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1 CULTURA & SOCIETà Il “caso italiano” IL PARTITO DELLA SINISTRA di Aldo Pirone Il luogo della lotta che bisogna riconquistare è quello della società civile. E’ qui che la funzione del partito diventa primaria. E’ qui che le lotte economiche e sociali s' incontrano con quelle ideali. E’ qui che s'incrociano quelle trincee e quelle casematte da occupare. In particolare quelle della formazione culturale e ideale: scuola e

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Page 1: PIRONE A. IL PARTITO DELLA SINISTRA€¦ · Il vecchio modello del partito di massa basato sulle sezioni territoriali e di azienda, proprio dei grandi partiti della sinistra - il

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CULTURA & SOCIETà

Il “caso italiano” IL PARTITO DELLA SINISTRA di Aldo Pirone

Il luogo della lotta che bisogna riconquistare è quello della società civile. E’ qui che la funzione del partito diventa primaria. E’ qui che le lotte economiche e sociali s' incontrano con quelle ideali. E’ qui che s'incrociano quelle trincee e quelle casematte da occupare. In particolare quelle della formazione culturale e ideale: scuola e

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Università; e quelle della formazione dell’opinione pubblica. Premessa Se c’è una questione su cui l’insieme della sinistra italiana ha mostrato tutti i suoi limiti d'innovazione politica in quest’ultimo quarto di secolo è la questione del partito. Cioè dello strumento per raggiungere determinati fini di trasformazione sociale e di partecipazione democratica. Il vecchio modello del partito di massa basato sulle sezioni territoriali e di azienda, proprio dei grandi partiti della sinistra - il cosiddetto ‘’partito nuovo’’ di invenzione togliattiana imitato anche dagli altri - lasciato a se stesso, ha subìto un lento e irreversibile declino fino al suo pratico dissolvimento. Il motivo principale di questo deperimento continuo è da ricercarsi innanzitutto nell’affievolirsi dei fini riformatori della sinistra. Un affievolimento indotto a sua volta, anche se non meccanicamente, dalla rivoluzione tecnologica che ha investito, sotto il segno della globalizzazione neoliberista, le forze produttive e i metodi della produzione. Quando le basi strutturali della produzione fordista caratterizzate dalla concentrazione operaia in grandi fabbriche vengono sconvolte, inevitabilmente anche i diversi gradi delle sovrastrutture ideali, culturali e politiche che avevano radici in quel mondo ne risentono. E ne risente in pari tempo l’insieme dell’organismo sociale. Sorgono nuovi modi di vedere le cose, certe idee che nel precedente contesto sociale erano dai più considerate negative e come disvalori, riappaiono con nuove vigore egemonico dando luogo, se non adeguatamente contrastate, a quel ‘’senso comune’’ fondato sulla forza travolgente delle ‘’credenze popolari’’. Per esempio la credenza delle virtù taumaturgiche del mercato, della superiorità dell’impresa privata rispetto a quella pubblica, della libertà svincolata da ogni eguaglianza, della regolazione sociale come impedimento al progresso economico, dell’arricchimento, purchessia, come indice di ogni successo, della rappresentazione della propria vita personale in cui l’immagine esterna fa premio su tutto il resto. Per comprendere le difficoltà e gli errori della sinistra, gli opportunismi diffusi, i trasformismi che hanno contrassegnato il declino di un intero apparato egemonico, non si può non partire dallo sconvolgimento delle basi produttive della società avvenuto con la ‘’rivoluzione’’ neoliberista. Non è stato uno scherzo. La “rivoluzione” neoliberista nella nuova globalizzazione Ciò che è avvenuto nel mondo capitalistico è stato, a un dipresso, il contrario di ciò che aveva politicamente preconizzato Marx. Il tentativo della sinistra socialista e comunista durante tutto il novecento di modificare, ‘’rivoluzionare’’, i rapporti di produzione si è infranto di fronte alla capacità del modo di produzione capitalistico di ‘’rivoluzionare’’ con le nuove tecnologie informatiche le forze produttive. Nel mezzo c’è stata un’epoca, il “trentennio glorioso” di grandi conquiste sociali e civili trainate dal movimento operaio e socialista variamente configurato che ha, soprattutto in Occidente, civilizzato il capitalismo. Tuttavia, a cominciare dagli anni ’70 del secolo scorso, è riemersa la caratteristica congenita del modo di produzione capitalistico già ben descritta da Marx nel “manifesto’’ del ’48: "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti

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sociali…Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le altre''. (Manifesto del partito comunista - 1848) Questa capacità ‘’rivoluzionaria’’ ha dato luogo a un aumento gigantesco delle forze produttive, della produzione e della produttività allargando il cerchio dello sviluppo a paesi immensi come l’India, la Cina, la Corea del sud, l’Indonesia e altre nazioni del sud est asiatico e anche dell’America latina. ‘’Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti della produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.''(Manifesto del partito comunista - 1848). E’ così che, replicando se stesso in chiave marcatamente finanziaria, il capitalismo neoliberista nell’era di una più accentuata e mondiale globalizzazione ha messo in ginocchio i paesi del cosiddetto ‘’socialismo reale’’, incapaci di competere proprio sul terreno dello sviluppo delle forze produttive oltre che su quello delle libertà, annientandoli. L’unico grande paese sedicente comunista rimasto in campo è la Cina che ha adottato un modello socioeconomico di capitalismo tout court. Un modello che è difficile, anzi impossibile, definire non solo vagamente socialista ma anche, vagamente, come economia sociale di mercato. La lunga stagione della globalizzazione neoliberista ha terremotato anche il socialismo occidentale, e sebbene oggi, dopo la crisi finanziaria del 2008, stia rallentando la sua marcia trionfale, ha provocato in Occidente la reazione del ceto popolare e del ceto medio destabilizzato dalla deregulation degli animal spirits capitalistici e dai suoi perversi effetti economici. Anche le ondate migratorie, in particolare in Europa, provenienti dai paesi sconvolti dal terrorismo e dalle guerre di religione interne al mondo arabo e islamico in Medio Oriente, o quelle indotte dalle carestie e dalla fame causate dalle guerre civili e tribali in Africa, sono connesse, più o meno strettamente, alla gestione egoistica, particolarmente nel trascorso ventennio, della globalizzazione da parte delle grandi corporation multinazionali e dalla politica di potenza dei paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti di Bush e la Gran Bretagna di Blair, ma anche dalla Cina. La regressione della sinistra nel mondo occidentale euroatlantico La rivoluzione tecnologica ha avuto come primo effetto quello di trasformare e sconvolgere il lavoro operaio. La base sociale primaria e fondamentale dei partiti della sinistra d'ispirazione socialista, il ceppo su cui si era costruita l’organizzazione politica del movimento operaio fin dai suoi esordi e nel corso del ‘900. Il drastico ridimensionamento della concentrazione operaia in grandi fabbriche, che per altro in Italia è sempre stata minore rispetto agli altri paesi industriali dell’Occidente; il superamento dell’organizzazione fordista del lavoro; la decollettivizzazione del lavoro medesimo, la sua individualizzazione e precarizzazione insieme alla dispersione in piccole unità produttive ha dato un colpo fondamentale al partito politico della ‘’classe operaia e di tutti i lavoratori’’. Ma questo di per sé non sarebbe stato sufficiente se l’insieme del moto neoliberista, fin dal suo sorgere alla fine degli anni ’70, non avesse sconvolto l’insieme delle basi economiche produttive e, per dirla con Gramsci, i diversi gradi delle superstrutture ideali e culturali. La conseguenza è stata la progressiva messa in crisi dello stato sociale e un’incipiente devitalizzazione della democrazia nell’ambito degli Stati nazionali. La reazione popolare d'interi pezzi delle vecchie classi lavoratrici e del ceto medio impoverito, e anche delle nuove generazioni prive di futuro, non è stata intercettata e raccolta dalla vecchia sinistra socialista e socialdemocratica che, in Europa, è apparsa subalterna al neoliberismo e corresponsabile delle sue conseguenze sociali negative fino

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alla sciagurata politica di austerità imposta dall’Unione europea a dominanza tedesca. La sinistra in Europa e in America è apparsa a vari strati operai, soprattutto quelli colpiti dalle delocalizzazioni industriali e dai processi di rivoluzione tecnologica destrutturanti la vecchia fabbrica fordista, come facente parte delle élite e dell’establishment globalista. All’internazionalismo delle multinazionali e della finanza, cioè all’internazionalismo del capitale e dei padroni, la sinistra non ha saputo contrapporre nessuna iniziativa efficace; anche quando ha elaborato proposte importanti per una governance da sinistra della globalizzazione, come quelle contenute nel rapporto del 2004 del Presidente del PSE Paul Nyrup Rasmussen. Poi ci si è limitati a qualche flebile lamentela. Nessun movimento internazionale dei lavoratori e delle forze democratiche degno di nota è stato organizzato per contrapporsi alla globalizzazione neoliberista, per contestarne le regole, tutte a favore di una vera e propria borghesia globalista di cui non si è combattuto il progressivo arricchimento a danno dei lavoratori, del ceto medio e degli equilibri ecologici. La sinistra socialista e socialdemocratica, abbagliata da quelle che sembravano essere, in questo ultimo trentennio, le sorti magnifiche e progressive della globalizzazione neoliberista, è andata affievolendo nei fatti la sua ragione d’essere e il suo DNA: la lotta contro l’ingiustizia sociale e per l’eguaglianza e la solidarietà. Non si è accorta, come ha rilevato Luciano Gallino, che “Verso il 1980, ha avuto inizio in molti paesi – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania – quella che alcuni hanno definito una contro rivoluzione e altri, facendo riferimento ad un’opera del 2004 dello studioso francese Serge Hailimi, un grande balzo all’indietro. Le classi dominanti si sono mobilitate e hanno cominciato loro a condurre una lotta di classe dall’alto per recuperare il terreno perduto …. In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino [dai lavoratori e dai cittadini n.d.r.] ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente”. (Luciano Gallino “La lotta di classe, dopo la lotta di classe”, pp. 11-12, editori Laterza, Bari) La parola e l’azione contro l’approfondirsi delle diseguaglianze e per contrastare la “lotta di classe dall’alto” sono state stata lasciate ai movimenti “no global”, per lo più giovanili, generosi ma sopraffatti, alla fine, da una grande disparità di forze in campo. La sinistra ufficiale è stata a guardare dietro le illusioni della “terza via blairiana”, non celando la sua diffidenza verso questi movimenti. La reazione degli strati sociali popolari colpiti, alla fine ha gonfiato le vele, com’era prevedibile, alla destra xenofoba e nazionalista e ai movimenti populisti di varia natura. Da qui l’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti e la marcata crescita dei partiti e movimenti di destra xenofoba e nazionalista in Europa. Così come l’esito del referendum sulla Brexit in Gran Bretagna, ha mostrato lo slittamento di intere porzioni delle classi popolari dai vecchi partiti della sinistra e democratici verso posizioni protezioniste e nazionaliste. Mentre la netta vittoria del NO nel referendum sulla riforma costituzionale in Italia, è stata essenzialmente motivata dal rigetto delle politiche sociali di riformismo debole trascolorante in un incipiente neoliberismo del PD renziano.

