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Presentazioni efficaci
con PowerPoint Quarta lezione
Fascicolo Operativo
A cura di Marco Trapani Docente di informatica in ambito umanistico (Università degli Studi di Firenze)
Presentation Design e Presentation Management
Public Speaking
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Gentile Cliente,
siamo lieti di inviarLe la quarta lezione dell’E-seminar “Presentazioni efficaci con
PowerPoint”.
Questo fascicolo contiene i consigli operativi per modificare l’aspetto e l’efficacia delle
presentazioni con semplici accorgimenti stilistici.
In particolare affronteremo i seguenti argomenti:
Indice dei contenuti del fascicolo operativo
La comunicazione
Convincere vs. persuadere
Prima di tutto: il messaggio
Elementi costitutivi della comunicazione
Strumenti “comunicativi” del presentatore
Voce
Pause
Intercalari e non-parole
Pronuncia
Velocità
Ritmo
Tono
Volume
Parlare in un contesto internazionale
Gestualità
Comunicazione non verbale
Movimenti
Sguardo
Ancoraggi
Abbigliamento
L’abito deve essere adeguato alla situazione
L’abito deve essere comodo 3
L’abito non deve essere appariscente
Stile
Citazioni
Le influenze dell’ambiente: gruppo ristretto o platea
Le fasi della presentazione: Introduzione, sviluppo, chiusura
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Introduzione (Exordium)
Durante la presentazione
Fase di chiusura
Dopo la presentazione
Questions & answers (questio & responsio)
Gestione del Tempo
Gestire Situazioni “critiche”
Blackout tecnico
Perdita del “filo del discorso”
Disturbi da parte dei partecipanti
Preparare una presentazione per altri
Esercizi e test di autovalutazione
Risposte
In caso di necessità di chiarimenti, non esiti ad inviarci i Suoi quesiti via e-mail all’indirizzo
[email protected], specificando nell’oggetto “Quesito PowerPoint”.
I relatori Le risponderanno nel più breve tempo possibile.
Non ci resta che augurarLe buona formazione!
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La comunicazione
Immaginiamoci la situazione: il nostro “Bravo Specialista” (ovviamente di chiara fama) ha
guidato un gruppo di lavoro in una ricerca durata anni, su un tema qualsiasi, ad esempio:
“come misurare lo sviluppo della società” (una bagattella, giustappunto…) ed è ormai
giunto alla fine dei suoi guai: tutti i sistemi di raccolta dati sono stati attivati, reti di
comunicazione velocissime permettono di accentrare una mole di informazioni (o, più
semplicemente, di dati…) che verranno elaborate da un modello matematico-statistico di
una complessità mai vista.
Finalmente si possono trarre le prime conclusioni, estrapolare le prime classifiche, valutare
l’andamento negli ultimi anni e, udite udite, azzardare ipotesi del tipo “se facciamo questo
accadrà quello…” !
Il nostro “Bravo Specialista” è pronto, e, il giorno scelto per la presentazione mondiale (un
luminoso lunedì di primavera, subito dopo pranzo…) sale sul podio davanti ad un folto
gruppo di rappresentanti del più alto livello della politica mondiale (ONU? G-8? G-n?),
accende la sua bella lampada luminosa, fa abbassare le luci, posiziona il lucido trasparente
(la prima volta si sbaglia, lo mette al contrario, ma ovviamente lo gira immediatamente…) e
inizia un’approfondita disamina di tutti gli aspetti metodologici e matematici che hanno
permesso di raggiungere l’incredibile risultato.
Dopo circa due ore, arrivando alle conclusioni, alza lo sguardo e rimane “leggermente”
perplesso: la sala è semivuota, intravede la maggioranza delle persone presenti impegnate
nella lettura di un giornale o della posta elettronica (con un palmare…), sente un brusio
proveniente dall’atrio dove tutti gli assenti si sono riuniti per parlare tra loro, a piccoli
gruppi, del più e del meno (e dell’andamento dei rispettivi campionati sportivi…).
Conclusione: la ricerca viene presto accantonata e messa in un cassetto, aggiunta ad un
infinito elenco di “indicatori compositi usati a livello internazionale”, citata da altri “bravi
specialisti” nei loro lavori, ma come impatto sulla realtà: ZERO.
Ok, forse stiamo esagerando, ma… qualche dubbio è lecito; dopo aver partecipato a
numerosi convegni (di varia natura ed estrazione), ed aver visto molte volte situazioni simili
a quella prospettata, forse è il momento di fare qualche riflessione.
Tutta la nostra attività professionale, scientifica, scolastica, ma anche relazionale in
senso stretto, comprende sempre e comunque la necessità, imprescindibile, di
“comunicare”, di “presentare” agli altri le nostre idee, ipotesi, conclusioni.
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Chi sono questi altri? In definitiva stiamo parlando di tutte le persone che, in qualche
misura, ci circondano: a partire dai nostri familiari (a cui, magari, “presentiamo” la nostra
idea per le prossime vacanze o per il prossimo pranzo di natale), ai nostri vicini (che cosa è
un’assemblea di condominio, se non un posto dove ciascuno “presenta” le proprie idee e/o
lagnanze”?), i parenti più o meno stretti, i colleghi di lavoro, (sia i sottoposti, che dobbiamo
“motivare”, sia i nostri superiori, che dobbiamo “convincere” della bontà dei nostri
progetti), i potenziali clienti e/o finanziatori, i nostri elettori (se siamo persone impegnate
in politica), insomma, proprio tutti quelli con cui abbiamo relazione.
Il fatto stesso di avere relazione con gli altri ci porterà, spesso, a dover fare delle
presentazioni, che, in definitiva, sono di due tipi estremi: persuasive o informative.
In realtà non esisteranno mai delle presentazioni in senso assoluto “persuasive” o
“informative”, ma piuttosto ogni presentazione si potrà collocare in una scala continua che
oscilla tra i due estremi:
Persuasiva InformativaPersuasiva Informativa
In definitiva ogni nostra “presentazione” avrà degli elementi di informazione, ossia
vorremo semplicemente comunicare ad altri dei dati in nostro possesso, ma anche una
componente persuasiva, quanto meno per far accettare l’idea che i dati da noi comunicati
sono corretti.
La presentazione dei risultati di un qualsiasi lavoro è un aspetto talmente importante che
sarebbe opportuno dedicargli tutta l’attenzione possibile DURANTE il progetto, e non solo
alla fine.
Il prodotto del nostro lavoro acquisisce un significato, diremmo assume un vero aspetto di
“prodotto” solo quando riusciamo a “venderlo” a qualcuno, “in quanto solo nel consumo il
prodotto diviene un prodotto effettivo”; fino al momento in cui ciò non avviene, avremo
solo perso tempo, e in realtà non avremo “prodotto” proprio niente.
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Ovviamente per “vendere” in questo contesto dobbiamo intendere una accezione molto
ampia, che non necessariamente preveda uno scambio monetario e/o economico: si
“vende” anche una tesi alla commissione giudicante, si “vende” la propria persona in un
colloquio di lavoro, si “vendono” le nostre preferenze quando convinciamo il coniuge a
fare le vacanze in montagna invece che al mare.
E’ nostro dovere, dopo aver tanto lavorato, presentare, nel migliore dei modi e con la
massima capacità possibile, il frutto di tanta fatica: non farlo significherebbe tradire anche
il lavoro di quanti hanno collaborato con noi, e, se abbiamo lavorato bene, anche privare il
mondo della positività che deriverebbe dall’adozione del nostro prodotto.
E’ evidente che non si vuole qui esasperare ed esagerare l’importanza della presentazione
finale rispetto a tutto il resto del progetto: riteniamo imprescindibile che il lavoro sia
preventivamente fatto e fatto bene, e che non si cerchi di “vendere fumo”, come spesso
invece avviene.
E’ abbastanza rilevante comprendere che non tutto può essere dimostrato attraverso
affermazioni logiche e dimostrazioni matematiche; a tale proposito è anche importante
comprendere che affermazioni e petizioni di principio possono essere condizionate dal
passare del tempo; a questo proposito possiamo fare un esempio illuminante.
Rileviamo che quel che è ragionevole o irragionevole in una società a un certo momento
del suo sviluppo, può cessare di esserlo in un altro ambiente o in un’altra epoca.
Segnaliamo, a titolo di esempio, la motivazione della Corte di Cassazione del Belgio, in una
sentenza dell’11 novembre 1889, relativa all’ammissibilità delle donne alla professione di
avvocato.
Una donna belga, che aveva tutti i requisiti richiesti dalla legge, aveva chiesto l’iscrizione
all’albo degli avvocati, motivandolo col fatto che l’articolo 6 della Costituzione belga
proclamava l’uguaglianza di tutti i Belgi davanti alla legge e che nessun testo aveva
espressamente vietato alle donne l’accesso al foro.
A questa domanda, la prima nella storia del Belgio, la Corte di Cassazione rispose che “se il
legislatore non aveva escluso con disposizione formale le donne dal foro, era perché
riteneva assioma troppo evidente per doverlo enunciare il fatto che il servizio della
giustizia fosse riservato agli uomini”.
Un’affermazione che circa un secolo fa appariva evidente oggi apparirebbe non solo
irragionevole, ma anche ridicola.
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Notiamo, di passaggio, che è stato necessario aspettare il 7 aprile 1911 perché il legislatore
belga escludesse le ragioni invocate nel 1889 e permettesse alle donne di esercitare la
professione di avvocato.”
Numerose altre esemplificazioni potrebbero essere prese come modelli di problematiche
legate al tempo e alla argomentazione: basti pensare al concetto di “sviluppo”, inteso per
molti anni come un processo inequivocabile solo e sempre in aumento, senza potenziali
limiti, che solo negli ultimi anni è stato affiancato (e oggi, sempre più, sostituito) da un
concetto di “sviluppo sostenibile”, e anche di “decrescita controllata”, tale da consentire
alla società quanto meno di mantenere il livello di benessere raggiunto, nonostante sia
evidente che le risorse del pianeta (queste si, decisamente “finite”) difficilmente potranno
permettere a tutti gli abitanti della terra di raggiungere il livello di benessere oggi presente
in occidente.
Nell’ambito specifico della presentazione di dati e risultati scientifici c’è una certa
“sufficienza” sull’aspetto più propriamente di “presentation”, dato che un notevole sforzo
viene già profuso in tutte le parti precedenti dell’attività di ricerca.
Convincere vs. persuadere
Dal dizionario “De Mauro”:
Convincere:
1. Rendere qualcuno sicuro di qualcosa sciogliendone i dubbi o inducendolo a
tenere un comportamento, a compiere una determinata azione
Es: abbiamo convinto la commissione della validità del progetto,
l’hanno convinto a trattenersi a cena
2. Ispirare fiducia:
Es: quel tipo non mi convince, la cosa non mi convince; è una teoria
che convince
Persuadere:
1. Indurre qualcuno in una convinzione o spingerlo a compiere determinate
azioni
Es: lo persuasi dell’inutilità dei suoi sforzi, mi ha persuaso a tentare
ancora una volta
2. Di discorso, scritto e sim., ottenere l’approvazione di chi ascolta o legge:
Es: l’intervento ha persuaso l’assemblea
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3. in frasi negative, non piacere, non ispirare fiducia né approvazione: le tue
idee non mi persuadono per niente, la sua faccia non mi persuade affatto
Apparentemente “convinzione” e “persuasione” non sono altro che due termini sinonimi, e
in quanto tali potremmo usarli indifferentemente nell’ambito delle nostre esigenze di
presentazione.
In realtà una sottile, percepibile distinzione appare, e non “sentiamo” di poter usare
indifferentemente i due termini: e questo indipendentemente dal loro significato letterale
o anche dalla loro etimologia, (convincere da con-vinco e persuadere da per-suadeo) che
fanno pensare, nel primo caso ad un’azione quasi fisica di “stabilire un vincolo, una unione”
e nel secondo ad un “passare attraverso la suasione”.
Per poter distinguere il significato dobbiamo rifarci alle teorie di differenziazione dei
domini conoscitivi sviluppatisi attraverso il processo evolutivo dei saperi dei viventi, al cui
culmine (e comunque, per quanto attiene ai nostri interessi) si pone l’Homo sapiens
sapiens.
Secondo questa teoria, ampiamente dimostrata e convalidata, nell’ambito della
conoscenza si possono distinguere, anche in base al loro lento e graduale sviluppo nel
corso dell’evoluzione, tre domini fondamentali: il dominio sensomotorio, il dominio
emotivo e il dominio razionale.
E’ proprio riferendosi a questi ultimi due che possiamo tracciare una distinzione tra il
persuadere e il convincere; detto in estrema sintesi possiamo collegare il “persuadere” al
dominio emotivo e il “convincere” al dominio razionale.
Quando quindi parliamo di aver “persuaso” qualcuno di qualcosa, dovremmo intendere di
aver fatto riferimento alla sfera emotiva, a quell’ambito fondamentale del sapere umano
che potremmo definire, parafrasando Robert Kennedy, quello che “rende la vita degna di
essere vissuta”.
Viceversa l’atto del “convincere” si dovrebbe riferire alla sfera razionale, al fatto quindi di
aver “dimostrato” con dati e procedimenti logici che un qualcosa sia migliore di
qualcos’altro (o, in estremo, che qualcosa sia vero e qualcosa sia falso, anche se oggigiorno
si tende sempre di più, nella scienza, a ritenere che non esistano verità ultime e assolute,
ma piuttosto aspetti “fin qui” verificati e dimostrabili, “fino a prova contraria e/o a
successiva evoluzione”).
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Tanto per fare un esempio, possiamo riferirci alla “scelta” di tifare per una squadra
calcistica1 che può fare un bambino relativamente piccolo, che non abbia ancora avuto
una “esposizione” di qualche tipo a condizionamenti in un senso o nell’altro.
Questo bambino potrebbe “convincersi” di tifare ad esempio per la Juventus (o, beninteso,
il Milan o l’Inter) perché analizzando i dati dei campionati e dei risultati “sceglie” le squadre
più vincenti, che danno maggiori garanzie di frequente soddisfazione proprio perché
vincono spesso; questa sarebbe, in fin dei conti, la scelta “razionale” più corretta.
Lo stesso bambino però potrebbe essere “persuaso” che la scelta di tifare per la squadra
“di casa”, ad esempio la Fiorentina (o, sempre beninteso, il Napoli o il Palermo o decine di
altre) abbia dei contenuti emotivi maggiori, come il senso di appartenenza territoriale,
l’adesione ad una tradizione familiare, il sentirsi parte di un gruppo amicale ecc.; questa,
quindi, è una scelta “emotiva”, in se e per se del tutto equivalente, come validità e
potenziale, a quella precedente.
E chi, potremmo obiettare, non sceglie di tifare per una squadra perché non è affatto
interessato al calcio? beh, in fin dei conti esistono anche gli atei, e quelli
fondamentalmente contrari all’ipotesi di una vita di coppia, quindi perché non chi è
indifferente al calcio?
Tornando al nostro tema di interesse, dobbiamo quindi ritenere che attraverso una
presentazione sia necessario, per non dire indispensabile, allo stesso tempo
convincere e persuadere, ossia rifarci a entrambi i domini conoscitivi; se si trascurerà il
lato razionale si rischia di cadere nella mai tanto vituperata “vuota retorica”, mentre se si
trascura il lato emotivo il rischio è quello del “freddo razionalismo”.
