che il bandito ha il monopolio nell’acquisto dell’oro e quindi fissa il
prezzo che vuole ed i poveri minatori devono sottostare al prezzo sotto mi-
naccia delle armi. Ma oltre a questo, il cattivo, ha il monopolio delle forni-
ture per la comunità di minatori: la zona è isolata e non ci sono altri vendi-
tori. Anche in questo caso il criminale impone i prezzi che più gli aggrada-
no, praticamente riprendendosi quanto pagato ai minatori. Questo episodio
mette bene in evidenza i danni di un monopolio: i prezzi sono fissati dal
venditore e non c’è nessuna spinta all’innovazione. Quale interesse può mai
avere la banda di criminali, per esempio, per ridurre i costi di trasporto?
Tanto il guadagno è assicurato senza tanta fatica. Perché sforzarsi quando è
così facile alzare i prezzi dei prodotti e scaricare le proprie inefficienze su-
gli altri che sono costretti a inventarsi qualcosa per sopravvivere? Qualcuno
potrebbe obiettare che si tratta di un monopolio basato sulla forza delle
armi, ma è facile rispondere che agli effetti pratici un monopolio legale è la
stessa cosa. O ci sia un brutto ceffo con pistola a fermare un concorrente o
un funzionario dello stato, a livello pratico non cambia nulla per chi è sog-
getto a quel monopolio. Bisogna precisare che per monopolio non si inten-
de tanto la presenza di un unico operatore in un mercato, che può essere
una situazione temporanea legata a fatti contingenti, ma soprattutto la pre-
senza di barriere all’entrata che impediscono ad altri operatori di entrare in
quel specifico mercato. Un esempio era il monopolio statale delle sigarette.
L’esistenza di un unico operatore era legato ad una disposizione di legge ed
i famosi contrabbandieri, operatori concorrenti di fatto, venivano arrestati.
Se ci pensate, cosa facevano i contrabbandieri di sigarette, se non creare
una rete di distribuzione concorrente a quella dello stato? Però venivano ar-
restati bellamente.
Vista la situazione, i nostri eroi cosa fanno? Rimettono in sesto un vecchio
aeroplano e intraprendono un redditizio commercio con i minatori offrendo
prodotti a prezzi più bassi rispetto a quelli offerti dal criminale, rompendo
così il monopolio e l’isolamento della comunità. Quando i due vengono
scoperti, i criminali reagiscono bruciando il loro punto di smercio e il loro
aereo. Anche qui, quale è la differenza fra i sigilli di un funzionario dello
stato e l’incendio dei criminali? Per gli acquirenti il danno è lo stesso. Cer-
to non amando la violenza preferiamo i sigilli, però il risultato è lo stesso.
Nella guerra fra la coppia di piloti e la banda di criminali si inserisce un
vecchietto mezzo matto che aiuta i due. Tra i tre nasce amicizia e i due cer-
cano di realizzare il sogno dell’anziano riportandolo in città dove aveva
vissuto da giovane, ma muore nell’aereo che lo trasportava poco prima di
atterrare. Plata, scopre al collo dell’uomo una roccia di smeraldi, capendo
che i racconti del vecchio matto su una fantomatica maniera di smeraldi
erano veri. I due, felicissimi, cercano di entrarne in possesso, ma il funzio-
nario che deve effettuare le registrazioni del caso si fa corrompere dai cri-
minali e richiede ai due, come tangente, la metà della miniera. Salud e Plata
si rifiutano e finiscono in carcere da dove fuggono con il classico stile dei
film della coppia di attori. I due pensano al da farsi. Se vogliono sfruttare
legalmente la miniera devono cederne la metà, ma nello stesso tempo non
possono neanche sfruttarla clandestinamente perché rischierebbero di rile-
varne la sua esatta posizione e la perderebbero completamente. Il film ter-
mina con un divertente scambio di battute con Salud che dice: “Siamo ric-
chi, ma non abbiamo un soldo”. Di rimando l’amico, “Come il Matto”, ca-
pendo così la follia del vecchio, che aveva ceduto loro il pesante segreto.
Alla conclusione gli smeraldi rimarranno nel ventre della terra, senza arric-
chire nessuno. L’incertezza nei diritti di proprietà ha come conseguenza
proprio quella di disincentivare lavoro e investimenti. I due non possono
sfruttare la miniera per arricchirsi facendo lavorare altra gente, perché non
avendo certezza della proprietà non possono appropriarsi del loro giusto
guadagno, ma devono nella migliore dell’ipotesi cederne la metà al funzio-
nario corrotto. Alla fine non fanno niente. Esempio tipico sono quegli stati
dove domina la corruzione e il riconoscimento di un diritto è funzionale ad
altri interessi come descritto egregiamente nel film con la figura del funzio-
nario corrotto. Un altro esempio è una disputa per un’eredità che si protrae
per anni in tribunale. Chi investirebbe in una proprietà che da un momento
all’altro potrebbe essere riconosciuta appartenere a qualcun’altro? L’incer-
tezza della proprietà della miniera è un buon esempio di come l’incertezza
sui diritti di proprietà determini un forte disincentivo agli investimenti.
L’esempio di Salud e Plata permette di capire anche come una forte tassa-
zione sugli investimenti, mobiliari o immobiliari che siano, riduca gli in-
centivi a lavorare. Se a priori so che il mio investimento per la forte tassa-
zione mi frutterà poco o nulla o peggio mi darà un rendimento negativo,
cosa mi spaccherò a fare la schiena? Lavorerò poco, guadagnerò poco e
non investirò, così non pagherò tasse. Qualcuno, più fortunato, potrebbe
continuare a lavorare per poi investire all’estero dove la tassazione è più fa-
vorevole.
Un altro esempio non perfettamente attinente, ma che spiega in maniera
semplice come la difficoltà o l’impossibilità di appropriarsi del frutto del
proprio lavoro disincentiva il lavoro è quello che avviene con gli straordi-
nari. Essendoci una tassazione molto progressiva, quel reddito in più viene
tassato ad un’aliquota così elevata, che il compenso orario delle ore straor-
dinarie è inferiore a quello delle ore normali. Alla fine si rinuncia a lavorare
perché è qualcun’altro, lo stato, che si appropria del nostro lavoro.
L’A-Team, quando la protezione è in concorrenza
“Lunghi periodi di pace favoriscono la
convinzione che l’inviolabilità del domici-
lio si fondi sulla Costituzione, che di essa si
farebbe garante. In realtà l’inviolabilità del
domicilio si fonda sul capofamiglia che, at-
torniato dai suoi figli, si presenta sulla por-
ta di casa brandendo la scure”
“Trattato del ribelle”, Ernst Jünger
L’A-Team è un vecchio telefilm degli anni ottanta in cui quattro ex militari,
ricercati dalla giustizia, si dedicano a raddrizzare i torti, chiamati di volta in
volta dalle persone in difficoltà. A distanza di anni, sembra un po’ ingenuo
e quello che era un successo, ora è poco più di un programma per nostalgi-
ci, anche se qualche anno fa ne hanno ricavato un film blockbuster.
Volendo guardare la storia da un punto di vista un po’ diverso è possibile
chiedersi, sfrondando i particolari, cosa fa in fondo l’A-Team: è semplice-
mente un gruppo di persone specializzato in servizi di protezione che viene
chiamata da privati, per sopperire alle inefficienze della polizia o a volte
alla corruzione della stessa. In breve, l’A-Team è una sorta di giustiziere
che difende i più deboli, ma allontanandosi un attimo dalla morale sempli-
cistica, ci si avvede che il motivo dell’esistenza del gruppo è l’inefficienza
dello stato nello svolgere il compito di protezione dei cittadini. Quando una
persona o un gruppo di cittadini subisce violenze e non riesce ad essere aiu-
tato dallo stato, ricorre all’A-Team. I membri della squadra sono ex militari
con varie attitudini e capacità, dallo stratega, al pilota, allo specialista in
armi, alla spia. Ognuno è un esperto nel proprio campo ed è la loro forza,
potremmo dire competitiva, rispetto allo stato, i cui militari e poliziotti
sono dotati di un addestramento generico.
Nella sigla iniziale si racconta che i quattro ex-militari sono stati accusati
ingiustamente di un crimine e per questo ricercati dalle forze dell’ordine e
dall’esercito. Nello svolgere delle varie puntate del telefilm, viene il fonda-
to sospetto che la “guerra” fra stato ed A-Team sia dovuto più a motivi con-
correnziali che non di giustizia. I quattro eroi mettono in dubbio il monopo-
lio della violenza dello stato che non volendolo perdere, li perseguita. In
fondo, l’accusa ingiusta, sembra più una scusa per eliminare un concorren-
te, piuttosto che la naturale persecuzione di un crimine. L’A-Team riesce
sempre a sfuggire a militari e poliziotti, chiaramente per esigenze di copio-
ne, ma anche perché ha la solidarietà delle persone a cui ha risolto i proble-
mi. Una persona minacciata dal crimine, che viene salvata dai quattro, non
denuncerà mai i propri salvatori ed immaginate anche quale possa essere la
fiducia che ripone nella polizia se ricorre all’A-Team.
Sicuramente si tratta della classica storia dei buoni contro i cattivi e quindi i
problemi che devono affrontare i nostri eroi non sono di semplice soluzio-
ne, ma permane il fatto che l’A-Team va a sopperire all’inadempienza dello
stato. In una puntata, per esempio, il problema è il racket, tipico compito
che deve risolvere la polizia. La trovata che i membri dell’A-Team siano ri-
cercati, è stata una semplice esigenza scenografica per rendere più affasci-
nante e più dinamica la storia, però rende evidente il concetto di agenzie di
protezione in concorrenza. Il gruppo è una di queste e lo stato cerca di com-
batterla, perché l’affermarsi di agenzie di protezione private metterebbe in
crisi il suo monopolio. Lo stato è tale, perché ha il monopolio della violen-
za su un territorio, tutto il resto delle funzioni non lo determinano, per
quanto a parole si possa dire il contrario. Pensate alla varie funzioni statali;
a fianco degli ospedali pubblici possono esistere quelli privati, ma a fianco
della polizia non può esistere una polizia privata. Non consideriamo i vigi-
lanti che come indica il termine non sono poliziotti. Ma ancor di più, pensa-
te alla difficoltà di dimostrare la legittima difesa. Se la si guarda da un altro
punto di vista, cosa turba lo stato, se il cittadino ammazza un ladro nella
sua casa? Se si riflette, ci si accorge che un atto del genere mina le basi del-
lo stato. Se il cittadino è in grado di difendersi da solo, perché dovrebbe
esistere lo stato? Per tutti gli altri servizi è più o meno evidente la capacità
del mercato di fornirli. Anche per la giustizia, esiste l’arbitrato o l’attuale
mediazione o se torniamo al passato possiamo citare la medievale Lex Mer-
catoria che è una forma di diritto creato dai privati per la gestione dei com-
merci.
Oltre a queste considerazioni, lo stato si regge sulla coercizione che si
esplica in vari modi, ma quello più evidente è il prelievo forzoso di parte
del reddito dei cittadini-sudditi. Questo può avvenire e non possiamo affer-
mare il contrario, solo perché lo stato ha il monopolio della violenza: come
posso, io cittadino, oppormi alla volontà dello stato? Dopotutto alcuni stu-
diosi volendo identificare i prodromi della nascita dello stato moderno cen-
tralista e accentratore citano lo scioglimento, da parte del re francese Luigi
il Bello, dell’Ordine del Tempio. Il problema qual era? Al di là della volon-
tà più o meno storica d’espropriare le ricchezze del Tempio, il re non pote-
va tollerare che sul suo territorio ci fosse un esercito che non rispondesse ai
suoi ordini, o in altri termini che ne mettesse in dubbio il monopolio della
violenza. La nascita degli stati moderni è la lotta per l’affermazione del
monopolio della violenza su un territorio. Nel medioevo il re doveva ele-
mosinare soldati dai suoi feudatari per andare a fare la guerra, altrimenti
aveva solo i suoi soldati personali, cosa ben diversa dallo stato centralista
moderno, dove c’è un unico esercito.
L’A-Team mette in evidenza come lo stato tema i concorrenti sul suo terri-
torio. Se lo stato tollerasse il gruppo, dovrebbe farlo anche per altre agenzie
di protezione e conseguentemente dovrebbe ammettere la sua impotenza
nel compito fondamentale che lo definisce. In breve, si trasformerebbe in
una delle tante agenzie di protezione in concorrenza, non avrebbe più il
monopolio e non potrebbe contare per il suo sostentamento sul prelievo
coercitivo delle ricchezze dei suoi cittadini, ma solo sulla capacità di assol-
vere i suoi compiti.
