platone a siracusa

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DIOGENE 56 N. 17 Dicembre 2009 IL FILOSOFO Platone a Siracusa l singolare legame di Platone con la città di Siracusa è stato ampiamente affrontato dalla critica storica. Il fi- losofo greco compì diversi viaggi: partecipò a diverse spedizioni mili- tari durante la Guerra del Peloponneso, compì viaggi per la Grecia, l’Egitto, l’Italia. A Siracusa capitò quasi per caso, nel 388. La città siciliana divenne, da quel mo- mento, una sorta di ossessione per lui: una sorta di città-laboratorio per i suoi esperimenti politici, che avevano lo scopo di coniugare la figura del sovrano con quella del filosofo. Durante la sua prima visita a Siracusa, conobbe il ti- ranno Dionisio il Vecchio, che ben pre- sto lo prese in odio, tanto che il suo ritorno ad Atene fu, a quel che narrano i biografi, alquanto rocambolesco. La vi- cenda siracusana sarebbe finita lì, se Platone non avesse conosciuto anche Dione, cognato di Dionisio: un perso- naggio dalla mente brillante che si ap- passionò ai suoi discorsi. Fu costui che, vent’anni dopo, lo richiamò a Siracusa allo scopo di convertire alla filosofia il nuovo tiranno, suo nipote Dionisio il Giovane, figlio del precedente monarca. Nel ventennio intercorso tra il primo e il secondo viaggio a Siracusa, Platone aveva fondato ad Atene la sua scuola, l’Accademia, e aveva scritto molti dei suoi dialoghi. Tra questi, La repubblica, monumentale riflessione sulla politica e la giustizia, che conteneva i presupposti teorici per la fondazione di uno Stato perfetto. Pla- tone arrivò a Siracusa nel 367 e vi ri- mase due anni, nel corso dei quali tentò di trasformare il tiranno in filosofo. L’esito del suo tentativo di conversione fu che il filosofo dovette rientrare ad Atene, e che Dione fu esiliato. Nel 361, Platone compì il suo terzo viaggio a Si- racusa, e in questo caso dovette subire l’ira manifesta di Dionisio, che lo fece addirittura imprigionare. Il progetto po- litico subì allora una modifica: se un so- vrano non poteva essere trasformato in filosofo, si doveva mettere al potere un filosofo; Dione stava infatti progettando di rientrare a Siracusa e prendere il po- tere con la forza, un’azione violenta che Platone stesso, nei suoi scritti, non escludeva affatto. Dione prese il potere con l’aiuto militare ed economico di al- cuni accademici. L’esito dell’iniziativa, però, non fu quello sperato: se la filosofia non era riuscita a convertire un tiranno in filo- sofo, il potere trasformò ben presto il fi- losofo in tiranno. Dione si dimostrò ben presto peggiore dei suoi predecessori, tanto che venne assassinato in un com- plotto ordito, pare, dagli stessi accade- mici. Dei fallimenti siracusani, Platone parlò in uno scritto autobiografico, la Lettera VII, di cui parleremo in questo numero di Diogene: una riflessione tut- tora imprescindibile per qualsiasi filo- sofo che aspiri alla politica (o politico che aspiri alla filosofia). K A cura della redazione. La città antica: il porto, cortesia www.flickr.com. Il filosofo ateniese vide nella città siciliana il luogo ideale per i propri esperimenti politici, tutti destinati al più totale fallimento. I

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DIOGENE56N. 17 Dicembre 2009

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Platone a Siracusa

l singolare legame di Platone con lacittà di Siracusa è stato ampiamenteaffrontato dalla critica storica. Il fi-losofo greco compì diversi viaggi:partecipò a diverse spedizioni mili-

tari durante la Guerra del Peloponneso,compì viaggi per la Grecia, l’Egitto,l’Italia. A Siracusa capitò quasi per caso,nel 388.La città siciliana divenne, da quel mo-mento, una sorta di ossessione per lui:una sorta di città-laboratorio per i suoiesperimenti politici, che avevano loscopo di coniugare la figura del sovranocon quella del filosofo. Durante la suaprima visita a Siracusa, conobbe il ti-ranno Dionisio il Vecchio, che ben pre-sto lo prese in odio, tanto che il suoritorno ad Atene fu, a quel che narranoi biografi, alquanto rocambolesco. La vi-

cenda siracusana sarebbe finita lì, sePlatone non avesse conosciuto ancheDione, cognato di Dionisio: un perso-naggio dalla mente brillante che si ap-passionò ai suoi discorsi. Fu costui che,vent’anni dopo, lo richiamò a Siracusaallo scopo di convertire alla filosofia ilnuovo tiranno, suo nipote Dionisio ilGiovane, figlio del precedente monarca.Nel ventennio intercorso tra il primo eil secondo viaggio a Siracusa, Platoneaveva fondato ad Atene la sua scuola,l’Accademia, e aveva scritto molti deisuoi dialoghi.Tra questi, La repubblica, monumentaleriflessione sulla politica e la giustizia,che conteneva i presupposti teorici perla fondazione di uno Stato perfetto. Pla-tone arrivò a Siracusa nel 367 e vi ri-mase due anni, nel corso dei quali tentòdi trasformare il tiranno in filosofo.L’esito del suo tentativo di conversione

fu che il filosofo dovette rientrare adAtene, e che Dione fu esiliato. Nel 361,Platone compì il suo terzo viaggio a Si-racusa, e in questo caso dovette subirel’ira manifesta di Dionisio, che lo feceaddirittura imprigionare. Il progetto po-litico subì allora una modifica: se un so-vrano non poteva essere trasformato infilosofo, si doveva mettere al potere unfilosofo; Dione stava infatti progettandodi rientrare a Siracusa e prendere il po-tere con la forza, un’azione violenta chePlatone stesso, nei suoi scritti, nonescludeva affatto. Dione prese il poterecon l’aiuto militare ed economico di al-cuni accademici.L’esito dell’iniziativa, però, non fuquello sperato: se la filosofia non erariuscita a convertire un tiranno in filo-sofo, il potere trasformò ben presto il fi-losofo in tiranno. Dione si dimostrò benpresto peggiore dei suoi predecessori,tanto che venne assassinato in un com-plotto ordito, pare, dagli stessi accade-mici. Dei fallimenti siracusani, Platoneparlò in uno scritto autobiografico, laLettera VII, di cui parleremo in questonumero di Diogene: una riflessione tut-tora imprescindibile per qualsiasi filo-sofo che aspiri alla politica (o politicoche aspiri alla filosofia). K

A cura della redazione.

La città antica: il porto, cortesia www.flickr.com.

Il filosofo ateniese vide nella città siciliana il luogo ideale per i propriesperimenti politici, tutti destinati al più totale fallimento.

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Platone uomo politico

ella Lettera VII, Platone rac-conta che, da giovane, avevapensato di dedicarsi alla vitapolitica. Era infatti consue-tudine nell’Atene del V e

del IV secolo a.C. che i giovani di ori-gini aristocratiche si dedicassero allapolitica, un diritto che veniva loroconferito dalla nobiltà di nascita e, altempo stesso, un dovere che eranochiamati ad assolvere.Egli annoverava, all’interno della ge-nealogia famigliare, personaggi illustriche avevano scritto la storia della cittàdi Atene: da parte di padre, Codro, l’ul-timo leggendario re di Atene; da partedi madre, Dropide, parente di Solone,saggio legislatore, che nel VI sec a.C.aveva attuato importanti riforme ditipo economico e sociale per la città.L’occasione per cimentarsi nella ge-stione degli affari pubblici avvenne inun periodo difficile, al termine dellaGuerra del Peloponneso, che avevavisto contrapposti per quasi trent’anni,dal 431 a.C. al 404 a.C., Atene e Spartain una lotta estenuante per il dominiodella Grecia. Atene ne era uscita sconfitta e avevadovuto accettare le condizioni impostedai vincitori: la distruzione delle muradi cinta della città e delle “lunghe mura”che la univano al Pireo, e la costituzionedel governo oligarchico dei Trenta, so-stenuto da Sparta stessa. Appartene-vano a questa cerchia di governanti suo

zio Carmide e lo zio di sua madre, Cri-zia, che lo invitarono subito a unirsi aloro. Egli non accettò perché si era ac-corto da subito che essi agivano inmodo violento, compiendo nefandezzedi ogni sorta: ad esempio, avevano cer-cato di coinvolgere Socrate nell’ucci-sione di un loro avversario politico, uncerto Leone di Salamina, ma invanoperché quello si era rifiutato preser-vando la propria integrità morale.

