poesie vallini

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CARLO VALLINI – POESIE Carlo Vallini Poesie A cura di Alessandro Di Nicola Quest’opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Trovate copia della licenza sul sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ 1

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  • CARLO VALLINI POESIE

    Carlo ValliniPoesie

    A cura di Alessandro Di Nicola

    Questopera stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Trovate copia della licenza sul sito

    web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/

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  • CARLO VALLINI POESIE

    L'accidioso stupore di Carlo Vallini

    Il nome di Carlo Vallini (1885-1920) lo si trova relegato fra le note a margine di qualche sparuto almanacco sulla cultura torinese d'inizio novecento o, al pi, inserito con benevola furtivit in scritti sul suo concittadino e amico Guido Gozzano. La fortuna critica di un autore, per, non sempre segue tempi e direzioni della generica diffusione dei testi: nel caso di Vallini, infatti, a una sostanziale invisibilit pubblica dell'opera poetica ha corrisposto un interesse sommessamente vivace da parte della critica, con un numero di studi dedicati all'autore via via crescente negli anni (tra gli apporti pi recenti si segnalano quelli di Tobia R. Toscano1, Marziano Guglielminetti2 e Giuseppe Farinelli3).

    Tra i primi testi critici va ricordato l'importante La poesia di Carlo Vallini di Edoardo Sanguineti4 che, ancor oggi, costituisce un mezzo indispensabile per collocare storicamente l'opera di questo poeta crepuscolare, fornendo al lettore una perlustrazione attenta dell'esiguo corpus poetico valliniano per ci che concerne il piano stilistico e quello delle movenze affettivo-psicologiche. Tale testo critico, per, non fa che leggere l'opera di Vallini in controluce: la luce, ovviamente, quella vivida della grande poesia gozzaniana.

    Certo, la vicinanza tra le raccolte di Vallini La rinunzia e Un giorno e la contemporanea La via del rifugio (pubblicate tutte nel 1907) evidente e i motivi culturali, stilistici e pienamente poetici che avvicinano i due scrittori sono di indubbio rilievo, come attestato da Sanguineti: l'infiltrazione prima e il superamento poi della maniera dannunziana, lo scarto generazionale avvertito come spostamento di senso compiutamente esistenziale, l'emblema araldico dell'ironia che come un acido corrode irreparabilmente la percezione dell'umano e genera una struttura del reale pervicacemente bipolare (Tutto e Nulla). La fratellanza poetica tra Vallini e Gozzano palese ma non esaurisce il valore del primo e, soprattutto, non ne discopre le caratteristiche pi moderne dell'espressione.

    Il centro nevralgico della poesia valliniana di maggiore maturit, quella di Un giorno, non da ricercarsi nel sentimento dell'ironia: si tratta di un fattore ostentatamente culturale che, certo, innerva un numero nutrito di versi del poemetto, ma che si pone accanto ad altri nuclei spirituali (tra i pi vistosi e pervasivi, oltre alla reazione alla pienezza estetica dannunziana merita menzione un rimando al buddismo d'ascendenza romantica). L'ironia, senza dubbio, fornisce un carico di robusta scioltezza a quei trapassi di tono che lardellano il poemetto, oltre a donare ad essi congruit poetica, ma i risultati pi incisivi Vallini li ottiene quando scioglie il dato culturale, rassoda i versi portando a compiutezza il loro incedere afono e monocorde e quando, infine, parla con una voce sola. L'ironia in Vallini ha invece carattere polifonico: i versi sotto il regno di questa sono talune volte di franca ed indifesa bellezza (e per i motivi indicati con acume da Sanguineti), spesso approssimativi e scialbi.

    nel momento in cui prende il sopravvento il meccanismo di reificazione che i versi di Un giorno si animano con piena vigora: un accidioso stupore allarga il canto, la monotonia d'impianto nei versi si fa fermamente salmodiante e pastosa, con gli scarti stilistici tutti riassorbiti in una 1 TOBIA R. TOSCANO, Poesia all'ombra di Gozzano: Un giorno (1907) di Carlo Vallini, Critica Letteraria, 39,

    1983.2 MARZIANO GUGLIELMINETTI, La scuola dell'irona. Gozzano e i viciniori, Firenze, Olschki, 1984.3 GIUSEPPE FARINELLI, Perch tu mi dici poeta? Storia e poesia del movimento crepuscolare, Roma, Carocci, 2005, pp.

    539-559.4 EDOARDO SANGUINETI, La poesia di Carlo Vallini, in Carlo Vallini, Un giorno ed altre poesie, Torino, Einaudi, 1967,

    pp. 5-27.

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    compostezza d'eloquio, a volte, da grande poeta minore. Si tratta della sezione del poemetto chiamata La morte (forse quella, nel complesso, di pi alto valore), di cui giova riportare qui qualche estratto:

    Morire! Una camera mutae un letto profondo: lontanola fiamma dun vespro sanguignoche splenda tra i cento comignoliduna citt sconosciuta:giacere in quel letto profondo;udir con un senso inumanodangoscia il confuso lontanoeterno fragore del mondo:sentire che per riposareun sonno profondo non basta,ma occorre una pace pi vasta;[...]Giacere in un letto profondo,gi morto: ecco il solo momentodi vero riposo nel mondo!Pi tardi la terra ci afferrae penetra e sbriciola in polveree volge in s stessa ed evolvee dissipa in preda del vento:ma il letto sul quale si muoreconcede per quarantottorela pace assoluta, infinita.Nessuna forma di vitasi svolge in quel tempo dal fondodelluomo mutatosi in cosa;quella materia riposa;non vive, non vede, non sente:sfasciandosi gradatamente,rinunzia allenorme faticadi dover essere unita.

    Il tema della reificazione certo di schietta matrice crepuscolare ma questa aderenza piena, almeno nei momenti migliori, tra scansione prosciugata dei versi e una sorta di psicologia residuale ( la cosa che soffre ed ha un io , in altra parte del libretto) ben valliniana nei mezzi e negli esiti poetici; del resto, se si pone orecchio alle rifrazioni generate dalla riduzione a cosa del soggetto, cos centrale in Vallini, certe bizzarre coincidenze con la futura esperienza poetica di Camillo Sbarbaro, ad esempio, appariranno meno peregrine: si pensi al tema sbarbariano della folla contrapposta ad un soggetto poetico inerte, quindi si leggano dalla sezione La folla di Un giorno versi come la specie temuta, lumana / specie simile a me: oppure i seguenti:

    la specie gravata dal cuporetaggio dun odio mai domo,la specie maligna delluomoche alluomo sar sempre lupo,la specie infinita che figliain modo vertiginoso,che figlia senza riposoal pari duna coniglia,che germina, alligna, rampollaovunque possa trovare

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    un posto: e che forma quel marevivente detto la folla.[...]La folla! Ecco il nome tremendoche mi sbiancava la faccia

    Decantati i versi dagli elementi di prosaicit parodica, ecco visibile in filigrana quell'alleanza tra reificazione, teso stupore e molteplicit animalesca che successivamente gigantegger nella poesia dell'essere di Sbarbaro. Il motivo di tali affinit di netta evidenza: anche in Vallini la disgregazione di un orizzonte culturale unitario a trasformare, da una parte, l'individuo poetante in cosa, dall'altra il sodalizio umano in una brutale sequenza di azioni svincolate le une dalle altre, all'interno di una disarticolazione coerente degli spazi soggettivi e oggettivi. Quel germina, alligna, rampolla , poi, difficile che non faccia venire alla mente le Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di bimbi, facce consuete / di nati a faticare e a riprodursi di Talor, mentre cammino per le strade del poeta ligure ed interessante notare come, in questa sorta di passaggio di fiaccola da Vallini a Sbarbaro, la reificazione maturi fino a divenire una limpida cristallizzazione in immagini.Prima del poemetto Un giorno, Carlo Vallini diede alle stampe la raccolta La rinunzia (datata 1906). Si tratta certo di un'opera dapprendistato, esile esile in pi punti, ma con alcuni sviluppi che pur in frutti acerbi testimoniano di unadesione non ovvia n automatica alla pi vivace temperie poetica dellepoca. Tra gli inevitabili calchi pascoliani, carducciani e soprattutto dannunziani sinfiltrano motivi che possono dirsi, senza equivoci, tenacemente crepuscolari: il gran teatro della memoria, i saldi legami parentali rivissuti quali emblemi di un destino costretto nella differenza, alcune smorte ed evanescenti figure femminili, gli oggetti onusti di memoria e marchiati dal tempo, le abitazioni congelate nella loro antichit. Tra i versi di variabilissima fattura di questo libretto spiccano I sonetti della casa e, in misura minore, i sonetti raccolti nella sezione La donna del parco; in essi possibile rinvenire le soluzioni poetiche pi fertili e, se non ancora compiutamente personali, certo pi culturalmente aggiornate presenti nella prima raccolta valliniana.

    ALESSANDRO DI NICOLA

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    Carlo Vallini nasce a Milano nel 1885 da Tito Vallini e Maria Zanoni. A Torino ottiene la licenza liceale. Nel 1902 si imbarca come mozzo su una nave diretta in Giamaica: questa esperienza viene raccontata nel diario di viaggio postumo pubblicato da Carlo Calcaterra nel volume Scuola nostra. Letture per la scuola Media, Torino, Sei, 1942: Da mozzo a poeta. Storia vera di Carlo Vallini, poeta per un'altezza. Torna in Italia nel 1903 e nel 1905 si iscrive alla facolt di Lettere e Filosofia di Torino, dove segue le lezioni di Arturo Graf e stringe amicizia con Guido Gozzano. Nel 1907 pubblica La rinunzia e Un giorno presso l'editore Streglio. Nel 1909 si laurea in Lettere a Bologna e, successivamente, insegna in licei e istituti superiori. Nel 1912 pubblica presso l'editore Sonzogno il Dramma lirico in un atto Radda (musica di Giacomo Orefice), che viene messo in scena al Lirico di Milano nel medesimo anno. Nel 1913 viene pubblicato il Dizionario della mitologia classica e nell'anno seguente vede la luce Le Prince de la Mer, testo destinato alla musica. Durante la prima guerra mondiale sottotenente negli alpini e ottiene una medaglia al valore per la presa del forte Matassone, evento ricordato nella ode Per una altezza. Nel 1920 viene pubblicata sulla rivista Novella la favola I presagi, facente parte delle Nove favole per un amore (di queste sar poi pubblicata una seconda favola, L'isola del sogno, in Convivium, 1959). Dello stesso anno la traduzione della Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. Muore per embolia nel 1920.

