politica di sicurezza italiana e innovazioni strategiche

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Politica di sicurezza italiana e innovazioni strategiche nell’Europa degli anni cinquanta di Lorenza Sebesta È importante ricordare, oggi, quanto lo stru- mento militare italiano debba poggiare su una politica di sicurezza nazionale e quanto essa, a sua volta, da una parte, debba inserirsi in un panorama internazionale storicamente preordi- nato, dall’altra possa, specialmente in momenti di distensione, contribuire alla sua trasforma- zione. La politica di sicurezza dell’Italia negli anni cinquanta, analizzata secondo tali parame- tri, è l’oggetto di questo saggio. Dopo la scelta, ‘sofferta’, degli Stati uniti e della Nato come referenti principali (1948- 1949), essa si dissolse in una serie di iniziative mal coordinate; si cercò, da una parte, di ac- centuare l’adesione piena all’atlantismo tramite la rapida assunzione di alcuni nuovi caratteri dell’alleanza (armi tattiche nucleari); dall’altra venne tentato lo sviluppo di settori potenzial- mente alternativi (Mediterraneo). Tale politica si risolse nella rielaborazione de- gli spunti offerti dalle ‘occasioni’ storiche. Po- che furono le possibilità di pesare in campo eu- ropeo — perlomeno finché non fosse riacqui- stata la certezza dei confini nazionali (questione di Trieste) e delle basi giuridiche della propria autonomia (Trattato di pace); debole fu l’ela- borazione teorica e pochi, mal funzionanti, i luoghi istituzionali di coordinamento entro cui sviluppare tale riflessione; eccessive furono, in- fine, la polarizzazione dell’arena politica (den- tro e fuori dal paese) e la finalizzazione interna della politica di sicurezza italiana. Parte degli elementi che impedirono, allora, una rielabora- zione fattiva degli spunti distensivi esterni sono oggi venuti meno, mentre il sistema politico in- terno rimane invariato: ripensare il ruolo strate- gico dell’Italia vuol dire fare i conti anche con questo. It is perhaps worth reminding how much the Italian military structure relies upon a national security policy that fits into an historically gi- ven framework, to the reshaping of which this same policy may well in turn contribute for its own part. After the “deeply felt” choice of the United States and Otan as a fundamental term of refe- rence (1948-1949), the Italian security policy di- spersed in a series o f ill-coordinated initiatives, trying, on the one hand, to tighten its full adhe- sion to atlantism through a quick endorsement o f the new characters assumed by the alliance (tactical nuclear weapons); and, on the other hand, seeking new and potentially alternative roads in the Mediterranean area. This policy resulted in a clear-cut tendency to reshape the occasional openings offered by hi- storical “opportunities". But rather few were the chances o f weighing in the European con- text, at least until a renewed certainty might be reached as to the national borders (the question o f Trieste) and the juridical foundations of na- tional independence (the peace treaty); very poor were the theoretical developments andfew and feeble the institutional centers where such a reflection could be brought on; and finally, overwhelming were both the polarization in the political arena and the use of the Italian secu- rity policy for internal purposes. Some o f the elements that prevented a viable development of the emerging chances of déten- te have since faded away, whereas the internal political system remains unchellanged: rethin- king the Italian strategic role today means fa- cing also this crucial issue. Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179

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Page 1: Politica di sicurezza italiana e innovazioni strategiche

Politica di sicurezza italiana e innovazioni strategiche nell’Europa degli anni cinquanta

di Lorenza Sebesta

È importante ricordare, oggi, quanto lo stru­mento militare italiano debba poggiare su una politica di sicurezza nazionale e quanto essa, a sua volta, da una parte, debba inserirsi in un panorama internazionale storicamente preordi­nato, dall’altra possa, specialmente in momenti di distensione, contribuire alla sua trasforma­zione. La politica di sicurezza dell’Italia negli anni cinquanta, analizzata secondo tali parame­tri, è l’oggetto di questo saggio.

Dopo la scelta, ‘sofferta’, degli Stati uniti e della Nato come referenti principali (1948- 1949), essa si dissolse in una serie di iniziative mal coordinate; si cercò, da una parte, di ac­centuare l’adesione piena all’atlantismo tramite la rapida assunzione di alcuni nuovi caratteri dell’alleanza (armi tattiche nucleari); dall’altra venne tentato lo sviluppo di settori potenzial­mente alternativi (Mediterraneo).

Tale politica si risolse nella rielaborazione de­gli spunti offerti dalle ‘occasioni’ storiche. Po­che furono le possibilità di pesare in campo eu­ropeo — perlomeno finché non fosse riacqui­stata la certezza dei confini nazionali (questione di Trieste) e delle basi giuridiche della propria autonomia (Trattato di pace); debole fu l’ela­borazione teorica e pochi, mal funzionanti, i luoghi istituzionali di coordinamento entro cui sviluppare tale riflessione; eccessive furono, in­fine, la polarizzazione dell’arena politica (den­tro e fuori dal paese) e la finalizzazione interna della politica di sicurezza italiana. Parte degli elementi che impedirono, allora, una rielabora­zione fattiva degli spunti distensivi esterni sono oggi venuti meno, mentre il sistema politico in­terno rimane invariato: ripensare il ruolo strate­gico dell’Italia vuol dire fare i conti anche con questo.

It is perhaps worth reminding how much the Italian military structure relies upon a national security policy that fits into an historically gi­ven framework, to the reshaping of which this same policy may well in turn contribute for its own part.

After the “deeply felt” choice of the United States and Otan as a fundamental term of refe­rence (1948-1949), the Italian security policy di­spersed in a series of ill-coordinated initiatives, trying, on the one hand, to tighten its full adhe­sion to atlantism through a quick endorsement of the new characters assumed by the alliance (tactical nuclear weapons); and, on the other hand, seeking new and potentially alternative roads in the Mediterranean area.

This policy resulted in a clear-cut tendency to reshape the occasional openings offered by hi­storical “opportunities". But rather few were the chances of weighing in the European con­text, at least until a renewed certainty might be reached as to the national borders (the question of Trieste) and the juridical foundations of na­tional independence (the peace treaty); very poor were the theoretical developments and few and feeble the institutional centers where such a reflection could be brought on; and finally, overwhelming were both the polarization in the political arena and the use of the Italian secu­rity policy for internal purposes.

Some of the elements that prevented a viable development of the emerging chances of déten­te have since faded away, whereas the internal political system remains unchellanged: rethin­king the Italian strategic role today means fa­cing also this crucial issue.

Italia contemporanea”, giugno 1990, n. 179

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La politica militare italiana nel secondo do­poguerra

Il ruolo dell’apparato militare nella politica estera italiana ha subito una notevole evolu­zione nel secondo dopoguerra: esso si è in­fatti progressivamente ampliato rispetto al concetto tradizionale di supporto alla difesa operativa del paese — funzione che permane tutt’oggi ma è affiancata da quella primaria di sostegno alla politica estera nazionale e, più in generale, al mantenimento dell’ordine internazionale, quale emerge dalla stessa Costituzione italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzio­ne delle controversie internazionali; consen­te, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giusti­zia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo” (articolo 11)1.

Individuare le radici storiche di questa evoluzione è essenziale per dare spessore al principio spesso ripetuto dell’importanza dell’Italia nel teatro strategico europeo. In particolare, tale affermazione, inconfutabile da un punto di vista puramente geopolitico, subì un processo di ‘riformulazione’ dopo l’esperienza bellica.

L’interesse della prima parte della ricerca sarà quindi quello di avviare una riflessione

storica sui mezzi e sui fini attraverso i quali il governo italiano si preoccupò di teorizzare e mettere in pratica una politica di sicurezza conforme alla nuova situazione emersa dal conflitto mondiale e che ruolo giocarono, in questo processo, le componenti ‘occidenta­le’ e ‘mediterranea’ della sua attività milita­re e diplomatica. Nella seconda parte, verrà invece analizzato brevemente il ruolo della tematica nucleare nel dibattito strategico in­terno all’Alleanza atlantica, e in Italia in particolare, facendo riferimento a una serie di coordinate internazionali che segnarono la problematica affermazione della massive retaliation come modello di strategia atlanti­ca e l’introduzione delle armi atomiche tatti­che nel teatro europeo.

Il contenimento dell’apparato bellico ita­liano da parte delle potenze alleate dopo la fine della seconda guerra mondiale fu un aspetto essenziale del ridimensionamento del suo ruolo politico; con questa logica venne redatto il Trattato di pace, il cui fine era quello di togliere il supporto militare ad ogni velleità non solo espansionistica ma an­che di rinascita di una politica estera militar­mente sostenuta, tramite una drastica ridu­zione delle forze armate e delle potenzialità industriali belliche nazionali2.

A tale contenimento corrispondeva, sul piano internazionale, l’irrigidimento delle relazioni fra Stati uniti e Unione sovietica e

Questo saggio è stato preparato nell’ambito delle ricerche svolte per il convegno “L’Europa e la politica di potenza: alle origini della Comunità economica europea”, Firenze, 23-27 settembre 1987.1 Cfr. Maurizio Cremasco, Le possibili situazioni di crisi e gli eventuali scenari di confronto. Quale strumento mili­tare per farvi fronte?, in M. Cremasco (a cura di), Lo strumento militare italiano, Milano, Angeli, 1986, pp. 53-54; Stefano Silvestri, Il quadro generale e i problemi della difesa italiana, ivi, p. 20; Carlo Jean, Sicurezza e difesa in Italia, “Rivista italiana di scienza politica”, 1987, n. 3, pp. 377-397.2 La storiografia relativa al Trattato di pace è scarsa: cfr. Giuseppe Vedovato, Il Trattato di pace con l ’Italia, Fi­renze, Edizioni Leonardo, 1947; su aspetti specifici, relativi a ciascuna delle tre armi, Giovanni Bernardi, La Mari­na, gli Armistizi e il Trattato di pace, Roma, Ufficio storico della Marina militare, 1979; Aldo Mola (a cura di), Le Forze armate dalla liberazione all’adesione dell’Italia alla Nato, Atti del convegno, Torino, 8-10 novembre 1985, Roma, Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito, 1986. Recentemente, il tema è stato analizzato, per gli aspetti riguardanti la genesi, da Ilaria Poggiolini, Una pace di transizione: gli alleati e il problema del Trattato di pace ita­liano, 1945-1947, Tesi di dottorato, 1988.

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la progressiva strutturazione delle recipro­che sfere d’influenza. Nasceva quindi, per l’Italia, la necessità di elaborare con estrema prudenza una strategia ‘di sicurezza’ che, da una parte, tagliasse i ponti con la tradizione nazionalistica di stampo fascista, dall’altra, si inserisse realisticamente nel panorama in­ternazionale dal quale emerse dopo il 1947 — e con sempre maggior perentorietà nel 1948 — la scelta atlantica come opzione irri­nunciabile e unica, tenuto conto della scarsa concretezza dell’alternativa europea3. La difficoltà di tale elaborazione derivava da numerose circostanze, prima fra tutte la pre­carietà della situazione economica nazionale e l’oggettiva necessità — riconosciuta, sep­pur con moventi diversi, da tutte le forze politiche — di risolvere innanzi tutto i pro­blemi interni di consolidamento dello Stato. A ciò si aggiungeva il diffuso sentimento neutralista che, come una sorta di tematica ‘trasversale’, veniva condiviso non solo dai partiti appartenenti all’area socialcomuni­sta, ma da consistenti frange della stessa de­mocrazia cristiana.

In termini strettamente militari, i limiti giuridici imposti dal Trattato di pace erano andati a colpire un settore già di per sé dele­gittimato dalla negativa prestazione dei ver­

tici delle forze armate dopo l’armistizio del settembre 1943. Al giornalista americano Ar- nolf Wolfers che lo interrogava nel febbraio 1948 in merito ai problemi della difesa euro­pea, il ministro degli Esteri Carlo Sforza di­chiarava, significativamente, di considerare la questione “puramente accademica”, in quanto la debolezza degli eserciti del vecchio continente rendeva impensabile qualsiasi ipotesi difensiva. La rinascita economica e il contenimento del comuniSmo erano visti da Sforza come gli obiettivi più immediati del governo4.

Oltre a questi freni oggettivi, pesava sulla politica estera italiana una diffusa difficoltà di percepire correttamente i mutamenti in corso nell’arena internazionale. Ciò era do­vuto, in parte, all’incerto comportamento delle potenze maggiori, in parte al retaggio di schemi interpretativi classici del gioco diplo­matico multipolare — e, quindi, di concetti quali il colonialismo e il nazionalismo — che rendevano lenta e difficile l’analisi delle coordinate internazionali entro cui situare le scelte di politica estera; c’era, infine, da ag­giungere l’avversione verso forme di allean­ze internazionali, quelle militari, che richia­mavano memorie storiche infauste5.