La morte di Socrate

Quando il regime dei Trenta fu rove-sciato dai democratici nel 403 a.C., Pla-tone riprovò a dedicarsi onestamentealla vita politica, ma ancora una voltanon gli fu possibile, dato che questi ul-timi si rivelarono peggiori dei loro pre-decessori: nel 399 a.C. si macchiaronodi un crimine orrendo, condannando amorte Socrate, “l’uomo il più giusto traquelli del suo tempo”, accusandolo in-giustamente di empietà e di corruzionedei giovani. La condanna del maestro fuper Platone un evento drammatico chelo segnò profondamente, determinandoin modo decisivo le sue riflessioni poli-tiche e le sue scelte di vita. Nel corso di quegli anni drammatici,Platone aveva compreso che il malgo-verno era il male peggiore che afflig-geva la città: i governanti, infatti, invecedi mantenere in salute il corpo civico,erano i diretti responsabili delle ingiu-stizie che si compivano al suo interno.

Si pensa sempre al filosofo ateniese come a un intellettuale immerso nellesue elaborazioni teoriche, qui ne viene tracciato un profilo che mette inevidenza anche e soprattutto l'aspetto pratico, offrendo un’immagine ineditadello stesso: uomo di pensiero e uomo d’azione.

K Francesca SpinellaLaureata in filosofia.Collaboratrice di Diogene.

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L’unica soluzione possibile consistevaallora nell’unione della filosofia e delpotere politico, ossia sarebbe stato pos-sibile debellare il male che affliggeva lacittà solo se i filosofi fossero saliti al po-tere o se, viceversa, i governanti si fos-sero fatti filosofi, perché la filosofiaavrebbe permesso di distinguere ciò cheera buono e giusto sia nella vita pub-blica sia in quella privata. Platone sa-peva che non era per niente facile cheavvenisse questa alleanza nella realtà, etemeva che sarebbe solo una vana spe-ranza difficilmente traducibile in pra-tica. Disgustato dalla politica della suacittà, rassegnato a non poter agire one-stamente in patria, se ne allontanava erivolgeva lo sguardo verso altri oriz-zonti. Dopo la morte di Socrate si recòa Megara presso Euclide, da lì si spostòin Egitto a Cirene e poi si diresse inMagna Grecia, prima a Taranto, dovestrinse amicizia col pitagorico Archita, epoi in Sicilia, a Siracusa, dove, come ve-dremo, ebbe modo di entrare in con-tatto con la tirannide dionisiana.

La fondazione dell’Accademia

Al ritorno dal suo primo viaggio in Si-cilia, tra il 387 e il 385 a.C., Platonefondò ad Atene l’Accademia, unascuola così denominata perché situatapresso il giardino dell’eroe Academo. Inquesta sede era possibile discutere dimolteplici argomenti, da quelli filoso-fici a quelli etici e politici, e proprio quila maggior parte dei dialoghi del filo-sofo vennero presentati, sottoposti aldibattito e revisionati criticamente.Non c’era alcuna imposizione di un’or-todossia dottrinale da parte del maestro,che risultava un primus inter pares piut-tosto che un caposcuola. Così a ognunoera consentito discutere, proporre leproprie idee e mantenere la propria au-tonomia intellettuale. Gli accademici si confrontavano, siscambiavano riflessioni, praticando “ildiscorso vivente” (evocato nel Fedro),luogo della prolungata “vita in comune”da cui sarebbe scaturita nelle loroanime la vera filosofia. In questo conte-sto intellettuale, si svolgevano tutte leconversazioni teoriche sulla città ideale.Ma cosa facevano gli accademici a li-vello pratico per tradurre nella realtà illoro progetto? Essi non perdevano mai

di vista le circostanze politiche che, nelmondo greco, risultassero propizie allarealizzazione di una città giusta, aspet-tando il momento opportuno per agire.In definitiva, dal punto di vista dell’im-pegno politico, l’istituzione della scuolaera per Platone un modo per racco-

gliere attorno a sé un gruppo di amici edi compagni fidati con i quali poterenon solo pensare la rifondazione dellacittà secondo criteri di virtù e di giusti-zia, ma anche cercare di attuarla. Latragica fine di Socrate, che aveva predi-cato indiscriminatamente e provocato-riamente verità e giustizia, gli avevainsegnato che non si poteva entrare nel-l’agone politico senza una solida orga-nizzazione alle spalle, altrimenti si eradestinati a soccombere.Inoltre, egli aveva ancora impresso nellamente il senso di solitudine provato dagiovane di fronte alla corruzione diAtene, e anche la cocente delusione si-racusana presso Dionisio I. Quindi erameglio munirsi di alleati e di collabora-tori di fiducia e agire su due fronti: for-mare un ceto di filosofi in grado digovernare saggiamente oppure interve-nire presso governanti che già detene-vano il potere.

Il filosofo-medico

L’esperienza siracusana, per quanto fal-limentare, lo aveva fatto riflettere sulrapporto che avrebbe dovuto intercor-rere tra la classe degli intellettuali e ilpotere. Il filosofo avrebbe dovuto rive-stire il ruolo di consigliere del tiranno,affiancandolo come una guida. Allo

stesso modo in cui il medico prescri-veva una terapia efficace per tutelare lasalute dei suoi pazienti, egli avrebbe of-ferto i propri saggi consigli al sovranoallo scopo di curare la sua anima equella dei suoi sudditi. Il medico ippo-cratico, che costituiva il modello a cuisi ispirava Platone, si premurava di im-partire suggerimenti sulla condotta divita al fine di mantenere l’equilibriodegli umori del corpo. Così il filosofo-consigliere avrebbe do-vuto preoccuparsi di offrire le sue linee-guida a colui che deteneva il potere,affinché costui riuscisse ad armonizzaretra di loro i vari aspetti del suo carat-tere, diventando in tal modo padrone dise stesso. Il filosofo, come un buon me-dico, avrebbe somministrato la medi-cina dell’educazione all’allievo-tiranno,il quale, da buon paziente, avrebbe do-vuto accettare di seguire la terapia chea quest’ultimo era stata prescritta. Asua volta, egli si sarebbe trasformato inmedico di se stesso e della città che go-vernava.L’impresa all’atto pratico era in realtàmolto difficile: infatti, l’attitudine deltiranno è di solito diametralmente op-posta a quella del medico. Se quest’ul-timo somministra purghe per purificareil corpo del malato, il tiranno invecepratica “purghe” nei confronti degli ele-menti migliori del corpo civico, che po-trebbero criticarlo e cercare di limitarele sue azioni, per circondarsi piuttostodi individui mediocri, che lo adulinocostantemente. Se era chiaro che l’impresa di “curare iltiranno” era così difficile, perché alloratentare?Platone, quando, in più occasioni, sirecò a Siracusa, pur conscio delle diffi-coltà, si sentiva vincolato al suo doveredi filosofo, che era quello di mostrare altiranno la via giusta da seguire. La postain gioco era alta: se costui si fosse per-suaso a seguire quella via, “se filosofia epotere si fossero riunite nella sua per-sona, a tutti gli uomini della terra, Grecie barbari, sarebbe stata chiara questaverità: che nessuna città e nessun uomosono felici, se non vivono secondo sag-gezza ispirata da giustizia, sia che le ab-biano in sé come virtù, sia che leabbiano apprese attraverso la giustaeducazione ricevuta da uomini retti”.