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    Opere di Carlo Vallini

    La rinunzia (1906), Torino-Venaria Reale, R. Streglio, 1907.Un giorno, Torino-Venaria Reale, R. Streglio, 1907.Radda, Dramma lirico in un atto (da Massimo Gorki). Musica di Giacomo Orefice, Milano, E. Sonzogno, 1912.Dizionario della mitologia classica, Rocca S. Casciano, L. Cappelli, 1913.Le Prince de la Mer, Reggio Emilia, Cooperativa Lavoranti Tipografi, 1914.Per una altezza, Pavia, Successori Marelli, 1916.La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, Milano, Modernissima, 1920.Dizionario della mitologia classica, Seconda ed., Bologna-Rocca S. Casciano, L. Cappelli, 1921.Dizionario della mitologia classica, 3 ed., Bologna-Rocca S. Casciano, L. Cappelli, 1933.Un giorno e altre poesie a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, G. Einaudi, 1967.Guido Gozzano - Giorgio De Rienzo - Carlo Vallini, Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1971.

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    La rinunzia(1906)

    Infinito ritorno delle cose!

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    I baccanali

    I.O meraviglia che non ha parole per tutta la pulsante carne umana che esultando e fremendo, calda e sana, sabbronza nel tuo raggio, o padre Sole! Unica vera che per mille gole grida al mondo la sua forza sovrana, fervida dunignota vita, strana, muta carne che sanguina e che duole! Par che dentro di me tutta saccenda allignota virt del raggio ustorio lebbrezza dun antico istinto indomo: e sentendo alla tua gioia tremenda le mie membra risplendere, mi glorio, o padre Sole, desser nato uomo.

    II. Il vento agita i rami dalla folta chioma e lenta frascheggia la verzura dellorto, ove una luce verdescura piove per lalto della cupa volta. Altro suon che del vento non sascolta vivere in questa verde sepoltura:sol dei pomi che Agosto ora matura, languido il tonfo in terra a volta a volta. Uno ne colgo presso me che serba quasi come un tangibile vestigio del sole nella rosea polpa densa; e addentandolo, prono in mezzo allerba guardo sotto il mio volto, per prodigio, viva agitarsi una foresta immensa.

    III. Agosto, la vertigine solare che esulta nellimmensit serena, quella ondio nuovo sento in ogni vena scorrermi un caldo flutto salutare, nella mia solitudine mappare fervida duna vita cos piena, qual io la vedo sulla terra ellena

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    splendere nel ricordo secolare. Agosto, io seguo in cielo la tua traccia supino; e in questa sovrumana pacelansia del bene insolito mafferra. Ma tu, divino, dalle curve braccia doro, come da unanfora capace, mi versi, Agosto, i frutti della Terra.

    IV. O mattino, mattino che mappari a un tratto per le schiuse ampie finestre splendendo per limmensit campestre sui dispersi lontani casolari, gemmeo sui vitiferi filari e tra le siepi delle vie maestre, inneggiante alla gran forza terrestre tra il fogliame dei tronchi centenari! O gloria del tuo sole tra i capelligiovani, vivi, abbandonati al vento, ove il tuo folgorante oro traspare!Tu milludi e mafferri e mi flagellidi tale un desiderio aspro, chio sentoperdermi nel tuo fremito e mancare.

    V.Regnando il mezzod sotto la cava infinit del ciel bianco e silente, sta sola a mezzo il letto del torrente curva una donna giovine che lava. Suscita il sole tra la chioma flava, a tratti, come un altro sole ardente: ella, che nulla vede e nulla sente, canta dun ch lontano e che lamava.Dilaga il canto via per il soporegrave dei campi sconfinanti: dice nel suo vivo gorgoglio di fontanatutta locculta fiamma dun amore, tutta la forza dellet felicetutta la gioia dunanima umana.

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    VI.Dal sereno orizzonte dove ancora persiste il giorno in un chiaror sovrano, sorge la luna pallida e sul piano lentamente sinarca e trascolora.Sullaia bianca intanto la canoraturba assisa divide il biondo grano:dilaga il canto e attinge il ciel lontano pieno della mala triste dellora.Tu pure, canti. In un dolce atto io chino su te, ti guardo e tremo: e dalla golasento un singhiozzo erompere di pianto e ti appresso le labbra e sul divinovolto ti bacio senza far parola...tu mi sorridi e sguiti il tuo canto.

    VII. Sotto il ciel vespertino, ove alle bracidel tramonto un sereno ampio sovrasta,seminuda prorompe la nefasta turba, al rosso baglior di mille faci.Gli uomini folli in impeti pugnacivibrano in pugno i tirsi come unasta;bieche, di tra leffusa chioma vasta,sogghignano le femmine procaci.Passa la turba come una bufera sulla terra felice e tra furenti grida, nel morto vespero dispare. Timide allora, nellestiva sera, dal profondo dei muti firmamenti scintillano le prime stelle, chiare.

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    Elegia allestate morente

    Estate, sembri immota come il sole a mezzo il giorno e come lui declini! teffondi per i tuoi cieli divini con un languore che non ha parole. Forse non con tale impeto soverchio daffanno ti sentii gi lontanare quandio triste vagava lungo il mare senza una vela, tra la Magra e il Serchio e indugiando sul culmine rupestro il sole morente a mezzo la catena dellAlpe, in me lantica anima ellena suscitava il ricordo del Maestro. Pi mi commuovi adesso che tattardi nel languore dunultima vigilia profondendo alla mia terra dEmilia la dolcezza dei tuoi doni pi tardi, adesso che dal tuo calice colmo nei silenzi dei vesperi tranquilli il miele nella vite aurea distilli abbarbicata in lunghi ordini allolmo, ora che la dolcezza del tuo miele i chicchi duva gi appassiti intorbida e pi lenta si spande nella morbida polpa rosata e densa delle mele. Dolce la sera quando tra le acacie delle siepi spinose il sol traguarda e lentamente a occaso par che arda lorizzonte in un cumulo di brace! Sullacqua immota del torrente, a specchiodel cielo che pi in alto trascolorain una tinta meno calda, allora si diffonde il color delloro vecchio; par che pi netto il pioppo si profili sul cielo; vien dal folto dei noccioli flebile un gorgheggiar di rosignoli e un cinguetto confuso dai fienili... Estate eterna, quantio gi tamassifanciullo, assorto nei miei sogni gravi,tu lo ricordi, ma non mi sembravi rapida come adesso che trapassi!

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    Soli, in lor verde pertinace, il salice e il cipresso non mutano: ma sente la terra che tu versi pianamente lultime dolci stille dal tuo calice, poich, prossimo il vespero, nellora divina, quando la campagna tace, gi dai cieli dilaga tanta pace che lanima stupita ne dolora. Ed io che assorto nel mio sogno amai queste dolcezze, ed io non rivedr tutto ci che ora muore, tutto ci che forse non ritorner pi mai? Anima mia che lenta ti compiaci in un sogno nostalgico, non vuoi tu ritentare anche una volta i tuoi sogni e le belle immagini fallaci? Se il dolore tingombra, e tu rimuovinelamarezza e concediti una tregua.Or tarride lEstate che dilegua,dolce, come unamante non pi giovine.E ancora ancora Pan, dio dei poeti, sul digradante flauto a sette fori modula il pianto dei perduti amori errando non veduto fra i canneti,poich, tremando nel cuor mio di tanto prodigio, un d lo scorsi che dormivapresso un gran fiume antico, sulla riva,e il flauto a sette fori eragli accanto.

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    Ipnosi

    I.

    Ben io quel d che prima lungamente negli occhi tuoi sereni maffissava, sapea labisso che lo sguardo scava nel secreto dellessere dormente. Tutto pareva in me nascostamente nutrir la nuova cupidigia prava, quando il folle deso daverti schiava torbido divamp nella mia mente. Ma poi che ti ridussi nellintero abbandono di te, poi che nel tardo sonno ti contemplai bianca, asservita, rabbrividii sullorlo del mistero che infondea per la forza duno sguardo nella tua vita tutta la mia vita.

    II.

    Oggi se in me pi forte si rimova la confusa memoria di quel male oggi il brivido tristo che massale safforza in me dunacutezza nuova. E il lontano ricordo mi ritrova presso di te che in un pallor mortale smarrita, affondi il volto nel guanciale, nuda nella penombra dellalcova. Io ti guardo nel sonno: sotto al mio sguardo i tuoi nervi vibrano, pervasi da uno strano infrenabile tremore.Ti guardo: e a un improvviso scricchiolo del legno, io sento dentro il petto quasi arrestarmisi i battiti del cuore.

    III.

    Nella stanza secreta ove una sola fiamma oscilla nellombra a quando a quando sulle forme confuse il lume blando mette cupi riflessi di viola. Tu invano, udendo dalla mia parola

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    scender lirresistibile comando, mavvinci e ti divincoli implorando vinta, sommessa, con il pianto in gola. Vedo nella pupilla che divora liride dei tuoi grandi occhi sperduti lo sgomento che tutta ti scompone: ma contro questignota forza ancora inutilmente, o donna, ti rifiuti tu con un gesto di ribellione.