E il dominio senso-motorio? Ovviamente non dobbiamo dimenticare neanche quello,
attraverso l’attenzione agli aspetti “fisici” come la temperatura, il comfort (acqua, break), la
luminosità, il livello della voce ecc.
In definitiva per essere efficace una presentazione deve avere un approccio olistico,
onnicomprensivo, cercando di bilanciare tutti gli aspetti che riguardano i tre domini
conoscitivi, allo scopo sia di persuadere che di convincere i nostri interlocutori in merito
alla tesi che stiamo portando avanti.
1 Avrei potuto fare riferimento alla fede religiosa, oppure alla scelta di un partner per il matrimonio, ma per evitare
possibili fraintendimenti o ipotesi di presa di posizione in un senso o nell’altro ho preferito usare un tema più neutrale
come la fede calcistica che peraltro si presta bene proprio per il suo paradossale incredibile livello di “resistenza”; non ho
ricercato dati ufficiali (e non so neanche se siano stati fatti studi in proposito) ma sono portato a credere che sia più facile
una abiura religiosa (per non parlare del matrimonio, istituto abbondantemente in crisi) piuttosto che il cambio di
casacca sportiva; è probabilmente più facile che una persona cambi lavoro, residenza, moglie, religione piuttosto che
squadra di calcio per cui tifare.
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Prima di tutto: il messaggio
Supponiamo, per semplicità, di aver ottenuto, da una ricerca scientifica condotta con il
massimo rigore, la conclusione di disporre di un contenitore della capacità di 100 centilitri,
contenente acqua per 50 centilitri.
E’ evidente che noi possiamo presentare, in modo asettico e imparziale, i dati così come
sono, lasciando al nostro ascoltatore l’onere e l’onore di trarre qualsiasi conclusione; è
altrettanto evidente che non potremmo essere tacciati di “scorrettezza” se presentassimo
la situazione come “una bottiglia piena a metà”, e parimenti saremmo ancora nel “corretto”
se la presentassimo come “una bottiglia vuota per metà”.
La questione non è del tutto peregrina: pensiamo di dover presentare una ricerca sulla
situazione, ad esempio, delle riserve petrolifere mondiali: probabilmente sugli investitori
può avere un ben differente impatto leggere un titolo di giornale come “Ormai consumata
la metà delle riserve petrolifere mondiali” piuttosto che “Ancora disponibile la metà delle
riserve petrolifere mondiali”.
E allora? Che fare? “Pieno a metà” o “Vuoto a metà”? Oppure, salomonicamente, astenersi
e fornire solo numeri?
Il problema, in realtà, non è questo.
In ogni caso, qualsiasi sia l’impostazione che daremo alla nostra presentazione, noi
trasmetteremo comunque un messaggio, che potrà essere interpretato dall’ascoltatore
in uno dei due modi (pieno o vuoto), e assai raramente l’ascoltatore coglierà solo l’aspetto
puramente numerico prescindendo da una valutazione.
In situazioni del genere è normale che l’ascoltatore sia lì proprio per quello: avere delle
indicazioni e delle valutazioni per poter prendere poi delle decisioni “a ragion veduta”;
purtroppo spesso non siamo molto lontani dagli antichi comandanti di eserciti, che si
affidavano all’opera di indovini (auspici o aruspici, a seconda se la previsione veniva tratta
dal volo di uccelli piuttosto che dall’esame delle viscere di un animale sacrificato).
Questo tipo di ricerca, o meglio di “comprensione” del futuro, accompagna l’uomo
praticamente da sempre, e quindi è innata nella nostra natura la tendenza a cercare di
“estrapolare” delle conclusioni a partire dai dati che ci vengono presentati.
Pertanto è inutile pensare di poter presentare i dati in modo “obiettivo”, “scientifico”, o con
qualsiasi altra etichetta vogliamo per sottolineare la nostra imparzialità: è proprio
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l’ascoltatore che non può, o non vuole, essere parziale, ma vuole trarre delle conclusioni di
qualche tipo dalla nostra presentazione.
Quindi, anche contro la nostra volontà, dalla nostra presentazione verranno tratte delle
conclusioni, fatte delle valutazioni e, talvolta, prese delle decisioni; è giusto, a questo
punto, ignorare questo aspetto e lasciare al caso il tipo di conclusioni che possono essere
tratte? Oppure è più corretto lavorare, seguendo un’etica, e preparare innanzitutto in
modo chiaro ed esplicito quelle che sono le nostre conclusioni e valutazioni, ed impostare
poi la presentazione in modo coerente con esse?
E’ anche possibile che, nel tentare di ottenere un “messaggio” coerente dai dati che stiamo
analizzando, si scopra che tali dati sono insufficienti, e necessitano di ulteriori
approfondimenti prima di poter trarre delle conclusioni; tornando all’esempio iniziale: forse
è importante capire se il contenitore di cui trattasi, nel tempo, si sta “riempiendo” o
“svuotando”: se stiamo analizzando, ad esempio, le riserve petrolifere strategiche degli
Stati Uniti non sarà sufficiente avere il semplice dato elementare, ma sarà necessario
analizzarlo alla luce di una serie storica che ci dica, ad esempio, se queste scorte stanno
aumentando, se stanno diminuendo, quali sono le cause di questo aumento o
diminuzione, quale è stata la situazione geo-politica in altri tempi con situazioni di scorte
analoghe ecc..
Dobbiamo, in fin dei conti, seguire un modello elementare che prevede, passo dopo passo,
di stabilire con precisione:
Risultati “asettici” del lavoro
(puri dati)
Analisi dei dati e valutazione
(trasformazione dei “dati” in “informazioni”)
Messaggio che intendiamo trasmettere
Presentazione
(coerente con il messaggio)
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Ricordiamoci, comunque, che non predisporre un messaggio prima di preparare la
presentazione, equivale a lasciare al puro caso la decisione in merito alle possibili
conclusioni e messaggi che verranno tratti dalla nostra presentazione, e in ogni caso,
comunque, di questi “messaggi” non voluti saremo considerati latori e/o responsabili.
Elementi costitutivi della comunicazione
Gli elementi costitutivi di una comunicazione possono essere individuati in:
Emittente
Ricevente
Codice dell’emittente
Codice del ricevente
Canale
Contesto
Messaggio
Feedback
Disturbi
Questo schema potrebbe apparire troppo “meccanico” (ed in effetti nasce proprio dagli
studi ingegneristici sulla comunicazione telefonica, dove ogni aspetto aveva uno
“substrato” tecnologico composto da microfoni, fili, linee di trasmissione, altoparlanti…) e
deve quindi essere preso con una certa attenzione: non dobbiamo pensare che la
comunicazione (specialmente nell’accezione che stiamo esaminando, relativa alla
“presentazione” in persona”) debba essere considerata meccanica.
Uno schema razionale ci è però oltremodo utile per “mettere ordine” ed esaminare i singoli
aspetti uno ad uno, senza dimenticare che la comunicazione è un “unicum” indivisibile, e
che pari importanza dovrebbe essere data alla fase di “feedback”, considerando sempre
quindi la comunicazione un processo circolare, e non un processo “unidirezionale”).
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Esaminiamo una ad una le componenti suindicate:
Emittente siamo noi, con la nostra attività, che vedremo non è da individuare solo nel
campo verbale, che cerchiamo (o dovremmo cercare) di far arrivare un “messaggio” al
Ricevente (che, ovviamente, sono i nostri ascoltatori, o presunti tali).
Qualche parola in più deve essere spesa per il codice, che spesso viene sottinteso e/o
trascurato.
Nella figura il codice è rappresentato da una specie di “papiro” che rappresenta una
doppia barriera, sia al momento dell’emissione (quando siamo noi a “codificare” il
messaggio) che al momento della ricezione (quando è il ricevente a dover “decodificare”
quanto gli perviene).
Per codice si intende tutto quell’apparato che potremmo definire “tecnologico” che ci
permette di comunicare, in primis la stessa lingua (italiana, nel nostro caso) con tutte le sue
regole grammaticali, di sintassi e di stile.
Già nella figura i due codici sono rappresentati entrambi di colore azzurro, ma di una
tonalità leggermente diversa; il motivo, se ci si presta attenzione, è presto detto:
nonostante si condivida la lingua italiana sono più che facili distorsioni del messaggio in
funzione del diverso significato che si possono dare alle parole, o al modo in cui vengono
dette; la cosiddetta “incomunicabilità” di genere (per cui tra maschi e femmine spesso non
ci si intende) è provocata, nella maggioranza dei casi, da un diverso “codice” di
interpretazione, un po’ come se gli uomini parlassero il “mascolinese”, e le donne il
“femminilese”, due lingue simili tra di loro (come ad esempio l’italiano e lo spagnolo) ma
con ben gravi possibilità di fraintendimento (se dico “burro”, intendo un condimento di
origine animale da spalmare sul pane oppure un animale da soma, che normalmente raglia
e tira calci ?).
Dobbiamo quindi assicurarci di utilizzare il giusto “codice”, intendendo per “giusto” quello
che ci permette di minimizzare i possibili fraintendimenti e di massimizzare la
comprensione del messaggio: giusto, quindi, non sarà il “nostro” codice, ma quello del
ricevente; se necessario, e soprattutto se ne siamo consapevoli, dovremo adeguare il
nostro linguaggio a quello dell’ascoltatore, dando di volta in volta ragione di eventuali
termini e/o espressioni che possano indurre travisamenti e incomprensioni.
A questo scopo l’analisi immediata, in tempo reale, del feedback che ci arriva dal ricevente
ci permette di adeguare il codice e rivedere, esplicitandolo, il messaggio per renderlo più
chiaro (se, tornando all’esempio di poco fa, dico “burro” ad una signorina, e ricevo uno
schiaffo invece del panetto di condimento che volevo usare per la colazione, capisco
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immediatamente che c’è stata un’incomprensione; peccato che quasi mai il feedback è così
trasparente e chiaro da interpretare).
Il canale rappresenta il mezzo trasmissivo con cui cerco di far arrivare il messaggio al
ricevente; è ovvio, per non dire lapalissiano, che più ampio e largo sarà il nostro canale, e
maggiore sarà la probabilità di far arrivare un messaggio più completo; per questo motivo
è ormai invalso l’uso di procedere con tutti i canali possibili e disponibili, come quello
auditivo (spiegazione a voce di un argomento) accompagnato da quello visivo (quindi con
“slide” esplicative), ove possibile con esercitazioni pratiche dirette (per coinvolgere anche il
canale cinestesico, il “fare”); mi stupisco, ma probabilmente perché ancora non è stato
individuato un modo ottimale per rendere possibile questo aspetto, che non sia usato il
canale olfattivo, ad esempio facendo diffondere nella sala degli aromi gradevoli per
sottolineare passaggi per noi importanti, o degli odori sgradevoli per gli aspetti che
vogliamo siano percepiti come negativi dai nostri ascoltatori.
Il contesto, e a maggior ragione i possibili disturbi, condizioneranno ancora di più il
nostro lavoro.
Il contesto, ossia l’ambiente e la situazione “a contorno”, al fine di renderli più positivi e
aderenti al nostro messaggio (ad esempio, qualche anno fa il dare un “grande banchetto”
di benvenuto ai delegati della FAO che dovevano discutere del problema della “fame nel
mondo” non è stata proprio una grande idea, dato che quasi tutti i giornali hanno riportato
il fatto come un aspetto decisamente negativo che ha inciso nella credibilità del convegno
stesso; lo scorso anno un analogo convegno è stato accompagnato da una ristorazione
all’insegna della semplicità e frugalità, con molta maggiore credibilità degli organizzatori
stessi).
La corretta definizione del messaggio, e soprattutto l’attenzione al fatto che il messaggio
che noi vogliamo trasmettere sia stato correttamente interpretato e recepito è, in fin dei
conti, lo scopo di tutto il lavoro di presentazione.
Il Feedback è un elemento indispensabile, direi imprescindibile per poter valutare la
correttezza del nostro lavoro; senza un adeguato feedback e senza un significativo lavoro
di analisi e comprensione del feedback stesso non si potrà mai avere una valutazione
corretta della qualità e soprattutto dell’efficacia della nostra presentazione.
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Il feedback può essere visto in tre momenti principali:
Immediato
Un buon presentatore deve essere molto attento alle reazioni del suo
pubblico; segnali di attenzione, di noia, di insofferenza, di accordo o
disaccordo devono essere immediatamente percepiti e devono “guidare” il
presentatore per “aggiustamenti” in corsa, ad esempio tagliando una parte
che risulta eccessivamente lunga, oppure tornando su qualche concetto o
definizione che appare non ben recepita.
Alla fine della presentazione
Come vedremo nell’apposito capitolo la fase finale di Domande e Risposte,
inevitabile o meglio indispensabile in una presentazione, è un po’ l’ultima
spiaggia del presentatore per comprendere eventuali fraintendimenti e/o
reazioni negative al proprio lavoro, e tentare, in extremis, di porvi rimedio
attraverso un lavoro dialettico “in tempo reale”.
Successivamente
“Chi non conosce la storia è destinato a ripetere gli errori del passato”, recita
un vecchio e saggio adagio; dopo una presentazione è opportuno fare una
spietata autocritica, per fare tesoro di tutto quello che è accaduto: sono stati
rispettati i tempi? il pubblico è apparso soddisfatto? ci sono stati feedback
positivi, negativi, e quali? il Pubblico, nei giorni successivi, ha “reagito” come
da nostre aspettative? se no, perché?
A proposito dei feedback negativi: è fondamentale per un presentatore (ma direi per
chiunque) ricordarsi che chi ci critica è il nostro miglior amico: ci da una possibilità di
miglioramento, di reale specchiatura e verifica del nostro operato; chi invece non ci da
alcun feedback, ma rimane assolutamente convinto delle proprie idee e non segue le
nostre indicazioni, ovviamente per noi rappresenta una sconfitta, senza appello e senza
possibilità di affrontare, una prossima volta, in modo migliore proprio quelle possibili
posizioni.
I disturbi, infine, dovranno essere tenuti presenti soprattutto per tendere alla loro
eliminazione, dato che sono assolutamente non congeniali ad una riuscita del passaggio
del messaggio.
Attenzione quindi alla sala, ma anche alla disponibilità dei pennarelli, agli eventuali “lavori
in corso” nel palazzo vicino, oppure alla lampadina del proiettore che si spegne e di cui
non si trova il ricambio…
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Tutto quello che può arrecare disturbo deve essere attentamente combattuto ed evitato,
con una cura talvolta maniacale: per assurdo, se l’acqua disponibile per il relatore è troppo
fredda potrebbe provocargli dei disturbi di stomaco quasi immediati, con ovvio detrimento
della qualità della presentazione: perché correre un simile rischio per una cosa così banale?
