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PRESENZA BETHARRAMITA Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) Art. ,I, comma 2, DR BA CONGREGAZIONE DEL SACRO CUORE DI GESÙ DI BÉTHARRAM LUGLIO/SETTEMBRE 2014 3 DOSSIER: INDIA, LA SFIDA DEL DIALOGO Presenza 0314OK.indd 1 12/07/2014 13:59:33

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Trimestrale della Congregazione dei Preti di Bétharram - www.betharram.net

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DOSSIER:INDIA, LA SFIDA DEL DIALOGO

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Padre Beniamino Gusmeroli con gli abitanti di un villaggio del Centrafrica che stanno preparando i mattoni per costruire una scuola

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di ROBERTO BERETTA

Una delle cose della Chiesa che ancora oggi riescono a generarmi ammirazione, talvolta persino a commuovermi (tante altre, purtrop-po, mi fanno invece arrabbiare...), sono le storie dei missionari. Cre-do di non essere l'unico a restare sinceramente colpito dai piccoli aneddoti narrati dai preti amici quando tornano in vacanza, o dalle vicende di solidarietà umana e annuncio evangelico lette su riviste e libri e ambientate nel cosiddetto terzo mondo; credo anzi che pro-prio la genuinità e freschezza, lo spirito di gratuita generosità che promanano dai racconti missionari sia all'origine della considerazio-ne e del sostegno di cui ancora chi parte per le «missioni» gode nella cultura popolare cattolica, almeno nel nostro Paese.Qual è il segreto? Me lo domando perché sono convinto che si tratti di un meccanismo che non riguarda soltanto loro, i missionari, ma dice qualcosa anche intorno al nostro modo di essere Chiesa qui. Vado per esclusione. Non si tratta di ambizione di conquista. Non siamo più ai tempi in cui si partiva per convertire i pagani o addi-rittura civilizzare i selvaggi, con un'idea di superiorità occidentale che - ammettiamolo - inconsciamente ancora sussiste in moltissimi, ma che non è a mio parere all'origine della nostra ammirazione per i missionari. Lo spirito di supremazia e di «vittoria» sono sempre tra le molle più potenti dello spirito umano, tuttavia una lunga sequela di avvenimenti nella storia del mondo e della Chiesa ci ha fortuna-

IL SEGRETO DEI MISSIONARI

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tamente resi avvertiti sulle debolezze e miserie delle nostre culture e parallelamente è cresciuta (anche se non ancora abbastanza) la con-siderazione dei valori delle «minoranze», etniche o economiche che siano. Siamo ormai abbastanza relativisti sui nostri modi di vita per sapere che il desiderio di affermarli su tutto il pianeta non può essere spun-to sufficiente a giustificare alcuna missione, nemmeno «laica».Idem dicasi per l'esotismo e il senso di avventura che i racconti mis-sionari spesso sanno ancora trasmettere (anche se il tempo delle tigri e dei leoni in agguato è passato da un pezzo...), descrivendo si-tuazioni lontane dalle nostre abitudini e tradizioni, dunque di per sé curiose e attraenti. Nel mondo contemporaneo la «meraviglia» possiede ben altri stru-menti per stupire e accalappiare, ormai sappiamo e abbiamo visto «tutto» - pur se bisogna ammettere che la capacità di penetrare i segreti di popoli e culture da parte di chi ci vive in mezzo per decenni è senza dubbio più efficace di qualunque studio scientifico, di qual-siasi strumento multimediale di rappresentazione. Ai tempi e con i ritmi di Indiana Jones, le peripezie missionarie dovrebbero semmai far sorridere...Allora sarà forse la bontà, lo spirito di generosità e altruismo che sprigiona dalla vita dei missionari ad attirarci con tanta forza ancora oggi... Qui forse ci avviciniamo al punto: l'animo umano conserva una scintilla di bene che istintivamente vuole essere comunicato ai propri simili; tranne casi patologici, il desiderio di felicità che conserviamo per noi stessi desidera essere esteso agli altri, poten-zialmente al mondo. E tale impulso positivo viene rinvenuto nella gratuità totale dello slancio missionario, che in modo visibile unisce il sacrificio di sé (la lontananza dai luoghi d'origine, l'accettazione di situazioni disagiate) e il soccorso portato disinteressatamente al prossimo. Quanto poi questa idea «romantica» corrisponda al vero dell'evan-gelizzazione nel terzo mondo resta pure da verificare caso per caso:

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viste da vicino, magari, le situazioni e le persone che appaiono «eroi-che» potrebbero sembrare tutt'altre; e comunque è innegabile che in astratto (ma spesso poi anche nel concreto) la missione conserva l'aura primigenia di una solidarietà capace di coinvolgere e attirare quand'anche fosse soltanto umana colleganza.Che poi invece il fondamento di tale scelta sia una fede religiosa, questo è elemento che troppo spesso resta sottinteso anche in am-bito cattolico. A noi oggi sembra che basti andare «a fare il bene ai poveri» per migliorare il loro stato di vita, mentre in passato si pre-feriva enfatizzare l'aspetto del «battezzare i pagani» così da salvarne l'anima: due mentalità diverse e parallele, ma ugualmente insuffi-cienti. Dal punto di vista ecclesiale, infatti, andrebbe sottolineato piuttosto il nocciolo più genuino del partire: che si venga destinati a iniziative di promozione umana o piuttosto all'evangelizzazione, ogni scelta soggettiva si basa su una visione profondamente alterna-tiva dell'esistenza, quella dettata dalla fede. Questo forse è ciò che più ci affascina nei missionari: essi incarnano in maniera silenziosa ma visibile le conseguenze del messaggio cri-stiano, e poco importa - alla fine - se lo fanno con coerenza oppure secondo routine. Loro l'hanno fatto; loro sono partiti, dando un se-guito al credo che tutti diciamo di professare. Una condizione che qui, dove pure saremmo tutti cristiani, ci è dato assai più raramente di constatare, anche in noi stessi e anche nel-la Chiesa. Ecco il vantaggio dei missionari: incarnare il tentativo di rendere vita il Vangelo, attraverso il coraggio di gesti radicali. Certo: non tutti potremmo né dovremmo fare la stessa cosa, ognu-no ha la propria vocazione da esplicare nei luoghi in cui viene chia-mato dalle circostanze, non è corretto mitizzare ciò che è lontano quasi fosse una scappatoia alle difficoltà quotidiane, eccetera ecce-tera. Però nessuno mi leva dalla testa che la stima e l'emozione che i missionari sollecitano tuttora nei nostri animi sia dovuta anche alla nostalgia di orizzonti di verità e fraternità che non siamo capaci di raggiungere qui. Nemmeno come cattolici.

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UN GIORNO A ROMA,ABBRACCI GRATIS PER TUTTI

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Eravamo a Roma lo scorso 25 aprile, per due motivi: il consueto In-contrAmici, momento di riflessione e preghiera del gruppo dei Be-tharrAmici con padre Simone Panzeri, e la doppia canonizzazione dei papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Proprio in vista di que-sto avvenimento, dopo un pomeriggio trascorso a passeggiare per le vie della capitale, ci siamo ritrovati a parlare di queste due figure importanti. Abbiamo letto il messaggio rivolto ai giovani da Giovan-ni Paolo II nel 2000, quello in cui il papa chiama ognuno di noi ad essere «sentinella del mattino», a non arrendersi e ad evangelizzare. Un messaggio che ci ha aiutato a capire il ruolo fondamentale che abbiamo nella Chiesa e soprattutto ci ha dato una consapevolezza e un motivo in più per ciò che avremmo fatto appunto il giorno dopo: evangelizzare!Ma possiamo annunciare qualcosa di bello agli altri senza aver pri-ma compreso noi stessi e le persone che abbiamo a stretto contatto? No, o almeno non nel modo giusto. Ecco perché la mattina del saba-to ci siamo incontrati di nuovo per riflettere; abbiamo ascoltato una canzone dal significato molto intenso, «L’amore conta», abbiamo riflettuto su alcune frasi tratte dagli scritti di san Michele Garicoits, infine ci siamo confrontati a coppie su alcune domande. È stato un incontro molto bello e particolare perché, nel parlare con la persona che ci era stata assegnata a sorte, abbiamo scoperto cose nuove. Per concludere abbiamo pregato insieme con l’«Inno alla Carità» di san Paolo. Poi è venuto il momento dell’evangelizzazione, divisi in due gruppi: il primo in piazza del Popolo cercava di fermare i passanti col metodo dei “Free Hugs” (gli «abbracci gratuiti», che lasciano spiaz-zato l'interlocutore e danno il tempo per invitarlo a entrare in chiesa

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lettere a Presenza

dove si trova un altro tipo di «abbraccio»), il secondo all'interno del-la basilica di Santa Maria per accogliere le persone e spiegare loro il piccolo percorso da fare mentre si svolgeva l’adorazione eucaristica.Sono rimasta molto colpita dalla naturalezza con cui riuscivo ad abbracciare degli sconosciuti, quando io difficilmente riesco ad ab-bracciare qualcuno. Ma era una naturalezza che avevamo tutti e non importa se alcuni di noi avevano già fatto questa esperienza: credo che ogni volta sia diversa dall’altra. Ovviamente non era così facile convincere le persone a entrare in chiesa, ma quando ci riuscivamo era comunque una piccola soddi-sfazione. Non dimenticherò mai una signora che, dopo aver acceso la sua candela, mi ha abbracciato dicendo: «Vi ho conosciuto con un abbraccio e ti saluto con un abbraccio… Grazie!». Oppure una ragaz-za che prima di uscire dalla chiesa ci ha detto: «Complimenti ragazzi e grazie per quello che fate. È bellissimo!». È vero, è bellissimo. Ma ancora più bello è avere la consapevolezza di essersi resi strumenti nelle mani di Dio per seminare la gioia e il suo amore. Quello che noi abbiamo fatto è solo una piccola cosa, ma spesso sono proprio queste piccole cose a rivelarsi stupende! La domenica mattina infine ci siamo svegliati molto, molto presto per cercare di essere il più avanti possibile per la canonizzazione; e invece siamo riusciti ad arrivare solo a Castel Sant’Angelo... È stato un po’ faticoso, ma ne è valsa la pena. Anche se abbiamo seguito la celebrazione solo da un maxischermo, possiamo dire che «Noi c'e-ravamo». Questa è stata la mia prima esperienza di IncontrAmici e confesso che prima di partire avevo qualche paura; ma tutte si sono dissolte quasi subito per merito dei BetarrAmici più «vecchi», che hanno saputo accogliere me e gli altri ragazzi nuovi con tanto calore e allegria. Ed è per questo che voglio dire ad ognuno dei BetharrA-mici che hanno condiviso questa esperienza con me: «Grazie per il tempo pieno, per le botte d’allegria, per la nostra fantasia». E nell’at-tesa del prossimo incontro ricordiamoci sempre che l’amore conta!