“Nessuna città e nessun uomo sono felici se non vivono secondo saggezzaispirata da giustizia”.

Platone

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Gli accademici e i tiranni

L’ipotesi di convertire alla filosofia i ti-ranni di Siracusa era sembrata a Platonela via più rapida e veloce per l’instaura-zione dall’alto di un buon governo nellacittà siciliana: infatti, il tiranno avevaun’autorità tale da potersi permetteredi modificare il regime politico senzadover rendere conto a nessuno. Sarebbestato possibile un cambiamento radi-cale senza dover passare attraverso viepiù complesse, come quella del dibat-tito politico e della persuasione dellemasse, per le quali, come è noto, il filo-sofo ateniese provava il massimo di-sprezzo. L’impegno di Platone eradunque essenzialmente rivolto all’edu-cazione pacifica dei potenti, coerente-mente con la convinzione, espressaanche nella Lettera VII, che le parole

fossero le armi più potenti. Al contrario, spesso e volentieri, i nu-merosi coinvolgimenti degli Accade-mici nelle tirannidi del IV sec. a.C.ebbero dei risvolti violenti. Ad esempionel 359 Pitone ed Eraclide uccisero iltiranno trace Cotys, nel 352 Chione eLeone uccisero il tiranno di Eraclea,Clearco. La stessa avventura siracusanasi tinse di tinte fosche quando nel 357Dione mosse un’offensiva al nipoteDionisio II appoggiato da buona partedegli accademici. Secondo Mario Vegetti si può parlaredi un vero e proprio furor tyrannicusche caratterizzò l’attività dell’Accade-mia, in particolar modo durante gli ul-timi anni di vita di Platone e negli anniimmediatamente successivi alla suamorte (347 a.C.). Certo, il sospetto che

gli accademici desiderassero abbattere itiranni per prendere il loro posto eraforte, tanto che essi furono spesso ac-cusati di voler rovesciare le costituzionivigenti spinti dalle loro stesse aspira-zioni tiranniche. Dunque, da una parte si assisteva al di-battito dialettico interno alla scuola,dall’altra al tentativo “di passare dalleparole all’azione” al di fuori dell’Acca-demia, due aspetti che coesistevano.Platone, nella Lettera VII, ci lascia di séil ritratto di un uomo di pensiero chetuttavia non disdegnava l’azione: eglielaborava accuratamente il suo disegnoteorico, ma non rimaneva però sordo alrichiamo dell’esperienza reale, nellaquale si immerse più volte, uscendonesconfitto, ma mai piegato. K

La città antica: lo stadio, cortesia www.flickr.com.

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I viaggi di Platone

ella Lettera VII, Platone dicedi essersi recato per la primavolta in Sicilia quando stavaelaborando il progetto diunione della filosofia e del

potere politico. Aveva capito che “ilmalgoverno era un male comune atutte le città” e che “le generazioniumane non si sarebbero mai liberate daimali se prima non fossero giunti al po-tere i filosofi veri, oppure se i gover-nanti non fossero diventati per sortedivina dei veri filosofi”. In quegli anniegli iniziò a comporre La repubblica eistituì ad Atene l’Accademia, unascuola in cui avrebbe potuto racco-gliere attorno a sé amici e compa-gni fidati con cui rifondare lacittà, rendendola sana e do-

tandola di un

governo basato sulla virtù. Le riflessioni in merito alla possibilitàdi esistenza di uno stato fondato sullagiustizia e alle modalità con cui taleprogetto si sarebbe potuto realizzareerano ben presenti nella mente del filo-sofo quando egli incontrò la tirannidesiracusana per la prima volta.Secondo lo storico antico Diogene La-erzio avrebbe intrapreso il viaggio inItalia meridionale principalmente perentrare in contatto con i circolidei pitagorici di Taranto esolo in seguito si sa-

Platone cerca per ben tre volte di tradurre in pratica le sue teorie politiche sulbuon governo alla corte dei Dionisi di Siracusa, senza ottenere alcunrisultato. Nella Lettera VII si legge il resoconto delle vicissitudini da lui vissutein nome del suo progetto: speranze e delusioni di un filosofo in azione.

K Francesca Spinella

La città antica: il mercato, cortesia www.flickr.com.

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rebbe spostato in Sicilia spinto dal de-siderio di vedere l’Etna.

Il filosofo e il tiranno

Fu quando già si trovava in Sicilia cheDionisio I lo invitò a Siracusa presso lasua corte, poiché costui amava atteg-giarsi a uomo di cultura e pensava cheospitare un filosofo del calibro di Pla-tone gli avrebbe dato lustro. L’incontrotra i due fu quindi verosimilmente laconseguenza di alcune circostanze ca-suali piuttosto che della deliberata in-tenzione del filosofo ateniese di recarsia Siracusa con il desiderio di sollecitareun cambiamento nel governo politicodella città, che allora era consideratauna tirannide importante dal punto divista politico e culturale.Platone non parla nella Lettera VII del-l’incontro con Dionisio I, ma se nepuò trovare notizia nella Vita di Dionedi Plutarco. Secondo quanto narra lostorico di Cheronea, l’argomento prin-cipale del dialogo fu la virtù. MentreDionisio I affermava con convinzionedi essere un uomo felice, Platone so-steneva che i tiranni sono gli uominiche in assoluto lo sono meno di tutti:il filosofo, infatti, argomentò che lavita degli uomini giusti è sempre fe-lice, mentre, al contrario, quella degliuomini ingiusti, come i tiranni, è sem-pre miserevole. Dionisio interpretò i discorsi di Platonecome un atto di accusa nei propri con-fronti e si irritò a tal punto da vendereil filosofo come schiavo, sostenendoche tanto non ne avrebbe sofferto poi-ché avrebbe trovato conforto nella con-sapevolezza di essere un uomo giusto!Una brutta esperienza per Platone, cheriuscì a riacquistare la libertà solo gra-zie all’intervento di alcuni suoi amiciche lo riscattarono al mercato deglischiavi di Egina.Quello che si verificò tra il filosofo e iltiranno fu, più che un incontro, un veroe proprio scontro, che lasciò il primodeluso e il secondo irritato e pieno dicollera. Tuttavia, la conoscenza più si-gnificativa che Platone ebbe modo difare durate il suo primo soggiorno a Si-racusa fu quella con il cognato del ti-ranno, Dione, che rappresentò l’iniziodi un’amicizia personale e, ancor più, diun rapporto filosofico che avrebbe se-

gnato il corso degli eventi.Platone rimase colpito da Dione poi-ché, mentre i Siracusani passavanotutto il tempo a banchettare, dedican-dosi esclusivamente al soddisfacimentodei loro desideri senza porsi nessun li-mite o freno, questi si distingueva per il

suo comportamento retto ed equili-brato. Egli divenne così l’unico vero in-terlocutore di Platone a Siracusa, il solodisposto ad accogliere i suoi insegna-menti proponendosi come collabora-tore e alleato nella realizzazione del suoprogetto filosofico-politico. Ma i tempinon erano ancora maturi, bisognavaavere pazienza e attendere il momentoopportuno.