La ballata antistato di Bo e Luke
Un altro vecchio telefilm dei primi anni ottanta, The Dukes of Hazzard, in
italiano semplicemente Hazzard, ha come protagonista una famiglia che
vive nelle campagne del Sud degli Stati Uniti e gioca sui vari stereotipi dei
campagnoli del sud. Questi ultimi, negli USA, vengono etichettati redneck,
letteralmente colli rossi, in riferimento al fatto che chi lavora in campagna
ha il collo bruciato dal sole.
La serie è interessante sotto vari aspetti. Da un certo punto di vista rappre-
senta un po’ il vero spirito dell’America, quello della frontiera, un po’ sel-
vaggio e molto libero. La storia vede la sfida continua fra la famiglia Duke
e amici contro il cattivo del caso, J.D. Hogg, detto “Boss” che ha la fonda-
mentale caratteristica di rappresentare l’autorità pubblica nella fantomatica
contea di Hazzard. È notevole l’associazione del cattivo con l’autorità sta-
tale. Vero che Boss Hogg è poco più di un imbroglione senza scrupoli, ma è
riuscito a farsi eleggere sindaco della contea e la locale polizia è ai suoi or-
dini. In breve, c’è una totale identità fra rappresentati dello stato e cattivi di
turno. La storia è piuttosto semplice: c’è il vecchio Boss Hogg che cerca
mille modi, per lo più disonesti, per arricchirsi e i fratelli Duke che puntual-
mente gli rompono le uova nel paniere.
Nel telefilm esiste una voce narrante che commenta i vari episodi e in uno
di questi vengono raccontate le origini della famiglia. I Duke distillano al-
cool da duecento anni, da prima che nascessero gli Stati Uniti e rivendicano
di poterlo continuare a fare senza pagare le tasse. Il vecchio zio Jesse è co-
stretto a firmare un accordo con il governo degli Stati Uniti, rinunciando
alla distillazione, in cambio della libertà condizionata per i nipoti Bo e
Luke, costretti da quel momento a non portare armi. La storia dell’accordo,
per come viene raccontata, fa sembrare la famiglia Duke una sorta di entità
autonoma che tratta con il governo federale. Il vecchio patriarca per ribadi-
re la sua autonomia dal governo federale, rifiuta la pensione che gli spette-
rebbe e a volte per poter mangiare è costretto a mandare a caccia i suoi due
nipoti, che non potendo portare armi si arrangiano con degli archi. Un
esempio di coerenza.
La serie televisiva fa molti riferimenti ai confederati, incominciando dalla
mitica auto dei due cugini, chiamata Generale Lee, con la bandiera confe-
derata dipinta sul tettuccio e con il clacson con le prime note di Dixieland,
canzone popolare quasi inno del sud, al nome completo del cattivo, Jeffer-
son Davies Hogg contenente il nome del presidente della confederazione:
Jefferson Davies. Per poi continuare con la jeep che Daisy Duke, cugina dei
due protagonisti, utilizzerà da un certo punto in poi nel telefilm, con la
scritta “dixie” stampata sul lato del cofano motore, al nome completo di Bo
che è Beauregard, in onore del generale confederato Pierre Gustave Toutant
de Beauregard, per finire con lo stesso zio Jesse che somiglia al generale
Robert Edward Lee anziano. Insomma il telefilm è una sorta di omaggio
alla cultura del sud degli Stati Uniti d’America.
La battaglia dei sudisti è diventata un mito per la cultura libertaria, perché
in fondo quello che rivendicavano gli stati confederati era il diritto di seces-
sione, mentre gli stati del nord avevano un’idea centralistica della federa-
zione. Poi si sommavano motivi economici che per il nord industriale era il
protezionismo, mentre per il sud agricolo la libertà dei commerci. Tra l’al-
tro, si potrebbe tracciare un parallelo con la riunificazione d’Italia e i danni
subiti dal sud agricolo per avvantaggiare gli industriali del nord. Quest’idea
del diritto di secessione ha chiaramente affascinato tutta quella cultura li-
bertaria, che del diritto di secessione dallo stato, anche individuale, ne fa un
fondamento.
Nel telefilm i caratteri libertari e antistatalisti sono accentuati e si va dalla
totale identificazione dello stato con il cattivo della storia a l’attività della
famiglia Duke, la produzione clandestina di alcool. Se si riflette, la produ-
zione clandestina di alcool è un reato di tipo fiscale, che disturba lo stato,
ma non è un atto che danneggia alcuna persona. Che il mio vicino produca
alcool in casa non mi danneggia minimamente e poi nel caso dei Duke si
tratta anche di una fattoria, quindi non c’è problema per immissione di fumi
o rischi di incendi verso terzi. Insomma non fanno male a nessuno, se non
sottrarre risorse allo stato, che mai come in questo caso è uno stato crimina-
le. In realtà, la grave colpa dei Duke e per questa l’inimicizia di Boss Hogg,
è quella di disturbare il commercio clandestino di alcool dello stesso Boss.
Immaginate il cortocircuito. Il criminale che “usa” lo stato per far fuori dei
concorrenti e portare avanti i suoi loschi traffici. E la realtà supera la finzio-
ne. Ognuno cerca il simile ed è attrazione fatale fra stato e criminalità.
I cugini Bo e Luke sono stati arrestati per il contrabbando di alcool e rila-
sciati con l’obbligo di non portare armi, altro tema caro ai libertari. Il diritto
di portare armi si sostanzia nel diritto all’autodifesa. Potersi difendere è l’u-
nico modo per non soccombere allo stato e fra i primi provvedimenti delle
dittature non a caso c’è il divieto di possedere armi. Come visto nel prece-
dente capitolo, lo stato esercita il monopolio della violenza su un territorio
e il diritto di portare armi mette in crisi questo monopolio. I cugini Duke
sopperiscono al divieto dotandosi di arco e di frecce a cui a volte legano dei
candelotti di dinamite, con i quali sforacchiano i pneumatici dei locali poli-
ziotti al servizio di Boss Hogg.
La serie inoltre è caratterizzata da inseguimenti spericolati in auto e da
un’atmosfera scanzonata un po’ per parodiare alcune abitudini che si attri-
buiscono popolarmente ai contadini del sud degli Stati Uniti. In epoca di
politicamente corretto come quella odierna, non sarebbe possibile che i pro-
tagonisti buoni possano guidare pericolosamente e infrangere i limiti di ve-
locità. E non parliamo delle cinture di sicurezza: immaginate i fratelli Duke
che salgano in auto e diligentemente si legano la cintura prima di fuggire
dallo sceriffo? Alla fine, anche quel correre in macchina senza limiti di ve-
locità è un inno alla libertà e alla responsabilità individuale. I cugini Duke
sono degli adulti, abili piloti, saranno ben in grado di decidere da soli a che
velocità andare. Da precisare che la guida spericolata dei cugini avviene in
campagna, quindi senza mettere in pericolo la vita altrui.
In Olanda, nella città di Drachten, la segnaletica stradale è stata abolita con
ottimi risultati nella riduzione degli incidenti stradali, perché si è riusciti a
responsabilizzare gli automobilisti che autonomamente riducono la velocità
in prossimità degli incroci. Senza dimenticare le autostrade tedesche ove
non esistono limiti di velocità ed è facile trovare auto che sfrecciano a due-
cento chilometri all’ora.
Un’ultima nota riguarda l’auto che il meccanico ripara e migliora continua-
mente, ovvero un’auto “truccata”. In Italia lo storico marchio Puma, pro-
duttore di auto in scatola di montaggio, ha chiuso nei primi anni novanta
per le difficoltà di omologazione e per inciso usava dei regolarissimi motori
Alfa Romeo.
I danni del Welfare State spiegato dai cartoni animati
Fra i tanti programmi televisivi, i cartoni animati, eccetto alcune punte di
politically correct da evitare con decisione, sono fortunatamente rimasti
l’unico mondo in cui i buoni sono da esempio e dove da “grandi poteri de-
rivano grandi responsabilità” ed alcuni, con il loro linguaggio adatto ai
bambini, riescono ad esprimere anche messaggi complessi.
Esempio di questi sono Zigby, una “zebra che vive felice su una isola lonta-
na” come recita la sigla, adatto a bambini di circa due anni e Jhonny Test,
che racconta di un ragazzino monello continuamente sottoposto a folli
esperimenti scientifici dalle due geniali sorelle. Le due serie, in un episo-
dio, hanno narrato una storia quasi identica, da sembrare versioni per spet-
tatori di età diversa della stessa trama.
Il protagonista Zigby o Jonnhy che sia, decide di diventare un supereroe e
di accorrere in aiuto degli altri. La cosa funziona con somma soddisfazione
del protagonista, ma dopo un po’ la storia prende una brutta piega e il pro-
tagonista viene chiamato in soccorso per qualsiasi motivo. Gli abitanti del-
l’isola di Zigby e quelli della cittadina di Jhonny si rivolgono ai supereroi
per qualsiasi motivo, anche banale, tipo salvare gattini o aprire barattoli di
vetro, e non per salvare delle vite. Bellissima e molto esplicativa, la scena
in cui Jonnhy Test ferma l’ennesimo treno impazzito e sbotta chiedendo ai
ferrovieri di dare finalmente una sistemata al traffico, senza aspettare il suo
intervento salvifico.
I due protagonisti sono esausti, non riuscendo più neanche a dormire per le
continue richieste d’aiuto. L’ovvia soluzione è che ognuno si assuma le
proprie responsabilità. Così Jonnhy simula la morte del supereroe e final-
mente i ferrovieri aggiustano il traffico ferroviario e i treni non si scontrano
più. In Zigby la soluzione è ancora più radicale: tutti supereroi ovvero re-
sponsabili di sé stessi. Sicuramente un messaggio positivo e un invito ai
bambini ad incominciare a pensare in maniera autonoma ed assumersi le
proprie responsabilità.
Ma siamo proprio sicuri che sia un messaggio rivolto esclusivamente ai
bambini? Nella figura del supereroe non intravediamo quell’entità invocata
da molti per risolvere tutti i problemi? Fuor di metafora, nella figura del su-
pereroe non vediamo lo stato che tutti accudisce e deresponsabilizza? A
volte capita di sentire disoccupati che affermano con veemenza: “è lo Stato
che mi deve trovare il lavoro”. Si è ben consci, che la situazione è difficile,
però c’è una grossa differenza fra chi aspetta che lo stato elargisca dall’alto,
come un vecchio sovrano che distribuisce prebende ai propri favoriti e chi
non aspetta e si muove, intraprende qualcosa anche sbagliando. Il rischio di
una mentalità deresponsabilizzante è evidenziata in forma eccelsa dai due
cartoni animati: le persone si fermano e lo stato-supereroe impazzisce. È
giusto tutto ciò?
Oggi, gli individui raramente pensano a tutelarsi, tanto in caso di licenzia-
mento c’è lo stato-mamma che provvede con cassa integrazione e prepen-
sionamenti e per la vecchiaia c’è l’Inps. Normalmente quegli stessi indivi-
dui avrebbero sottoscritto una pensione privata o investito in altro, ottenen-
do anche nelle peggiori dell’ipotesi, più di quanto possa garantire lo stato a
parità di soldi versati.
Altro aspetto negativo del welfare state è l’uccisione dei vincoli familiari e
di vicinato. Perché spendere soldi per i figli se in ogni caso si avrà la pen-
sione statale? Si arrangiassero, intanto ci si gode la vita. E il figlio porterà il
vecchio ingombro in un ospizio.
Ai bambini diamo dei bei messaggi sulla responsabilità, ma sarebbe utile
che anche gli adulti ritornassero ad essere responsabili.
Pippi Calzelunghe, la bambina libertaria
Dalla Svezia, paese socialdemocratico, ci giunge la storia di una bambina
del tutto anticonvenzionale: non va a scuola, si veste in modo strano e vive
da sola con un cavallo e una scimmietta. È da notare subito che la storia di
Pippi Calzelunghe è stata scritta quando a scuola era obbligatorio il grem-
biule e i vestiti ancora oggi possono essere una divisa, un po’ come capita
per gli accessori con simbolo aziendale di alcune società di consulenza e
non rispettare certi canoni serve a ribadire la propria individualità.
Nel racconto lo stato è rappresentato da due impacciati poliziotti e dalla
frustrata maestra; la forza armata e la scuola sono lo stato moderno, da un
lato la coercizione, dall’altro l’educazione al conformismo e alla sudditan-
za. La bambina, ovviamente, non poteva non confliggere con queste tipiche
figure del conformismo e dell’ubbidienza allo stato. In un episodio fa scap-
pare a gambe levate i poliziotti che vogliono portarla a scuola rendendo
evidente il suo vero nemico: lo stato. Gli antagonisti della bambina sono di-
pinti come stupidi e antipatici, ma non c’è solo quello. Al di là dei meriti e
della capacità dei singoli, l’organizzazione statale arrogandosi la gestione
della totalità, non può che fallire perché incapace di gestire i casi fuori l’or-
dinario proprio come Pippi Calzelunghe ed apparire ridicolo e impacciato.