Quindi, se era del tutto prematuro pensare

3 Cfr. Enzo Collotti, Collocazione internazionale dell’Italia dall’armistizio alle premesse dell’Alleanza atlantica (1945-1947), in Aa.Vv., L ’Italia dalla liberazione alla repubblica, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 27-118.4 In termini simili si espresse il Primo ministro De Gasperi; Joint Chiefs of Staff files, Microfilms (Istituto univer­sitario europeo, Firenze), Europe and Nato, Reel IV, Conversations of Arnold Wolfers with leading italians, Fe­bruary 1948.5 Per le difficoltà di percezione, cfr. Brunello Vigezzi, La politica estera italiana e le premesse della scelta atlantica. Governo, diplomatici, militari e le discussioni dell’estate 1948, in B. Vigezzi (a cura di), La dimensione atlantica e le relazioni internazionali nel dopoguerra (1947-1949), Milano, Jaca Book, 1987, pp. 62-63. Per il permanere della concezione multilaterale, cfr. Ennio Di Nolfo, The Shaping o f Italian Foreign Policy during the Formation o f the East-West Blocs. Italy between the Superpowers, in Josef Becker and Franz Knipping (a cura di), Power in Europe, Great Britain, France, Italy and Germany in a Postwar world, 1945-1950, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1986, pp. 492-502; per la componente colonialista nella politica estera del governo italiano durante la seconda metà degli anni quaranta, che si concretizzò nella volontà di mantenere almeno parte delle posizioni italiane prebelliche in Africa, cfr. Gianluigi Rossi, L ’Africa italiana verso l ’indipendenza (1941-1949), Varese, Giuffrè, 1980, pp. 277- 589; cfr. inoltre Rosaria Quartararo, Italia e Stati uniti, gli anni difficili (1948-1952), Napoli, Esi, 1986, pp. 419- 462. Infine, per Fawersità ai patti militari (di cui Fautore parla a proposito della non adesione italiana alFUnione occidentale), Pietro Pastorelli, La politica europeistica di De Gasperi, “Storia e politica”, settembre 1984, p. 339 (ora riunito, assieme ad altri saggi, nel volume La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1987).

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a una politica di sicurezza che poggiasse sul­lo strumento militare, era impossibile pensa­re alla rinascita di uno strumento militare che a tale politica si ispirasse. La rinascita militare italiana, al di là del limite oggettivo del Trattato di pace, rimase così legata, da una parte, ad esigenze finanziarie ed econo­miche di bilancio, dall’altra, all’apporto quantitativo e qualitativo degli aiuti militari americani e al tipo di pianificazione in vigo­re nella Nato — sui quali non sempre i rap­presentanti italiani furono in grado di inci­dere6. Né va d’altronde sottovalutato a que­sto proposito il peso che sulla rinascita dello strumento militare nazionale ebbero, alme­no fino al 1948, le ipotesi di una insurrezio­ne interna piuttosto che di un attacco esterno.

La pianificazione militare nazionale nel­l’anno della firma del Patto atlantico, preve­dendo l’arresto del nemico sui confini nazio­nali, la protezione del traffico marittimo e l’avvio di campagne antisommergibile, si presentava quindi come un esercizio retorico con pochi legami con la reale consistenza delle forze armate che avrebbero dovuto at­tribuire concretezza a tali ipotesi difensive7. Considerando, a titolo d’esempio, l’Esercito — che era, fra le tre armi, quella cui fu data più sollecita attenzione nei progetti di riar­mo intrapresi dopo la fine del regime armi­stiziale — lo stesso ministro della Difesa de­

scriveva in termini catastrofici la sua situa­zione di fronte al Consiglio dei ministri riu­nito alla fine del gennaio 1949: Randolfo Pacciardi parlava di cinque divisioni con non più di una giornata di fuoco a disposi­zione. Se è vero che il ministro era pronto, in un’analisi retrospettiva (e pubblica) fatta a qualche anno di distanza, ad esprimersi con più ottimismo sullo status delle forze ar­mate nel 1949 e se è vero che, nel settembre dello stesso anno, in un suo intervento da­vanti alla Camera dei deputati, le cinque di­visioni erano già diventate otto (da comple­tare), resta il fatto che la loro ubicazione — la Cremona a Torino, la Legnano a Pavia, la Friuli a Firenze, la Mantova a Udine e la Folgore a Vittorio Veneto —, la qualità del­l’equipaggiamento e la quantità delle muni­zioni testimoniavano l’inadeguatezza dello strumento militare nazionale a fronte delle ipotesi difensive di tutela delle frontiere na­zionali8.

L ’Italia come teatro strategico

L’interesse americano per la penisola nac­que nei primi anni postbellici da un timore di carattere politico più che militare: l’ob­biettivo principale di breve periodo non era infatti quello di salvare la penisola da un’in­vasione militare sovietica quanto piuttosto,

6 Lorenza Sebesta, I programmi di aiuto militare nella politica americana per l ’Europa. L ’esperienza italiana, “Ita­lia contemporanea” , 1988, n. 173, p. 52.7 National Archives Washington (d’ora in poi Naw), RG 59, 840.20/9-1249, Translation of revised memorandum received from the Italian Ministry of Defense, 12 August 1949, Problems involved in the strengthening of the Ita­lian Armed Forces Under the Atlantic Pact, The American Embassy in Rome to the Secretary of State, n. 1148.8 Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi Acs), Verbali riunione Consiglio dei ministri, b. 19/XVI, 28 gennaio 1949; Ministero della Difesa, Le nuove Forze armate italiane nel quadro della ricostruzione e del progresso nazio­nale, Roma, 1953, p. 32; A tti Parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 27 settembre 1949, pp. 11281-11282. Per l’ubicazione delle forze, L ’esercito e i suoi corpi, Roma, Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito, 1971. Non si intende, naturalmente, affrontare in questa sede il tema della ricostruzione in termini di effettivi, armamen­ti, e dottrina militare d’impiego delle forze armate italiane. Ciò è già stato fatto, sulla base di fonti di tipo seconda­rio, da Enea Cerquetti, Le forze armate italiane dal 1945 al 1975. Strutture e dottrine, Milano, Feltrinelli, 1975 e con l’ausilio di fonti primarie, per i primi anni del secondo dopoguerra, da Leopoldo Nuti, Le forze armate italia­ne, Roma, Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito, 1988.

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come è stato più volte ribadito dalla storio­grafia, di evitare che le forze della sinistra arrivassero, con mezzi legali o illegali, al po­tere, scatenando una possibile reazione a ca­tena in altri paesi ‘mediterranei’9.

A questo timore di carattere politico si ag­giungeva un diffuso interesse per le poten­zialità strategiche della penisola. Da un pun­to di vista militare, la percezione comune dell’Italia era quella di teatro strategico, non attore in ambito strategico. Il termine ‘tea­tro’ acquistò nei primi anni postbellici un’ampia gamma di valenze. L’ipotesi più accreditata di attacco all’Italia era quella di un’invasione sovietica — con l’ausilio della Jugoslavia prima del giugno 1948 e invece attraverso la Jugoslavia (partendo presumi­bilmente da basi ungheresi) dopo il distacco di Tito da Stalin. Conseguentemente, il ruo­lo della penisola risultava essere in primo luogo, quello di appendice del fronte centra­le europeo, poiché, chiaramente, l’attacco sovietico contro la frontiera nordorientale italiana sarebbe avvenuto subordinatamente a quello contro il fronte centrale dell’Allean­za. Con un’azione offensiva nei confronti dell’Italia, l’Unione sovietica avrebbe tenta­to di aprire un secondo fronte in Francia passando dalla Pianura padana e sorpren­

dendo le difese dell’Europa centrale alle spalle, cercando inoltre di acquistare una posizione di controllo dei traffici mediterra­nei diretti all’Europa centrale. Le previsioni americane in merito alla capacità di resisten­za delle forze armate italiane in caso di ag­gressione da est facevano riferimento, nel 1948, a un probabile immediato arretramen­to della prima linea di difesa sull’Appennino toscoemiliano10. Ciononostante, ad un anno di distanza, i Joint Chiefs o f Staff caldeg­giavano una difesa europea coincidente con quella nazionale dell’Italia dichiarando che “i vantaggi della partecipazione italiana alla difesa dell’Europa sopravanza[vano] qual­siasi economia di forze che [avrebbe potuto] essere raggiunta difendendo la frontiera franco-italiana piuttosto che quella nordo­rientale italiana”11.

L’Italia appariva inoltre come ‘teatro di riconquista’ (attraverso la Sicilia, la Sarde­gna e, possibilmente, tutta l’Italia del Sud) sul modello della seconda guerra mondiale, una volta che si fosse dato seguito ai piani strategici americani e a quelli dell’Unione occidentale che prevedevano un ritiro delle proprie forze dal fronte europeo e una ri­conquista in tempi successivi da alcune teste di ponte, fra cui il Nord Africa12. Come tea-

9 Cfr. Timothy Smith, Security and Italy. The Extension o f Nato to the Mediterranean, 1945-49, in Lawrence Ka­plan (a cura di), Nato and the Mediterranean, Wilmington, Scholarly Resources, 1985, pp. 137-156; Antonio Var- sori, La scelta occidentale dell’Italia (1948-1949), “Storia delle relazioni internazionali”, 1985, n. 1, pp. 95-159 e n. 2, pp. 303-368; James Miller, The Unites States and Italy, 1940-1950, The Politics and Diplomacy o f Stabilization, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 1986.10 Foreign Relations of the United States (d’ora in poi Frus), 1948, III, Working Group to the Ambassador’s Com­mittee, Washington Security Talks, December 1948, pp. 333-342: 340; Naw, RG 319, entry 154, box 241, P. and O., 381 Europe TS, sec. II, case 53/5, Jcs 1868/86, May 28, 1949, Western Union Review of Strategic Background, by Jspc. Per le previsioni americane, Naw, RG 319, entry 154, box 18, P. and O. 091, Italy TS, F/W 15/9, P. and O. Division, Brief for participants to preliminary discussions with Marras, US Army Intelligence estimate of Italian Military Capabilties, October 14, 1948, Appendix B to Enclosure D.11 Jcs files, Europe and Nato, part II, reel 4, Jcs 1868/63, March 8, 1949, p. 467.12 L. Sebesta, L ’Italia e la questione della sicurezza europea, 1948-1952: piani strategici e aiuti militari, Tesi di dot­torato, 1988, pp. 139-141. Per il testo del primo piano strategico a breve termine americano del dopoguerra — ap­provato il 19 maggio 1948 —, Thomas Etzold and John Lewis Gaddis, Containment: Documents on American Po­licy and Strategy, 1945-1950, New York, Columbia University Press, 1978, Brief of Short Range Emergency War Plan (Halfmoon), Jcs 1844/13, pp. 315-323. Su questo, cfr. Ottavio Bariè, Gli Stati Uniti, l ’Unione occidentale e l ’inserimento dell’Italia nell’Alleanza atlantica, in O. Bariè (a cura di), L ’Alleanza occidentale. Nascita e sviluppo di un sistema di sicurezza collettivo, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 121-123.

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tro fu senz’altro considerata la penisola nel­l’ambito logistico della pianificazione ameri­cana — in concomitanza con l’elaborazione del piano Offtackle (prima metà del 1949) — relativamente alla funzione di base di ap­poggio per aerei militari americani13; una ul­teriore funzione, destinata ad acquistare grande rilevanza nella prima metà degli anni cinquanta, fu quella di via di comunicazione per le forze alleate del fronte europeo cen­trale, con il duplice scopo di rifornirle e co­stituire una sicura via di ripiego per quelle, fra esse, che non avessero potuto ritirarsi at­traverso i porti predisposti in Germania e in Francia14.

L’elaborazione del Piano di difesa a me­dio termine della Nato (approvato dal Co­mitato di difesa il 1° aprile 1950) sembrò rappresentare un chiaro riconoscimento del­l’opportunità di difendere la penisola sulle sue frontiere geografiche, prevedendo, fra le varie linee di contenimento dell’ipotetica of­fensiva sovietica, quella Alpi italoaustria- che-Isonzo. Le stime fornite successivamen­te dallo Standing Group riguardo alle forze necessarie per mettere in pratica il piano en­tro la data finale (target date) del 1954 — novanta divisioni, fra effettivi e riserve — sembrarono tuttavia rendere nulla la prati­cabilità di tale ipotesi15. Le stesse forze pre­

viste per l’Italia, sedici divisioni e un terzo, non erano solo superiori al totale permesso dal Trattato di pace ma anche, e soprattut­to, irraggiungibili entro i margini finanziari fissati dal bilancio militare nazionale.