Dal trionfo alla fuga

Dione pensò che l’occasione propiziaper realizzare il progetto politico di Pla-tone si presentasse dopo la morte diDionisio I, con la salita al potere del fi-glio, Dionisio II, il quale avrebbe potutoessere più disponibile ad ascoltare i di-scorsi del filosofo.Dione, come ricordato nella Lettera VII,“ricordandosi dei loro incontri e dicome questi gli avessero suscitato il de-siderio di una vita più bella e più no-bile”, pensò che egli dovesse ritornare aSiracusa per aiutarlo nell’impresa dipersuadere Dionisio II ad abbracciareuno stile di vita virtuoso, prima che altriconsiglieri a corte lo inducessero a per-sistere nel vizio e nella corruzione. Bi-sognava afferrare l’opportunità in modo

deciso e non tentennare, perché questavolta si sarebbe potuto realizzare quelloche fino a quel momento era stato solouna speranza: riunire nella stessa per-sona filosofia e potere!Platone accettò subito l’invito di Dio-nisio II, persuaso dall’incoraggiamentodi Dione. Abbandonò i discorsi tenutinell’Accademia e scelse di passare allaloro messa in pratica. Il filosofo precisa,ancora nella Lettera VII, che i dibattiti,nei quali era possibile analizzare laquestione da un punto di vista teorico,non erano certo privi di nobiltà, anzierano di importanza fondamentale, tut-tavia sarebbero rimasti sterili se eglinon avesse cercato di attuarli nella re-altà. Anche perché egli ammetteva diessere stanco di vergognarsi di se stessoper il fatto di essere considerato un pa-rolaio incapace di intraprenderel’azione necessaria a tradurre in praticale sue teorie.Giunto a Siracusa, a Platone fu riservataun’accoglienza sfarzosa da parte del ti-ranno: fu atteso da una quadriga e sicompì un sacrificio per onorare il suoarrivo, segno inequivocabile dell’impor-tanza che gli veniva attribuita. Nono-stante il benvenuto, appena giunse acorte Platone si trovò coinvolto in unasituazione delicata: Dione si trovava inpericolo perché era vittima delle calun-nie dei suoi avversari politici. Il filosofocercò di difenderlo dalle accuse, ma ilsuo intervento fu inutile. Pochi mesidopo, Dione fu accusato da Dionisio IIdi cospirare contro la tirannide e vennemandato in esilio.Il filosofo fu allora costretto dal tirannoa vivere relegato nell’Acropoli di Sira-cusa, senza possibilità di allontanarsidalla sua abitazione. Dionisio II da unlato usava la forza per trattenerlo, dal-l’altro cercava di guadagnarsi la suaamicizia, e tuttavia – ricorda Platone –tralasciava di usare l’unico mezzo cheglielo avrebbe permesso: ascoltare lesue dottrine, apprenderle e metterle inpratica. Il tiranno non era invece dispo-sto a un confronto sereno con Platone,e non perdeva occasione per riaffer-mare la sua posizione di predominio.Platone suggeriva a Dionisio II di cir-condarsi di amici fidati che fossero ingrado di condividere con lui una vitavirtuosa e che, soprattutto, lo aiutassero

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Forse Platone si mise in viaggioperché era stancodi essere considerato un parolaio, un teorico incapace di agire.

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a perseverare nella sua (eventuale) de-cisione di essere “amico con se stesso”,ossia di trovare un equilibrio interiore.Dionisio II avrebbe allora potuto assa-porare la felicità che poteva scaturireesclusivamente da uno stile di vita vir-tuoso, che, d’altra parte, avrebbe avutouna ricaduta a livello politico, in quantola nuova condizione di “salute” moraledel tiranno avrebbe reso possibile l’in-staurarsi di un governo giusto nellacittà. Dionisio II, però, non era disposto a se-guire gli insegnamenti di Platone. Avevaesiliato Dione e rinchiuso Platonenell’Acropoli, segnali evidenti di chiu-sura verso il filosofo. Alla fine, il filosoforiuscì a sottrarsi al controllo del tirannoe tornò deluso ad Atene.

Alla ricerca del vero filosofo

Appare quindi poco comprensibile lascelta del filosofo ateniese di ritornarenel 361 a.C. a Siracusa dopo che ilviaggio precedente era stato un totalefallimento, in quanto Dionisio II nonsi era rivelato poi così diverso dalpadre. Era davvero il caso che l’ormaianziano filosofo affrontasse un’ulte-riore traversata per raggiungerlo, dopoche costui aveva già rifiutato una voltai suoi insegnamenti?Nella Lettera VII Platone afferma chel’uomo saggio deve capire quando èopportuno dispensare i propri consigli,e se questi nota che quanto da lui dettonon è ben accetto, allora deve desisteredal suo tentativo per difendere la pro-pria incolumità e per investire meglio ilsuo tempo con qualcuno che sia dispo-sto ad ascoltarlo. Alla luce di ciò, Pla-tone avrebbe dovuto abbandonareDionisio II al suo destino. Era invecegiunta voce da Siracusa che il tirannoaveva dimostrato un rinnovato inte-resse per la filosofia e aveva manife-stato l’intenzione di richiamarlo perapprofondire i suoi insegnamenti, e in-fatti gli inviò una lettera per invitarlo atornare da lui. Bisognava valutare se fosse il caso diconsiderare seriamente la convocazionedel tiranno oppure prenderla come unennesimo segnale della sua volubilità.Platone era indeciso sul da farsi, ma an-cora una volta Dione intervenne perconvincerlo a superare i dubbi che lo

attanagliavano. Il tiranno aveva poi in-serito una clausola nella sua lettera: se ilfilosofo avesse accettato il suo invito atornare a Siracusa, Dionisio avrebbeprovveduto a riconsiderare la condannaall’esilio di Dione. La lettera del tirannosembrava a Platone, più che un invito,un ricatto in piena regola, che faceva

leva sull’affetto che da sempre provavaper il suo discepolo.Platone partì comunque, perché infondo riteneva possibile che “un gio-vane intelligente, ascoltando nobili edelevati discorsi, si lasci sedurre dal-l’ideale di una vita nobile”, ed aveval’esigenza di verificare se realmente lapassione professata da Dionisio verso lafilosofia fosse sincera. Platone afferma nella Lettera VII cheesiste un metodo infallibile per metterealla prova coloro che si accingono a in-traprendere un percorso di indagine fi-losofica, per accertare in manierainequivocabile la loro reale predisposi-zione allo studio e per smascherare, incaso contrario, la loro cattiva fede, unaprova ritenuta particolarmente adatta“quando si ha a che fare con i tiranni”:bisogna illustrare loro che cosa è vera-mente la ricerca filosofica e sottolinearequanto impegno e quanta fatica essacomporti. Se colui che ascolta è degno di tale ri-cerca, riterrà che la strada indicata siala migliore e che bisogna subito cercaredi seguirla, non tollerando più di vivere

in modo diverso. Costui dimostrerà diessere veramente filosofo se unirà i suoisforzi a quelli del maestro fino aquando avrà acquisito capacità tali dapermettergli di proseguire da solo. Chiè veramente filosofo allena infatti quo-tidianamente le sue capacità “di ap-prendere, di ricordare e di ragionare”.Chi invece non è un vero filosofo giu-dicherà subito che l’impegno richiesto èeccessivo per lui, e non si sentirà di af-frontarlo poiché lo riterrà troppo diffi-cile, e giustificherà la sua scelta dicendodi non aver bisogno di insegnamenti ul-teriori rispetto a quelli che già possiede.Dionisio II ascoltò il discorso di Platone,ma non colse l’ammonimento a medi-tare su quanto fosse impegnativo ilcammino filosofico, al contrario si pre-occupò di ostentare la sua cultura:scrisse addirittura un opuscolo filoso-fico contenente riflessioni platonichespacciate come proprie.Platone commentò che Dionisio IIaveva scritto quell’opera spinto da“un’ambizione indegna” al fine di otte-nere una fama di intellettuale e di sod-disfare la propria vanità personale.Invece, secondo il filosofo ateniese, erapericoloso che le sue idee fossero di-vulgate al pubblico in modo indiscrimi-nato, senza un minimo controllo. La filosofia, infatti, deve essere dialogo,non monologo: “Nasce d’improvvisonell’anima dopo un lungo periodo di di-scussioni sull’argomento e una vita vis-suta in comune e poi si nutre di sémedesima” e per questo non poteva es-sere fissata per sempre in un opuscolomediante la scrittura. Dionisio II nonaveva quindi capito nulla del suo pen-siero! Ancora una volta il progetto di Platonea Siracusa si risolveva con un insuc-cesso: non era riuscito a convertire il ti-ranno alla filosofia e al tempo stessonon era riuscito a risolvere i contrastipresenti tra costui e Dione. La permanenza di Platone a Siracusaera quindi diventata sempre più pro-blematica perché i rapporti col tirannosi erano raffreddati. Platone, temendoper la propria incolumità, lasciò alloraancora una volta Siracusa. K

La filosofiadev’essere dialogo,non monologo: nasce d’improvvisonell’anima dopo un lungo periododi discussionisull’argomento.