Figura importante è il padre di Pippi, che di mestiere fa il corsaro, lavoro
non proprio statale e in aggiunta è una buona forchetta, quindi persona libe-
ra dalla dittatura del politically correct. La ricchezza di Pippi è un baule
pieno di monete d’oro che rappresenta un altro schiaffo allo stato. Non ban-
conote o monete emesse da una banca centrale, ma il ben più solido e con-
creto oro. Pippi vive in un universo dove lo stato non esiste neanche sotto-
forma di moneta.
In un episodio, recupera una barca affondata per ripararla e viene illustrata
un’altra lezione di anarcocapitalismo, il principio dell’homesteading, ovve-
ro l’acquisizione di un titolo di proprietà originario. La barca era affondata,
abbandonata e senza proprietario, potremmo dire allo stato di natura. Lei la
recupera, quindi non è più allo stato originario o naturale, perché ci ha ag-
giunto il suo lavoro. La barca ripescata è la barca affondata più il lavoro di
Pippi. Poi la ripara con i suoi amici ed è sua. Così, in una zona disabitata, i
primi abitatori con il loro lavoro acquisiscono a titolo originario un terreno.
È curioso che la storia di una bambina indipendente e fuori dall’ordinario,
nasca in uno paese come la Svezia, una delle patrie delle cosiddette “social-
democrazie avanzate”. Non si può non pensare che possa essere stata una
sana reazione ad un mondo conformista e statalizzato, in cui la libertà indi-
viduale è soffocata. Possiamo dire per fortuna che è esistita Pippi a correg-
gere l’educazione dei bambini svedesi. Emblematico il fatto che l’autrice,
Astrid Lindgren, quando spedì il manoscritto all’editore, si raccomandò di
non avvertire l’autorità dell’Assistenza all’Infanzia.
La storia di Calzelunghe è stata attaccata da pedagogisti ed educatori, as-
surta ad icona delle femministe e considerata prototipo del ‘68, ma è più
semplicemente un inno alla libertà. La vera autorità che viene messa in di-
scussione è quella dello stato, non quella degli adulti. La bambina ha un
amore sconfinato per il padre corsaro e vive da sola con il suo assenso e
non perché sia scappata da casa. Se parliamo dal punto di vista educativo,
l’unica autorità positiva è proprio quella del padre lontano, ma ben presen-
te. Murray N. Rothbard, nel suo libro “L’etica della libertà”, quando discute
fino a quando un figlio è sottoposto all’autorità genitoriali cita una battuta
che recita: “Fintanto che non è in grado di scappare di casa!”. Ovvero
quando è in grado di vivere autonomamente al di là di un preciso limite di
età. Pippi, nonostante l’età infantile è in grado di badare a sé, riuscendo
perfino a scacciare dei ladri e liberare il padre prigioniero dei pirati.
Lo stato, essendo una sorta di mamma per i cittadini non può che trovare il
contraltare nella figura paterna del capitano Calzelunghe, capace di capire
le straordinarie doti della figlia e di lasciarle vivere la sua vita di individuo
autonomo e non soffocandola irreggimentandola nel grande esercito statale
composto da tutti i cittadini. Non è un caso che Pippi sia orfana di mamma,
perché nelle società democratiche occidentali è il ruolo che si è arrogato lo
stato rispetto ai cittadini per mascherare il suo potere quasi totalitario sulle
loro vite.
Lettura libertaria dei Vangeli
Spunti liberali nei Vangeli
«Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a
Dio quello che è di Dio”» (Mt 22,22, episodio riportato anche in Marco e in
Luca).
Questo episodio dei Vangeli è comunemente considerato alla base della
dottrina della Chiesa in materia di rapporti con il potere politico e fonda-
mento dell’idea della divisione fra Chiesa e Stato. Molti ci aggiungono, er-
roneamente, la considerazione che il buon cristiano deve rispettare le leggi,
ma si vedrà che quest’ultima idea non è propriamente esatta. Qualunque
cosa si possa pensare di Gesù, non si può certo dire che fosse uno stupido, e
anche per sano pragmatismo non sfidava l’Impero Romano condannando i
primi cristiani alla morte e visto che a distanza di duemila anni la Chiesa
esiste e l’Impero Romano è sepolto dalla sabbia del tempo, si può ben dire
che ha avuto ragione.
Proviamo a soffermarci su questo passo. Dare a Cesare quello che è di Ce-
sare e a Dio quello che è di Dio. C’è la parte di Dio e la parte di Cesare, ma
la parte Dio non può essere data a Cesare. C’è un limite invalicabile che il
potere politico non può oltrepassare. Gesù non ha solo detto che Stato e
Chiesa devono essere divisi, ma anche che il potere politico non può pren-
dersi la parte di Dio, che poi tradotto in termini profani è la parte dell’uomo
e delle sue libertà, dato che l’uomo è a immagine di Dio. E parliamo gene-
ricamente di potere politico e non di stato, perché comunque l’autorità poli-
tica romana non è certo paragonabile ai moderni stati nazionali.
Un altro aspetto importante da chiarire della dottrina cristiana è che non af-
fatto vero che il buon cristiano deve sottomettersi a qualunque legge. Il pas-
so 5,9 degli Atti degli Apostoli è piuttosto esplicito: «Bisogna obbedire a
Dio prima che agli uomini». In base a questo principio i primi cristiani si
rifiutavano di prestare servizio militare per l’Impero Romano andando in-
contro al martirio. Nel Medioevo questo principio si completò nel cosiddet-
to diritto di resistenza ovvero nel diritto della persona a resistere al potere
illegittimo. Questo aiuta anche a capire qual’era il potere di scomunica del
Papa. In sé può sembrare un atto incapace di produrre effetti, ma in realtà
autorizzava chiunque a compiere qualsiasi atto contro lo scomunicato, sa-
pendo di non compiere peccato. San Tommaso afferma: «Chi uccide il ti-
ranno è lodato e merita un premio». Il diritto di resistenza, come evidente,
è cosa ben diversa da una generica sottomissione del buon cristiano alle
leggi degli uomini e attualmente si manifesta in una forma depotenziata nei
vari aspetti dell’obiezione di coscienza; precisiamo che l’obiezione essendo
riconosciuta dalla legge non è vera e propria resistenza.
In sintesi, il cristianesimo ci dice che lo stato non può invadere la sfera di
Dio, ovvero non deve superare i limiti delle libertà individuali ed inoltre
che ogni uomo ha il diritto di resistere a quelle leggi che giudica contro
Dio. Quando qualcuno afferma che le tasse oltre un certo limite sono ingiu-
ste e l’evasione in qualche modo giustificata non fa altro che invocare il
giustissimo diritto di resistenza. Purtroppo la Chiesa stessa è vittima del po-
liticamente corretto.
«Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi
servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro
due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che
aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri
cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri
due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca
nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il
padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che
aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore,
mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque.
Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel
poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai
consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buo-
no e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità
su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che
aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro,
che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura
andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli ri-
spose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho semina-
to e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai
banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli
dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha
sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello
che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e
stridore di denti»(Mt 25, 14-30)
La parabola dei talenti è interessante sotto molti punti di vista ed è piuttosto
evidente che il padrone della parabola è Dio. La prima cosa da mettere in
risalto, è l’ineguale distribuzione dei talenti, ovvero l’affermazione in for-
ma poetica che nasciamo diversi e ciò già costituisce un primo affondo a
tutte le teorie egualitariste. Poi si aggiunge che ognuno deve coltivare i pro-
pri talenti e otterrà i risultati proporzionalmente a ciò che ha ricevuto. Chi
non coltiva i propri talenti non riceverà nulla, anzi gli verrà tolto anche
quelli che ha. Ulteriore affondo alle teorie egualitariste. Siamo diversi alla
nascita, e in base al nostro impegno otteniamo risultati diversi nella vita.
Viene punito chi non fa niente, chi ha un talento e non lo mette a frutto. È
un chiaro elogio della laboriosità e una condanna della pigrizia. Non sem-
brano quelle tante vituperate virtù capitaliste? Ma ancora, non solo lo svi-
luppo del proprio talento, ma anche l’incoraggiamento all’intraprendere. Il
servo che seppellisce il talento non solo non mette a frutto ma è un pavido:
sotterra quell’unico talento per non perderlo. Un elogio al coraggio di intra-
prendere.
«Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di
nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li am-
maestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in
adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata
sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di
lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per met-
terlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a
scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il
capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra
contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito
ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ul-
timi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le dis-
se: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose:
“Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora
in poi non peccare più”»(Gv 8, 1-11)
Una prima precisazione: perché si parla di adultera e non di adultero? Al-
l’epoca la situazione della donna non era molto dissimile di quella che tro-
viamo oggi in Iran. L’adulterio maschile era tranquillamente tollerato, men-
tre per quello femminile c’era addirittura la lapidazione.
L’azione di Gesù è come sempre pregna di significati. In primis, una con-
danna della giustizia sommaria, poi un’attenzione alla condizione della
donna. A volte si accusa il cristianesimo di maschilismo e non ci si rende
conto di come fosse la situazione prima dell’avvento di Cristo. In questo
episodio c’è chiaramente attenzione alle donne e il tentativo di dare loro
pari dignità. Non si tratta semplicemente di non giudicare e di guardare ai
propri peccati prima di guardare quelli degli altri, come comunemente si
riassume la parabola dell’adultera. Il concetto si poteva spiegare in altro
modo, mentre scegliendo la storia dell’adultera il Vangelo sembra volersi
soffermare sulla condizione della donna.
Ma riflettiamo ancora. Una donna tradisce un marito e viene lapidata dagli
abitanti del villaggio. Una colpa privata diventa un reato, come se si trattas-
se di un ladro o un assassino. In fondo l’adulterio “danneggia” moralmente
chi lo subisce, ma non attenta né alla persona, né alla proprietà di alcuno e
la comunità non ne subisce un detrimento come può essere per il furto o
l’omicidio. Naturalmente Gesù invita a non peccare, ma sembra quasi in-
trodurre il concetto moderno della distinzione fra reato e peccato. Il reato è
sancito dalla legge ed è un qualcosa che danneggia la comunità, mentre i
peccati che non sono reato costituiscono un comportamento individuale,
deprecabile, ma che non danneggia gli altri. Si consideri che fino a trentan-
ni fa in Italia esisteva il delitto d’onore.
Tra le altre cose, nei Vangeli, si evidenzia quelle che all’epoca erano consi-
derate cattive compagnie di Gesù. Molte donne seguivano Gesù e ciò era
considerato scandaloso all’epoca; frequentava tutti, i pubblicani, ovvero gli
esattori delle tasse per gli occupanti romani, donne di malaffare e i suoi
stessi nemici, i farisei. Ciò per portare la parola di Dio a chi ne aveva più di
bisogno, però tutto questo insieme, sembra dare un immagine di tolleranza
per i comportamenti individuali.
Riassumendo, il nostro Buon Falegname introduce una sorta di parità fra
uomo e donna e prefigura il concetto della distinzione fra reato e peccato.
Naturalmente non si vuole affermare che il liberalismo sia sovrapponibile
al cristianesimo, o che il liberalismo è derivato dal cristianesimo. Ben altri
autori hanno discusso i rapporti fra liberalismo e cristianesimo e d’altro
canto prima di intraprendere una simile disanima sarebbe necessario defini-
re cosa si intende per liberalismo. Ci limitiamo ad evidenziare come nei
Vangeli siano presenti alcune idee forti, quali i limiti del potere statale,
l’antiegualitarismo, il valore dell’intraprendenza, la parità fra uomo e don-
na. D’altro canto la tesi weberiana di un’origine protestante del capitalismo
è ormai messa in discussione da teorie che invece la ritrovano nel pensiero
cattolico, in particolare nella scolastica ed in alcuni pensatori francescani.
Che Gesù fosse un po’ borghese? Dopotutto non era un artigiano?
«Ingiustizia e violenza degli stati e dei briganti.
4. Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle gran-
di bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non
dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal co-
mando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide se-
condo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l’ag-
giungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residen-
ze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Sta-
to che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione
dell’ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell’impunità.