Sintomatiche, a proposito della dicotomia teatro/attore, furono le riserve mantenute dai Jcs americani nei confronti dell’ipotesi di una collaborazione militare con l’Italia in operazioni di ritardo sul confine italoau- striaco. Nel maggio 1951, all’interno di una direttiva dei Jcs al Comandante in capo del­le forze americane in Austria, si invitava Geoffrey Keyes a prendere tutti gli opportu­ni contatti con i comandanti delle zone in­glesi e francesi per avviare una pianificazio­ne comune delle operazioni di ritardo nella zona settentrionale e orientale del paese allo scopo di difendere la linea montana passan­te vicino al confine con l’Italia. Allo stes­so tempo, Keyes era pregato di non comuni­care questa novità agli italiani, con i quali, si diceva, si sarebbe invece provveduto a di­scutere il piano a breve termine nell’ambito dell’Emmo (Gruppo Europa meridionale- Mediterraneo occidentale della Nato)16. Ma il piano al quale i Joint Chiefs o f Staff si ri­ferivano, che effettivamente prevedeva un ritiro congiunto delle forze d’occupazione

13 Naw, RG 319, entry 154, box 265, P. and O. 686 TS F/W 3, Jspc 684/52, March 23, 1949, Requirements for mi­litary rights in foreign territories; più in generale, T. Smith, The Fear o f Subversion: the United States and the In­clusion o f Italy in the North Atlantic Treaty, “Diplomatic History”, 1983, n. 2, p. 137.14 Alla questione dello stabilimento di una linea di comunicazione (Loc) diretta verso il Centro Europa attraverso l’Italia, il Dipartimento di Stato — sulla scorta di suggerimenti provenienti dallo stesso Omar Bradley, a capo dei Joint Chiefs o f Staff, fin dal novembre 1948, attribuì dal settembre 1950 in poi un’importanza maggiore, arrivando a stabilire una relazione diretta fra la sua soluzione e il grado di resistenza delle forze alleate in Austria — ed even­tualmente di quelle a Trieste. Per Bradley, Naw, RG 218, Ccs 092, Western Europe, See. A, case 4/32, Memoran­dum for Director P. and O., November 17, 1948; Naw, RG 59, box 3954, 756.5 Map/6-250, Dep. of State to Ro­me, June 2, 1950; cfr. James Huston, One o f AU. Nato Strategy and Logistic through the Formative Period (1949- 1969), Newark, University of Delaware Press, 1984, pp. 75-76.15 Kenneth Condit, The History o f the Joint Chiefs o f Staff. The Joint Chiefs o f S ta ff and the National Policy, vol. II, 1947-1949, Wilmington, Michael Glazier, 1979, p. 405 e Walter Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff. The Joint Chiefs o f S ta ff and National Policy, vol. IV, 1950-1952, Washington, Historical Division Joint Se­cretariat Joint Chiefs of Staff, 1979, pp. 183-184.16 Naw, RG 218, box 7, Ccs 383.2, Austria (1-21-44), Sec. 18, Csusa to Cgusfa, Salzburg, May 19, 1951, DA 91739.

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americane di stanza in Austria e Trieste at­traverso l’Italia con collaborazione delle due forze armate, venne definito dal rappresen­tante degli Stati uniti presso l’Emmo, Ri­chard Conolly, irrealistico e inattuabile, in quanto privo di attinenza con l’effettivo sta­tus delle forze militari presenti nell’area17.

L’importanza dell’Italia, emergeva in de­finitiva con più forza nzWambito logistico che non in quello operativo, dove ostacoli di varia natura sembravano impedire un effica­ce contributo nazionale alla Nato in termini di uomini e di equipaggiamento. Fra questi, il Trattato di pace rappresentava non solo, come si è già visto, un limite tecnico-militare alle aspirazioni dei vertici militari nazionali, ma anche e soprattutto un retaggio della condizione di inferiorità con la quale l’Italia era emersa dal conflitto. Sulla sua revisione si attestarono quindi all’inizio degli anni cin­quanta le attenzioni del governo italiano, suffragato fra gli altri, dal Congresso ameri­cano e dal Dipartimento della difesa, che ri­levavano l’impossibilità per l’Italia di con­tribuire in maniera adeguata alla difesa eu­ropea finché il suo apporto fosse stato limi­tato a quello previsto dal Trattato stesso18.

In questo senso, l’argomento ‘militare’ fu perfettamente funzionale alle aspirazioni politiche del governo italiano che con la di­chiarazione tripartita del 26 settembre 1951 — in cui Stati uniti, Gran Bretagna e Fran­cia si dichiaravano disponibili a dare una fa­vorevole considerazione a una richiesta di

abrogazione — e le successive fasi della revi­sione ‘informale’ si assicurò non solo il per­messo di aumentare le proprie forze armate, ma anche una più indipendente identità poli­tica da far valere in campo internazionale19.

II Mediterraneo: un fronte alternativo?

Se, quindi, il mutamento degli equilibri in­ternazionali non aveva avuto una ripercus­sione immediata sulla direttrice tradizionale della difesa nazionale — la frontiera nord orientale — c’era un altro fronte che sembrò acquistare, fin dal periodo posteriore alla firma dell’armistizio, nuove potenzialità per la politica estera italiana: il Mediterraneo.

Sintomatiche, a questo proposito, le paro­le che Pietro Badoglio aveva rivolto, nell’a­prile 1944 — dopo il riconoscimento diplo­matico dell’Italia da parte dell’Unione so­vietica — al rappresentante degli Stati uniti presso la Commissione consultiva: “Gli americani sbagliano quando a lunga scaden­za rinunciano alla loro posizione nel Medi- terraneo. Il Mediterraneo diverrà in futuro il perno di un nuovo sistema politico euro­africano, nel quale l’Italia avrà certo un suo ruolo. I vostri alleati inglesi e sovietici sem­brano rendersene conto. Perché voi vi ritira­te?” (Badoglio alludeva all’esitazione degli alleati nell’offrire il riconoscimento diplo­matico allo stato italiano)20. La citazione non vuol certo stabilire delle paternità, ma

17 Jcs files, Europe and Nato, part li, reel 5, Jcs 2073/75, December 12, 1950.18 Frus 1951, IV, 1, Editorial Note, p. 545; ivi, Summary of Studies prepared in the Department of Defense. The Effects of Limitations imposed by Italian Treaty oh obligations under Nato Plans, September 17, 1951, pp. 670- 671.19 Sulla vicenda della revisione del Trattato di pace, A. Sterpellone, Vent’anni di politica estera, in Massimo Bo- nanni (a cura di), La politica estera della Repubblica italiana, vol. II, Milano, Edizioni di Comunità, 1967, pp. 266- 274. Un resoconto fattuale della vicenda è in Presidenza del Consiglio, Come si è giunti alla revisione dell’ingiusto Trattato, “Documenti di Vita italiana”, marzo 1952. Per uh recente aggiornamento che si avvale di fonti archivisti- che anglosassoni, T. Smith, From Disarmament to Rearmament: The United States and the Revision o f the Italian Peace Treaty o f 1947, “Diplomatic History” , voi. 13, 3, Summer 1989, pp. 359-382.20 Frus, 1944, III, Murphey a Hull, 22 aprile 1944, pp. 1102-1104, cit. in E. Di Nolfò, La svolta di Salerno come problema internazionale, “Storia delle relazioni internazionali” , 1985, n. 1, pp. 26-27.

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solo ricordare come la diffusa sensibilità per il ruolo mediterraneo dell’Italia — che, data la provenienza, avrebbe potuto essere consi­derato di matrice nazionalista e colonialista — si caricasse già prima della fine della guerra di una valenza significativa: quella della necessità del sostegno americano all’I­talia e della presenza degli Stati uniti nel Mediterraneo come una sorta di garanzia preliminare per il ripristino dell’equilibrio settoriale di potenza. Tale concetto, legato a quello del rifiuto della tutela inglese in que­sto settore, ebbe un ruolo primario nel ca­ratterizzare l’azione diplomatica italiana che si sviluppò, non a caso, all’ombra del raf­forzamento dell’interesse americano per il Mediterraneo e in antitesi ai tentativi di ege­monia inglese. Illuminante, a questo propo­sito, è un appunto redatto dalla direzione generale del ministero degli Affari esteri in previsione della visita del capo di Stato mag­giore dell’esercito Efisio Marras negli Stati uniti (dicembre 1948), dal quale emergeva la volontà di arrivare a una sorta di collabora­zione militare diretta e bilaterale con gli Sta­ti uniti. Nel documento era scritto, fra l’al­tro: “Detto in termini duri, si tratterebbe anche di far capire che, per le stesse esigenze di basi e agevolazioni per l’organizzazione difensiva in Nord Africa, saremo certo degli alleati assai più comodi degli Inglesi”21. Esi­

steva, dunque, anche in questo caso, un uso cosciente di tematiche militari da parte dei responsabili del ministero22. Esso appariva, d’altronde, privo di sbocchi di ampia porta­ta — come è dimostrato dai risultati della vi­sita di Marras — perché gli Stati uniti erano orientati, in Europa occidentale, verso un si­stema di sicurezza collettiva23, rimanendo invece legati, per l’area mediterranea, a un’innegabile relazione privilegiata con la Gran Bretagna.

È importante quindi ricordare che all’Ita­lia era sì riconosciuta una funzione vitale nell’ambito della difesa degli interessi ameri­cani in questo teatro24, ma proprio tali inte­ressi stentavano a trovare una definizione univoca e completa da parte dell’ammini­strazione Truman. La stessa incertezza di­mostrata durante le trattative per la forma­zione del Patto atlantico riguardo all’oppor­tunità di estendere l’area di pertinenza del Trattato dall’Atlantico verso il Mediterra­neo sembrava riflettere tanto il desiderio di limitare geograficamente il Patto quanto quello di mantenere un rilevante grado di li­bertà d’azione nel settore mediterraneo; questo non era, del resto, che una riprova della generale volontà americana, espressa da Acheson nell’aprile 1949, di non voler pensare ad un intervento in Europa “nei ter­mini di una linea fissa o statica”25.

21 Asmae, AP, Italia, busta 150, fascicolo 1, Appunto s.d. Direzione generale Ministero degli Esteri.22 In occasione della visita di Marras negli Stati uniti, era pervenuto alle autorità militari americane uno studio del­lo Stato maggiore italiano nel quale si sottolineava l’importanza strategica della penisola, che nasceva dal supposto interesse sovietico all’eliminazione delle basi angloamericane nel Mediterraneo e all’isolamento delle forze militari greche e turche; Naw, RG 319, entry 154, box 17, P. and O. 091, Italy TS, Sec. I, part IV, Case 1/5 Office Military Attaché to Director Intelligence, Aprii 28, 1948, transmitting an Italian General Staff Study.23 Vedi L. Nuti, La missione Marras, 2-22 dicembre 1948, “Storia delle relazioni internazionali”, 1987, n. 2, pp. 343-368.24 Le testimonianze sono innumerevoli: dai documenti elaborati dal National Security Council fra la fine del 1947 e i primi mesi del 1948 (per tutti, vedi Nsc 1/3, Position of the United States with Respect to Italy in the Light of the Possibility of Communist Participation in the Government by Legal Means, March 8, 1948, in Frus, 1948, III, pp. 775-779) a quelli discussi alle Washington Security Talks (Report of the International Working Group..., Washing­ton Security Talks, December 24, 1948, in Frus 1948, III, p. 340) e quelli redatti dagli stessi organi militari statuni­tensi (Joint Strategie Planning Group, 684/52, Requirements for Military Bases in Foreign Territories, March 23, 1949, in Naw, RG 319, entry 154, box 265).25 Frus, 1949, IV, Memorandum of Conversation by the Secretary of State, April 1, 1949, p. 266.

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Da un punto di vista strettamente milita­re, le trattative statunitensi per il ripristino della base bellica angloamericana di Mellah- la in Libia — sviluppatesi in due tempi, tra il gennaio 1948 e il 195126 — lo scarso entusia­smo americano nei confronti dei tentativi in­glesi di creare una organizzazione di difesa collettiva nel Medio Oriente — Middle East Command nel 1951, Middle East Defence Organization nel 1952 — e, più tardi, gli ac­cordi per le basi in Spagna (1953), dimostra­rono come la tendenza americana fosse quella di risolvere nella bilateralità i proble­mi relativi al teatro mediterraneo. Nell’am­bito della Nato, d’altronde, era chiara la tendenza a considerare il ‘fianco sud’ come un fronte d’appoggio rispetto a quello del­l’Europa centrale, luogo geografico e sim­bolico dello scontro Est-Ovest.

Le vicende della partecipazione italiana alla Nato negli anni cinquanta furono una conferma della ‘doppia vocazione’, europea e mediterranea, del paese. D’altro canto, es­se dimostrarono una ben ferma volontà de­gli alleati di considerare l’Italia come part­ner politicamente ‘minore’ e militarmente periferico.