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Il “caso italiano” In Italia il declino della sinistra ha avuto una sua specificità, facendo rivivere in negativo il “caso italiano”, come fu definita nel lungo dopoguerra repubblicano l’anomalia di una sinistra italiana a maggioranza comunista. Infatti, alla fine della lunga transizione durata un quarto di secolo, il “caso” italiano si segnala oggi, da una parte, per l’estrema debolezza e frammentazione della sinistra medesima e dalla dismissione di ogni suo riferimento al socialismo e, dall’altra, per la presenza emergente di un soggetto, il M5s, difficilmente catalogabile nel panorama delle destre populiste, xenofobe e nazionaliste. Sul finire degli anni ’70 e all’inizio degli ’80, quando le trasformazioni erano incipienti e già avvertibili - la sconfitta alla Fiat nell’autunno del 1980 con la marcia dei ‘’quarantamila’’ fu da questo punto di vista paradigmatica - il segretario del PCI Enrico Berlinguer tentò la strada dell’analisi di ciò che stava avvenendo nel mondo della produzione e nella società civile. Mise in rilievo la diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale e il sorgere delle nuove figure dei tecnici, degli intellettuali e dei ricercatori come forze direttamente produttive. Sul terreno del partito politico Berlinguer indicò, nel 1981, la strada del rinnovamento e del collegamento con le nuove sensibilità trasversali avanzate dai movimenti in atto nella società civile. Contemporaneamente denunciò la degenerazione, in presenza della ‘’democrazia bloccata’’, dei partiti italiani che andavano trasformandosi in pure macchine di potere e di favori e dell’irruzione delle nuove tecnologie anche nel campo della comunicazione politica, delle sue potenzialità e anche dei suoi pericoli. Rileggere, per esempio, la sua intervista su ‘’Orwell, il computer, il futuro della democrazia’’ pubblicata da l’Unità il 18 dicembre 1983 è molto istruttivo per capire ciò che la sinistra avrebbe dovuto fare e non ha fatto, ciò che avrebbe potuto essere e non è stata. Purtroppo la morte di Berlinguer ha interrotto quella spinta alla ricerca e all’innovazione. Dopo di che la sinistra è come se fosse entrata in apnea, rinunciando al chiaro comprendere e al sollecito provvedere. Non ha capito i cambiamenti, li ha solo assunti acriticamente per giustificare il ritrarsi dalla battaglia sul terreno dell’organizzazione economica-produttiva e della società civile. ‘’Adeguarsi ai cambiamenti’’ è stato lo slogan di quegli anni, mentre sarebbe occorso adeguare la critica, la ‘’kritik’’ nel senso kantiano della conoscenza dei meccanismi più interni di ciò che stava avvenendo. E, infatti, ci si è adeguati, divenendo sostanzialmente subalterni al neoliberismo e alle

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diverse suggestioni culturali da esso indotte. E’ da questo adeguamento - temperato da una resistenza via via più debole perché non innervata in forze sociali organizzate e la cui divisa ‘’riformista’’ non è stata più sinonimo di cambiamenti forti ma rassegnazione programmatica al “meno peggio” - che nasce il declino del partito politico della sinistra. Il lavoro di comprensione e di riorganizzazione - a partire dalle forze sociali di riferimento, operai, tecnici nuove figure intellettuali, ricercatori e lavoratori dipendenti in genere e anche dei nuovi movimenti che andavano sviluppandosi nella società civile progressista: ambientalismo, pacifismo, nuovi diritti civili e sociali - è apparso ai giovani eredi di Berlinguer troppo impegnativo, oneroso, faticoso, impossibile. Soprattutto inutile. Si è fatta strada l’idea della scorciatoia politicista fondata sulla conquista del governo come chiave di volta di tutta l’azione politica della sinistra. In questo quadro il partito doveva essere quello del leader, leggero quanto basta per la manovra politica, dedicato ad una funzione essenzialmente elettorale. Un partito che non doveva formare ma raccogliere il consenso. La cosiddetta insistita formulazione dell’ ''autonomia'' del politico, in qualche modo sussunta paradossalmente dalla più lontana concezione leninista sulla funzione determinante degli intellettuali ai fini della formazione di una coscienza rivoluzionaria che, come è noto, doveva essere portata al proletariato dall'esterno della sua immediatezza economico-corporativa, ha fatto sì, ironia della storia, che nel gruppo dirigente Pds-DS-PD questa medesima concezione divenisse viatico per un allentamento dei legami con la ''classe'' e i suoi riferimenti ideali: il socialismo. Il giusto rilievo gramsciano dato al "dover essere’’, alla necessità dell’intervento soggettivo, all’iniziativa politica, all’importanza delle sovrastrutture ideali e culturali si è trasformato, nel “trentennio inglorioso”, in soggettivismo arbitrario senza nessuna valutazione dei rapporti di forza complessivi che si andavano spostando nel profondo del corpo sociale; l’intelligenza si è fatta ottimista e la volontà è rimasta pessimista. Lo stesso concetto di ''egemonia'', disancorato da un forte insediamento sociale, si è trasformato spesso in presunzione politica, in tatticismo esasperato e, a volte, in furbizia di corto respiro. Per questo la questione della legge elettorale è diventata l’alfa e l’omega di ogni discorso politico. Il sistema elettorale maggioritario da strumento temperato per assicurare stabilità ai governi è diventato strumento principe, sostitutivo dell’azione politica e programmatica, non per stringere ma per costringere alle alleanze, fino alla sua estrema involuzione costrittiva al "voto utile" e a leggi elettorali ipermaggioritarie, come il “porcellum”, a cui ci si è in definitiva opportunisticamente adagiati, o l’“italicum”, dissolventi il principio di rappresentanza. Si è pensato che il sistema elettorale maggioritario unito al partito a vocazione maggioritaria, fosse l’arma principale per mettere fine alla frammentazione a sinistra, ma è successo esattamente il contrario; e la sinistra non è apparsa mai tanto divisa e frammentata, oltre che smarrita, come oggi alla fine del venticinquennio politicista e dell’epoca maggioritaria. La sinistra postcomunista, ritrovatasi nella sequenza Pds-DS-PD, ha introiettato in forma nuova, durante il declinante percorso compiuto nel quarto di secolo passato, la vecchia e criticata illusione della "stanza dei bottoni", aggiornata e superata in una versione peggiore e perfino più inquietante: l’esercizio del potere come mezzo per creare consenso dall’alto. Il cosiddetto "riformismo senza popolo" perché senza partito. L’obiettivo della conquista del governo - essenziale per ogni azione riformatrice della sinistra che non voglia rimanere alle chiacchiere dell’antagonismo senza costrutto - espresso nel mantra "sinistra di governo", è diventato fine a se stesso, pronubo di compromessi a livello sempre più basso in nome di un malinteso realismo politico, programmaticamente dedito a evitare il peggio. Fino a diventare portatore, nella sua ultima versione renziana, di riforme, come nel campo del lavoro con il jobs act, di schietto stampo neoliberista. La sinistra postcomunista ha sostanzialmente abbandonato il luogo della lotta per l’egemonia: la società civile. E di conseguenza ha lasciato deperire lo strumento ‘’principe’’ di questa lotta: il partito politico. Strumento, invece, che andava profondamente ripensato in funzione della sua missione fondamentale sempre attuale: la