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Dione e i siracusani

n occasione della prima permanenzaa Siracusa, Platone ebbe modo di os-servare che lo stile di vita adottatodai cittadini era riprovevole tanto daprovocare in lui addirittura disgusto.

I siracusani dedicavano la maggior partedel loro tempo al soddisfacimento sfre-nato dei loro desideri più bassi. Du-rante il giorno – racconta Platone –erano impegnati nei banchetti, dovemangiavano e bevevano in manierasmodata; e di notte non perdevano mail’occasione di appagare i loro impulsisessuali, tanto che non andavano mai adormire da soli, ma sempre “in compa-gnia di qualcuno”. La cosa più grave,però, era che essi pensavano che il loromodo di vivere fosse quello miglioreper essere felici. Erano convinti che“mangiare, bere e dedicarsi all’amore”

fossero gli ingredienti indispensabili peruna vita appagante. Ma essi si inganna-vano: la vera felicità, infatti, può essereassicurata solo da una vita dedicata al-l’esercizio della virtù e non da un’esi-stenza sprecata nei vizi.Secondo Platone, la degenerazione mo-rale che investiva i cittadini di Siracusapregiudicava la possibilità di un equili-brio politico della città stessa, poiché,se la principale occupazione di quelli ri-maneva la soddisfazione dei loro desi-deri, non ci sarebbe stato il minimointeresse a occuparsi degli affari dellavita pubblica, e infatti essi lasciavanotutto il potere nella mani del tiranno.Come scriveva nella Repubblica, l’as-sunzione di uno stile di vita sregolatonon incide solo sulla salute del corpo,ma ha ripercussioni anche su quella del-

K Francesca Spinella

Il più virtuoso dei siracusani fu esiliato da Dionisio, ma ritorno in città e preseil potere. Filosofo o tiranno? Dione tra realtà e agiografia.

La città antica: i portici, cortesia www.flickr.com.

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l’anima: gozzovigliare tra le tavolate deibanchetti provoca un vero e proprio ot-tundimento delle facoltà cognitive. Ac-cade che l’anima rimanga inchiodata aterra, obnubilata, capace di soddisfaresolo gli istinti più bassi, invece di averela possibilità di elevarsi verso la com-prensione di concetti e discorsi più alti.Come potevano i siracusani compren-dere quanto aveva da dire Platone, seerano costantemente impegnati a riem-pire il loro ventre e soddisfare i loro ap-petiti sessuali? E come avrebbe potutoDionisio I comprendere i discorsi pla-tonici, proprio lui che era il responsa-bile di questa situazione di degenera-zione dilagante, lui che traeva vantag-gio dal tenere occupati i suoi sudditi neibanchetti perché così poteva conti-nuare a soggiogarli, lui che alimentavala malattia della città intera?

La figura ideale di Dione

Mentre Dionisio I aveva fatto intenderechiaramente che non era interessato asentire i discorsi di Platone né tanto-meno ad approfondirli, il filosofo avevaavuto la fortuna di incontrare una per-sona ben disposta ad ascoltare le sueteorie sulla virtù e la giustizia: Dione,cognato del tiranno.Quando i due si incontrarono per laprima volta, Dione era un ragazzo diappena vent’anni, ma nonostante la suagiovane età dimostrò fin da subito di es-sere dotato di numerose qualità. Agliocchi di Platone, egli si rivelò animatoda una viva intelligenza e da una capa-cità di apprendimento notevole, tantoche Platone affermò di non averne mairiscontrata una simile in nessun altrogiovane. Inoltre Dione non si limitavaad assorbire la lezione platonica a li-vello teorico, ma si impegnava a met-terla in pratica nella vita quotidiana.L’inaffidabilità e l’incostanza, che Pla-tone considerava caratteristiche distin-tive dei giovani, non appartenevano aDione, che invece manifestò fin da su-bito di possedere un carattere deciso efermo.La sua apertura al dialogo con il filosofoateniese non era il frutto di una curio-sità passeggera, destinata a esaurirsi pre-sto, bensì di una scelta compiuta nellapiena consapevolezza che, da quel mo-mento in poi, sarebbe iniziato per lui

un percorso di vita sicuramente mi-gliore, molto diverso da quello corrottoche invece dominava la città e che len-tamente la stava portando alla rovina.Dione era convinto che, grazie agli in-segnamenti di Platone, avrebbe potutogodere di una vita “più bella e più no-

bile”, diversa da quella “della gran partedegli Italioti e dei Sicelioti”, che gliavrebbe offerto la vera felicità e che loavrebbe salvato dalla degenerazionemorale che dilagava intorno a lui. L’in-contro con Platone rappresentò il puntodi svolta della vita di Dione: infatti daquel momento egli “si innamora dellavirtù”, ponendola al di sopra di qualsiasialtra cosa, soprattutto del piacere edelle ricchezze, tanto graditi ai suoiconcittadini. Dione si estraniò dall’am-biente corrotto che lo circondava eportò avanti con determinazione quellache a giusto titolo può essere definita lasua “conversione filosofica”. Dioneaveva dunque tutte le caratteristiche at-tribuite alla figura del filosofo-re nellibro VI della Repubblica: buona me-moria, intelligenza, coraggio e tempe-ranza. Per questo egli era adatto a essereil buon governante: si potrebbe dunquepensare che Platone, pur non dicendoloesplicitamente nella Lettera VII, sugge-risca tra le righe che Dione era effetti-vamente la persona su cui sarebbe statoil caso di investire le speranze circa lanascita di un buon governo a Siracusa.Utilizzando un’efficace metafora plato-nica, Dione sarebbe stato un ottimo

“cane da guardia” per la città intera,ossia si sarebbe impegnato a difenderlae a tutelarne la buona condizione di sa-lute, differenziandosi così dal cattivo ti-ranno che era per i suoi concittadini ciòche un lupo è per il gregge: una minac-cia costante, che mette in pericolo laloro vita per soddisfare la propria vora-cità. Il tiranno si riempie di “aliena fol-lia”: istigato da cattivi consiglieri che lospingono a godere di una completa li-bertà, trasgredisce ogni regola, dedican-dosi a una vita di dissipazione, di eccessie di ricerca del piacere. Dione inveceavrebbe, secondo Platone, fatto dellavirtù la sua guida e si sarebbe assicuratoche il benessere della città venisseprima di ogni altra cosa.

Il Dione reale

Nella Lettera VII, Dione viene presen-tato da Platone in chiave assolutamentepositiva. Platone sottolinea che il suo al-lievo aveva deciso di sconfiggere Dioni-sio II per realizzare un solo obiettivo:“Fare tanto più bene, quanto più potereavesse conquistato”. Se Dione si fosseimpadronito di Siracusa, non avrebbemai adottato una condotta simile aquella del tiranno, ma si sarebbe preoc-cupato di fornire le migliori leggi possi-bili in grado di garantire la giustizia pertutta la città. Ma il ritratto di Dione èrealmente aderente alla realtà?Basta ripercorrere gli eventi accadutidopo l’ultimo fallimentare viaggio diPlatone in Sicilia per comprendere chequalche dubbio sulla limpidezza e sul-l’integrità morale di Dione è legittimo.Nel 360 a.C., il filosofo andò nel Pelo-ponneso ed ebbe modo di incontrare aDione a Olimpia in occasione dellosvolgimento dei Giochi e gli raccontòquello che era accaduto durante il suosoggiorno presso il tiranno. Dione, al-lora, affermò che era ormai giunto ilmomento di organizzare una spedi-zione armata contro Dionisio II pervendicare i torti subiti. Platone nonaderì all’iniziativa, ma a essa preseroparte alcuni membri dell’Accademia.Secondo quanto riporta Plutarco,Dione e i suoi uomini arrivarono in Si-cilia, al promontorio di Pachino, versola fine dell’agosto 357 a.C. e marcia-rono verso Siracusa, potendo contaresull’appoggio di molte città, tra le quali

Dione sarebbe stato un ottimo“cane da guardia”per la città intera.Non sarebbe stato un tiranno, che è come un lupo per il gregge.