Basta un piccolo controllo preliminare…
Strumenti “comunicativi” del presentatore
Voce
La voce è, in definitiva, lo strumento principale del presentatore; possiamo immaginare di
essere senza slide, senza lavagna, senza qualsiasi altro ammennicolo, ma non possiamo
fare una presentazione senza la voce (se abbiamo predisposto del materiale specifico per
un pubblico di sordomuti questo sarà possibile, ma ammettiamo che si tratta della classica
eccezione che conferma la regola). Per parlare della voce possiamo suddividere alcuni
punti essenziali, cominciando con la “banale” assenza di voce:
1. Pause
2. Intercalari e non-parole
3. Pronuncia
4. Velocità
5. Ritmo
6. Tono
7. Volume
Ognuno di questi aspetti può essere fonte di problemi ed errori, e, a parte i consigli
indicati punto per punto, l’importante sarà di esercitarsi; come dice un vecchio proverbio,
“se vuoi imparare a suonare il flauto, devi suonare il flauto”.
L’unico modo di “migliorare” la nostra tecnica espositiva sarà quindi quello di “provare” i
nostri discorsi (ma anche degli sproloqui senza particolare significato andranno bene)
registrandosi e riascoltandosi, utilizzando allo scopo i nostri tempi “morti”, ad esempio in
auto (attenzione alla guida) o in autobus, metropolitana etc. etc. : oggigiorno sono
diffusissimi dei “miniregistratori” con cuffiette (lettori MP3) che, se non si ha l’esigenza di
una “fedeltà” elevatissima, hanno dei costi decisamente abbordabili.
In questo esercizio dovremo, fondamentalmente, fare attenzione a COME esprimiamo il
nostro discorso, e non a COSA stiamo dicendo (che, in questa fase, non è determinante).
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Pause
La pausa: se non ci fosse, bisognerebbe inventarla.
La pausa non è un vuoto da aborrire, non è una mancanza, è una necessità!
Chi ascolta deve avere il tempo di assorbire quanto stiamo dicendo, e niente di meglio di
una pausa silenziosa per far penetrare un concetto particolarmente difficile o importante.
Spesso, un presentatore inesperto, tende a parlare “tutto d’un fiato”, senza interrompersi
mai, anche perché ha “paura” di essere interrotto, o di non avere abbastanza tempo, o di
sembrare impacciato; in realtà ottiene l’effetto contrario: separare ciascuna frase,
preferibilmente breve, dalla successiva con una pausa di pochi secondi aumenta di molto il
nostro livello di “penetrazione” e fa “apparire” (anche se non lo fosse) il presentatore molto
più “autorevole”.
Anche all’inizio, l’uso di una pausa di silenzio prima di cominciare può permettere di
attirare l’attenzione, far cessare il brusio di fondo, concentrare su di se gli sguardi e poi
iniziare con il proprio discorso nel completo silenzio.
Intercalari e non-parole
Molte persone, quando parlano, hanno il “vizio” di emettere dei suoni privi di significato,
tra una parola e l’altra di una frase, o come “completamento” della frase stessa. Possiamo
distinguere tre casi fondamentali:
Trascinamenti: quando il presentatore “allunga” l’ultima vocale di una
parola, tipo “alloraaaaa”, “dunqueeeee”
Non parole: si riferisce all’utilizzo di “vocalizzi” come “eeeeee”, “uuuuh”,
“aaaaa”, (la frase sembra detta da qualcuno che, in effetti non sa cosa dire)
Intercalari: alcuni presentatori si innamorano di un termine (come “diciamo”,
“allora”, “ergo”) o di un avverbio, (come “evidentemente”, “praticamente”,
“conseguentemente”), e con questi identici termini infarciscono il discorso
fino alla nausea
I primi due casi sono dovuti ad un apparente bisogno del cervello di “tempo” per poter
pensare cosa dire, e ad una sorta di “horror vacui”, paura del vuoto, del silenzio, che il
presentatore “sente” di dover riempire in tutti i modi.
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La presenza di queste “non parole”, o di “trascinamenti” da un fastidio negli ascoltatori che
è difficile da quantificare; se il presentatore insiste molto su questo tono, probabilmente si
sarà perso una metà dell’uditorio nei primi 5-10 minuti, e il resto via via….
Il terzo caso è ancora più “divertente”: ci sono persone del pubblico che, prese dalla
nausea, si mettono addirittura a “contare” il numero delle volte che il termine viene detto,
per poi fare una sorta di “commentario” con gli altri partecipanti al break o alla fine della
giornata.
Un presentatore si può liberare di questi “errori” semplicemente prendendone coscienza
(se qualcuno glielo fa notare o riascoltando una registrazione) e, in aggiunta, facendo un
po’ di esercizio e attenzione all’uso, al posto di trascinamenti e vocalizzi, di opportune
pause; spesso per superare la paura del vuoto è sufficiente comprendere che “non fa
male”.
L’utilizzo di intercalari, se opportunamente “dosato”, può invece essere usato come
“ancoraggio” (vedi il capitolo relativo), soprattutto se la relativa pronuncia viene enfatizzata
e il termine, ovviamente, non viene abusato; un “ergo” (“ragion per cui”) messo solo ed
esclusivamente quando stiamo tirando le conclusioni di ogni argomentazione può aiutare
il pubblico a “capire“ dove siamo, però è indispensabile non abusarne (un po’ come il pepe
nelle pietanze: non è indispensabile, un po’ ci sta anche bene, troppo fa decisamente
male).
Se abbiamo l’occasione di dover fare più presentazioni davanti allo stesso pubblico l’uso di
uno o più intercalari “tipici” può far parte del proprio “stile”, riconoscibile dagli ascoltatori e
per questo ancora più utile (sempre, ovviamente, senza abusare).
Pronuncia
Una corretta pronuncia? beh, sicuramente senza esagerare; in un contesto internazionale
sarà necessario soprattutto essere compresi, mentre in un contesto nazionale si dovrà
evitare di dare una connotazione eccessiva con una “calata” troppo marcata.
In definitiva l’uso di una pronuncia “non standard” tende a far inquadrare il presentatore
come “poco colto”, “poco raffinato”, e quindi a dequalificarlo, indipendentemente da cosa
dice.
E’ però vero che tutto questo è condizionato dal pubblico: se abbiamo davanti un pubblico
generico non particolarmente titolato l’uso di termini e accenti anche dialettali può
permetterci di “calarsi” al livello dell’auditorio, per evitare di apparire come uno che “parla
in punta di forchetta”, e in definitiva “non è uno di noi”.
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Tra l’altro l’uso di calate regionali, complice anche una televisione che sempre di più
propone simpatiche figure di comici che provengono più o meno da tutte le regioni e che
fanno un “marchio di fabbrica” della propria inflessione dialettale ha più o meno
“sdoganato” un certo livello di “accento”.
E’ però necessario non esagerare, altrimenti il rischio è proprio di quello di essere presi per
“comici”, e quindi di perdere di credibilità, se gli ascoltatori sono particolarmente
“acculturati”, o se il contesto è accademico.
Velocità
La velocità con cui si pronunciano le parole è un altro elemento determinante per la
comprensibilità; se si parla troppo velocemente si avrà la tendenza a “mangiarsi” delle
sillabe, oppure a unire più parole in un lungo vocabolo poco comprensibile.
E’ anche ovvio che il pubblico, se la nostra esposizione è velocissima, tipo “mitraglia”, avrà
molte difficoltà a seguirci, e dopo pochi minuti non avremo più l’attenzione della maggior
parte dei presenti.
Allo stesso tempo parlare troppo lentamente impedisce al pubblico di seguire il filo logico
del ragionamento perché permette alla mente degli ascoltatori di divagare e di distrarsi, e
in definitiva può far arrivare alla noia più totale.
Come correggere questi difetti: fondamentale, anche in questo caso, la presa di
“coscienza” del problema; per la eccessiva velocità sarà necessario inserire delle pause, e
cercare di “scandire” ogni singola sillaba, in un po’ di lavoro di esercizio “a solo” per
cercare, lentamente, di correggersi; per la troppa lentezza il lavoro da fare sarà sicuramente
maggiore, perché spesso questa non è solo un’abitudine della “parlata” ma si accompagna
ad una maggiore difficoltà mentale della elaborazione delle frasi che si vogliono dire;
anche in questo caso, pause ed esercizio.
Ritmo
Si tratta di gestire un corretto ritmo di scansione degli argomenti; è importante valutare i
vari passaggi, e il tempo dedicato a ciascuna parte; non è bene preparare una
presentazione che preveda un argomento trattato in tre minuti, e un altro in trenta; in
questo caso probabilmente l’argomento troppo “lungo” deve essere suddiviso in più parti,
oppure quello “breve” accorpato con un altro.
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Chi ascolta deve avere il giusto tempo per acquisire quanto viene detto, e deve
comprendere, dalla durata di ogni argomento, la relativa importanza; un giusto equilibrio
permette di evidenziare, se necessario, quali sono i passi più delicati.
Per cambio di “ritmo” si intende anche il pronunciare delle frasi con velocità diversa,
alternando, cercando sempre di evitare la monotonia; una frase detta lentamente attira
l’attenzione, poi si può proseguire a velocità normale; una stessa frase di può dire due
volte: una prima molto veloce, e una seconda al “ralenty”: il tutto con l’obiettivo di fare una
sorta di “effetto speciale” connesso alla sfera uditiva.
Tono
Il tono della voce serve per più motivi: trasmettere emozioni (attraverso le intonazioni date
alle parole), utilizzare l’enfasi (attraverso l’aumento o diminuzione di velocità), evidenziare
ruoli (pensiamo alla voce di un narratore di fiabe quando “impersona” vari personaggi: la
voce della Nonna non sarà certamente uguale a quella di Cappuccetto Rosso, né tanto
meno a quella del Lupo).
Normalmente, e senza entrare in dettagli tecnici più pertinenti ad uno scopo professionale
(cantanti e simili) si può parlare di tono a tre livelli:
Tono “basso”
Tono “di petto”
Tono “nasale”
Per capire come è la voce di ciascuno c’è un metodo molto semplice: parlare normalmente
appoggiando leggermente la mano prima sull’addome, poi sul petto e infine sulla testa:
dove avremo avvertito maggiormente un senso di “vibrazione” lì si collocherà il nostro
“tono” di voce.
Di solito la voce “di petto” è più gradevole; la voce “bassa”, “addominale”, “di pancia”
risulta un po’ noiosa e “pesante”, mentre la voce “di testa”, “nasale”, “stridula” risulta
sgradevole e indisponente.
Non è facile modificare il proprio tono di voce, se non a prezzo di faticosi e lunghi esercizi;
un modo semplice è proprio quello di esercitarsi a recitare un discorso a voce alta tenendo
una mano appoggiata sul petto, e cercando di “provocare” le vibrazioni che ci indicano il
corretto “livello”.
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Volume
Il volume della voce è un altro aspetto talvolta trascurato; normalmente chiunque è in
grado di regolare abbastanza bene il volume della propria voce, ma l’errore che si
commette è quello di regolarlo come se dovessimo parlare alle persone in prima fila:
questo fa sì che gli ascoltatori in fondo alla sala percepiranno un tono troppo basso, e con
solo un minimo di disturbo (o anche senza) perderanno qualche parola o addirittura delle
intere frasi, con evidente scadimento della possibilità di comprensione.
Qualcuno, poi, ha lo “strano” difetto di iniziare una frase ad un
volume adeguato, perfettamente comprensibile, e poi piano piano ridurlo fino ad
arrivare a poco più di un sussurro.
Spesso è solo un problema di respirazione, in pratica “ci manca il fiato”; la soluzione è
molto più semplice di quanto sembri: introdurre delle piccole pause, per “riprendere fiato”,
all’interno di ogni frase (è anche possibile spezzare le frasi molto lunghe in frasi più corte, e
probabilmente anche più comprensibili.
Ad esempio: “Qualcuno, (pausa) poi, (pausa) ha lo “strano” difetto di iniziare una frase ad
un volume adeguato, (pausa) perfettamente comprensibile, (pausa) e poi (pausa) piano
piano (pausa) ridurlo fino ad arrivare (pausa) a poco più di un sussurro”.
In ogni caso, se la sala è ragionevolmente piccola (8-10 mt) è sufficiente impostare,
all’inizio, la voce come se dovessimo parlare proprio con la persona in fondo, più lontana;
questo permetterà di ottenere anche la loro attenzione, e sicuramente in prima fila non
avranno problemi.
Se la sala è più grande probabilmente per essere ascoltati dall’ultima fila saremmo costretti
a “forzare” un po’ la voce (come se stessimo gridando) e questo ci darà un intonazione
sicuramente non gradevole (tende ad andare “di testa”); in questi casi servirà un po’ di
esercizio, unito ad una buona respirazione, per evitare la “forzatura” e rimanere con un
tono “normale”.
Ovviamente per sale molto grandi, soprattutto se la nostra voce è decisamente
insufficiente, sarà opportuno ricorrere ad un impianto di amplificazione, ma con tutti i
problemi e i difetti e lo studio che questo comporta (vedi il relativo paragrafo “microfono”).
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Parlare in un contesto internazionale
Parlare in un contesto dove il pubblico ha provenienze diverse, dai più reconditi e lontani
paesi, ovviamente presenta varie difficoltà in più.
Innanzitutto il linguaggio e la scelta dei vocaboli: è necessario essere più semplici, cercare
di non usare termini dialettali, gerghi locali o settoriali, nonché parole difficili (in pratica
ridurre il proprio vocabolario a quelle 3-4000 parole che sono in grado di capire tutti o
quasi.
Anche per l’uso di metafore, immagini, simboli e colori sarà opportuno aver verificato
prima con qualcuno “del posto” quali possano essere delle particolarità del luogo, oppure
rimanere sempre sul più semplice e generico possibile.
Ovviamente spesso si deve tenere la propria presentazione in inglese, e a maggior ragione
dovremo evitare costruzioni di frasi troppo complesse: le slide, come supporto visuale, ci
saranno di grande aiuto per rendere il nostro messaggio più esplicito e facile da seguire.
La velocità dovrà essere molto minore: pur senza dimenticare l’enfasi e i passaggi di ritmo,
è bene che le pause siano molto allungate, e che la pronuncia di ogni parola sia
maggiormente “staccata” dalle altre: nel caso in cui disponiamo di una traduzione
simultanea (prevista in molti seminari di rilevante importanza) i traduttori ce ne saranno
oltremodo grati e potranno meglio fare il loro lavoro, a tutto nostro vantaggio.
In questo contesto la distribuzione preventiva del materiale, in formato anche più
dettagliato delle semplici slide può essere di grande aiuto, purché la distribuzione avvenga
con largo anticipo (ad esempio al momento della registrazione al mattino) in modo che la
lettura del materiale non distragga durante la presentazione, ma sia stato possibile almeno
“darci un’occhiata” prima dell’inizio.
Gestualità
Il gesto; la gestualità, in particolare con le mani, ma anche con il corpo, i piedi, la testa, gli
ammiccamenti, il sorriso… un’infinita serie di possibili mezzi comunicativi, con i quali
l’uomo fin dai primordi si è confrontato e li ha usati per una comunicazione che superasse i
limiti del linguaggio, spesso troppo semplificato e “artificiale” rispetto all’esigenza di
esprimere sentimenti e stati d’animo, talvolta sconosciuti allo stesso mittente.
Sul tema della gestualità le ricerche e gli studi hanno una vastità incredibile, e sono state
definite numerose “classificazioni” della gestualità e delle espressioni del viso.