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lotta per ricostruire un blocco sociale e politico articolato in un sistema progressista di alleanze sociali e politiche. L’Ulivo, almeno quello iniziale, poteva essere questo sistema se non fosse stato dissennatamente abbattuto, nell’ennesima scorciatoia politicista, dalla ricerca spasmodica della forza riformista doc: il cosiddetto Partito Democratico. Il partito politico da strumento fondamentale per la conquista del consenso innanzitutto nella società civile è diventato regressivamente un ferrovecchio, un raccoglitore di voti e preferenze per singole correnti e cordate. Ha introiettato tutti i disvalori prodotti, in generale, dal neoliberismo all’italiana ottimamente rappresentato dal berlusconismo: personalismo, correntismo, carrierismo, clientelismo fino alla sua estrema estinzione nel PD. Non a caso, questo partito si dibatte ancora oggi sul tema della sua identità, del suo compito, della sua funzione, travolto dalla sua ultima evoluzione-involuzione, quella renziana, che l' ha portato a subire, prima, la cocente sconfitta nel referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale e, poi, la scissione di una parte importante del gruppo dirigente proveniente dalla sinistra storica. Il PD alla sua nascita ha messo insieme due cose deleterie: il correntismo estenuato, proveniente dai due partiti fondatori DS e Margherita, e il plebiscitarismo dell’investitura diretta del capo nei gazebo, segnando così un salto di qualità in negativo del galoppante processo personalistico e leaderistico che aveva segnato l’evoluzione, o per meglio dire l’involuzione, dal PCI al PDS-DS del partito politico della sinistra. A farne le spese è stata, oltre a tutto il resto, anche la cultura politica complessiva, non solo quella ereditata dalle antiche tradizioni della sinistra e del cattolicesimo democratico, compresa quella liberaldemocratica, ma anche quella più innovativa dell’ecologismo e dell’ambientalismo che s’era fatta strada tanto faticosamente nelle precedenti formazioni politiche. Non è andata meglio sul versante della sinistra ‘’antagonista’’. Al di là delle diverse posizioni politiche generali, l’altra sinistra ha mostrato, anche se in modo più nascosto, gli stessi mali personalistici e correntizi, le stesse incapacità, gli stessi sostanziali abbandoni dei luoghi della produzione e della società civile dell’altra sinistra. Affidandosi, per il resto, a “narrative” su come andava il mondo, corredate da un tatticismo politico limitato a fare il controcanto al Pds-DS-PD. Non a caso ha pagato, anche lei, un conto salato fatto di scissioni e, soprattutto, non è riuscita a raccogliere i progressivi abbandoni sociali ed elettorali del ceto operaio e popolare distaccatisi via via dai vari partiti della sinistra riformista e rifugiatisi nell’astensionismo, nei partiti localistici come la Lega, nell’allucinazione del berlusconismo e, da ultimo, nella rivolta “grillina”. A che cosa serve un partito della sinistra Come si sa un partito è uno strumento, un mezzo, per raggiungere determinati fini. I fini della sinistra sono di rendere la società più giusta, allargare le opportunità, inverare i princìpi di eguaglianza, libertà, solidarietà. E’ già tutto scritto, e magistralmente, nella Costituzione della Repubblica. Quando nel lontano 1977 in un famoso discorso, a Benevento, l’on. Moro chiese all’allora PCI di Berlinguer di delineare i contorni di quella società socialista alla cui realizzazione i cattolici democratici erano invitati a contribuire, la risposta non venne con chiarezza. Probabilmente era ancora troppo forte il condizionamento ideologico per il quale la Costituzione era sì una cornice avanzata, aperta a trasformazioni di tipo socialista ma non poteva in sé conchiuderle. Il nesso indissolubile, per altro già affermato, fra democrazia e socialismo, continuava comunque a fondarsi sul salto di qualità di un passaggio di società. Il gradualismo dell’avanzata verso il socialismo, nella democrazia e con la democrazia, avrebbe richiesto a un certo punto un andare oltre la Costituzione. Insomma fra democrazia e socialismo non c’era più certamente la famosa ‘’muraglia cinese’’, anzi