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Agrigento e Gela. In autunno Dioneentrò a Siracusa accolto dai cittadinicome un liberatore e fu nominato stra-tega autokrator. Dionisio II prima si ri-fugiò nella residenza fortificatadell’acropoli, l’Ortigia, e poi riparò aLocri. Dione restò al potere tre anni,dal 357 al 354 a.C. Forse nelle inten-zioni avrebbe davvero voluto restarefedele agli insegnamenti platonici, madi fatto il suo comportamento fu davero e proprio tiranno. Innanzitutto, sicircondò di una guardia del corpo, pro-prio come era abitudine dei tiranni, sirifiutò di demolire l’acropoli fortifi-cata, impedì al popolo di abbattere latomba di Dionisio I e di gettarne via ilcorpo, dimostrando di non avere l’in-

tenzione di recidere nettamente i rap-porti con la dinastia dionisiana. Non sifece poi scrupolo a permettere cheEraclide, un suo strenuo oppositore,venisse ucciso, acconsentendo tacita-mente al gesto omicida.Se, come dice Platone, Dione era cosìsaggio e “armato” di buone intenzioni,perché finì ucciso proprio da queglistessi compagni che lo avevano accom-pagnato nella spedizione contro il ti-ranno? Dione infatti cadde a causa diuna congiura ordita dall’accademicoCallippo, che lo aveva appoggiato ini-zialmente nell’impresa. Non cono-sciamo il vero motivo per cui Dione siastato eliminato da uno dei suoi più fe-deli seguaci, per di più anche lui allievo

di Platone. Forse, più che un governanteilluminato dalla filosofia, alla fine si di-mostrò semplicemente un uomo ambi-zioso che aspirava a sostituire latirannide di Dionisio con la propria.La Lettera VII ci consegna un ritrattodi Dione fortemente edulcorato, e ciòdipende dal carattere apologeticodella lettera stessa: cercando di giusti-ficare il discepolo, offrendone un’im-magine positiva, Platone intendevagiustificare la validità delle proprieidee politiche. O forse, più semplice-mente, Platone, ingenuamente, avevadavvero intravisto in lui un uomo divalore morale e intellettuale, dotato diqualità straordinarie. K

L’unica volta che parla di sé

Secondo la suddivisione del Corpus platonico elaborata daTrasillo di Alessandria nel I secolo d.C., la Lettera VII fa partedi una collezione di tredici lettere. Mentre tutte le altre let-tere sono considerate apocrife, la critica più recente è pro-pensa a considere la settima autentica, ritenendola unatestimonianza attendibile di come Platone, ormai anziano, ri-flettesse sulle esperienze politiche della sua vita. L’eccezio-nalità del documento consiste nel fatto che esso è l’unica sedein cui Platone parla in prima persona di sé, mentre nei suoidialoghi non entra mai in scena. Solo in due circostanze il fi-losofo nomina se stesso: nell’Apologia inserisce il suo nomenella lista che Socrate fa dei suoi discepoli e di coloro cheerano disposti a pagare le trenta mine di multa per rispar-miargli la condanna capitale, e nel Fedone, quando fa l’elencodegli amici che visitarono Socrate in cella prima della suamorte, scrive “Platone, credo, era ammalato” per spiegare ilmotivo della sua assenza in quel momento così drammatico. In entrambi i casi, Platone vuole accostare il suo nome aquello del maestro, dimostrandogli in questo modo la stimae l’affetto che nutre per lui e riconoscendo il proprio debitointellettuale nei suoi confronti. Le motivazioni che lo indu-cono a venire allo scoperto nella Lettera VII sono invece laspia di un’attenta riflessione sul proprio operato alla corte si-racusana dei Dionisi, attraverso il resoconto dei fatti a par-tire da quando le sue teorie politiche avevano iniziato aprendere forma nel periodo della sua giovinezza ad Atene.La Lettera VII, infatti, è un testo che non parla solo dei fattiaccaduti a Siracusa, ma più in generale dell’impegno di tuttauna vita, dedicata a esperire tutte le possibilità di realizzareun modello di città giusta.

Platone e la Lettera VII

Busto di Platone, Museo archeologico di Atene.

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Tiranni si nasce

hi è il tiranno? Platone ce nedà la descrizione precisa nellibro IX della Repubblica: èun tipo d’uomo mosso daappetiti eccessivi contrari a

ogni legge. Questi “insorgono inognuno, ma, tenuti a freno dalle leggi edagli appetiti migliori dettati dalla ra-gione, in certe persone svaniscono com-pletamente o rimangono pochi edeboli”. In altre invece, come nei ti-ranni, “crescono vigorosi e numerosi”:costoro “si risvegliano durante il sonno,quando la parte dell’anima razionale ecalma (che normalmente governa l’al-tra parte) dorme, mentre l’elemento fe-rino e selvaggio, pieno di cibi e diebbrezza, si libera da ogni freno, re-spinge via il sonno e cerca di muoversie sfogare i suoi istinti. Egli non prova ilminimo scrupolo nel tentare, nell’im-maginazione, l’unione sessuale con lamadre [il riferimento ovviamente è aEdipo] o con qualunque altra creaturaumana o divina o bestia, di macchiarsidi qualsiasi delitto, di non astenersi daalimento alcuno. In una parola, non v’èfollia né spudoratezza che gli manchi”.Platone parla qui di quello che pos-siamo definire, con una fortunataespressione moderna, “sonno della ra-gione”, che nel linguaggio platonicocorrisponde all’assopimento della parterazionale dell’anima. Quando questoprende il sopravvento, l’uomo di naturatirannica è finalmente libero di sfogarei suoi impulsi più bassi, assecondandola sua natura bestiale. Ciò che rende unuomo un tiranno è senz’altro un per-corso educativo errato, che l’ha con-dotto lontano dal retto sentiero della

filosofia. Ma ciò non basta: in realtà, cinarra Platone, la scelta di essere un ti-ranno avviene ancor prima della nascita,mentre l’anima, tra un’incarnazione el’altra, dimora nell’oltretomba, in parti-colare quando, poco prima di ritornarein vita, essa sceglie liberamente la pro-pria sorte. Troviamo la narrazione di ciònel “Mito di Er”, nel libro X della Re-pubblica: una delle più grandiose rap-presentazioni dell’aldilà della tradizioneoccidentale.

Racconti dall’oltretomba

Er è un giovane che muore in battaglia.Dopo dodici giorni, mentre la sua salmasta per essere arsa sulla pira, egli ritornain vita e racconta del suo straordinarioviaggio nell’oltretomba, dal quale gli èstato consentito di ritornare affinchéparli agli uomini di ciò che ha visto. Ernarra che, dopo la morte, le anime sipresentano ai giudici dell’aldilà in unluogo meraviglioso dove vi sono quat-tro voragini: due aperte verso il cielo edue verso le profondità della terra.Dopo avere ricevuto la sentenza per leazioni compiute durante la loro vita, leanime entrano o nella voragine per laquale si va al cielo o in quella che portaal sottosuolo. Le altre due voragini co-stituiscono le uscite del cielo e dellaterra, poiché, dopo avere vagato alungo, le anime ritornano al punto dipartenza per reincarnarsi. Er si soffermaa osservare le anime reduci da questeperegrinazioni ultraterrene, “sozze epolverose quelle che risalivano dallaterra” e “monde, quelle che scendevanodal cielo”. Esse “si scambiavano i rac-conti, le prime gemendo e piangendo

Platone racconta nel “Mito di Er” i motivi per cui un uomo nasce tiranno edescrive l’orribile destino che attende nell’aldilà il peggiore dei tipi umani.