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In questo ambito ci limitiamo a classificare i gesti in base alla funzione che essi possono
svolgere in una interazione tra due o più individui:
gesti emblematici (o convenzionali)
gesti illustratori (correlati al discorso)
gesti indicatori di uno stato emotivo (o affect displays)
gesti regolatori
gesti di adattamento.
Di questi, ovviamente, sono per noi particolarmente interessanti quelli del gruppo 2,
correlati al discorso; assolvono in particolare lo scopo di “illustrare” in qualche misura la
comunicazione verbale, e di aggiungere quindi una sorta di “canale visivo” al canale
auditivo proprio della comunicazione orale.
Possono essere equiparati ad un sistema di punteggiatura, di sottolineatura del discorso; si
possono classificare ulteriormente i gesti illustratori dandone un dettaglio esemplificativo;
secondo loro i movimenti delle mani illustrano il discorso:
indicando
mostrando una relazione spaziale (sopra-sotto)
mostrando un movimento nello spazio (attraverso-intorno)
indicando il ritmo dell' eloquio (battendo, per esempio, su un tavolo o un dito
sulla mano, o la mano contro la gamba)
eseguendo un movimento del corpo (cinetogrammi)
disegnando una figura (pittogrammi)
indicando la direzione di un pensiero (ideogrammi)
Purtroppo (o per fortuna ?) questi gesti e movimenti non sono in realtà uniformi, esiste
un'ampia varietà nell'eseguirli: le regole sulla loro esecuzione sono molto elastiche e quindi
le modalità gestuali dell' essere umano sono molto complesse e dipendenti da variazioni
soggettive.
Sono stati spesi fiumi di parole e di inchiostro sul merito di quale sia la “gestualità” più
corretta per un presentatore, e più o meno tutti sono concordi nel consigliare posizioni
iniziali neutre (in piedi, gambe leggermente divaricate, mani in basso, ecc. ecc.) e di cercare
di assumere questa posizione “neutra” più volte possibile; inoltre sono sconsigliate: mani in
tasca, avambraccio piegato a sostenere il gomito dell’altro braccio, mani dietro la schiena,
braccia intrecciate davanti al torace, gesticolare eccessivamente, non appoggiarsi al tavolo,
non stare dietro il leggio (se c’è), non dondolarsi sulle gambe, etc. etc.
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Tutto questo può anche essere corretto, però ha un grosso inconveniente: se stiamo a
pensare a tutto quello che NON dovremmo fare, e a quali siano i “messaggi” inconsci che il
nostro corpo trasmette, probabilmente faremo la fine di quel millepiedi che, il giorno in cui
la formica gli chiese come facesse a coordinare tutte quelle zampe, si bloccò disperato!
In effetti ci sono anche decine di elenchi più o meno estesi che danno significati ai gesti,
come, ad esempio:
Mani ai fianchi: nota come “Mussolini position”, da ai presenti un’idea di
arroganza, di sfida
Braccia incrociate: la percezione è di chiusura, di scarsa disponibilità al
dialogo e alle domande
Pollici nella cintura dei pantaloni: possa “alla John Wayne”, poco
professionale ed eccessivamente disinvolta
Mani incrociante davanti: “posa adamitica”, pare che l’oratore cerchi di
reggere la foglia di fico per non tradire la sua nudità
Mani intrecciate dietro: posa della “docenza spinta”, soprattutto quando
l’oratore assume questa posizione e si muove in sala lateralmente senza
degnare di uno sguardo i presenti
Mani congiunte: “posa della preghiera”, si ha l’impressione di un oratore
remissivo
Toccarsi il corpo o gli abiti: naso, orecchi, testa, occhiali, giacca, sono tute
forme di nervosismo
Mani in tasca: nota come posa del “guardate come sono disinvolto!”, tipica
dei maschietti che si sentono a proprio agio. Si perde l’efficacia gestuale e si
mostra un atteggiamento non molto professionale
Oggetti in mano: sono un “parafulmine” per scaricare le proprie tensioni. Si
esprime nervosismo
Uso della bacchetta per mostrare lucidi: si chiama la posa del “direttore
d’orchestra”. Nelle fasi di ascolto l’oratore tende a usare a sproposito il
pointer manifestando nervosismo
Appoggiarsi al tavolo (standovi davanti): “insicurezza, ricerca di un punto
fermo”
Appoggiarsi al tavolo (standovi dietro): “insicurezza”, volontà di stabilire e
mantenere le distanze
Braccio piegato che “sostiene” l’altro braccio al gomito: insicurezza,
ricerca di appoggio
Toccarsi il mento con la mano (come a “pizzicare” il mento): riflessione,
“sto pensando a quanto mi dici, ma non mi convince”
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Passarsi la lingua sulle labbra: dimostra disponibilità verso l’interlocutore,
interesse per quello che stiamo ascoltando
Alzare un sopracciglio mentre ascoltiamo: denota incredulità, sufficienza,
scarsa considerazione di quanto stiamo ascoltando
“Aggrottare” le sopracciglia (creando una “piega” al centro): dimostra
che non siamo affatto d’accordo con quanto stiamo ascoltando
Portare in avanti la testa: segnale di interesse, partecipazione, assenso,
approvazione, ricerca dell’altro
Flettere la testa a destra o a sinistra: simboleggia il “prestare orecchio”,
dimostra che siamo disposti ad ascoltare il nostro interlocutore
etc.
La cosa interessante è che questi elenchi spesso non sono concordanti, e, soprattutto, non
tengono affatto conto di differenze culturali anche profonde che possono sussistere sia tra
noi e il pubblico, sia tra i componenti del pubblico stesso (che quindi possono interpretare
i nostri gesti in modo del tutto anomalo rispetto a noi o rispetto agli altri).
E che dire, banalmente, di un presentatore che ha un problema fisico di mal di schiena? o
una lombosciatalgia? e che cerca, onestamente, comunque, di fare il suo lavoro stando in
piedi, ed è “costretto”, ogni tanto, ad appoggiarsi al tavolo per trovare sollievo? è forse un
segnale di insicurezza?
Da tutto questo ne consegue una regola sola, ma molto semplice: l’importante è essere
naturali, del tutto a proprio agio; ci sono persone che gesticolano molto poco, e ci sono
persone che gesticolano troppo; l’unico consiglio che si può dare è di non eccedere, né in
un senso né nell’altro.
Un minimo di attenzione quindi solo nel caso in cui abbiamo la tendenza ad immobilizzarci
(e questo è probabilmente causa di noia e assopimento nelle persone, soprattutto se oltre
a stare immobili abbiamo anche una voce monotona), oppure se abbiamo la tendenza
opposta a gesticolare troppo e a muoverci in modo che appare, e probabilmente lo è,
nervoso; in questo caso la cosa migliore da fare è ricorrere alla preparazione “pre-
presentazione” per ridurre il nervosismo, diminuire la dose di caffeina quotidiana, cercare
di fare una sessione sportiva il giorno precedente (anche una bella passeggiata può essere
sufficiente a scaricare il nervosismo) e, ovviamente, provare a “vederci” mentre stiamo
presentando.
In questo senso l’uso di una telecamera per riprendere la nostra performance (o le nostre
prove) e poi di riosservare criticamente il nostro gesticolare (è bene farlo ad audio
azzerato, proprio per concentrarsi su cosa il nostro corpo comunica senza essere distratti
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dalla voce) è un esercizio che porta ad un livello di consapevolezza sufficiente per evitare,
piano piano, almeno gli atteggiamenti più negativi.
Comunicazione non verbale
“Medium is the message”: questa frase fin troppo abusata di McLuhan sottintende un
aspetto talvolta trascurato: il messaggio che “passa” è condizionato in modo determinante
dal “canale” utilizzato.
Il processo percettivo segue infatti i canali visivo, uditivo, tattile e, anche, olfattivo e del
gusto.
Utilizzare un solo canale significa limitare il nostro messaggio, renderne comunque più
difficile la comprensione completa.
Una accorta gestione e utilizzo dei canali, privilegiando sicuramente quelli visivi e uditivi
(che hanno una predominanza sugli altri) ma non trascurando la possibilità di abbinare,
ove possibile, l’uso degli altri in un messaggio “coerente” e “coordinato”, aumentano in
modo significativo la possibilità di far “passare” quanto abbiamo da trasmettere.
La comunicazione avviene in larga parte (65% ) attraverso il canale visivo dei gesti; quasi
sempre l’interlocutore interpreterà in modo praticamente inconscio una serie di tali testi e
li includerà nel “messaggio” per interpretarne il significato.
La grande importanza e capacità di trasmettere messaggi utilizzando solo la mimica è
ampiamente dimostrato dalla comprensibilità dei film muti di Charlie Chaplin e Buster
Keaton, che avevano sviluppato una capacità mimica tale da permettere una comprensione
delle situazioni e del contesto indipendente dal parlato.
Lo studio del linguaggio del corpo ha visto un notevole interesse negli anni sessanta e
settanta, successivamente è stato un po’ ridimensionato e si è compreso, soprattutto, che
la estrema variabilità diatopica e diacronica rende molto difficile stabilire una sorta di
“Gestario” utilizzabile in modo analogo ad un “vocabolario dei gesti” per rendere
intelligibile una comunicazione “non verbale”.
Ad una analisi accurata la maggior parte dei comportamenti non verbali presenta
differenze di carattere culturale: ad esempio il movimento della testa in senso orizzontale è
“normalmente” associato ad un senso di “negazione, NO”, e il movimento in senso
verticale al senso di “affermazione, SI”; in Bulgaria, però, questi significati sono scambiati,
mentre in Grecia e in Sicilia il diniego si esprime con un secco movimento della testa
all’indietro.
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L’alzare un sopracciglio è normalmente considerato un segno di “attenzione,
riconoscimento”, ma talvolta esprime, da parte di un ascoltatore, un senso di sorpresa, di
non completo accordo o incomprensione; al tempo stesso, però, in Giappone tale gesto è
considerato sconveniente.
Il movimento delle mani è ancora più difficile da interpretare; culturalmente i mediterranei
(e in particolare gli italiani) sono considerati, dal resto del pianeta, come dei “gesticolatori”
eccessivi; in effetti il consiglio primo, per un presentatore tipico “italiano”, sarà quello di
controllare la propria esuberanza gestuale e di cercare di limitarla.
Anche il semplice gesto di enumerare dei punti utilizzando le dita è, in casi particolari, un
messaggio di “appartenenza” o di “non appartenenza” implicito: nella cultura Italiana (ed
europea in genere, per quanto mi risulta)
uno due tre quattro cinque
sei sette otto nove dieci
Contare sulle dita secondo la cultura Cinese
Osserviamo, a titolo di esempio, nella figura precedente la posizione delle dita nel numero
otto: per un occidentale questo sarà interpretato sicuramente come un due, mentre la
posizione del numero due sarà ambiguamente interpretata, in base al contesto, come un
due (numero), come il simbolo della vittoria (“V”, come iniziale di Victory) oppure, ancora,
come gesto per richiedere la ubicazione dei servizi igienici in un locale pubblico.
Il problema, quindi, anche in questo caso è la conoscenza del nostro pubblico, in modo da
poterne adottare, all’occorrenza, i tipici e significativi gesti che possono migliorare la
comprensione e la trasmissione di un messaggio; è anche abbastanza ovvio che l’utilizzare
la corretta gestualità, soprattutto quando questo è evidente, può essere anche percepito,
dal pubblico, come un gesto di “captatio benevolentiae”, di attenzione alla cultura e al
modo di pensare dell’interlocutore, e questo non può far altro che far aumentare la
benevolenza del pubblico verso il presentatore.
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Movimenti
Chiariamo innanzitutto cosa si intende per movimento: non quello relativo solo alle mani
e/o alla testa (gestualità), o alle espressioni del volto (mimica), ma proprio gli spostamenti
effettuati con tutto il corpo: oscillazioni sul posto, passi, camminare.
Spesso un presentatore inesperto o insicuro si “pianta” in una posizione precisa, se
possibile dietro un leggio, ci si aggrappa e evita ogni qualsiasi movimento; in questo modo
cerca di ottenere per via puramente fisica una “stabilità” e una “sicurezza” che non ha
raggiunto con la preparazione sull’argomento e sulla propria “tranquillità”.
In questo modo, però, le uniche cose che ottiene sono: irrigidimento muscolare e
articolare, formicolio alle gambe, crampi, inoltre la sensazione “fisica” che trasmette è
proprio quella che voleva evitare: insicurezza.
Il leggio, o qualsiasi tipo di supporto, è da usare solo per posizionarvi sopra una copia
delle slide, oppure degli appunti (scritti con caratteri molto grandi) con delle “parole
chiave” che ci aiutano a ricordare tutto il necessario, ma non per appoggiarvisi o peggio
aggrapparvisi.
Un presentatore DEVE muoversi: deve fare qualche passo a destra, a sinistra, lungo
l’eventuale corridoio, e questo per una lunga serie di ottimi motivi:
Creare una “dinamica” che spezzi il rischio della monotonia
Evitare intorpidimenti e crampi, fastidi che potrebbero distrarre l’attenzione del
presentatore stesso
Diminuire la distanza fra il presentatore e il pubblico
Sch
erm
o d
i p
roie
zio
ne
Percorsi di spostamento e posizioni
A
B
CD
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Ovviamente si dovrà prestare attenzione a non camminare troppo veloci ma piuttosto a
fare spostamenti lenti e misurati, cercando, ove possibile, di non voltare la schiena al
pubblico se non per il minimo indispensabile.
Un altro aspetto da curare è che si può benissimo spostarsi “lateralmente”, ossia
continuando a guardare verso il pubblico (per mantenere il “contatto visivo”) per esempio
nel percorso da “A” a “B” e viceversa), così come, con un minimo di attenzione, è possibile
camminare “all’indietro” nel percorso da “C” a “D”); quando poi si fanno delle “soste” è
bene seguire la regola di base del Tai Ji: “ginocchia sbloccate”, “peso uniformemente
distribuito sulle due gambe”, “spostamento lieve del peso da un piede all’altro e viceversa”.
Si potrà “indugiare” in posizioni “neutre”, (es. la posizione “B”) ossia che non coprono lo
schermo e che ci permettono di vedere comunque buona parte del pubblico, oppure, ma
senza indugiarvi troppo, alle spalle (es. la posizione “C”) del pubblico stesso (questa è una
posizione “Strategica” soprattutto quando stiamo mostrando una slide particolarmente
complessa, e vogliamo che l’attenzione sia completamente concentrata su di essa e non
“distratta” dal presentatore); dovremo invece evitare di soffermarsi in posizioni che
possono disturbare la lettura delle slide, come la “D”, dove tutto il pubblico seduto sulle
sedie rosse vedrà noi sovrapposti allo schermo, con evidente disturbo).
In ogni caso la maggior parte del tempo la passeremo nella posizione “di partenza”
(indicata con “A”) ma evitando di trasformarsi in stoccafissi.
Per una annotazione finale sul tema “movimento” è necessario fare qualche cenno alla
prossemica, ovvero allo studio e all’analisi della distanza che separa due o più interlocutori.