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il rapporto era concepito e praticato come organico sul terreno della lotta quotidiana, ma la teoria risentiva ancora di vecchi e non completamente superati condizionamenti ideologici. Per questo, probabilmente, al quesito di Moro non fu risposto nettamente: la società socialista è quella delineata dai princìpi della Costituzione repubblicana. Il problema oggi non si pone più in termini di un passaggio a una società altra, autoregolata e senza interne contraddizioni: una grande utopia. La lotta continua e permanente per inverare i princìpi e i dettami della Carta fondamentale nella società presente è ormai definitivamente libera dai condizionamenti palingenetici del sol dell’avvenire. L’esperienza storica ci dice che il passaggio da una formazione economico-sociale di tipo capitalistico a un’altra di tipo socialista, è questione assai più lunga e complessa di quella concepita nello scorso secolo breve dalla vulgata marxista. Ha una dimensione mondiale o, almeno, continentale. Procede per cambiamenti, anche molecolari, che attraversano le contraddizioni interne al meccanismo capitalista di cui occorre dominare l’anarchia delle forze produttive e finanziarie; si dipana tra alti e bassi, fasi di avanzamento e di regresso, in una lotta incessante fra le forze democratiche e socialiste e quelle neoliberiste. Questo lento cammino, il cui esito positivo non è per niente iscritto in un destino storico inevitabile e provvidenziale e i cui avanzamenti possono essere revocati, e gravemente revocati, dalla storia, è punteggiato da crisi locali e globali di varia natura e dimensione. Non solo economiche. La recente crisi finanziaria ed economica mondiale ha di nuovo messo in luce in maniera parossistica la contraddizione sempre immanente al modo di produzione capitalistico tra il carattere sociale della produzione e il carattere ristretto, anzi ristrettissimo nell’era del neoliberismo globalizzatore, della conduzione economica, soprattutto finanziaria, e dell’appropriazione della ricchezza prodotta. La risposta democratica a questo problema – a livello mondiale e nei singoli stati e continenti – sta nell’affermare l’intervento pubblico per regolare il funzionamento del mercato, per dominare gli animals spirits del capitale superando appunto l’anarchia delle forze produttive e finanziarie. ‘’E che cos’è il socialismo – diceva Berlinguer nell’intervista su Orwell – se non questo? E’ la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita culturale di tutta l’umanità’’. In Italia si pone specificamente il problema, più che mai attuale, di una rivoluzione democratica volta a liberare il paese da tutte le rendite parassitarie, dal corporativismo e dal particolarismo a esse congenito, per dotarlo di un welfare universale di cittadinanza, di regole democratiche nel campo dell’economia e della finanza che rompano oligarchie e monopoli, di forti politiche pubbliche volte alla sostenibilità ambientale dello sviluppo. Una rivoluzione democratica per riformare le strutture socio-economiche del paese e per liberarlo dalle bardature del potere burocratico che vada di pari passo con una riforma intellettuale e morale della Nazione. Il secondo comma dell’art 3 della Costituzione dice: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese’’. La sinistra, che di questo compito ha fatto storicamente la sua ragione di vita e che è riuscita a trasfonderlo nella Carta fondamentale, non può non riprenderlo con forza ed energia, riarmandosi di una forte volontà riformatrice e abbandonando l’anemico riformismo praticato in questi ultimi lustri. Un compito gigantesco da assolvere in un processo continuo dove democrazia e socialismo si fondono e si confondono. Un solo partito per una sola sinistra pluralista

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Non si ricostruisce una grande forza della sinistra se non si sgombera definitivamente il campo dalla teoria delle due sinistre: quella riformista e quella antagonista, alleate ma divise e concorrenti. Una teoria che agli inizi degli anni ’90 rinverdì a più basso livello, proprio nel momento in cui erano maturate le condizioni di un suo superamento, la storica divisione della sinistra in diversi partiti d'ispirazione socialista. In questi ultimi decenni le due sinistre, pur nella loro interna articolazione, sono state le due facce di un’unica medaglia. La medaglia del loro regresso nella società e della sconfitta culturale e politica. Quest'assetto, per di più, oggi appare sfarinato in piccoli raggruppamenti che rischiano di diventare piccoli stati maggiori senza esercito. Ma come si è arrivati a questa situazione? Com'è noto l’antagonismo irrisolto fra massimalismo e riformismo fu il male congenito del vecchio partito socialista. Il PCI ne rappresentò nel contesto storico del ‘900, grosso modo, un tentativo di superamento dentro una prospettiva di trasformazione sociale riformatrice tramite alleanze sociali e politiche: un riformismo popolare e con il popolo fatto di lotte e battaglie nella società civile e in quella politica volto a raggiungere risultati concreti anche parziali. Un modo di essere e di agire che, con tutti i suoi limiti - decisivo quello della collocazione internazionale troppo lentamente abbandonata quando il mondo dei paesi socialisti era diventato l’opposto delle sue premesse e promesse - e dentro un impianto organizzativo e ideologico oggi largamente improponibile, rifuggiva dagli atteggiamenti predicatori e autosufficienti. Dentro questa prassi la lotta sociale riformatrice era considerata produttrice non solo di conquiste materiali ma anche di crescita immateriale della coscienza sociale e civile nei singoli e nelle ‘’masse’’, per certi versi perfino più importante degli stessi risultati materiali. Disseminatrice di germi di riforma intellettuale e morale nel corpo della Nazione. Produttrice di egemonia nella società civile. Il declino della sinistra italiana è cominciato, in contemporanea con la pratica scomparsa di PSI e PSDI per le note vicende di tangentopoli, con l’avvento delle due sinistre originate dalla divisione del PCI, ambedue diventate predicatorie, più simili a quella sinistra risorgimentale i cui labili legami sociali e i conseguenti limiti politici, impietosamente analizzati da Gramsci, resero subalterna all’azione del partito moderato. La sinistra che occorre mettere in campo è una. Ha per fine una rivoluzione democratica, l’inveramento della Costituzione in tutte le sue parti, la trasformazione della società nazionale con mezzi riformatori. Non può che essere socialmente e culturalmente pluralista, ispirata nella sua azione quotidiana ai valori e agli ideali di un nuovo socialismo ecologista e della libertà delle persone. Forti legami sociali per riconquistare la società civile Il partito politico in generale è sempre un elemento della società civile e di quella politica. In modi diversi, secondo i propri fini, la propria funzione, il proprio insediamento sociale. Inoltre per quanto grande esso sia, rappresenta sempre una parte della società. Una classe, o parti di essa, un ceto sociale o parti di esso o, come avviene in società complesse e stratificate, una combinazione di classi e ceti sociali, o anche comunità territoriali più o meno grandi. Un partito è anche una cultura o una combinazione di più culture, modi di essere e di sentire. Un partito di sinistra e della sinistra per non perdersi nelle nebbie dell’empireo politicista deve avere innanzitutto salde radici e saldi legami con le classi e i ceti che vuole rappresentare e che possono svolgere al di là dei propri interessi specifici e corporativi una funzione di rinnovamento nazionale di cui il nostro Paese ha oggi estremo bisogno. I 17 milioni di lavoratori dipendenti, del braccio e della mente come dicevano gli apostoli del socialismo, i 7 milioni di operai di cui ci accorgiamo solo quando fanno notizia solo per le morti quotidiane sul posto di lavoro, sono il riferimento primario, anche se non esclusivo, del partito politico della sinistra. Non solo lavoro dipendente, ma anche lavoro autonomo di vario ordine e grado e anche impresa. E poi deve essere un partito popolare che insieme al nucleo trainante del