K Alessandro PeroniRedattore di Diogene.

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perché ricordavano tutti i vari pati-menti che avevano subito nel loro cam-mino sotterraneo (un camminomillenario), mentre le seconde narra-vano i godimenti celesti e le visioni distraordinaria bellezza”.Da questi racconti, Er apprende che chiaveva vissuto rettamente era stato pre-miato dalle visioni celesti, mentre chi siera macchiato in vita di gravi colpe leaveva scontate decuplicate nel sotto-suolo. Inoltre, Er scopre con orrore checoloro che avevano vissuto vite disso-lute al massimo grado, ossia i tiranni,erano stati puniti con il maggiore deisupplizi: dopo avere scontato le penesotterranee con gli altri, giunti in vistadell’uscita agognata, avevano iniziato acredere che le loro sofferenze avreb-bero presto avuto termine e che sa-rebbe stato loro concesso di incarnarsidi nuovo. Invece la loro speranza erapresto stata frustrata: giunti in prossi-mità dell’uscita, costoro erano stati af-ferrati da demoni infuocati, torturatiorrendamente e gettati nel Tartaro perl’eternità. Questa è la terribile puni-zione riservata ai tiranni!

La scelta del destino

Eppure, nonostante la consapevolezzadell’orrendo destino, ben presto moltedi quelle anime avrebbero ben prestoscelto di reincarnarsi come tiranni. In-fatti, al termine dei loro giri celesti osotterranei, Er osserva che le anime rag-giungono una valle dove vi sono le treparche: lì viene data loro la possibilitàdi scegliere il proprio destino della vitafutura. Un araldo le istruisce in propo-sito: “Anime dall’effimera esistenza cor-porea, incomincia per voi un altroperiodo di generazione mortale, prelu-dio a nuova morte. Non sarà un de-mone a scegliere voi, ma sarete voi ascegliervi il vostro demone. La virtùnon ha padrone: a seconda che la sionori o la si spregi, ciascuno ne avrà piùo meno. La responsabilità è di chi sce-glie, il dio non è responsabile”.Al momento della scelta, infatti, ognianima è totalmente libera. Vi sono de-stini di animali, di uomini e di donne.Queste vite possono essere di individuicelebri, eroi, atleti, nobili, filosofi op-pure di persone totalmente normali. Undestino, questo, tutt’altro che sprege-

L’immagine del tiranno

Quando Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) dipinse i cicli di affreschi del buonoe cattivo governo nel Palazzo pubblico di Siena, Platone era un autore ancora pococonosciuto nell’Occidente latino, in quanto fu riscoperto dagli Umanisti solo di-versi decenni dopo. Eppure, la raffigurazione del tiranno che si trova nell’Allego-ria del cattivo governo ricorda notevolmente la descrizione che si trova nellaRepubblica, segno forse che alcuni elementi della tradizione platonica non eranoandati perduti nel corso dei secoli. Il tiranno, simile a una belva, siede in trono,con le zanne e le corna. Sopra di lui, la Superbia e ai lati l’Avarizia e la Vanaglo-ria. La Giustizia, che nell’Allegoria del buon governo siede in trono, qui invece è si-gnificativamente collocata sotto di lui in catene.

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vole visto che l’anima dell’ingegnosoUlisse, come Er ha modo di notare, sce-glie proprio di reincarnarsi in un uomocomune. Er assiste quindi al rito del-l’assegnazione dei destini: “Colui cheaveva avuto la possibilità di scegliereper primo si era subito avanzato e avevadeciso senza esitazione per la peggioretirannide. A questo era stato spinto dal-l’insensatezza e dall’ingordigia, senzaaverne valutato tutte le conseguenze ecosì non si era accorto che il fato rac-chiuso in quella decisione gli riservavala sorte di divorarsi i figli e altri mali.Quando, poco dopo, l’aveva esaminata asuo agio, si percoteva e si lamentava diciò che aveva fatto senza tenere pre-senti le avvertenze dell’araldo divino.Non incolpava se stesso dei mali, ma lasorte e i demoni: tutto insomma trannesé. Egli apparteneva al gruppo che ve-niva dal cielo, e nella vita precedenteaveva vissuto in un regime ben ordi-nato, ma aveva acquisito la virtù perabitudine, senza filosofia.E per quanto se ne poteva dire, tra co-

loro che compivano simili impru-denze, la maggior parte era tra coloroche venivano dal cielo, e questo pro-prio perché non avevano esperito sof-ferenze. Invece, coloro che venivanodalla terra, per lo più non compivanola loro scelta a precipizio, poiché ave-vano sofferto essi stessi e veduto altrisoffrire. Anche per questo, la maggiorparte delle anime permutava mali conbeni e beni con mali”.

Scambiare beni con mali

Er nota dunque che ciò che determinala saggezza della scelta non è tantol’avere contemplato le cose divine,bensì l’avere sofferto le pene del mondosotterraneo. Così, chi è stato somma-mente beato spesso sceglie avidamentedi diventare un tiranno. Ma qual è la ri-cetta per non prendere questa decisioneabnorme? Platone fa notare che solo lapratica della “sana filosofia” consente“non solo di essere felice in questomondo, ma anche di compiere il viag-gio da qui a lì e da lì a qui non per una

strada sotterranea e aspra, ma liscia eceleste”. Chi ha percorso la via del cielosenza avere praticato la filosofia, prendeinfatti la decisione peggiore, ossia quelladi farsi tiranno. Chi invece ha praticatoin vita la “sana filosofia”, ne conserva ilricordo anche nell’aldilà e non faràscelte avventate, tanto che, in un altrograndioso mito, quello della “biga alata”del Fedro, Platone racconta che leanime dei filosofi sono quelle che, at-traverso la pratica della filosofia e del-l’amore filosofico, potranno addiritturaguadagnarsi il premio di uscire dal ciclodelle reincarnazioni e andare a dimo-rare in eterno presso gli dei.Il mito di Er si conclude con un’ultimaimmagine grandiosa: dopo aver com-piuto la loro scelta, le anime si recanoalla pianura del Lete, bevono l’acquadel fiume Analete che fa loro scordare ilpassato. Allora, all’improvviso, le animeiniziano a salire, lasciandosi dietro unascia di fuoco: stanno per incarnarsi nuo-vamente, ciascuna con il proprio de-stino già segnato. K

La città antica: la piazza, cortesia www.flickr.com.

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Il tiranno è felice?

ella Repubblica, la descrizionedel tiranno conclude la rasse-gna dei “tipi di uomo peg-giori”, di quei tipi diindividui che sempre di più

si allontanano dal canone positivo rap-presentato “dall’uomo simile all’aristo-crazia”, il filosofo-re, il governantebuono e giusto. Così, il tiranno èl’uomo più malvagio e, come tale,anche il più sventurato e il più infelice.“Non è questa però l’opinione deimolti”, i quali, pur riconoscendone lamalvagità, rimangono affascinati dallostraordinario potere di cui egli dispone:se da un lato lo esecrano, al tempostesso lo invidiano perché è dotatodella prerogativa, estranea all’uomo co-mune, di fare tutto ciò che vuole.Ecco qui delinearsi l’ombra del sofistaTrasimaco, il quale, proprio all’iniziodella Repubblica, individua nel tirannocolui che, compiendo la perfetta ingiu-stizia, accede alla massima felicità.Questi, anziché essere bollato con ap-pellativi vergognosi, è infatti chiamato“felice e beato non solo dai cittadini, maanche da tutti quanti apprendono cheegli è giunto al culmine dell’ingiusti-zia”. Affermazioni analoghe si leggononel Gorgia, per bocca di Polo, il qualeparimenti sostiene che molti, pur com-mettendo ingiustizia, sono felici, e ad-duce come testimonianza la vicenda dicui è stato protagonista il tiranno Ar-chelao di Macedonia. Costui aveva con-quistato il trono eliminando con unacatena di efferati delitti tutti i legittimieredi e, avendo raggiunto il sommo po-tere, aveva conseguito la felicità. Alle obbiezioni di Socrate, che sottoli-nea l’inconciliabilità tra ingiustizia e fe-licità e avanza la tesi, centrale in tutto ildialogo, secondo cui è meglio subire in-