    IV. Ombra che dal passato e dalla vana mia malata tristezza ernergi fuori, ombra, che pi tavvivi e ti colori quanto il tempo da me pi tallontana, tutti, attraverso la mia febbre insana, io conobbi i nascosti tuoi tesori e le gioie e i misteri ed i dolori profondi della tua miseria umana. Cos sicuramente io nella folta tenebra del tuo cuor, non sazio mai la luce avventurai del mio pensiero, che pavido ristetti alcuna volta sullatto, ed ismarrito, dubitai desser giunto al di l dogni mistero.

    V. Nessun tristo ricordo sopravviva, amica. Lora della pace scesa. Splende nel fuoco del tramonto accesa la fiamma della dolce sera estiva. Lanima va nei cieli fuggitiva n ricordo di lacrime le pesa, tanto blanda in questora si palesa la virt della mia terra adottiva. Amica, lungi palpitano lOrse nel cielo: lombra della notte cade vasta, in un cos languido abbandono, che sullanima stanca ora non forsepiovono lente insieme alle rugiade

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    le lacrime soavi dun perdono?

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    I sonetti della casa

    I.

    Da questa vecchia casa per le aperte finestre, come da unantica fiala, lodor dun tempo ora scomparso esala acutamente nel silenzio inerte. Sol nella muta vacuit savverte a quando a quando il fremito dunala che solcando invisibile la sala dilegua per le camere deserte. Nulla mutato intorno: ma la vera anima mia di bimbo onde tamai nelle tue grazie semplici e leggiadre, scomparsa con la prima primavera, ah quella non ritorner pi mai, vecchia casa del padre di mia madre!

    II.

    O Nonno, la tua casa ora si gode il sole; sta come in un abbandono ultimo, senza vita e senza suono, del tuo torrente sulle dolci prode. E a me che duna mia pensosa lode malinconicamente lincorono, memore forse ora discende il buono tuo domestico spirito custode. Ancor nella memoria ti discerno aprendomi le braccia a un tratto, lieto sorridere alla mia innocenza prima. Ma tu che dormi nel tuo sonno eterno, tu non sai, tu non sai quale secreto pianto non pianto ancora oggi mopprima.

    III.

    Ancora la tua bella faccia onesta tutta nella mia mente si rischiara, quando mi consigliavi: Impara impara, non deve la fatica esser molesta... E i tramonti dei d lunghi di festa

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    quando lanima mia piccola e ignara uda la voce perdersi pi rara nella gran pace di quellora mesta! Io guardavo nellombra in preda a un sordo dolore, la tua tempia farsi cava. Chi aspettiamo? chiedevo piano. Tu dicevi qualche nome... non ricordo. Chi dunque, o nonno, allora saspettava tanto, che adesso non aspetto pi?

    IV. Nessuno qui sattende, ora: fra tante cose morte e sepolte, unico segno di vita, adesso, un oriol di legnoche il tempo edace ha impresso nel quadrante.Tacea da lungo tempo: trepidante dansia, un bel d, con paziente ingegno, io rassettai quel semplice congegno nella sua vecchia cassa cigolante. A sommo della scala solitaria il risorto Oriolo ora rintrona con un forte tic-tac irregolare;ma in quel rumor metallico, per lariamorta, un oscuro ammonimento suona: Lasciate i morti nelle loro bare!

    V.Sia pace ai morti nelle bare: solo degno che fra i cipressi alti li allieti, emulo sospiroso dei poeti,coi suoi flebili canti il rosignolo. Cingono ancor le rondini dun volo la casa: ancora il verde nei canneti; tutto ancor vive: lanima sacqueti lenta, cos, tra la dolcezza e il duolo. Anima china su te stessa, ascolta: lalbero della vita, forse, tutto grave di doni verso te sabbassa: e tu non gioirai anche una volta del sapore fuggevole dun frutto,

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    dellombra della nuvola che passa?

    VI. Sii benedetta, o triste illusione dun tempo, che mi fai lanima paga e tu, sperduta in unignota plaga, casa, lungi alla vita e alle persone! Non forse questa generazione nostra, asservita alla novella maga, troppo gli enigmi della vita indaga e il bene in unindagine ripone? Chi dunque il fior della dimenticanza sparger sopra il bene e sopra il male, ignorando la gloria e la vergogna?Sia pur lombra del sogno che savanza gelida, allombra della morte uguale: ma tu non la fuggire, anima: sogna.

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    I sonetti di Settembre

    I.

    O Settembre tuttoro, o bel garzone soave nei tuoi rosei velarii, o mesto iddio dei luoghi solitarii che ti cingi le tempie di corone, O triste come unimplorazione che la malinconia dei tuoi pomarii popoli solo, modulando in variiaccenti il pianto della tua canzone, O tu che sotto un cumulo di morte foglie con un sorriso ti prepari ogni giorno la tua gelida tomba, oh lascia tu che lanima, pi forte sparga nei tuoi tramonti i pianti amari mentre con lombra la tristezza piomba.

    II.

    Settembre, qual dolcezza nuova emana al lento luminoso dilagare del sole nelle tue mattine chiare, dalla mia blanda terra emiliana? Sembra ogni forma fatta pi lontana da un vel di sogno e di silenzio: pare che ogni albero, ogni zolla, ogni filare, tremi nel sole duna gioia umana. Mentrio, sperduto nei silenzi, ascolto come ogni frutto in un respiro armonico duna celeste ebriet saggravi, mappar la terra simile a un bel volto, ove, come un pensiero malinconico, passin ombre di nuvole soavi.

    III.

    O Settembre, le tue placide vigne ove splendeano i bei grappoli doro, giacciono dispogliate del tesoro pendulo tra il rossor del tralcio insigne.Or non pi quando flagran le sanguigne

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  • CARLO VALLINI POESIE

    nubi alloccaso, il lieto stuol canoro libera verso i cieli il vasto coro bacchico, su dallalte erbe rossigne. Mesto Settembre, o tu giovane Sire, celami sotto il pampino che trema dun grappolo obliato oggi la gioia! Fa chio lo colga e dentro me fluire io senta quella dolce estasi estrema: dolce cos che il cuor ebro ne muoia.

    IV. Settembre, se vivesse ora il gran parco ove regnar nel sogno un d credei, vanire il suon della tua tibia udrei dal folto delle acacie incurve ad arco. Piegando sotto il troppo grave incarco del mito onde per me divin tu sei, sabbatteron trafitti i Sogni miei dalla Vita che un d li attese al varco. Tacque allora il crosciare delle cento fontane e nella lugubre dimora, funebri, soli, vissero i cipressi.Ora, immoti, nei vespri senza vento, mentre lultimo sol grave li indora, piangono, nella gran pace, sommessi.

    V.O Settembre, nel bel parco silente ove assorto al mio sogno un d vagai, fa chio rivegga ancora dai rosai fiorir le rose, prodigiosamente. Chio rioda tra i boschi dolcemente gemer le mie fontane dolci lai e le gelide statue che mai mutano gesto, interrogarmi intente. Irrompa tra i cipressi, per le aperte finestre, nel castello, la sovrana fiamma sanguigna del gran sol che muore e dilaghi via via per le deserte plaghe, una voce triste che lontana

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  • CARLO VALLINI POESIE

    mi sembri e pianga invece nel mio cuore.

    VI. Settembre, nella santit dellora nunzia del tramonto, per i vastialberi dei frutteti non ti bastiinfondere lambrosia che li irrora; ma tra i sentieri solitarii ancoraama vagare, celebrando i fasti della tristezza che mi rivelasti nel soffio della tua tibia sonora. O giovine dal crine di viola, cinto il fronte di pampino rubente, mesto e superbo come un semidio, io sento mentre il suon senza parola si disperde nellaere silente, profondarmi in un gran mare doblio.

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  • CARLO VALLINI POESIE

    La donna del parco

    I.

    Tu solitaria chentro me teffigi quando nel sogno lanima sconfina, cupa celando unombra sibillina nella profondit delli occhi grigi, tu che nel muto parco prediligi la serena tristezza vespertina se tra i cipressi il raggio che declina folgori sopra gli ultimi fastigi,anima amante ed anima sorella, abisso ignoto ove lAmore cinge brividendo la Morte che linvita, non tu rendi limagine di quella che presiede nellatto duna sfinge alle fonti del Sogno e della Vita?

    II.

    Sola nel parco, a vespero, una fresca fontana rompe in getti di coralli e nemergono i fauni ed i cavalli snelli, in atti di grazia pittoresca. Ma sembra che pi languida saccrescala tristezza del parco oltre i cristalli iridescenti, a toni rossi e gialli della tua vasta casa secentesca. Vuota la casa: oscuri i secolariquadri, come i pensieri che raccoglieimmobilmente la tua fronte china,mentre guardi con occhi solitari come nel parco muoiano le foglie e crolli nel tuo cuore una rovina.

    III.

    Non pi la fuga delle stanze vuote gravi di tante e tante cose morte turbi il rombo feral del pianoforte che i silenzi dei secoli riscote. Il sogno sacro: e qui si ripercote

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  • CARLO VALLINI POESIE

    tra la mollezza delle stoffe smorte forse troppo improvviso e troppo forte questo sonoro turbine di note. Voglio un motivo lento, ove predmini la nota alta del pianto, ma con unapotenza che mi vincoli e massorba; come quando, di notte, lungi agli uomini, un infelice va, sotto la luna,addolcendo le note alla tiorba.

    IV. E tu, simile allerma che corrose il tempo, senza fine ti prepari a riveder tra i bussi secolari avvicendarsi i colchici e le rose. Infinito ritorno delle cose nel tempo! Solo, in fondo alli occhi chiari tuoi, come in grembo a laghi solitari, il tuo mistico sogno si compose. Ben ti conobbi allora chio bambino di tutto ignaro, presentivo il lento svolgersi della favola infinita,quando, fiorendo a maggio il mio giardinotriste, con indicibile sgomento matterrivo a quellimpeto di vita!