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lavoro aggrega le tematiche, gli interessi trasversali dei cittadini e delle persone al di là della loro collocazione produttiva: ecologia, diritti civili, associazionismo civile e solidaristico in genere. Più specificamente oggi un partito della sinistra deve sapersi collegare organicamente a figure sociali complesse attraversate da interessi materiali, sociali e culturali a volte complicati e anche contraddittori. Si pensi, oltre la non risolta e aggravata questione meridionale, alla non risolta questione femminile, alla risorgente e drammatica questione giovanile, alla nuova questione degli anziani, alla irrompente questione della multietnicità e della multiculturalità. Alla grande e trasversale questione ecologica che travalica e sussume la contraddizione di classe, chiamando in causa nella lotta democratica e socialista la ‘’comune natura umana’’ delle persone. Tutte questioni, e movimenti concreti, che occorre comprendere nella loro condizione materiale e nella loro rappresentazione culturale e psicologica, per dipanarle dentro un movimento volto al superamento dell’immediatezza corporativa del singolo, della categoria, del territorio, dell’etnia, per perseguire soluzioni all’insegna dell’interesse generale e pubblico. Pur guardando a tutto campo, oltre i propri e primari riferimenti sociali, il partito della sinistra non è un partito ‘’pigliatutto’’, non è un partito interclassista o aclassista o, come si è adombrato recentemente per il PD, un “partito della Nazione”. Il partito della sinistra deve rappresentare e innervarsi innanzitutto in coloro che nella società hanno bisogno, come prescrive la Costituzione, di avere rimossi quegli ostacoli di ordine economico e sociale ma anche civile - i diritti - e culturale che limitano di fatto la loro libertà e la loro effettiva eguaglianza. L’egemonia cui ogni grande forza politica di sinistra naturalmente tende in società complesse e stratificate, deve essenzialmente essere perseguita nella lotta e nell’azione per la costruzione di alleanze sociali e politiche. Un partito di sinistra o progressista che in una società come quell'italiana punti all’autosufficienza elettorale è un partito che inevitabilmente assume un profilo moderato di riformismo debole e debolissimo. La recente disastrosa esperienza del PD lo conferma. Alla sinistra paradossalmente non serve un partito grande come contenitore ma un grande partito produttore di egemonia culturale e politica in grado di costruire solide alleanze sociali e politiche. Un grande partito nazionale per insediamento sociale e culturale. Il luogo della lotta che bisogna riconquistare è quello della società civile. E’ qui che la funzione del partito diventa primaria. E’ qui che le lotte economiche e sociali s' incontrano con quelle ideali. E’ qui che s'incrociano quelle trincee e quelle casematte da occupare. In particolare quelle della formazione culturale e ideale: scuola e Università; e quelle della formazione dell’opinione pubblica. E’ qui che si svolge la lotta per l’egemonia che è un concetto ben più complesso del semplice consenso elettorale. Ed è da qui, infine, che si stabilisce il canale di comunicazione, non unidirezionale beninteso, con la società politica, con lo Stato e i suoi organi rappresentativi. Per la sinistra operare nella società civile è fondamentale e molto più impegnativo che non per partiti che non tendono per loro natura al cambiamento progressivo e progressista; che nel migliore dei casi vogliono conservare l’ordine esistente, tutt’al più moderandolo nelle sue asperità sociali, o che nel peggiore di quei casi si propongono solo di cavalcare gli istinti più deteriori anti solidaristi e antistatuali, anarchico-guicciardiniani. La società italiana coltivata dal neoliberismo populista berlusconiano di questi ultimi lustri ha prodotto e produce naturalmente egoismo sociale, anti solidarismo, refrattarietà alle regole di uno stato liberale. Costruire un senso comune opposto significa produrre un di più di impegno per imbrigliare nella società, per parafrasare Rita Levi Montalcini, i limbici ed emozionali animals spirits e far prevalere i valori di giustizia, solidarietà, eguaglianza, rispetto delle regole pubbliche, propri della razionalità neocorticale. Il terreno della società civile lasciato a se stesso produce erbacce, se si vogliono raccogliere le messi bisogna che la sinistra torni a coltivarlo.