Respinte furono, nel 1949, la candidatura italiana allo Standing Group — al quale vennero ammessi Stati uniti, Gran Bretagna e Francia — e al Gruppo di pianificazione dell’Europa occidentale — uno dei cinque in cui era diviso, operativamente, il territorio dell’Alleanza27. Non migliore sorte toccò ad una ben più ampia proposta italiana, avan­

zata da Sforza durante il Consiglio atlantico dell’aprile 1950, in merito alla formazione di un esercito integrato europeo con la più estesa standardizzazione degli armamenti e la creazione di un comando unificato, che risolvesse, tramite l’integrazione in unità operative multinazionali e un forte sistema di comando internazionale, il problema del riarmo tedesco. La proposta italiana, co­gliendo alla sprovvista il Dipartimento di stato americano, venne interpretata come un ostacolo all’allora in corso processo di defi­nizione della migliore tattica per affrontare la questione e come tale immediatamente ar­chiviata28.

La Nato trasse dal tentativo americano di arrivare a una soluzione del problema tede­sco — e, indirettamente, dallo scoppio della guerra di Corea — un enorme spinta in ter­mini di organizzazione, forze e dottrine mili­tari. Tramite l’impostazione elaborata con­giuntamente dal Dipartimento della difesa e da quello di stato e poi nota sotto il nome di ‘pacchetto’ — successivamente rielaborata in sede Nato da Charles Spofford per ren­derla accettabile dai francesi — si giunse co­sì ad un do ut des in cui l’assenso europeo al riarmo della Germania veniva ‘barattato’ con un duplice impegno americano: di par­tecipare, contrariamente ai preventivi impe­gni, ad una struttura di comando operativa nella Nato e collaborare con un accresciuto contingente di forze terrestri alla difesa eu­ropea29.

Questo secondo periodo di rinnovata atti-

26 G. Rossi, L ’Africa italiana, cit., pp. 318-319.2' L. Sebesta, L ’Italia e la questione della sicurezza europea, cit., pp. 177-183.28 Frus, 1950, III, The Ambassador in Italy to the Acting Secretary of State, Rome, May 5, 1950, pp. 91-93; ivi, The Acting Secretary of State to London, May 12, 1950, note 2, p. 96; ivi, Acheson to the Acting Secretary of Sta­te, May 11, 1950, p. 96; ivi, The Secretary of State to the Acting Secretary of State, May 16, 1950, pp. 105-108. Per Quaroni, Asmae, Amb. Parigi, b. 476, fase. 1, tel n. 355/1183, 27 marzo 1950. Riferimenti al piano italiano, consi­derato come precursore del piano Pleven, in Alfredo Breccia, L ’Italia e la difesa dell’Europa. Alle origini del Piano Pleven, Roma, Istituto di studi europei Alcide De Gasperi, 1984, pp. 193-195.29 Frus 1950, III, The Secretary of State and the Secretary of Defense to the President, September 1950, pp. 273- 278. Tale direttiva divenne politica di governo con il nome di Nsc 82, approvata da Truman T ll settembre 1950, ivi, nota 1, p. 273.

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vità organizzativa trovò espressione formale in un documento approvato dallo Standing Group nel dicembre 1950 dal titolo “La creazione di una forza integrata di difesa eu­ropea, lo stabilimento di un quartiergenerale in Europa e la riorganizzazione militare del­la Nato”30. Materialmente esso ebbe inizio con la nomina al posto di Comandante su­premo alleato (Saceur) del generale Dwight Eisenhower, popolare in Europa per la sua esperienza presso il Comando supremo al­leato durante la seconda guerra mondiale e noto negli Stati uniti, oltreché per i suoi me­riti acquisiti in campo, per la sua esperienza come pianificatore e per la sua riservatezza in materia di preferenze politiche.

Nasceva così, per l’Italia, una nuova pos­sibilità di riscatto legata prima di tutto alla soppressione dei gruppi regionali e alla ri­formulazione della struttura operativa; all’i­nizio del 1951, il governo si impegnava, ri­spondendo all’invito di Eisenhower, ad affi­dare allo Shape due divisioni di fanteria (la Mantova, la Folgore) — a cui si sarebbe ag­giunta entro breve la Legnano —, una briga­ta corazzata (l’Ariete) e una brigata alpina (la Julia), oltreché un limitato numero di mezzi navali e aerei31.

I nuovi obiettivi di forza approvati al Consiglio atlantico di Lisbona del febbraio 1952, che prevedevano, per l’Italia, un con­tributo immediato di undici divisioni e due

terzi (attive e di riserva) e di sedici divisioni e un terzo entro il 1954 confermavano, da una parte, l’importanza del contributo italiano al fronte terrestre —- il numero di divisioni era secondo solo a quello della Francia —, dall’altra la sanzione ufficiale del supera­mento del Trattato di pace in sede atlanti­ca32. L’esercitazione della Nato Lago di Garda, effettuata nella prima metà dello stesso anno, contribuì a consolidare l’ipotesi della funzionalità europea della frontiera nordorientale italiana33. A questi sviluppi in campo internazionale corrispondeva un’evo­luzione del bilancio della difesa — ordinario e straordinario — e degli aiuti militari ame­ricani all’Italia che proprio nell’esercizio fi­nanziario 1952-1953 toccava la punta massi­ma. Il programma di riarmo pluriennale, ac­compagnato da una serie di provvedimenti economici volti a regolamentare l’attività produttiva, avrebbe registrato nel giro dei quattro esercizi finanziari di durata (dal 1950-1951 al 1953-1954) un incremento del 20 per cento34.

Nel frattempo, lo sviluppo organizzativo del settore mediterraneo entro la Nato appa­riva travagliato e lento, non solo per l’inesi­stenza di un fronte strategico continuo, ma, soprattutto, per la difficoltà di definirne il duplice ruolo di appoggio al fronte conti­nentale e di sostegno al British Defence

30 Frus, 1950, III, December 12, 1950, pp. 548-562. Per i profondi mutamenti organizzativi che accompagnarono la formazione dello Shape, Lawrence Kaplan, A Community o f Interest: Nato and the Military Assistance Pro­gram, 1948-1951, Washington, U.S. Government Printing Office, 1980, pp. 131-135.31 Acs, Verbali riunione Consiglio dei ministri, 5 gennaio 1951; Naw, RG 319, G-3, box 117, 091 Italy, Memo Con­versation Taylor-De Castiglioni, July 5, 1951; A tti Parlamentari, Camera dei Deputati, 6 marzo 1951, p. 26793. La decisione non venne sanzionata da alcuna autorizzazione parlamentare, non necessaria, secondo il ministero della Difesa, fintantoché le truppe non avessero varcato i confini nazionali; ivi.32 W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff, cit., p. 293. Per le stime avanzate a Lisbona, si è fatto riferi­mento al volume sulla storia ufficiale dei Jcs perché esso riporta, a differenza di altri testi, la fonte primaria, ovve­ro un documento tuttora classified degli stessi Jcs. Le stime totali per quanto riguarda le forze terrestri, erano 53 divisioni e 2/3 (attive e di riserva) entro il 1952, 72 e 1/3 entro il 1953 e 89 e 2/3 entro il 1954. Per l’Italia, il contri­buto sarebbe stato di 11 divisioni e 2/3 entro il 1952, 15 e 1/3 entro il 1953 e 16 e 1/3 entro il 1954.33 E. Cerquetti, Le forze armate italiane, cit., pp. 117-118.34 Cfr. L. Sebesta, I programmi di aiuto militare nella politica americana, cit., p. 62.

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Coordination Committee, Middle East — da cui dipendevano le forze inglesi impegna­te nella difesa del Medio Oriente.

Il Comando delle forze alleate del Sud Europa venne stabilito in forma provvisoria più di un anno dopo la creazione dello Sha­pe, nel giugno 1951, e ad esso sottoposto; era la fine di un braccio di ferro tra Gran Bretagna e Stati uniti, in cui questi ultimi erano alla fine riusciti a far prevalere il prin­cipio della subordinazione del comando a quello del fronte centrale, legittimando quindi, a livello organizzativo, il concetto del Mediterraneo come ‘fronte di appoggio’ rispetto al teatro centrale contro quello, so­stenuto dagli inglesi, del Mediterraneo come trait d ’union fra fronte europeo e fronte me­diorientale, indipendente dal Saceqr.

Robert Carney, comandante delle forze navali americane nell’Atlantico settentriona­le e nel Mediterraneo, venne nominato re­sponsabile del nuovo comando con la carica di Commander, Allied Forces, Southern Eu­rope (Cincsouth) e stabilì il suo quartierge- nerale a Napoli. Le trattative ripresero con l’arrivo dei conservatori al potere in Gran Bretagna — Churchill non perdonava agli americani di aver voluto per sé la carica di Supreme Allied Commander, Atlantic, nel febbraio 1951 — e vennero complicate dal­l’accesso di Grecia e Turchia al Patto atlan­tico nel febbraio 195235. Si giunse infine ad una divisione funzionale del comando: la ca­rica venne sdoppiata tra Carney — che, pur mantenendo il titolo di Cincsouth, rimase responsabile della sola VI Flotta americana,

con funzioni di appoggio negli attacchi di bombardamento strategico e di copertura delle forze impegnate sul continente — e l’inglese Lord Mountbatten — Commander in Chief, Allied Forces, Mediterranean (Cin- cafmed) — cui venne affidato il compito di controllare i traffici marittimi e appoggiare le manovre del teatro mediorientale, senza necessità alcuna, per questa zona, di far ri­ferimento all’autorità gerarchica della Nato, Era la rivincita inglese, temperata dalla di­chiarata provvisorietà delle nomine effettua­te nonché dal fatto che le forze navali fran­cesi, italiane, greche e turche sottoposte al Cincafmed sarebbero rimaste responsabili nei confronti dei rispettivi governi, con fun­zioni di “carattere nazionale” non meglio specificate36.

Un italiano, il generale Maurizio L. De Castiglioni, venne posto nel maggio 1951 a capo del Comando alleato per le forze terre­stri del Sud Europa (con sede a Verona) che venne diviso, dopo l’ingresso della Grecia e della Turchia nell’Alleanza, in due teatri operativi: un comando del Sud, con sede a Napoli e sotto l’autorità del successore di De Castiglioni, generale Enrico Frattini, e uno del Sudest europeo, guidato dal generale americano Willard G. Wyman e formato da truppe greche e turche affidate alla Nato, A Firenze, infine, venne stabilito nel giugno dello stesso anno, sotto la guida del generale americano David M. Schlatter, il comando del Sud Europa per le forze aeree, il cui pri­mo compito fu l’organizzazione e l’adde­stramento delle unità di aviazione italiane37.

35 W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f S ta ff, cit., pp. 230-241 e 310-318.36 Public Record Office, London, Prem 11/44, TS From Chief of Air Staff and First Lord of the Sea to Minister of Defence, 21/11/1952; Prem 11/44, Cos (S) 17th, 28/11/1952. Il comando di Lord Mountbatten (che aveva rive­stito cariche di comando di primo piano durante la seconda guerra mondiale) venne attivato nel marzo 1953, dopo l’approvazione da parte del Consiglio atlantico del dicembre 1952, cfr. W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff, cit., p. 317.37 Naw, RG 59, Monthly report, July 1952; “11 Tempo” , 19 giugno 1951. Nel 1956 anche il Comando delle forze aeree per il Sud Europa sarebbe stato diviso in due, con una conseguente separazione delle sedi di comando (Vicen­za e Smirne). Naw, RG 59, box 3489, First Annual Report of Commander in Chief, Allied Forces, Southern Euro­pe, June 8, 1952.

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Nonostante le divergenze tra la Marina italiana e il Comitato di difesa dell’Alleanza atlantica riguardo alle forze necessarie per adempiere ai compiti fissati nel primo piano militare della Nato, il settore mediterraneo si presentò come un campo promettente di affermazione per le forze armate naziona­li, di cui Carney, nel rapporto svolto alla fi­ne del suo mandato, lodò la rinascita in at­to38. Contribuirono a evidenziare l’impor­tanza dell’Italia in questo teatro le estese esercitazioni svolte durante il successivo triennio del fianco sud della Nato39. L’accre­sciuto interesse per il valore strategico della penisola venne sanzionato durante l’ammi­nistrazione Eisenhower dal massimo organo di elaborazione della politica estera america­na, il National Security Council, in un docu­mento innovatore sulla politica statunitense per l’Italia. La principale novità del testo (Nsc 5411/2, approvato il 15 aprile 1954) ri­spetto al suo predecessore (l’Nsc 67/3, ap­provato il 5 gennaio 1951) era infatti pro­prio l’insistenza sulla importanza della posi­zione geografica della penisola nel perimetro difensivo della Nato (che trovava origine nelle modificazioni apportate alla stesura originale del testo dai Jcs) come “contraf­forte meridionale del fronte centrale e, assie­me alla Jugoslavia, bastione del fianco occi­dentale delle forze terrestri del fianco sud” . Altrettanto importante era il riferimento

fatto alle potenzialità del paese come base, aerea e navale, per le forze della Nato, non­ché come produttrice di materiale bellico per le altre nazioni appartenenti al Patto atlanti­co40.