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    Mare nostrum

    I.

    O mare immenso, ebro di sole estivo, dove naufraga il cerulo Apennino roccioso, o mare, ove temprai bambino le forze del mio corpo agile e vivo! Mio mare, nel cui flutto acre sentivo farsi lanima mia soffio divino e mescersi col murmure marino al lontano stormire dellulivo!Bianco il lido e infinito era: sovrana la luce: i boschi immobili; dargento il golfo vasto scintillante terso: e a tratti, invaso da una sovrumana forza, io senta nel liquido elemento pulsarmi in petto il cuor dellUniverso.

    II.

    La barca si disnoda ora dal banco liberamente, uscita dalla lotta del bassofondo, dove londa rotta ribolliva in un gran risucchio bianco. Immoto a poppa io vigilo il paranco ove trepida tendesi la scotta e la randa rigonfia, onde condotta va la piccola nave sopra un fianco. Sallontanan le rive. Come Ulisse solo, sperduto qui tra cielo e mare, vincere ancor lavversa sorte fiera...Se la favola a un tratto rifiorisse! E sento sopra il mio capo passare lepos dOmero, come una bufera.

    III.

    Allalba il mare calmo, dove ancora un gran raggio di luna si riflette, ha luci verdi ed ombre violette tra la bruma leggera che vapora. Poi sempre pi savviva, si colora,

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    sprizza barbagli di rubino e mette fuochi tra londe, mentre sulle vette brulle, dilaga il rosso dellaurora. Allora tutto un nuovo vibramento che con mille colori e mille forme trasmuta il piano dellequorea mole: fino a che tra una gloria doro, lento,come un incandescente disco enorme appare e sta sopra le rocce il Sole.

    IV. Ma che tristezza nel tramonto doro che sfuma nella porpora e nel croco! I flutti, accesi di un baglior di fuoco, rendono a tratti un brivido sonoro. Per laranciato ciel di messidoro un canto lene salza a poco a poco; ascoltando, sattrista: e lento e fioco conquide e allaga il cerulo pianoro.Ondando lenti nella luce pia che indora il Vespro, petali di rose vanno infiorando i cavi polipai;e solo, come una sottil mala,dilaga lentamente sulle cosequel canto triste che non muore mai.

    V.Il sole trasparendo nella brumapesante, tinge i flutti di sanguigno: greve un vapore per il ciel maligno,ondulando sullacque, indugia e fuma. Galleggia lieve e candida la schiuma spinta dalla risacca sul macigno di un enorme dirupo, irto, ferrigno, ove sullalghe, a poco, si raggruma. Il salso odore su, fra grano e grano della rena umidiccia, in una fuga acre, svapora con effluvio lento. Ma si scioglie la nebbia a un tratto: il pianodel mare brividendo si corruga

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    sotto una prima raffica di vento.

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    La canzone del mare

    Maggio, qual voce ebbe il mio cuore quandoGenova agli occhi miei fulse di gloria nel sole di un tuo limpido mattino? Ebra di luce la citt dei Doria tutta di mille fiamme folgorando stendeasi bianca a pie dellApennino: a tratti, con lo zefiro marino, giungean le prime voci aspre, i rumori del porto: e col sentore del catrame tra i pennoni protesi e il sartiame vena cornmisto lalito dei fiori: tuonava a salve, rapido, solenne, il cannone sul bosco delle antenne. Maggio, il mio cuor non disse la parola di gioia, poich stette quasi vinto al dilagar dellimpeto solare: ma parve che in un murmure indistinto salisse la sua voce ardente e sola confondendosi al palpito del mare. E il fervor del lavoro e laccennare degli alberi e il fischiar delle sirene di lungi e lacre odor delle vernici e lo stridore delle gru motrici e il tendersi di leve e di catene e ogni suono, ogni forma, allinfinita luce, parve dischiudermi alla vita. Mare, dei sogni miei sogno pi grande! Mio mare, pregno dellodor dellalga, che ti snodi nel vortice dellonda, quale si lev mai canto che valga quel che tu canti? Quali mai ghirlande sparsero ebriet cos profonda?O mare, fiamma della mia gioconda fanciullezza, quandio di tra la rena cocente, steso al sole sulla riva ligure, bimbo ignaro, mi stupiva innanzi a tanta vastit serena, avendo a tratti dentro il cuore il senso rapido di smarrirmi nellimmenso! Ma dove, o mare, risplend pi accesa lanima innanzi al tuo cerulo cerchio ebra damor per te come non mai?

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    Fu nella terra tra la Magra e il Serchio,sulla riva dai pini circompresa la plaga, o mare, dove pi tamai! Quivi, di morti rovi e gineprai vagando solo in mezzo allarso intricoardendo in cielo e dogni intorno loradel fuoco estivo, udii nella sonora onda cantar lellno canto antico e dalle solate terre lontane giunger le note flebili di Pane. O mare o mare, dov mai la rabbia del solleone sopra le deserte rive tacenti nellardor mortale? Dove il rottame e la medusa inerte rigettati con lalghe fra la sabbia? Dove lalito tuo pregno di sale?... Ma un ricordo maggior di te massale sio pensi a quando, dedito alla tua forza, si pieg al vento il brigantino e i gioghi io salutai dellApennino lultima volta, eretto sulla prua guardando nel fulgor triste e sublime del vespro conflagrar lultime cime. Ancora ancora udir gemere i fianchi del legno e i flocchi garruli e i velacci sbattere al vento con un rombo sordo; veder curvarsi gli uomini sui braccidelle manovre, tendersi i paranchi occhiuti, reclinarsi lento il bordo, spander sotto alla prora il flutto ingordo la schiuma, quasi il bianco dun sorriso!... O lungo i lidi della Spagna, in una serata malinconica di luna, se il vento mite taccia dimprovviso, ascoltar nellimmensa pace insonne giunger di lungi il canto delle donne. Dov lisola bella dai tramonti doro e di sangue, ove i miei sogni ardeano un tempo, nelle sere solitarie? lisola che sperduta nelloceano libera sapre a tutti gli orizzonti offrendo a tutti i venti la cesarie verde delle foreste millenarie? dove il sole del tropico sui gialli greti e sulle verzure colorite?

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    dove le solitudini infinite dei golfi ignoti e i banchi di coralli? dove i silenzi arcani sotto i densi velari e lo stormir dei cocchi immensi? O mare o mare, come una tortura lenta e grave che allanima sovrasta, come un sogno nostalgico che accora, quando al ricordo tuo la fiamma vasta di un folle desiderio davventura magita dimprovviso come allora! Ma forse ancor nel fuoco dunaurora sublime, nella tua luce, o gran maggio, vedr la nave mia spiegar la vela al vento, rosseggiar tutta la tela accesa dal fulgor del primo raggio, muoversi e dileguar lalata mole tra il baleno dellacque incontro al Sole. E dallampia salsedine infeconda vedr nel cielo sorgere i riarsimonti e i boschi dellisole fiorenti, vedr i ceruli golfi dilatarsi trai flutti, sentir nella profonda notte, per i sereni firmamenti, gli aromi a onde giungere sui venti. Poi, nella lenta pace duna sera divina, sotto un gran tramonto doro, splendere guarder come un tesoro al di l dunincognita riviera in unimmensa fiamma sovrumana le torri di una gran citt lontana. Canzone mia, nel palpito solare bianca sotto il profondo ciel turchino vedrai Genova a pie dellApennino: sfiorala, insieme allalito del mare.

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    Un giorno(1907)

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    La leggenda del principe Siddharta

    O Vita, in faccia al sole che tannunzia,pallido, un tempo, si lev chi intesela verit dellultima rinunzia:quegli che meditando fe paleseche il diletto ha radice nel dolore,e che, sapendo, perdon le offese,quegli che non si proclam Signore,ma che agli uomini disse con umanavoce: Vinsegner come si muore :tra i viventi il pi prossimo al NirvanaSiddharta, che dalla regina Maianacque e dal re dei prodi Suddhodana.Languide e belle, sparse a centinaiale schiave duna lor musica rararendeano lora al principe pi gaia:ma vanamente, poi che dunamaratristezza disfaceasi lento il mitesposo del fior di loto, Yasodhara.Tristezza delle uguali ore infinitescorse allombra dei tre vasti palagi,per chi il germe chiudea di mille vite!Disgusto insormontabile degli agisovrani per quel suo cuore profondogonfio dinconoscibili presagi!Vigile egli era se per il giocondoincanto del giardino imperialegiungesse una lontana eco del mondo:ma silenzio, silenzio... Il penetralesacro cingea laltezza delle muraerette contro il Bene e contro il Male.Allor lassillo duna nuova curalo punse, il desiderio crudeledi fuggir la vivente sepoltura.Fren in cuore le inutili querelee attese. Un giorno, ad ingannar le scorte,laiut Channa, lauriga fedele.Ma non lungi un trar darco dalle portemuovere incerto e trascinando il fianco

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    videro un uomo che tremava forte:cave le guance grinze e locchio stancoavea quelluomo, e il pelo delle cigliae del mento e del capo raro e bianco.Chiese Siddharta pien di meraviglia: Che cosa quella? Un vecchio, o mio signore:luomo che il tempo incurva ed assottiglia . Tutti gli uomini - chiese con tremoreil principe - cos saranno un giorno? Tutti: e tu pure, un giorno, o mio signore .Pi taciturno allor, come dintornocadea la notte, il giovinetto sirelento compi la strada del ritorno.E il d seguente, con pavido ardireuscito, vide un uomo dalla facciagialla divincolarsi e maledire.Avea negli occhi come una minacciadisperata: recea tra i denti fuoraschiuma verde e torcevasi le braccia. Che fa, dimmi, quelluomo? - chiese ancoraSiddharta. E il servo a lui: Quegli malatoe saffanna pel mal che laddolora . Tutti gli uomini - chiese pi turbatoSiddharta - fatti son preda del male? Tutti, per lalta volont del Fato .E il terzo d, fuggito dalle saleregali, vide un altruomo supino,pallido dun pallore innaturale.Tra grida e suon di pianti, a lui vicinouomini e donne ne aspergean le vesticon incensi aromali e belzuino. Fatti costoro son dogliosi e mesti -dissegli Channa - perch quegli morto:morto quegli che tu ora vedesti!Principe, ascolta il vero onde tesorto:luomo sacro ad un ultimo momentoper quel destino a cui non conforto:segui ora tu linterno ammonimento .Sparsa nei cieli la gemmata vesteavea la notte: al giovinetto insonnegiungea il lungo respir delle foreste.

