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«TRACCE MIGRANTI» Scuola Secondaria di Primo Grado

«Don P. Borghi» Rivalta (RE)

a.s. 2016.17

Docenti referenti:

Francesca Agosti, Maria Cuccia, Paola De

Iuliis, Stefania Tirelli, Maurizio Vecchi.

_____________________________________________

ISTITUTO COMPRENSIVO "DON P. BORGHI"

via B. Pascal, 81 42123 Rivalta - Reggio Emilia Tel.0522.585.751 Fax 0522.585.753 C.F.91088320352

[email protected] Pec: [email protected]

Dopo la gradita esperienza dello scorso anno scolastico abbiamo deciso di aderire nuovamente al concorso proposto da Legacoop estendendone la partecipazione a tutti i ragazzi frequentanti le terze classi, per un totale di 87 alunni. La nostra scuola infatti ha sempre creduto fortemente in un’offerta formativa in grado di garantire a tutti gli alunni di classi parallele la possibilità di cimentarsi con una pluralità di attività che alimentino un confronto produttivo attraverso la cooperazione e la condivisione di competenze. Le tematiche proposte da Legacoop quest’anno sono già inserite nei nostri programmi curricolari, ma ben si prestano ad approfondimenti e intrecci con storie familiari, ricordi, ricerche, riflessioni, che abilmente possono integrare micro e macrostoria. Il concetto di “territorio”, come punto di arrivo o di partenza, è stato centrale nel nostro percorso. Questo progetto ha fornito ai ragazzi la possibilità di attingere al “baule dei ricordi” di famiglia, di scoprire origini, tracce, radici, vicende tristi e liete che hanno tessuto la trama delle loro esistenze. L’approccio metodologico è stato deciso e condiviso dalle quattro classi. Dopo la presentazione dell’argomento i ragazzi sono stati indirizzati a raccogliere memorie e racconti di migrazione presso le loro famiglie. Successivamente hanno esposto il frutto delle loro ricerche e, dopo un’accurata e democratica selezione, in ogni classe è stata individuata una storia significativa, meritevole di ulteriori approfondimenti.

INTRODUZIONE

I ragazzi di ogni terza sono stati suddivisi in gruppi, ciascuno dei quali aveva uno specifico compito: ricostruzione della storia e rielaborazione in forma di racconto; approfondimento dei diversi contesti storico-geografici di partenza

(Emilia-Romagna, Calabria, Polonia e Albania); ricostruzione dei contesti di arrivo (Francia, Argentina, Emilia-Romagna); ricerca e analisi dei dati statistici; ricerca di documenti iconografici; rielaborazione dei materiali attraverso gli strumenti multimediali. Ogni gruppo ha lavorato applicando i principi di cooperazione, alimentando dinamiche di interazione produttive ed efficaci. Attraverso queste modalità i ragazzi hanno valorizzato le proprie abilità sociali focalizzate in rispetto, confronto, ascolto. Ciò ha permesso loro di sperimentare differenti strategie di apprendimento in cui ciascuno ha potuto contribuire alla realizzazione di un prodotto condiviso, reale frutto di cooperazione.

Drancy (Francia), 9 dicembre 2016

Il mio nome è Simone Iemmi e sono nata nel 1940 a Drancy, sobborgo alla periferia di Parigi. I miei genitori, Iemmi Biagio e Salvarani Teresa, e i miei zii, Gherpelli Oliviero e Salvarani Maria, sono originari di Reggio Emilia, abitavano al borgo di Santa Croce. Da giovane mio padre ha preso parte alla “grande guerra”, poi cominciò a lavorare alle “Reggiane”, continuando allo stesso tempo a studiare disegno meccanico alla scuola “Gaetano Chierici”.

Reggio Emilia agli inizi del ‘900

Reggio Emilia agli inizi del 1900

contava circa 70.000 abitanti. Fu in questo

periodo che in città cominciarono a nascere e a

svilupparsi le prime industrie. In particolare nel

1901 nacquero “Le Officine Reggiane OMI”,

che iniziarono producendo carri bestiame, poi

si espansero nel settore ferroviario e, durante la

prima guerra mondiale, si specializzarono nella

produzione di proiettili d’artiglieria.

Tra fine ‘800 e inizio ‘900 a Reggio nacquero

anche le prime vere cooperative e tra di esse la

Legacoop, fondata nel 1886 per promuovere lo

sviluppo delle sua associate e per diffondere i

principi e i valori cooperativi. In quegli anni in

cui gli strati più deboli della società si

trovavano in gravi difficoltà le cooperative ne

tutelavano gli interessi, assicurando lavoro,

beni di consumo o servizi a condizioni migliori

di quelle del libero mercato.

Le OMI reggiane negli anni ’20.

In campo politico in città prevaleva la

sinistra. Alle elezioni politiche del 1913, le

prime a suffragio universale, il popolo elesse al

Parlamento, tra gli altri, il socialista Camillo

Prampolini. Allo scoppio della guerra anche a

Reggio vi fu un aspro scontro tra favorevoli e

contrari al conflitto e tra i contrari c’erano la

maggioranza dei socialisti, tra cui lo stesso

Prampolini, e i cattolici. Nel febbraio 1915 si

svolsero in tutte le chiese cerimonie religiose e

il 14 maggio i pellegrini si recarono al

santuario della Madonna dell’Olmo a

Montecchio, per scongiurare il conflitto. Alla

fine però nel paese prevalsero gli interventisti e

l’Italia il 24 maggio 1915 entrò in guerra.

I reggiani si impegnarono in prima persona e,

favorevoli o contrari alla guerra, combatterono

affinché l’Italia ne uscisse prima possibile.

Reggio Emilia durante la prima

guerra mondiale

Reggio presentava il triplo di

militari arruolati rispetto alla media

italiana e diede il suo pesante contributo

di sangue: ne uscì con più di seimila

morti e diecimila feriti, di cui

tremilatrecento mutilati. Fu una vera e

propria carneficina e portò allo sterminio

di un’intera generazione, soprattutto fra le

classi sociali più basse. Diverse famiglie

si ritrovarono devastate dalla guerra, che

gli aveva tolto diversi parenti e amici:

sono tanti i casi di genitori che hanno

perso tutti i loro figli.

Dal punto di vista

dell’economia, con la guerra le

“Reggiane” aumentarono le commesse

e le maestranze salirono in poco tempo

a 5000 unità; altre fabbriche invece

dovettero licenziare personale per la

carenza di materie prime.

I feriti davanti al Teatro Municipale

Deposito di armi nella Prima

Guerra Mondiale

Nel settore agricolo inoltre

vennero a mancare molti braccianti, ma la

gran parte dei proprietari di fondi anziché

assumere donne si scambiavano a turno la

manodopera familiare, nonostante gli

incitamenti della camera del lavoro a una

maggiore larghezza di vedute.

Alla fine del conflitto Reggio si ritrovò,

come il resto d’Italia, in gravi difficoltà

economiche. Nel 1920 la crisi si fece

sentire anche alle “Reggiane”, i cui

stabilimenti furono occupati dagli operai.

Sempre più reggiani tornarono a vedere

nell’emigrazione una via per uscire dalla

miseria.

Fonti: Mirco Carrattieri (a cura di),

Così lontana così vicina, Reggio Emilia e

i reggiani nella Grande guerra

La Gazzetta di Reggio, Inserto speciale 24

maggio 2015

http://www.legacoop.re.it

Officine meccaniche anni ‘20

Reggio durante la 1^

Guerra Mondiale

Reggio Emilia anni ‘20

San Prospero

Porta Castello

Corso Garibaldi

Proprio a quell’epoca papà incontrò e sposò la mamma e andarono a vivere in via Faiti , insieme a tutta la famiglia Salvarani. Via Faiti è ancora oggi una piccola strada, poco più di un passaggio a Santa Croce. All’inizio del secolo la via era circondata dai campi, ora divorati dall’urbanizzazione; ancora oggi però la via conserva il suo carattere tranquillo, si apre e si allarga su un cortile ancora di pertinenza della famiglia Salvarani.

La vecchia casa, a differenza delle nuove abitazioni, non possedeva molte comodità: l’acqua scarseggiava spesso e ogni volta bisognava recarsi alla fontana per rifornirsi; inoltre mancavano servizi sanitari decenti, infatti erano presenti solo due WC alla turca che usavano tutti e nei quali gli odori erano pestilenziali. Non c’era molta intimità: agli uomini veniva impedito di sostare nei dintorni quando le donne bollivano le loro pezze macchiate dal sangue delle “regole”... .