Nella prossemica vengono definite 4 “zone”, corrispondenti approssimativamente a 4
cerchi2 che circondano la persona:
la zona intima – da 0 a 45 cm: è la zona
privata, di massimo contatto viene condivisa
solo con persone di cui si ha fiducia e stima;
è possibile il contatto fisico
la zona personale – da 45 a 120 cm: vi
ammettiamo le persone che non sono
semplici conoscenti, ma che non sono tanto
vicini da poter entrare nella zona intima, è
2 In realtà le distanze indicate sono molto approssimative, e risentono anche degli usi e costumi locali; in area
mediterranea si tende a “diminuirle”, mentre in oriente (es. Giappone) si tende ad aumentarle rispetto alla media; questo
è però difficile da standardizzare, anche perché ovviamente si deve tener conto del tipo e grado di ceto sociale, del
lavoro, dell’ambito di riferimento etc.
Zona Intima
Zona Personale
Zona Sociale
Zona Pubblica
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una distanza che in ogni caso evita il contatto fisico
la zona sociale – da 120 a 360 cm: vi si svolge la comunicazione superficiale con
colleghi di lavoro e conoscenti.
la zona pubblica – oltre 360 cm: è tutto lo spazio oltre quello sociale; evita il
coinvolgimento e il rapporto diretto fra le persone.
E’ evidente che questo vale sia per il presentatore che per gli ascoltatori, quindi le “zone”
tendono reciprocamente a sovrapporsi; il presentatore dovrà fare la massima attenzione
alla gestione di tali “distanze”, in base al momento della presentazione e al messaggio che
vuole trasmettere.
All’inizio, evidentemente, sarà necessario mantenersi nella cosiddetta “Zona Sociale”,
passando gradatamente nella “Zona Personale” in misura proporzionale sia al grado di
intimità che saremo riusciti a costruire con il pubblico, sia al grado di “coinvolgimento” che
vorremo creare.
In ogni caso non potremo sconfinare nella “Zona Intima”, a rischio di provocare delle
reazioni di ostilità e di “rifiuto” nelle persone, ovviamente molto poco consone ad una
presentazione che vorrebbe, quanto meno, essere “persuasiva”.
Sguardo
Lasciamo per ultimo lo sguardo, ma, come si dice in questi casi, “last, but not least”. Lo
sguardo comunica, molto più di quanto talvolta siamo convinti di pensare.
Racconta Camilleri (Camilleri, 1995) “Due siciliani, arrestati in terra straniera per un certo
reato, fossero stati rinchiusi in celle separate perché non potessero parlarsi e concordare
una comune linea di difesa. Al momento del processo davanti al re, i due siciliani vennero
fatti avanzare a debita distanza l’uno dall’altro, ma a tiro di sguardo. E infatti
fulmineamente si “taliarono”. Intercettati a volo quegli sguardi, il primo ministro, che era
siciliano, gridò: “Maestà, parlaru!”. Era inutile ogni confronto, i due si erano intesi senza
aprire bocca.”
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E, più avanti : “domandai a Pandolfini durante una pausa del lavoro che allestivamo a
Bergamo, al Donizzetti: “Ma Pirandello e Martoglio, quando stavano assieme, che so, alla
prova di una commedia, si parlavano ?” “Si” mi rispose pronto “si parlavano a lungo, si
facevano discorsi complicati, che non finivano mai. Però non a parole” “E come, allora?”
“Niente. Non aprivano bocca. Si taliavano”.
Taliarsi: una versione dialettale che significa solo, apparentemente, guardarsi; ma, in realtà,
significa molto di più: significa comunicare con lo sguardo, ma una comunicazione
completa che sostituisce, se necessario, le parole.
Basta pensare all’esatto contrario: alla convenzione sociale che prevede, per degli estranei
che occupano uno spazio ristretto, di non “guardare negli occhi”: il solo farlo sottintende
un inizio di comunicazione, una volontà di comunicazione, e, se involontario, creerà
imbarazzo e immediato “distogliere” lo sguardo.
Anche gli animali hanno questa particolarità: guardare fisso negli occhi un cane potrebbe
scatenare una reazione violenta, perché questo atteggiamento è visto come una sfida (e
questo, tra l’altro, è in parte vero anche nelle convenzioni umane: il più importante segno
di “sottomissione” in molti rituali, religiosi e non, è proprio quello di “abbassare lo
sguardo”).
Il primo punto da sottolineare, riguardo allo sguardo, è che deve puntare proprio agli
occhi, per stabilire quel “contatto” che crea comunicazione.
Che il “contatto”, poi, sia molto percepibile, è
facilmente dimostrabile con un piccolo esperimento:
posizionatevi di fronte ad un volontario a circa due
metri di distanza, e provate a “guardarlo” in faccia;
fatevi dire quando effettivamente lo state
“guardando” negli occhi, e quando invece il vostro
sguardo sarà altrove (provate, ad esempio, a
“guardare” la bocca, la fronte, il mento, le guance, le
orecchie ecc.); vedrete che quando il contatto è
“spezzato”, anche di pochi centimetri, la persona se ne accorgerà.
Uno sguardo sfuggente, puntato nel vuoto, viene riconosciuto; l’occhio del presentatore
che “guarda” verso il fondo della sala, viene individuato dai presenti che ne percepiscono,
evidentemente, la “fissità” e “innaturalità”, e quindi avranno maggiori difficoltà a entrare “in
comunicazione”.
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Un buon presentatore deve guardare negli occhi il pubblico; ma come è possibile, se sono
molti? si dovrà procedere gradualmente a “contattare” con lo sguardo una persona alla
volta, in zone diverse e via via lontane della sala, fino a “coprire” il maggior numero
possibile di presenti.
Attenzione, però: si deve “stabilire
il contatto”, e questo è impossibile
se guardiamo negli occhi una
persona per pochi secondi; in
questo caso avremo un effetto
“zapping” che fa pensare ad un
presentatore impreparato,
insicuro, nervoso.
Dobbiamo invece concentrarsi su una persona, “guardarla negli occhi”, parlare “solo con
lei” per almeno una frase, fino ad un punto, una pausa, per poi passare alla persona
successiva.
L’importanza dello sguardo è particolarmente evidente nella PNL, dove la direzione che
assume durante una conversazione funge da “segnale d’accesso” per capire quale sia il
canale di comunicazione preferito dall’interlocutore.
Ovviamente quando abbiamo di fronte un pubblico numeroso ed indifferenziato è
impossibile utilizzare questi segnali di accesso per adeguare le nostre metafore al canale
preferito dall’interlocutore.
Visivo costruito
Cinestesico
Auditivo costruito
Visivo ricordato
Auditivo ricordato
Auditivo digitale
Normalmente però in un pubblico può essere presente una persona particolare, il
cosiddetto “decision maker”: potrebbe essere il Preside della Facoltà, il Rettore,
l’Amministratore Delegato di una azienda potenziale cliente, il Direttore Generale di un
importante istituto di Ricerca: in ogni caso la persona che sarà più importante persuadere,
al limite l’unica per cui sia veramente necessario ai nostri scopi.
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Ancoraggi
Uno dei punti più sottolineati della PNL è il concetto di “ancoraggio”. La possibilità pratica
di richiamare alla mente (nostra e del pubblico) stati d’animo, sensazioni, attenzione.
Ma come è possibile? si tratta, in pratica, di stabilire un “collegamento” (chiamato
“ancoraggio”) tra una particolare posizione o situazione e lo stato d’animo che vogliamo
suscitare “a comando”.
Non è affatto facile, ma nel caso delle presentazioni, soprattutto se sono di durata
abbastanza lunga, consiste nell’adottare un particolare gesto, un particolare tono della
voce, una particolare inclinazione della testa, una particolare posizione nella sala ogni qual
volta dobbiamo ottenere una reazione precisa.
Ad esempio: nei punti di cui vogliamo sottolineare l’importanza potremmo:
Alzare il volume della voce (poco, ma avvertibile; un po’ l’effetto, illegale,
usato da tutte le stazioni radiotelevisive quando viene mandata in onda la
pubblicità)
Posizionarsi nel punto “B” (vedi paragrafo “movimento”)
Unire le mani davanti al busto (posizione del “ragno che fa le flessioni”, già
citata)
Piegare leggermente la testa verso sinistra (come ad indicare lo schermo,
sempre in riferimento alla posizione “B”)
Ovviamente queste sono solo indicazioni di massima, e ognuno è libero, anzi “deve”,
interpretare come meglio crede ogni situazione; l’importante è che questi atteggiamenti
“stabiliti” vengano usati con coerenza: ogni volta che vogliamo sottolineare quella
particolare situazione, e solo in quelle occasioni.
Abbigliamento
“L’abito non fa il monaco”…. ok, ma forse “l’abito fa il presentatore”?
L’abbigliamento è un aspetto talmente abituale, quotidiano, che viene talvolta
sottovalutato e trascurato; in questo senso non è necessario né possibile ovviamente
fornire precise regole e indicazioni, se non alcune dettate anche dal consueto buon senso.
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L’abito deve essere adeguato alla situazione
Se dobbiamo fare una presentazione in ambiente accademico ma non in una occasione
formale andrà benissimo una giacca sportiva, anche con una maglia; da evitare comunque
colori accesi o contrasti poco eleganti.
Se l’occasione è molto formale (premi, inaugurazioni ecc.) sarà necessario un abito formale,
in qualche caso addirittura di rigore lo smoking; è bene sapere che per fortuna ci sono
delle ditte che li noleggiano…
Dobbiamo comunque cercare di adeguare il nostro abbigliamento a quello dell’ambiente:
negli anni ’70 andare in una multinazionale senza la giacca e la camicia azzurra (ad
esempio in pullover) avrebbe squalificato chiunque qualsiasi cosa avesse da dire.
In alcuni casi ci sono delle regole più o meno formali da rispettare; divertente, ad esempio,
l’usanza tutta inglese di dare un preciso significato al colore e disegno delle cravatte, per
cui indossarne una richiede uno studio attento delle regole per evitare gaffes clamorose
(come indossare una cravatta di Oxford mentre facciamo una presentazione a
Cambridge…)
Può essere un’occasione interessante l’uso di abiti tradizionali locali, se stiamo facendo una
presentazione in ambito internazionale; indossare il costume locale normalmente viene
molto apprezzato dagli ascoltatori, ma dobbiamo avere la certezza di non violare alcuna
regola in proposito (per il colore, la forma, il modo di indossarlo) nonché fare delle
opportune prove per verificare che ci troviamo a nostro agio, altrimenti è meglio attenersi
alla propria cultura.
L’abito deve essere comodo
Attenzione a non indossare abiti troppo stretti (possono rendere più difficoltosa la
respirazione) e peggio ancora le scarpe: possono diventare uno strumento di tortura se si
deve stare in piedi per qualche tempo.
Attenzione ad abiti che possono provocare pruriti (lana e simili) perché saremo sotto lo
sguardo di tutti, e grattarsi non è socialmente molto apprezzato.
Attenzione alla temperatura: spesso, purtroppo, nelle sale da presentazione la temperatura
è sopra la media, e il presentatore, vuoi anche per il normale nervosismo e impegno, ha la
tendenza a sudare: meglio quindi un abito più leggero che uno più pesante, in ogni caso.
L’abito non deve essere appariscente
Colori eccessivamente sgargianti, scollature profonde, gonne ridottissime, calze a rete,
tacchi alti, cravatte a colori e disegni vivaci, etc.: il rischio è che l’attenzione sia attratta
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troppo dalla nostra persona, e che il messaggio si perda; se un interlocutore è distratto
dalla scollatura, probabilmente pensa a tutt’altro e non ascolta il messaggio.
Identico discorso vale per status symbol, accessori di qualsiasi genere (spille, fazzoletti,
fermacravatte) troppo vistosi, pesanti collane d’oro, fasci di braccialetti che faranno rumore
nel nostro gesticolare, orologi molto vistosi e troppo grandi; il pubblico sarà distratto e/o
influenzato da tali “dettagli” e potrebbe perdere parte del nostro discorso.
Se ci accorgiamo che il nostro abbigliamento è sconveniente o troppo vistoso (e lo
percepiamo dalle reazioni e dagli “sguardi a raggi-x” del pubblico) probabilmente avremo
una reazione di nervosismo, a tutto scapito della qualità della presentazione.
In definitiva quale abbigliamento preferire? difficile generalizzare, ma una indicazione di
massima potrebbe essere (moda permettendo):
UOMO: abito spezzato, colori tenui (blu, grigio scuro, marrone scuro), camicia chiara in
tinta unita (evitare il bianco, troppo “luminoso”, meglio il grigio perla o l’azzurro),
cravatta in tinta unita, non troppo vistosa (rosso scuro, blu, grigia), scarpe comode nere
o marroni.
DONNA: tailleur in tinta pastello o grigio, gonna sotto il ginocchio o meglio pantalone
largo (comodo), pochi gioielli non vistosi (si il giro di perle piccole, no la collana di
grandi cristalli Swarowsky) e non rumorosi (in particolare i braccialetti: il tintinnio di una
decina di braccialetti metallici mentre agitiamo le mani non è un buon sottofondo
musicale).
In ogni caso, al solito, il consiglio è comunque di essere “noi stessi”; se con un
abbigliamento non ci sentiamo a nostro agio, probabilmente questo verrà percepito;
meglio trasmettere sicurezza in Blue Jeans che insicurezza in Smoking.
Ultima raccomandazione (ripetuta): occhio a cerniere lampo, bottoni e altro: prima di
“andare in scena” prendere la buona abitudine di fare un ultimo controllo che tutto sia a
posto, e se per caso durante la presentazione ci accorgiamo di qualcosa che non va
(cerniera abbassata, scollatura eccessiva a causa di un bottone maligno) la cosa migliore
che possiamo fare è sistemare la cosa nel modo più semplice e meno appariscente
possibile, senza neanche chiedere scusa: se per caso qualcuno non se ne è accorto, meglio
non attirare l’attenzione e continuare con il nostro discorso.
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Stile
Dopo una lunga serie di punti di “attenzione”, di raccomandazioni, di aspetti da controllare
ed eventualmente migliorare, come possiamo ammettere che esistono decine di “modi” di
presentare, di “interpretare” il ruolo del presentatore (basti pensare ai vari personaggi della
TV…) tutti diversi uno dall’altro?
Semplicemente perché esistono innumerevoli “stili”, di “modi di essere”, ognuno dei quali
ha pregi e difetti e può essere più o meno “adatto” in varie situazioni e circostanze.
Possiamo tracciare uno specchio riepilogativo (per quanto non esaustivo) dei vari stili, in
modo da evidenziarne i lati migliori e i possibili rischi:
Stile Quando serve e/o è positivo Rischi
Vivace, animato Intrattenere il pubblico
Può apparire incongruo quando
dobbiamo trasmettere contenuti
seri.
Disinvolto,
informale
Mette le persone a proprio
agio, ottimo per presentazioni
molto interattive
Non funziona bene con persone che
non vogliono stabilire un immediato
rapporto confidenziale, appare poco
professionale
Carismatico Trascina il pubblico, fa presa e
rapisce l’attenzione
Il pubblico potrebbe essere
sospettoso, domandarsi se c’è
sostanza sotto la superficie
apparente
Provocatorio Capace di far passare un
messaggio forte.