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    Gialli arabeschi su per le colonnemettea la luna: piangea lungi il corodei fonti: riposavano le donne.Giacean le belle in una cripta doro,sfatte le chiome vaste come fiumi,strette in carnal viluppo tra di loro;a spire molli, nuvole di fumisalan per lombra: crepiti sul fuocodavano ardendo resine e profumi:e da quel gruppo umano, a poco a poco,dal palpitar di quelle membra attorte,onde usca qualche grido acuto e fioco,parve al sire sgomento che risortefossero a un tratto le sembianze inertidel Dolore del Tempo e della Morte.Fugg Siddharta sotto i cieli apertialla selva. Cos fu che divenneegli amico degli eremi deserti:e fu il chiomato principe ventenneil Perfetto Svegliato, il Buddha, il Grande,poi che ogni impeto umano in s contenne. Uomo, - egli disse - ogni dolor si spandedal desiderio: diverrai perfettose lacqua e lerbe ti saran vivande . Uomo, - egli disse - pensa che il dilettoove il sommo del tuo bene riponial duolo eterno ti far costretto .Spezza lincanto dei terrestri doni:solo potrai cos far che si fermila ruota delle trasmigrazioni . Soffoca nel tuo cuore i mali germi:giunto al Nulla Assoluto del Nirvana,gli uomini contro te saranno inermi .Questa, o uomini, invero fu lumanadottrina un tempo espressa dal mortalefiglio del re dei prodi Suddhodana. Fuggite il Bene: fuggirete il Male .Tristezza di quellanima proclivesul nulla eterno, o uomini! Ma qualeBuddha cinsegner come si vive?

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    La solitudine un giornocercai su uno scoglio recinto Lo scogliodal mare, presso la riva.Era di maggio, a mattina.A torme infinite dintornoaccorreano cupe e profondelonde flagellando la rupe.Il cielo era corso da nubisconvolte come se dentrovi precipitasse in silenziouna valanga di rupi:come un uomo ridotto a brandelliera il cielo, come chi gridipiet fra un immane disastro;era il mare azzurrastro,sinistro come chi affiliper un tradimento il coltello:ma nitide chiazze dargentotra le balze degli Apenninisorgenti dai boschi dulivimettevano i fasci di raggirompenti di tra gli strappidelle nubi rotte dal vento.Malinconia sovrumanadi che mi lasciarono eredele vite infinite vissutenello spazio e negli evi,tu che mi fai piangere versonon so che pi fulgidi cieli,ah come in quel giorno, in quelloraindicibilmente esprimevila tristezza dellUniverso!Io era comuno che giungasenza pi forze di dove fuggito per non tornareo morire: ascolta pulsareegli il suo sangue, n muoveciglio: supino sallungain terra e chiede alla terra,sentendosi presso allestremo,soltanto il riposo, il supremoriposo, pur di riposare.Guardandomi intorno, stupivo.Quello era il mio mare Tirreno?Quello era il mio mare nativo

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    che nelle mattine di un maggioinfinitamente serenomi si rivelava sublimesplendendo nel raggio le cimedellApennino, salendonellaria un odore tremendodi rose disfatte, un ronzodapi, un turbine, ondiostupito pensavo al buon Dio?Quello era il mio mare Tirreno,quello era il mio mare nativo:mutato soltanto sentivolo sguardo un tempo sereno.Tutto, se il mondo ci afferra,dimentichiamo: anche il cantodel mare: del mare che tantopi vasto di quello che terra!E quanto pi triste il rimpiantoche lanima nostra rinserraper quello che pi non ci atterrale fronti, forzandoci al pianto!A mio parere nulla pi triste di pi non poteredesiderar ci che non :sentire un cervello che tentadi spremere lacrime vereda un cuore che saddormenta.Era sordo dentro di meil mio cuore ad ogni ricordo.Io pi non vedevo nel mareil Dio che mai non saddorme,il moto che mai non ha posa:ma solo una cosa noiosaeterna inutile informeche mi costringeva a pensare:si confondevano agli occhidella mia mente il pensierodel Tutto del Nulla e del Verocon i ricordi pi sciocchi,ed erano per la mia vistale cose della Naturacome la caricaturadun Vero che non esista.Amico pensoso, che scrivia lettere piccole il nome

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    tuo grande, ricordi tu comesi dubiti dessere vivi?Amico pensoso e lontano,ben io nei miei soliloquiancor mi rammento i colloquitenuti con guidogozzano!Rivedi il mio volto sul chiarotramonto che ardevami a tergoin quella stanza dalbergoa San Francesco dAlbaro?Avrei voluto moriresopra lo scoglio del mare,avrei voluto provarela gioia di non pi sentire:spogliarmi della miseriadel mio fantasma di uomo,non aver pi forma: esser luomoscomposto nella materia;non essere pi luniversonelluniverso, ma un fiatoimponderabile, un atomolabile in aria disperso;dimenticarmi di ciche un giorno ho saputo, di tutto:dimenticar soprattuttoquello che mai non sapr:esser la morte cosciente,esser la vita dissolta,potere in una sol voltaessere il tutto ed il niente.Questo nel triste abbandonopensavo, e sentivo nel suonodellonda la vera risposta:la vera risposta nascostanellincomprensibile suono.Non dunque luomo una partedel Tutto, che ignora il misterodel Tutto? Che ignora un misterodi cui egli stesso fa parte? il nostro cervello una lenteche tutto trasforma e deformae che dentro e fuori ci formaun vero per s inesistente?Qual sonno terribile chiudele nostre pupille alla luce

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    istessa che ci conducea chiedere se ci sillude?La vita e la morte? Bisognapur che procedano unitese il lezzo duna carogna il germe di mille vite.E mi ricondussi al pensierolimmagine dun cimitero Il teschio fioritoabbandonato e romito,cinto di voli e di stridia primavera: ovio vidiun teschio umano fiorito.Da molto tempo, da molto,nessuno era stato sepoltodi l dalla soglia deserta:la triste soglia era apertasul campo invaso dal foltodellerba, da un bosco di erbaselvaggia, da un mare di fioricampestri, da un mare dodoriprimaverili, da sciamidapi, da tutta la vitache non visibili ditasanno agitare per entrola terra, da tutta la vitache nasce e muore in silenzio.Era quelleremo pregnodi succhi e dodori: tra i laccidellerba emergevano braccidi rade croci di legno.Ed io procedendo e affondandoin quella selva viventeero detestabilmentepoetico e lirico: quandofra un gruppo dedere spesse,aggrovigliate ad un brancodi spine acutissime e nere,vidi o credei di vedereun qualche cosa di biancoche sembrava che mirridesse.Un teschio umano era quelloche mirrideva: ripienotutto oramai di terrenodovera stato il cervello:e come da un vaso di fiori,

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    a render pi tragico e buffoquel misero avanzo, un gran ciuffoderba ne usciva di fuoricon tal furore, che mossoparea da quei resti carnosiper compiere lapoteosipazzesca dun paradosso.In quel sorriso supremodi scherno eterno ben eravisibile quasi la veraparola che mai non sapremo!Chio creda alla favola tristadel vivere e del morire,se il Tutto, dato che esista,si pu chiamar Divenire?Tutto la grande parolache sbalordisce e consolalanima sciocca e fanciulla.Tutto vuol dire anche Nulla.Tutto vuol dire limmensoprecipitare dei mondicelesti verso lignoto.Tutto materia ed vuoto.Tutto rinchiuso nel sensodellessere: quello che vedie che non vedi, che credie che non credi: pur quelloche gi ti tese un tranellocol farti nascere: e appareleterno mistificatorenel fare crescere un fioree nel far muovere il mare.Quale sar la mia sortenovella dopo la morte?In quali forme viventidinsetti o di chicchi di grano,o daltro che viva o non viva,si trasformer la passivacarcassa dellessere umano?O forse accadr chio diventi,se il caso mi toglie alloblo,la cosa che soffre ed ha un io,quella pi vana che esistanellUniverso, la tristacosa che chiede perdono,

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    la cosa umana chio sono?Destino! La libertcon cui ci deprimi e bistrattiprova che tu non ci trattiin abito di societ!Tu vedi: ho appena ventannie il mondo non mi diverte,sebbene non posi da Wertherucciso dai disinganni;ho una discreta memoriae quasi sempre appetito:non mi tortura il pruritodi uninafferrabile gloria.Che cosa, dunque, di meglioper rendere un uomo felice?Eppur qualche cosa mi diceche potrei stare assai meglio.Ho il benedettissimo viziodi non creder ci che si vede:idea questa, come si vede,da uomo di poco giudizio.Aggiungi che a volte non possocapir le pi semplici cose,n credere che le cosebasti pensarle allingrosso.Queste stranezze mhan fattoun posatore ed un orso,che non sa fare un discorsoe finge desser distratto. Se non sei nemmeno giocondoprima dellesperienza -mhan detto - a che la presenzadella tua faccia nel mondo? O Terra, a te mabbandonodopo la morte: di mefa ci che credi, fuorchrifarmi quello che sono.Questio ripensavo, supinosopra lo scoglio del mare, Gli affetticol desiderio e il rimpiantodi non poter ritornareancora una volta bambino:quando piangevo del piantodi mia madre, dun disperatopianto, cos da sentire