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Il partito della sinistra non può perciò ridursi a mero contenitore di cose indistinte sul piano sociale e culturale, un novello ‘’Circo Barnum’’, non può ridursi a mero raccoglitore di consenso elettorale sempre più ristretto e labile. Il partito della sinistra deve tornare a essere anche uno strumento di formazione del consenso e selezionatore di una classe dirigente competente e moralmente motivata attraverso una complessa azione sociale, politica culturale nella società civile e in quella politica. L’innovazione organizzativa del Partito politico della sinistra Per ricostruire legami forti con i propri riferimenti sociali e con la società civile progressista in generale, occorre ricostituire un’attiva forza politica di massa. Come può la sinistra tornare a stabilire legami forti e stabili con i lavoratori, i giovani, le donne, le forze intellettuali, i ceti produttivi, i movimenti civili? Come può incontrare organicamente e più largamente la cultura e i movimenti ambientalisti? Certo, con contenuti programmatici adeguati, con un profilo ideale e culturale forte e convincente, con proposte e comportamenti etici e politici coerenti, con l’organizzazione di movimenti e di lotte sociali, politiche, ideali e culturali efficaci. Per questo occorre anche un’innovazione organizzativa e politica che produca una nuova forma-partito. Il partito tradizionale fatto di soli iscritti ormai è superato e non più corrispondente alla moderna vita sociale. Ce lo dicono le cronache sui tesseramenti gonfiati in vista dei Congressi. Le destre e i populismi hanno scelto il partito plebiscitario fondato sul carisma o i soldi del capo o, come nel M5s, sul carisma del capocomico. La sinistra non li può seguire né scimmiottare su questa strada. La sinistra per essere tale deve non solo raccogliere il consenso ma anche in qualche misura formarlo. E per farlo deve avere dentro di sé le forze sociali e il pluralismo culturale dei rappresentati. L’idea di un partito strutturalmente federato dove trovino posto organicamente forze sociali e culturali, movimenti progressisti presenti nella società civile, militanti e aderenti, potrebbe essere la soluzione innovativa e flessibile valida per afferrare la società proteiforme. Un partito non liquido, perché la società non è liquida, fortemente strutturato, perché la società è strutturata. Il che non vuol dire che è statica e fissa, vuol dire che i suoi movimenti strutturali e sociali, che si velocizzano sempre più, avvengono lungo crinali segnati dai rapporti di forza materiali e di classe tutt’altro che evanescenti. Il moderno partito della sinistra deve essere in grado, come un sismografo, di percepire continuamente e fisicamente questi movimenti e cambiamenti, sapendoli analizzare e interpretare mentre avvengono e non solo quando sono già avvenuti. E ne deve saper percepire e riconoscere anche gli effetti nei diversi gradi delle sovrastrutture ideali e culturali per saperli indirizzare verso i suoi precipui valori. Questo pone il problema della cultura politica con cui penetrare e interpretare la trasformazione sociale. Un partito fortemente pluralista socialmente e culturalmente non può affidarsi a una sola cultura politica. Un cambiamento complesso di un paese complesso, ha bisogno di più culture e di più ispirazioni ideali e culturali per essere interpretato e guidato. Anche il PCI, a suo modo, aveva diverse sensibilità culturali fortemente annodate attorno all’egemonia del filone principale dello storicismo materialistico di ascendenza gramsciana e togliattiana, derivante a sua volta da quello idealistico crociano. Ma oggi quell’ispirazione e quel modello culturale sono insufficienti. Parimenti, appare altrettanto insufficiente allo scopo, accorpare ecletticamente ispirazioni ideali e culturali diverse in un calderone dove il filo conduttore della trasformazione viene a smarrirsi. Perché questo è il punto: la trasformazione sociale dettata dalla Costituzione. La trasformazione del Paese non come scelta ideologica ma, innanzitutto, come necessità nazionale. La trasformazione attraverso una rivoluzione democratica e liberale in grado di emanciparlo dalle tare storiche che ne imprigionano le energie produttive e civili. Una formazione di sinistra e progressista per essere tale deve avere nel suo codice genetico la missione della trasformazione progressista del Paese, per non dire del mondo. E allora le culture che la devono abitare devono essere quelle fortemente motivate alla trasformazione