Una dei BetarrAmici

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I SANTI DELLA MISERICORDIA E DELLA FAMIGLIA

di ALDO NESPOLI

La presenza spettacolare del popolo che già dal-le prime luci del mattino s'incamminava verso la basilica; la partecipazione di ben 150 cardi-nali, 700 vescovi; la presenza dell'emerito papa Benedetto XVI e di uno stuolo di sacerdoti e seminaristi hanno suscitato una domanda: per-ché tutta questa gente? Il messaggio veicolato dai due santi papi ha toccato il cuore dell'intera umanità! Eppure stiamo vivendo una stagione dove vediamo una Chiesa provata e bersaglia-ta, che deve subire attacchi sia dall'interno sia dall'esterno a causa di grossi suoi problemi. Vediamo però anche una Chiesa capace di tirar fuori il meglio delle sue risorse per riprendersi e far fronte al secolarismo imperante e ai suoi scandali. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II con coraggio hanno guardato le ferite di Gesù e hanno letto e visto in quelle ferite le sofferenze

dell'uomo, come contaminazione della passione di Gesù. Non hanno avuto ver-gogna di toccare le mani piagate dei car-cerati, degli emarginati, dei profughi, le carni martoriate degli ammalati.Così papa Francesco ha presentato i suoi predecessori come uomini di grande fede e coraggiosi nel testimoniare Cristo al mondo: consapevoli e conoscitori delle grandi tragedie del secolo scorso e delle sfide che oggi la Chiesa deve affrontare, non si sono lasciati intimorire. Perché in loro forte è il senso di Dio pa-dre misericordioso che supera la miseria umana. Speranza e gioia sono gli ingre-dienti e la chiave di interpretazione dei loro pontificati.E speranza e gioia sono gli stessi elemen-ti costitutivi del pontificato di Francesco. Il papa ha posto la sua attenzione e lo-

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la parola del regionale

al mondo in dialogo con la società e l'impegno per l'unità dei cristiani, interrotto da lunghi se-coli, la ricerca affannosa della pace in quel capo-lavoro della enciclica Pacem in terris e anche la bontà e l'atteggiamento paterno che lo ha con-traddistinto, sono frutti della formazione sem-plice impartita nella sua famiglia, ma guidata e sviluppata sotto l'azione dello Spirito Santo in atteggiamento di obbedienza. Giovanni Paolo II il giorno della sua elezione al soglio pontificio sentì subito il bisogno di grida-re al mondo che Gesù Cristo era lo scopo del-la sua vita e il programma del suo pontificato, espresso delle parole gridate con voce vibrante: «Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà, aprite i confini degli Stati, i sistemi economici, quelli politici...».Questi uomini dove hanno appreso la loro fede coraggiosa? Nella famiglia, dove le prime espe-

dato il ministero dei due nuovi santi per l'opera di rinnovamento iniziata da Gio-vanni XXIII e portata avanti da Giovanni Paolo II. In particolare ha ricordato la grande intuizione e audacia di Giovanni XXIII nell'indire il concilio Vaticano II, sotto l'impulso e la spinta dello Spirito Santo, e la costante forza che Giovanni Paolo II, in comunione con i suoi prede-cessori Paolo VI e Giovanni Paolo I, ha saputo infondere nella Chiesa.Sono i santi che riescono a far avanzare la navicella di Pietro tra i marosi delle acque. Sono i santi che non si arrendono davanti alle difficoltà, alle incomprensio-ni e agli ostacoli. Infatti papa Francesco ha affidato alla loro intercessione il futu-ro della Chiesa e della famiglia. Lo straordinario messaggio portato da papa Roncalli di un'apertura della Chiesa

Nel precedente articolo della nostra rivista sulla Chiesa sognata da papa Francesco, s'incastonano molto bene le figure di altri due papi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Il 27 aprile abbiamo assistito a una grande festa per la loro canonizzazione. La piazza San Pietro è stata spettatrice di come la memoria dei due papi sia ancora viva nel cuore dei fedeli e dell'umanità.

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rienze della vita sono quelle che si impri-mono profondamente l'animo. A tal pro-posito c'è un episodio toccante della vita di Madre Teresa di Calcutta. Quando, rientrata in Albania, andò a piangere sulla tomba della mamma, con voce commossa esclamò: «Non ci sareb-be mai stata Madre Teresa, se non ci fos-se stato l'esempio di mia mamma».Il monsignore polacco Andrea racconta un episodio rivelatore della sorgente e forza spirituale del futuro papa Wojtyla. Una notte, destato da alcuni rumori, vol-le accertarsi da dove provenissero e in punta di piedi si diresse verso la cappella e alla luce fioca della lampada vide steso a terra in umile profonda adorazione il cardinale Karol. Il grido dell'apostolo Pa-olo entra nel cuore di papa Wojtyla come fuoco che brucia irresistibile e lo spinge come lui a viaggi apostolici per portare la parola del Vangelo ai popoli che anco-ra lo ignorano. Questa sollecitudine pa-storale missionaria farà di lui un uomo intrepido che si spingerà fino a sfidare nazioni e popolazioni ostili alla Chiesa. La canonizzazione dei due papi per la Chiesa è fonte di gioia e di ringraziamen-to al Signore, che dona alla sua Chiesa uomini santi per la sua edificazione; uo-mini che anche in tempi difficili sono ca-paci di grande testimonianza e di amore misericordioso.