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    rapido il ritmo del sanguebattermi forte il palato;quando era tutto pi grande;quando fra tutte le cosela pi gradita era loradi prendere il mio caff e latte:il caff e latte che ancoraserba un profumo di coserimaste oneste ed intatte;quando non ero distrattoed ero quasi felice;quando il profumo miglioreera lodor di vernicedei miei giocattoli nuovi;quando ero triste o giocondosenza sapere il perche non pensando che a me,avevo in me tutto il mondo.Nulla or mi vedo pi intornodi ci che amai: pianamentetutto caduto nel nientecol tempo, giorno per giorno.Il non andare pi a messae il non guardar pi le stellemhan fatto mutare la pelledellanima in pelle pi spessa,cos spessa che la paurao il dubbio dessere mortofa chio ricorra al confortodi nonna letteratura,la quale induce chi campasotto il suo augusto poterea leggere con gran piacereil proprio nome in istampa,spingendo sino lardirequesta signora indiscretaa gabellar per poetachi non ha niente da dire.Ah chio guarisca e diventibuono ed ami le cosenuove e misteriosechiamate cose viventi!E sopra tutte mi piaccianoquelle su cui mi stupiscela cosa che si definisce

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    col nome strano di faccia.Faccia! La cosa mollicciacon dentro i denti e la lingua,che si deforma ed impingua,che si torce e si raggriccia,quella che manda dei suonie che si fa umile o tronfia,quella che a un tratto si gonfiase tu la pigli a ceffoni,quella che spreme dagli occhilacrime e che si querela,quella che a noi ci rivelapi o meno stolidi e sciocchi,quella che d la misuradi ci che giusto ed ingiustoe che, staccata dal busto,ti fa tremar di paura:ma (porgi bene lorecchiaalla verit spaventosa),ma soprattutto la cosa,la triste cosa che invecchia!Eppure quandero innocentevolevo tutto il mio beneai vecchi pii dalle venerigonfie e dal viso indulgente,ai vecchi gravi e superbidavere molto vissuto,che hanno riconosciutola verit dei proverbi,e dicono quello che vdi bene e di male nel mondocon un lor fare profondo...Ma come, dunque? Perch?O vecchio, chi sei tu? Perchvuoi chio ti porti rispetto?Che cosa hai tu fatto? Che hai dettoper crederti dappi di me?T occorsa cos lunga etper essere ancora malcertose qualcosa esista di certoo se tutto sia vanit?La saggezza dei tuoi consigliforse che in parte ti togliela colpa daver con tua mogliemesso alla luce dei figli?Vantandoti conoscitore

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    del mondo, hai pensato tu a quelloche hai fatto? Hai aggiunto un anelloalla catena del dolore.Fosti deluso ad oltranza:fino dilluderti appena,ti si appiccic la cancrenaincurabile della speranza:ed eccoti che dopo tantimalanni, triboli e stenticocciuto pur sempre ritentidandare ancora un po avanti.Prosegui per la tua viae non farmi da precettore:per me la scuola migliore la scuola dellironia. pi saggia, se tu sapessi,della saggezza tua calva: quella che ancora ci salvadal ridicolo verso noi stessi.Mentrio nel vano indagaregodevo del mio sgomento, La follaavea ricondotto gi il ventolazzurro sul cielo e sul mare,e in cento aspetti divinitutta la gloria del solecirconfondeva la molerocciosa degli Apennini.Ma dietro quel vertice acclivesentivo poco lontanala specie temuta, lumanaspecie simile a me:la specie degli uomini, chenon si meraviglia di vivere;quella che fu favoritada nostra madre Naturacol privilegio pi raro;ma che si chiede di raro,per non far brutta figura,il gran perch della vita:la sola specie che credeben fatto il coprirsi di panni;la specie che avr disingannifinch vorr avere una fede,la specie gravata dal cuporetaggio dun odio mai domo,la specie maligna delluomo

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    che alluomo sar sempre lupo,la specie infinita che figliain modo vertiginoso,che figlia senza riposoal pari duna coniglia,che germina, alligna, rampollaovunque possa trovareun posto: e che forma quel marevivente detto la folla.La folla! Ecco il nome tremendoche mi sbiancava la facciaquando il mio sogno rompendonel cielo scagliavasi in cacciadi gloria, quando al gigantemio sogno una forza primevasbatteva le ali dalcione,e a me che tremavo parevapi vasto di quello di Danteil sogno di Napoleone!Nellora limpida, quandoil rosso tramonto divampasulla citt turbinosae i fuochi di tutte le lampadesopra le strade ancor chiarestan contro il vespero accesocome un prodigio sospesoa contrastar lopra solare,oh quante volte, guardandola gran bestia umana da presso,non chiesi tremante a me stessoun solo gesto, ma eterno,che stupefacesse lignavasovrana, per renderla schiava,per renderla schiava in eterno!Ironia, divina ironia!Sai tu quanti giovani imberbiandavano e vanno superbidi simile roba stanta?Senza il bromuro e larsenico,o cura medica alcuna,mi sparvero gi, per fortuna,quei sintomi da nevrastenico,poich con unequa ginnasticadella mia povera testami son liberato da questa

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    mana troppo fantastica,e insieme con quel deleteriodifetto dannoso al cervelloho in parte perduto anche quellodi prender le cose sul serio:della mia antica follatanto ho distrutto che orala parte che in me vive ancora un poco di malinconia.La folla che si trascinaillusa da una speranza,la folla, guardata a distanza,che cosa pietosa e meschina!Un po di gioire e soffrirein questo breve camminocon alle spalle il destinosicuro di scomparire,e scomparir senza pilasciar quasi traccia di s,al modo stesso con che gi scomparso il mammouth.Per quattro misere oredi vita su questa terra,a che dichiararci la guerra,a che dichiararci lamore?O folla, che palpiti e vibriin mezzo alle gioie e ai malannie che inutilmente ti affannisugli utensili o sui libri,ti giuro che innanzi ai miei occhila tua gioia ed il tuo lamento,la tua pace ed il tuo tormentoson cos inutili e sciocchi,che se dal buio ove seipotessi trarti nel Verocon una parola, davveronon so se te la direi!Rapido il tempo che passae che ci affoga nel nulla: Lamoreieri eri ancor nella culla,domani sarai nella cassa: vano che metta radicila gioia nel nostro pettose quello che reca diletto quello che rende infelici:lamore la vanit

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    maggiore dogni altra, poichvorrebbe rinchiudere in slidea delleternit.Piccola donna, che semprericorder nei miei brevigiorni, come sapevidir la parola per sempre!Il tuo per sempre s scioltonel nulla, dopo non molto,come la neve nel sole;laltre tue buone parolemhanno fiorito la viadella malinconia,mhanno cosparso di piantila triste via dei rimpianti.Ma il bel fanciullo, lAmore,m s addormentato nel fondodel cuore, dun sonno profondo:un sonno pi grave e profondodi tutta lacqua del maregli appesantisce le membracon tanta gravezza, che sembrache pi non si possa destare.E se non si dester pi,pace su lui! Cos sia.Non resta la malinconialontana dun bene che fu?Ma neppure quella rimane,piccola donna! Il ricordogiorno per giorno scompare:il cuore sempre pi sordoai miseri casi lontani.E forse un giorno, domani,se tincontrassi per via,questanima mia, che si duolein tanta malinconia,per la sua piccola amicaritroverebbe a faticagelide e rare parole.E tu, dolorosa, che guardifarsi pi sempre profondii segni degli anni sul visopallido e pensi che tardied a te stessa nascondicon un tuo gesto improvviso

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    un filo che ieri divennepi chiaro fra le tue chiomee brilla nel muoversi comeper un riflesso di gemme,donna dadesso, non veditu che lamore dolore?Quale conforto allamoretardivo e triste mai chiedi?O donna, tu pensi che maibisognerebbe morirecome quand per finiretutto e che senti e che saiprossimo il d che lamorenaufragher nel dolore.E tu che a nome non chiamoperch non so chi tu sei,o tu, che forse amerei, meglio che non cincontriamo!Sai tu che cos la tristezza?Io guardo la mia giovinezzasorgere a un tratto su questomondo, vigile e viva,come linfermo mal destodallincubo che latterrivavede che il cielo di rosa,ed unangoscia affannosalo stringe, poichegli ignorase sia il tramonto o laurora.O donna, la mia giovinezza forse un tramonto: ogni giornoqualcosa non fa pi ritorno,qualche idolo nuovo si spezza.Non si spezza, no: si dissolvecol tempo, non si sa come:non ne rimane che il nomee un po di misera polvere.Il tempo sgretola, annullaregolarmente entro mequello che trova, finchnon ne rimanga pi nulla.Da questo perenne pensare,da questo perenne soffriresi pu sperar di guarire?Si pu sperare damare?Io sento che non si pu

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    mai pi guarire; lo sento:da questo strano tormentonon si guarisce: lo so.Sannida in te a tradimentoquando agisci e quando riposi: come la tubercolosicronica del sentimento.Mio Dio, se tu veramentefossi per noi come un padre, La pietse il Dio che mia madrechiamava buono e clemente,se invece di esser leternavicenda di quello che ,tu fossi per noi come un reche benignamente governa,quale io timmagino ancoraa volte, con semplicit,vorrei domandarti pietper tutto ci che dolora:per lanima mia che si sentea un tempo grande ed inane:umile innanzi ad un cane,superba innanzi al saccente;per gli uomini cupi e corrosi,provati da tutte le prove;pei poveri senza ricoveroche chiedono un po di elemosina;per la donna a cui nello specchioil segno del tempo gi appare;per chi deve ancor lavorareessendo gi stanco e gi vecchio;pel piccolo insetto modestoche saffanna e che non si vedee chio, camminando, col piedeinconsciamente calpesto;per tutte le anime buonedi cui signorano i nomi;per gli asini senza diplomiche soffrono sotto il bastone;per gli uomini a cui non somigli,perch sono gobbi o storpiati;pei ciechi; per glimpiegatiche mettono al mondo dei figli:per tutto ci che si offrealloffesa senza difesa;pel male che non si palesa

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    da chi n colpito e ne soffre!Per tanto eterno soffrire,mio Dio, ti chiedo piet:ma pi ti chiedo pietper me, che non so pi soffrire!Stanchezza di questi mieigiorni chio vivo a ogni costo!Un poco daria al mio postoed io non esisterei.Per chi vive, chi non esiste come se stesse nascosto:un altro gli occupa il postovuotandogli il calice triste.Il calice: poich la vita come una mensa imbandita,su cui, da perfetto villano,il prossimo lesto di mano.A volte per gli va male:il dolce un impasto di sale,e un servo bizzarro, il Destino,gli ha reso imbevibile il vino:ma luomo per ci non sarresta,finch un giramento di testalo smemora da tutti i malifra il gaudio dei commensali.La storia un po matta e un po seriaha questa morale: miseria.Luomo era un po di materiache nulla vedeva e sentiva:un soffio improvviso lavvivaed eccoti lUomo-Miseria:sabbranca - il perch non lo sa -a un lembo rotondo dignoto,e via che parte nel vuotoa tutta velocit:il tempo di dire: - Son qui -senza capir ci che dicee di gridar ch infelice...poi, zitto. Tutto fin.Stupore di me, senza fine!Io stesso che vedo e che sentomi trovo in quel dato momentoche sta tra il principio e la fine!Mio Dio, se tu mi promettidi esistere veramente,

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    ti prego desser clementecon tutti noi poveretti;ma se per caso ti sbrachiper noi dun gran riso beffardo,usaci questo riguardo:di crederci tutti ubriachi.Questio meditavo, supinosopra lo scoglio del mare. La noiaCompiuto avea lastro solaremet del suo lento camminonel cielo: ed insieme allimmensovibrar della luce, sul maresera diffuso il silenzio.E unansia, unansia affannosa,che non mi lasciava pi posa,pareva costringermi insiemea fuggire ed a rimanere.Tornare nel mondo a speraresecondo lumano destino,o rimaner solo, supinosopra lo scoglio del mare?A che ritornare nel mondo?Conosco a memoria la storiaeterna del genere umano:vuol dire esser triste e giocondo,vuol dire operare, ma invano;vivere la vita vuol direcombattere: ma contro che?Combattere: ma perch?Per sempre gioire e soffrire?Sugli uomini quale dirittoha luomo di vita e di morte?Con quale diritto il pi fortesimpone a chi stato sconfitto?Dovere esser umili o scaltri,dover esser lupo od agnelloper semplicemente far quelloche sempre hanno fatto gli altri?Tre volte beata la genteche trova evidente ogni cosa!Sio penso alla minima cosanon ne capisco pi niente.Quale sar la mia vita?Una sequela infinitadi notti insonni e di giorni;

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    proponimenti e ritorniprevisti verso le moltecose che odiai mille volte;un brancolare alla cieca,un aspettare affannosoquello che il tempo non reca,labbandonarsi a un riposofebbrile; il cercare un pretestoper iscusar lesistenza;un rendersi adatto a far senzadi questo di questo e di questo;un prepararsi al viaggioultimo e farsene bellocon s stesso, ma sul pi bellosentirsi mancare il coraggioe assistere assistere assisterea questa comedia desisterefino a sipario calatoda spettatore annoiato;avere un ultimo amoreancora ed unillusione,e avere una delusioneultima e ancora un dolore;guardare con meravigliasprezzante luomo e dovereconvincersi dappartenerealla sua stessa famiglia;sentirsi salire dal fondola noia di tutti i perch,ed essere inutili a sed essere inutili al mondo.Inutilit! Se la fatuacredulit delle masseumane non me lo vietasse,vorrei farti fare una statua.Umanit! Se del tuttotu non mignorassi, un falfaresti di me, che non foche esserti inutile in tutto.Non credere gi chio sia mossocontro te da un odio furente:ti sono semplicementeinutile in quello che posso.Maffaccio adesso alle portedel mondo: ma ho fede nutritadi esserti inutile in vita

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    e desserti inutile in morte.Quandio morir (te lo dicoper dire: poich luomo ignoras stesso, pu darsi che alloraio sia tuo buonissimo amico),quandio morir, la mia tomba,ovio dormir fino al rombofinale, la voglio di piomborotonda come una bomba;che sia lanciata agli squalinel pi profondo del mare:nessuno cos potr usareil mio grasso pei suoi stivali.Signore del Cielo, figuraretorica, fai tu la grazia Il sognodel sogno a questanima saziadella sua sciocca natura!Tu vedi chio mi consolocon poco: ti chiedo, o Signore,soltanto limmenso favoredesser lasciato da solo.Illudermi! Non ho bisognodaltro conforto allambascia:fa chio dimentichi: lasciachio mi dissolva nel sogno;chio veda ben oltre le portedel mondo apparir la fioritacontrada che dona alla vitala placidit della morte!Mio sogno, non sei lippogrifopagano, recantesi in groppapei cieli lanima mia?Conducila in alto: ella ha schifo,per s, dellaltrui borghesa.Alato cavallo, galoppain cieli pi puri e pi vasti!Nessuna vertigine basti,nessuna gioia sia troppaallanima sola che vuoleandar pi lontana del sole!Avventala nel turbinodegli astri: le masse gigantile passeranno davanticon un immane ronzo,col vibramento dun masso

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    che con tre giri di fiondaunenergia furibondascagli in eterno allo spazio.Anima mia, quali coseeterne e meravigliosetu vedi? La faccia deformedi un mondo che passa: lenormeammasso savventa: scompare.Che meraviglie hai tu scorte?Un mondo intero di morte:un piano deserto ed un maredeserto: unimmensa catenadi rocce, un deserto darenarovente: e su tutta la molela luce di un altro sole.Un altro mondo savventa,altri mondi ancora, una schiera;una vertigine interadi mondi, che romba e che ventacalore, precipita e spareper sempre. Lo spazio e letscompaiono. Tu resti sola,anima vigile, solanel nulla delleternit.Mio sogno, non sei pure un angiolo?Lo spirito cristianocustode dellanima mia?Conducila piano per mano:ella una bimba smarritasopra la via della vita:conducila per i giardini,ove non sode che il suonodellacque, nellabbandono;promettile molti balocchi,perch di buon grado cammini;fa chella guardi con occhistupiti la rosa e linsetto;e spiegale: questo un insetto;e spiegale: questa una rosa;e spiegale come ogni cosaper fede, speranza ed amoresia fatta da nostro Signore,che a tutti vuol bene e perdona;insegnale ad essere buona;insegnale tutto lorroredi quello che sacrilegio;

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    conducila per il collegiodel mondo: quanti bambinila stupiranno, che sonovestiti da donna e da uomo,essendo pur sempre piccini!E ti chieder: - Mio bellangiolo,sai dirmi perch tutti piangono?Sai dirmi perch quel bambinopercuota con rabbia il vicino?E perch quellaltro che a lettotossendo dia sangue dal petto? -Oh come, come stupitati guarder ella ascoltandola cosa incredibile, quandosapr che questa la vita!Mio sogno, bel sogno, la fogamagnifica verso il prodigiodeclina: scompare nel grigiodel tempo: la vita ti affoga.Mio sogno, non c pi conforto:io guardo tra il serio e il beffardovelarsi pi sempre il tuo sguardodel torbido proprio a chi morto.Passasti, poich tutto passa. come se non ci fossimomai visti: il contagio del prossimoti ha belle ridotto alla cassa.Non chiedo la grazia divinadel sogno, n la scintilla Alcuni desideridel genio: una vita tranquillami basta, una vita meschina.Per questa mana solitariamoccorrerebbe unonestacasa, assai vecchia e modesta,con molta luce e buonaria,con alberi verdi e da fruttidintorno, sepolta tra un foltodi pergole ombrose; ma molto,ma molto lontana da tutti.Unassai vecchia dimora,linda, ospitale ed ammodo,un po rozza e semplice al mododelle massaie dallora;e in questo rifugio allantica,vorrei, nelloblo secolare,

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    illudermi di riposareda unimmaginaria fatica.Che sonni, che sonni tranquillida bimbo nella sua cuna,le notti col lume di luna,le notti col canto dei grilli!Vorrei pure scrivere, senzafatica, dei versi: ma sparsia spizzico, da giudicarsicon una bonaria indulgenza:dei versi bizzarri, rimatisecondo la mia prosoda,con molta malinconae quasi niente grammatica:e il lusso da milionariovorrei per un mese, daverea nolo per cameriereun dottore universitarioper mettere in bella copiale mie bislacche parolee dirmi dove ci vuolela lettera semplice o doppia.O gioia di essere solo!non lombra dun conosciutovicino, toltone il mutodottore che avrei preso a nolo.Non ascolterei che la solaNatura, lunica amica;non compirei pi la faticadi dire una mezza parola.Avrei con me qualche radolibro, assai fuori di mano;andrei per i campi pian pianosenza saper dove vado;nella mia testa i pensieriandrebbero comio li lascioandare, tutti a rifascio,i pi pazzi con i pi seri:e a sera, sullimbrunire,un letto fresco e profondomi smemorerebbe del mondocon la volutt di dormire.Se un semplice regime ugualebastasse a guarirmi dal tedio!Ma in simile caso il rimedio