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sociale e alla sostenibilità ambientale. Le ascendenze filosofiche e teoriche saranno diverse, anche di natura religiosa come quelle, particolarmente efficaci e stimolanti, sollecitate oggi dall’impegno e dal magistero di Papa Bergoglio; ma tutte, nella più piena laicità del partito, devono essere annodate dalla missione forte del cambiamento: quello che esige la nostra Carta fondamentale. Diversamente si continueranno ad avere formazioni deboli sul piano ideale e morale, il cui pluralismo degrada organizzativamente in un estenuante ed estenuato correntismo a struttura feudale che tende a bloccare i canali di collegamento con la società civile. Sul piano più strettamente organizzativo occorre pensare a un partito, comunque lo si voglia chiamare, di tipo federativo che stabilisca rapporti organici con i ceti sociali e i movimenti civili di riferimento. In concreto bisogna prevedere nelle assemblee congressuali e a tutti i livelli degli organismi dirigenti del partito la presenza obbligata di quote da definire di operai e lavoratori in genere eletti direttamente nei luoghi della produzione. Di giovani eletti direttamente nei luoghi di studio, di formazione e della ricerca. Di militanti provenienti dal territorio. Di rappresentanti dell’associazionismo ecologista, del volontariato e di quello culturale progressista con adesioni anche collettive e federate. Sempre ripartiti su base egualitaria fra i sessi. Una rete di massa che incroci i luoghi della produzione, quelli dell’associazionismo nella società civile, quelli dell’organizzazione territoriale, intrecciata in strutture territoriali di tipo federativo. Un modello organizzativo che unisca insieme, in modo aggiornato ovviamente, la capacità della vecchia casa del popolo di rappresentare la società civile progressista del territorio a quella delle camere del lavoro sindacali di rappresentare la complessità del mondo del lavoro dipendente. Strutture territoriali in cui la complessità economica, sociale, culturale e associativa possa intrecciarsi e interagire per produrre sintesi programmatica e azione politica organizzata. Attraverso una massa di aderenti impegnati a “fare politica” nei vari luoghi della produzione e del territorio, per risolvere problemi concreti secondo l’ispirazione e le coordinate di una linea politica generale. Una massa che non si limiti, quindi, a fare da spettatrice della politica mentre i suoi esponenti recitano nei vari talk show televisivi, o che si limiti a commentare e a votare i capicorrente nei congressi o nei gazebo. Militanti, perciò, non solo spettatori o propagandisti sui social network. I nuovi strumenti comunicativi messi a disposizione dalla tecnologia, come la rete popolata dai social network, devono essere usati per aiutare l’organizzazione del partito e dell’azione politica, per la comunicazione interna ed esterna, ma non possono sostituirsi alla discussione collettiva nella riunione, nell’assemblea, nell’incontro più largo fra persone per esaminare i problemi e poi decidere quali soluzioni dar loro e con quale iniziativa e azione politica; insomma per discutere e decidere il che fare. Il partito “a rete” non coincide ed è opposto al “partito della rete. I tempi e le condizioni della ricostruzione Dopo la profonda disarticolazione sociale, etica e culturale della sinistra italiana, sarebbe ingenuo e illusorio pensare di ricostruirne una grande forza in tempi brevi. Misurare le possibilità d'incidenza politica di ciascun gruppo in cui essa oggi è frantumata, seguendo i sondaggi elettorali settimanali dei vari istituti specializzati è fuorviante. La prima necessità è di unificare le forze disperse ma, soprattutto, riuscire a rinnovarle attraverso il contatto organico con le forze sociali popolari e lavoratrici di riferimento, con l’associazionismo diffuso e i movimenti progressisti operanti nella società civile. Sarebbe sbagliato presentarsi a essi come “loro rappresentanti” mentre, invece, occorre chiamarli ad essere direttamente protagonisti della ricostruzione della forza politica e del partito della sinistra. Limitarsi all'unificazione di pezzetti di vecchio e consumato ceto politico, per

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di più proveniente da una sconfitta storica, sarebbe del tutto asfittico e inadeguato alla bisogna. Ciò che occorre riannodare subito è un movimento sociale attorno a punti qualificanti e prioritari che diano risposte concrete ai problemi dei lavoratori dipendenti e autonomi, a cominciare dall’abbattimento del precariato; ai problemi delle nuove generazioni a cominciare dall’occupazione con un piano straordinario per il lavoro; ai problemi di un nuovo welfare di cittadinanza, dell’immigrazione, della sicurezza sociale, dei diritti civili e di libertà. A essi vanno connessi strettamente gli obiettivi di una politica economica neokeynesiana informata allo sviluppo ecologicamente sostenibile e alla guerra a ogni corruzione e privilegio. Senza questo impegno precipuo, ogni altro discorso su alleanze, schieramenti politici, “campi” più o meno larghi e progressisti da realizzare, con o senza il PD, con o senza questo o quell’altro dei numerosi soggetti che recitano nel “campo di Agramante” dell’attuale sinistra, continuerà ad essere asfittico, sembrerà un parlar d’altro lontano dal sentire popolare. Decisiva per una riconquista di fiducia e credibilità è la divisa di sobrietà di vita personale che aderenti, militanti, dirigenti e rappresentanti istituzionali della nuova sinistra debbono darsi; segno di una rinnovata passione politica, di impegno personale nella lotta per la giustizia e contro le disuguaglianze; di disinteresse personale e dedizione al bene pubblico. La costruzione di un movimento sociale e di una nuova forma-partito di tipo federativo vanno strettamente intrecciati. Sul piano europeo e internazionale una ricostruenda forza di sinistra deve subito proporre forme di lotta e di mobilitazione alla variegata sinistra continentale su punti concreti dell’agenda europea: un piano straordinario per l’occupazione unito a quello per investimenti produttivi e per le infrastrutture; provvedimenti contro le delocalizzazioni produttive basate sul dumping sociale; abbattimento delle politiche di austerità e revisione dei parametri di Maastricht; governance e tassazione uniforme delle transazioni finanziarie unite al controllo sui movimenti finanziari; una legislazione europea sui diritti dei lavoratori e per la sostenibilità ecologica; la democratizzazione delle istituzioni europee con il superamento del metodo intergovernativo. Tutto ciò per dare un rinnovato respiro internazionalista alla sinistra italiana ed europea contrastando concretamente, e non solo a parole, le spinte populiste, nazionaliste e xenofobe delle destre. In questo lavoro ricostruttivo di lunga lena bisogna rifuggire dall’ansia da prestazione elettorale e dei conseguenti sondaggi. Se si ha esatta coscienza dell’ampiezza e profondità del regresso avuto, non si può pensare a una rapida e folgorante ripresa e ricostruzione. Più di ogni altra cosa deve contare la determinazione a imboccare e perseguire la strada giusta. Per tornare a essere grandi, socialmente, politicamente, culturalmente, moralmente e, quindi, anche sul piano elettorale.