Con finezza e verità a un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il
Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa
per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: “La stessa che a te
per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo
faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una
grande flotta”»
Sant’Agostino, La Città di Dio, libro 4°
L’onestà come valore di mercato: da virtù cristiana a virtù capitali-sta
L’onestà è sicuramente una di quelle caratteristiche che ci si aspetta da un
buon cristiano, ma raramente, nella mentalità comune, la si associa agli
operatori economici. Per esempio, normalmente si pensa ai venditori, nella
migliore delle ipotesi, come dei bugiardi e nella peggiore, come dei perfetti
imbroglioni. In questo modo si viene a creare un’etica per l’uomo comune
e un’etica per l’uomo dedito al commercio. Ha un senso, anche economico,
questa distinzione? Crediamo di no. Sicuramente questa distinzione non
esisteva nel Medioevo, quando il mercante aveva la stessa etica degli altri
cattolici. La virtù dell’onestà nell’età di mezzo si andava ad unire all’altro
concetto del buon nome o della buona fama. Il mercante era onesto non
solo per evitare le fiamme dell’Inferno, ma anche per avere una buona
fama, per non infangare il nome della famiglia ed anzi renderlo sempre più
rispettabile. L’importanza di appartenere ad una famiglia con un nome ri-
spettabile, non era solo un buon viatico per gli affari, ma era una necessità
tout court. Nel Medioevo, in cui l’analfabetismo era piuttosto diffuso, era
molto importante la parola data che risultava vincolante. Per esempio, l’e-
resia Catara che predicava l’inutilità dei giuramenti, minava alla base la
stessa civiltà occidentale. Se non era possibile giurare, come ci si poteva
impegnare reciprocamente, per qualsiasi interazione umana, dal vassallo
che prestava fedeltà al suo signore garantendogli di accorrere in sua difesa,
al semplice scambio di beni agricoli fra contadini? L’onestà, da virtù cri-
stiana diventava essenziale per gli affari del mercante: chi avrebbe mai fat-
to affari con un mercante di cui era nota la disonestà? L’onestà si trasforma
in una virtù capitalista, con buona pace di chi pensa tutto il male possibile
del capitalismo.
Ma l’onestà continua ad essere un valore “capitalista”? La risposta è piutto-
sto ovvia: si. Comprereste qualcosa da un operatore economico di cui è
nota la disonestà? Tra l’altro, l’onestà ha un suo valore economico ben defi-
nito che è il valore che si riconosce alla marca. Tutti o quasi compreremmo
una Ferrari ad occhi chiusi. Perché? Perché è un marchio affermato, ma
detto in altre parole, la compreremmo perché ha una buona fama, di auto di
qualità. Non ci aspettiamo di trovare difetti in una Ferrari, al contrario di al-
tre marche. Certo, nel concetto di marca c’è molto di più, che solo una buo-
na fama, c’è il concetto di stile di vita e di tutti un’altra serie di fattori più o
meno ponderabili che si possono trovare in un buon manuale di marketing.
Ma una marca avrebbe un valore se l’associassimo ad un’azienda disone-
sta? Non credo proprio. Quella virtù dell’onestà del mercante medievale
che si traduceva nella buona fama, la ritroviamo nel moderno concetto di
marca: non può esistere un’etica negli affari diversa da quella dell’uomo
comune. A lungo andare, se un operatore continua ad avere comportamenti
scorretti, quanto può durare nella comunità, prima che ne venga espulso?
Certo oggi il mondo è grande, non è il villaggio medievale, ma con i nuovi
mezzi di comunicazione forse è ancora più piccolo. Dopotutto se hanno li-
cenziato dei dipendenti per opinioni scritte su Internet, un operatore disone-
sto può farla franca per sempre?
Un esempio di onestà è una famosa multinazionale alimentare: Mc Do-
nalds. Si è cercato in tutti i modi di distruggerne la reputazione dicendone
di tutti i colori e sinceramente non si capisce il motivo di tanto odio, eppure
la società è ancora viva e vegeta. Questo perché, la società è più o meno
onesta: quando una persona si reca in un Mc Donalds si aspetta di trovare
del cibo più o meno decente ad un prezzo modico e nulla più. Nessuno si
aspetta dei piatti da gran gourmet o del cibo dietetico o biologico. Sempli-
cemente Mc Donalds vende cibo economico e non pretende altro, la gente
lo sa e non si fa ingannare da tante maldicenze che puntano a distruggerla.
Queste considerazioni generali hanno delle importanti conseguenze sul-l’i-
dea di creare nuove regole sempre più rigide per gli operatori di mercato.
Sono proprio necessarie, se il mercato fa fuori comunque l’operatore diso-
nesto? Qualcuno potrebbe obiettare sui costi che l’espulsione “naturale”
potrebbe comportare rispetto a quella ex-legge. Il discorso però può facil-
mente rovesciato: quanto costa imporre nuove regole a tutti gli operatori
per evitare i danni di pochi operatori disonesti? Il costo complessivo quale
sarà nei due casi? E poi siamo sicuri che regole più stringenti impediscono
l’agire dell’operatore disonesto?
Se pensiamo ai salvataggi delle banche, il messaggio che è passato è che
non si è puniti per i propri errori: gli operatori che hanno sbagliato con più
o meno malafede hanno ricevuto soldi pubblici.
L’idea, che debba essere la legge ad espellere l’operatore disonesto, parte
dal presupposto che gli individui non siano in grado di tutelarsi da soli e lo
stato-mamma li debba tutelare. Possiamo accettare questa prospettiva?
In conclusione, al di là dei costi da stimare c’è anche un problema di liber-
tà. Ammettendo che sia meno costoso imporre delle regole rispetto al natu-
rale decorso del mercato, siamo sicuri che non convenga sopportare quel
costo in più, in cambio di una maggiore libertà?
I cattolici e il censimento
Ogni dieci anni arrivano a casa i moduli da compilare per il censimento e
gli italiani per l’ennesima volta donano del tempo allo stato. Nei libri scola-
stici, dove si parla male del Medioevo, vengono prese come esempio di op-
pressione, le corvée, ovvero i servizi gratuiti che il servo della gleba dove-
va al signore. Sono passati i secoli, non siamo in un regime feudale, ci rac-
contano che siamo liberi, ma si continuano a svolgere compiti gratuiti per
un’entità chiamata stato che dovrebbe fare il nostro bene. Almeno nel Me-
dioevo il signore feudale aveva nome e cognome, ma ora è difficile poter
identificare un singolo colpevole. Possono essere i funzionari ISTAT? I
quattro milioni di dipendenti pubblici? Il politico? Cosa ben peggiore è che
siamo talmente immersi in una mentalità di tipo sovietico, da non renderci
conto delle corvée che subiamo e quando qualcuno ce lo fa notare facciamo
spallucce e pensiamo che sia giusto regalare tempo allo stato. Probabilmen-
te alcuni hanno tempo da perdere, per cui lo possono regalare senza pensie-
ro, ma per la gran parte delle persone il tempo è una risorsa preziosa e scar-
sa.
L’Italia dovrebbe avere la fortuna di essere un paese cattolico, almeno sulla
carta, perché come evidenzia lo scrittore Camillo Langone è ormai diven-
tata un paese protestante in cui la religione è ridotta a becero moralismo.
Così abbiamo sedicenti cattolici che idolatrano lo Stato o la Natura, dimen-
tichi del vero Dio, delle parole del Vangelo e pronti a scagliare la prima
pietra.
Come cattolici, la prima volta che sentiamo la parola censimento è al cate-
chismo e ci viene regalata una immagine piuttosto cruda del potere politico.
Strappare una madre in procinto di partorire dalla sua casa, costringerla ad
un viaggio faticoso e infine a partorire in una stalla non è proprio una bella
presentazione per il censimento. Chiaramente, se pensiamo che il Vangelo
sia una bella favoletta possiamo non occuparcene, ma dato che l’Italia si
considera ancora un paese cattolico, dovremmo prestargli fede e anzi, da
credenti, essere sicuri che sia ispirato da Dio. E se così è, la stessa scelta
delle parole o la sequenza dei fatti è significativa: se il Vangelo inizia con la
violenza disumana da parte dello stato, un motivo ci sarà. È piuttosto evi-
dente che il censimento viene visto come violenza assurda da parte dello
stato, che non si arresta neanche di fronte ad una donna incinta. Quello che
caratterizza il potere politico è la sua disumanità nel pretendere che tutti gli
uomini siano una sorta di marionette di legno da muovere a piacere e inter-
cambiabili tra loro. Così, deciso le modalità del censimento, non si ferma di
fronte all’assurdità di far intraprendere un viaggio ad una donna incinta. La
legge è legge e il singolo uomo si deve piegare alla volontà dello stato. Il
cristianesimo al contrario esalta ogni individuo nella sua diversità.
Sfugge il perché dell’acquiescenza di gruppi di cattolici nei confronti dei
continui abusi da parte dello stato. Al di là del censimento, in sé un atto mi-
nimale, ma che sommandosi ad una moltitudine di altri, ci porta ad essere
sotto il controllo totale dello stato, quello che preoccupa, è la totale accetta-
zione di ciò. Anzi, tanti benpensanti cattolici chiedono più controlli gridan-
do all’untore se un cittadino non rispetta le regole che siano fiscali o più
semplicemente burocratiche, totalmente dimentichi dell’insegnamento del
Vangelo. Per questi cattolici sembra che Gesù non sia venuto al mondo per
gli uomini, ma per difendere gli stati. Bisognerebbe ricordare cosa disse
Gesù sulla regola del sabato. Presso gli ebrei il sabato era il giorno dedicato
a Dio e non si poteva svolgere nessuna attività lavorativa. In un passo dei
Vangeli si racconta di come, i discepoli, in un giorno di sabato si misero a
raccogliere alcune spighe di grano per fame, attirandosi l’ira dei farisei che
urlarono alla regola violata. Gesù risponde citando l’analogo episodio del
re Davide, che addirittura aveva violato le offerte del tempio per sfamare i
suoi uomini, ma soprattutto dice: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non
l’uomo per il sabato!”(Mc 2,27). Parafrasando il Vangelo: è la legge fatta
per gli uomini o gli uomini per la legge? Bisognerebbe ricordarlo ai tanti
adoratori della costituzione, novello vitello d’oro. Nel precedente capitolo
si è già chiarito che il cristiano non è obbligato a sottomettersi ad ogni leg-
ge ed anzi è legittimato ad opporsi ad una legge ingiusta.
Concludendo, con il censimento continuiamo a svolgere le nostre corvée
per lo stato, a dare informazioni per essere controllati sempre più minuzio-
samente e i cattolici cosiddetti “adulti” ad idolatrare la Legge dimentichi di
Dio e degli uomini.
La libertà contro l’illusione
L’illusione della gratuità
Una delle tante sciocchezze che si raccontano, quando si parla di affidare ai
privati servizi attualmente gestiti dal pubblico, è che i prezzi finali per i cit-
tadini-consumatori sarebbero più alti. Normalmente si ribatte affermando la
maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, ma se si riflette in ma-
niera un po’ diversa, la giusta replica a chi rivendica l’economicità e addi-
rittura la gratuità della gestione pubblica è: ma come può essere qualcosa
prodotto gratis? Siamo in presenza di miracoli? Spieghiamo con un banalis-
simo esempio. Se c’è da costruire un muro, ci vogliono mattoni, malta e
manodopera: allora, come si fa a dire che se il muro è costruito dal privato
costa di più, mentre se a costruirlo è il pubblico costa meno? Il numero dei
mattoni che ci vorrà sarà lo stesso, così per la quantità di malta e il numero
di ore di lavoro. I costi sono una cosa ben ancorata alla realtà e non posso-
no esistere prodotti o servizi gratis. Ci possono essere produttori più effi-
cienti, ma nessuno è in grado di produrre gratis.
In estrema sintesi, quando si dice che il pubblico costa di meno al cittadino,
si vuole dire che, come al solito, paga qualcun’altro o meglio che i costi
sono occulti. La storia dell’acqua pubblica è emblematica con lo spaurac-
chio che il privato avrebbe alzato le tariffe. A parte che le tariffe sono co-
munque aumentate e gli investimenti non sono stati fatti, è abbastanza ov-
vio che se il privato doveva riparare o costruire nuovi acquedotti i soldi da
qualche parte doveva prenderli. E se non dalle tariffe, da dove allora? Può
darsi che il comune faccia pagare delle tariffe più basse, e ciò non è sempre
vero, ma è piuttosto evidente che le perdite di bilancio vengono ripianate
dallo stesso ente tramite i soldi prelevati dalle tasse. Tutto ciò è una grande
finzione: i soldi prelevati dalle tasse non sono soldi dei cittadini-consuma-
tori? Alla fine malta e mattoni bisogna comprarli e i lavoratori pagarli. Al-
lora, cosa cambia se non il fatto di vivere in una gigantesca illusione in cui
si pensa di pagare poco, ma in realtà si paga di più? Tra l’altro, bisogna ag-
giungere che mediamente il pubblico gestisce peggio del privato, per il
semplice motivo che spesso le società municipali vengono usate per piazza-
re i clientes dei vari politici. E credo che sia più che necessario dire la veri-
tà.