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UN RAGAZZO ROZZO DIVENTATO SANTO

Le «Lettere» di san Michele (di cui è appena stata preparata una nuovissima antologia in italiano) rivelano l'itinerario di un basco duro e ostinato che diventa apostolo della tenerezza misericordiosa di Dio.

di ERCOLE CERIANI

«Roba da preti!» è il primo, scontato pregiudizio con cui ho dovuto confron-tarmi, quando sono stato incaricato di rivedere la traduzione in italiano della raccolta “Saint Michel nous parle” di p. Grech (ora pubblicata in italiano con il titolo «Firmato: Garicoïts»). Con corol-lari del tipo: «Quel libro non interesse-rà nessuno: contiene scritti di un altro tempo, di un altro Paese, per di più di un prete che parla di cose da preti. Soldi buttati!».Il pregiudizio si rivela in realtà un falso problema, smentito dalle stesse parole di san Michele: scrivendo infatti al superio-re del seminario minore circa le “verità morali” su cui bisogna insistere con il futuro seminarista san Michele così con-clude (Lettera 127, p. 118): «È necessario che comprenda la necessità di imitare Nostro Signore Gesù Cristo come per ogni cristiano, a maggior ragione per un prete».«Come per ogni cristiano»: san Michele non fa differenza tra il modo di "essere

di Cristo" di un cristiano qualsiasi (oggi cosid-detto laico) e di un prete. Anzi, da san Michele la questione viene addirittura rovesciata: non è il cristiano che deve cercare di assomigliare al prete, guardando a una ipotetica o presunta su-periorità spirituale/morale del sacerdote, ma è l'opposto: «...come per ogni cristiano, a maggior ragione per un prete»! Ecco allora l'aforisma: se per essere un buon cristiano non è necessario essere prete, per essere prete è necessario («a maggior ragione») essere un buon cristiano. Ai suoi preti san Michele ricorda come debbano essere innanzitutto (e semplicemente, viene da dire) buoni cristiani.A proposito, ricordo il discorso tenuto dal cardi-nale Christoph Schönborn, attuale arcivescovo di Vienna, ai sacerdoti della diocesi di Milano in Duomo il 10 dicembre 2013. Schönborn, all'ini-zio degli anni Ottanta venne inserito nella Con-gregazione per la Dottrina della Fede a Roma, di cui prefetto allora era appena stato eletto il cardinale Joseph Ratzinger. In occasione di una delle riunioni della Congregazione in Vaticano, racconta Schönborn, chiese alla Clelia, storica “usciera” (segretaria) del Sant'Uffizio, un pa-rere sul nuovo nominato: «Cosa ne pensa del nuovo Prefetto?». E lei, di rimando: «È un vero

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TRE VOLUMI IN GIRO

PER L'ITALIA

Maggio intenso nel Vicariato betarramita d’Italia, che ha chiuso il 150° della morte di san Michele Garicoïts con una serie di eventi itineranti di comunità. Ogni weekend in un luogo diverso: si è cominciato il 14 maggio, festa liturgica del fondatore, con la messa nella parrocchia di Lissone, pensata proprio come concelebra-zione della famiglia betarramita: i padri presenti hanno coinvolto nella cerimonia anche i laici a loro vicini e hanno invitato a presiedervi monsignor Patrizio Garascia, vicario episcopale per la zona di Monza.È stata anche l’occasione per inaugurare la mostra fotogra-fica «Bétharram: un luogo, un uomo, un ideale», che poi è stata trasportata nelle altre parrocchie betarramite del Nord. Le immagini paesaggistiche realizzate dal fotografo francese Jean-Jacques Stockli, accompagnate da didasca-lie descrittive dell’«uomo» san Michele Garicoïts e del suo «ideale» di congregazione, hanno potuto infatti essere am-mirate anche ad Albiate, Castellazzo di Bollate, Sant’Ilario a Milano e Montemurlo in Toscana; in autunno la mostra farà tappa anche nelle altre parrocchie betarramite italiane.Ad Albiate il nuovo centro di comunicazione «Betagorà» ha inoltre presentato al pubblico tre nuovi volumi ben assortiti: «Firmato: Garicoits», versione italiana di alcune lettere di san Michele, è stato presentato dal traduttore padre Erco-le Ceriani; «Fino alla fine», fascicolo che raccoglie gli atti del convegno sui betarramiti italiani nel mondo della sanità, ha avuto le spiegazioni dell’organizzatore padre Mario Longoni; infine padre Piero Trameri ha affrontato l’angolo «storico» con la biografia di «San Michele Garicoits» appe-na stampata da Elledici. I volumi sono a disposizione anche dei lettori di «Presenza»; chiunque desiderasse averne copia dei libri può rivolgersi alla segreteria del Vicariato d’Italia oppure inviare una e-mail a: [email protected]