La diplomazia italiana parve muoversi, nel settore mediterraneo, con andamento rapsodico. Ciò era evidentemente una con­seguenza della difficoltà — emersa con ri­correnza ciclica fin dal 1949 — di decidere se la politica mediterranea era destinata a ri­manere una ‘articolazione’ di quella atlanti­ca o se attraverso essa fosse stato possibile avviare una riflessione su un concetto di si­curezza nazionale più vasto e in un certo senso indipendente dalla stessa Alleanza atlantica41. A ciò si aggiungeva la difficoltà di definire geograficamente i limiti del setto­re sul quale si intendeva adottare un atteg­giamento di attivo interessamento, nonché quella, più profonda, di comprendere entro uno schema interpretativo onnicomprensivo un teatro composito (che dal Mediterraneo occidentale si estendeva al Medio Oriente), per gran parte scosso da elementi di contra­sto molteplici — dovuti ad un generalizzato blocco dello sviluppo economico, unito alla duplice tensione tra nazionalismo e colonia­lismo da una parte, stati arabi e stato d’I­sraele dall’altra42.

La complessità della questione veniva

38 Naw, RG 59, box 3489, First Annual Report of Commander in Chief, Allied Forces, Southern Europe, June 8, 1952; Naw, RG 218, Jcs files 1951-53, Western Europe, box 80, Jcs 2073/243, November 8, 1951.39 E. Cerquetti, Le forze armate italiane, cit., pp. 117-131 e First Annual Report, cit., per quelle tenute nel 1951-52 (Lago di Como, Lago di Garda, Grand Slam).40 Jcs files, reel II, Nsc 67/3, The position of the US with respect to the Communist Threat to Italy, January 5, 1951; Frus 1952-54, vol. IV, US Policy toward Italy, April 15, 1954, p. 1680.41 Vedi, ad esempio, la polemica fra Vittorio Zoppi, Segretario generale del ministero degli Affari esteri, e Renato Prunas (inviato in Egitto per aprire una sede d’ambasciata), Asmae, Dgap, Italia, b. 229, Prunas al ministero degli Esteri, 11 luglio 1950; Asmae, Dgap, Egitto, b. 851, Zoppi a Prunas, 1 dicembre 1950; Asmae, Dgap, Egitto, b. 851, Prunas al ministero degli Esteri, 16 gennaio 1951. L’espressione usata dal testo è in un rapporto di Quaroni al ministro degli Esteri, Asmae, Amb. Parigi b. 18 (coll, provv.), 14 dicembre 1953.42 Giampaolo Valdevit, American Policy in the Mediterranean: the operational codes, 1945-1953, Eui, Working Paper 87/310, 1987, pp. 37-38.

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pubblicamente affrontata dalle colonne del­l’organo ufficiale della Farnesina, la rivista “Esteri”, che si esprimeva nell’aprile 1951 (in occasione delle prime ipotesi di forma­zione di un comando collettivo mediorienta­le con la partecipazione inglese e americana, senza la presenza italiana) con queste paro­le: “Non si tratta (...) oggi di fare soltanto un piano di emergenza d’ordine tattico per determinate eventualità di difesa, ma si trat­ta di dare una sistemazione politica, diplo­matica, strategica e logistica a tutto il Medio oriente”43. Alcuni anni più tardi, con la for­malizzazione del concetto di Northern Tier, teorizzato durante l’amministrazione Tru­man e messo in pratica da quella successiva — tramite l’appoggio risolutivo agli accordi bilaterali turco-pakistano e turco-iracheno completati dall’accessione a quest’ultimo della Gran Bretagna nell’aprile 1955 (e la conseguente nascita del patto di Bagdad) e del Pakistan, nel luglio seguente —, la bipo- larizzazione già in atto in Europa sembrò estendersi a una parte consistente del Medio Oriente44. Le vigorose proteste verbali sovie­tiche e la notizia delle forniture di armi ce­coslovacche all’Egitto nel settembre dello stesso anno accentuarono questo trend. Alla luce della successiva vicenda di Suez, la di­chiarazione della rivista “Esteri” sarebbe apparsa allora quanto mai profetica e forie­ra di una stagione molto fervida di elabora­zione politica all’interno del ministero degli Affari esteri.

Per il momento, le potenzialità diplomati­che italiane erano tutte rivolte alla soluzione di una questione geograficamente più limita­

ta ma politicamente ben più importante per la stessa identità nazionale dello stato, quel­la riguardante la definitiva sistemazione del Territorio libero di Trieste. Analogamente a quanto era successo con il Trattato di pace, ma con più drammaticità date le conseguen­ze reali che da essa scaturivano per una par­te della stessa popolazione italiana, la vicen­da costituì, per tutta la prima metà degli an­ni cinquanta, non solo un ostacolo allo svi­luppo di normali rapporti (e quindi di ipote­si difensive comuni) con la Jugoslavia, ma anche e soprattutto, come era successo con il Trattato di pace, un elemento di disturbo nel recupero di una piena autonomia di azione diplomatica internazionale. Anche in questo caso, come già ai tempi del Trattato di pace, i rappresentanti diplomatici italiani insistettero sull’impossibilità di sfruttare a pieno le potenzialità militari della penisola — specialmente per quanto riguarda una ipotetica collaborazione bellica fra Jugosla­via e Italia — finché il problema non fosse stato risolto45. Anche la strutturazione mili­tare dell’alleanza balcanica (avvenuta nell’e­state 1954) venne interpretata, conseguente­mente, come un tentativo pericoloso di isti­tuzionalizzare ipotesi di difesa autonoma nei Balcani, creando così un gap difensivo nel fronte sud della Nato al confine fra Italia e Jugoslavia46. Ma il vero interesse italiano era quello di liberarsi, con una soluzione an­che provvisoria (come sarà quella adottata nell’ottobre 1954), dell’ultimo ostacolo nei confronti di un più pieno sviluppo di una politica di sicurezza di ampio respiro.

Così Manlio Brosio, appena giunto a Wa­shington come ambasciatore italiano agli

43 “Esteri” , n. 7, 1-15 aprile 1951, p. 93.44 Per una retrodatazione di questo processo, cfr. Bruce Robellet Kuniholm, The Origins o f the Cold War in the Middle East. Great Power Conflict and Diplomacy in Iran, Turkey and Greece, Princeton, Princeton University Press, 1980.45 Frus, 1951, III, The Minister in Luxembourg to the Secretary of State, Memo of Eisenhower visit to Italy, Ja­nuary 19, 1951,p. 443.46 Asmae, Dgap, busta 992, Telespresso Segr. Pol. 2073/c, 27 settembre 1954.

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inizi del 1955 avrebbe osservato a questo proposito: “Risolta la questione di Trieste è venuto meno l’unico grave ostacolo di carat­tere internazionale all’assunzione da parte dell’Italia di una funzione più attiva, di maggior responsabilità e anche di maggior prestigio nel mondo occidentale e in partico­lare in seno all’Alleanza nordatlantica. La politica europeista” proseguiva Brosio “non è più ostacolata da una grossa controversia di confine”47.

Questo mutamento di status — alla luce dei profondi cambiamenti internazionali che avevano segnato, e stavano ancora segnan­do, la prima metà degli anni cinquanta dalla morte di Stalin alla fine del conflitto corea­no e all’avvio del processo di distensione nelle conferenze diplomatiche internaziona­li, dalla diminuzione della pressione sul fronte europeo centrale al consolidamento dell’interesse americano e sovietico per il Mediterraneo — offriva all’Italia nuove oc­casioni per ripensare la propria politica di si­curezza al riparo dalle ‘urgenze’ politiche in­terne ed economiche che avevano contraddi­stinto il periodo precedente.

La Nsc 5411/2, d’altronde, forniva una legittimazione importante alla presenza ita­liana nel Mediterraneo. Come auspicato fin dall’inizio dalla diplomazia italiana, gli Stati uniti erano entrati come attore di primo pia­no nel Mediterraneo, ma, come forse non tutti al ministero degli Affari esteri avevano capito, questa presenza avrebbe limitato l’autonomia dell’azione diplomatica nazio­nale imponendo un’impronta atlantica alla presenza italiana nel Mediterraneo e legando il fronte sud a quello centrale. Nel momento stesso in cui all’Italia veniva riconosciuto un ruolo militare nel fianco sud dell’Alleanza, si profilavano quei limiti politici alla formu­lazione di una politica estera di sicurezza au­

tonoma del bacino mediterraneo che solo negli anni settanta sarebbero stati messi in discussione dalla Farnesina e dal ministero della Difesa.

Una difesa nucleare tattica per l’Europa?

Se, per gli anni immediatamente postbellici, la questione della difesa italiana sembrò gio­carsi attorno alla coppia di variabili fronte centrale-fronte mediterraneo, a partire dai primi anni cinquanta su questa principale di­cotomia si innestò un nuovo nodo tematico, quello relativo all’introduzione delle armi atomiche tattiche in Europa. L’avvio del processo di distensione in Europa, rivelando da una parte l’infondatezza del carattere permanente del conflitto Stati uniti-Unione sovietica, sembrò d’altro canto — conside­rate le innovazioni tecnologiche in campo sovietico, prima fra tutte la bomba atomica— colpire gravemente la credibilità della ga­ranzia nucleare americana. Il concetto di si­curezza collettiva, attorno al quale era nata e si era strutturata l’Alleanza atlantica, veni­va così a perdere due essenziali caposaldi: la minaccia sovietica da una parte, la possibili­tà di ritorsione atomica dall’altra.

Parallelamente, fra la fine degli anni qua­ranta e l’inizio del decennio successivo, si svolgeva negli Stati uniti un processo di revi­sione del crash program in campo nucleare— che aveva portato alla decisione di co­struire la bomba H dopo l’esplosione della bomba A sovietica nell’agosto del 1949; ad opera degli scienziati che avevano avversato tale strategia, primo fra tutti Robert Oppen­heimer (che verrà in seguito anche per que­sto processato), venne formato un gruppo di studio Comprendente scienziati e militari

J ' L’appunto venne redatto durante la fase preparatoria della visita del presidente del Consiglio Mario Sceiba e del mi­nistro degli Esteri Gaetano Martino negli Stati uniti, Asniae, Dgap, 1955, busta 369, Brosio a Martino, 2 marzo 1955.

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provenienti dalle tre forze armate, il cui compito era quello di “riportare la guerra nel campo di battaglia” , ovvero di tentare una sistematizzazione concettuale dello sfruttamento dell’energia nucleare nell’am- bito della tattica militare. Lo studio emerso da questo gruppo di ricerca — noto con il nome di Progetto Vista — affrontava per la prima volta in modo organico il problema dell’impiego delle armi nucleari suggerendo lo sviluppo di una serie di armi atomiche di potenza subkilotonica da usarsi, in modo particolare, in Europa48. I due concetti es­senziali avanzati dal gruppo erano i se­guenti:1. l’impiego delle armi nucleari a livello tat­tico avrebbe reso rischiosa l’applicazione del principio della concentrazione delle forze che aveva, fino a quel momento, presieduto i piani di battaglia, poiché i concentramenti di truppe sarebbero stati difficilmente difen­dibili da un attacco nucleare tattico,2. le armi atomiche tattiche avrebbero por­tato a un aumento considerevole della po­tenza di tiro di ogni unità, permettendo così di ridurre uomini e livelli di costo per un da­to livello di potenza di fuoco49.

Questi dati, anche se destinati a una revi­sione profonda durante gli anni cinquanta costituivano un’indubbia attrattiva per un’alleanza in cerca di un metodo per accor­dare necessità militari di espansione con priorità economiche e politiche interne dei

paesi membri che andavano nella direzione opposta50. Il Consiglio atlantico riunito a Lisbona nel febbraio 1952, fissando il nume­ro minimo delle divisioni che avrebbero ga­rantito la difesa della Nato, aveva infatti co­stretto gli alleati a prendere coscienza di una questione fino allora rimossa: quella del le­game fra la strategia dell’Alleanza atlantica e i mezzi per farvi fronte. Dal primo punto di vista, gli obbiettivi di Lisbona erano chia­ramente qualcosa in più rispetto a ciò che, teoricamente, erano le implicazioni a livello di forze della cosiddetta teoria del ‘campa­nello d’allarme’, secondo cui le forze terre­stri non avrebbero rappresentato altro che una linea di prima resistenza il cui attacco avrebbe scatenato automaticamente una rappresaglia nucleare. Tale strategia, infatti, non avrebbe richiesto che contingenti sim­bolici; al contrario le direttive del Consiglio atlantico prevedevano non solo un aumento di effettivi estremamente cospicuo, ma an­che il raddoppio dei fondi devoluti ai pro­grammi comuni di infrastrutture e l’amplia­mento del numero dei partecipanti al pro­gramma (fra i quali, in quest’occasione, venne inclusa anche l’Italia). Il programma, iniziato in sordina nel 1950, prevedeva la co­stituzione di una rete di installazioni di vario tipo — dagli aeroporti, ai sistemi di comuni­cazione e di rifornimento di carburante, ai quartiergenerali — con un particolare siste­ma di ripartizione delle spese, e confermava

48 Cfr. Robert Gilpin, American Scientists and Nuclear Weapons Policy, Princeton, Princeton University Press, 1962, p, 115, Fra 1 contributi più recenti (1 documenti relativi al Progetto Vista sono stati solo da poco declassifica­ti), David Elliot, Project Vista and Nuclear Weapons to Europe, “International Security”, Summer 1986, vol, 11, n. 11, pp. 163-183. Va ricordato che il documento finale venne accantonato in seguito alle pressioni dell’Aeronauti­ca che scorgeva nelle sue conclusioni un attacco al proprio predominio sulle altre due forze armate.