Qualcuno spera che spostando i costi dalle tariffe alle tasse siano i più ric-
chi a pagare, sempre succubi dell’invidia sociale, vero motore dello statali-
smo e di un solidarismo peloso. Sarà proprio così? Chi è in grado di dimo-
strare che la fiscalità incida di più su chi più ha? Poi si tira fuori la storia
dei poveri che non possono pagare l’acqua. Questo è un falso problema,
perché il comune o lo stato potrebbero fare una piccolissima cosa: pagare le
bollette dei più poveri senza distorcere l’efficienza produttiva creando cor-
ruzione e distruggendo ricchezza. Si confonde l’aiuto ai poveri con la ge-
stione in proprio, come se per dare un piatto di minestra ad un povero si do-
vesse comprare un campo di grano, un mulino, un pastificio e infine un ri-
storante. Non si fa prima a comprare il piatto di minestra dal ristorante?
Chiaramente nessuno ha interesse alle soluzioni semplici, perché i politici
hanno troppi vantaggi a gestire direttamente imprese ed enti vari per piaz-
zare i propri clientes, e gli stessi cittadini-consumatori hanno le loro colpe.
Alcuni sperano di diventare clientes, mentre molti altri si muovono mossi
dall’invidia. Un po’ come il famoso detto in cui il marito per fare dispetto
alla moglie si amputa gli attributi, così a molti non interessa di pagare tante
tasse e di avere uno stato che dire inefficiente è fargli un complimento,
l’importante è che si punisca chi ha successo. Agli italiani, l’idea che qual-
cuno si arricchisca costruendo e gestendo acquedotti, inorridisce più che
pagare tasse spropositate ed alimentare corruzione e ingiustizie.
L’equivoco sulla solidarietà
La solidarietà è un sentimento umano ed è sempre esistita l’assistenza ai
poveri, ma questo non significa che debba essere gestita dallo stato. In pas-
sato, esistevano le società di mutuo soccorso e gli enti caritatevoli che ga-
rantivano l’assistenza e non solo, ma erano anche occasione di socialità.
Per esempio, gli ospedali sono un’invenzione ecclesiastica. Lo stato ha di-
strutto tutto ciò per aumentare il controllo sugli individui ed incamerarne le
ricchezze. Chi invoca lo stato affinché si occupi di solidarietà, ha fonda-
mentalmente sfiducia negli uomini e una visione distorta della realtà. Come
si può pensare che lo stato, organismo burocratico, soggetto all’arbitrio del-
le logiche di potere, possa occuparsi di solidarietà è un mistero. È emble-
matico uno dei film della serie don Camillo, in cui in una delle scene, si di-
scute la suddivisione degli appartamenti di una casa popolare e si parla di
poveri della parrocchia e di poveri del partito, un modo elegante per indica-
re la spartizione fra le rispettive clientele.
È piuttosto evidente che i poveri continuano a rivolgersi alla Caritas o ad
altre associazioni laiche. Se lo stato effettivamente si occupasse di solida-
rietà perché continuano a sussistere queste organizzazioni caritatevoli? E
non si può dire che è questione di risorse, perché il bilancio dello stato ne
ha a sufficienza. Tra l’altro, in una situazione in cui uno stato espropria più
del 55% della ricchezza prodotta, volendo essere generosi, ed interferisce
sul restante 45%, l’esistenza stessa di organizzazioni caritatevoli che rie-
scono a raccogliere fondi è la dimostrazione che gli uomini sono molto più
solidali di quanto si pensa.
Si può anche citare Von Hayek per dimostrare, sotto un altro punto di vista,
la fallacia di un monopolio statale della carità. Essendo la conoscenza dif-
fusa ed impossibile da concentrare e gestire da un’unica organizzazione è
evidente che la carità di stato finisce per dimenticare una parte o potremmo
dire gran parte di chi ha bisogno. Se un individuo ha dei problemi, è molto
probabile che lo sappia il famigliare, il vicino di casa, ma è ben difficile che
ne possa venire a conoscenza il funzionario del comune o tantomeno dello
stato. Nei fatti, la gigantesca organizzazione statale dimentica i deboli e di-
ventando più grande finisce per occuparsi esclusivamente di sé stessa e del-
la sua sopravvivenza.
Chi crede nell’individuo non è contrario alla solidarietà, ma è solo contra-
rio che sia gestita dallo stato con la sua inefficienza e la sua volontà di far-
ne strumento di potere. In conclusione è lo stato che uccide la solidarietà e
trasforma gli uomini in homo homini lupus.
Un esempio di mistificazione anticapitalista
Figura 1 - Immagine trovata in Internet
In Facebook, motore di un gigantesco chiacchiericcio virtuale, circola un
po’ di tutto, dalla dotta citazione, alla barzelletta simpatica, alle battutaccia
da trivio, alle stupidaggini più insulse, agli insulti, all’incitazione alla vio-
lenza e al razzismo fino ai deliri di gente non tanto equilibrata.
Fra le varie cose che circolano, potete trovare l’immagine sopra riportata,
che cerca di denigrare il capitalismo e che si presta bene ad alcune conside-
razioni.
La prima, è che necessario riconoscere che gli statalisti hanno una certa at-
titudine alle trovate pubblicitarie, forse complici decenni di allenamento. Si
nota subito che la scelta dell’immagine non è casuale: cosa c’è di più invi-
tante di un riposino sotto un albero frondoso? Un invito al paradiso perdu-
to. Altra scelta accurata è la rappresentazione del “capitalista” come un
uomo dell’ottocento, che non può non ricordare l’immagine del ricco pa-
drone delle ferriere, grasso e avaro, una sorta di personaggio dickensiano.
Effetto ben diverso si sarebbe ottenuto usando come immagine del capitali-
smo, un guru come Steve Jobs o dei nerds come Bill Gates e Mark Zucken-
berg o il fascinoso Richard Branson, patron della Virgin, o il grande elusore
Bono Vox. Usando un personaggio simil dickensiano, invece siamo subito
portati a vederlo sotto una cattiva luce.
Altra considerazione è la grande mistificazione della realtà di cui sono arte-
fici e vittime gli statalisti di ogni tipo.
Nell’immagine in questione è evidente un equivoco di fondo: la natura non
fornisce beni e servizi. È sempre necessario l’intervento dell’uomo. Anche
la semplice raccolta di frutta, richiede il lavoro di ricerca e lo sforzo di rac-
cogliere con l’eventuale costruzione di attrezzi, dal semplice bastone ricur-
vo per piegare i rami, alla costruzione di cesti e scale. Il Paradiso Terrestre
dove tutto è gratuito non esiste.
La domanda da porsi è: chi è il proprietario dell’albero? L’omino con lo
sgabello non protesta quindi non è suo. È del demanio, ovvero dello stato?
Quindi l’omino con la tuba è legittimato a rivendicarne la proprietà? O è un
funzionario pubblico che pensa al nostro benessere dicendoci cosa è bene e
cosa è male. Sfugge agli statalisti di ogni colore che il capitalismo non può
sussistere quando vengono violati i diritti di proprietà. Senza la tutela di
quest’ultimi non esiste economia capitalista o meglio non esiste né econo-
mia né giustizia. L’essenza del capitalismo è lo scambio volontario, mentre
l’essenza dello Stato è l’esproprio, ovvero un atto coercitivo. Nell’immagi-
ne, non sembra che ci sia scambio, quello che si vede, è un banale espro-
prio dell’albero, ovvero un tipico atto statale.
Ultima considerazione: siamo proprio sicuri che il gabbiotto finale sia peg-
gio dell’albero iniziale? Il gabbiotto non potrebbe assolvere meglio la fun-
zione di proteggere dal sole rispetto all’albero? In fondo protegge dalla
pioggia senza rischi di fulmini. L’omino che prendeva il fresco, infine, paga
senza protestare e senza costrizione, non si vedono armi o minacce, quindi
valuta che il gabbiotto abbia un qualche valore o utilità per lui. In fondo, se
l’omino non prende lo sgabello e va a cercarsi un altro albero, significa che
tirare fuori i soldi per il gabbiotto è più economico. Concludendo, l’imma-
gine è un esempio di mistificazione ed eccetto il titolo potrebbe essere usa-
ta per rappresentare lo statalismo.
La legge come dogma
Oggi, in piena schizofrenia statalista, esiste il mito dell’inviolabilità della
legge, che va rispettata sempre ed in ogni caso, anche quando ripugna alla
coscienza. Per chi crede in questo mito, potrebbe essere utile il ripristino
dello ius primae noctis o il sacrificio del primogenito, così da verificare in
prima persona la fallacia dell’assunto.
Questa sorta di legge divina, nasce da una particolare interpretazione del
concetto di democrazia, in cui il parlamento essendo un’assemblea eletta
dal popolo, magicamente è in grado di esprimere la volontà popolare. Una
sorta di operazione teurgica dove i rappresentanti del popolo in contatto,
non si sa come, con i cittadini, riescono a distillarne la volontà ed emanare
le leggi corrispondenti. Chiaramente l’idea della volontà popolare è una
leggenda, né più né meno dell’esistenza del mostro di Lochness, e le leggi
sono emanate da un preciso gruppo di persone secondo la loro volontà, in-
fluenzata da problemi di consenso, dalla propria cultura, dalle ovvie maz-
zette, dalle pressioni ricevute, dalle simpatie e così via.
Si parlava di schizofrenia, perché da un lato abbiamo il mito dell’in-viola-
bilità della legge e dall’altro il totale disgusto per i politici. Come possono
convivere le due cose è veramente un mistero. Ci troviamo di fronte a quel-
lo che è un vero e proprio caso di schizofrenia collettiva. Si sente dire qua-
lunque improperio contro i politici e contemporaneamente dichiarare la più
totale fedeltà alla leggi emanate da quegli stessi politici. Se i parlamentari
sono tutti ladri e corrotti, come è possibile che le leggi da loro emanate sia-
no giuste e perfette? Durante le assemblee parlamentari, per caso, scende lo
Spirito Santo che illumina le poveri menti, da cui scaturiscono leggi perfet-
te e inviolabili? Solo nel caso dell’elezione del Papa scende lo Spirito San-
to ad illuminare le menti e il processo per cui le leggi debbano sempre esse-
re rispettate sembra mutuato da questo concetto. Così, politici vituperati,
magicamente, quando fanno una legge diventano una sorta di divinità. Se si
pensa, che lo stesso Papa usa con accorta moderazione il dogma del-l’infal-
libilità, applicandolo solo ad una piccolissima parte del suo operato, si in-
travede che i parlamenti si arrogano un diritto spropositato.
Altro dramma moderno è la totale sovrapposizione nelle menti delle perso-
ne del diritto con il diritto positivo, confondendo la giustizia con le leggi
emanate dallo stato, cose completamente diverse. In questo modo, se venis-
se abolito il reato di furto, diverrebbe giusto una cosa che aborre all’animo
umano in qualunque tempo e luogo. Adolf Eichmann ha basato la sua dife-
sa proprio affermando di aver solo rispettato la legge. La sovrapposizione
fra diritto e diritto positivo è recente e abolisce i regimi consuetudinari e il
diritto come scoperta di ciò che giusto. Se il sovrano fa le leggi, ovviamen-
te non è ne più soggetto, perché può emanare quelle che più gli aggradano e
così gli stati moderni ampliando a dismisura il concetto, hanno fatto coinci-
dere diritto positivo con il diritto e iniziando una propaganda di tipo parare-
ligioso in cui si dice di volta in volta che il parlamento o il dittatore di turno
interpreta solo la volontà popolare. Volontà popolare, fantomatica chimera
a cui si può far dire tutto e il suo contrario.
Il diritto di resistenza legittima il singolo ad opporsi ad una legge che ritie-
ne ingiusta e si potrebbe pensare che ciò possa condurre all’anarchia, ma è
vero il contrario. Quasi nessuno ritiene l’omicidio o il furto giusti. Quanti
di noi rubano al supermercato? Pochissimi, eppure sarebbe così facile e i ri-
schi di essere scoperti piuttosto bassi. Quello che ci blocca non è la paura
delle sanzioni previste dalle leggi, ma l’ovvio fatto che sarebbe ingiusto. La
società è ordinata dalla giustizia e disordinata da leggi arbitrarie.
Il trasporto locale, un esempio di welfare al contrario
Il trasporto locale è in gran parte sussidiato dalle pubbliche finanze, giusti-
ficando ciò con motivi quali l’isolamento di alcuni comuni e il sostegno
alla mobilità di fasce disagiate della popolazione. Una prima considerazio-
ne da fare è sul perché lo stato quando vuole erogare un servizio, lo debba
organizzare in prima persona, come se fosse in grado di svolgere mille e
più compiti e nel modo migliore possibile. Oltre alla presunzione di essere
in grado di erogare un servizio, persiste la suprema arroganza di pensare di
sapere cosa serve ai cittadini, o meglio di poterne prevedere le molteplici
esigenze. Nel caso in questione quante persone necessiteranno del trasporto
e a che ora. Il trasporto scolastico possiede quelle caratteristiche di prevedi-
bilità di orari e quantità da essere facilmente implementato, ma con le esi-
genze di trasporto dei lavoratori sorgono dei problemi. Non esistono più le
grandi fabbriche con turni ben definiti, che potevano dettare i ritmi ad
un’intera città. Oggi, le aziende sono piccole e il lavoro flessibile, in cui si
alternano picchi e traumatiche flessioni ed in più, molti lavoratori sono di-
sposti a spostamenti più lunghi pur di lavorare. Come è possibile prevedere
questi flussi? Una soluzione più semplice non potrebbe essere quella di far
detrarre integralmente i costi di trasporto ai lavoratori? I trasporti verrebbe-
ro organizzati da privati, per esempio con mini pullman a chiamata ed in
concorrenza o con altre soluzioni che la fantasia delle persone potrà trovare
e gli utenti potrebbero scaricare tutti i costi. E per i poveri come si fa? Si
danno semplicemente dei buoni trasporto da utilizzare come meglio credo-
no. Non più previsioni impossibili o mezzi pubblici vuoti o stracolmi ed
aiuto ai bisognosi.
Altre considerazioni meritano il problema della mobilità dei piccoli comuni
isolati. Negli ultimi decenni abbiamo assistito al trasferimento di quote cre-
scenti di popolazione dalle grandi città ai piccoli comuni dell’hinterland,
alla ricerca di una migliore qualità della vita. Spesso, chi sceglie un comu-
ne isolato, lo fa per il forte risparmio sull’acquisto della casa ed il prezzo
basso è giustificato dall’isolamento, mentre chi acquista una casa nel centro
di una grande città paga un prezzo esorbitante. Il mercato è equo e i costi
delle due soluzioni tendono ad equivalersi: risparmi sulla casa e spendi di
più in trasporti; paghi cara una casa e risparmi sui trasporti.
È necessario aggiungere che gli hinterland delle grandi città non sono sper-
duti comuni montani, ma spesso collezioni di confortevoli ville per proprie-
tari abbienti. Oltre a ragioni economiche, abitare in paese è diventata una
moda e spesso ci si trova a situazioni il cui costo abitativo è paragonabile a
quello del centro delle grandi città. In breve, molti piccoli comuni sono
confortevoli ricoveri per ricchi che lavorano in città. Volendo spiegare con
un esempio banale, si rischia di organizzare un servizio pubblico per quel-
l’unica volta che il Suv del benestante è in riparazione. Naturalmente nulla
contro i Suv, ma giusto per illustrare un concetto. Detto in termini più tec-
nici, la scelta di chi, abbiente, decide di acquistare una villa fuorimano rica-
de sulla collettività che finanzia il trasporto pubblico. Il pullman per i figli
del ricco viene pagato anche dal povero. C’è un trasferimento netto di ric-
chezza dal gruppo sociale più povero a quello ricco, perché la fiscalità ge-
nerale ricade su tutti ed i beneficiari sono in pochi. Spesso il welfare genera
queste contraddizioni perché parte dal presupposto di onnipotenza e onni-
scienza.
Lo stato è sempre esistito? L’8 settembre alla base del miracolo eco-
nomico italiano
Oltre a interessanti spunti storici, l’Italia stessa ha vissuto un breve periodo
di assenza di stato, quando con l’armistizio dell’8 settembre lo stato monar-
chico si è liquefatto. Le persone credono che senza lo stato non si possa vi-
vere, eppure gli italiani sono riusciti a sopravvivere alla cancellazione dello
stato italiano e all’occupazione di due eserciti stranieri. Lo stato è necessa-
rio agli individui o gli individui sono necessari allo stato?
Il disfacimento dello stato, con la fuga del re e la successiva perdita di terri-
tori viene indicato come causa della nascita difettosa della repubblica italia-
na, con la morte dell’idea di patria e dello scarso rispetto delle istituzioni da
parte degli italiani. Ci sarebbe, invece, da chiedersi quanto del miracolo
economico degli anni ‘50 e ‘60 sia dovuto al disfacimento dello stato e alla
conseguente cultura del darsi da fare che ne è venuta fuori. Forse, quella
tragica esperienza dell’8 settembre, ha insegnato agli italiani a non aspetta-
re che qualcosa di positivo potesse venire dallo stato, mantenendo una diffi-
denza di fondo per lo stato, ma rendendo ricca l’Italia. Non dimentichiamo
che le istituzioni repubblicane si pongono in continuità con quelle dello sta-
to fascista e non c’è un ritorno al precedente stato minimo liberale, ma la
conservazione dello stato socialnazionale con tutto il suo welfare e l’espan-
dersi dei controlli.
Certo, c’era l’entusiasmo della fine della guerra, ma quanto di quello spirito
del fare è stato influenzato dal disfacimento dello stato? Lo stato scappava
e gli italiani sono rimasti al loro posto a subire le conseguenze e in qualche
modo hanno dovuto fare. Questo intanto dimostra che si può vivere senza
lo stato. Non è che con la fuga del re gli abitanti di Roma sono stati anni-
chiliti; sarebbero stati meglio con il re? Non possiamo saperlo, ma è evi-
dente che si può vivere senza stato. Bisogna aggiungere che oltre al disfaci-
mento dello stato c’era l’occupazione straniera: una situazione veramente
drammatica. Gli italiani sono sopravvissuti pure all’inflazione causata dalle
AM-lire dell’esercito di occupazione alleato, finanziando di fatto un eserci-
to occupante. Si può ben dire che gli italiani di settanta anni fa sono stati
grandi.
Per il miracolo economico si invocano tante cause, sicuramente tutte vere,
dalla salvaguardia dell’industria del nord sviluppata tanto durante la guerra,
dal ritorno dei prigionieri italiani in Germania specializzatasi nelle fabbri-
che tedesche, dal piano Marshall, allo spirito di rivalsa e così via; l’elemen-
to non considerato è che il disfacimento dello stato ha fatto nascere sicura-
mente una diffidenza nei confronti dello stato, ma anche lo spirito di far da
sé senza aspettare aiuti dall’alto. Quanto del miracolo italiano è dovuto al
lavoro di tanti operai ed imprenditori che hanno lavorato senza l’ingom-
brante presenza dello stato? E quanto della stagnazione attuale è dovuta alla
presenza soffocante dello stato?
Anche la tanto deprecata arte di arrangiarsi, che nella sua versione negativa
è la capacità di sopravvivere mimetizzandosi con i vincitori scendendo a
compromessi, nella sua versione positiva è la capacità molto nobile di adat-
tarsi alle circostanze, la tanto deprecata flessibilità con l’aggiunta della ca-
pacità di costruire relazioni orizzontali che forniscono informazioni ed aiu-
to. Parliamo tanto di reti, ma l’arte di arrangiarsi non è anche l’arte di esse-
re in ascolto se si creano opportunità? Sembra esserci sempre un po’ l’odo-
re di qualcosa che sfugge alla legge, ma a ben vedere non si possono viola-
re le regole, altrimenti viene meno la rete di relazioni.
La conoscenza che aiuta la libertà
L’errato concetto di risorsa naturale
Nei discorsi comuni, spesso si domanda come mai stati ricchi di risorse na-
turali siano così poveri, facendo l’esempio di tanti paesi africani ricchi di
minerali industriali o preziosi, e altrettanto spesso si parla di esaurimento
delle risorse naturali: ma cosa sono queste risorse naturali? E come mai
paesi come la Svizzera, e in misura minore l’Italia, che non posseggono ri-
sorse naturali, sono paesi più o meno ricchi?
Nel senso comune le risorse naturali sono per esempio i minerali, il mitico
petrolio, il gas e così via, ma è giusto considerarli risorse naturali? A chi
parla di esaurimento delle risorse naturali, si risponde, di solito, che è l’in-
telligenza umana a rendere sfruttabili le risorse e che in futuro la stessa in-
telligenza ne potrebbe trovare delle nuove. Ai più, sembra una riflessione
ottimista per nascondere la realtà, ma soffermiamoci a riflettere. È l’uomo
che sfrutta le risorse naturali e senza di lui rimarrebbero dove si trovano,
inutilizzate. Pensiamo al meraviglioso petrolio. Centocinquanta anni fa si
conosceva, ma non si sapeva bene cosa farne: è diventato una risorsa im-
portante quando l’uomo ha trovato il modo di sfruttarlo. Anche alcuni effet-
ti di “strani” minerali come l’uranio si conoscevano, ma sono rimaste cu-
riosità fino alla seconda guerra mondiale, quando si è scoperta la fusione
nucleare.
Parlare di risorse naturali è improprio, una risorsa è tale solo se c’è l’uomo
che la considera tale. È l’uomo che scopre le risorse ed è l’uomo che le
sfrutta. Senza l’uomo non sarebbero risorse, ma solo materia inutile.
In soccorso di questa idea ci viene il diritto, con il principio dell’home-stea-
ding, ovvero il diritto di proprietà del primo che arriva, già citato nel capi-
tolo dedicato a Pippi Calzelunghe. Può sembrare una scelta arbitraria, in
realtà è dettata dal buon senso, perché in questo modo si tutela la scoperta e
gli eventuali investimenti per effettuarla. Il colono che arriva per primo in
una terra, ha effettuato una scoperta, ha rischiato, investito del suo. Consi-
derazione importante da fare, per ricollegarci al discorso sulle risorse natu-
rali, è che prima quelle terre non erano conosciute ed era come se non esi-
stessero. Il diritto di proprietà del primo colono va a tutelare propria questa
scoperta. Senza l’azione dello scopritore, le terre sconosciute o il filone
d’oro o una qualsiasi altra risorsa, sarebbero rimasti sconosciuti a tutti e
quindi non utilizzabili. É l’azione dell’uomo che rende possibile sfruttare
nuove terre e nuove risorse.
Anche la semplice raccolta è un’attività economica: se non c’è qualcuno
che va nel bosco a cercare e poi a raccogliere, funghi o castagne, sarebbero
rimasti lì a fornire cibo agli animali o a marcire. Eccetto la manna che cad-
de dal cielo per gli ebrei, non c’è nulla che ci viene fornito gratis dalla na-
tura. Provate a riscaldarvi in un bosco e vi accorgerete di quanto sia fatico-
so raccogliere e spaccare legna. Se pensate ai minerali e al lavoro in minie-
ra, per antonomasia uno dei lavori più duri, si intuisce che le cosiddette ri-
sorse naturali, non sono poi così naturali, ma bensì frutto della fatica del-
l’uomo. Tutto questo ci porta a dire che è l’uomo a definire le risorse, a
scoprirle, ad inventare nuovi metodi per sfruttarle e a faticare per sfruttarle.
Tutto ciò fa comprendere come mai, nazioni ricche di risorse “naturali”, ri-
mangono povere: mancano gli uomini capaci di sfruttarle. Poi se questo sia
dovuto alla corruzione, ad una mancanza di cultura imprenditoriale, all’in-
certezza dei diritti di proprietà, alle istituzioni pubbliche o quant’altro è un
problema che non riguarda la presenza o meno di risorse. Si capisce pure,
come mai la montagnosa Svizzera, povera di risorse, è uno degli stati più
ricchi.
Questo concetto era piuttosto chiaro ai nostri antenati che per descrivere il
luogo più bello lo hanno chiamato Paradiso, dalla parola iranica pardes che
significa giardino. Certo un giardino coltivato da Dio, ma pur sempre un
luogo coltivato e non una foresta selvaggia.
Si può concludere dicendo che le risorse naturali non esistono, ma esistono
sono le risorse umane.
Fine delle risorse?
Continuando la riflessione sulle cosiddette risorse naturali, ci si chiede
come possono essere quantificate, per capire quale attendibilità possono
avere le varie previsioni che le danno prossime alla fine. Per alcune di que-
ste, dovrebbero già essere terminate da un pezzo e dovremmo essere tornati
all’età della pietra. Il che, è piuttosto evidente, non è.
Le risorse naturali non esistono, se non quando è l’uomo a definirle tali, ci-
tando ancora l’esempio del petrolio che centocinquanta anni fa era un’inuti-
le poltiglia ed ora preziosissima risorsa, si può intuire come una stima del
totale delle risorse a disposizione dell’uomo è abbastanza aleatoria. Per pre-
cisione, tutti i numeri che ci vengono dati sono stime in base ai dati che
possediamo in un dato momento. Per esempio, fino a qualche anno fa non
sapevamo del petrolio in Basilicata. Oltre ai numeri dei vari depositi, si
ipotizzano quelli ancora da scoprire e potete immaginare che quest’ultimo
numero è quantomeno incerto. Tornando al problema della quantificazione,
come possiamo quantificare una risorsa se siamo noi a definirla tale? Il pro-
blema è proprio questo. Facciamo l’esempio del petrolio. Non troppi anni
fa il prezzo del barile era intorno ai 20$ e non rendeva conveniente l’estra-
zione in pozzi profondi o in zone disagiate tipo profondità marine e zone
artiche. A 100$ al barile si sono potuti mettere a produzione molti più pozzi
anche in condizioni meno vantaggiose perché i costi maggiori sono com-
pensati dai prezzi di vendita più elevati. Le risorse sono aumentate? Qual-
che anno fa c’è stato l’incidente della piattaforma nel Golfo del Messico
che ha evidenziato delle difficoltà nell’estrazione di petrolio a profondità
elevate. Quei depositi vanno inclusi nel computo globale? Alla fine sarà
una scelta legislativa a dire se si potrà continuare ad estrarre quel petrolio
ed accade la stessa cosa in Alaska dove gli ecologisti bloccano le trivella-
zioni. Li includiamo quei depositi? Può anche essere vero che al momento
non sono sfruttabili per motivi legali o tecnici, ma lo saranno anche in futu-
ro? Questo semplice esempio mette bene in evidenza i problemi che biso-
gna affrontare per stimare la fine delle cosiddette risorse naturali. Un ulte-
riore esempio ci è fornito dal prof. Bramoullé, che in una sua conferenza in
Torino citava la presenza di scisti bituminosi in Francia in quantità tale da
rappresentare una sorta di assicurazione per il futuro energetico della Fran-
cia. Stime diverse? In parte. Il problema degli scisti è che è ancora costoso
sfruttarli, ma se un domani grazie a qualche evoluzione tecnica o più sem-
plicemente perché altre risorse si esauriranno diverranno d’un tratto una
potente fonte energetica.
L’errore di tutte le stime sulla finitezza delle risorse naturali è che si stima
qualcosa che è indefinito. Senza volere essere disonesti è chiaro che in una
stima se inserisco gli scisti ottengo un numero, se non li includo ne ottengo
un altra. Chi sbaglia? Altro fondamentale problema è la tecnologia o più
genericamente l’inventiva umana. Ora dagli scisti si riesce a ricavare gas,
mentre qualche anno fa non era possibile. E domani chi ci dice che non ci
inventeremo qualcos’altro?
Un’ulteriore problema della stima sulla fine delle risorse è il lato dei consu-
mi. Chi aveva fatto la stima negli anni settanta aveva previsto il boom della
Cina e degli altri paesi emergenti? O la crisi del 2008 con un crollo di pro-
duzione e consumi? O trentanni fa si poteva prevedere l’uso di massa dei
condizionatori? Se guardiamo i consumi di acciaio negli ultimi anni notia-
mo un crollo superiore al 30% nel 2009, che è una variazione non da poco.
Anche la struttura dei consumi non rimane costante. Pensiamo ai cellulari,
ai computer, a tutti gli altri ammennicoli tecnologici e ai pannelli solari e
come abbiano fatto variare la quantità e varietà dei materiali utilizzati con
un’impennata dei consumi di silicio e rame. Se ipotizziamo un successo dei
lettori elettronici di libri, possiamo immaginare un crollo dei consumi di
carta e di conseguenza una maggior disponibilità di legno per altri usi. Ci
potrebbe essere una diminuzione del prezzo del legname e un suo maggior
uso nella produzione di mobili. Oggi possiamo ipotizzare tale scenario e
non sappiamo ancora quando si verificherà, ma qualche anno fa chi ci pen-
sava?
Un’ultima considerazione riguarda le risorse che hanno un ciclo di rinnovo
breve, che sono tutte quelle di origine animale e vegetale e l’acqua. Se pre-
leviamo un certo quantità di risorse, queste si rinnovano, ma superato un
certo limite mettiamo in crisi le capacità di rinnovo. Un esempio ci è dato
dal tentativo di limitare il pescato.
L’acqua ha un ciclo legato all’evaporazione e alle precipitazioni ed anche le
sorgenti tendono a rinnovarsi perché alla fine costituite dall’acqua piovana
che filtra nel terreno. Il problema dell’acqua è la potabilità ed è chiaro che
bisogna evitare di inquinarla. La moda attuale dell’acqua che la descrive
come destinata a diventare risorsa scarsa bisognerebbe valutarla con atten-
zione. Pensate cosa succederebbe se si dividesse il circuito dell’acqua pota-
bile da quello dell’acqua per servizi igienici. Un’operazione del genere, si-
curamente costosa e complessa, permetterebbe di moltiplicare l’acqua a di-
sposizione. Alcuni alberghi hanno già implementato qualcosa del genere,
usando l’acqua di scarico dei lavandini e delle docce, dopo un trattamento,
per innaffiare i giardini. A Parigi esiste un doppio circuito per l’acqua risa-
lente addirittura all’ottocento; in uno circola acqua potabile, mentre nell’al-
tro circola acqua presa dalla Senna e dal canale dell’Ourcq che serve al la-
vaggio delle strade parigine.
Tutto questo fa nascere seri dubbi quando si parla di fine delle risorse. Fare
stime del genere è utile a dare indicazioni nel breve termine, ma non può
costituire una base certa per decisioni a più lungo termine. L’uniche vere ri-
sorse sono il lavoro e l’intelligenza dell’uomo e ci si dovrebbe preoccupare
più del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione e non
della fine delle cosiddette risorse naturali.
Internet e il diritto di secessione
Attualmente, ogni suddivisione amministrativa dello Stato è di tipo territo-
riale, dal più grande al più piccolo, in una tipica struttura piramidale. Le
unità più piccole sono racchiuse in una più grande, principalmente per con-
tiguità territoriale: una provincia è costituita da comuni vicini e non da co-
muni situati, per esempio, in regioni diverse. Questo assetto è sicuramente
quello più semplice da implementare e in passato, forse, l’unico concreta-
mente realizzabile. Ma oggi, in presenza di una intermediazione sempre più
massiccia di informazioni tramite Internet, è ancora vero? Pensiamo alla
demateralizzazione dei servizi bancari e a quanto si sia ridotta la necessità
di recarsi fisicamente presso uno sportello bancario. Altro settore in cui
l’intermediazione di Internet è sempre più importante, è quella dei servizi
turistici, con la possibilità di prenotare viaggi, alberghi e interi pacchetti va-
canze, comodamente seduti in poltrona ed ottenendo un plus di informazio-
ni rispetto all’operatore tradizionale. Lentamente, anche l’amministra-zione
pubblica si adegua all’emissione di servizi, non più tramite uno sportello fi-
sico ovvero con una presenza territoriale, ma online.
A parte, che a volte ci si chiede cosa faccia esattamente un’amministra-zio-
ne pubblica, possiamo incominciare a pensare, se sussiste ancora la neces-
sità della piramide territoriale come suddivisione amministrativa dello stato
e più in generale degli attuali stati nazionali. Detto in altri termini e focaliz-
zandoci sulla realtà italiana, è proprio necessario che una provincia sia co-
stituita da comuni contigui? E lo stesso discorso vale per la regione.
Con l’attuale assetto amministrativo le provincie sono svuotate di ruolo a
favore di comuni e regioni. Come cittadino l’impatto principale è con il co-
mune, lo stato nazionale per le forze dell’ordine e giustizia e la regione per
la sanità. Ci si chiede, se non sarebbe possibile per un comune calabrese,
aggregarsi, per esempio, con la provincia di Trento. Per i servizi comunali
non cambierebbe nulla, se non forse adeguarli a standard più efficienti. Si-
curamente, il cittadino del nostro ipotetico comune calabrese si troverebbe
nella condizione di usare gli ospedali calabresi; e cosa impedisce alla Re-
gione Trentino Alto Adige di firmare una convenzione con qualche ospeda-
le e laboratorio calabrese, affinché il cittadino calabro-trentino usufruisca
dei servizi sanitari? Il discorso potrebbe apparire azzardato, ma se si accan-
tonano le inveterate abitudini, perché non sarebbe possibile? Di fatto, un
cittadino italiano che si sposta da una regione ad un altra usufruisce del ser-
vizio sanitario e le regioni poi procedono alle varie compensazioni. La ri-
scossione dei tributi non comporterebbe grandi cambiamenti e per l’ipoteti-
co cittadino calabro-trentino cambierebbe solo il numero di conto dove ver-
sare le tasse. Per le forze dell’ordine e i tribunali non cambierebbe molto,
se non la gestione di qualche dato in più con annessa comunicazione, che
con le moderne tecnologie non sembrerebbe insormontabile.
La parte più importante della gestione provinciale riguarda le strade provin-
ciali e gli edifici scolastici. Strade ed edifici insistenti sull’ipotetico comune
calabro-trentino passerebbero in carico alla provincia di Trento, che stipule-
rebbe un contratto con la provincia calabrese sulla suddivisione dei costi
per strade e scuole. Dopotutto anche adesso i ragazzi si iscrivono a scuole
fuori provincia, quindi non sembra un grosso problema. Anzi, questa condi-
visione forzata può stimolare nuove forme di gestione. Per esempio, la stra-
da provinciale invece che far nascere un contratto fra provincia calabra e
provincia trentina, potrebbe essere affidata in gestione ad una società priva-
ta, il cui compenso verrebbe suddiviso in proporzione alle due province. La
stessa cosa si potrebbe pensare per le scuole. Assumerebbero forma giuridi-
ca privata e potrebbero essere di proprietà pubblica o privata e incassereb-
bero le rette dalle due provincie. Gli edifici potrebbero essere affidati ad
una società di gestione o venduti e le varie provincie si potrebbero dividere
le spese in base al numero degli alunni di competenza.
Naturalmente queste sono alcune idee, ma altre potrebbero venire fuori da
un processo di destrutturazione territoriale. Altri servizi erogati dalla pro-
vincia potrebbero essere erogati online e quelli non erogabili online, po-
trebbero essere facilmente delegati al comune che lo farebbe dietro com-
pensazione. Insomma, si passerebbe da una situazione statica e mortifera ad
una ricontrattazione di tutti i servizi emessi dallo stato con un ampio utiliz-
zo delle tecnologie informatiche. Si potrebbe creare uno standard per lo
scambio delle informazioni tipiche di una amministrazione, per esempio
quelle anagrafiche, in modo che tutti i sistemi possano comunicare fra loro,
facilitando i processi di ristrutturazione territoriale. Peraltro, si sta già cer-
cando di standardizzare i dati delle amministrazioni pubbliche. Procedendo
nel discorso, ogni comune potrebbe contrattare con la provincia e la regio-
ne i vari servizi in base alla convenienza. Regioni e provincie entrerebbero
in concorrenza per accaparrarsi i vari comuni con il corrispettivo gettito,
gareggiando sulla qualità e i costi dei servizi, creando un loro sistema infor-
matico a cui aggregare il comune per mettere a disposizione i vari servizi
online. Una sorta di portale in cui i cittadini del comune convenzionato
possano accedere per ottenere i loro servizi. Quella che è una cittadinanza
territoriale, diverrebbe una cittadinanza contrattuale. È da considerare, che
uno dei due livelli amministrativi, molto probabilmente sparirebbe automa-
ticamente perché inutile.
Questo processo inizierebbe come ristrutturazione territoriale all’interno
degli stati nazionali, ma potrebbe avere uno sviluppo a livello interstatale,
con un comune che decide di secedere da uno stato e negozia l’adesione ad
un altro. Si pensi ai comuni frontalieri e alle polemiche che a volte sorgono.
Di un tratto tutto finito; ognuno aderisce allo stato che vuole, creando con-
correnza fra gli stati. Chi offrirà sconto di tasse, chi servizi migliori e così
via. Proseguendo ancora nel ragionamento e tecnologia avanzando, si pas-
serebbe dai liberi comuni che contrattano l’adesione con i vari stati non più
nazionali, al singolo cittadino che negozia con il comune la sua adesione.
Si può ipotizzare che più cittadini si uniscano insieme volontariamente per
costituire un nuovo comune, che in seguito contratta l’adesione ad uno sta-
to, più che ad un altro.
Un po’ di storia
Dal Boston Tea Party all’odierno Tea Party
Il 16 dicembre 1773, i coloni americani versarono le casse di tè di tre mer-
cantili nelle acque del porto di Boston, episodio considerato la scintilla del-
la guerra di indipendenza americana. Con quell’atto, giunse al culmine la
protesta dei coloni che si opponevano alla crescente centralizzazione del-
l’amministrazione inglese e all’aumento delle tasse. All’origine del diffuso
malcontento verso la corona inglese ci fu la Guerra dei sette anni (1756-
1763), considerata il primo conflitto di portata mondiale, perché le potenze
europee estesero le operazioni di guerra anche nelle loro colonie sparse per
il globo. Gli inglesi avevano contratto dei debiti e al termine del conflitto
avevano la necessità di ripagarli. Quale metodo più semplice per farlo, che
quello di mettere una nuova tassa? Sembra di ravvedere i politici attuali.
Nel 1765 venne istituita la tassa sul bollo, ovvero su l’utilizzo della carta,
dai contratti ai giornali, su ogni foglio bisognava pagare l’imposta. Ad ag-
gravare la faccenda, l’introito finiva a Londra, mentre fino ad allora i colo-
ni americani avevano pagato solo tributi alle amministrazioni locali. Dopo
una serie di proteste lo Stamp Act venne revocato. Rimanevano i debiti da
pagare e il sovrano inglese nel 1766 passò alla tassazione indiretta su carta,
piombo, vernici, vetro e tè.
L’anno successivo ci fu un attacco alle autonomie locali, con la creazione
di un apposito ufficio addetto alla riscossione alle dirette dipendenza di
Londra e con il passaggio del controllo di funzionari, magistrati e governa-
tori dalle assemblee locali a quello del governo londinese. Un vero e pro-
prio tentativo di esautorare le autonomie locali.
Nel marzo 1770 una ribellione fiscale scoppiata a Boston finì con la morte
di cinque coloni. I responsabili vennero puniti, ma si intuisce che il clima
era incandescente. Per protestare contro le nuove tasse, John Hancock ave-
va trovato il modo di aggirare il problema comprando tè dall’Olanda, evi-
tando di passare attraverso la Compagnia delle Indie che pagava le tasse al
governo inglese. Nel 10 maggio 1773 venne emanato il Tea Act che garan-
tiva il privilegio alla Compagnia delle Indie di smerciare il tè sul suolo
americano senza bisogno di intermediari locali. In questo modo il governo
inglese si garantiva un’entrata sicura, perché la compagnia poteva vendere
ad un prezzo dimezzato rispetto si suoi concorrenti che si rifornivano in
Olanda. Incominciarono le prime proteste con il respingimento delle navi
cariche di tè o con il rifiuto di trasportarlo una volta a terra. A Boston nac-
que un’associazione di protesta, i Figli della Libertà, guidata dall’intel-let-
tuale Samuel Adams. In uno dei loro incontri si contarono ben 8000 perso-
ne a testimonianza del malessere diffuso. Non si trattava di una banale bega
commerciale che opponeva commercianti delle colonie con quelli della ma-
drepatria. Era qualcosa di più: era una questione di principio. Da una parte,
gli americani che rivendicavano il diritto di decidere della loro vita tramite
la scelta di loro rappresentanti che dovevano dar conto di come impiegava-
no il denaro raccolto con le tasse, dall’altra, re Giorgio III che cercava di
centralizzare l’amministrazione delle colonie, scegliendo uomini che avreb-
bero dovuto rispondere a Londra e non ai cittadini americani, trasformati in
mucche da mungere per rimpinguare le casse dell’impero.
Nel dicembre dello stesso anno, alcuni uomini travestiti da pellirossa per
non farsi riconoscere, salirono a bordo di tre navi inglesi e svuotarono l’in-
tero carico di tè in mare: ben 45 tonnellate. Per risposta il governo inglese
decretò l’embargo della città di Boston. La sproporzione della reazione esa-
sperò ulteriormente gli animi. Nel 1775 scoppiava la guerra di indipenden-
za americana.
L’attuale movimento Tea Party, che tanto successo sta avendo negli Usa de-
terminando la vittoria dei repubblicani nelle elezioni di mid-term del 2010,
si ispira a quelle proteste. Il salvataggio delle banche operato da Bush e poi
da Obama con l’ovvia contropartita che ogni aumento di spesa corrisponde
prima o poi ad un aumento delle tasse è stata la scintilla della nuova prote-
sta. Obama ha proseguito con un programma socialista, con la statalizza-
zione della sanità che costerà 1000 miliardi al contribuente americano, che
si andranno a sommare ai 700 già spesi da Bush per il primo pacchetto di
aiuto alle banche e al secondo di 1000 miliardi stanziato dallo stesso Oba-
ma. Ormai il governo di Washington si avvia a diventare lo stato-mamma a
cui sono abituati italiani ed europei. Per un popolo che ha nella sua tradi-
zione una guerra per affermare la propria libertà, ciò è aberrante.
Si consideri, che per quanto si è voluto far passare l’attuale crisi come una
crisi del mercato, la realtà è ben diversa. L’origine risiede nella politica dei
bassi tassi praticati dalla Fed fra 2002 e 2006 per sostenere i prezzi di case
e azioni e dalle politiche pubbliche che imponevano la concessioni di mutui
facili per l’acquisto delle casa. Non bisogna dimenticare che al centro della
crisi ci sono state due banche parastatali, Fannie Mae e Freddie Mae, che
acquistavano in gran quantità titoli emessi da altre banche che offrivano in
garanzia i famigerati mutui subprime, trasformandosi in una sorta di ripuli-
trici del rischio altrui. I tea parties hanno accusato i governi di Washington
di prolungare la crisi agendo in questo modo: non si aiuta l’economia sal-
vando chi ha creato i disastri. Sono passati anni dall’inizio della crisi e an-
cora non se ne vede la fine. Hanno avuto ragione gli esponenti del Tea Par-
ty?
Concludiamo con la citazione del titolo di un saggio di Bastiat, “Ciò che si
vede, ciò che non si vede”. Gli aiuti si vedono e salvano dei posti di lavoro.
Le conseguenze che non si vedono è che quei soldi qualcuno li dovrà tirar
fuori, perché a meno di miracoli non crescono sugli alberi. E se il contri-
buente dovrà pagare per salvare le banche, non avrà soldi per comprare, per
esempio, un gioco in più al figlio, con perdita di posti di lavoro nell’indu-
stria del giocattolo ed è ciò che non si vede.
L’insorgenza vandeana, la vera rivoluzione europea
La Vandea è un dipartimento della Francia che in passato risultava più este-
so includendo parte dei dipartimenti vicini. Tale regione è nota perché tea-
tro di un episodio importante, ma poco noto della rivoluzione francese, che
merita un approfondimento.
Normalmente la storia viene spiegata come un dipanarsi di una matassa da
un inizio ad una fine, in maniera progressiva senza deviazioni o salti all’in-
dietro, eccetto forse per il Medioevo. Naturalmente le cose non stanno così
e solo per esigenze di sintesi scolastica viene raccontata in questo modo.
Mediamente il racconto della Rivoluzione Francese vede la semplificazione
di un popolo in rivolta contro un sovrano, ma le cose non sono propriamen-
te andate in tale maniera, a meno di dimenticare episodi piuttosto importan-
ti.
Con la rivoluzione francese si apre in maniera violenta una nuova pagina
della storia che porterà alla modernità. La rivoluzione nasce per motivi fi-
scali, ma presto degenera con il prevalere nei rivoluzionari delle istanze
giacobine, con l’idea di cambiare il mondo in maniera repentina e di pla-
smare un uomo nuovo e per far questo non si risparmiò l’uso della violen-
za. I rivoluzionari attaccavano i simboli di ciò che consideravano antico e
frutto di superstizione, cercando di distruggere le tradizioni religiose susci-
tando chiare antipatie da parte del popolo. Basti pensare all’idea, se si ri-
flette, piuttosto ridicola, di cambiare il calendario o l’innalzamento degli al-
beri della libertà che in qualche modo venivano a sostituire il crocefisso e
ad istituire una sorta di religione civile in cui la fede non è più rivolta a
Dio, ma allo stato. Tra l’altro, le cerimonie legate a l’albero della libertà,
non potevano non richiamare agli occhi di tanti uomini di chiesa usanze pa-
gane morte da secoli.
La Vandea era una regione ricca e popolosa prevalentemente agricola della
Francia in cui il senso religioso era molto forte. La Repubblica Rivoluzio-
naria stretta da esigenze economiche e dominata da correnti anticlericali ol-
tre a procedere ad un generale inasprimento fiscale, espropriò i beni eccle-
siastici che costituivano non solo una ricchezza a disposizione del clero, ma
una sorta di welfare a disposizione dei cittadini che usufruivano di ospeda-
li, scuola e assistenza e creò un clero di stato autonomo da Roma. Anche
quelli che erano residui di diritto medievale, come per esempio le confra-
ternite, erano occasioni di solidarietà fra i membri e possedevano un patri-
monio non indifferente frutto di donazioni accumulatesi nei secoli. Da no-
tare l’assurdo di chi predicava la tolleranza e contemporaneamente perse-
guitava i religiosi e proibiva le cerimonie religiose pubbliche.
Altro provvedimento non gradito fu la leva obbligatoria, a cui tutti cercava-
no di sottrarsi; in un’epoca in cui la risorsa principale erano le braccia degli
uomini, rappresentava un’ulteriore danno economico per le famiglie. Tali
leggi erano osteggiate in particolare dalla popolazione della Vandea che ve-
deva secolari tradizioni infrante e violentato il suo senso religioso. Da qui
nacque una serie di guerre fra la popolazione vandeana e la Repubblica
Francese.
Per attenersi al racconto lineare della storia, le guerre vandeane sono state
spesso denominate “controrivoluzione” visto che si opponevano alla rivolu-
zione, mentre altri storici volendo mettere in evidenza la spontaneità del fe-
nomeno hanno coniato un nuovo termine, insorgenza, in contrasto con i ter-
mini rivolta o rivoluzione che implicano comunque un che di guidato o di
organizzato.
In Vandea l’opposizione alla Rivoluzione non nasce per motivi politici, ma
spontaneamente nel cuore delle persone per semplice reazione a quelli che
considerava veri e propri soprusi come la leva obbligatoria e la proibizione
dei riti religiosi. Come se da un giorno all’altro ci proibissero di fare quello
che abbiamo sempre fatto. Chiaramente accettare che la guerra della Van-
dea sia stata una insorgenza, significa smontare l’assunto che la Rivoluzio-
ne sia stato un moto di popolo contro il sovrano.
A parte l’interesse per un fatto misconosciuto della Rivoluzione Francese, è
interessante che questo conflitto è sfociato in un vero e proprio massacro
della popolazione civile compresi donne e bambini. La Repubblica France-
se, dopo una fase indicata come prima guerra di Vandea, dette l’incarico a
Jean Baptiste Carrier di istituire un tribunale rivoluzionario che per esegui-
re le migliaia di condanne a morte dei vandeani inventò le Noyades ovvero
annegamenti. I condannati, uomini, donne, bambini venivano legati e messi
su barche che venivano fatte affondare. Ad un certo punto si decise di affo-
garli anche nudi per recuperare i vestiti. Oltre alla brutalità, si raggiunse il
più totale disprezzo della vita umana quando vennero legati i bambini alle
madri e fatti affogare insieme. Per accelerare le esecuzioni si provò prima
con il veleno e poi con le fumigazioni, una sorta di camere a gas. Da ricor-
dare che la violenza rivoluzionaria era rivolta verso la propria stessa popo-
lazione e non verso un nemico esterno.
Accanto al tribunale rivoluzionario, la giovane repubblica francese approvò
l’idea del generale Louis Marie Turreau di istituire le cosiddette “Colonne
infernali”, dividendo l’esercito rivoluzionario mandato a domare la rivolta
in colonne, per battere la Vandea in lungo e in largo con il compito di di-
struggere tutto e uccidere tutti senza distinzione di età o di sesso. Gli episo-
di raccapriccianti furono molteplici. I militari si diedero allo stupro e al sac-
cheggio, mutilando le persone prima di ucciderle e per fare prima furono
bruciati interi edifici per sterminare le persone all’interno, compresi ospe-
dali per far fuori anche gli ammalati fino ad arrivare ai casi più raccapric-
cianti di militari rivoluzionari che conciarono pelle umana e del sapone ri-
cavato dal grasso umano.
Alcuni storici hanno proposto di definire questo episodio con il termine ge-
nocidio e di considerarlo il primo della storia moderna. Qui si sono accese
le polveri delle polemiche perché chiaramente per la Francia la Rivoluzione
è episodio fondante. Tra l’altro, con la Rivoluzione Francese nasce la mo-
dernità e i prodromi delle moderne ideologie e accettare che il primo geno-
cidio sia stato quello della Vandea, significherebbe ammettere che le ideo-
logie del ‘900 che hanno creato tanto tragedie sono figlie della rivoluzione
francese. Prospettiva agghiacciante per i vicini francesi.
L’insorgenza vandeana è un perfetto esempio del diritto di resistenza contro
le leggi di uno stato vessatore e tirannico, e con le sue istanze antifiscali e il
richiamo alle libertà si può porre in parallelo con la rivoluzione americana.