giustizia che commetterla, il giovane di-scepolo di Gorgia risponde in manierasprezzantemente ironica: “Socrate, cer-chi proprio di dire cose assurde”.Ma da dove proviene la convinzionedell’uomo comune secondo cui il ti-ranno è sommamente felice? Essa af-fonda le sue radici nell’impressionesuscitata dallo spettacolo del potere: lacittà diviene un vero e proprio palco-scenico su cui questo personaggio si esi-bisce offrendo agli spettatori unavisione che li sconvolge, tanto da pro-vocare in loro un sentimento di mera-viglia misto a timore. L’ampiezza delpotere dei tiranni trova, secondo Pla-tone, una manifestazione visibile: la “vi-sione della pompa che mettono inscena a uso del loro pubblico”, accura-tamente organizzata, è tale da suscitareammirazione, ma anche paura.

La verità disvelata

Questo apparato spettacolare fa presasu chi si limita a considerare le appa-renze, e non a caso costui è paragonatoa un bambino. Un simile atteggiamentodi ostentazione ha ben altro effetto suquanti, anziché limitarsi a osservare ifatti esteriori, utilizzano la ragione: gra-zie a essa è possibile passare dall’appa-renza alla realtà, dallo “spettacolo” allavita reale. La suggestione della rappre-sentazione non regge all’esercizio dellafacoltà razionale, che coglie e svela lavera condizione vissuta dal tiranno. Esi-ste qualcuno che sarebbe in grado dicompiere al meglio questo esercizio didisvelamento e di darne conto: coluiche “ha vissuto nella casa del tiranno”.Socrate propone pertanto ai suoi inter-locutori, Glaucone e Adimanto, unesperimento intellettuale: assumerel’identità di chi è stato testimone ocu-

K Silvia GastaldiÈ docente ordinario di Storia della Fi-losofia Antica presso l’Università diPavia.

La massa crede che il despota sia il più felice tra gli uomini, ma si inganna.Platone, testimone oculare della “vita tirannica” alla corte dei Dionisi diSiracusa, può svelare la verità circa la loro condizione, che è del tuttomiserevole.

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lare della vita del tiranno, avendo vis-suto per un certo periodo con lui. Se nel dialogo i due interlocutori fin-gono di interpretare questo ruolo, Pla-tone lo ha svolto in prima persona nellarealtà, e così il quadro offerto da So-crate riflette i risultati emersi da un’os-servazione reale, compiuta da lui stessosul campo, alla corte dei Dionisi di Si-racusa. L’esperienza reale è occultatadallo schermo della finzione, ma dietroa questa si individua facilmente la vi-cenda personale vissuta da Platone: è luiil testimone, la fonte da cui attingere lenotizie veramente attendibili circa ilcomportamento del tiranno, sia nellavita domestica sia nelle circostanzedella vita pubblica.In particolare è l’osservazione condottanella sfera privata a far emergere i ri-sultati più autentici, poiché di fronte aifamiliari e ai più stretti collaboratori iltiranno si mostra “denudato delle vestidella scena tragica”, privo di quella ma-schera con cui si presenta sul palcosce-nico della città, rivelando la sua realecondizione di misera infelicità.

Il tiranno e il saggio

Si possono rintracciare riferimenti pre-cisi relativi agli incontri tra Platone eDionisio I in due fonti concordi nel sot-tolineare il contrasto netto tra le rispet-tive posizioni (cosa che non è possibilefare nella Lettera VII, che ne omette deltutto il resoconto). Nella Vita di Dione,Plutarco narra di un incontro tra i duein cui gli argomenti centrali furono lavirtù e il coraggio: Platone asserì chenon esistono uomini meno coraggiosidei tiranni, e aggiungendo poi alcuneconsiderazioni sulla giustizia affermòche i giusti godono di una vita beata,mentre agli ingiusti è riservata una vitasventurata. Dionisio, sentendosi criti-

cato, si adirò con Platone, soprattuttoperché notò che i presenti erano am-maliati dai suoi discorsi. Gli domandò allora con quali inten-zioni fosse giunto a Siracusa e il filosofogli rispose di essere venuto a cercare unuomo virtuoso. Al che egli ribatté iro-nicamente: “Per gli dei, è chiaro che nonhai ancora trovato un uomo siffatto”.Dionisio, infastidito e irato, lo imbarcòsulla trireme del generale spartano Pol-lide, ordinando a costui di far morire ilfilosofo durante la traversata oppure divenderlo come schiavo: certamente Pla-tone non ne avrebbe ricavato alcundanno, e anzi, essendo giusto, avrebbeconservato inalterata la sua felicitàanche nella condizione servile.La divergenza insanabile tra i due è sot-tolineata pure da Diogene Laerzio, cheugualmente riferisce delle loro conver-sazioni, nelle quali il tema principal-mente discusso fu la tirannide. Per Platone, solo chi è superiore ancheper virtù è abilitato a esercitare il po-tere assoluto, affermazione che riempìdi astio il tiranno, tanto che costui disse:“I tuoi discorsi sanno di rimbambi-mento senile”. Ma si sentì ribattere: “Mai tuoi sanno di tirannide”. La condottamalvagia di Dionisio si era così rivelataa Platone nella sua effettiva realtà: il ti-ranno era schiavo di se stesso, così comenon gli era sfuggita la condizione di as-soluta sudditanza della città da lui go-vernata.

Miseria e schiavitù

Se in riferimento ai cittadini risultachiaro che il potere assoluto impediscequalsiasi libertà di iniziativa, non è al-trettanto evidente, per l’uomo comuneabituato a cogliere solo le apparenze,che il tiranno non possa agire a propriopiacimento. Il fatto è che l’anima del ti-

ranno è “colma di schiavitù e di illi-bertà”, in quanto totalmente sotto-messa a desideri irrazionali perversi.Accade che la corretta gerarchia tra leparti dell’anima, per cui l’elemento ra-zionale dovrebbe governare sulle spintedesiderative, indirizzandole verso icomportamenti virtuosi, risulti deltutto sconvolta: la parte desideranteprende il sopravvento e condizional’anima nella sua totalità, sottraendocompletamente alla ragione la capacitàdi orientarsi verso il vero bene. Risulta così che l’anima è “povera e in-saziabile” perché la dinamica psichicaorientata dal piacere è sempre protesaverso qualcosa di cui si sente mancante,verso cui si indirizza in modo spasmo-dico, avvertendo la mancanza come unacuto dolore. L’aspirazione al riempimento di questovuoto, peraltro, non ha mai fine, perchési prospettano sempre nuove mete daraggiungere, ed ecco l’insaziabilità. Se iltiranno è insaziabile, la città dominatada lui è necessariamente povera, ridottain miseria, poiché costui si impadroni-sce delle ricchezze dei cittadini. La sof-ferenza diffusa nella città da luidominata è ugualmente presente nellasua anima che rimane sempre insaziata:la gratificazione che si attende dai pia-ceri, infatti, non è mai placata, dal mo-mento che il pungiglione dellabramosia si conficca profondamentenell’anima e la assilla continuamente,abbattendo ogni forma di moderazione. In definitiva, l’assoluta libertà di cui iltiranno gode, e che è motivo dell’invi-dia dei molti, si rivela come la peggioredelle schiavitù. Solo l’armonia interiore,esito del dominio della razionalità sugliappetiti e quindi della parte divina del-l’anima su quella bestiale, è la condi-zione ineludibile per la felicità. K