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cristiano!». Nella sua essenzialità, e in perfetta assonanza con il pensiero di san Michele, la bellissima risposta evidenzia come tra il sacerdozio ministeriale (quel-lo dei preti) e il sacerdozio battesimale (quello di “ogni cristiano”) non ci sia differenza di “grado” ma solo di “ambi-to” (campo di azione, ruolo): i cosiddetti laici e i preti (e vescovi e cardinali) non hanno modi diversi per “essere di Cri-sto”; operano, si, in campi differenti (i preti hanno un servizio-ministero da compiere) ma il “grado” di fedeltà (ap-partenenza) a Cristo è il medesimo. Non c'è un più e un meno.Per questo le Lettere di san Michele “vanno bene” per tutti: per tutti coloro che appartengono a Cristo, anche (“a maggior ragione”) per i preti e le suo-re. Sono “Roba per cristiani” insomma. Leggere per credere: nelle Lettere ba-sta semplicemente sostituire alla parola “prete” o “suora” la parola “cristiano/a” e il testo funziona benissimo. Qualche esempio: la raccomandazione della Lett.era 253 (p. 123) per «una stima sincera per la propria vocazione e per la propria missione... il gusto per il proprio stato, la fedeltà a tutti i doveri del proprio sta-to, la precisione per le minime pratiche del proprio stato» è valida per tutti, non solo per il destinatario della missiva; e l'invito della Lettera 310 (p. 90) «Con-

tinui, caro amico, ad assolvere i doveri del suo ruolo, a considerarsi servo inutile»; così come il «Forza dunque, abbia il coraggio della sua posizione!» della Lettera 124 (p. 80) appaio-no come incoraggiamenti e raccomandazioni “buoni” per tutti: papà, mamme, figli/e, nonni, vedove, persone sole... infermieri, stradini, po-litici, studenti... anche per preti e suore. E così l'intero capitolo titolato «Il coraggio di essere preti e religiosi» può essere titolato, se si vuole, «Il coraggio di essere cristiani». Come Paolo di Tarso nella Lettera ai Colossesi (Col 3,9-10), anche san Michele nelle sue Lette-re invita a «spogliarsi» per «rivestirsi» di Cri-sto (Lettera 13, p. 98). Qui è interessante notare come mentre Paolo proponendo «cosa fare» nulla dice circa il «come fare» (non ci sono cioè “istruzioni per l'uso”), san Michele con sor-prendente semplicità e concretezza propone una formula pratica, un metodo tutto suo, che illustra nella Lettera 253 (p. 123): «Cosa fare per acquisire lo spirito religioso (cristiano)? Agendo come se avessimo questo spirito, lo si stabilirà in sé, con tutti i beni che esso produce. Non aspettare di avere questo spirito per agire secondo questo spirito, ma agire secondo que-sto spirito per poi ottenerlo». Come dire: non aspettare di essere buoni (d'altronde «Nessuno è buono, se non Dio solo» Lc 18,19) per agire da buoni, ma è agendo come se si fosse buoni che si diventa buoni.Dunque ecco il metodo-Garicoïts: «Agendo come se... senza aspettare di...». Sembra un gio-

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co. Tutto qui? È vero? È sufficiente? Funziona?A noi piace pensare che san Michele abbia veri-ficato il metodo prima di tutto su se stesso, lui non nato santo, ma diventato santo. «J'étais un gros garçon ignorant» diceva di sé: «Ero un ragazzone ignorante». Era figlio di gente one-sta, ma che si distingueva per l'essenzialità dei modi che arrivava a durezza di maniere.A Ibarre - suo villaggio natale - i Garicoïts erano conosciuti per l'autocontrollo, che si manifesta-va in una estrema riservatezza dei sentimenti; erano noti per essere gente più di testa che di cuore, caratterizzati da freddezza e indifferen-za «garicoïste», che in lingua basca prendeva il nome di “caracoïstar eçacholtasuna”. San Michele respingerà, rifiuterà e quindi rovescerà questa reputazione: lui sarà uomo adulto sensi-bile agli affetti, a cui risponderà con tenerezza, che sovrabbonda infatti nelle sue lettere.Da Igon, il 5 ottobre 1841 (aveva 44 anni), scri-ve a suo cugino Jean-Baptiste Etcheberry (Let-tera 19): «Non mi accusate di indifferenza; non troverete nel mio cuore alcuna traccia di “ca-racoïstar eçacholtasuna”: credetemi, voi siete tutti i giorni nei miei ricordi e nei miei affetti».Michele Garicoïts trasformerà se stesso: spo-glierà e rivestirà la sua anima, secondo l'invito dell'Apostolo, di «sentimenti nuovi: di miseri-cordia, di bontà, di umiltà, di pazienza e di dol-cezza» (Col 3,10ss) fino a raffinarla e ingenti-lirla, fino a renderla dolcissima, mantenendone peraltro tutta la solidità e la fermezza “garicoï-ste”: «Non dovete farmi l'ingiuria di credere che

io vi abbia dimenticata» (Lettera 83). Non esiterà a dichiarare il proprio amore e a domandare di essere riamato: «Ad-dio, mio caro amico; vogliatemi bene come io ve ne voglio (aimez-moi comme je vous aime). Non posso fare grandi cose, ma se mai potessi esservi utile, sappiate che mi fa-rete un gran piacere dandomi l'occasio-ne di provare i miei sentimenti per voi» (Lettera 10, p. 129).E il “ragazzone ignorante” diventerà uomo adulto che si commuove fino alle lacrime nel leggere la lettera inviatagli dagli studenti delle scuole betharramite di Buenos Aires, che gli porgevano gli auguri per l'onomastico nella festa di san Michele arcangelo del 29 settembre 1861: «Mi sono intenerito e commosso, fin quasi a piangere» scrive a padre Di-dace Barbé, superiore del Collegio di San José (Lettera 339).A testimonianza di quanto spesso e bene parlassero di lui i suoi preti in America, i ragazzi argentini, che non l'avevano mai visto, gli avevano scritto definen-dolo «encantadoras palabras y cariňo del corazòn» («Uomo dalle parole che incantano e dal cuore gentile»). «Agendo come se... senza aspettare di...» il “rozzo ragazzo” era diventato un buon padre, un uomo buono, un vero cristiano e dunque un santo.