Questo luogo, nonostante fosse abbastanza lontano dal centro, attirava una quantità di persone, un costante viavai di gente di ogni età, che appoggiava un attimo il manubrio della bici al muro o attendeva con un piede sul pedale e, “in dialèt”, riportava notizie di un parente o di un amico partito per qualche luogo lontano. Sulla scia di quei discorsi molti sognavano di andarsene, un giorno, in cerca di fortuna. Con l’avvento del fascismo, però, la vita familiare cambiò decisamente: mio padre non aveva in simpatia le “camicie nere” e ogni qualvolta riusciva ad avere informazioni su qualcuno ricercato dalla polizia prendeva la moto e andava ad avvertire i genitori, per farlo scappare. Cominciò a risultare poco gradito al regime.

Inoltre la piccola impresa artigiana che aveva creato insieme a mio zio si trovò in difficoltà, in quanto a causa della guerra buona parte dei clienti era venuta meno. Fu quindi per motivi sia politici che economici che mio padre e mio zio decisero di partire per l’estero: scelsero la Francia perché non era troppo lontana e la lingua sembrava abbastanza familiare.

Il viaggio Reggio

Emilia - Drancy

L’emigrazione italiana in Francia Già dalla metà dell’800 l’emigrazione italiana aveva come meta

privilegiata un paese in crescita come la Francia. Con lo scoppio della prima guerra

mondiale i flussi migratori cambiarono ma non si arrestarono, poi ripresero con

nuova intensità nell’immediato dopoguerra quando, in seguito al conflitto, fu

necessario stabilire nuove regole internazionali per disciplinare il lavoro degli

emigrati; in particolare tra Italia e Francia furono firmati nuovi accordi per lo

scambio di manodopera.

La Francia, infatti, nel conflitto perse oltre due milioni di uomini

mentre l’Italia, nonostante le forti perdite, uscì dalla guerra con un aumento

demografico dovuto alla crescita naturale della popolazione. Di conseguenza fu

lo stesso stato francese in cerca di manodopera ad incentivare gli italiani. Nel

primo censimento del ‘900 gli italiani in Francia superarono per la prima volta il

numero dei belgi, anche se soltanto nel 1911 diventarono il primo gruppo di

stranieri presenti nel paese. Nel 1931, poco prima che si facessero sentire gli

effetti della grave crisi economica e delle leggi restrittive del fascismo, gli

italiani in Francia erano 808.000 e rappresentavano ancora, con il loro 27,9 per

cento, il primo gruppo di stranieri. La Francia fu anche il principale luogo di

rifugio per i profughi politici avversi a Mussolini. Oggi, secondo il “Rapporto

Italiani nel Mondo 2010”, in Francia sono presenti circa 370.000 persone di

origine italiana. Co Colonna1Serie 2Serie 3Colonna2Colonna22Colonna23Serie 4Serie 42Serie 5Serie 6Colonna4Colonna5Colonna6Colonna7Colonna3Colonna310Colonna32Colonna322Colonna33Colonna332Colonna34Colonna342Colonna35Colonna352Colonna36Colonna362Colonna37Colonna372Colonna38

45.000

40.000

35.000

30.000

25.000

20.000

15.000

10.000

5.000

0

1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 1915 1916 1917 1918 1919 1920

L’emigrazione italiana in Francia fra 1906 e 1920

Fonti: http://www.google.it/url?url=http://www.aspapi.net/Documents/francia-

2003.pdf&rct=j&frm=1&q=&esrc=s&sa=U&ved=0ahUKEwjesoul5-

bQAhXHBBoKHazCDjoQFggkMAI&usg=AFQjCNFMc0jnspJI0UqcrNgwPW8AKILrVw

- italianostranelmondo.files.wordpress.com/2012/02/tesi-di-laurea-beatrice-cinelli.pdf.

Partirono con il treno, solo loro due. Il viaggio fu massacrante, durò molti giorni. Papà mi ha raccontato tante volte quella lunga e drammatica avventura: lui e lo zio si erano infilati nei vagoni subito dietro la locomotiva, dove c’era molto caldo e mancava l’ossigeno; anche le provviste e l’acqua scarseggiavano e arrivarono stremati. Un’anziana signora di una famiglia che viaggiava con loro non riuscì a reggere il viaggio e morì. Poi finalmente il convoglio arrivò a Parigi: in stazione c’era una grandissima confusione, fiumi di persone scendevano contemporaneamente dai vagoni, spaesate; molti di loro non avevano mai visto una grande città e non sapevano dove andare o cosa fare .

Gli anni ’20: Parigi e le banlieues Tra gli anni ‘20 e ‘30 la capitale francese era in pieno fermento:

la sua atmosfera mondana e liberale, l'esplosione del jazz, i teatri, i caffè e

le gallerie d'arte attraevano le più illustri personalità dell'arte, della

cultura, della musica e dello spettacolo, come Joséphine Baker, Francis

Scott Fitzgerald, Pablo Picasso, Coco Chanel.

Nelle periferie si viveva invece più difficilmente: le “banlieues”

non erano di certo abitate dagli artisti, ma prevalentemente da operai,

spesso immigrati da regioni francesi vicine o da altri paesi europei.

L’80% di coloro che vivevano nei sobborghi lavorava nel settore

dell’industria, e gli italiani, in particolare, erano in gran parte impiegati

nell’edilizia, essendo il periodo tra gli anni ‘20 e ‘30 caratterizzato da una

selvaggia espansione urbanistica. Altri italiani erano impiegati nel settore

metallurgico, chimico e della lavorazione del legno.

Anche Drancy, negli anni ’20, era abitata dalla classe operaia e

faceva parte della cosiddetta “banlieu rouge”, cioè di quella cintura di

comuni attorno a Parigi che è stata governata per oltre cinquant’anni dal

PCF (Partito Comunista Francese). Fonti:

- Laurent Couder, Les italiens de la région parisienne dans les anneès 1920, in Publication de

l’Ecole française de Rome, Année 1986, Voluume 94 Numéro 1, pp 501-546

- http://www.rsi.ch/la1/programmi/cultura/il-filo-della-storia/I-ruggenti-anni-20---Les-

ann%C3%A9es-folles-585592.html

Parigi anni ‘20

I miei sapevano però che a Clichy, a pochi chilometri dal centro di Parigi, abitavano molti italiani con i quali ci si poteva dare una mano, per cui decisero di andare lì. Inizialmente vissero in un piccolo e malandato albergo; per tutta la vita mio padre si è ricordato di quella stanza, triste e illuminata solo da una piccola finestra che dava su un vicolo. Non parlando la lingua e non avendo amici all’inizio Biagio e Oliviero ebbero qualche problema a trovare lavoro e vissero una difficile vita da immigrati.

L’integrazione non fu facile, ma per fortuna la comunità degli italiani fu di grande aiuto. Infatti grazie all’interessamento di alcuni conoscenti mio zio trovò lavoro come autista di autobus e mio padre come meccanico in un’officina. Quando mio padre si ammalò ci fu addirittura una donna che lo aiutò a pagare le cure, visto che non aveva diritto a un’assicurazione... Poi riprese a lavorare e fu a quell’epoca che chiamò la mamma: lei e zia Maria, con mio cugino Ferdinando, arrivarono in Francia e le due coppie poco dopo si trasferirono a Drancy, in un’altra banlieu a nord di Parigi. Qui c’era un gruppo nutrito di reggiani e molti di loro erano, come mio padre, ex operai delle “Reggiane”. Inoltre a Drancy i terreni costavano poco e si poteva anche pensare di comprare casa....

Pianta di Parigi

Drancy

Sia il papà che lo zio portavano a casa un buon salario, così nel giro di poco tempo riuscirono a realizzare il loro progetto acquistare un’abitazione: all’inizio era solo una baraque in legno, ma era di loro proprietà! Le cose con gli anni migliorarono molto: Ferdinando, mio cugino, divenne addirittura primo cameriere sui treni internazionali. In seguito i miei genitori comprarono una nuova abitazione, scelsero di rimanere a Drancy perché lì c’era il quartiere degli italiani chiamato, senza ironia, “l’Avenir Parisien”. Per la verità non c’erano solo italiani, ci vivevano anche tanti spagnoli e polacchi... Questo quartiere, come tutti quelli abitati dagli immigrati, era un po’ decentrato, sembrava di stare all’estremità del mondo... Erano i famosi quartieri “pavillonaires”, cioè di villette della banlieu: i terreni erano piccoli e le case affollate, ma tra vicini ci si dava una mano e non ci si sentiva mai soli.