Potrebbe apparire troppo forte,
eccessivo
Didattico,
scolastico
Ottimo per presentazioni molto
dettagliate
Può diventare noioso, piatto, troppo
dettagliato
Seducente,
affascinante,
accattivante
Coinvolge i sentimenti del
pubblico
Troppo alla buona in alcuni
ambienti e ambiti
Formale Migliore in presentazioni molto
strutturate, senza interazione
Impedisce l’interazione con il
pubblico
Umoristico
Mette le persone a proprio
agio, le persone accettano il
contenuto più volentieri
Può diminuire l’importanza del
contenuto, essere incongruo con la
serietà necessaria, usare uno
humour inappropriato o offensivo
Ironico
Rivela strati profondi di
significato, riesce a trovare il
lato beffardo nelle situazioni
Rischia di suonare cinico e
sarcastico, genere “io so tutto”
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difficili
Neutrale Efficace in situazioni mutevoli
ed instabili
Può apparire vago, troppo prudente
o riluttante, che non si sbilancia
Pratico,
terra-terra
Appare attendibile, senza
obiettivi nascosti
Manca di finezza, specialmente in
situazioni che richiedono sfumature
Riservato Appare senza falsi entusiasmi
Può avere difficoltà ad entrare in
rapporto con il pubblico, apparire
senza convinzioni o passioni
Modesto, schivo Rende il messaggio più
evidente del presentatore
Può sembrare privo di autorità,
fiducia in se stesso, sicurezza
E’ evidente che ognuno di noi è se stesso, e che non sarà possibile far diventare da corsa
un cavallo da tiro; ciononostante ciascuno di noi può migliorare le proprie prestazioni, se
solo lo desidera, e, in ogni caso, cercare di sfruttare al meglio le proprie caratteristiche,
affrontando una presentazione con il proprio stile personale.
Citazioni
L’uso di citazioni latine, in un discorso, dà sempre un “certo tono”, anche se si devono
tenere presenti alcune fondamentali regole:
1. Sempre verificare che il nostro uditorio sia in grado di percepire l’esatto
significato di ciò che intendiamo, in caso di dubbio meglio aggiungere anche la
traduzione
2. NON abusare: una citazione ogni tanto può essere gradevole, una ogni cinque parole
diventa eccessiva e infastidisce, tal quale un abuso di termini stranieri in una mania
esterofila (spesso anglofila) quando esistono termini altrettanto efficaci e diffusi in
italiano corrente
3. Attenzione ad usare la citazione CORRETTA: niente di peggio di usare una citazione
a sproposito, e magari tradurla in modo errato: se nel pubblico qualcuno percepisce lo
svarione la figura meschina è tale da inficiare una buona parte del lavoro svolto.
Latino Significato
A
A fortiori A maggior ragione
A potiori Da un punto di vista più valido
Ab absurdo Che discende da una premessa assurda
Ab aeterno Fin dall’eternità, da sempre
Ab imis fundamentis Dalle più profonde fondamenta, totalmente.
Ab ovo Dalle origini
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Ab uno disce omnis Da uno capisci come sono tutti
Absit iniuria verbis Non ci sia offesa nelle parole
Acta est fabula Lo spettacolo è finito
Ad abundantiam In più, per giunta, per di più
Ad Kalendas Graecas Alle calende greche (mai)
Ad hoc Appositamente
Ad litteram Alla lettera
Ad maiora ! Verso traguardi maggiori!
Ad quid ? A quale scopo? per quale motivo?
Ad unguem In modo preciso, alla perfezione
Ad usum Delphini Cosa falsata a sostegno di una tesi
Adducere inconveniens non
est solvere argomentum
Portare eccezioni non è risolvere la questione
Alieno more Secondo le usanze altrui, come piace agli altri
Alius et idem Diverso e uguale
Alter ego Un altro me stesso
Altum silentium Profondo silenzio
Ante litteram Prima che una cosa fosse scritta, che fosse ufficiale, che
fosse nota o di moda
Apertis verbis A chiare lettere
Aquila non captat muscas L’aquila non si cura delle mosche
B
Beati monoculi in terra
caecorum
Beati i guerci nella terra dei ciechi
Brevi manu Da mano a mano (direttamente)
C
Carpe diem Cogli l’attimo fuggente
Casus belli Circostanza degna di provocare una guerra (elemento
scatenante)
Cessat Rimane
Ceteris paribus A parità di tutte le altre circostanze
Conditio sine qua non Condizione indispensabile
Contra legem Contro la legge
Contra spem Contro (ogni) speranza
Coram populo Davanti a tutti (al popolo)
Cresci eundo Cresce a mano a mano che avanza
Cui prodest? A chi giova?
D
Datur omnibus Si dà a tutti
De auditu Per sentito dire
De facto Di fatto (contrapposto a de iure)
De gustibus non est
disputandum
Sui gusti non si deve discutere
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De iure Di diritto,per legge (contrapposto a de facto)
De lana caprina Di cosa di nessuna importanza
De plano In piano, senza difficoltà
Dicitur Si dice
Dictum factum ! Detto fatto!
Do ut des Ti do perché tu mi dia
Domina omnium et regina
ratio
La ragione sia regina e padrona di tutti
Dulcis in fundo Il dolce è alla fine
Dura lex sed lex E’ una legge dura, ma è la legge
E
E converso Di contro, da un altro lato, da un diverso punto di vista
E pluribus unum Da molti, uno
Entia non sunt
multiplicanda sine
necessitate
Le “entità” non devono essere moltiplicate senza necessità
(Ogni soluzione più semplice è sempre migliore e ha
maggiori possibilità di essere corretta)
Erga omnes Nei confronti di tutti
Ergo Quindi,
Errare umanum est,
perseverare autem
diabolicum
Errare è umano, perseverare diabolico
Est modus in rebus C’è una misura nelle cose
Ex abrupto Improvvisamente
Ex aequo Alla pari
Ex cathedra Dalla cattedra, dall’alto della propria posizione
Ex commodo Con calma, senza fretta
Ex professo Con cognizione di causa, con competenza
Exceptis excipiendis Fatte le debite eccezioni
Exempli gratia Per esempio
Experimentum crucis Prova cruciale
Extrema ratio Ultimo argomento
F
Facta, non verba Fatti, non parole
Favete linguis ! State zitti!
G
Gutta cavat lapidem La goccia scava la pietra
H
Hit et hillic Qua e là, un po’ ovunque
Hic et nunc Qui ed ora, immediatamente, adesso
His fretus Fidando su tali argomenti
Historia magistra vitae Storia maestra di vita
Hoc opus, hic labor est Qui è la fatica, qui è la difficoltà
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Hodie mihi, cras tibi Oggi a me, domani a te
Homines dum docent
discunt
Gli uomini, mentre insegnano, imparano
Homo est animal bipes
rationale
L’uomo è un animale bipede e dotato di ragione
Homo proponit sed Deus
disponit
L’uomo propone ma Dio dispone
Honoris causa A titolo d’onore
Horribile visu Orribile a vedersi
I
Ictu oculi A colpo d’occhio
Ibidem Nello stesso luogo
Id est Ciò vuol dire, cioè
Ignoti nulla cupido Di ciò che non si conosce non c’è desiderio
Impossibilium nulla
obligatio est
Non v’è nessun obbligo nei confronti delle cose
impossibili
In cauda venenum Il veleno è nella coda (alla fine)
In claris non fit interpretatio Nelle cose chiare non serve l’interpretazione
In dubis abstine Nei casi dubbi, astieniti
In extremis All’ultimo momento
In fieri In divenire, durante
In limine Sulla soglia, sul limite
In medias res In mezzo alle cose
In medio stat virtus Il giusto sta nel mezzo
In primis Soprattutto, prima di tutto
In re Nella realtà delle cose, nei fatti
In saecula saeculorum Nei secoli dei secoli (per sempre)
Intelligenti pauca Per la persona intelligente basta poco
Inter nos Tra di noi
Ioci causa Per scherzo
Ipse dixt Lo ha detto lui (intendendo persona assolutamente degna
di fede)
L
Labor limae La faticosa opera della lima
(Indica il paziente lavoro di affinamento di un'opera)
Lapsus calami Errore di scrittura
Lapsus linguae Uno scivolone della lingua
Lato sensu In senso lato
Laudatore tempore acti Si stava meglio quando si stava peggio
Licet E’ lecito, è permesso
Lupus in fabula Il lupo nel racconto
(si dice di una persona di cui si sta parlando e arriva
inaspettata)
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41
M
Melius abundare quam
deficere
Meglio eccedere che scarseggiare
Mens sana in corpore sano Mente sana in un corpo sano
Maiora premunt Urgono cose più importanti
Manu militari Con l’aiuto della forza militare
Manus manum lavat Una mano lava l’altra
Miscere sacra profanis Mescolare cose sacre e profane
More maiorum Secondo il costume degli antichi
Mors tua vita mea Morte tua, vita mia
Mutatis mutandis Cambiato ciò che bisogna cambiare
Multa paucis Molte cose in poche parole
N
Necessitate cogente Sotto la spinta della necessità
Ne quid nimis Niente di troppo
Nemo propheta in patria Nessuno è profeta nella sua patria
Nescit vox missa reverti La voce, una volta emessa, non può più tornare indietro
Nihil difficile volenti Niente è difficile per chi vuole
Nimium ne crede colori Non fidarti troppo del colore
Non expedit Non lo si deve fare
Nomen omen Il nome è un presagio (è indicativo)
Non multa sed multum Non molte cose, ma molto
(Qualità più che quantità)
Non plus ultra Non più in là
Non sequitur Non ne consegue
Non causa pro causa Una non-causa spacciata per causa
Nunc est bibendum Adesso finalmente si può bere
O
O tempora, o mores Che tempi, che costumi
Obtorto collo A collo storto (contro voglia)
Omnia mutantur Tutto cambia
Omnia munda mundis Tutto è puro per i puri
P
Pacta sunt servanda I patti vanno rispettati
Panta rei Tutto scorre
Parva sed apta mihi Piccola ma adatta a me
Pecunia non olet I soldi non puzzano
Post hoc ergo propter hoc Dopo di ciò, quindi a causa di ciò
Prima facie Al primo aspetto, all’apparenza
Pro die Al giorno
Q
Quae nocent docent Le cose che nuocciono istruiscono
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42
Qui pro quo Falsa interpretazione, malinteso
Quid est veritas ? Cosa è la verità?
Quod erat demostrandum Come volevasi dimostrare
Quomodo In che modo, il modo in cui
R
Rebus sic stantibus Stando così le cose
Refugium peccatorum Il rifugio dei peccatori (di chi sbaglia)
Relata refero Riferisco ciò che mi è stato riferito
Repetita iuvant Sono utili le cose ripetute
S
Semel in anno lecit insanire Una volta all’anno è lecito impazzire
Sic stantibus rebus Stando così le cose
Similiter Similmente
Sine causa Senza causa
Sine glossa Senza commento
Sit venia verbo Mi sia scusato il dire
Sponte sua Di sua volontà
Statu quo Lo stato dei fatti
Statu quo ante Lo stato dei fatti precedente
Super partes Al di sopra delle parti
Superflua non nocent Il superfluo non è dannoso
Sursum corda ! In alto i cuori ! (coraggio!)
Suscipe Accogli, accetta
Sub iudice Sotto il giudice
Summam manum addere Dare l'ultima mano
(Indica l'ultima revisione e perfezionamento di lavoro)
T
Tabula rasa Tavola pulita (aver sgombrato il campo da qualsiasi
questione)
Tacitulus taxim In silenzio, piano piano
Temporibus illis A quei tempi
Tertium non datur Non esiste una terza alternativa
U
Ubi maior minor cessat Quando c’è chi vale di più, chi vale di meno non conta.
Ultima ratio Ultima ragione, misura estrema.
Una tantum Solo una volta ogni tanto
Usque ad finem Fino alla fine
Usque tandem ?! Fino a quando ?!
Ut sopra Come sopra
Utere temporibus Sfrutta il momento felice
Utilitas causa Per convenienza
V
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43
Verba volant, scripta
manent
Le parole volano via, ciò che è scritto rimane
Veritas filia temporis La verità è figlia del tempo
Vis comica La forza comica
(Indica la comicità di una situazione o un personaggio)
Vox clamantis in deserto Voce di uno che grida nel deserto (voce inascoltata)
E, fuori tabella, l’importantissima, nel nostro caso, “Poeta nascitur, orator fit”, ossia Poeti
si nasce, oratori si diventa.
Le influenze dell’ambiente: gruppo ristretto o platea
Un presentatore, la presentazione stessa, si devono adattare al pubblico; ovviamente una
variabile molto importante è la numerosità di questo pubblico.
Un gruppo ristretto si presta a presentazioni più informali, meno strutturate, dove è
possibile (tempo permettendo) lavorare molto sul “feedback” che ci arriva dalle persone,
soprattutto perché questo ci permette di approfondire meglio argomenti che non vengono
compresi; d’altro canto un gruppo ristretto ci espone maggiormente al rischio di critiche
dirette e mirate (o semplicemente l’effetto di un “disturbatore”) e quindi dobbiamo sia
essere pronti alle critiche (basta riflettere prima su quali possano essere, e preparare delle
risposte ragionevoli…) sia a gestire, in modo sempre gentile ma fermo, l’eventuale
disturbatore, al limite con la classica frase: “La ringrazio per l’osservazione, ma
approfondirla bene ci richiederebbe troppo tempo, in questo momento non vorrei abusare
della pazienza e del tempo di tutti i presenti, ma potremmo trattenerci alla fine per
discuterne”…
Ricordiamoci che il gruppo ristretto (7-10 persone) ci permette di gestire a meglio la
disposizione sia del tavolo (in base al tipo di riunione che vogliamo tenere) sia la posizione
delle persone al tavolo stesso (talvolta è possibile mettere dei “cavalieri” con il nome dei
partecipanti, così da porre le persone che più ci interessano – i “decision maker” – nel
punto dove possiamo meglio controllarne eventuali feedback; attenzione però a non
mettere il “decision maker” vicino al presentatore, perché il rischio è di concentrarsi
esclusivamente su di esso e ignorare il resto del pubblico che, per reazione, potrebbe
diventare negativo o disturbatore.
La platea, soprattutto se veramente ampia (oltre il centinaio di persone, sala grande piena
o anfiteatro tipo cinema…) può creare dei problemi specifici.
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Prima di tutto il timore, specialmente le prime volte che si affronta un pubblico così
grande: attenzione quindi alla preparazione (per essere proprio sicuri di cosa dire e come
dirlo) e alle fasi di preparazione “anti ansia”.
Poi, attenzione a non concentrarsi SOLO sulle prime file o peggio ancora solo sulla prima
fila, ignorando il resto della platea: il nostro sguardo a maggior ragione dovrà “coprire”
tutta la sala indugiando qualche secondo su vari punti; questa “attenzione”, anche se in
realtà non riusciremo a vedere bene i volti e le espressioni delle persone dopo la 10a-15ma
fila, verrà percepita dal pubblico, e questo è l’importante.