La differenza tra impiego strategico e tattico va spiegata in relazione agli obbiettivi di tali armi: strategiche sono le armi destinate a colpire le potenzialità belliche di un paese — forze militari, impianti economici e industriali, cen­tri urbani —, tattiche sono le armi il cui uso è legato a operazioni campali. Cfr. David Schwartz, N ato’s Nuclear Dilemmas, Washington DC, The Brooking Institution, 1983, p. 2, nota.49 D. Schwartz, N ato’s Nuclear Dilemmas, cit., p. 22.55 Gregg Herken, The Winning weapon. The Atomic Bomb in the cold war, 1945-1950, New York, Alfred Knopf, 1980, pp. 292. Sulle prime ipotesi avanzate dai militari nel 1949 in merito all’impiego tattico di armi nucleari, ivi, pp, 389-397.

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quindi l’interesse della Nato per gli aspetti logistici del dispositivo difensivo occidentale che non si poteva accontentare di promesse di interventi esterni51.

Dal secondo punto di vista, l’approvazio­ne a Lisbona del documento elaborato dal Temporary Council Committee consacrava un cambiamento importante nel metodo di riarmo atlantico: ad una programmazione poco vincolante legata a un obbiettivo stati­co di medio termine, il 1954 (anno di “mas­simo pericolo” secondo il Piano a medio ter­mine del 1950) veniva sostituita una pianifi­cazione in progress e più aderente alle esi­genze di un rafforzamento deciso e protratto nel tempo della potenza militare atlantica (la cosiddetta Annual Review). Veniva così in­trodotto un triplice riferimento temporale: la fine del 1952 per obbiettivi irrinunciabili di riarmo, il 1953 per le stime provvisorie e il 1954 come limite di una programmazione da rivedere annualmente (con la conseguente estensione del riferimento temporale), sog­getta a modificazioni future dettate da pos­sibili mutamenti nelle relazioni internaziona­li e variazioni della minaccia militare nonché dallo sviluppo di nuove armi52.

Le difficoltà politiche ed economiche di una repentina conversione alla produzione bellica nonché la stabilizzazione della situa­zione militare in Corea, indussero gli stati europei a una profonda resistenza nei con­fronti dell’adesione agli obbiettivi di Lisbo­na. Ne\YAnnual Review redatta nel 1952 venne riconosciuta l’impossibilità di rag­

giungere le previsioni di forza per il 1954 fis­sate dal Consiglio atlantico in febbraio. An­che il riarmo nel breve periodo sembrava se­gnare il passo: il direttore del Mutual Secu­rity Program, Averell Harriman, constatava sconsolatamente nella seconda metà dell’a­gosto 1952 come si fosse ben lontani dall’a- ver raggiunto, in Europa, il numero di forze previsto per la fine del 195253.

Con l’avvento dell’amministrazione Ei­senhower dopo le elezioni del novembre 1952, d’altra parte, riemerse con forza il te­ma dell’impiego tattico delle armi nucleari, relegato negli anni precedenti alle sfere mili­tari (o a quelle dei gruppi di lavoro speciali con poca operabilità immediata). Tale im­piego venne visto da più parti come un me­todo per superare il dilemma fra possibilità (politico-economiche) e necessità (militari) dell’Alleanza e degli stessi Stati uniti e sem­brò fornire un’agile scappatoia per evitare la scelta tra “sicurezza e prosperità” in un mo­mento in cui Stati uniti e Unione sovietica si avviavano verso un grado superiore di parità nella corsa agli armamenti nucleari54. II 12 agosto 1953, infatti, l’Unione sovietica, a poco meno di un anno di distanza dagli Stati uniti, sperimentava il primo ordigno termo- nucleare55. “Non c’è ancora una forza della Nato capace di difendere l’intera area in ca­so di attacco, cioè di attuare la strategia avanzata” scriveva un mese dopo al segreta­rio di Stato il suo assistente per gli affari eu­ropei, James Bonbright. “Fino a che sia-

51 J. Huston, One o f all, cit., p. 161; Lord Ismay, Nato\ The First Five Years, 1949-1954, Utrecht, Bosch, s.d., pp. 114-116.52 Naw, RG 59, 740.5 Msp, From Paris to Eca, December 15, 1951; W. Poole, The History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. IV, cit., p. 292.53 Frus, 1952-54, vol. I, part 1, Report Prepared by the Office of the Director of Mutual Security (Harriman), Nsc 135 n. 3, August 18, 1952, p. 517.54 Thomas Etzold, The End o f the Beginning... N ato's Adoption o f Nuclear Strategy, Olav Riste (a cura di), We­stern Security: The Formative Years. European and Atlantic Defence, 1947-1953, Oslo, Norwegian University Press, 1985, p. 292.55 Robert Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, The Joint Chiefs o f S ta ff and National Policy, 1953-1954, vol. V, Washington, Historical Division, Jcs, 1986, p. 40; R. Hewlett and F. Duncan, A History o f the Atomic Energy Commission, II, The Atomic Shield, University Park, Pennsylvania State University Press, 1969, p. 673.

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mo in grado di assicurare una valida deter­renza, abbiamo il tempo di completare il riarmo: ma se non chiudiamo il divario esi­stente fra possibilità e necessità, sarà forse possibile per noi vincere, in ultima istanza, un conflitto, ma non potremmo mai attuare l’unico piano politicamente accettabile della Nato, la strategia avanzata”56.

Superata la fase sperimentale, l’efficacia delle armi nucleari tattiche nel teatro euro­peo venne verificata in un’esercitazione del­la Nato, la Monte Carlo, compiuta sulla riva orientale del Reno nella porzione centrale del suo corso nel settembre 1953 con l’im­piego di mezzi aerei e terrestri francesi, belgi e americani57. Altre esercitazioni con impie­go di ordigni nucleari ebbero luogo nel bien­nio successivo; da una di queste, la Carte Bianche — che vide la partecipazione di 11 paesi fra cui anche l’Italia — risultò che l’impiego di 355 armi nucleari per la difesa dell’Europa occidentale avrebbe causato un milione e settecentomila morti e tre milioni e mezzo di feriti nella sola Germania58.

Nonostante la gravità dei risultati che co­minciavano ad essere raccolti grazie a queste prime esperienze, e nonostante l’esito nega­tivo di studi condotti dal Saceur circa la pos­

sibilità di ridurre, tramite l’introduzione del­le nuove armi, il numero di uomini impiega­ti nella difesa dell’Europa, i primi cannoni 280 mm (che potevano funzionare con mu­nizione normale e atomica) arrivarono a Bremerhaven e furono presi in consegna dal­le truppe americane di stanza in Germania nell’ottobre 195359. Alla fine dello stesso mese, l’impiego tattico delle armi atomiche acquistò una legittimità istituzionale con l’approvazione da parte del presidente Ei­senhower di un documento del National Se­curity Council (Nsc 162/2) destinato a costi­tuire la base teorica della politica di sicurez­za dell’amministrazione per molti anni a ve­nire. Rilevando il diminuito effetto deter­rente del potere atomico americano nei con­fronti di possibili ‘aggressioni periferiche’ dato l’aumento della capacità nucleare so­vietica, gli autori del documento consiglia­vano, fra le altre contromisure, quella di far uso delle armi atomiche considerandole alla stregua degli altri tipi di armi convenziona­li60.

Il Consiglio atlantico riunito a Parigi nel dicembre 1953, dopo aver auspicato — sulla scia del noto discorso di Eisenhower Atom for Peace — lo sviluppo dell’uso pacifico dell’energia atomica, si occupò per la prima

56 Frus, 1952-54, V, 1, Memorandum by the Deputy Assistant Secretary of State for European Affairs (Bonbright) to the Secretary of State, September 24, 1953, p. 442. La strategia avanzata cui si fa riferimento è quella adottata nel Piano a medio termine della Nato secondo cui la difesa europea andava estesa a tutta la Germania occidentale seguendo la linea segnata dai fiumi Reno e Jissel.37 Lord Ismay, Nato: The first five years, cit., p. 105.ss D. Schwartz, N ato’s Nuclear Dilemmas, cit., pp. 42-43; Henry Kissinger, Nuclear Weapons and Foreign Policy, New York, Harper and Brothers, 1957, pp. 291-297.39 Keesings' Contemporary Archives, 1952-54, pp. 13357. È interessante ricordare che già nell’aprile 1953 il Dipar­timento della Difesa americano aveva annunciato l’avvio di corsi di warfare atomico per i comandanti della Nato presso la Weapons Schools a Garmish, nella Germania meridionale. William Park, Defending the West. A History o f Nato, Brighton, Wheatseaf Books, 1986, p. 35 e Lord Ismay, Nato-, The First Five Years, cit., p. 106. Il trasferi­mento dei cannoni 280 mm era stato richiesto, fin dal giugno, dal generale Ridgway succeduto al generale Eisenho­wer alla carica di Saceur, ed era stato approvato dai Jcs e dal Dipartimento di Stato. Cfr. David Rosenberg, The Origin o f the Overkill. Nuclear Weapons and American Strategy, 1945-1960, “International Security”, Spring 1983, pp. 30-31; R. Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. V, cit., p. 298.60 Frus, 1952-54, vol. II, part 1, “Basic National Security Policy”, October 30, 1953, p. 581 e p. 593 (pp. 557-597 per il testo completo).

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volta di “armi moderne dell’ultimo tipo per rinforzare il sistema difensivo della Nato” (è interessànte notare come una sorta di ta­bù linguistico abbia spesso impedito agli estensori dei comunicati delle sedute di im­piegare gli aggettivi “nucleare” o “atomi­co”)61. I ministri partecipanti presero atto, con soddisfazione, della dichiarazione del segretario della Difesa americana Charles Wilson circa l’intenzione del proprio gover­no di chiedere al Congresso una modifica del MacMahon Act — legge approvata nel 1946 per impedire la diffusione di notizie concernenti la produzione di materiale fissi­le, il suo impiego nella produzione di armi atomiche nonché l’utilizzo delle stesse ar­mi62. La modifica di tale legge era auspicata per fornire ai comandanti della Nato i dati relativi all’efficacia dell’impiego delle armi atomiche — con particolare riguardo per l’artiglieria atomica — per fini di pianifica­zione. Contemporaneamente, il Consiglio ritoccava, abbassandole, le stime avanzate a Lisbona riguardo agli obiettivi di forza per il 1954, mentre il segretario della Difesa Charles Wilson prospettava un aumento delle forze aeree americane da assegnare al­l’Europa, assieme all’invio di due squadre di missili Matador nel 1954 e altre due nel 195563. Il dibattito sull’Èdc e 1’ “agonizing reapprisal” minacciata dal segretario Foster Dulles — che costituirono pur sempre due importanti fulcri di dibattito in seno al Consiglio — non parvero influenzare lo svi­luppo della tematica nucleare.Nel gennaio 1954, il generale Alfred Gruen-

ther — che aveva sostituito il generale Mat­thew Ridgway nella carica di Saceur nel luglio 1953 — cercava di riformulare operativamen­te la nuova strategia, affermando: “Abbiamo [...] uno scudo aereo-terrestre che, anche se non ancora sufficientemente forte, costringe­rà il nemico a operare una concentrazione di forze prima dell’aggressione. Così, tali forze saranno estremamente vulnerabili nei con­fronti di attacchi atomici [...]. Ora siamo in grado di impiegare armi atomiche contro un aggressore, impiegando non solo aerei a largo raggio, ma anche aerei a breve raggio e arti­glieria da280mm. [..,]”64.