Negli anni ‘30 la vita si fece più dura, perché c’era la crisi e gli stranieri erano mal visti, li si accusava di rubare il lavoro ai francesi; mio padre per sconfiggere i pregiudizi continuava a studiare: frequentava i corsi di lingua francese e anche la scuola degli “Arts e Métiers”, pur non potendo prendere il diploma perché non era francese. Poi scoppiò la seconda guerra mondiale e papà, anche se ormai aveva quarant’anni, si arruolò volontario per poter ottenere la cittadinanza. Fu proprio durante un permesso che fui concepita io. Nacqui in Auvergne, alla Creuse, dove mia mamma era sfollata per sfuggire ai bombardamenti; tornammo a Drancy solo dopo la fine della guerra.

Nel ’46, quando avevo sei anni, venni in Italia per la prima volta, insieme a mio padre che non c’era più tornato dal 1920. Per lui rivedere i parenti reggiani fu molto emozionante, infatti anche se ci si scambiavano solo cartoline e auguri il legame era ed è solido. Appena diventata ragazzina è toccato a me mantenere quel legame: a Natale prendevo l’agenda di papà e scrivevo a tutti i parenti, anche sconosciuti, e solo anni dopo, a forza di viaggi in Italia, ho associato i nomi ai volti.

Diventando grande mi sono accorta che mi piaceva molto studiare, mi appassionavano soprattutto il diritto e l’economia e per questo all’università scelsi la facoltà di Giurisprudenza. Grazie a quegli studi, e al mio impegno e determinazione, da adulta ho portato a compimento quel progetto di integrazione a cui tanto avevano lavorato i miei genitori, ormai morti: sono diventata sindaco di Drancy, mi sono messa al servizio della mia città, perché sentivo il bisogno di restituire qualcosa alla terra che mi ha dato fortuna e benessere.

Penso che quella della mia famiglia sia una storia bella, e voluta, di integrazione. Oggi, che sono nonna, mi sento arricchita dalle due culture a cui appartengo: sono cresciuta a formaggio grana e camembert, gnocco fritto e galette des rois, lambrusco e bordeaux... Ho negli occhi, e nel cuore, l’’immagine indelebile di una Reggio nata dai racconti dei miei genitori, ma mi sento più francese che italiana: la Francia ha accolto la mia famiglia, mi ha cresciuta e mi ha fatto diventare quella che sono io oggi: Simone Iemmi.

L’IGNOTO E LA SPERANZA Verso l’Argentina 1956

Racconto realizzato dai ragazzi della 3A

Mia madre è polacca e mio padre calabrese, i miei genitori si sono sposati a Cosenza, poi trasferiti a Reggio Emilia per trovare lavoro. Mi chiamarono Sara ed era il 2003.Da quando sono nata ho sempre vissuto a Reggio Emilia ma qualche anno fa, durante le vacanze estive trascorse in Calabria da mia nonna, mentre guardavamo l’album di famiglia, trovammo una foto di due gemelli; chiesi alla nonna chi fossero e lei sorridendo iniziò il suo racconto: “Devi sapere che Flavia, mia cugina, e suo marito Michele, hanno una storia molto complicata alle spalle e sono i genitori di questi due bei ragazzi.” E’ il 1956,Flavia è una giovane donna dai capelli rossi, dagli occhi verde smeraldo e dalle lentiggini sulle guance. Ella passa le sue giornate occupandosi della casa e dei fiori di cui è molto appassionata, e con Michele, giovane sposo di bell’aspetto, vive in un paesino vicino Cosenza.

In quegli anni l’Italia era un paese profondamente ferito e devastato dal secondo conflitto mondiale. L’economia era in ginocchio mentre la società era arretrata e provinciale. Nel 1950 il cibo era, per molte famiglie, il problema principale. Michele lavora come contadino presso una famiglia agiata che possiede un grande appezzamento di terra ma in quegli anni i raccolti iniziarono a diminuire e i lavoratori a essere licenziati, lui è competente, perciò mantiene il suo posto di lavoro, eppure la situazione continua a peggiorare a tal punto che la sua preoccupazione aumenta. Da allora i due giovani passarono le loro notti a discutere sul da farsi, prendendo in considerazione la possibilità di trasferirsi in un altro paese, ma la decisione non era semplice, ci sarebbero stati migliaia di chilometri tra il loro passato e una nuova vita, avrebbero dovuto rinunciare anche a quel poco che si erano costruiti durante quegli anni, per andare verso un ignoto pieno di promesse ma anche di pericoli, lasciando la casa, la famiglia e gli amici.

1.Perché emigrare? L’emigrazione italiana si è protratta dagli ultimi decenni dell’Ottocento sino agli anni Settanta del Novecento ed è stata caratterizzata da una dispersione geografica in tutto il mondo, emigrarono circa 20-25 milioni di italiani. Quelli che vengono definiti “fattori di espulsione” riguardavano l’agricoltura, minacciata dalle importazioni a basso prezzo di grano americano e di altri cereali, dalla concorrenza di alcuni paesi europei nel commercio dell’olio e del vino e, specialmente nelle regioni meridionali, dall’estensione del latifondo e dalla pratica di tecniche culturali primitive. I contadini esclusi dal circuito agricolo non potevano trovare diverso impiego in un paese ancora all’inizio dell’industrializzazione.

• Già all’ indomani della Liberazione la difficilissima situazione sociale dell’ Italia viene tenuta costantemente sotto controllo dagli Stati Uniti, i quali temono che il paese possa cadere nell’ orbita sovietica. L’ emigrazione è inserita nei programmi politici dei partiti come il metodo più efficace e tempestivo per risolvere il problema della disoccupazione. La politica migratoria degli Stati Uniti fa si che l’Italia si orienti a cercare gli sbocchi per la propria manodopera disoccupata nei paesi europei e negli altri paesi d’oltreoceano mete tradizionali di emigrazione, in particolare la Francia e l’Argentina.

• Il 21 febbraio 1947 viene stipulato a Roma un primo accordo fra l’Italia e l’Argentina in materie di immigrazione. La firma dell’accordo è preceduta da una fase preparatoria che vede anche la stampa italiana schierarsi a favore dell’apertura verso il mercato argentino, già a partire dall’ immediato dopoguerra. Vi era un urgente necessità di emigrazione in Argentina, vista come grande paese di accoglimento e terra di fortuna di tanti emigrati.

Il Messaggero di Roma, nel maggio 1946, pubblica in prima pagina

un primo articolo dal titolo “In Argentina c’è posto per gli italiani“, nel quale

si riportano le parole del presidente argentino Peròn:

• ”Abbiamo bisogno di uomini energici e spiritualmente sani. Non si tratta

di aumentare la popolazione dei centri urbani già grandi, ma di coltivare e

popolare l’immensità della Pampa o di provvedere i nostri centri

industriali di manodopera specializzata.”

• In effetti l’Argentina sta vivendo una fase di grande espansione

economica, grazie alla posizione di neutralità, tenuta fin quasi alla fine del

conflitto, che aveva consentito al paese di incrementare fortemente le

esportazioni: nel 1947 Juan Domingo Peròn, al suo primo mandato

presidenziale (è eletto il 24 febbraio 1946) inaugura il primo piano

quinquennale che comprende un’ambiziosa politica di incremento

dell’immigrazione, nell’intento di dare sviluppo all’agricoltura e

soprattutto all’industria in un paese che ha ancora un forte bisogno di

manodopera.

La politica immigratoria argentina sceglie infatti di privilegiare i paesi più

affini dal punto di vista culturale, più facilmente assimilabili alla società

locale, vale a dire Spagna e Italia.

Le settimane che seguirono furono per Michele molto

intense per via del lavoro e piene di preoccupazione per il proprio

futuro. Andare via, ma dove? Cominciò a chiedere informazioni che

potessero tornare utili per decidere i possibili lavori e i contatti che

avrebbero potuto trovare fuori dall’Italia. Seppe che l’Argentina

offriva lavoro in molte piantagioni. Tante domande non trovavano

risposta: avrebbero trovato un rifugio sicuro? Una comunità

accogliente? Si sarebbero adattati a modi di fare forse differenti

rispetto ai loro? Come avrebbero fatto a capire e a farsi capire?

Ma alla fine fu il destino a decidere per loro: Michele non

fu il solo ad essere licenziato quel giorno. Insieme a lui altri tre

dipendenti persero il loro posto. Tornando a casa, Flavia capì dal suo

volto cosa fosse successo, non avevano bisogno di comunicare,

sapevano già da tempo che emigrare era l’unica scelta possibile che

restava loro. I preparativi furono ultimati in fretta, l’ultima nave del

mese che faceva scalo in Argentina sarebbe partita di lì a poco.

Flavia e Michele salutarono tutti i loro amici e, nel tempo che

rimaneva prima della partenza, vendettero la casa al miglior

offerente.