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ci porta dal Cuore di Gesù al cuore di tutti».In Francia il gruppo della Fraternità «Me Voici» («Eccomi») di Limoges ha organizzato lungo la primavera una serie di incontri - tra cui proie-zioni e scuole di preghiera - per il 150° di san Michele, appuntamenti cui si sono uniti religio-si e laici di Pibrac e di Pau. Un gruppo di parroc-chiani di Pibrac ha fatto anche di più: si è messo in pellegrinaggio sulle orme di padre Garicoïts, partendo a piedi dalla grotta di Lourdes e cam-minando attraverso i boschi fino a Bétharram; il giorno seguente salita al Calvario, con preghiera e condivisione nella Cappella della Resurrezio-ne. Sempre a fine marzo la fraternità “Nemé”, i laici betharramiti associati di Adiapodoumé in Costa d'Avorio, ha tenuto il suo consueto riti-ro; a tema il messaggio di Papa Francesco per

Laici betarramiti in pieno movimento in tutti i continenti. Ad Adrogué, i laici del vicariato di Argentina e Uruguay - Fa.La.Be: Familia Laical Betharramita - hanno svolto il 30 marzo il loro primo incontro dell’anno. Nonostante il maltempo, bel clima di famiglia grazie a ben 110 parteci-panti, tra cui bambini e nonni... Preghie-ra, ascolto, passeggiate, testimonianze, gioco accompagnati dai padri Giancarlo, Guido e Paco. Scrive Gabriela: «Ringra-zio Dio di far parte di Bétharram. Spe-rimento davvero ogni giorno che siamo una famiglia, che stiamo facendo insieme un cammino di vita e di fede. Che laici e religiosi sono fratelli e che ci arricchiamo a vicenda. Che Bétharram è un ponte che

Brevi notizie dal "mondo betarramita". Per saperne di più e restare aggiornati, consigliamo di visitare il sito internet internazionale www.betharram.net (dove ogni giorno appaiono le news della congregazione)

LAICI, TUTTI IN MOVIMENTO

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la Quaresima: «Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà». La meditazione è stata se-guita dall’adorazione e dalla messa, quindi dal pranzo comune. Un mese più tardi le altre co-munità laicali betarramite ivoriane (Miè di Ya-moussoukro, Ninmin d'Adiapodoumé et Migan de Dabakala) si sono incontrate a Yamoussou-kro per alcuni giorni di riflessione animate da Olivier Aka su «La fede sia visibile nella nostra vita personale e di Chiesa»”. In Inghilterra 40 Companions di Bétharram provenienti dalle parrocchie di Balsall Heath, Great Barr, Droitwich, Leigh e Whitnash si sono incontrati a Olton per ascoltare, disposti in un un grande cerchio, la lezione del vicario Austin Hughes su un tema stuzzicante ma pure molto anglosassone: lo humour di Dio... Senso dell’umorismo e risata sono elementi essenziali di vita comunitaria e tengono unite le persone.

Brasile-Italia tra giovaniUn fine settimana di maggio ha visto svolgersi il primo campo per i Giovani Betharramiti del Brasile. La comunità parrocchiale di Belo Ramo a Paulinia (San Paolo) ha ospitato le tende di ragazzi provenienti da Sabará, San Paolo e Pau-linia per celebrare la conclusione del 150° di san Michele. Ma l’obiettivo più ampio era aiutare i giovani a vivere la gioia di stare insieme come fratelli in Bétharram e nella Chiesa. Tra i momenti più partecipati: il “fogón del con-sejo” (il «falò del consiglio»), il teatro dei giova-ni di Vila Matilde, i giochi, le riflessioni guidate

dai padri e le preghiere autogestite dai giovani.Ma anche in Italia i giovani «BetharrA-mici» non sono stati da meno: all’inizio di aprile si sono trovati a Fornovo (Parma) per tre giornate di riflessione e preghiera sul tema «Pietro, chi sei davvero?». Una esperienza intensa di condivisione in un clima fraterno e gioioso.

San Michele scrive sul webUn «regalo» alla fine del giubileo in ono-re di Michele Garicoïts: gli scritti del san-to basco saranno gradualmente resi di-sponibili a tutti in quattro lingue sul web. È iniziata infatti sul sito internazionale della Congregazione la pubblicazione completa della «Corrispondenza» di san Michele; ogni primo giorno di ogni mese apparirà un nuovo capitolo dei tre volu-mi in cui padre Pierre Duvignau ha radu-nato le lettere conosciute di padre Gari-coits, tradotte nelle principali lingue: per lo spagnolo dal compianto padre Miguel Martinez e dal missionario italiano padre Angelo Recalcati, per l’inglese da padre Dominic Innamorati e per l’italiano da Mario Grugnola. Un'opera monumentale che, grazie anche alla bella veste grafica, permetterà di mettere a disposizione di un pubblico vasto un patrimonio spiri-tuale finora poco noto ma di insospetta-bile profondità di pensiero e fede.

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mondobeta

4 nazioni a BétharramDieci giovani religiosi di 4 diverse na-zionalità sui passi di padre Michele Ga-ricoïts. È accaduto in aprile a Bétharram, durante la sessione internazionale in preparazione alla professione perpetua. Per 40 giorni gli aspiranti betarramiti provenienti dalle tre Regioni della con-gregazione - due dalla Costa d'Avorio, tre dal Brasile, due dal Paraguay, tre dall'In-dia - accompagnati da un'équipe pure in-ternazionale di formatori, si sono raccol-ti nella culla dell'Istituto per abbeverarsi alla sorgente della spiritualità del Sacro Cuore. Tra le iniziative svolte, anche il pellegrinaggio nei luoghi micheliani: Garacotchea (casa natale di san Miche-le), Hosta, Saint-Palais, la fattoria della famiglia Anghelu dove il futuro fondato-re servì come pastorello, Oneix e Garris. Alla fine dell'esperienza i giovani hanno redatto un fascicolo in cui hanno radu-nato le foto-ricordo e riassunto le loro impressioni: «Questa esperienza - scrive Vincent Worou Dimon, ivoriano - mi ha permesso di aprirmi con cuore grande alla spiritualità della congregazione e alla sua internazionalità». «Ora posso senti-re la missione che Bétharram mi affida di scoprire e vivere con gli altri la gioia dell'amore, là dove sono», riflette Victor Manuele Torales Martinez dal Paraguay. «L'incontro con diverse culture - sostie-

ne Michael Bistis Fernando, India - è sempli-cemente formidabile. Ho potuto sperimentare come la scintilla di san Michele ha illuminato tanti cuori, che hanno irraggiato il viso di Cristo lungo i secoli. Da qui porto la stessa scintilla nel mio Paese per mantenere la stessa gioia di esse-re betarramita».

Nuove chiese in ThailandiaHuaytong, parrocchia betarramita al nord della Thailandia, ha inaugurato l'8 maggio la nuova cappella di San Giuseppe. Il vescovo di Chiang Mai monsignor Francis Xavier Veera Arpon-dratana e il parroco padre Peter Chaiyot hanno benedetto la costruzione, resa possibile dalle offerte di due facoltose famiglie cattoliche della diocesi di Bangkok. Ma non cresce solo la chiesa di mattoni, anche quella di carne: poche settimane prima la par-rocchia betharramita aveva tenuto una settima-na di campo annuale di catechesi per i bambini: ben 140 i partecipanti, provenienti dai villaggi della zona che sono troppo lontani per parte-cipare alle regolari lezioni sui fondamenti del cristianesimo; al termine del campo 15 bambini sono stati battezzati.Il 9 maggio il vescovo di Chiang Mai si è tra-sferito nella parrocchia di Maetang per un'altra inaugurazione: il betarramita padre Mathew Chanchai lo ha assistito durante la benedizio-ne della nuova chiesa, dedicata anch'essa a san Giuseppe e pure essa sponsorizzata da una laica cattolica di Bangkok.

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Marcocco: teologia in dialogoIn arabo significa «L'accordo»: «Al Mowafaqa». È il nome dell'istituto ecumenico di teologia fon-dato nel 2013 (ma l'inaugurazione ufficiale sarà il prossimo 20 settembre) a Rabat dalla Chiesa evangelica del Marocco e dalla diocesi cattoli-ca, retta dall'arcivescovo betarramita Vincent Landel. Si tratta di un'esperienza unica, sorta anzitutto dall'amicizia personale tra monsignor Landel e il pastore Samuel Amédro; lo scopo è formare in teologia e pastorale laici capaci di reggere delle comunità anche in assenza di pre-ti e pastori. I corsi hanno due insegnanti, uno cattolico e uno protestante. I docenti vengono dall'Europa, ma si cerca soprattutto di prender-li da contesti africani, in modo da non imporre una visione teologica «coloniale»; ovviamente molto presente è il tema del dialogo con l'islam e nel Consiglio scientifico dell'istituto ci sono anche dei musulmani: dal gennaio prossimo è previsto un corso di 5 mesi di dialogo fra culture e religioni per cristiani provenienti dall'estero. «Al Mowafaqa» è diretta da un pastore rifor-mato ed ha sede in uno stabile dell'arcidiocesi, vicino alla cattedrale; è fondato in base a un de-creto reale ed è collegato alla facoltà protestante di teologia di Strasburgo e all'Institut Catholi-que di Parigi: «Non ci basta un piccolo centro di formazione, vogliamo l'eccellenza», sostiene il direttore. Un laico cattolico, Romain, è già stato inviato a sostituire un sacerdote anzia-no come responsabile della comunità a Oujda, verso la frontiera con l'Algeria, e l'esperienza è

positiva. La Chiesa cattolica marocchina conta 30.000 fedeli di molte nazionalità, soprattutto lavoratori e studenti emigrati temporaneamente, e dispersi in piccole comunità locali.

Missione tra i campesinosNuovo fronte missionario betarramita a Setubinha, diocesi di Teófilo Otoni, nel nord-est dello Stato brasiliano del Minas Gerais. Setubinha è una delle regioni più povere della zona, il comune è stato crea-to meno di 20 anni fa in una zona rurale; un terzo della popolazione vive in città, il resto in 25 comunità disperse e segnate dalla miseria. All’inizio del 2013 padre Eder, all'epoca diacono, e padre Paolo Cesar Pinto l'hanno scoperta durante la visita a un giovane in ricerca vocaziona-le; il vescovo non ha preti disponibili e il luogo è isolato e povero… Il Vicariato betarramita del Brasile comincia a pen-sarci; due religiosi vi si recano per la set-timana santa e si avvia (di persona, per posta o via mail) una consultazione tra tutti i confratelli; la maggior parte è favo-revole ad accogliere l’appello del vescovo e della gente di Setubinha. Seguono altre visite e contatti dei superiori e alla fine la decisione è presa, almeno in via speri-mentale. «Là dove nessuno vuole anda-re...», diceva del resto il fondatore ai suoi primi compagni.

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la parola del vicariodossier

dossierINDIA, LA SFIDA DEL DIALOGO

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MISSIONE NEL PAESE DOVE LO SPIRITO È CARNE

Se mai ne esiste uno al mondo, l'India non è di sicuro un «Paese qualsiasi»: tanto meno per la missione cattolica. Non lo è anzitutto per la vastità: alla pari e in concorrenza con la Cina, infatti, la grande penisola con oltre un miliardo di abitanti, in enorme maggio-ranza non cristiani, rappresenta una sfida storica che abbraccia il passato - da Francesco Saverio e ancora prima, addirittura dall'apostolo san Tommaso - e si apre al futuro; nel 2050 ci saranno circa 30 milioni di fedeli alla Chiesa di Roma, più che in Germania e quasi quanto in Polonia, per cui non è nemmeno possibile pensare al cristianesimo del millennio appena iniziato senza fare i conti con questo gigante orientale. Ma l'India è fuori dal comune pure per la sua tradizione e cultura millenaria. Per la prima volta, cioè, la missione si deve confrontare con religioni e società che non hanno alcuna soggezione nei confronti del cristianesimo, anzi al contrario lo considerano - esplicita-mente o no - «inferiore» rispetto alle proprie ricche radici. Certo, anche il Giappone - ad esempio - o la Cina stessa presentano culture religiose solide e prestigiose; ma forse solo l'India incarna in modo così massiccio e visibile la forza di una spiritualità che davvero incide nella vita. Non per nulla ancora oggi non sono pochi gli occidentali che vanno a cercare risposte di senso in riva al Gange...L'India è dunque una sfida davvero difficile per il Vangelo. Non basta qui affidarsi alle opere di carità e solidarietà umana, che tanto spesso nel terzo mondo si sono dimostrate e tuttora sono la porta principale per l'annuncio del Vangelo; anche se non mancano le disparità sociali e le situazioni di estrema povertà cui recare soccorso, infatti, soprattutto tra le minoranze etniche e i cosiddetti «fuoricasta», oggi la civiltà indiana è per altri aspetti tra le più progredite del mondo e d'altra parte già fornisce alle emergenze sociali risposte culturali e spirituali che - se per una mentalità occidentale non appaiono adeguate - obbli-gano a un confronto non banale, non soltanto materiale. E che le proposte cristiane finora fornite non abbiano ancora sciolto il nodo lo dimostra la fatica con cui il Vangelo si fa capire in quel grande Paese. Da quasi trent'anni anche i betarramiti sono dentro tale av-ventura plurisecolare, da quando hanno accettato cioè di fondare la loro prima residenza a Bangalore, nel sud più cristiano dell'India. Da allora il seme di san Michele ha registrato una crescita impressionante, che continua tuttora e che promette di estendere i suoi frutti sulla congregazione anche nel futuro. Come? In quali forme e con quali conseguenze? È proprio questa l'appassionante e complessa sfida che abbiamo scelto di raccontare nel dossier, nel quale presentiamo un'esperienza di missione forse insolita ma proprio per questo ricca di interrogativi anche per il nostro modo di vivere la fede.

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1870, quando la Beata Myriam Baouardy - suor Maria di Gesù Crocifisso, la «piccola carmelitana araba» che in moltissime occasioni (in Francia e in Terrasanta) fu un aiuto indispensabile per la giovane congregazione betarramita - si recò a Mangalore in India a fondare un Carmelo in quelle terre di missione. Non a caso la Regione betarramita anglofona (che comprende appunto l'India insieme a Thailandia e Inghilterra) è oggi intitolata alla Beata Myriam.Sono proprio le Carmelitane Apostoliche, insie-me alle Serve di Maria (altra congregazione mol-to legata a Bétharram, perché fondata ad Anglet, in Francia, da un compagno di seminario di san Michele Garicoits), alle Suore di San Giuseppe di Tarbes nei Pirenei e alle Suore della Croce di Chavannod (che lavorano coi betarramiti a Na-zareth e Betlemme), a invitare i betarramiti in India, dove loro sono già presenti da tempo. Le carmelitane hanno oltre mille suore indiane e saranno un aiuto preziosissimo per gli inizi in-certi di quella difficile missione: «Le suore sono state molto importanti all'inizio della nostra congregazione - si riflette tra i betarramiti -. