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ENRICO MASSERONI Arcivescovo di Vercelli Pietre vive PER LA CHIESA NOSTRA MADRE LETTERA PASTORALE 2008-2009

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ENRICO MASSERONI

Arcivescovo di Vercelli

Pietre vivePER LA CHIESA NOSTRA MADRE

LETTERA PASTORALE

2008-2009

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i trovo tra le mani una vecchia guida dellaCattedrale, edita nel 1928 a cura del Capitolo euse-biano: la sfoglio, la leggo, passando da una paginaall’altra, da un’immagine all’altra.

La Cattedrale: lo sguardo cade sugli spazi armo-niosi delle sue volte, sui pilastri superbi delle suenavate, sui due presbitèri che mantengono a distanzal’altare dal popolo di Dio; e non posso non avvertireun certo stupore: tutto sembra suggerire un’altra sta-gione, quella di una Chiesa pre-conciliare; gerarcolo-gica, scriveva Congar, fatta ad immagine della gerar-chia celeste e terrena.

Nella guida che mi è venuta sottocchio non c’èparola dei grandi segni che abitano la Cattedrale apartire dal Concilio.

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Un po’ di sorpresa …

INTRODUZIONE

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Il Catechismo della Chiesa Cattolica, germinazio-ne del magistero post-conciliare, parla dei “luoghiprivilegiati” che devono godere di chiara visibilitàall’interno del tempio di Dio: l’altare dell’Eucaristiacome sacrificio e convito, il tabernacolo dellaPresenza eucaristica, la cattedra del Vescovo, l’ambo-ne per la proclamazione della Parola, il fonte battesi-male, il confessionale, la custodia dei sacri oli. Di que-sti segni non c’è parola. Questo per dire che anche lastruttura architettonica fa teologia, presenta un’im-magine di Chiesa che i secoli hanno metabolizzatonel modo di pensare della gente.

Oggi non è più così: chi entra nella nostra bellaCattedrale e ne esplora con intelligenza credente glispazi, si incontra con i grandi segni che il ConcilioVaticano II ha sapientemente indicato per il popolo inpreghiera. Il tempio è come un libro aperto, ma biso-gna conoscere l’alfabeto della fede per saperlo legge-re. Talora persino il credente non sa cogliere il mes-saggio dei segni; tanto meno il turista che volge losguardo curioso verso gli stili, le figure, il gioco diluci e di ombre, senza lasciarsi sfiorare dai segni delmistero che abitano la casa di Dio.

Per questo, la visita che vorrei suggerire alla nostraCattedrale non intende ricalcare manuali già letti,guide che restano sulla soglia dell’ammirazione este-tica, pure importanti per conoscere e amare un’operad’arte. Questa visita vuole esplorare i segni dellaCattedrale come tempio di Dio e del suo popolo, cele-brante gli eventi della storia salvifica.

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«Tutto è segno per chi crede» - diceva BenedettaPorro; ma ogni segno è linguaggio comunicativo delmistero da osservare, da contemplare e da capire.Con gli occhi della fede.«Per entrare nella casa di Diobisogna varcare una soglia, simbolo del passaggio dalmondo ferito dal peccato al mondo della vita nuovaal quale tutti gli uomini sono chiamati. La Chiesavisibile è simbolo della casa paterna verso la quale ilpopolo di Dio è in cammino e dove il Padre “tergeràogni lacrima dai loro occhi” (Ap 21,4). Per questo laChiesa è anche la casa di tutti i figli di Dio, aperta epronta ad accogliere» (CCC 1186).

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1 CONOSCIAMOLA NOSTRA CATTEDRALE …

Uno sguardo alla facciata: Cristo e gli apostoli

Anche il Duomo racconta la gloriosa storia dellaChiesa eusebiana: secondo la tradizione più attendi-bile, esso sorse sul luogo di un tempio antichissimo,dedicato da s. Eusebio al martire s. Teonesto; e suc-cessivamente sostituito dall’imperatore Teodosio(379-393) da una grandiosa basilica in stile paleo-cri-stiano, dedicata a s. Eusebio.

L’attuale struttura, nella solenne armonia del suostile classico, fu costruita sul perimetro dell’anticabasilica in tempi successivi: il coro ed il presbiteriodopo il Concilio di Trento (dal 1572 al 1578), durantel’episcopato di Guido Ferrero e di G.F. Bononio; le trenavate e le cappelle minori tra il 1705 e il 1763; lacupola nel 1860. A vigilare sulla trasformazione archi-tettonica della basilica-simbolo della città eusebianaresta la sentinella medioevale della torre massiccia,costruita tra il sec. XII e il sec. XV.

Chi osserva la Cattedrale eusebiana dal sagratonon può non avvertire la bellezza armoniosa dell’a-trio, il pronao, coronato dalle statue imponenti del

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Salvatore (alta 5 metri) e dei dodici apostoli, quasi adesprimere nel tempo la granitica fedeltà alle sue ori-gini di Chiesa costruita sul fondamento di Cristo edegli apostoli. Ciascuno è riconoscibile attraverso ipropri simboli: come ad esempio Pietro, con le chiavidel Regno; Giovanni, con l’aquila dallo sguardopenetrante; Giacomo, con il bastone del pellegrino.

Varcando la soglia si resta subito attratti verso ilcuore della Cattedrale, il grande altare, sotto la cupo-la ardita ed elegante, laddove nello spazio centraletroneggia il mirabile crocifisso regale dell’anno mille,il simbolo più suggestivo di una storia e di una iden-tità.

«Quando sarò elevato da terra …» (Gv 12,22)

Nell’antico Duomo, il crocifisso era già appeso sulbema (tribuna); e questa collocazione viene ricordataper la prima volta nel 1190 e poi documentata ancoranel 1661 da mons. Gerolamo della Rovere. Nel ‘700venne trasferito sul quinto altare della navata adestra, protetto da un vetro come in una teca.

Moltissimi Vercellesi conservano ancora nellamemoria l’atto vandalico che ha profanato l’immagi-ne più cara del crocifisso il 12 ottobre 1983 durantel’episcopato di mons. Albino Mensa. Dopo il restau-ro, durato parecchi anni, il simbolo più prezioso delpopolo cristiano ritornò in Cattedrale prendendoposto al centro della cappella del beato Amedeo. Quisostò in ammirata adorazione anche il Santo PadreGiovanni Paolo II, la mattina di domenica 24 maggio

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1998, durante la visita pastorale a Vercelli per la bea-tificazione di don Secondo Pollo.

In occasione dell’anno giubilare, con la nuova col-locazione della mensa dell’altare tra i due grandipilastri, a distanza più ravvicinata all’assemblea delpopolo di Dio, il crocifisso è tornato al centro, nellospazio sovrastante l’area presbiterale. Non senza dif-ficoltà a capire da parte della competente Sovrin-tendenza del Piemonte che la straordinaria immaginemillenaria del Cristo regale non dovesse restare unsegno ovunque collocabile per lo sguardo curioso deituristi, ma l’icona centrale della fede cristiana, dameritare una collocazione ben visibile allo sguardoammirato e devoto dei fedeli.

Pertanto il grande crocifisso, in lamine d’argentoin parte dorato, datato sul crinale tra il primo ed ilsecondo millennio, durante la stagione del vescovoLeone (998-1026), si presenta maestoso, ritto sullacroce, con la corona regale immagine viva delRisorto.

L’ispirazione è tipicamente giovannea del Cristocrocifisso-risorto; evoca la teologia dell’innalzamentoda terra secondo la nota espressione ricorrente nel IVVangelo: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tuttia me” (Gv 12,22).

L’innalzamento evoca le mani aggressive delmondo, che costruiscono la croce come mistero diviolenza e di morte; ma insieme, l’innalzamento rive-la la potenza di Dio che vince la morte e chiama i figlialla gloria della risurrezione, resa manifesta dallo

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sguardo vivo e misericordioso del Cristo rivoltoverso l’umanità peccatrice.

E’ difficile entrare in Cattedrale e non avvertire ildesiderio interiore di passare dalla penombra a quelvolto vivo, irradiante luce sul mondo tenebroso econfuso.Il crocifisso regale è “l’alfa e l’omega” della storiacome dice l’Apocalisse (1,8); 21,6; 22,13). “Stat cruxdum volvitur orbis” (la croce di morte e di vita staimmota, per dire la speranza dell’uomo, mentre tuttoscorre nel divenire mortale di un mondo caduco).Davvero aveva ragione s. Venanzio Fortunato († 600)di cantare: «Regnavit a ligno Deus» (Dio cominciò aregnare dal legno della croce).

E così nella nostra Cattedrale il grande crocifissorisorto sta a dire, nella bellezza del linguaggio sculto-reo, il volto dell’amore perennemente attualizzatosulla mensa dell’altare.

L’altare: cuore della Cattedrale

Il cuore della Cattedrale è il grande altare dimarmo posto sotto il crocifisso regale. Il messaggio èimmediato, facilmente leggibile: in alto l’immagineiconica del mistero, solenne, eloquente; al centrodello spazio e del tempo sta Lui, alfa e omega dellastoria, contemporaneo di ogni uomo; sotto, al centrodel nuovo presbiterio, l’altare, su cui si attualizzaogni giorno, ogni domenica la Pasqua del Risorto,sacramento della nuova ed eterna Alleanza.

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Ci sono molti altari nella nostra Cattedrale relega-ti nella penombra delle cappelle laterali, creati dallaprassi devozionale dei secoli passati; ma il vero alta-re è unico, alluso dalla stessa costituzione conciliareSacrosanctum Concilium 41, la quale parla di “unumaltare”. Esso infatti è l’icona più santa e più rappre-sentativa del Cristo e costituisce il centro della sinas-si liturgica, dell’assemblea celebrante.

Sono due gli aspetti da esprimere nell’immaginescultorea dell’altare: l’ara del sacrificio e la tavola delconvito. Lo ricorda con chiarezza il Messale Romano:«L’altare sul quale si rende presente nei segni sacra-mentali il sacrificio della croce, è anche la mensa delSignore; è il centro dell’azione di grazie che si compiecon l’Eucaristia» (OGMR 296).

Nei primi secoli gli altari erano di legno, moltosimili alla mensa della sala dove Gesù istituì il sacra-mento della sua Pasqua. Successivamente l’altaredivenne di pietra, fisso, per significare «più chiara-mente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva»(OGMR 298; cfr 1 Pt 2,4; Ef 2,20).

È stato il Concilio Vaticano II a recuperare l’origi-naria funzione di altare unico «segno dell’unicoSalvatore Gesù Cristo e dell’unica Eucaristia dellaChiesa» presso il quale «si riunisce come in un solocorpo l’assemblea dei fedeli» (Pontificale Romano. Ritodi dedicazione di una chiesa e di un altare ed. 1980).

Ma l’altare di pietra non è solo segno del CristoRedentore; è luogo-memoria del Cristo totale - capo emembra, sposo e sposa – significato dalle reliquie deimartiri in esso incastonate. Di qui la venerazione del-

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l’altare segno di Cristo, “pietra angolare”: con il baciodel celebrante all’inizio della liturgia eucaristica, l’in-censazione nelle celebrazioni solenni e l’unzione conil crisma nel rito di dedicazione.

Per questo nessun oggetto inutile va collocato sul-l’altare al di fuori di ciò che occorre per il sacrificioeucaristico. La mensa dell’altare deve apparire nellasua sobria e solenne visibilità, perché vi si celebra ilsacramento centrale della fede cristiana; perché è ilcuore dell’assemblea liturgica, è la roccia viva alle cuiacque zampillanti si disseta il popolo di Dio nel suoesodo verso «i cieli nuovi e la terra nuova» (Ap 21,1).

L’altare della Cattedrale eusebiana ha trovato lasua più giusta collocazione durante l’anno giubilare ene ricorda ai posteri la data intagliata nel logo delpresbiterio. Esso sembra interpretare la duplicevalenza simbolica di segno: la sua centralità di ara delsacrificio e di mensa in mezzo all’assemblea cele-brante, espressione della chiesa di Dio popolo sacer-dotale.

L’ambone per l’annuncio del Risorto

La comunità cristiana, fedele al giorno del Signore,la pasqua settimanale, con fondata probabilità hacapito il significato delle due mense ben visibili nel-l’area presbiteriale: la mensa della Parola e la mensadell’Eucaristia. Da una parte l’ambone, da cui vieneproclamata la parola di Dio nella prima parte dellaliturgia; e dall’altra l’altare, con il pane e il vino,

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segni della presenza del mistero. Ma chi si accostaall’ambone della nostra cattedrale, scolpito recente-mente nel contesto dell’area presbiteriale, forse nonmanca di porre una domanda: perché l’immaginescultorea di un angelo ritto e non invece la tradizio-nale figura di un autore del Vangelo?

Forse è piuttosto estraneo allo stesso popolo delladomenica il messaggio simbolico dell’ambone: esso èil luogo della comunicazione della notizia più decisi-va della storia del mondo; l’annuncio del Vangelod’accordo, ma soprattutto dell’evento centrale dell’e-vangelo: il Cristo Risorto. Questa è la notizia che datail primo giorno della nuova umanità.

L’ambone non svolge semplicemente una funzioneaggregativa dell’assemblea liturgica; bensì è segnodel sepolcro vuoto, da cui l’angelo del Signore dà lasconvolgente notizia che cambia la storia. Pertantodall’ambone viene proclamata la parola di Dio,dell’Antico e Nuovo Testamento, convergente nel-l’annuncio del Risorto. Di qui la strutturale connes-sione con l’altare: da una parte l’annuncio di Gesùmorto e risorto e dall’altra la celebrazione sacramen-tale del mistero pasquale.

Per questo, ha ragione un recente documento CEIa prestare puntuale attenzione alla tipicità del segno-ambone: «La sua ubicazione sia pensata in prossimitàall’assemblea… e renda possibile la processione conl’evangeliario e la proclamazione pasquale dellaParola… un leggio qualunque non basta: ciò che sirichiede è una nobile ed elevata tribuna possibilmen-

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te fissa, che costituisce una presenza eloquente, capa-ce di far riecheggiare la Parola… accanto all’ambonepuò essere collocato il grande candelabro del ceropasquale» (PNC, 9). È la dignità della parola di Dio arichiedere un luogo autorevole per la sua proclama-zione. Lo stesso termine “proclamazione” richiamal’attenzione alla modalità della lettura liturgica, chedeve essere chiara nell’annuncio e udibile in chiascolta.

Dallo stesso ambone, opportunamente vestito afesta, nella veglia pasquale, la “madre di tutte leveglie” (Agostino, Sermo 219), viene cantato l’Exultetper il grande annuncio della risurrezione.

L’ambone è icona spaziale del Risorto che trovaeco nel ministero del lettore, nell’omelia del celebran-te e nella congrua preghiera dei fedeli; non deve ser-vire ad altro. Non è conveniente animare la parteci-pazione dell’assemblea dall’ambone. Un uso impro-prio comporta facilmente un indebolimento della suaportata simbolica. Anche questa attenzione, nonpleonastica, rende eloquente la celebrazione liturgicaed educa la fede del popolo di Dio. L’istanza educati-va non passa solo attraverso la Parola, bensì attraver-so il rispetto dei segni, i contesti vitali con cui fami-liarizza la fede dell’assemblea.

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La cattedra per il ministero di presidenza

Osservando l’altare, l’ambone è posizionato sullasinistra del nuovo presbiterio ligneo, a ridosso delpilastro che regge la cupola, leggermente sopraeleva-to e ben visibile dall’assemblea. Sulla destra, invece,addossata al piedritto del pilastro è collocata la catte-dra, realizzata dalla scuola del beato Angelico, giàdurante l’episcopato di mons. Albino Mensa, in occa-sione del suo XXV anno di ministero episcopale.

La nuova sede, opportunamente brunita, ben siarmonizza con le altre più recenti strutture del pre-sbiterio in bronzo, quali i sostegni del grande altare ela fusione monolitica dell’ambone. Sul massiccioschienale della cattedra, in uno spazio tondo a sbalzo,è scolpito il volto di Eusebio. La cattedra infatti è lasede del Vescovo, il primo liturgo, nell’atto di presie-dere l’azione liturgica della comunità ecclesiale.Questa mansione ministeriale del Vescovo celebranteera già testimoniata da Giustino nella prima Apologia(I 67) verso la metà del II sec.: colui che presiede èanche colui che insegna e offre il sacrificio.

Il Vescovo celebrante parla e agisce in nome diCristo. Non a caso la Sacrosanctum Concilium ricordache «per realizzare un’opera così grande - la salvezzadell’umanità - Cristo è sempre presente nella suaChiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. Èpresente nel sacrificio della Messa, sia nella personadel ministro … sia soprattutto sotto le specie eucari-stiche»(SC 7).

Pertanto la cattedra del Vescovo è indicativa della

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sua presidenza e del suo ministero magisteriale; nonè esaltazione anacronistica di una persona o l’imma-gine di una Chiesa piramidale. È l’espressione dellafunzione del Vescovo nella comunità dei credenti,l’immagine di una chiesa comunionale, sia pur sem-pre servita attraverso la sua originaria strutturagerarchica, come dice la Lumen Gentium al III capito-lo: De constitutione hierarchica Ecclesiae et in specie deepiscopatu.

Già Ignazio di Antiochia scrive che il Vescovo tieneil posto di Dio: «I presbiteri rappresentano il senatodegli apostoli e i diaconi il servizio di Cristo» (AdMagnesienses 6,1). Non a caso la figura di Eusebio,scolpita sulla cattedra, dice un’appartenenza, unavicenda di grazia particolare, che richiede nei fedeliun atto di fede, come ricorda ancora Ignazio nella let-tera alla comunità di Efeso: «Al Vescovo bisognaguardare come al Signore» (Ad Ephesios VII 2). C’èun’autorevolezza che gli compete in virtù del suoessere segno e ambasciatore di una Parola che gli èstata affidata per la guida del popolo di Dio. La cat-tedra della presidenza richiama un ministero di gran-de responsabilità davanti a Dio e alla sua Chiesa.

S. Agostino afferma in proposito: «Il fatto di esserecristiani è a nostro vantaggio; il fatto di essere pasto-ri comporta responsabilità nei vostri riguardi» (Sermo46,2).

Se l’altare dell’Eucaristia immerge il Vescovo nellacomunità dei credenti, la cattedra ne richiama il ser-vizio; il Vescovo è “nella” Chiesa ed è “per” la Chiesa.

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Il battistero dove si rinasce dallo Spirito Santo

Secondo Crispino Valenziano, illustre liturgista,sono tre i luoghi celebrativi fondanti della Cattedraleo di una chiesa parrocchiale: l’altare, l’ambone e il bat-tistero. La vasca battesimale è il segno del sepolcroscavato nella roccia, laddove il Cristo Risorto hasconfitto la morte. Così i catecumeni discendononella vasca del loro battesimo per condividere lamorte del Signore e risalgono conrisorti con Lui,Signore della vita.

La vasca richiama simbolicamente il grembo dellaChiesa, madre feconda di nuovi credenti in Cristo.

Nella sua storia il battistero ha conosciuto trediverse collocazioni. Nei primi secoli, a partire daquello delle libertà costantiniane, il battistero era unedificio autonomo, vicino alla cattedrale, coperto acupola, con il fonte centrale per l’immersione dei bat-tezzandi. La struttura architettonica più diffusa eraquella ottagonale, espressione dell’ottavo giorno,quello dell’eternità, poiché il sacramento del battesi-mo è nascita alla vita eterna per opera dello Spirito. Ilprototipo era il battistero del Laterano di Roma delIV-V sec.

Dopo aver ricevuto il sacramento della rinascitacristiana i catecumeni, rivestiti di tunica bianca, sispostavano in chiesa, venivano accolti dalla comuni-tà e ricevevano l’Eucaristia. In questa modalità ritua-le il messaggio più rimarcato era quello del battesimocome “purificazione”.

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In un secondo tempo, nel secolo XIV, il battisterotende a scomparire come edificio autonomo e vienecollocato all’interno della cattedrale, in una cappellavicina al portale. Ciò invita a pensare al battesimocome inserimento nel corpo di Cristo, come acco-glienza nella comunità ecclesiale.

Il battistero della nostra Cattedrale, collocato nellapenombra della prima cappella a sinistra per chivarca la soglia di entrata, ha mandato nei secoli ilmessaggio di una chiesa madre che accoglie e generai suoi figli.

Il Concilio ha richiamato una forte attenzione albattesimo soprattutto in due capitoli della LumenGentium: nel secondo, laddove si parla della paridignità di tutti i membri del popolo di Dio, «consa-crati a formare una dimora spirituale e un sacerdoziosanto» (LG, 10); e nel capitolo quinto, laddove il bat-tesimo è presentato come fondamento della vocazio-ne universale alla santità, come «pienezza della vitacristiana e perfezione della carità» (LG, 40).

Pertanto nel kerigma e nella catechesi post-conci-liare c’è una chiara insistenza sul battesimo come par-tecipazione alla vita nuova del Risorto, come attua-lizzazione del mistero pasquale, soprattutto sull’on-da della teologia paolina.

Questo riannuncio del mistero centrale della fedecristiana ha determinato l’avvicinamento del battiste-ro all’ambone e all’altare utilizzando sovente soluzio-ni provvisorie, come l’uso di contenitori mobili perl’abluzione. Come già accade nella costruzione dinuove chiese «si tende a porre dei fonti battesimali

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con l’acqua corrente, perché questa, con la sua vitali-tà e freschezza, sottolinea l’azione vivificante delloSpirito Santo e rappresenta meglio la nostra nascita anuove creature in Gesù, fonte di acqua viva» (RemoLupi; cfr Gv 4,10).

Incoraggia in tale direzione la stessa liturgia cheparla di “fonte battesimale” facendo sgorgare un verozampillo di acqua sorgiva.

All’aspetto architettonico del battistero fa riferi-mento la Sacrosanctum Concilium, la quale parla di«costruzione degna ed appropriata degli edificisacri» e di «funzionalità e dignità del battistero» (SC128).

Alla costituzione conciliare fa eco l’istruzione Interœcumenici (1964): «Nel costruire e nell’adornare il bat-tistero si curi diligentemente di mettere in rilievo ladignità del sacramento del battesimo e che il luogosia idoneo alle celebrazioni comunitarie» (n 99).

In tale prospettiva il battistero esprime il duplicemistero della vita nuova nel Cristo Risorto e dellarinascita nel grembo della chiesa madre.

La custodia eucaristica per l’adorazione

Fin dalle origini del cristianesimo l’Eucaristia “subspecie panis”, veniva conservata per assicurare il via-tico ai morenti; la custodia eucaristica era più cono-sciuta come il tabernacolo, che per molti secoli pola-rizzò lo sguardo dei credenti, sino a diventare illuogo di culto più importante.

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La spiritualità era incentrata sul tabernacolo, sullapresenza reale.

Il Concilio di Trento (1545-1563), che rifletteva lostato della teologia del tempo, fu incapace di vederel’unità fra l’Eucaristia sacramento, intesa allora comecomunione e l’Eucaristia come Messa intesa comesacrificio. In questa prospettiva il Concilio da un latosottolinea e difende la Messa come sacrificio, tale daesigere un sacerdozio distinto dalla comunità dei bat-tezzati, contro i Protestanti che affermavano invece ilsolo sacerdozio comune dei battezzati negando ilsacerdozio ministeriale.

Dall’altro, contro i Protestanti che negavano la pre-senza reale (per Lutero la transustanziazione era unmiracolo superfluo) ribadì la presenza reale di Gesùnell’Eucaristia in termini inequivocabili: “vere, reali-ter et substantialiter” (Decreto de SS Eucharistia 1). Diqui lo sviluppo della pietà eucaristica, tesa ad affer-mare la fede della Chiesa, incentrata sul cultodell’Eucaristia fuori dalla Messa, come l’adorazione,la comunione fuori dalla celebrazione e la centralitàdel tabernacolo.

Il Concilio Vaticano II ha riaffermato la centralitàdell’Eucaristia, ma in ben altro modo. La spiritualitàeucaristica, secondo il Vaticano II e l’attuale riflessio-ne teologica, opera un duplice passaggio: considerala presenza reale come derivante dal sacrificio, comeattualizzazione del mistero pasquale del Signore.L’istruzione Eucharisticum Mysterium (1967) racco-manda espressamente che “i fedeli, quando veneranoCristo presente nel sacramento, ricordino che questa

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presenza deriva dal sacrificio e tende alla comunionesacramentale e spirituale insieme” (n 50).

Ma soprattutto la centralità dell’Eucaristia si collo-ca nel cuore della Chiesa. Per questo l’Eucaristia è“fons et culmen” della vita cristiana. Di qui il rappor-to essenziale di reciprocità tra Eucaristia e Chiesa.L’Eucaristia “fa” la Chiesa e la Chiesa “fa” l’Eucaristia.

E di qui la centralità dell’altare per la celebrazionedella Messa, distinto dalla custodia eucaristica; que-sta va collocata in una cappella apposita, facilmenteidentificabile, anche attraverso la lampada, accessibi-le e dignitosa per l’adorazione e la preghiera.

Così è nella nostra Cattedrale, con la grandemensa sotto il crocifisso regale e il tabernacolo sottolo sguardo di Maria, nota ai Vercellesi come laMadonna dello schiaffo.

La Chiesa, comunità di santi e peccatori

Chi entra nell’imponente tempio di Eusebiopotrebbe stupirsi delle molte cappelle che si apronosulle navate laterali, tutte dedicate ai Santi. Nellacostruzione delle nuove chiese non è più pensabilequesta sequenza di opere pittoriche o scultoree chesembrano distrarre lo sguardo dal movimento cristo-centrico.

Ma dentro l’iconografia devozionale dei santi c’èun molteplice significato: subito balza evidente laverità simbolica del tempio come comunità dei santie dei peccatori. Tra le navate si raduna l’assemblea

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liturgica dei cristiani, peccatori bisognosi di miseri-cordia, guardati a vista dai compagni di viaggio deltempo andato e già partecipi della Comunione deiSanti.

Tutto questo dice la verità del popolo di Dio,comunità dei santi e dei peccatori. Ma insieme ricor-da l’identità di ogni battezzato, chiamato alla santità.Forse senza un’esplicita intenzione, la cattedraleeusebiana esprime in modo plastico la vocazione uni-versale alla santità del popolo dei battezzati; siamoinfatti circondati da santi e beati appartenenti a tuttele categorie vocazionali.

Il peccato invece è la negazione del progetto disantità che Dio traccia per ciascuno di noi. Non a casoil V capitolo della Lumen Gentium si intitola Universalevocazione alla santità della Chiesa. Il progetto è moltoantico, già enunciato nel libro del Levitico (19,2): “Siate santi, perché io il Signore Dio vostro, sonosanto”.

La santità, che il cristiano perde con la triste espe-rienza del peccato, viene ripristinata tramite unapposito sacramento: quello della Penitenza.Suggestivo in proposito quanto scrive S. Ambrogio:“La Chiesa possiede acqua e lacrime: l’acqua delBattesimo e le lacrime della Penitenza” (Lettera 41,12).

Il sacramento della Penitenza, tra i sette, è quello chenel corso dei secoli ha subito le più vistose trasfor-mazioni rituali: amministrato in forma pubblica esolenne fino al VI secolo, in epoca antica veniva con-

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cesso semel in vita (una volta in vita). Era la trepidaparsimonia con cui la Chiesa amministrava benialtrui: la misericordia di Dio. Successivamente hacapito che non toccava a lei lesinare quella misericor-dia che Luca propone come modello alla misericordiaumana: “Siate misericordiosi come misericordioso èil Padre vostro celeste” (6,36). Così, a partire soprat-tutto dal secondo millennio, si diffonde il riscorso alsacramento della Penitenza in modo frequente (totiesquoties).

Dalla riforma liturgica tridentina scaturiscono iconfessionali, che uniscono sovente bellezza sculto-rea e austerità ambientale. Nella nostra Cattedrale,come in molte altre, i confessionali abbondano, quasia significare la larghezza con cui la Chiesa esercita innome di Dio il potere di “legare e di sciogliere” ( Mt18,18) nel sacramento della Penitenza.

Ma se nella Chiesa c’è peccato, c’è anche santità. S.Cipriano la definì arditamente casta meretrix.Un’epigrafe cruciforme recante la scritta latina:«Sanctus martyr Theonestus», ritrovata durante gliscavi del 1581, ricorda il primo martire vercellese,presso la cui tomba vuole essere sepolto Eusebio.

Una singolare testimonianza di santità laicale è lafigura del beato Amedeo († 1472): sposo esemplare diJolanda di Francia, educatore efficace di una famiglianumerosa, modello di carità verso i poveri e i soffe-renti, operatore di pace, impegnato nel sociale e nelpolitico al servizio del bene comune. Insomma unabella figura di laico amato e venerato dai Vercellesi.

In quattro cappelle sono onorati i santi Vescovi

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vercellesi: s. Eusebio, s. Onorato, il fedele discepolodel proto-vescovo; s. Emiliano, il difensore dell’unitàdella Chiesa durante il controverso pontificato diSimmaco; s. Flaviano, il prete custode della memoriadei santi Vercellesi.

E con i Vescovi, i nostri amati presbiteri: sanGuglielmo († 1142), l’asceta pellegrino a Santiago deCampostela, padre spirituale dei poveri a Montevergine;e soprattutto il beato don Secondo Pollo, bella testi-monianza di prete diocesano, esimio educatore deigiovani e promotore di vita spirituale tra i laici secon-do il progetto apostolico dell’Azione Cattolica.

Non manca nella Cattedrale eusebiana neppure lasantità al femminile: la beata Emilia Bicchieri, ladomenicana contemporanea dell’eretico Dolcino. Lasua vita di preghiera, di povertà evangelica e di sere-na comunione con i successori degli apostoli, fu lamigliore risposta all’ eresia antigerarchica dell’inizioXIV.

Così i Santi non disturbano il nostro incontro conDio, bensì lo incoraggiano: essi sono i primi testimo-ni del Signore Risorto. Recita infatti la SacrosanctumConcilium: «Nell’anniversario dei santi… la Chiesaproclama il mistero pasquale realizzato nei santi chehanno sofferto con Cristo e con Lui sono glorificati»(SC 104). Ancora più puntualmente il primo prefaziodei santi focalizza il rapporto fra i cittadini del cielo ei fedeli, ancora pellegrini nella fede: il Signore ci offre«nella loro vita … un esempio, nell’intercessione unaiuto, nella comunione di grazia un vincolo di amorefraterno».

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Maria, Madre della Chiesa

Prima di lasciare la Cattedrale, compiuto il devotopellegrinaggio nella penombra dei suoi spazi, è d’ob-bligo una sosta adorante davanti alla custodia eucari-stica, indicata dalla lampada ardente. Nello stessoraggio tenue di luce si incrocia lo sguardo vigile dellamadre, venerata dai Vercellesi come la Madonna delloschiaffo.

Non è certo casuale questa prossimità di Mariaaccanto al tabernacolo della Presenza: «Se vogliamoriscoprire in tutta la sua ricchezza il rapporto intimoche lega Chiesa ed Eucaristia, non possiamo dimenti-care Maria, madre e modello della Chiesa» (GiovanniPaolo II, Ecclesia de Eucharistia 53). Lo stesso PapaGiovanni Paolo II ricorda che Maria “non potè certomancare nelle celebrazioni eucaristiche tra i fedelidella prima generazione cristiana, assidui nella fra-zione del pane” (At 2,42) (EdE 53).

Per questo Paolo VI raccogliendo una lunga tradi-zione, nel discorso di chiusura della III sessione delConcilio, promulgando la costituzione dogmaticasulla Chiesa, proclama Maria “Madre della Chiesa”.In verità l’espressione compare per la prima voltanella mariologia di Beregaudo, monaco benedettinodel IX secolo, a commento dell’Apocalisse (cap 12):«Questa donna designa la Chiesa… è Madre dellaChiesa perché ha generato colui che ne è capo».

Ma forse è difficile accostare i due volti: quelladella Madonna dello schiaffo e quello di Maria Madredella Chiesa. Sono diverse le due mani: la mano della

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violenza, e la mano della carezza; la mano del rifiutoe la mano della tenerezza. E tuttavia volgendo losguardo pensoso a quel volto dolcissimo di donna,viene spontanea una preghiera:

O Maria, il tuo dolce sguardo di Madreci lascia confusi e umiliati:i segni di violenza sul tuo voltoraccontano la nostra storia di egoismo,dicono le nostre risposte ingrate ai tuoi infiniti gesti di amore.

Abbiamo bisogno di avvertire il caloredella tua carezza, o madre:nelle ore buie delle nostre solitudini,nei deserti aridi delle nostre latitanze;e soprattutto nell’ultima oradella nostra vigilia.Rendi mite il nostro cuore,magnanimo il nostro amorealla scuola del tuo figlio Gesù.

Sostieni le nostre famigliee insegna loro l’arte del perdono;fa crescere nelle nostre comunitàil rispetto accogliente e solidale;restituisci al mondo la nostalgia di Diosorgente di riconciliazione e di pace.

Fa che ascoltiamo, o Maria, il tuo invitoad amare tutti gli uomini e a guardare Gesù, il figlio tuo,stella polare del nostro cammino terreno.

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Tra il tempio e la strada: il sagrato

Osservando lo splendido sagrato della Cattedraleviene subito da pensare ad un’altra cifra delle crisidel nostro tempo, che non esito a indicare come crisidel sagrato.

Chi, infatti, approda sotto lo sguardo imponentedella facciata della Cattedrale eusebiana, soprattuttola domenica, non può evitare un’impressione di asse-dio: il sagrato è diventato un comodo posteggio-mac-chine; non c’è più spazio per l’aggregazione dellagente; non c’è più spazio per la folla che si incontraprima di varcare la soglia del tempio. Ci sono tantepersone che arrivano in fretta, scendono dalla propriavettura, la chiudono e vanno verso l’entrata. C’è unasorta di invasione del sacro.

Il nome, infatti, veicola il significato della sualunga storia: sagrato, dal latino “sacratum”, qualifi-cava il “terreno consacrato”. Anticamente indicavapure l’area benedetta riservata alla sepoltura deifedeli, sovente accanto alla chiesa.

Oggi quell’area viene di fatto espropriata dalla cul-tura dell’individualismo comodo e frettoloso: non c’èpiù spazio per incontrarsi, né tempo per salutarsi;non c’è più voglia di sorridere, è d’obbligo la fretta.

Eppure anche il sagrato ha il suo alto valore peda-gogico, oggi ancora più che in passato. Anche ilsagrato è un vero luogo educativo per il ricupero deivalori perdenti: quali l’accoglienza, la socializzazio-ne, il senso di appartenenza e di comunità. “E’ questa

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un’area molto importante - recita la nota pastoraledella CEI del 1993 - da prevedere in quanto capace diesprimere valori significativi: quella della ‘soglia’,dell’accoglienza e del rinvio… talvolta può essereanche luogo di celebrazioni; il che richiede che ilsagrato sia riservato ad uso esclusivamente pedona-le” (PNC 20).“I sagrati, infatti sono spazi ideali per la preparazio-ne e lo svolgimento di alcune celebrazioni, (proces-sioni, accoglienza, rito del lucernario nella veglia pas-quale)” (CEI, Adeguamento delle chiese, ed. 1996 n 35).

Sul sagrato, la Cattedrale esprime la propria iden-tità di madre che accoglie i suoi figli e ne favoriscel’incontro, il dialogo; esso anticipa già il volto dellacomunità credente: il lutto, quando accoglie la genteattorno ad una bara; la gioia, quando apre le porteagli sposi nel giorno del loro “sì” davanti all’altare; lafesta, quando confluiscono bimbi e famiglie per igrandi appuntamenti dell’iniziazione cristiana.L’immagine della comunità si annuncia dal sagrato.

Ma soprattutto il sagrato è lo spazio del rinvio: trail tempio e le strade della vita, cifra simbolica del rap-porto “Chiesa e mondo”, tra Eucaristia e vita, traParola e testimonianza. Il tempio non rinvia imme-diatamente sulla strada; incoraggia l’incontro, il dia-logo, l’amicizia tra persone, tra famiglie. Anchel’Eucaristia vuole il suo momento pedagogico: lacomunità che ha incontrato Dio, deve imparare adincontrare la gente, fugando la febbre della strada,della fretta, dell’affanno. Insomma anche il sagrato èun luogo educativo.

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La Cattedrale, cifra simbolica di una Chiesa in cammino

Una domanda s’impone dopo la visita attenta aisegni della Cattedrale: qual è il rapporto tra l’imma-gine della “Chiesa Madre” come luogo sacro e l’imma-gine della “Chiesa Madre” come comunità dei credenti?

Nell’ultimo segmento di storia della Chiesa vercel-lese c’è un preciso filo conduttore: l’attenzione privile-giata alla famiglia, ai giovani e alle vocazioni. Questepriorità hanno tracciato il fiume carsico del nostropercorso pastorale: talora sono state oggetto di curaparticolare, di proposte straordinarie (pensiamoall’anno dei giovani 2006, all’anno della famiglia2007); altre volte sono tornate nell’ombra della pasto-rale ordinaria; altre volte ancora, come quest’anno,sono riemerse alla luce del sole a motivo del grande egrave tema “educativo” di cui ormai molti parlano:Famiglia, scuola e comunità cristiana insieme per educare.

Un altro tema messo in luce in questo decennio èstato il contesto comunitario entro cui si colloca ilmondo dei giovani, della famiglia e delle vocazioni;la comunità parrocchiale: come frontiera dell’evangeliz-zazione (2001), come comunità eucaristica (2002),come comunità generatrice di ministeri (2003).

Nel nostro prossimo futuro si prospettano duenovità: la prima riguarda il percorso pastorale che siapre all’orizzonte della Chiesa particolare, la Diocesi; laseconda riguarda il metodo del nostro progettopastorale, in cui il rinnovo della Cattedrale diventachiave interpretativa dello stesso cammino pastorale.

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E mi spiego: l’impegno di rinnovamento nonriguarda solo l’imponente tempio di Eusebio in tuttele sue parti; bensì impegnerà tutte le comunità dellanostra Chiesa particolare.

Si usa dire che oggi la missione educativa dellenuove generazioni ha bisogno di visibilizzazione e diesperienza. Non si educa al senso della Chiesa dicen-do, ma facendo vedere.

Pertanto la Cattedrale, spiegata, conosciuta, visita-ta sarà una strada originale ed efficace per formarci alsenso dell’appartenenza ecclesiale. In questa ipotesi,la Cattedrale, Chiesa madre tra passato e futuro, diventasegno evocativo della Chiesa diocesana, orizzonteper altro esplicitamente indicato dall’ecclesiologiadel Vaticano II. Basti pensare ai diversi “segni”, giàevidenti nella nostra Cattedrale, soprattutto a partiredalla svolta conciliare: la centralità del Cristo regalenella visione giovannea del Risorto, le due mensedella Parola e dell’Eucaristia, la cattedra del magiste-ro episcopale, il battistero richiamante la pari dignitàdel popolo di Dio, le diverse cappelle dei Santi testi-moni della chiamata universale alla santità, il sagratocome simbolo del rapporto “Chiesa-mondo”.

Questi segni visibili nella nostra Cattedrale posso-no costituire dei capitoli concreti di catechesi e di for-mazione alla fede dei nostri ragazzi e adulti.

Mi pare che il coniugare insieme il rinnovamentodella Cattedrale e il cammino pastorale non sia unespediente, ma una singolare opportunità per tra-smettere in modo efficace alcuni contenuti essenzialidella nostra identità cristiana.

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La meta del nostro percorso potrà essere ilCongresso Eucaristico Diocesano che ci incoraggia amettere a fuoco i due dinamismi del rapportoEucaristia e Chiesa:- da una parte l’Eucaristia (presenza viva inCattedrale) fa essere la Chiesa;- dall’altra, la Chiesa (significata dalla Cattedrale) faessere, celebra e vive l’Eucaristia.Tutti, pertanto, siamo chiamati ad essere “Pietre viveper la Chiesa nostra madre”.

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2 L’EUCARISTIA “FA” LA CHIESA

La comunità eucaristica “piccolo gregge” (Lc12,32)

Per la prima volta nella storia, il popolo di Dio hapreso coscienza di essere minoranza numerica e cul-turale. La novità forse sta nella presa di coscienza,perché sempre la comunità dei credenti in Cristo èstata minoranza. Numerica: nella città di Vercelli lapercentuale dei partecipanti all’Eucaristia si aggirasul venti per cento (cfr. censimento della quaresima2007). Culturale: il pensiero dominante non è più cri-stiano; è permeato dal vento secolaristico che porta aimpostare la vita in termini mondani, senza aperturaalla trascendenza, senza riferimento al Vangelo.Appare oggi evidente quanto diceva Gesù: «Nontemere piccolo gregge, perché al Padre vostro è pia-ciuto di dare il suo Regno» (Lc 12,32).

A questo punto non sembra difficile evocare alcu-ne ombre che oscurano il senso cristiano della vita.Ne cito quattro:• Anzitutto l’indifferenza religiosa. Oggi non prevale

l’ostilità verso la fede cristiana, bensì l’indifferen-za, lo scetticismo, il disinteresse, l’agnosticismo, la

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diffusa schizofrenia tra un generico teismo e ilrifiuto della pratica religiosa.

• Il relativismo etico, richiamato sovente dall’attualePontefice. Se è vero che la modernità ha scoperto ilprimato della coscienza sull’oggettività dell’esse-re, l’ultima interpretazione della coscienza va insenso esasperatamente soggettivistico, senza rife-rimento all’oggettività della parola di Dio o almagistero della Chiesa. La coscienza è un conteni-tore vuoto: ciascuno giudica secondo il proprioangolo di osservazione; ogni valore è relativo.

• Il presentismo, come cultura dell’immediato, che spin-ge a consumare la vita secondo la logica del “carpediem” (del vivere alla giornata), senza memoria esenza futuro. Ciò che interessa rientra in un piccolomiraggio che procura emozioni immediate. Questo èil linguaggio dell’effimero senza sbocchi sul futuro intermini di speranza, di responsabilità e di impegno.

• Il nichilismo. È questa forse l’ombra più inquietan-te che attraversa il nostro orizzonte culturale: sivive senza sapere perché e per chi; si è sul trenodell’esistenza e non se ne conosce la direzione. Lacultura del nichilismo o del non senso si alimentadella cultura del vuoto, che è la vera causa dellanoia e del disagio giovanile.

Naturalmente tratteggiando il contesto culturalecon queste ombre non intendiamo misconoscere lacompresenza del buon grano, del bene, che è tanto; ecosì dicendo penso al diffuso bisogno e impegno perla giustizia, per la solidarietà, per la pace, per il rico-noscimento dei diritti umani.

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La stessa globalizzazione del martirio non dice soloche nel mondo c’è molta violenza e ostilità contro icristiani; ma dice pure che nel mondo molti credentiin Cristo sono capaci di amare sino alla morte, sino aldono totale di sé, come Gesù.

Per questo, facendo discernimento sulla storia, èimportante assumere come chiave interpretativa laparabola evangelica del buon grano e della zizzania (Mt13, 24-30); anche se la tendenza mediatica è di tra-smettere una cronaca gravida di iniquità e di ingiu-stizie. Il male fa notizia; il bene fa storia. La zizzania siimpone vistosamente più del bene. Talora si ha l’im-pressione che il male sia macroscopico e che il bene siamicroscopico.

Sembra che il mondo esprima di più un bisogno diredenzione che non una presenza di redenzione giàall’opera.

Lasciarsi plasmare dall’Eucaristia

Per tutto questo viene opportuna qualche doman-da: Quale l’atteggiamento evangelico per noi cristiani inquesta situazione di minoranza e di reiterata ostilità delmale e del maligno? Come dire la differenza cristiana?Quale speranza per un mondo che ne è privo?

In fondo ci chiediamo: come vivere evangelicamen-te il nostro tempo?

Forse è più facile dire: «Quali sono gli atteggia-menti da escludere come cristiani?».

Anzitutto è urgente liberarci dal complesso di infe-riorità di fronte a un mondo che sembra vincente;

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complesso che provoca timidezza, paura, processi dimondanizzazione soprattutto nei giovani. Credentiin chiesa, ma scettici a scuola o nel mondo del lavoro.Il complesso di inferiorità porta a cancellare la testi-monianza credente.

Una diffusa conseguenza del complesso di inferio-rità è il pessimismo, l’assenza di speranza, la stanchez-za pastorale, la tentazione di contarsi, lo spiritodimissionario: tutte patologie che attraversano lenostre comunità dalla fonte inaridita.

Oppure, al contrario, è importante guardarci dalcomplesso di superiorità che fa assumere atteggiamentigiudicanti. A fronte del denunciato relativismo etico,alligna nei credenti il moralismo impietoso e distac-cato, un po’ come nell’atteggiamento di Marta nelVangelo di Luca: donna indaffarata che ha smarrito ilsenso delle cose importanti (la parola di Dio) e diven-ta giudicante nei confronti di Maria, intollerante deldiverso.

Il problema che ci dobbiamo porre oggi è quellodella fede: crediamo veramente di vivere in una storiadi salvezza?

Crediamo nella permanente verità dell’incarnazio-ne di un Dio entrato nella nostra storia?

Noi cristiani, infatti, non affermiamo soltanto unafilosofia teistica, con una vaga e generica affermazio-ne dell’esistenza di Dio; noi crediamo di vivere inpiena «storia sacra» - diceva Danielou - «accompa-gnati da una presenza misteriosa ma reale e solidale:“Ecco io sono con voi…” (Mt 28,20).

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Di qui l’atteggiamento della testimonianza pas-quale, ricca di speranza, come pane quotidiano daspezzare con i nostri preti e laici, sovente stanchi edemotivati; l’atteggiamento di amore e di compassio-ne magnanima verso il mondo, con la sua effimeraricchezza di libertà e di felicità.

C’è un ministero che forse dimentichiamo dietro ilparavento del nostro moralismo e che forse dovrem-mo assumere ogni giorno come cristiani: il ministerodi una intercessione misericordiosa.

Ma tutto questo diventa possibile se ogni domeni-ca, Pasqua del Signore, ci lasciamo plasmare dalRisorto, nel ritrovarci attorno alla duplice mensa:della sua parola e del suo pane. L’Eucaristia non èsolo “culmen et fons” (SC 10) dell’esistenza cristiananel cuore della comunità ecclesiale. L’Eucaristia èscuola di vita; è il più alto momento educativo dellastessa comunità ecclesiale. Lo dice con somma chia-rezza Giovanni Paolo II nella Novo Millennio ineunte,in cui addita la grande sfida che attende i credenti inCristo: “Fare della Chiesa la casa e la scuola dellacomunione” (NMI 43). E ciò accade soprattuttonell’Eucaristia.

Proprio la celebrazione del Risorto «crea ed educaalla comunione» (EdE 2003 n. 40). È questo lo spaziovitale di una comunità. Certo, sono diverse le occa-sioni ministeriali per ricordare alla comunità ciò cheè e ciò che deve diventare. Ma l’Eucaristia è il “rove-to ardente”, è il momento educativo per eccellenza,per plasmare e trasformare la comunità degli uominiin comunità di figli di Dio.

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A partire dalla II epiclesi: il primato della comunione

L’Eucaristia “fa” la Chiesa. D’accordo, ma con qualeprogetto?

Come è risaputo, nella celebrazione eucaristica,sono previste due invocazioni dello Spirito, due epi-clesi: la prima viene rivolta dal celebrante al Padreperché mandi lo Spirito Santo ad operare il grandeevento della presenza di Gesù nel segno del pane edel vino, la transustanziazione, la trasformazione dellasostanza del pane e del vino nella sostanza del corpoe del sangue del Risorto.

La seconda invocazione viene pure rivolta al Padreperché mandi lo Spirito ad operare la comunione conil Risorto. Le parole sono solari: «Dona la pienezzadello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo unsolo corpo e un solo spirito».

Pertanto la Chiesa, forgiata dallo Spirito Santo,diventa un solo corpo in Cristo. Per questo la comu-nità non si organizza, ma si genera in quel misteroarcano dello Spirito che opera attraverso il ministerodel sacerdote. Entrare nel dinamismo dell’Eucaristiachiede di consentire con l’azione unificante delloSpirito superando ogni spinta verso la divisione ol’individualismo.

Dalla comunione trinitaria che è la ragione fontaledella comunità corpo di Cristo, discende la fatica dellacorresponsabilità ecclesiale.

Il cristiano, che ha raggiunto la maturità nella fedeattraverso il sacramento della confermazione, accetta

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di essere corresponsabile nella missione della comu-nità cristiana; accetta la sfida della responsabilità con-divisa, senza tirarsi indietro, sino alla faticosa concre-tezza della collaborazione. Non solo quella orizzontale,donando e accogliendo il contributo collaborativodegli altri; ma quella verticale, ben sapendo che nel-l’avventura del Regno, il primato appartiene a Dio.

Per questo Gesù incoraggia il minuscolo gruppodei suoi discepoli sulla frontiera del mondo: «Nontemere piccolo gregge…». Pertanto la forza motivan-te della missione dei discepoli nella storia non è unasorta di strategia dal basso; è il piano di Dio, affidatosì agli uomini, ma pur sempre nelle mani di Dio. Trai discepoli ed il Regno la sproporzione è abissale; mala sproporzione non deve scoraggiare i credenti, per-ché ci sono le mani di Dio. Anzi, nello spazio dellasproporzione opera la sua potenza.

Una comunità dei volti: vocazione e ministeri

La comunità eucaristica forgiata dallo Spirito pre-senta un secondo tratto: la ministerialità. Lo ricordaesplicitamente la preghiera di intercessione: «Confermanella fede e nell’amore la tua Chiesa pellegrina sullaterra… il tuo servo e nostro papa Benedetto, il nostroVescovo…, il collegio episcopale, tutto il clero e ilpopolo che tu hai redento».

Unità e pluralità sono i tratti marcati della comu-nità eucaristica, popolo itinerante nelle stagioni alter-ne della storia. Anche la ministerialità entra nello sta-tuto ontologico della comunità generata dal Risorto;

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per questo tutti, nella comunità cristiana, siamonecessari: nessun dono o vocazione esprime in modoesaustivo il corpo di Cristo, ma solo l’insieme deidoni.

Di qui l’ascetica della ministerialità: ciascuno habisogno degli altri per compaginare il segno dellaChiesa come comunità dei volti. In essa ciascunoaccoglie l’altro nella sua originalità vocazionale enella sua identità di persona ricca e povera insieme.

Nell’ascetica della ministerialità, soprattutto pre-sbiterale, cresce la sapienza evangelica come disponi-bilità a valorizzare ciò che lo Spirito suscita neglialtri; crea l’attitudine ad accogliere la differenza comericchezza di una comunità; e soprattutto prendecorpo il servizio della sintesi, nella consapevolezza cheil prete non ha “l’insieme dei carismi”, ma “il carismadell’insieme”.

Di qui il singolare dinamismo della pastorale voca-zionale, che vede il prete promotore di tutte le voca-zioni nella Chiesa: c’è la comune chiamata alla filiali-tà battesimale che si diversifica, attraverso l’azionedello Spirito, nelle tre fondamentali forme di vita cri-stiana come chiamata all’amore nella scelta coniugale,nella vita consacrata e nel ministero al servizio della comu-nità eucaristica.

All’interno delle tre modalità vocazionali si con-cretizza la molteplice forma di ministerialità al servi-zio della comunità.

I laici impegnati oggi sulle frontiere dei ministeriraggiungono in Italia il 2 o 3 per cento e stanno trat-

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teggiando un volto nuovo di comunità. Ma urge unavera preveggenza pastorale per allargare l’area dellaministerialità verso le nuove frontiere della missione.

Pertanto, se il presbitero cura le sorgenti dellacomunità eucaristica e promuove tutte le vocazioni ele diverse forme del servizio ministeriale, tutta lacomunità è coinvolta nella promozione delle vocazio-ni al ministero presbiterale perché non vengano amancare le comunità cristiane.

Insomma, il circolo virtuoso della pastorale è noto: ilprete per tutte le vocazioni e tutte le vocazioni per lavocazione al ministero presbiterale.

Una chiesa nella storia con un progetto di speranza

Nella fede noi crediamo che la storia sia davverosegnata per sempre dall’evento redentivo. La speran-za è sguardo sul futuro, sul compimento. La carità èla linfa evangelica del tempo ed è l’epifania dell’eter-no. E noi ogni giorno, nell’Eucaristia siamo chiamatia rigenerare la speranza della comunità spesso stan-ca, come il profeta Elia in cammino verso l’Oreb (1 Re19,10). Ma è fuori dubbio che oggi è proprio la spe-ranza la virtù più in crisi. Il papa Benedetto XVI adAosta nell’estate del 2005 ha ripetuto che «l’occiden-te è stanco della sua propria cultura».

La crisi della speranza non manca di attraversarele stesse comunità cristiane. Non raramente pare dirisentire il famoso verbo dei due di Emmaus: «Noisperavamo…» (Lc 24,21). Insomma, anche nelle

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comunità cristiane la crisi della speranza assumevolti diversi: della depressione, della mediocritàcome nella comunità di Laodicea (Ap 3,15-16); dellastanchezza o della delusione, perché in fondo “dire lafede” oggi è difficile e sembra di giocare su un valorefuori corso.

Ma la speranza per i cristiani non è un vago idealedi essere di più, né un generico desiderio di ottimi-smo nei frangenti della vita; la speranza è Qualcuno, haun volto e verso tale volto ci orienta l’Eucaristia, cuoredella comunità credente. Per questo l’assemblea litur-gica, dopo la consacrazione, manifesta la propriaidentità di comunità della speranza, protesa verso ilfuturo: «Annunziamo la tua morte, Signore, procla-miamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venu-ta».

Il volto della speranza è il Risorto, perché in lui sirealizza il desiderio di vita di ogni persona. Per que-sto l’Eucaristia mette continuamente a fuoco il voltodel Risorto, perché senza Dio non c’è speranza per ilmondo. La stessa morte, per il cristiano, non è l’ina-bissarsi della vita nel buio del nulla, ma è l’incontrocon il Risorto.

Pertanto l’Eucaristia corregge le speranze corte delmondo. I credenti sanno che i valori ridiventano vita-li solo alla sorgente, nel mistero della presenza ediventano gesti concreti nella vita quotidiana perrigenerare la comunità e per umanizzare il mondo.

Infine, l’Eucaristia fa risorgere la speranza dentrogli immancabili tunnel della croce e ricorda che il

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nome vero della speranza è la Pasqua. Non ci sonoscorciatoie.

Se Gesù è la via «nuova e vivente» (Eb 10,20) daseguire per incontrare il Padre, se Cristo è il Signoremorto e risorto, l’ora della tribolazione è ineludibile.Ma anche allora la speranza è possibile, per noi e pergli altri. «Esperer pour tous» - scriveva il grande teolo-go H.U. von Balthasar. La speranza sa stringere lemani di chi è senza speranza.

Una chiesa in missione

Ci sono due espressioni che aprono i sentieri dellacomunità verso l’orizzonte del quotidiano.

Nel cuore della celebrazione c’è una parola chedice il respiro, l’urgenza universalistica del sacrificioredentore di Cristo: il sangue della nuova alleanza èversato “per tutti”. Il sacrificio di Gesù morto e risor-to non ha confini, né di tempo né di spazio: tutto stasotto l’orizzonte della misericordia. Pertanto la mis-sione è inscritta nel mistero stesso dell’unico sacrifi-cio.

Ma infine la missione diventa mandato: “Andate inpace”. L’imperativo esprime il movimento verso lavita, la città terrena per portare i beni salvifici dellapace: per portare Cristo che «è la nostra pace» (Ef2,14).

Infatti - dice ancora Giovanni Paolo II -: «Gli uomi-ni del nostro tempo, magari non sempre consapevol-mente, chiedono ai credenti di oggi non solo di par-

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lare di Cristo ma in un certo senso di farlo loro vede-re» (NMI 16).

La pace, che all’inizio della celebrazione era donoper la comunità convocata per celebrare i misteri delSignore, ora diventa dono per il mondo, attraverso lacomunità eucaristica che esce dal tempio per condivi-dere le fatiche e le speranze di ogni uomo e di ognidonna.

Per questo la missione non è un aggettivo dellaChiesa; la comunità ecclesiale non è missionaria, èmissione, segno del Risorto, mandato dal Padre nelmondo per realizzare il suo progetto salvifico.

Pertanto è essenziale per la Chiesa il dovere dellanuova evangelizzazione, che assume oggi il carattere diparticolare urgenza: nuova perché, a differenza dellaprima, cade su un terreno di post-cristianesimo, bat-tuto dai venti del secolarismo e di una cultura chesembra proclamare l’inutilità di Dio nelle scelte del-l’esistenza. Paradossalmente l’ideologia secolaristicaè entrata nella stessa comunità cristiana.

Per questo l’annuncio delle verità fondanti dellafede si rende necessario agli stessi Cristiani che siincontrano sui nostri sagrati, come ai Cristiani ana-grafici, lontani da una fede cresciuta e motivata.

La prima evangelizzazione gettava il seme dellaParola su terreno pagano; la seconda getta il seme neisolchi di un paganesimo di ritorno, caratterizzato dalpoliteismo religioso. Persino certi cattolici sono con-fusi nel contesto di pluralismo; pensano che una reli-gione valga l’altra e ritengono che l’annuncio del

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Vangelo sia persino lesivo della libertà religiosa. In verità il magistero costante della Chiesa richia-

ma le due grandi strade dell’evangelizzazione:«L’annuncio e la testimonianza del Vangelo sono ilprimo servizio che i cristiani possono rendere all’in-tero genere umano, chiamati come sono a comunica-re a tutti l’amore di Dio che si è manifestato in pie-nezza nell’unico redentore del mondo, Gesù Cristo»(Benedetto XVI ai partecipanti al ConvegnoInternazione nel 40° anniversario del decreto conci-liare Ad Gentes, 11 marzo 2006).

Per questo la pedagogia della fede passa attraver-so la parola che sa dire le ragioni della speranza e latestimonianza disinibita della Pasqua, che lasciavedere una vita lievitata dall’assoluta novità dell’e-vangelo.

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3 LA CHIESA “FA” L’EUCARISTIANEL CUORE DEL MONDO

Le tre attese del mondo: la “rivincita antropologica”

Sono in molti oggi a dimenticare la parabola dellazizzania e del buon grano (Mt 13, 24-30) come chiaveinterpretativa della storia; e mettono gli occhiali scuridel pessimismo. Nei solchi della cronaca quotidianasembra che stia crescendo solo zizzania; il buongrano ha perso visibilità; non ha più diritto di parola.Sulla piazza sembra imporre le sue grida sguaiate ilsecolarismo miope di un mondo che non sembraavere bisogno di Dio. E naturalmente “quando il cielosi svuota di Dio, la terra si popola di idoli” dicevaKarl Barth.

Ma è proprio così? E’ ancora possibile condividerequanto scriveva Danielou: «Viviamo in piena storiasacra»?

Ad uno sguardo più attento, pur dentro l’orizzon-te oscuro di una stagione palesemente problematica ecomplessa, che globalizza le sue ferite e i suoi mali, èpossibile costatare una sorta di rivincita antropologicache mi sembra esplicitarsi in tre domande, vere sfideper i credenti:

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• In primo luogo la domanda di spiritualità.Apparentemente l’immagine dell’homo orans sem-bra occupare l’ultimo posto; ma in realtà non man-cano i segnali di un risveglio dell’uomo interiore,con il suo linguaggio del silenzio, con la sete diassoluto e di preghiera; soprattutto a livello giova-nile.L’uomo può vivere stagioni di crisi di fronte a Dio.L’indifferenza è il male sottile del tempo. Ma, nellasua struttura profonda, l’uomo è radicalmenteaperto a Dio e non può fare a meno di Lui. Se sirecide questa relazione vitale, si rischia di distrug-gere la stessa persona umana.

• Accanto al bisogno di spiritualità emerge oggi ladomanda di umanità. Stiamo prendendo le distan-ze dal secolo scorso, il secolo breve. Ma anche salu-tato dai suoi profeti come Nietzsche sin dai suoialbori come il secolo dell’uomo. In realtà fu il secolopiù insanguinato dalle guerre dei popoli e dalrifiuto della vita innocente.Oggi la domanda più diffusa e più condivisa èquella che reclama attenzione ai diritti umani. Edentro questa domanda planetaria trova eco ladomanda di umanità anche nel nostro piccolomondo, nella stessa comunità cristiana come spa-zio vitale in cui si intrecciano relazioni interperso-nali autentiche; in cui si esprimono i valori dellagratuità, dell’amicizia, della dedizione. Lo stessomagistero di Benedetto XVI va coniugando inmodo limpido il rapporto tra pienezza di umanitàe fede. Questa non è un “no” di umanità, ma la suamassima espansione.

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• Infine la domanda di santità. Non come singolareprivilegio di pochi, ma come testimonianza possi-bile a tutti sulla strada della vera realizzazione disé come donna e come uomo. Il fascino dei santi èricorrente e caratterizza il “giorno dopo” di ogniConcilio, di ogni pentecoste della storia dellaChiesa. «In un’epoca di crisi, o meglio nel cuore diogni crisi epocale, non è permesso ai cristiani diessere tiepidi. I cristiani non hanno altro compitoche la santità» (Simone Weil).

Tuttavia una domanda si impone: come è possibileuna “rivincita antropologica” non velleitaria ma effi-cace? «Senza di me non potete fare nulla»(Gv 15, 5)dice Gesù. Per questo suona incoraggiante la sua pro-messa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino allafine del mondo» (Mt 28, 20).

La Chiesa celebra l’Eucaristia…

Sino alla fine dei tempi, la Chiesa obbedisce allaconsegna più ardita che fa della storia una vicenda disalvezza. L’Eucaristia è il sacramento della Presenza,anzi dell’attualizzazione in ogni punto del tempo edello spazio del più alto mistero di amore: il donosacrificale del mistero pasquale. E la Chiesa esiste percelebrare l’Eucaristia.

«Pertanto, nella suggestiva circolarità traEucaristia che edifica la Chiesa e Chiesa stessa che fal’Eucaristia, la causalità primaria è quella espressanella prima formula: la Chiesa può celebrare e adora-re il mistero di Cristo presente nell’Eucaristia proprio

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perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nelsacrificio della Croce» (Benedetto XVI, SacramentumCaritatis, 14). Nel grande mandato che Gesù affida aidiscepoli di tutti i tempi, l’Eucaristia è la punta verti-ginosa del dono, l’epifania dell’amore. Sulla rocciadel tempo sono scolpite parole eterne: «Fate questo inmemoria di me» (Lc 22, 19). «Nessuno può dire “questo è il mio corpo” e “questoè il calice del mio sangue” se non nel nome e nellapersona di Cristo, unico sommo sacerdote dellanuova ed eterna Alleanza (cfr. Eb 8, 9)» (Sc 23).

Così «il ministero ordinato agisce anche in nome ditutta la Chiesa allorché presenta a Dio la preghieradella Chiesa e soprattutto quando offre il sacrificioeucaristico» (Sc 23).

«E’ necessario pertanto, prosegue il Papa, che isacerdoti abbiano coscienza che tutto il loro ministe-ro non deve mai mettere in primo piano loro stessi ole loro opinioni, ma Gesù Cristo» (Sc 23).

Anzi, non c’è azione ministeriale più alta e piùqualificante per i sacerdoti del celebrare l’Eucaristia:niente viene prima dell’obbedienza al comando delSignore: «Fate questo in memoria di me».

Di qui un’oculata cura pastorale: ogni comunitàcristiana è tutta coinvolta nel promuovere le vocazio-ni presbiterali, perché ciò significa pensare al propriofuturo. Solo là dove c’è l’Eucaristia c’è la comunitàcristiana; e solo dove c’è il sacerdote c’è l’Eucaristia.

Di qui la coralità e la popolarità della pastorale voca-zionale nella direzione del ministero presbiterale. Se

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da una parte il sacerdote, ministro dell’Eucaristia, è alservizio di ogni vocazione nella comunità eucaristica,dall’altra tutta la comunità è chiamata a promuoverele vocazioni al ministero per garantire la propria esi-stenza.La partecipazione corale di tutti i carismi, soprattuttoattraverso coloro che hanno un compito educativo, siimpone come particolarmente urgente oggi. Ciò nongiustifica il meccanismo della delega; ma semmaiincoraggia la popolarità della pastorale delle voca-zioni. I doni di Dio hanno bisogno di una comunitàpartecipe e consapevole di essere una mediazioneimportante in cui i doni dello Spirito possano sboc-ciare.

Prima dell’imperativo «Fate questo in memoria dime» (Lc 23, 19) per i chiamati al serviziodell’Eucaristia, c’è l’imperativo per tutta la comunità:«Pregate il padrone della messe che mandi operainella sua messe» (Mt 9, 38).

La Chiesa celebra la “bellezza” dell’amore di Dio

«La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definiti-vamente a noi rivelato nel mistero pasquale… la bel-lezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azio-ne liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, inquanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazio-ne. Tutto ciò deve renderci consapevoli di qualeattenzione si debba avere perché l’azione liturgicarisplenda secondo la sua natura propria» (Sc 35).

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Di qui la cura amorevole e precisa della celebra-zione, assolutamente necessaria per non lasciare sta-zionare il rinnovamento liturgico conciliare a metàstrada: con qualche chiesa stile 2000, con l’altarerivolto al popolo, con il coro che canta almeno nellefeste più significative e con il mutismo dell’assem-blea.

Nella grande stagione aperta dal Concilio, la rivo-luzione liturgica più vera consiste nel protagonismodell’assemblea celebrante il mistero del Risorto. PapaGiovanni Paolo II non esita a dire che “la parrocchiaè una comunità di battezzati che esprimono e affer-mano la loro identità soprattutto attraverso la cele-brazione del sacrificio eucaristico” (EdE 32).

Ma per entrare nel cuore del mistero, che si è fattodono ed evento, abbiamo bisogno di accogliere nellafede adorante la presenza dello Spirito, il principaleartefice di ciò che accade sull’altare. Ciò richiede checi liberiamo dalla frenesia degli apparati esteriori,dalla preoccupazione registica, dalla distrazionecuriosa, che allontana lo sguardo del cuore e degliocchi dal centro della presenza viva, dal rovetoardente del “Dio con noi” (Mt 1, 23).

Nell’educare all’arte della bellezza celebrativatutto deve avere un senso e deve parlare: il silenzio,motivato e favorito per diventare linguaggio dellamente, del cuore e dell’intimità con il Signore; la pre-ghiera, incoraggiata come attiva condivisione attra-verso la voce, espressione di un coinvolgimento per-sonale oltre la presenza muta e oltre la latitanza della

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fantasia; il canto, scelto con intelligenza spiritualeperché sappia esprimere in modo efficace il significa-to vero del momento celebrativo e del tempo liturgico.

Quando il silenzio, la preghiera e il canto si armo-nizzano con sapienza nella dinamica celebrativa,l’Eucaristia parla, comunica, evangelizza.

Ma perché ciò diventi concretamente possibile ènecessario promuovere una ricca ministerialità laicaleper rispettare l’importanza somma dell’Eucaristia.Oltre il ministero del celebrante non devono mancarei lettori, i ministranti, gli animatori del canto, il coor-dinatore dell’assemblea. Ciò richiede pure il bandodella fretta, la riduzione numerica delle Messe eun’accurata preparazione, perché l’Eucaristia è l’orapiù alta e più evangelizzante di ogni comunità cri-stiana.

La Chiesa, nell’Eucaristia,promuove la “conversione pastorale”

Negli incontri pastorali dei laici e dei presbiteritornano sovente alcune espressioni, accompagnateda una certa sofferenza e da un profondo senso diimpotenza. Quasi tutti siamo d’accordo che l’azionepastorale, cristallizzatasi in tempo di cristianità, siaormai inadeguata; ma resta come macigno l’interro-gativo: «Quale pastorale in epoca di secolarismo?».

Quasi tutti siamo d’accordo che urge una nuovaevangelizzazione; ma quali sentieri aprire per comu-nicare all’uomo di oggi il mistero di Dio? Sembra che

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ci sia una sorta di incomunicabilità tra la comunitàeucaristica e i lontani e persino tra comunità eucari-stica e comunità dei battezzati. I giovani sono infimaminoranza nelle nostre comunità: ma di chi la colpa?Della comunità cristiana che non sa più comunicare odel mondo che non vuole ascoltare?Tutti insomma avvertiamo l’urgenza di una conversio-ne pastorale con una chiara connotazione missionaria(CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia,44).Ma come? A questa diffusa preoccupazione rispon-dono i tre ultimi documenti dei Vescovi che abbozza-no i tratti essenziali di una pastorale proiettata nelfuturo: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia(2001); Il volto missionario della parrocchia in un mondoche cambia (2004); Rigenerati per una speranza viva (1 Pt1,3): testimoni del grande ‘sì’ di Dio all’uomo (2006).

In questa lettera pastorale vorrei richiamare, per sin-tesi, i punti essenziali del cambiamento, una sorta disettenario da riprendere per un realistico esame delnostro tempo dentro e fuori la Chiesa, e per incorag-giare qualche passo nella direzione giusta.

1 – I documenti della Chiesa parlano di un “mondoche cambia”: la chiave interpretativa per vivere nellastoria è la parabola del buon grano e della zizzania.Un solco a seminagione mista dunque. Il discerni-mento è d’obbligo e va esercitato soprattutto nei con-sigli di partecipazione delle nostre comunità, perimparare a vedere il grano frammisto alla zizzania eper rendere possibile il passaggio dal cambiamento

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culturale alla conversione pastorale, che riguarda l’azio-ne pastorale ordinaria della parrocchia (VMP 1). Laconversione pastorale non è una semplice messa apunto dell’esistente. Essa mira a fare della parrocchiauna comunità missionaria.

2 – Pertanto il soggetto principale provocato alla con-versione pastorale è la parrocchia, disegnata a duelivelli: quello della comunità eucaristica che si riuniscecon assiduità nel giorno del Signore, e quella dei bat-tezzati che hanno un rapporto sporadico “in occasio-ni particolari della vita” (CVMC 46). I due livellivanno assunti seriamente con proposte specifiche.Non possiamo giocare con il minimalismo o con pro-poste generiche. La cura della piccola minoranza non va sottovalutataperché minoranza; bensì va accompagnata, dotando-la di una congrua volontà di azione e di testimonian-za. Anche il ruolo evangelico del lievito è cultural-mente inedito e tale da esigere una particolare atten-zione pedagogica.

3 – La conversione mira a dare un nuovo vigore all’e-vangelizzazione, centrata su una approfondita cono-scenza di Cristo, attraverso un vivo contatto con laparola di Dio. Sorprende e inquieta la diffusa ignoran-za della Scrittura. Ha ragione san Girolamo quandoscrive che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza diCristo» (Prologo al commento a Isaia).D’altra parte non manca di sorprendere il palese inte-resse per la parola di Dio nei giovani quando la sispezza per loro come pane saporoso.

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Ma un sapiente cristocentrismo di una pastorale mis-sionaria non manca di additare, sul versante antro-pologico, la “misura alta della vita cristiana” (NMI 1).«La pastorale missionaria è anche pastorale della san-tità» (ripete VMP 1).

4 – Di qui le due prossimità della pastorale missiona-ria: all’interno e all’esterno della comunità cristiana.Il convegno ecclesiale di Verona ha richiamato conforza l’esigenza di una «pastorale più vicina alla vitadelle persone, meno affannata e complessa», attentaalla «centralità della persona e della vita» (RSV 21),senza «sacrificare la qualità del rapporto personaleall’efficienza dei programmi»(RSV 23).Ciò significa partire dalla vita delle persone, dall’a-scolto delle loro domande nascoste e palesi; significauna comunicazione “cor ad cor”, una proposta pasto-rale per contagio.Ma non meno è sapiente potenziare una pastoraledella presenza sul territorio, nelle case, nelle famiglie,soprattutto nelle ore dolorose o gaudiose della vitafamiliare. Ciò vuol dire accentuare la popolarità, tipicamenteitaliana, della pastorale.

5 – Urge accompagnare il duplice protagonismo diuna pastorale missionaria: della comunità e dellafamiglia. I due ministeri comunitari si correlano e nerendono incisiva la presenza. In particolare va curataquella fascia di età che va da zero a sette anni, coin-volgendo i genitori perché siano essi stessi i maestritestimoni della preghiera per i loro figli, onde evitare

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quella diffusa patologia che io chiamo agnosticismodell’infanzia.Altrettanto, insistono i Vescovi, è importante offrirealle famiglie itinerari praticabili nell’ambito della ini-ziazione cristiana.

6 – Appuntamento prezioso per una comunità cri-stiana “più dentro” la famiglia e per una famiglia“più dentro” la comunità cristiana è la domenica, laPasqua settimanale. “In una celebrazione dell’Eucaristia curata secondoverità e bellezza” (VMP, introduzione) si rende visi-bile ed eloquente lo slancio missionario della comu-nità. La cancellazione del clima domenicale e la vani-ficazione secolaristica della festa sono la causa di unastrisciante disumanizzazione della vita familiare.

7 – I Vescovi parlano infine di pastorale integrata. Letre espressioni si rincorrono: “conversione pastora-le”, “pastorale missionaria”, “pastorale integrata”.E’ finito il tempo della parrocchia autosufficientegestita dal solo sacerdote. Tutti i soggetti presenti sulterritorio (vita consacrata, ministeri laicali, associazioni emovimenti), devono essere aiutati a riconoscersi e adoperare entro l’orizzonte complessivo della parroc-chia; ed essa stessa deve aprirsi alle nuove forme dicollaborazione pastorale nelle unità pastorali e nellachiesa particolare.

Un dato ormai è certo: non siamo chiamati a gestirel’emergenza; siamo invece provocati a stare sullacurva del mutamento con vera sapienza pastorale.

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Non siamo sul versante di un’epoca che finisce; stia-mo vedendo i bagliori del nuovo che sorge.La domanda che ci poniamo è chiara: vince dentro dinoi la malinconia per un tramonto irreversibile o lasperanza per un’aurora del nuovo giorno?Proprio a noi è dato di essere protagonisti del futuroche viene: sta nascendo un nuovo volto di Chiesa.

La Chiesa “vive” l’Eucaristia…

In verità non è sufficiente varcare la soglia perentrare nel tempio; è ancora più importante e soprat-tutto impegnativo uscirne… per attraversare il sagra-to, le strade, per tornare in famiglia, al “lavorousato”, per incontrare la gente, per rimettere in motola vita in tutte le sue espressioni. L’assemblea si dis-solve e i cristiani “eucaristizzati” eucaristizzano ilmondo; dicono parole nuove, pongono gesti diversi,vivono una vita pasquale.Ma che vuol dire tutto ciò?

Anzitutto significa riportare la domenica al primoposto, al primo giorno della settimana, “dopo il saba-to” ripete sovente il Nuovo Testamento.

Nel linguaggio della cultura egemone infatti ladomenica occupa l’ultimo posto; è una sorta dimiraggio che entra nei pensieri, nei desideri, nei pro-grammi di vita. Soprattutto nei giovani il fine-setti-mana è l’oggetto del desiderio, con il mito del tempolibero.

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Nella visione cristiana, la domenica è invece untempo aurorale, un inizio che dà la nota alla settima-na, che si sgrana nel seguito dei giorni feriali; non èuna fine, ma inizio di un futuro che attraversa iltempo e l’eterno. Anche per questo la domenica,come celebrazione del Risorto, è segno dell’“ottavogiorno”(Ep. Barnabae XV 8), dell’umanità partecipedella vita dei conrisorti con Cristo per sempre.

Il ritorno della domenica al primo posto aiuta asuperare l’attuale frattura, l’estraneità tra festa e vitaquotidiana. I verbi della ferialità sono noti: si corre, silavora, ci si incontra, ci si innamora, si litiga, si soffre,si progetta. Si avverte una distanza abissale dai verbidella domenica quando si partecipa alla mensa dellaParola; qui i verbi sembrano altri: ascoltare, perdona-re, riconciliarsi, amare; e sembrano evocare non ilmondo degli affari, ma il mondo interiore.

Il partecipare alle “due mense” nel giorno delSignore aiuta a unificare la vita. Ciò che si celebra ladomenica diventa il senso vero di ciò che si fa il lune-dì. Se è vero che la corsa della vita rischia l’insignifi-canza o la povertà contagiosa delle cose, la Parolaascoltata e celebrata nel giorno del Signore le restitui-sce ricchezza di significato che porta alla riscopertadella bellezza dei giorni illuminati dalla fede.Di qui la sorprendente originalità di una vita cristia-na con radici eucaristiche.

Ma questo è possibile se la comunità cristiana vivel’Eucaristia nello scambio, laddove il quotidiano sisnoda nella sua più immediata concretezza: soprat-

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tutto nella famiglia, negli incontri del tempo libero,quando è più facile la censura su ciò che si è ascolta-to e si è condiviso attorno alla mensa del Signore. Loscambio è un fare eco alla parola di Dio ascoltata; è lavita lunga del seme caduto su terreno buono.

Una vita eucaristica è possibile se la Parola ascol-tata diventa testimonianza dell’agape che metabolizzanella vita i molti significati dell’amore: come il per-dono, l’ascolto, il dialogo, la riconciliazione, la gra-tuità, la comprensione, la gioia pasquale; come la pre-senza solidale sulle frontiere delle antiche e nuovepovertà; come la testimonianza della differenza cri-stiana della fede.

Sono due pertanto le presenze del Risorto tra lorofortemente connesse: nella celebrazione, nel segnodella Parola, del pane e del vino; oltre la celebrazione,nel segno dei cristiani “eucaristizzati”. Insomma, latestimonianza è la vita lunga del seme che porta frut-to nella vita delle persone sulle infinite strade delmondo.

Per questo siamo grati al Signore per il grande even-to del Sinodo dei Vescovi (5 – 26 ottobre 2008) sul temade “La Parola di Dio nella vita e nella missione dellaChiesa”. Nutriamo la viva speranza che l’assise deiVescovi ci aiuti ad amare la Parola per amarel’Eucaristia, per amare la Chiesa.

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In compagnia di Paolo

Il nostro cammino pastorale sta inalveandosi nel per-corso dell’anno paolino. Non poteva toccarci testimo-nianza più luminosa e più appassionata di amore perla Chiesa. La comunità ecclesiale è nei pensieri, nelcuore, nei progetti di Paolo. La svolta che ha segnatoper sempre la sua esistenza è stata un cambio di iden-tità proprio di fronte alla comunità dei discepoli delSignore: egli passa da persecutore ad apostolo; dadistruttore della nuova fede cristiana a costruttore dinuove comunità. Un vero salto di barricata.

Ma alla radice della svolta c’è un’esperienza dirom-pente, un’intuizione folgorante. “Per Paolo, l’adesio-ne alla Chiesa fu propiziata da un diretto interventodi Cristo, il quale, rivelandoglisi sulla via diDamasco, si immedesimò con la Chiesa e gli fececapire che perseguitare la Chiesa era perseguitareLui, il Signore” (Benedetto XVI, “Paolo, la vita nellaChiesa”, 22.09.2008).E così nel rapporto con la Chiesa vedo una mirabilesintesi dell’intelligenza paolina: da una parte egli èun fondatore di comunità, un architetto concreto,creativo; dall’altra l’apostolo è un teologo penetrantedella verità della Chiesa.

Nel magistero paolino vedo soprattutto alcune gran-di luci: anzitutto l’apostolo definisce la Chiesa come“corpo di Cristo” (1 Cor 12, 27; Ef 4, 12), inseparabiledal Risorto. In nessun altro autore del I secolo siriscontra questa identificazione. E’ assurdo dunque il

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vecchio adagio fatto circolare dalla cultura illumini-stica: “Cristo sì, la Chiesa no”. E’ come se dicessimo:“Michelangelo sì, la cappella Sistina no”. La Chiesa èil progetto di Dio sul mondo; un disegno di comu-nione, segno del futuro. Il Figlio di Dio entra nellastoria con una sola grande idea: il regno di Dio, di cuila Chiesa è segno visibile.

L’identificazione tra Cristo e Chiesa non si esauriscenella sua progettualità storica, nel ministero itineran-te di Gesù; ma si compie nella sua genesi sacramen-tale che si attualizza nell’oggi fino alla fine dei tempi.Alle sorgenti della Chiesa c’è l’Eucaristia. Pertanto laChiesa non è opera di uomini, ma di Cristo.Nell’Eucaristia egli ci fa essere suo corpo: “Poiché c’èun solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solocorpo” (1 Cor 10, 17).Per questo aveva ragione mons. Aldo Del Monte aripetere che la Chiesa non è anzitutto un evento orga-nizzativo, bensì un evento generativo. La comunitànon si organizza, ma si genera: mistero questo, possi-bile all’azione arcana dello Spirito, che ci fa essereuno in Cristo e costituisce la Chiesa come “comunitàdei volti”.

Alla luce dello Spirito infatti, scrive Paolo nella I let-tera ai Corinti, tutte le vocazioni nella comunità cri-stiana sono doni (carismi); alla luce del Cristo, tutte levocazioni sono servizio (ministeri); alla luce di DioPadre le vocazioni sono manifestazioni del suo pro-getto salvifico (1 Cor 12, 4).La Chiesa pertanto sta sotto l’azione registica dello

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Spirito; di qui l’invito ad accoglierne l’azione miste-riosa, a “non spegnere lo Spirito” (1 Tess 5, 19).

Siamo dunque grati al Signore per questa singolarecoincidenza. Anche Paolo ci sollecita a guardare nellastessa direzione del nostro progetto pastorale; nonsolo nell’impegno oneroso di rinnovare la cattedrale,la chiesa madre; ma nella direzione del rinnovamen-to pastorale di tutta la nostra amatissima Chiesa euse-biana, con la sua storia e la sua grazia, con i suoi donie le sue fatiche. Con la stessa passione dell’apostoloPaolo; con il suo stesso amore creativo, appassionatoe concreto. Perché amare la Chiesa significa ricono-scere la bontà del progetto di Dio su di noi; significaamare l’uomo, ogni uomo, con il cuore di Dio. ComePaolo.

Vercelli, 1 novembre 2008Solennità di tutti i Santi

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ABBREVIAZIONI

CCC - Catechismo della Chiesa Cattolica.

CVMC - nota CEI - Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia29.06.2001

EdE - Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia 17.04.2003

NMI - Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II Novo millennio ineunte 06.01.2001

OGMR - Ordinamento Generale del Messale Romano estratto e tradotto da Missale Romanum 2002

PCN - nota CEI La progettazione di nuove chiese 18.02.1993

RSV - nota CEI Rigenerati per una speranza viva (1 Pt 1,3): testimoni delgrande “sì” di Dio all’uomo. IV Convegno Ecclesiale, Verona 16-20.10.2006

SC - Concilio Ecumenico Vaticano II, costituzione sulla liturgiaSacrosanctum Concilium 04.12.1963

Sc - Esortazione Apostolica postsinodale di Benedetto XVISacramentum caritatis 22.02.2007

VMP - nota CEI Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cam-bia 30.05.2004

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Nella grande stagione aperta dal Concilio,

la rivoluzione liturgica più vera consiste nel protagonismo dell’assemblea

celebrante il mistero del Risorto. Papa Giovanni Paolo II

non esita a dire che “la parrocchia è una comunità di battezzati che esprimono e affermano la loro identità

soprattutto attraverso la celebrazione del sacrificio eucaristico”

(EdE 32).

SOMMARIO

INTRODUZIONE pag. 3

1ª PARTE

Conosciamo la nostra Cattedrale…- Uno sguardo alla facciata: Cristo e gli apostoli “ 7- «Quando sarò elevato da terra…» “ 8- L’altare: cuore della Cattedrale “ 10- L’ambone per l’annuncio del Risorto “ 12- La cattedra per il ministero di presidenza “ 15- Il battistero dove si rinasce dallo Spirito Santo “ 17- La custodia eucaristica per l’adorazione “ 19- La Chiesa, comunità di santi e peccatori “ 21- Maria, Madre della Chiesa “ 25- Tra il tempio e la strada: il sagrato “ 27- La Cattedrale, cifra simbolica

di una Chiesa in cammino “ 29

2ª PARTE

L’Eucaristia “fa” la Chiesa- La comunità eucaristica “piccolo gregge” “ 32- Lasciarsi plasmare dall’Eucaristia “ 34- A partire dalla II epiclesi:

il primato della comunione “ 37- Una comunità dei volti: vocazione e ministeri “ 38- Una chiesa nella storia con un progetto

di speranza “ 40- Una chiesa in missione “ 42

3ª PARTE

La Chiesa “fa” l’Eucaristia nel cuore del mondo- Le tre attese del mondo:

la “rivincita antropologica” “ 45- La Chiesa celebra l’Eucaristia … “ 47- La Chiesa celebra la “bellezza” dell’amore di Dio “ 49- La Chiesa, nell’Eucaristia, promuove la

“conversione pastorale” “ 51- La Chiesa “vive” l’Eucaristia … “ 56- In compagnia di Paolo “ 59

SOMMARIO

NOTE PERSONALI

NOTE PERSONALI

T I P O G R A F I AE D I Z I O N IS A V I O L O

Ottobre 2008in copertina: Timpano della Cattedrale di Vercelli

ARCIDIOCESI DI VERCELLIEdizione a cura

ufficio delle Comunicazioni Sociali