Il presidente Eisenhower gli faceva eco durante l’annuale messaggio dell’Unione parlando della necessità di condividere con gli alleati alcune nozioni sull’impiego tattico delle armi nucleari, di attuare economie di uomini e di perseguire una mobilità d’azione allargata tramite la creazione di riserve stra­tegiche in mano americana, poste in condi­zione di essere rapidamente impiegate65. Al­cune settimane più tardi, con il carattere esplicito che gli era peculiare, il segretario di Stato Dulles, affermava davanti al Council o f Foreign Relations di New York di voler perseguire la difesa collettiva il più efficace­mente e, allo stesso tempo, con il minor di­spendio possibile: gli Stati uniti avrebbero quindi, d’ora in poi, attribuito un maggior peso alla deterrenza rispetto al potere di di­fesa locale, riservandosi di “contrattaccare istantaneamente, con mezzi e in luoghi di scelta [propria]” . Per far ciò, Dulles auspi­cava, sulla scorta del documento Nsc 162/2,

61 Texts o f Final Communiques, 1949-1970, Issued by Ministerial Sessions of the North Atlantic Council, the De­fence Planning Committee, and the Nuclear Planning Group, Bruxelles, Servizio informazioni Nato, s.d.; Commu­niques of Paris, 14-16 December 1953, p. 72.62 Giuridicamente nota come Atomic Energy A ct, tale legge puniva i reati ascrivibili a tali catégorie con la pena di morte. Sezione 10 (b) (1), Robert Kromer, New Weapons and Nato. Solutions or Irritants?, New York, Greenwood Press, 1987, p. 44. La modifica di tale legge era auspicata per fornire ai comandanti della Nato i dati relativi all’ef­ficacia dell’impiego delle armi atomiche — con particolare riguardo per l’artiglieria atomica.63 R. Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. V, cit., p. 299.64 Lord Ismay, Nato: The First Five Years, cit., p. 108.65 Usis, US Information Service, Sezione Stampa, giovedì 7 gennaio, vol. 4, n. 4.

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la creazione di un esteso sistèma di basi e fa ­cilities che sarebbero state costruite con pro­babilità nei territori dei paesi alleati più vici­ni al territorio sovietico66.

Due sembravano quindi essere le compo­nenti della politica di ‘rappresaglia massiccia’: una era quella della dissuasione rinforzata nei confronti dell’Unione sovietica, l’altra — atti­nente ai rapporti fra Stati uniti-Europa — ri­guardava il tentativo di supplire all’impossibi­lità di ottemperare alle previsioni di Lisbona e alla scarsa possibilità di tener fede agli impe­gni presi dai sei paesi europei a Parigi per la creazione di un esercito europeo integrato67.

Incaricato di comporre queste direttive per certi aspetti divergenti fu il Comitato militare della Nato che, dopo un’elaborazio­ne lenta e travagliata, arrivò nel 1954 alla stesura definitiva del documento Me 48 in cui si prendeva atto che, anche con l’appor­to tedesco, l’Alleanza non sarebbe stata in grado di respingere un’invasiòne nemica di vaste proporzioni se non facendo ricorso ad armi nucleari, qualsiasi fosse stato il tipo di attacco subito, nucleare o convenzionale68. Il documento sollevava però due gravi pro­blemi. In Vista della sua presentazione al Consiglio atlantico, il sottosegretàrio di Sta­to per gli Affari europei Livingston Mer­chant, scrivendo a Dulles, chiarì il maggiore dei due in questi termini: “Mentre gli alleati europei avevano originariamente sperato che

una strategia nucleare Nato avrebbe abbas­sato sia i costi che i pericoli, il documento chiarirà che non solo essa non costerà meno e potrà anzi costare di più, ma che il crescen­te potere nucleare sovietico sta creando nuo­vi pericoli. In un certo senso, la speranza può lasciar spazio alla paura”69. I rappresentanti europei al Consiglio atlantico di dicèmbre non sembrarono però particolarmente sensi­bili a questo problema quanto piuttosto a quello, più concreto e pratico, del controllo politico dell’impiego delle armi atomiche. Le autorità militari della Nato — alle quali, fin dall’inizio dell’anno, i rappresentanti italiani e francesi avevano chiesto cosa sarebbe suc­cesso il giorno dell’eventuale scoppio delle ostilità, quando tutto il potere decisionale sull’uso delle armi atomiche (tattiche e non) fosse ricaduto esclusivamente sugli Stati uni­ti — avevano infatti deciso di demandare ai leader politici dell’Alleanza la decisione di concedere o meno il preventivò potere di im­piegare le armi atomiche in caso di necessità. In sede atlantica, la risposta, pur con varie sfumature, fu nel senso di riservare ai singoli governi il diritto di decidere se e quando dare avvio all’impiego delle armi atomiche sul proprio territorio, pur lasciando all’autorità militare della Nato il compito di pianificare e apprestare le difese tenendo conto della di­sponibilità di tali ordigni70. Con tale riserva, l’Mc 48 venne approvata dal Consiglio.

66 John Foster Dulles, The evolution o f Foreign Policy, “Department of State Bulletin”, voi. 30, January 25, 1954, pp. 107-110.67 D. Rosenberg, Reality and Responsability: Power and Process in the Making o f US Nuclear Strategy, 1945- 1968, “The Journal of Strategic Studies”, 1986, n. 1, p. 42.68 Un breve riassunto del documento, ancora classified, è in Frus, 1952-54, V, 1, Memo by the Assistant Secretary of State for European Affairs (Merchant) to the Secretary of State, November 1, 1954, p. 528. Cfr. anche Asmae, Dgap, Amb. Parigi, b. 40 (coll, prow .), Appunto relativo alla riunione del Consiglio atlantico, 17-18 dicembre 1954, Direzione generale Cooperazione internazionale, 30 dicembre 1954.69 Frus, 1952-54, V, 1, Memo by the Assistant Secretary of State for European Affairs (Merchant) to the Secretary of State, November 1, 1954, p. 529; in termini analoghi si esprimevano, il giorno seguente, i segretari di Stato e del­la Difesa in un messaggio congiunto inviato allo stesso Eisenhower, ivi, Memo by the Secretary of State ad the Se­cretary of Defense to the President, November 2, 1954, pp. 531.70 Frus, 1952-54, V, 1, Statement by the Secretary of State to the North Atlantic Council closed Ministerial Ses­sion, Paris, April 23, 1954, p. 512; anche Texts o f final Communiques, 1949-1970, cit., pp. 78-80; per gli interventi dei rappresentanti italiano e francese, cfr. R. Watson, History o f the Joint Chiefs o f Staff, vol. V, cit., p. 305.

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L’intera costruzione concettuale si basava sulla possibilità di distinguere fra armi nu­cleari tattiche e armi nucleari strategiche, tracciando una linea divisoria quanto mai problematica da individuare non solo da un punto di vista tecnico, ma politico. Una vol­ta sancita la ‘spendibilità’ dell’armamento atomico, ne sarebbe stato attenuato il valore deterrente, mettendo a repentaglio la credi­bilità della neonata massive retaliation: la minaccia (politica e diplomatica) di una apo­calittica rappresaglia massiccia sembrava la­sciare il posto all’uso (militare) mirato di ar­mi nucleari la cui pericolosità veniva in qualche modo esorcizzata dal fatto di essere ‘tattiche’. Strateghi anglosassoni di genera­zioni e tendenze diverse — Liddell Hart, Bernard Brodie, William Kaufman, Henry Kissinger fra i tanti — avrebbero cercato la soluzione di questo dilemma a partire dalla metà degli anni cinquanta.

L’impiego di armi nucleari in Europa sol­levava altre questioni non secondarie: da una parte, infatti, a poca distanza dalle di­chiarazioni trionfalistiche sui possibili ri­sparmi derivati dalla nuova strategia, un’e­same più attento veniva a rovesciare le ini­ziali ipotesi di convenienza economica. D’al­tra parte, alla retorica del jusqu’au bout si contrapponeva una pratica che, da un punto di vista tecnico militare, dimostrava una di­struttività controproducente — ne era una riprova l’esercitazione Carte Bianche — e da un punto di vista politico, una difficoltà di impiego che la rendeva praticamente inat­tuabile in campo europeo. Proprio lo scarto fra una politica declaratoria impostata sulla massive retaliation e una pratica legata più alla preparazione di un’azione difensiva lo­cale (che dipendeva sempre, in ultima anali­si, dagli Stati uniti) avrebbe costituito la ci­

fra dei rapporti euroamericani durante gli anni cinquanta e una delle componenti fon­damentali della crisi di fiducia sviluppatasi al loro interno.

L ’Italia e le ‘armi nuove’

Vi fu chi, nel ministero degli Affari esteri italiano, fu pronto a cogliere l’importanza della questione nucleare e trarne conseguen­ze dirette per il paese. Massimo Magistrati (allora direttore generale della Cooperazione internazionale del ministero degli Affari esteri), definì il problema come “l’argomen­to ‘principe’” della riunione atlantica del di­cembre 1953, “prodromo di una vera e pro­pria rivoluzione di tutto l’assetto difensivo dell’Alleanza” , dalla quale si sarebbe inevi­tabilmente giunti a una revisione “anche sul terreno finanziario e economico dell’intero piano protettivo”71.

Alcuni mesi più tardi, in un appunto della Direzione generale Affari politici dal titolo Nuovi concetti strategici americani, si rileva­va come il crescente “affidamento sul poten­ziale atomico-termonucleare” , pur non eli­minando completamente il concetto di dife­sa locale, ne diminuisse drasticamente l’im­portanza. Da qui discendeva una probabile diminuzione dell’influenza degli alleati mi­nori, destinati a essere considerati, princi­palmente, come basi logistiche per l’attività delle forze aeree americane72. Questa ipotesi acquistava rilevanza speciale nell’autunno dello stesso anno con la firma dell’accordo bilaterale italoamericano sulle facilities, in base al quale venivano definiti i caratteri giuridici ed economici di un gruppo di intese particolari (tuttora segrete) riguardanti in­stallazioni aeree e navali di uso americano in

71 Appunto sulla XII sessione del Consiglio Nord Atlantico, Parigi, 14-16 dicembre 1953, Asmae, Amb. Parigi, busta 18 (collocazione provvisoria), n. 21-4105. Cfr. Antonio Varsori, L ’Italia fra alleanza atlantica e Ced (1949- 1954), “Storia delle relazioni internazionali”, 1988, n. 1, pp. 151-152.72 Asmae, Dgap, busta 286, 14 aprile 1954.

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Italia73. Nonostante l’auspicio del ministro degli Esteri Gaetano Martino, un anno più tardi (durante l’approvazione dell’Mc 48 al Consiglio atlantico del dicembre 1954) di li­mitare il progresso in campo atomico al pe­riodo in cui “non fosse ancora stato possibi­le raggiungere una convenzione universale circa la limitazione degli armamenti e l’uso delle armi atomiche”74, tale compito venne demandato all’Onu e la Nato si concentrò piuttosto, da quel momento in poi, sui me­todi per rendere operativi i vantaggi dell’uso militare della nuova energia.

La richiesta italiana di introdurre nel co­municato finale del Consiglio un plauso per l’accordo sul controllo degli armamenti in discussione presso l’Onu, venne accettata dalla delegazione americana con una certa freddezza. Nel resoconto fatto dalla Dire­zione generale Cooperazione internazionale del ministero degli Affari esteri italiano, d’altronde, la richiesta veniva giustificata più come una preoccupazione nei riguardi dell’opinione pubblica dei paesi membri (in quanto le indiscrezioni stampa sul documen­to Me 48 potevano creare l’impressione di un diminuito interesse dell’Alleanza verso un effettivo disarmo) che non come un sin­cero interessamento per l’accordo in sé75.

Tra il settembre e l’ottobre 1955 la que­stione delle armi atomiche tattiche acquistò

per l’Italia una concretezza tutta particola­re. Dopo la firma del Trattato di pace au­striaco, le truppe americane d’occupazione — un contingente di circa cinquemila uomi­ni — vennero infatti dislocate nel Nord Ita­lia, a Vicenza. Dotate di missili a breve rag­gio Honest John, queste forze formarono la Setaf — Southern Europe Task Force —, ovvero una forza di esclusiva formazione americana, guidata dal generale Michaelis, sotto la responsabilità formale del Coman­dante delle forze terrestri alleate per il Sud Europa, il generale italiano Clemente Pre­mieri, nuovo Comandante delle forze terre­stri del Sud Europa — ma le cui armi nu­cleari rimasero sotto l’esclusivo controllo americano76.

Già da qualche tempo la pubblicistica mi­litare italiana aveva iniziato ad occuparsi dell’impiego delle armi atomiche, nonostan­te la difficoltà di apprezzarne a pieno le no­vità tecniche a causa della frammentarietà di notizie provenienti dall’estero e della pro­fonda confusione vigente negli stessi Stati uniti circa valore deterrente e valore d’uso di tali armi77. In linea generale, nell’Aeronauti­ca si diffuse la tendenza a interpretare le no­vità in campo atomico alla luce del dettato douhettiano di “resistere in superficie e far massa nell’aria” in vista di recuperare una funzione preminente all’interno delle forze armate nazionali. Pur guardando con

73 Asmae, Dgap, busta 286, Appunto Direzione generale, Nuovi concetti strategici americani, 17 aprile 1954. Ivi, Appunto Magistrati incontro Dulles-Scelba, 2 maggio 1954. L’accordo bilaterale dell’ottobre 1954 non va confuso con la convenzione di Londra — 16 giugno 1951 — sullo status delle forze armate dei paesi della Nato e con il pro­tocollo di Parigi — 28 agosto 1952 — sullo status dei quartieri generali militari internazionali dell’Alleanza, ratifi­cate entrambe nel novembre 1955 dall’Italia. Nato Documentazione, a cura del servizio informazioni della Nato, Roma, Notizie Nato, 1977 (V ed.), pp. 331-344 e pp. 354-359.74 Frus, 1952-54, V, 1, The U.S. Delegation at the North Atlantic Council meeting to the Department of State, De­cember 18, 1954. Cfr. A. Varsori, L ’Italia fra alleanza atlantica e Ced, cit., p. 160.75 Asmae, Amb. Parigi, b. 40 (coll, prow .), XV riunione Consiglio Atlantico, 17-18 dicembre 1954, Direzione ge­nerale Cooperazione internazionale, 30 dicembre 1954.76 Annuario di politica internazionale (1955), Milano, Ispi, pp. 879-882; Marco De Andreis, The Nuclear Debate in Italy, “Survival” , May-June 1986, p. 195.7' L. Sebesta, ‘Two Scorpions in a Bottle’: la bomba H fra strategia e politica, “Storia delle relazioni internaziona­li”, 1987, n. 2, pp. 340-348.

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cautela alla possibilità di impiego delle armi atomiche strategiche sul suolo europeo, i suoi rappresentanti furono pronti a recepire l’importanza per un’aviazione come quella italiana — che difficilmente avrebbe potuto far uso di bombardieri strategici! — dello sviluppo di armi di potenza subkilotonica78. Le linee portanti del ragionamento dei rap­presentanti dell’Aeronautica emergono chia­ramente da uno studio sull’argomento re­datto dal generale Giachino, rappresentante dell’Aeronautica presso la Delegazione ita­liana Ced (smobilitata nel settembre 1954). “Il mezzo tecnicamente superiore — scrive­va Giachino — e per noi decisivo, è rappre­sentato dall’arma atomica che, impiegata dall’aviazione tattica, potrà da sola sconvol­gere e rivoluzionare tutti i criteri di lotta si­nora concepiti, riducendo l’importanza della massa delle forze terrestri ed imponendo li­miti molto bassi al principio di saturazione degli spazi”79. L’interesse del generale non era quindi solo quello di sottolineare l’im­portanza del nuovo mezzo per l’Aeronauti­ca, ma anche di presentare la propria arma come quella meglio attrezzata per sfruttare con più efficacia quella innovazione tecno­logica.

Ma c’era già chi, all’interno dell’esercito (per opposte ragioni), stava pensando pro­prio alla revisione dei principi di saturazione

cui Giachino faceva cenno. Già sollevata nel corso del 1949 dalle pagine della “Rivi­sta militare”80, la questione acquistò un ca­rattere pressante nel 1954-1955 quando l’i­potesi di un impiego nel teatro europeo del­le artiglierie atomiche tattiche acquistò par­ticolare verosimiglianza. Già nel marzo 1954, il maggiore d’artiglieria Giuseppe Ma­ria Vaccaro (dando notizia dell’imminente pubblicazione della circolare riservata n. 4000, Cenni sulla difesa atomica campale) rilevava dalle pagine della “Rivista milita­re” la sostanziale modificazione dello spie­gamento di forze in campo richiesta dal­l’impiego di tali nuovi mezzi. Si trattava di introdurre rilevanti novità di organizzazione e impiego delle forze militari, capovolgendo il concetto classico della concentrazione a favore di quella della dispersione delle po­stazioni — dispersione resa necessaria dal­l’ampio raggio d’azione delle armi nucleari nonché (specularmente) quello della ricerca del punto debole nello schieramento avver­sario a favore invece della ricerca del punto forte — per ottenere il massimo rendimento distruttivo81. L’idea fu rielaborata con rife­rimento alla esistente circolare per la difesa tattica campale di cui il generale di brigata Pietro Mellano propose, nel giugno del 1954, una revisione. Egli parlò infatti del­l’opportunità di “alleggerire la consistenza dei capisaldi previsti dalla circolare 3.000 a

78 Oscar Di Giambernardino, Attualità della teoria Douhet, ‘♦Rivista aeronautica”, aprile 1950, pp. 269^71; Fran­cesco Roluti, Atomica-Europa-Itaiia. “Rivista aeronautica”, gennaio 1949, pp. 17-34; Id., Aeronautica nostra, “Rivista aeronautica”, pp. 827-834. Per Douhet, Giulio Douhet, La guerra integrale, Roma, Franco Campitelli, 1936, p. 400. Va ricordato qui come in questi anni si attuasse l’estromissione dalla “Rivista aeronautica” del suo stesso direttore, Amedeo Mecozzi (alias Demèzio Zèmaco), che aveva sempre osteggiato le teorie douhettiane non­ché la dottrina americana della massive retaliation; cfr. Virgilio Ilari, Le forze armate tra politica e potere, 1943- 1976, Firenze, Vallecchi, 1978, p. 38. Gli aspetti relativi alla discussione della tematica atomica entro la Marina non sono trattati in questa sede in quanto essi formano l’oggetto di una relazione redatta nello stesso gruppo di lavoro da Ezio Ferrante.79 Asmae, Amb. Parigi b. 40 (coll, prow.), fase. 4, Ambassade d’Italie, Attaché de l’air, 20 settembre 1954, p. 10.80 Sugli esordi della tematica nucleare in Italia (1945-1950), cfr. Ferruccio Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italia­no dal primo al secondo dopoguerra (1919-1949), Roma, Ufficio storico Sme, 1985, pp. 665-678.81 Giuseppe Maria Vaccaro, Lo sviluppo della regolamentazione tattica e addestrativa italiana nel 1953, “Rivista militare”, marzo 1954, pp. 247-260.

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vantaggio di mobilissime riserve, frazionate, ben occultate ed in condizioni di far massa nel punto e nel momento adatto”82. Lo spunto di Mellano venne in seguito ripreso, pur con accenti diversi, all’interno di vari contributi apparsi sulla “Rivista militare” e ufficialmente elaborato in una nuova serie dottrinale che, dal 1955 in poi, impegnò il generale Giorgio Liuzzi per i suoi quattro anni di permanenza in carica come capo di Stato maggiore dell’Esercito83. Il tema trovò definitivamente sistemazione dottrinale nel 1958 con l’approvazione in forma definitiva di una circolare logistica completa circa la difesa e offesa campale con armi atomiche tattiche (la nota serie dottrinale 600). Basata sul binomio unità corazzate-armi atomiche, e quindi sulla bivalenza, la circolare faceva un particolare riferimento alla necessità di aumentare la profondità, la flessibilità e la reattività delle nuove postazioni difensive per rispondere ad un attacco atomico cam­pale84.

Due questioni rimanevano aperte: quella della disponibilità di ordigni atomici, neces­saria per qualsiasi forma di efficace difesa da un attacco non convenzionale — come

sostenuto nella serie dottrinale 600 —, e quella delle conseguenze in termini di fall out atomico sull’agibilità dei terreni difesi o conquistati. Quando e come l’esercito italia­no sarebbe venuto in possesso delle armi già introdotte nella sua dottrina operativa non era chiaro, così come non risultava chiaro in questa dottrina fino a che punto le armi ato­miche fossero considerate una rivoluzione e non semplicemente una evoluzione quantita­tiva di quelle convenzionali.

L’Italia, quindi, viveva in pieno quella contraddizione che l’adozione dell’arma­mento nucleare da parte della Nato aveva introdotto nei rapporti fra Stati uniti ed Eu­ropa. Da una parte infatti, nella ‘versione strategica’ (relativa cioè alla possibilità di impiegare per scopi strategici le nuove ar­mi), questa adozione riduceva gli alleati a semplici pedine del gioco bellico fra Stati uniti e Unione sovietica (e le vicende dello stabilimento e smantellamento degli Inter­mediate Range Ballistic Missiles in Italia a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta lo avrebbero dimostrato). Dall’altra, nella ‘versione tattica’ (relativa cioè all’impiego tattico delle armi nucleari), essa avrebbe au-

82 Pietro Mellano, Orizzonti tattici, “Rivista militare”, giugno 1954, p. 582. In termini sintetici, la circolare Orga­nizzazione difensiva n. 3000, approvata dallo Stato maggiore dell’esercito nel giugno 1948, prevedeva la rinuncia alla continuità di fronte a favore della flessibilità della manovra e dell’autonomia logistica dei gruppi tattici (a livel­lo di battaglione di fanteria). La direttiva venne in seguito (luglio 1950) completata dalla circolare Difesa su ampie fronti n. 3100, la quale, sulla base delle indicazioni emerse dal Piano a medio termine della Nato prevedeva l’impie­go di capisaldi cooperanti con fronti più ampie rispetto alla n. 3000 nelle sole zone dove l’attacco era più prevedibi­le. Cfr. F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano, cit., pp. 644-652 e E. Cerquetti, Le forze armate italiane, cit., pp. 107-116.83 Andrea Cucino, Un problema che s ’impone: concepire una nuova dottrina, “Rivista militare”, luglio-agosto 1954, pp. 732-747; Antonio Saltini, Evoluzione atomica, “Rivista militare” , settembre 1954, pp. 863-870; cfr. Filip­po Stefani, La storia delta dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, voi, III, tomo 1, Roma, Ufficio stori­co Sme, 1987, p. 1003.84 F. Stefani, La storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, cit., pp. 1021-1099; Luigi Salatiello, Mutamenti della concezione difensiva italiana dalla fine delta seconda guerra mondiale a oggi, “Rivista militare”, gennaio 1974, pp. 31-39.

Contemporaneamente si procedette alla creazione di strutture istituzionali militari entro cui avviare lo studio e la ricerca in campo nucleare. Fra queste, la Scuola unica interforze difesa A.B.C. (1954), il Centro applicazioni mili­tari energia nucleare (Camen) presso l’Accademia navale di Livorno, poi trasferito a Pisa (1955), il Poligono speri­mentale interforze (Sperinter) di Salto di Quirra, “gestito dall’Aeronautica, per l’esecuzione di lanci sperimentali di missili balistici” . F. Botti, V. Ilari, Il pensiero militare italiano, cit., p. 672.

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mentato enormemente le potenzialità degli alleati ‘minori’ che, per motivi economici e politici, non avevano mai devoluto quote al­te del proprio Gnp alle spese belliche con­venzionali. Ma si trattava di una ipotesi, co­me si è visto, di difficile (e pericolosa) attua­zione.

In tutti e due i casi, non sembra esserci mai stata da parte dei responsabili della politica estera italiana — con l’eccezione di qualche dibattito in sede parlamentare — una rifles­sione articolata sul rapporto fra sicurezza nazionale e armamenti nucleari. Questo per­ché, dal lato operativo, trattative e accordi — per le basi americane prima e per lo stabi­

limento della Setaf poi — vennero conclusi nel più ampio riserbo; sul piano della pubbli- cistica, d’altra parte, il dibattito venne inca­nalato in riviste specialistiche militari, assu­mendo, com’è logico, toni eminentemente tecnici. Pur non sottovalutando il pericolo di essere fuorviati, in un giudizio del genere, dalla limitatezza delle fonti, è difficile sot­trarsi all’impressione che sulla tematica nu­cleare venisse più o meno volontariamente imposto a partire dagli anni cinquanta un ta­bù di cui ancora oggi emergono visibili tracce e al quale fa riscontro l’esiguità di contributi storici85.

Lorenza Sebesta

85 Uno dei pochi testi che tratti i risvolti politici della tematica nucleare negli anni cinquanta — al quale fa difetto (e nessuno può stupirsene) l’apparato critico — è Roberto Guidi, Politica estera e armi nucleari, Rocca San Cascia- no, Cappelli, 1964. Costituisce un contributo importante per colmare questa lacuna la relazione di L. Nuti N ato’s Nuclear Choices: The Italian Case, 1955-1963, presentata al convegno “Nato’s First Decade: Harmony and Disso­nances within the Alliance”, Oxford, 9-12 aprile 1990.

Lorenza Sebesta, borsista Cnr in Gran Bretagna, ha scritto una tesi di dottorato sulla politica di sicu­rezza italiana negli anni cinquanta; si occupa attualmente dei problemi della sicurezza militare nel Me­diterraneo orientale-Medio Oriente nello stesso periodo.