Infine, se dobbiamo parlare ad un grande pubblico quasi certamente ci servirà un impianto
di amplificazione (microfono) e questo significa che DOBBIAMO sicuramente aver fatto
delle prove, in modo da regolare al meglio sia il volume della voce (il microfono richiede
che si parli quasi piano, per evitare effetti distorsivi) sia i possibili spostamenti (per evitare,
nella sala, eventuali punti dove il microfono entra in “effetto larsen”, ossia fischia…)
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Le fasi della presentazione: Introduzione, sviluppo, chiusura
Introduzione (Exordium)
L’esordio costituisce una delle parti più importanti della nostra presentazione; abbiamo
pochi decimi di secondo prima che i nostri ascoltatori, vedendoci alzare per la prima volta,
si formino quella che si chiama “prima impressione”, e abbiamo pochi minuti, non più di
uno o due, per “catturare” la loro attenzione, e conquistarci il “diritto” di essere ascoltati
almeno per una parte della nostra presentazione.
E’ bene studiare molto attentamente l’esordio, valutando tutte le possibili sfaccettature e
reazioni a eventuali battute o aneddoti; non è opportuno, anzi è proprio controproducente
fare una battuta a cui nessuno sorride, o che addirittura rischia di indisporre una parte del
pubblico (quindi niente barzellette sessiste, o anche solo larvatamente razziste, niente
politica, sport meglio di no, figuriamoci argomenti religiosi: tabù!).
Era abbastanza usuale, nei manuali di “public speaking” di inizio ‘900, trovare il
suggerimento di iniziare la propria performance con una “battuta”: da manuale l’esempio
di Douglas McArthur3, che inizia proprio con un piccolo e divertente aneddoto a lui
capitato proprio la mattina della presentazione (vero ? inventato ? poco importa…), che
strappa una risatina ai presenti; attenzione però perché non è affatto facile strappare una
risata (è spesso difficile anche per i professionisti dello show) e quindi non è bene farci
conto; inoltre si deve sempre valutare sia il contesto che l’uditorio: di fronte a decine di
Professori Universitari non è probabile che una “battuta”, se non incredibilmente azzeccata,
sia proficua.
Il suggerimento in ogni caso rimane ancora valido, è riuscire a strappare una risata
(contenuta) nel pubblico: sicuramente è molto positivo, perché crea una disposizione
favorevole nei nostri confronti che poi si rifletterà su tutta la presentazione; è però
indispensabile che la “battuta” presenti alcune caratteristiche:
deve essere “adeguata” (attenzione all’uditorio, alla sua possibile sensibilità politica,
morale, linguistica, di genere…)
è preferibile fare una battuta “su se stessi” e su una propria personale disavventura,
piuttosto che riferirsi a qualcun altro
è bene che NON sia una banale barzelletta, che spesso è conosciuta dalla
maggioranza dei presenti (e la reazione sarà, quindi, diametralmente opposta a
quella che volevamo: “la so già, mamma mia, questa presentazione sarà una
barba…”)
3 Douglas Mc Arthur, discorso di accettazione del Thayer Award, pronunciato il 12 maggio 1962, Accademia Militare di
West Point, New York.
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è vietato, per lo stesso motivo, ricorrere ad una “freddura”, che, proprio perché tale,
avrà l’effetto di “raffreddare” l’uditorio anziché di “riscaldarlo”.
Cosa ci rimane? Noi. Semplicemente, con un pizzico di faccia tosta, possiamo raccontare
(molto in breve) un aneddoto (anche inventato o adattato, non è affatto un premio per chi
dice la verità…) che metta in luce un aspetto divertente o estremamente importante di
quanto stiamo per presentare; raccontare una disavventura che ci è capitata, sottolineando
che comunque siamo un po’ nervosi e intimoriti, come da un esempio tratto da (Bailey,
1992):
Conferenza, decine di partecipanti, esordio dello speaker dopo i saluti:
“Stamattina ho incontrato una signora del pubblico, poco prima dell’inizio, che mi ha
chiesto: “Lei è il presentatore della conferenza, oggi ”, al che io ho risposto, cortesemente,
“Oh, si” e lei: “Deve essere particolarmente nervoso” lasciandomi un po’ perplesso; “Ma no”,
le ho detto, “affatto; perché me lo chiede ?” e lei “Perché è nel bagno delle Donne !”
Questa è anche una forma di “captatio benevolentiae”, dato che ci fa “scendere” dal podio
e apparire come una persona del tutto normale (come in effetti siamo), e fa capire al
pubblico che in una certa misura ci incute timore, rendendolo quindi bendisposto nei
nostri confronti.
Un altro esempio: un presentatore, davanti ad un uditorio numeroso, esordisce con:
“poco tempo fa ho tenuto un discorso davanti ad un pubblico un po’ più numeroso di
voi, e alla fine uno dei presenti si è congratulato con me dicendomi che aveva assistito alla
“Rolls Royce” dei discorsi; questo mi ha lusingato, fino a quando non ho pensato che una
Rolls è maledettamente silenziosa, e praticamente non finisce mai!”.
Attenzione: niente autocelebrazioni o eccessi, meglio mettersi quasi in “ridicolo” per una
possibile “piccola” gaffe, della quale magari siamo stati incolpevoli autori.
Un piccolo catalogo di possibili “inizi”:
frase “ad effetto”
un collegamento a fatti ed eventi di notevole importanza;
raccontare un fatto curioso, che stimoli la curiosità del pubblico,
fare qualcosa di veramente insolito,
disegnare uno scenario ipotetico sia del passato che del futuro,
usare e commentare una citazione storica pertinente all’argomento (magari
perché come citazione si è rivelata clamorosamente errata)
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infine, evocare delle scenette apparentemente scollegate fra di se (attraverso una
breve descrizione) per poi collegarle con il tema in oggetto.
Un esempio: se dobbiamo fare una presentazione sullo stress, potremmo esordire con un
discorso del tipo:
“Signore e signori, secondo le statistiche una persona su tre soffre di gravi disturbi
mentali provocati dallo stress da lavoro; osservate la persona alla vostra destra… e ora la
persona alla vostra sinistra… se vi sembrano del tutto normali, significa che la persona
stressata… siete voi!”
Sempre valido rimane il consiglio di raccontare una “parabola”, ossia di riadattare in
qualche modo (normalmente modernizzandola) una storia anche risalente a Esopo, al
Vangelo o ai fratelli Grimm, (il panorama delle “favole”, comprendendo anche le mille e
una notte e tutte quelle regionali e popolari è praticamente sterminato).
Un inizio, in ogni caso, deve essere “innovativo”, per poter colpire; anche una citazione di
un film, una trasmissione televisiva, magari con la proiezione di un breve spezzone di film
(ma attenzione a non superare un paio di minuti), purché sia molto azzeccato e pertinente,
può essere un ottimo modo di attirare l’attenzione, soprattutto se il messaggio diventa
“esplicito” e “lampante” solo dopo una piccola spiegazione.
Durante la presentazione
Siamo in diretta: non è possibile fare granché senza essere particolarmente notati, e quindi
dobbiamo ricorrere a piccoli trucchi per “prendere tempo”.
Una prima cosa che possiamo fare è bere un po’ d’acqua (che non dovrà mai mancare), e
per far questo serve un po’ di tempo: tempo per riflettere, raccogliere le idee, calmarsi.
Una seconda cosa, fondamentale, sarà controllare la respirazione e la tensione muscolare:
muovere la mascella e respirare a fondo permettono, normalmente, di riprendere il
controllo se qualcosa va storto.
Un ultimo possibile trucco, la cui spiegazione però richiederebbe un trattato a parte, dato
che la sua dinamica prevede una complessa analisi che spazia dalla medicina cinese alla
neurofisiologia alla posturologia e altre discipline mediche, scientifiche e non: unire le
punte delle dita mettendo le mani aperte davanti a se, (come per pregare, ma a dita
allargate) e poi flettere le falangi (quello che, scherzosamente, potrebbe essere definito “un
ragno che fa le flessioni su uno specchio”): per una serie di motivi questo apparentemente
banale esercizio svolge una azione di “risveglio” del nostro cervello, e favorisce la
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concentrazione; ovviamente non potremo passare tutta la presentazione in questa
posizione, ma usarla ogni tanto è una cosa del tutto naturale.
Fase di chiusura
Se l’esordio è importante, la conclusione non è da meno.
Indipendentemente dal tipo di struttura adottata (ossia se abbiamo messo gli argomenti
più importanti all’inizio, alla fine o distribuiti sia all’inizio che alla fine), la fase conclusiva,
quella che veniva chiamata “peroratio”, deve lasciare i presenti con la convinzione di “dover
agire”.
Se siamo riusciti a toccare le giuste corde (con argomenti interessanti per il nostro
pubblico e li abbiamo ben argomentati) probabilmente il pubblico sarà interessato proprio
a capire “e adesso? cosa dovrebbe succedere?”
E’ necessario, quindi, procedere con un rapido riassunto di quanto esposto, e con i nostri
“auspici” in merito a cosa ci aspettiamo che accada, o meglio che “dovrebbe” accadere, a
cosa pensiamo sarebbe corretto che il nostro pubblico facesse.
Il tutto, per essere efficace, deve essere riassunto in una o due frasi al massimo, e piuttosto
brevi: il massimo sarebbe “costruire” un qualcosa di simile ad uno slogan, a un gioco di
parole che sia coerente con il nostro “messaggio”.
Dopo la presentazione
Bene, è andata; e adesso? finito tutto ?
Il dopo presentazione è il momento migliore per procedere con uno degli aspetti più
difficili, delicati e importanti per il futuro: la raccolta e l’analisi del feedback.
In questo contesto non sto parlando del classico questionario “post corso”, con cui si
chiede, in modo anonimo, ai partecipanti quale è stato il loro gradimento della
presentazione, anche perché il nostro principale ambito di interesse è un lavoro che spesso
è inserito in un contesto, insieme ad altri presentatori, oppure è rivolto a persone (decision
maker) a cui non sarebbe possibile sottoporre un “questionario di gradimento”.
La raccolta del feedback deve avvenire in tre maniere fondamentali:
durante il “post-evento”, quando in modo informale si scambiano quattro-
chiacchiere-quattro fra i partecipanti, si formano capannelli per gli ultimi scambi di
vedute e, ovviamente, i saluti e gli arrivederci, se la situazione lo prevede; in questo
caso “orecchie aperte” per cogliere degli eventuali “plausi”, anche le possibili
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sfumature critiche, tutti i puntini dopo i “bellissimo, ma…”, “interessante, certo che
…”, “bravissimo, però…”: è bene annotarseli subito, per rifletterci poi
prendere subito appunti su tutti gli aspetti che “a noi” già sono apparsi “zoppicanti”,
che ci hanno creato qualche difficoltà o incespicatura, che hanno suscitato qualche
reazione che non ci è sembrata adeguata o imprevista.
costringere amici e colleghi “alleati” ad una sessione di feed-back impietosa, nella
quale sollecitare, o meglio, pretendere le sole critiche.
Una nota sulle critiche: d’accordo, a tutti piacciono le lodi, d’accordo, essere criticati non
piace a nessuno, d’accordo, con tutta l’adrenalina che ancora scorre ci sentiamo talmente
superiori che non accettiamo critiche, però… ricordiamoci una massima fondamentale nel
commercio: “il cliente che ti critica è il tuo migliore amico”: infatti è l’unico che ti permette
di migliorarti, mentre il cliente insoddisfatto, ma che si tiene le critiche per se, la prossima
volta si rivolgerà altrove!
Tutto il feedback raccolto deve poi essere suddiviso, organizzato per argomenti,
riesaminato, e, fatte le debite “scremature”, utilizzato per migliorare tutto quello che è
possibile, dall’attrezzatura alla location alle slide ai colori al nostro modo di parlare… tutto
può sempre essere migliorato.
Questions & answers (questio & responsio)
La fase finale di una presentazione, la parte forse più difficile da gestire perché
fondamentalmente ignota, quindi da affrontare come una esplorazione di un territorio
sconosciuto.
“In cauda venenum” e in effetti il rischio è grande, perché una cattiva gestione della fase di
domande e risposte può pregiudicare e rendere inutile o addirittura controproducente una
presentazione di per se di buon livello.
Del resto non è neanche possibile pensare di eludere questa parte, salvo il caso, peraltro
raro, di una vera e propria “lectio magistralis” dove il presentatore deve solo esporre una
sua conoscenza appunto “magistrale” di un particolare argomento, e dove talvolta non
viene lasciato spazio per possibili domande di approfondimento.
Preparazione. E’ necessario prepararsi bene a questa fase, e il modo migliore è
proprio quello del vestire i panni dell’ “avvocato del diavolo” (o magari chiedere ad
un amico o collega di farlo), e rivedere la propria presentazione (soprattutto,
ovviamente, i contenuti) con occhi ipercritici per prevedere ogni e qualsiasi
obiezione, in modo da preparare una serie di argomentazioni a difesa. Ovviamente
non è però possibile prevedere veramente tutte le domande che un pubblico
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potrebbe rivolgerci, e allora sarà necessario aver almeno previsto di “catalogare” le
domande secondo alcuni criteri base, e aver almeno predisposto una strategia
generale di risposta.
Impostazione generale. Una prima regola: è indispensabile lasciar finire la
domanda (è anche una buona norma di creanza) senza interrompere, anche se
crediamo di sapere dove il nostro interlocutore vuole “andare a parare”, e poi è
opportuno fare una pausa (almeno contando fino a cinque) prima di procedere con
la nostra risposta. In questo tempo sarà opportuno cercare di capire bene la
domanda stessa, e, anche, le motivazioni che ne sono alla base: se il nostro
interlocutore vuole solo metterci in difficoltà, se desidera mettersi in mostra, se
veramente è interessato al problema posto, se considera l’obiezione solo un aspetto
marginale ma è fondamentalmente d’accordo con le nostre tesi etc. Ovviamente
ogni caso prevedrà una reazione e una gestione diverse.
Tassonomia delle domande. Proviamo a tracciare, se pur parzialmente, una
tassonomia delle possibili domande:
o Semplice: se la domanda è semplice, e necessita solo di una risposta breve e
concisa (un si/no, un dato) è bene darla subito in modo chiaro e diretto,
senza fornire ulteriori spiegazioni.
o Complicata: è opportuno fare riferimento ai temi di fondo della
presentazione o chiarire con un esempio; se la domanda comprende più
punti è bene procedere innanzitutto ri-elencandoli al nostro interlocutore e
chiedere conferma, poi affrontare ciascun punto separatamente.
o Una domanda a cui non sai rispondere: la strategia migliore è di affermare
con tranquillità di non sapere la risposta, ma che è possibile cercarla nei
prossimi giorni e che la si farà avere all’interlocutore (poi, ovviamente, è bene
farlo davvero…). Si può anche chiedere se qualcun altro nel pubblico è in
grado di aiutarti; non è bene soffermarsi troppo sull’argomento se non si è
potuto fornire la risposta, quindi passare rapidamente alla successiva.
o Insidiosa (prevenuta, presuntuosa, fine a se stessa, generalmente più un
discorso verboso che una domanda): è assolutamente necessario NON
entrare in polemica, e non cercare di fornire una risposta (tra l’altro
probabilmente non voluta); si può invitare l’interlocutore a approfondire
l’argomento “dopo la fine, in separata sede”; molto probabilmente non lo
farà, ma in ogni caso non disturberà la prosecuzione della sessione.
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o Incoerente: possiamo sempre chiedere chiarimenti, o meglio riformulare la
domanda in termini che ci appaiono più chiari per sapere se veramente è
quello che l’interlocutore voleva dire, e poi rispondere in modo breve; se
proprio è impossibile capire cosa l’interlocutore vuole sapere è possibile
rimandarlo a “dopo la fine, in separata sede”.
o La ripetizione di un punto: se la domanda consiste nella semplice
ripetizione di un punto già trattato, si può semplicemente dirlo, farvi
riferimento, e se lo si ritiene un punto importante fare un ulteriore esempio.
o Irrilevante: potrebbe trattarsi di una domanda importante e significativa, ma
non pertinente con l’argomento in corso; in questo caso lo si può dire
tranquillamente, rilevando l’importanza dell’argomento ma che non si trova
la connessione con quanto si sta presentando.
o Un commento, non una domanda: Se l’interlocutore è d’accordo con noi, si
ringrazia e si prosegue; se aggiunge dati a quanto da noi detto, idem.
o Un’obiezione: Si può ammettere l’esistenza di un altro punto di vista,
rispetto al nostro, e si può rispiegare perché si ritiene più rilevante o
significativo quanto da noi sostenuto, o si può proporre un compromesso.
o Una serie di domande: si può dire che non si può rispondere a tutte, visto il
tempo a disposizione, e se ne seleziona quella che si ritiene più significativa.
o Una domanda che mette in evidenza una seria carenza nella nostra
argomentazione: è inutile cercare di ignorarla (il tentativo sarà notato e
indebolirà ancora di più le nostre posizioni); è meglio ammettere che ci sono
degli aspetti da approfondire e dichiarare cosa verrà fatto per provi rimedio.
Replicare e rispondere. Prima di rispondere è utile e opportuno “replicare” la
domanda, riformulandola se possibile in formato “positivo” ma utilizzando almeno
alcuni termini usati dall’interlocutore; questo permette di stabilire una forma di
“rapport” che pone comunque in una condizione positiva la nostra replica (spesso
l’interlocutore non cerca una vera e propria risposta ma si accontenta che la sua
domanda sia presa in seria considerazione).
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L’importante sarà fornire una risposta breve, sintetica e chiara, senza perdersi in eccessive
spiegazioni; se proprio la domanda ha sollevato una questione molto rilevante che nella
presentazione è stata trascurata sarà possibile “riprendere” l’argomento, sospendendo un
attimo la sessione di domande e risposte; per ottenere questo “effetto” è sufficiente ri-
proiettare la slide che richiama l’argomento in questione, posizionarsi nell’ancoraggio
legato all’”importanza” e procedere con l’esposizione, da limitare comunque come tempo.
La risposta si potrà concludere con una richiesta di conferma, del tipo “quanto ho detto
risponde alla sua domanda? ci sono altri aspetti da approfondire?”
Uno degli aspetti più difficili sarà quello di tenere sotto controllo l’ordine delle domande;
se la presentazione prevede un break (per motivi di orario o simili) prima della sessione di
domande e risposte è possibile richiedere di fare le domande per scritto, fornendo appositi
moduli allo scopo; questo permette di riordinare domande simili, e di presentarle in un
ordine che per noi può essere maggiormente logico e funzionale allo scopo; è però
opportuno non tentare di eludere le domande “scomode”, perché l’interlocutore “ignorato”
potrebbe, in conclusione, sollevare vivacemente la questione e farci apparire in torto
indipendentemente dal contenuto della domanda.
Se dobbiamo procedere “in diretta”, potremo farlo “per alzata di mano”, e farci aiutare dal
pubblico stesso nel rispettare l’ordine di prenotazione; si dovrà anche prestare attenzione
al fatto che talvolta alcuni del pubblico potrebbero tentare di introdursi tra domanda e
risposta sia per aggiungere qualcosa alla domanda stessa, ma anche (eccesso di
protagonismo?) per fornire essi stessi la risposta; questa è però una pratica che va
“dolcemente” stroncata, perché contempla due rischi: primo farci apparire incapaci di
rispondere in prima persona, secondo che la risposta non sia affatto corretta ma una
“libera interpretazione” che, se non ci precipitiamo a smentirla, avrà di fatto il nostro avallo.
Da tenere sotto controllo, infine, il ritmo (che dovrà essere abbastanza regolare e veloce,
cercando di non dedicare troppo tempo ad una sola domanda e rischiando di dover
lasciare scontenti alcuni) e il tempo disponibile, che non potrà essere sforato più del lecito.
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Gestione del Tempo
Il primo elemento da prendere in considerazione è il tempo. Il presentatore non ha molta
possibilità di decidere quanto tempo occorre per la presentazione, di solito avviene
esattamente il contrario: abbiamo dei limiti di tempo imposti da più fattori, non sempre
sotto il nostro controllo:
Convegni nazionali e internazionali: normalmente tra 20-25 minuti (raramente
40-45);
Contesti aziendali: 30-35 minuti; usualmente le presentazioni in questi contesti
sono suddivise in diverse tipologie (tecnico, manageriale, decisionale) con durate e
contenuti di volta in volta diversi.
Contesti Accademici: lezioni di 45 e 60 minuti.
Questo ci fa pensare che dobbiamo imparare ad usare più le forbici che non la colla.
In ogni fase della preparazione della presentazione dobbiamo considerare SEMPRE il
fattore tempo.
E’ da tenere presente che l’attenzione del pubblico difficilmente supera un’ora, e segue un
andamento a “curva” ben noto:
Curva dell’ attenzione
A B C D E Crescita Picco Calo Rifiuto
Tempo
Att
en
zio
ne
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“Crescita”: la presentazione, i saluti, i ringraziamenti (rompere il ghiaccio)
“Picco” e “calo”: cuore della presentazione
“Rifiuto” (pubblico dà segni di insofferenza): procedere con la fase di “Question &
Answer” e procedere con il finale.
La durata di ogni fase deve essere attentamente calibrata
E quando ormai siamo “in scena”, come facciamo a controllare il tempo che scorre?
Prestiamo attenzione a:
- tempo totale della presentazione (con un orologio a muro o sul tavolo)
- tempo per ciascuna slide (come abbiamo detto, il tempo ottimale va da 1 a 3 minuti;
non più di 5, non meno di 1)
Gestire Situazioni “critiche”
Blackout tecnico
Prima regola: “se qualcosa può andare storto, lo farà!” e “preferibilmente quando farà più
danni!”
Cosa fare in questi casi? ovviamente è meglio prevenire che curare, dato che spesso il
momento della presentazione, rappresentando un “culmine” del nostro lavoro, ci
creerebbe dei danni enormi, spesso vanificando il lavoro di settimane o mesi, solo per un
banale “guasto”.
Quindi: PENSARE sempre ad un “piano B” per ogni aspetto:
la presentazione sempre in più COPIE su più PENNE USB, oltre che sul nostro
portatile
possibilmente portare (noi o un gentile collega) un secondo portatile “di
scorta”)
se possibile verificare di avere disponibili DUE proiettori (uno dove andiamo a
fare la presentazione, e magari uno ce lo portiamo); i proiettori più economici
(da tenere come backup) costano ormai cifre sotto i 500 euro…
portare gli adattatori per collegare il pc al proiettore (anche di tipo che non
usiamo solitamente, potremmo doverci adattare ad un proiettore non uguale
al nostro
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Ma, situazione critica, potrebbe esserci un vero blackout, e quindi tutta la nostra bella
tecnologia NON FUNZIONA semplicemente perché manca la corrente…
Ok, esistono oggi dei piccoli proiettori “tascabili” di costo modesto (2-300 euro) che
funzionano CON LE PILE; è vero che sono adatti per una sala piccola, ma, meglio di
niente…
In ogni caso è possibile predisporre delle copie stampate delle nostre SLIDE (nel formato
grande, dove ogni slide occupa una pagina) da consegnare ai partecipanti in modo che
possano seguire il nostro discorso direttamente sulla carta (questo non sarebbe il formato
da consegnare, che normalmente prevede più slide in una stessa pagina oppure la slide
accompagnata da “Note”); è vero che ci perdiamo eventuali effetti di animazione o testo
che “appare” un po’ per volta, ma, meglio di niente…
Infine, se veramente abbiamo preparato bene la nostra presentazione, forse potremmo
anche fare a meno di “Power Point”, semplicemente arricchendo un po’ il nostro “parlare”
con qualche descrizione “per immagini” che arricchisca, e sostituisca quelle che avevamo
preparato nelle slide.
Perdita del “filo del discorso”
E’ spesso più un problema per il presentatore che per il pubblico, che non si scandalizza
più di tanto; la soluzione “preventiva” consiste proprio nell’aver preparato le slide, che, di
fatto, costituiranno la “scaletta” del nostro discorso e quindi difficilmente ci perderemo;
ovviamente le slide devono essere “fatte bene, ossia, in definitiva, UNA SLIDE PER OGNI
ARGOMENTO, e poche righe su ogni pagina: se mi perdo, mi basta un occhiata alla slide
per rendermi conto di “dove sono” e riprendere il filo.
Ma, se la divagazione ad esempio è dovuta ad una domanda “interessante” che ci ha fatto
divagare per qualche minuto, soprattutto se il pubblico non è troppo numeroso, la
soluzione più semplice è quella di essere del tutto onesti, e chiedere, direttamente ai
partecipanti: “dunque, dove eravamo arrivati?” che può essere anche un buon modo per
“chiudere” la divagazione ed evitare che si trasformi in un dialogo “a due” tra noi e chi ha
fatto la domanda, escludendo il resto del pubblico.
Una soluzione più complessa è ricorrere alle “mnemotecniche”; si tratta però di un lavoro
impegnativo, e non molti sono disposti a spendere molto tempo in questo apprendimento.
Spiegato in semplice in cosa consiste? Nel lavorare per “associazioni di idee”.
Il primo passo è quello di creare un “percorso” ideale, che però per noi sia assolutamente
familiare (ad esempio, dal lasciare la macchina in garage ad arrivare in camera, tutti i
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passaggi, che di fatto costituiscono il nostro normale agire tutte le sere) e scandirlo in
modo da farne una serie precisa di “tappe” (immaginatevi un po’ una “via crucis” laica, e
molto personale).
Questo “percorso” deve essere “studiato”, scomposto in PASSI precisi e sempre gli stessi,
ad esempio:
1. fermo la macchina,
2. apro il garage con il telecomando,
3. entro con la macchina in garage,
4. chiudo il garage con il telecomando,
5. scendo dalla macchina
6. chiudo la macchina
7. vado alla porta delle scale
8. apro la porta delle scale
9. salgo le scale
10. apro la porta di casa
11. chiudo la porta di casa
12. poso la borsa sulla sedia nell’ingresso
13. attacco il cappotto all’attaccapanni
14. vado in camera
15. ecc.ecc.
A questo punto, DOPO che questo “percorso standard” è per me assolutamente naturale e
senza alcun dubbio, per ogni presentazione che devo fare la “spezzo” in parti
numericamente uguali al mio percorso (che può essere anche piuttosto lungo…) e associo
ogni concetto della presentazione, nell’esatto ordine, ad uno dei “passi” del percorso,
preferibilmente cercando di farne una “immagine” la più strana o buffa possibile.
Mentre faccio la presentazione, ad ogni punto terrò presente il mio percorso, e, se divago,
sarà più facile ricordarsi “a che punto DEL PERCORSO” ero arrivato, e, conseguentemente,
a che punto “del DISCORSO”…
Questo ovviamente è solo un esempio semplificato, e comunque richiede un po’ di
approfondimento e di allenamento; però, se devo fare spesso presentazioni e/o discorsi
senza prevedere un “powerpoint” di aiuto, può essere un investimento redditizio…
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Disturbi da parte dei partecipanti
Dobbiamo innanzitutto distinguere le motivazioni che portano qualcuno del pubblico a
disturbare:
problemi legati all’ambiente (es. caldo, freddo, luce)
problemi legati all’argomento
problemi legati alla persona stessa
Sull’ambiente poco da dire: dovremmo aver già provveduto prima, e, se possibile,
intervenire tempestivamente per regolare condizionatori, riscaldamento, finestre, spifferi,
luci ecc.).
Sull’argomento sta a noi aver reso “interessante” quanto dobbiamo dire, e se non ci siamo
riusciti al 99% è perché NON ci siamo immedesimati nel nostro pubblico e nel SUO punto
di vista, per capire COME rendere interessante un qualsiasi argomento.
Ci sono poi dei “disturbatori professionisti” che, quasi per divertimento, si mettono a
controbattere ad ogni nostra affermazione, o a parlare con il vicino senza seguire quello
che stiamo dicendo.
Nel primo caso l’unica cosa è “dare un minimo di soddisfazione”, considerando le
“ribattiture” come un modo che ci viene offerto per approfondire il nostro punto di vista
(di solito replicando, a nostra volta, con “lei ha perfettamente ragione, MA deve tener
conto anche di…”).
Nel secondo caso ricordiamoci sempre che NON possiamo “richiamare” un disattento
come fossimo a scuola: ce ne faremmo un nemico, e non è una cosa molto intelligente; la
cosa più corretta è fare una domanda del tipo “scusi, secondo lei questo esempio è
chiaro?” ad una persona che è DIETRO il disturbatore (preferibilmente una persona che ci
ha dato dei feedback visivi che ci fanno capire che invece è attenta al nostro discorso),
posizionandosi in modo da avere il disturbatore “in mezzo” tra noi e il nostro interlocutore:
questo lo porrà in una situazione difficile da sostenere, e molto probabilmente riporterà la
sua attenzione su di noi e su quanto stiamo dicendo.
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Preparare una presentazione per altri
Preparare una presentazione per altre persone non è un compito facile (il classico dirigente
che ci chiede di preparare “quatto slide” per la riunione del consiglio di amministrazione
del giorno dopo…); in ogni caso è necessario
1. concordare esattamente cosa vuole dire e perché
2. preparare insieme una scaletta degli argomenti
3. se possibile buttare giù il cosiddetto SPEECH del discorso, in pratica quello
che il dirigente leggerà (o reciterà, se è in grado di mandarlo a memoria o
quasi)
4. preparare le slide conseguentemente a ciò, curando in particolare eventuali
grafici e/o immagini (concordate con la persona che deve presentare)
Lo speech deve essere preparato con una metodologia MOLTO semplice, ma efficace:
Le frasi scritte devono essere BREVI: una frase più lunga di due-tre righe NON
si può dire in un discorso, il pubblico perderebbe il filo
Usare tecniche retoriche (ripetizioni, rime e simili) per “cadenzare” il più
possibile il discorso
Stampare il testo in caratteri MOLTO
GRANDI In pratica il testo abbinato ad una slide deve
occupare una intera pagina (non di più…) in modo che il presentatore sappia
che quando gira pagina deve anche “cliccare” per far scorrere la slide (a
meno che non ci sia qualcuno che lo fa per lui: in tal caso nello SPEECH si
deve inserire una riga di stacco ogni volta che si deve “cliccare” per avanzare
la presentazione
Avere il tempo di fare almeno una prova….