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    sarebbe peggiore del male.Non guarirei, ne son certo,da tutte queste tortureimaginarie, neppurese andassi in mezzo al deserto;il male, purtroppo, non stadi fuori, ma nel mio interno,ed un prodotto modernocome lelettricit: come un tarlo che rodaaddentro, senza mai posa,ed era in addietro una posaormai passata di moda.Oh come darei le paroleinutili e lopere vanedelluomo, per essere un caneche dorma placido al sole!Per esser la foglia o linsettoo lalbero o il gufo o il leone,per non aver la ragione,per non aver lintelletto,per essere (questo confortoconcedi, o Natura, a chi stancogi troppo), per esser pur ancoun uomo, ma essere morto!Morire! Una camera mutae un letto profondo: lontano La mortela fiamma dun vespro sanguignoche splenda tra i cento comignoliduna citt sconosciuta:giacere in quel letto profondo;udir con un senso inumanodangoscia il confuso lontanoeterno fragore del mondo:sentire che per riposareun sonno profondo non basta,ma occorre una pace pi vasta;sentire che tutto scompareper sempre, che il sogno dileguaper sempre, che tutto fuggitoper sempre, che tutto finito;sentire vicina la tregua;compiere il gesto improvviso:il sangue che sfugge dal viso,il senso indicibile, ignoto,di precipitare nel vuoto,

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    di precipitare per sempre,di divenir preda del niente...un senso di gelo, fugace,poi nulla. La morte. La pace.Giacere in quel letto profondo,gi morto: sul volto, il suggellodella Verit spaventosa,della Verit che si sposacon luomo ch uscito dal mondoe agguaglia il deforme col bello,e agguaglia lignaro e il saccentenel placido regno del niente:giacere in quel letto profondopi immobile ancora di quandosi dorme: dellunica buonaimmobilit che traspiradal volto di chi non respira,dal corpo di chi sabbandona;il drappo che va disegnandopi profondamente le formedel rigido corpo che dormeper sempre: poi ecco apparirela prima dissoluzioneche sforma e devessere comese si continuasse a morire.Giacere in un letto profondo,gi morto: ecco il solo momentodi vero riposo nel mondo!Pi tardi la terra ci afferrae penetra e sbriciola in polveree volge in s stessa ed evolvee dissipa in preda del vento:ma il letto sul quale si muoreconcede per quarantottorela pace assoluta, infinita.Nessuna forma di vitasi svolge in quel tempo dal fondodelluomo mutatosi in cosa;quella materia riposa;non vive, non vede, non sente:sfasciandosi gradatamente,rinunzia allenorme faticadi dover essere unita.Natura, o burattinaia,come raduni i tuoi fili

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    a tempo, perch luno appaiae laltro scompaia! Rigirii fili che agli esseri umanifan muovere i piedi e le manie torcere gli occhi e la bocca:quindi, infallibile, appena tempo, il fantoccio a cui toccascompare per sempre di scena.Tarder molto a finirequesta ridicola farsa?Io sento che fo da comparsae che non ho niente da dire.A che imaginarmi gi estinto?Parlare senza moriredi questo piacere vuol direnon esserne bene convinto.O morte, la nostra miseria grande: la nostra materiache soffre ed invoca loblo,gridando pur sempre: - Non vogliomorire! - sabbarbica alliocos disperatamente,come il mollusco aderentecon tutte le forze allo scoglio:lio per ciascuna persona come unamante noiosache stanca sopra ogni cosa,ma che tuttavia non si dona;lamante che pi non si varia,compagna in piaceri e malannie che, con landare degli anni,diventa vieppi necessaria;lamante un poco volgareche ha verso di noi mille curee che spesse volte neppureci si accorge di sopportare.Questo pensavo: e un divinotramonto doro e di rosacirconfondea la rocciosacatena dellApennino.Lode a te, madre Natura,che un poco ironica e dura Lironiamhai conformata la facciae fatto esperto di questo:che luomo, pur se gli dispiaccia

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    non essere il solo immortale, un essere medio, che valen pi n meno del resto;tanto chio stesso mi guardoa volte con un improvvisostupore ed un mezzo sorrisotra lindulgente e il beffardo.Ma questo, o Natura, mi turbaprofondamente: che ignorole cose pi semplici e chiare:gli uomini, a quanto mi pare,han laria invidiabile e furbadintendersi tanto fra loro,chio solo, sentendomi escluso,rimango in disparte confuso.O madre Natura, ti chiedoperdono di tanta ignoranza:da molto tempo non vedopi libri: ho perduto lusanzadi leggere libri e giornali;non son presidente di leghe,n socio: detesto le beghepolitiche e ignoro, al momento,chi occupi il parlamentoe i seggi ministeriali.O madre Natura, bisognache tu mi perdoni due voltese per queste fisime stoltenon so provare vergogna.Accogli nellanima immensail figlio non troppo modello,facendogli grazia di quelloa cui per pigrizia non pensa.O volutt di goderelimmobilit dei fachiri!Non sembra che tutto mi giridintorno per farmi piacere?Il tempo trascorre, la mortesapprossima, il mondo lontano:dallanima vigile e forte,temprata nellessere sola,prorompe la vera parola:morire e vivere vano!La traccia delluomo scomparesulla brevissima viadel mondo come la scia

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    che si riconfonde col mare;il Tempo, figliuolo minoredellEternit, ci dissolvenel nulla o in un pugno di polverein poco volgere dore;perfino larte sovrananon che la caricaturadi ci che madre Naturaha dato allanima umana,tenendo per fermo che tuttoil bello nel verso rinchiusonon vale un profumo diffuso,non vale il sapore dun frutto. vana larte. La sortevuol che ogni cosa sia vana,vuol che la vita sia vanae che sia vana la morte.O madre Natura, il tuo figlioche trema guardandoti in faccia,non simula quanto sia vanopur quello chei dice: lumanovortice ancora lo allaccia;non sopporter pi lesilio:non rimarr pi supinosopra lo scoglio del mare,ma torner ancora a speraresecondo lumano destino.Che nuova speranza rampollanel suo cuore? Tutte e nessuna:listinto che laccomunaa quello che vive, alla follapremuta, accecata da un rudebisogno di vita, sospintaa vincere o ad essere vinta,che spera lavora e sillude;listinto che mai non sapremodomare e che tutti trascinaper la medesima china,il genio, il mediocre, lo scemo;listinto a cui non si resiste,che torce la bocca al sorrisoo al pianto e che sorge improvvisoa rammentarci che esiste.Natura, che imponi la vitae ridi curvandoci sotto

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    questobbligo, tu non ascoltise un uomo ti si rivolticome la biscia colpitaa tergo dallurto del ciottolo:non curi chegli savvedadel tiro: lhai fatto tua preda.Lignoto te lo imprigionaper sempre: tu stessa finisciper esser con lui quasi buona;diventi materna; lo liscifinchegli sia quasi quieto,lo rendi dabbene e discreto,glinsegni che certe domandenon son pi da uomo gi grande,gli parli dingegno e donorefinch gli si vada imbiancandola barba: ed infine, allorquandodiventa commendatore,il nostro bravuomo detersodogni impurit, veramentecomprende la Vita e si senteil re dellimmenso Universo.La notte era sorta dal mare:la notte serena ed illuneavea generato il profondosilenzio e la pace sul mondo;udivo soltanto lansaredellacqua sopra le dunelontane: il profilo malcertodei monti appara di lontanosul cielo, segnato dinchiostrocome il profilo dun mostrodel tempo antidiluviano;il mare tranquillo e desertocingea con alterno gorgogliolimmobilit dello scoglio,e in cielo, non so quale manonon vista da me, a poco a pocoavea suscitato gi il fuocolatente di cento fiammelle:brillavano tutte le stelledel cielo: la notte profonda,diffusa e confusa per entrola terra invisibile e londache sincrespava sul mareinsonne, pareva ascoltare

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    leternit del silenzio.Un giorno era infine trascorso:tutto era triste ed ugualeintorno a me: limmortaleNatura seguiva il suo corso.Il Tempo girava la ruotaeterna: leterno ritornodel cielo segua quella tracciadovuta, che innanzi si cacciapur sempre la notte ed il giorno:il Tutto era lindifferenzadel Tutto: ma lintima essenzadellessere erami ignota.Come si muore e si viveallombra del Tutto e del Nulla?Silenzio. Mai nessun Buddhacinsegner come si vive!Lignoto non teme la lucedel nostro cervello; il misteroche nasce con noi ci conduceper non si sa quale sentiero.Ci premon le tenebre spessedi ununica sorte: di quellache uomini e cose affratellanel tedio comune dellessere.Questo pensavo, e leternosgomento gonfiava il mio cuore.Sentivo, sentivo fraternolo scoglio del mare e il rumoredel mare, il lontano stormiredegli alberi a terra, lauliredei boschi profondi col vento,le stelle che nel firmamentobrillavan dun tremito doroe lente salivan la viaremota, in eterna armona,con ritmo concorde fra loro:sentivo che tutto era ugualealla mia spoglia mortale:sentivo di tendere versoil Tutto, di esser la parteminima dellUniverso,la parte che vede e che sente,che esiste in eterno e che cadecol tutto continuamente

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    per una china infinitasenza principio, n fondo,per ove in eterno si fondonoinsieme la Morte e la Vita.Questo sentivo, supinosopra lo scoglio del mare.E parve un tratto alle miepupille immobili e fissenelle celesti armone,che immensa, tra laceri veli,raggiasse su un volto divinola Verit secolare.Fu come se il mondo salissein alto, fu come se i cieliscendessero: tutte le porteaveva dischiuso il misteroal mondo degli uomini, sullamirabile luce del Vero.E in me scese il Tutto ed il Nulla,la Vita e la Morte.

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    IndiceL'accidioso stupore di Carlo Vallini................................................................................................ 2La rinunzia....................................................................................................................................... 6Un giorno....................................................................................................................................... 29

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    L'accidioso stupore di Carlo ValliniOpere di Carlo Vallini

    La rinunziaUn giorno