Sapevano che non sarebbero tornati mai più. I familiari li accompagnarono fino al porto di Napoli e tutto si svolse velocemente. Individuarono subito la loro nave, una grande imbarcazione con scritto “Vulcania” sul lato destro. Tempo fa, la scritta doveva essere di un rosso brillante ma, ora, appariva grigiastra come le placche di metallo che erano state saldate allo scafo successivamente alla costruzione. Non prometteva bene. I due giovani corsero fino alla scaletta della nave e mostrarono i loro biglietti. Il controllore li prese e si scostò per farli passare, senza dire una parola. Sul ponte vi erano così tante persone che ebbero l’impressione che le tavole di ferro e legno marcio non avrebbero potuto sostenerli. La scaletta venne poi staccata dalla nave che iniziò a eruttare dai grandi camini fumo nero che puzzava di bruciato. Ad un certo punto tutti si zittirono e un uomo barbuto in divisa, dopo essersi posizionato su uno sgabello per farsi vedere meglio, iniziò a parlare: “Signori e signore, benvenuti a bordo della nave Vulcania. Partiremo da Napoli fino ad arrivare in Argentina, se avete domande chiedete pure a me.”

Nessuno aprì bocca, l’angoscia strozzava tutte le parole prima che quest’ultime potessero essere pronunciate. L’uomo riprese subito a parlare: “Perfetto e allora… si parte!” Ci fu uno scroscio di applausi, anche Flavia e Michele applaudirono, ma solo per il nervosismo. Erano in viaggio; la nave si mosse e si staccò dal porto per iniziare la sua traversata.

I giorni si ripetevano tutti uguali: sveglia, colazione con un biscotto e un bicchiere d’acqua, dormiveglia, pranzo con panino e un po’ d’acqua, dormiveglia, cena con un altro panino, dormire. Il tutto sembrava ripetersi all’infinito, una routine che risucchiava come un vortice lento ma inesorabile. Sul volto dei due giovani si intravedevano sempre più i segni dovuti al digiuno e alla stanchezza. Il rumore delle onde era disturbato solo da sbadigli o dalla gente che, una volta sportasi dal parapetto della nave, vomitava tutto lo stress e la rabbia accumulati. Un giorno Michele vide un lenzuolo bianco steso sopra una persona che non si muoveva più. Ebbe un tremito ma non disse niente a Flavia.

2. A bordo: in viaggio verso l’Argentina

Almeno sino alla fine dell’Ottocento, gli armatori italiani

effettuarono il trasporto degli emigranti con una flotta obsoleta di velieri che

furono chiamati “le navi di Lazzaro”. Il viaggio che, ancora nei primi anni

dello scorso secolo, poteva durare anche un mese si compiva in condizioni di

vita oggi inimmaginabili. La situazione peggiore era quella degli alloggi.

Le cuccette, tutte nella parte bassa della nave, si affacciavano su

corridoi che per lo più ricevevano aria soltanto dai boccaporti. In esse mancava

letteralmente lo spazio vitale. Di conseguenza, al mattino, qualunque fossero le

condizioni atmosferiche, tutti erano costretti a trasferirsi sui ponti: le malattie -

polmonari e intestinali specialmente - erano all’ordine del giorno e anche la

mortalità era alta.

Persero la cognizione del tempo e quello che a loro sembrò un secolo era stato in realtà un mese scarso. Arrivarono a destinazione in una soleggiata mattinata di primavera inoltrata. Il porto era situato in una cittadina piuttosto movimentata e trasandata dove sorgevano vari cantieri dai quali provenivano vampate di fumo grigio che intervallavano l’azzurro del cielo. Le persone si riversarono fuori dalla nave come un fiume in piena, Flavia e Michele furono costretti ad aspettare prima di poter scendere i gradini che li separavano dal porto e dal luogo in cui sarebbero vissuti, dalla nuova vita ancora tutta da definire. Camminarono, quasi increduli di essere così felici nel vedere di nuovo la terra ferma. Michele prese per mano Flavia e le sorrise, nonostante avessero appena reciso i contatti con la loro vita precedente e non avessero un futuro certo o una posto dove stare. Lei ricambiò e quel sorriso era così bello e pieno di speranze che Michele giurò che avrebbe fatto di tutto per impedire che smettesse di splendere, che l’avrebbe protetta e fatta sentire al sicuro, sempre.

3. Arrivati a destinazione

Se si esaminano i censimenti argentini in serie storica dalla prima

rilevazione (1869) ad oggi, risulta evidente che il tasso di presenza italiana sul

totale della popolazione straniera si è sempre mantenuto su percentuali

considerevoli. Tra il 1876 e il 1976, l’Argentina da sola ha accolto circa l’11,5%

del totale della diaspora italiana (26 milioni). In 5 anni (1947-51) partono

300.000 Italiani, e l’Argentina raccoglie da sola oltre il 50% del flusso diretto

oltreoceano; nel 1949, anno in cui si raggiunge il picco di arrivi, l’Argentina

risulta al primo posto in assoluto tra i Paesi di destinazione.

FONTE: ITENETs GLI ITALIANI IN ARGENTINA.

In Argentina e Brasile, anche lo sbarco non era facile. Dalla nave si

raggiungeva la terra ferma dopo il trasbordo su barche e barchette (in Argentina

l’ultimo tratto d’acqua veniva attraversato su carretti trainati da cavalli mentre

in Brasile, dal porto di Santos, si raggiungeva San Paolo in treno). Una volta

sulla terraferma si veniva alloggiati in strutture che potremmo definire di

contenzione, dove si era ospitati fino a che non si trovava una nuova

sistemazione o un lavoro.

FONTE:FONDAZIONE PAOLO CRESCI, MUSEO

DELL’IMMIGRAZIONE.

Una volta arrivati in Sudamerica gli immigrati erano ospitati

nelle “case d’immigrazione”, chi aveva un alloggio, invece, era libero di

andare. A Buenos Aires, l’Asilo era un immenso baraccone di legno, dove

ricevevano una razione sufficiente di cibo, dormivano in ampi cameroni e

venivano curati, se ammalati. Ma le donne erano separate dagli uomini, e

la separazione aumentava il senso d’insicurezza. Inoltre, dopo cinque

giorni, gli immigrati dovevano cercarsi un’abitazione e un lavoro. In

Sudamerica gli immigrati italiani non dovettero affrontare gravi problemi

di carattere etnico o razziale, anche se l’inserimento non fu sempre facile.

Le società sudamericane, e quella brasiliana ancor più di quella argentina,

erano società in formazione, dove i nuovi venuti non venivano a scontrarsi

contro strutture consolidate. E non si sentivano nemmeno portatori di una

civiltà superiore, se non, talvolta, nei confronti degli Indios.

FONTE: PULCINELLA291.FORUMFREE.IT.

Per rendere meno duro il soggiorno nel nuovo paese, spesso gli immigrati

ricreavano qualche aspetto della loro terra d’ origine, soprattutto sul piano

gastronomico; ecco allora l’ apertura di negozi alimentari specializzati in

prodotti italiani.

FONTE:VIVERE E CAPIRE LA STORIA (LIBRO DI STORIA)

Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori PAERSON.

3. Arrivati a destinazione

Porto di Buenos Aires

Arrivarono due addetti che spinsero tutti i passeggeri per

cercare di disporli in fila e dissero loro qualcosa che i due giovani non capirono bene, ma videro una coppia davanti a loro che frugava nelle tasche e poi estraeva dei documenti, così li imitarono. Nel contempo erano scesi dalla nave altri passeggeri, aggiungendo ulteriore confusione: sentivano parlare dialetti diversi, a loro incomprensibili e la loro fila venne travolta da una folla urlante, mentre i fischi delle navi in partenza non facevano altro che aumentare lo smarrimento. Dopo l’intera mattinata tutti i loro nomi furono su una lunga lista. Altri addetti spinsero un primo gruppo di persone verso un grande magazzino in disuso: le assi non erano ben saldate fra di loro e lasciavano filtrare all’interno raggi di sole primaverile. In un angolo vi erano alcune sedie e delle persone intente a tagliare i capelli a uomini e donne per evitare che si diffondessero pidocchi. Poco distante alcuni dottori esaminavano altri migranti per separare chi era malato da chi era sano; altri ancora conducevano i primi in un piccolo edificio.

Michele e Flavia tremavano all’idea di essere separati ma, dopo un rapido controllo, entrambi furono indirizzati nel primo gruppo: coloro che non sarebbero stati rimpatriati. Vennero poi separati uomini e donne. Michele e Flavia si guardarono fino a che ne ebbero la possibilità: quando si sarebbero rivisti? Le malattie si potevano manifestare anche qualche tempo dopo il contagio, perciò le regole erano ferree: se stavi male non ti lasciavano uscire per nessun motivo dalla baracca. Ma ci fu poco tempo per queste riflessioni perché furono costretti a seguire i rispettivi gruppi verso quella che, per i cinque giorni successivi, sarebbe stata la loro sistemazione. Il sesto giorno arrivò un addetto che ordinò ai migranti di uscire. Il sole li abbagliò mentre cercavano i loro compagni nell’altro gruppo.

Michele fece un sospiro di sollievo quando vide Flavia uscire dalla sua baracca, un po’ stralunata ma non in pessimo stato. Anche lei lo vide e i due si corsero incontro e si abbracciarono. Il prossimo passo sarebbe stato trovare un lavoro e una sistemazione. Seguendo le istruzioni di un bigliettino in cui vi era scritto l’indirizzo di un possibile interessato ad assumere manodopera nelle proprie piantagioni di cotone, Michele seguì una strada sterrata in mezzo ad enormi campi verdi fino ad arrivare ad una grande casa. Il proprietario era un signore panciuto e pelato che indossava una camicia di lino e un cappello a tesa larga. Iniziò a parlare togliendosi per un attimo un sigaro dalla bocca e scoprendo i denti gialli in un sorriso.

Alla fine della giornata Michele aveva ottenuto un contratto. Il lavoro nelle piantagioni era duro ma dopo qualche anno la coppia poté comprare una piccola casa in un vicolo forse buio, ma in un quartiere dove abitavano altri migranti di origini italiane. In quegli anni anche Flavia trovò lavoro in un negozio che vendeva prodotti tipici italiani. Da allora la coppia condusse una vita piuttosto serena anche se non fu sempre facile sentirsi accettati e non essere giudicati solo per essere italiani e dunque mafiosi, alla fine però riuscirono a vivere le loro vite serenamente. Tra tante fatiche ci furono anche momenti di grande felicità… L’infermiera raggiunse Michele e annunciò: “Congratulazioni! Sono due gemelli”, i suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia e corse da Flavia per baciare lei e quei due fagottini che teneva fra le braccia. Martin e Facundo, questi erano i loro nomi, iniziarono a inseguire il loro sogno all’età di sette anni, si appassionarono alla danza, prima moderna poi classica e infine ancora moderna.

https://www.youtube.com/watch?v=CS0z4UwIjHs

La mano esile di Flavia strinse quella ruvida e segnata dal duro lavoro di Michele. I loro sguardi si incrociarono e poi tornarono a guardare il grande schermo del cinema mentre i titoli di coda del film “ Step Up” scorrevano e loro leggevano commossi i nomi di coloro che avevano partecipato: Martin e Facundo Lombard, quelli erano i loro figli. Sul loro volto apparve un involontario sorriso. I sacrifici avevano portato alla felicità propria e anche dei figli, divenuti due famosi ballerini; tutta la fatica era stata ripagata ampiamente, nel lontano 1956 avevano fatto la scelta giusta, sapevano però di essere stati anche fortunati, non tutti quelli che erano sbarcati dalla loro nave avevano avuto un futuro come il loro. Anche la nonna in quel momento sorrideva. Io, invece, ero stupita e orgogliosa, perchè non immaginavo di avere dei lontani cugini così famosi e che dei membri della mia famiglia avessero avuto una vita piena di avventure. Stavo già pensando come informarmi ulteriormente, quando arrivò mia mamma che ci interruppe, dicendo che dovevamo andare a tavola. Un bel pomeriggio, direi.

UN MONDO NUOVO Dall’Albania 1993

Racconto realizzato dai ragazzi di 3C

Nel 1993 il giovane Shpetim, che era nato in Albania nel 1972, abitava in provincia di Durazzo con sua madre, suo padre e suo fratello minore Edmond. All’età di 14 anni, dopo aver studiato fino alla prima superiore, iniziò a lavorare per aiutare suo padre e poi a 18 anni cominciò la carriera da militare che intraprese per circa 2 anni e mezzo. All’età di 21 anni, stanco del suo lavoro molto pesante, Shpetim decise di andare in cerca di un’occupazione seguendo il grande flusso migratorio verso l’Italia, stravolse così la sua vita partendo per Brindisi.

Emigrazione albanese L’immigrazione albanese in Italia è un fenomeno che ha interessato

l’Italia a partire dalla caduta della Repubblica Socialista d’Albania e si è

sviluppato in tre ondate principali che hanno avuto come meta la Puglia,

soprattutto le città di Brindisi e Bari.

La prima risale al 1991 per motivi di lavoro.

La seconda risale al 1997 a causa del fallimento della maggior parte

della società finanziarie nazionali, fallimento che aveva condotto il paese alla

miseria costringendo molti alla fuga nel tentativo di costruirsi una nuova vita in

un altro Stato.

1999: arrivo al porto di Brindisi

La terza risale al 1999 a causa

della guerra contro il Kosovo. È con la

guerra del Kosovo (1999) che si verifica

quella che viene chiamata "l'ondata

invisibile": trascurati dalle autorità,

100.000 albanesi lasciarono il loro Paese

chiedendo asilo politico come cittadini

Kosovari.

Fra l'una e l'altra ondata

migratoria è avvenuto il vero esodo della

popolazione albanese gestito dalle

organizzazioni del traffico clandestino:

uno stillicidio durato a lungo anche se

non sempre con gli stessi ritmi.

Distribuzione albanesi in Europa

Numero albanesi per anno arrivati

in Italia

La sua decisione fu condizionata anche dalla presenza di un rigido regime comunista con a capo Enver Hoxha.

Il comunismo albanese aveva molte regole ferree: la televisione si poteva guardare solo dalle 9 della mattina fino alle 20, c’era l’obbligo di arruolarsi nell’esercito, le retribuzioni erano molto basse… tutti questi motivi lo convinsero a partire.

In una serata invernale del 1993 fece i bagagli e partì verso una nuova terra; uscì dalla porta, fece qualche passo, per un istante esitò pensando alla vita che si stava lasciando alle spalle, prese coraggio e si avviò verso la costa.

Il regime di Hoxha

Governò l’Albania dalla fine della

seconda guerra mondiale fino alla sua morte nel

1985, grande ammiratore del dittatore sovietico

Stalin, marxista e leninista, isolò l’Albania dal

resto dell’Europa. Profondo sostenitore

dell’ateismo di stato proibì ai genitori di dare

nomi religiosi ai figli; procedette alla confisca

di moschee, chiese, monasteri e sinagoghe;

molti di questi furono trasformati in musei o

uffici pubblici, altri in officine meccaniche,

magazzini, stalle o cinema. I villaggi con nomi

di santi furono rinominati con nomi non

religiosi.

Sul piano economico:

Tolse le proprietà private a tutti i ricchi, sia

nelle campagne che nelle città;

Distribuì la terra ai semplici contadini;

Trasformò in proprietà dello Stato tutte le

fabbriche e le attività produttive.

Sul piano politico:

Vietò il pluralismo: doveva esistere solo un partito

Abolì la proprietà privata anche per i semplici contadini

Non si poteva avere un numero elevato di bestiame

Dittatura della Libertà: nessuno parlava male del Partito altrimenti condannato.

Nessuno poteva andare in un altro stato: Altrimenti sarebbe stata condannata

tutta la famiglia.

La paga bassissima I salari giusto per sopravvivere

Pubblicizzava l’idea che l’Albania era un paese ricco e benestante.

Secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato nel 1984, lo stato

dei diritti umani in Albania era cupo sotto Hoxha. A causa dell'isolamento e

del deperimento dei rapporti con il blocco sovietico, alcuni diritti civili come

la libertà di parola, di religione, di stampa e di associazione, sebbene la

costituzione del 1976 li enunciasse, vennero sensibilmente compressi con una

legge del 1977, per garantire stabilità ed ordine.

Nel 1981 Hoxha ordinò l'arresto e l'esecuzione capitale di diversi dirigenti di

partito e di governo accusati di corruzione e di attività controrivoluzionaria.

Probabilmente per questo motivo il Primo ministro Mehmet Shehu, la

seconda figura politica del regime, si suicidò nel dicembre 1981.

La repressione politica di Hoxha in Albania provocò migliaia di vittime.

Arrivato al porto di Valona vide un’imbarcazione all’orizzonte rischiarata dalla luna piena di quella notte stellata, il rumore del mare come sottofondo fece riaffiorare nella sua mente i ricordi dell’infanzia, sostituiti dal malinconico pensiero di abbandonare tutto. Avrebbe dovuto nuotare per circa 2 chilometri nell’acqua fredda e nera per salire sulla barca, perché altrimenti la guardia costiera non gli avrebbe permesso di partire. Dopo una lunga nuotata in un mare gelido e in tempesta raggiunse a stento lo scafo. A bordo si presentò e pagò 120.000 lek (che equivalgono a circa 145 euro). Shpetim stanchissimo riprese fiato mentre la nave si avvicinava sempre di più a Brindisi.

L'era dei cambiamenti e le prime scosse al regime comunista

Con il crollo del muro di Berlino e l'avvento al potere del delfino di

Hoxha, Ramiz Alia (segretario generale del partito nel 1986 e capo dello stato

nel 1987), il regime comunista albanese non poteva più ignorare i radicali

mutamenti che si erano verificati in molti paesi comunisti; l'Albania negli

ultimi anni del regime comunista (1985-1990) era un Paese poverissimo, con

un'economia prevalentemente agricola e con uno sviluppo industriale

interamente programmato e viveva una profonda crisi economica.

I tentativi di Alia per affrontare la crisi economica non ebbero il

successo sperato a causa della scarsa produzione industriale, della bassa

qualità dei prodotti, della cattiva gestione delle esportazioni e soprattutto

perché la cauta apertura all'esterno non fu accompagnata da trasformazioni

interne, ritenute pericolose perché potevano favorire una restaurazione del

capitalismo.

Solo nel 1990 rendendosi conto della grave situazione economica,

Alia autorizzò i privati cittadini ad intraprendere direttamente attività

commerciali, ad alcune industrie fu permesso di definire autonomamente,

seppur in misura limitata, il piano di produzione e di intraprendere la vendita

privata; la proibizione (prevista costituzionalmente) di accettare investimenti

stranieri fu aggirata attraverso l'obbligo di creare joint-venture, inoltre si

cercò di abolire il sistema cooperativo.

Mentre Alia cercava di fare piccoli cambiamenti per

conquistare la fiducia dei cittadini nel Paese la protesta saliva rapidamente.

La crisi si estese in tutti i settori. Nei grandi complessi industriali gli

scioperi erano continui, i lavoratori occupavano le piazze e anche nelle

campagne si assisteva a manifestazioni spontanee contro il regime.

In condizioni di povertà diffusa, di disoccupazione crescente e di

mancanza di reali prospettive per il futuro, l'emigrazione sembrava l'unica

strada percorribile.

Il 9 febbraio 1991 oltre 10 mila persone, giunte da diverse parti

dell'Albania, si ammassarono nel porto di Durazzo per emigrare in Italia:

cominciava così il grande esodo, che vedrà arrivare in Italia gente affamata

in cerca di lavoro.

Nei giorni che seguirono, centinaia di persone salivano su 'imbarcazioni di

fortuna' di ogni tipo (mercantili e pescherecci malandati, zattere, etc) con

destinazione la costa pugliese.

Alle elezioni del 1992 venne eletto Presidente Berisha che

conquistò sin dall'inizio del suo mandato i favori di molti governi

occidentali: rappresentava una cesura col passato regime ed era dunque

una figura in grado di dare rapidamente stabilità ad un paese da lungo

travagliato.

Appena arrivato alloggiò quattro giorni in una chiesa ospitato da un prete, in attesa di partire per Bari, la sua meta, dove avrebbe cercato un lavoro che lo avrebbe appagato. Ai suoi occhi l’Italia pareva un paese molto più libero, pieno di opportunità per un giovane desideroso di realizzarsi e con tanta voglia di fare… provava una bella sensazione, si sentiva più leggero, vedeva un futuro incerto davanti a sé, ma lo immaginava ricco di prospettive. Un anno dopo il suo arrivo Shpetim fu raggiunto dal fratello Edmund che lo affiancò nell’attività di agricoltore per un’azienda agricola, ma il lavoro era molto duro, lo impegnava per troppe ore non lasciandogli spazio per dedicarsi ad altre attività, non era quello che aveva sperato per sé quindi decise di provare a fare il pescatore.

Il lavoro non era male, ma era monotono, sempre uguale, e per il suo futuro voleva qualcosa di migliore. Capì che neppure il pescatore era la professione adatta a lui, quella per cui aveva lasciato la sua terra e si trasferì a Reggio Emilia per cercare un nuovo lavoro… era il 2002. Dopo poco tempo fu assunto come impiegato in un’azienda che produce componenti per le automobili, quello era il lavoro giusto, quello che ha ancora oggi. Aveva trovato un appartamento che condivideva con altri inquilini, il lavoro procedeva bene, l’unica crepa nel muro era che per vedere la sua famiglia doveva andare avanti e indietro tra Albania e Italia. Durante l’agosto del 1996, infatti, Shpetim si era sposato in Albania con Arta, madre dei suoi figli, rispettando tutte le tradizioni albanesi e poco dopo era nata la sua primogenita Emma.

Il Fidanzamento in Albania In Albania il fidanzamento è una cosa

molto seria, non viene preso alla leggera e non

deve essere assolutamente sottovalutato.

Possiamo paragonare un legame di

fidanzamento ad un legame matrimoniale.

Il matrimonio in Albania I matrimoni albanesi tradizionali

sono piuttosto epici. Si comincia sette giorni

prima della cerimonia a casa dello sposo, gli

ospiti cantano e ballano sulla musica

tradizionale da matrimonio. E’ come una

grande festa che coinvolge tutto il paese. La

festa di nozze delle spose di solito si tiene il

mercoledì o il sabato mentre quella dello sposo

avviene un giorno dopo, il giovedì o la

domenica.

Tipico matrimonio albanese

In linea di massima, la sposa porta a casa dello sposo la propria

dote, che non è denaro, ma regali come diversi tipi di ricamo, cuscini,

coperte, tappeti, anche i mobili della camera da letto, lo sposo deve inviare

alla famiglia della sposa denaro e regali, tra i quali ce ne sono di speciali per

la sposa: abiti per tutte e quattro le stagioni, gioielli d’oro, un orologio di

marca.

Ecco alcune tra le vecchie tradizioni albanesi legate al matrimonio:

• Gli spari. Quando la sposa arriva a casa dello sposo, si sparano colpi di

pistola per esprimere la gioia di questo momento. Che è una sorta di vittoria.

• Miele e pane. Alla porta della casa, si erge il canto della suocera, in attesa

della sposa che invia il suo miele e pane da mangiare. Questo sta a

simbolizzare il desiderio che il matrimonio sia dolce come il miele.

• Soldi sotto le scarpe. Quando la sposa entra nella sua nuova casa, trova ad

aspettarla un bambino che indossa delle scarpe in cui sono stati nascosti

intenzionalmente dei soldi. Il bimbo, sempre maschio, si siede sulle

ginocchia della sposa in segno di augurio affinché possano nascere figli

maschi.

• Il pianto. Il momento in cui lo sposo arriva a casa della sposa è, di solito,

molto concitato. La sposa e la sua famiglia piangono tutti, perché è il

momento del distacco definitivo dalla casa paterna.

• Danze tradizionali e un sacco di soldi. La cerimonia prevede una danza

tradizionale sposa-sposo, in cui tutta la famiglia e gli amici vengono

coinvolti. Nel corso del ballo, ognuno dà loro soldi, anche attaccando le

banconote ai vestiti degli sposi.

Per un po’ di anni Shpetim alternò la sua vita fra l’Italia, dove lavorava, e l’Albania, dove aveva la famiglia e gli affetti più cari, ai quali tornava appena poteva. Nel frattempo in Albania nacquero altri due figli, Matilda e Sabri e il dolore per il distacco, ogni volta che doveva lasciarli per tornare in Italia, divenne sempre più insopportabile, il peso della lontananza sempre più greve al punto che Shpetim decise di dare una ulteriore svolta alla sua vita. Nell’aprile del 2006 si trasferì definitivamente in Italia con Arta e i figli, ormai aveva un lavoro stabile e sicuro, aveva affittato una casa accogliente e grande a sufficienza per tutti, era giunto quindi il tempo di riunire la sua famiglia.

Oggi Shpetim continua a lavorare come impiegato, Atra è casalinga, la figlia più grande ha 19 anni ed è iscritta all’università di Parma, Matilda frequenta la quarta superiore e Sabri sta per terminare le medie. La vita di queste persone è in Italia ed è qui che il capofamiglia vuole restare tanto che sta facendo i documenti per ottenere la cittadinanza italiana.

La famiglia si è ben integrata nella società italiana anche dal punto di vista religioso, professano la religione islamica, seguono i dettami che questa impone e non hanno mai incontrato ostilità o diffidenza.

La cittadinanza italiana

E’ uno status che dà diritti e doveri, ed è la condizione del

cittadino alla quale l’ordinamento giuridico italiano riconosce la pienezza

dei diritti civili e politici

Il padre di Sabri per ricevere la cittadinanza deve avere dei requisiti:

10 anni di residenza legale in Italia per i cittadini extracomunitari;

3 anni di residenza legale in Italia per i discendenti di cittadini italiani per

nascita (sino al secondo grado - nonni) e per i nati in Italia;

5 anni di residenza legale in Italia per gli adottati maggiorenni (da cittadini

italiani), per gli apolidi e per i rifugiati politici e per i figli maggiorenni di

genitori naturalizzati italiani;

4 anni di residenza legale in Italia per i cittadini comunitari;

5 anni di servizio, anche all'estero, alle dipendenze dello Stato Italiano.

Cittadinanza per i minorenni con genitori stranieri Coloro che nascono su suolo italiano da genitori stranieri non ottengono in

automatico la cittadinanza italiana: infatti la legge prevede che i figli di genitori

stranieri nati in Italia mantengono la cittadinanza dei propri genitori.

Tuttavia solo al raggiungimento dei 18 anni il ragazzo può decidere se

richiedere la cittadinanza italiana o mantenere quella originale.

Sono avvenute alcune manifestazioni da parte degli emigrati per ottenere la

cittadinanza per i loro figli prima dei 18 anni.

Le religioni principali in Albania sono il

cristianesimo e l’Islam, ciò è dovuto al fatto che

l’Albania ha vissuto cinque secoli sotto il dominio

Turco-Ottomano, cambiando la sua conformazione

identitaria cristiana con l’imposizione dell’Islam.

In origine il paese era cristiano, ma dopo

l’invasione ottomana il paese è stato costretto a

praticare la religione musulmana e molte chiese

furono distrutte. Durante il XVII-XVIII secolo, la

cultura islamica è diventata una parte molto

importante della vita spirituale e materiale del

popolo Albanese. Iniziarono a costruire città

famose per la loro originalità come: Shkodra

Elbasan, Berat, Tirana, Gjirokastra, Prizren, Beja,

Gjakova, Ohri, Janina ecc. Queste città furono

decorate con monumenti, moschee, scuole e ponti.

Un’altra caratteristica dell’Islam in Albania è che

ha permesso e ha dimostrato che i seguaci delle

due religioni quali i Musulmani e i Cattolici,

potessero vivere nelle stesse terre senza

discriminazione.

La religione in Albania

L’Albania oggi

Il territorio è costituito da una piccola porzione di terreno

pianeggiante e agricolo, mentre la gran parte del territorio è collinare,

montuoso e molto impervio.

Dopo la caduta del regime politico comunista ed il massiccio esodo

di migranti verso l'Italia e la Grecia nel 1991 e nel 1992, l’Albania ha

intrapreso una serie di riforme. Oggi il suo sistema socio-economico è

considerato quello di un "Paese in via di Sviluppo”, la maggior parte della

popolazione è ancora impiegata nel settore primario ma gli investimenti

(soprattutto stranieri) sono in continua crescita, in particolare per il settore

energetico e industriale; una cospicua parte delle entrate nazionali proviene dal

turismo. L’Albania è infatti un paese ricchissimo di archeologia, si trovano

resti di età romana, greca , illirica e turca.

Le città di mare importanti sono Durazzo e Valona dalle quali si

hanno collegamenti marittimi con i porti di Bari , Brindisi , Ancona e altri

porti dell’Adriatico.

La cucina albanese è un miscuglio di cucina albanese (simile a

quella greca) , cucina italiana e cucina turca.

Localizzazione dell’Albania

Paesaggio a sud dell’Albania

Area archeologica di Butrinto

Tasquebap il piatto tipico per

eccellenza dell’Albania

Edmond dopo essere stato un anno in Italia è tornato in Albania e Sabri vorrebbe in futuro seguire le orme dello zio, ha infatti un sogno nel cassetto: diventare architetto e andare poi a svolgere la professione in Albania…mentre il padre e le figlie hanno intenzione di rimanere in Italia. Chi lo sa… Magari un giorno tutta la famiglia potrebbe tornare in Albania.

Racconto realizzato dai ragazzi di 3B

STORIA DI UNA VITA Dalla Polonia: 2001

Mio bisnonno Zbigniew nacque nel 1931 a Ciechocinek, era figlio unico e viveva assieme ai genitori. Il padre era il capo di una fabbrica, la madre invece era una casalinga. Zbigniew andava a scuola come tutti i bambini della sua età, era sempre vestito in modo elegante e non aveva mai un ciuffo di capelli fuori posto. Si svegliava la mattina alle sei e accompagnava il padre al lavoro, poi proseguiva da solo fino a scuola. Era tutto normale, fino al 1938: Zbigniew aveva solo sette anni, quando entrarono i nazisti a casa sua. “Entrare” era una parola troppo delicata, se si intende spaccare la finestra e distruggere ogni cosa.

Lui non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Quei due uomini vestiti di nero stavano legando i polsi a lui e ai suoi genitori e li stavano portando via. Coprirono loro gli occhi e poi gli diedero un colpo secco alla testa. Dopo quelle che gli sono sembrate ore, Zbigniew si risvegliò. Prima di aprire gli occhi, sperava che fosse stato solo un brutto sogno. Ma poi le sue palpebre si sollevarono. Si trovava nel vagone di un treno con i suoi genitori, insieme a centinaia di altre persone: anziani, adulti e bambini.

Ancora non riesce a capire, mentre vede la madre che lo guarda con le lacrime negli occhi e il padre che tiene lo sguardo basso e sussurra parole incomprensibili. Il treno si ferma, seguono il suono di una campana e la voce di un uomo che dice di essere arrivati a Linz. Zbigniew inizia a farsi delle domande: perché erano in Austria? Perchè hanno rapito tutte quelle persone? Dopo essere scesi, prima bambini e donne e poi gli uomini, sono stati portati in un edificio molto grande con guardie ovunque: ce n’erano due davanti ad ogni porta.

Li divisero in tre file, dopo di che un uomo con i baffi disse ad alta voce: ”Per oggi rimarrete tutti a dormire qui, domani decideremo chi resterà e chi prenderà altre strade, perciò preparatevi per altri viaggi, saranno molto lunghi per alcuni. Ci saranno persone più fortunate e quelle che invece lo saranno meno, buonanotte.” E se ne andò. La fila in cui si trovava Zbigniew cominciò ad accorciarsi, le persone si stavano spostando nelle varie stanze. Quando fu il turno della sua famiglia, per prima cosa dovettero mettersi un pigiama a righe, poi una guardia li guidò in una stanza. Sembrava un carcere: al posto delle pareti c’erano le sbarre e i materassi sembravano fatti di cemento.

Il giorno successivo, dopo una notte paurosa e inquieta, la famiglia di Zbigniew fu spostata a Sankt Marien, un comune che si trova in campagna. Furono ospitati da una famiglia di contadini, che dava loro da mangiare,un posto dove dormire e li faceva lavorare nei campi. Nel frattempo Zbigniew cresceva e cominciava a capire ciò che era successo quella notte. L’unica domanda che si poneva sempre Zbigniew era: “Perché io sì e loro no? Perché lui aveva avuto la possibilità di sopravvivere e le altre persone no?» Si tormentava continuamente. Rimasero a Sankt Marien fino alla fine della guerra.

Dopo molti anni, Zbigniew e la sua famiglia poterono tornare a Ciechocinek, ma la città non era come si aspettavano: era tutto distrutto e sopra la città padroneggiava una nuvola di fumo. Era stato loro offerto un viaggio a Stettino, una città a Nord, al confine con la Germania, dove la guerra non aveva colpito. Zbigniew accettò e si trasferì nel 1950 insieme al padre, la madre invece non riusciva a lasciare la sua città e voleva aiutare a ricostruire gli edifici distrutti. A Stettino il padre riaprì la fabbrica e lavorò insieme a Zbigniew.

Lavorarono per anni, fino a quando il padre morì e Zbigniew doveva decidere se lasciare o prendersi tutto. Per molto tempo non lavorò ma poi prese una decisione: diventò il capo della fabbrica e iniziò ad assumere anche le donne. Una di queste lo colpì particolarmente: Zofia.Erano dei tempi diversi, perciò decisero di sposarsi quasi subito. Un matrimonio così unito non si vedeva da molto tempo. Non c’erano più stati spostamenti, perciò rimasero a Stettino e nel 1956 nacque Marzenna.

Marzenna crebbe in fretta e trovò lavoro in un bar. Un giorno entrò un uomo, diverso dagli altri. Era alto con i capelli scuri. Nell’aria si sentiva che sarebbe successo qualcosa. Marzenna decise di servirlo. Lei non era abituata ad essere trattata in un modo amichevole e gentile, infatti si stupì quando quell’uomo le chiese, con una dolcezza incredibile e un sorriso smagliante, di portarle un cappuccino e una brioche al cioccolato. Non sapeva perché, ma anche solo il suono della sua voce la faceva sentire bene.

Stava servendo l’uomo quando, incantata dalla sua bellezza misteriosa, inciampò. Si alzò velocemente e tutto il cappuccino finì sopra la maglia dell’uomo. Marzenna non sapeva cosa dire, era troppo in imbarazzo. Ma soprattutto, aveva paura. Pensava che l’uomo si sarebbe lamentato e lei, conseguentemente, licenziata. E invece no, l’uomo si chinò e raccolse la tazzina andata in pezzi. Poi gliela diede, sempre sorridendo. Marzenna ricambiò il sorriso. I due cominciarono a parlare, Marzenna scoprì che si chiamava Adam. Lui iniziò a frequentare quel bar sempre più spesso, solo per incontrarla.

Un pomeriggio d’autunno Adam chiese a Marzenna di uscire a cena e lei accettò senza esitazioni. Finito il turno, lei tornò a casa più felice che mai. Si mise un abito verde, si truccò, si mise delle scarpe con il tacco e uscì di casa, ma prima si fermò davanti allo specchio e si guardò: non si era mai sentita così bella! Arrivata al ristorante vide Adam davanti all’ingresso. Entrarono e si sedettero al tavolo che gli avevano assegnato. Mangiarono entrambi lo stesso piatto. Al momento del dessert, Adam si mise in ginocchio davanti a lei e prese dalla tasca dei pantaloni una scatolina ricoperta di feltro rosso e la aprì. Dentro c’era un anello: non era il più bello e costoso che Marzenna avesse mai visto, ma era quello fatto con più amore. Lei lo guardò e con gli occhi lucidi rispose di sì. Dopo tre mesi ci fu il matrimonio: lei era bellissima, ma lui lo era ancor di più, mentre la guardava.

Un giorno, che sembrava come tutti gli altri, arrivò una telefonata. Marzenna alzò la cornetta e la voce di un uomo le chiese se era la figlia di Zofia. Lei col cuore in gola rispose di sì. L’uomo le disse che sua mamma aveva avuto un infarto e che non ce l’aveva fatta. A Marzenna cadde la cornetta, si sedette per terra e iniziò a piangere. Qualche giorno dopo ci fu il funerale. Quando fu il turno di Marzenna di dare l’ultimo saluto a Zofia, tutti si commossero. Non le voleva lasciare la mano, ma doveva farlo. Nonostante tutto, dopo un anno di matrimonio, Marzenna annuncia il fatto che aspettasse un bambino.

Nell’ottobre del 1979 nasce Ewa, per secondo nome Zofia, come la mamma di Marzenna. L’amore tra Marzenna e Adam, purtroppo, non era tutto rose e fiori, perciò decisero di separarsi. Nel 2001 Marzenna perse il lavoro e decise di cambiare la sua vita, trasferendosi in Italia, a Reggio Emilia, dove abitava già da anni sua cugina. L’Italia le piacque fin da subito. Trovò lavoro presso un ristorante, ma l’italiano fu, ed è tuttora, un problema. Intanto, in Polonia, Ewa stava studiando all’università e durante le vacanze andava a Reggio Emilia e lavorava con Marzenna, per potersi permettere gli studi.

Prima della laurea, Ewa aspettava una bambina insieme a Sebastian. Si laureò e si trasferì a Reggio Emilia, dove continuò a lavorare al ristorante. Il 20 Settembre del 2003 nacque Paulina. Dopo circa quattro anni Ewa iniziò a lavorare nel forno di Rivalta, perché gli orari lavorativi del ristorante non le permettevano di trascorrere del tempo con la propria famiglia. Nel 2008, morì Adam. Eva si trovò bene a Reggio Emilia, anche se ci fu qualche problema con la lingua italiana, ma col tempo, per acculturarsi, frequentò corsi per impararla.

La famiglia si stava adeguando e stava crescendo. Infatti, nel 210, Zbignew si trasferì a Reggio Emilia. Lui non parla tuttora l’italiano, anche se lo capisce. Paulina non ebbe grandi problemi come Ewa e Marzenna con la lingua italiana, poichè andava a scuola a Reggio Emilia, ma imparò anche la lingua polacca per poter comunicare anche con i parenti. Nel 2009 Ewa e Sebastian divorziarono definitivamente dopo vari litigi. Ora Ewa vive felicemente insieme a Luigi, un uomo che seppe prendere il posto di un vero padre per Paulina, e Zbignew, un nonno, il suo nonno, che sarà per sempre insostituibile.

Testo tratto dalla storia della famiglia di Paulina Kinga

Kedzierska

LA STORIA DELLA MIGRAZIONE DALLA POLONIA

L’emigrazione polacca è una delle più consistenti del mondo. Le cause di

questo fenomeno sono diverse. Sia le persone che prima della Seconda

Guerra Mondiale abitavano nei territori appartenenti allo stato polacco che i

loro antenati, non si considerano emigrati polacchi ma autentici polacchi.

L’emigrazione per motivi di lavoro è divenuta consistente dopo l’adesione

della Polonia all’Unione Europea.

Secondo gli ultimi sondaggi, la maggior parte dei giovani polacchi

intende partire per l’estero in cerca di un futuro migliore. Si creano così

all’estero centri di cultura polacca in cui i discendenti degli emigranti possono

imparare la lingua e conoscere la cultura dei loro antenati. (1831–1870)

La loro resistenza alla rivolta di Novembre non era limitata all'attività

rivoluzionaria polacca, ma essi parteciparono anche alle rivoluzioni del 1848

in diverse nazioni, i piccoli principati della Germania e Italia, l'Austria,

l'Ungheria e i Principati danubiani, le nazioni del Sud America (Argentina e

Uruguay, partecipando alla "Grande Guerra") e, in seguito, alla guerra di

Crimea.

Ulteriori ondate di emigrazione giunsero dopo il fallimento della

rivoluzione del 1848 e dopo la Rivolta di Gennaio del 1863–1864. Negli anni

’60- ’70- ’80 l’Italia era solo una tappa temporanea per poi proseguire in

America e Australia.

Negli anni ’90 si trasferivano in Italia solo per lavoro e per breve tempo,

dopo che la Polonia entrò a far parte dell’Unione Europea.

Dopo l'invasione della Polonia il 1º settembre 1939 da parte della Germania

e dei loro alleati sovietici il 17 settembre 1939, la Polonia fu divisa fra i due.

La Germania si annesse 91,902 km quadrati con 10 milioni di cittadini e

il controllo del cosiddetto Governatorato Generale , che consisteva in

ulteriori 95.742 km con 12 milioni di cittadini. L'Unione Sovietica occupò

202,069 km quadrati con oltre 13 milioni di cittadini. Ci sono numerose

somiglianze fra le due azioni di occupazione, ad esempio il fatto di sparare

sui civili e sui prigionieri di guerra.

Durante la seconda guerra mondiale la Polonia si batté per la

liberazione dell’Italia. Centinaia di polacchi andarono in Germania per

lavoro forzato, 3 milioni di ebrei e non, morirono nell’occupazione tedesca

e la Polonia perse il 22% della popolazione.

I morti furono più di 6 milioni. I bambini rapiti in Polonia durante la

Seconda Guerra Mondiale furono più di 50.000 perché possedevano caratteri

razziali ariani (popoli indoeuropei) e venivano sottoposti ad esperimenti.

In Polonia il numero degli emigrati ha superato quello degli immigrati.

La percentuale di stranieri in Polonia è dell'1.6% . I polacchi si spostano

soprattutto in Germania, Norvegia e in Italia, dove c’è un vero e proprio

movimento di massa.

INTEGRAZIONE

Che cos’è... ?

Incorporazione di una certa entità etnica di

una società, con l’esclusione di qualsiasi

discriminazione razziale, inserimento

dell’individuo all’interno di una

collettività,attraverso il processo di

SOCIALIZZAZIONE

Inclusione delle diverse identità in un

unico contesto nel quale venga applicata

la COMUNICAZIONE INTERCULTURALE e

dove ci sia un rapporto di tolleranza,

ascolto attivo, empatia e cura

L’integrazione è il processo

attraverso il quale il sistema acquista

e conserva un’unità strutturale e

funzionale, pur mantenendo la

differenzazione degli elementi

COSTRUIAMO PONTI

DI UGUAGLIANZA

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DI IGNORANZA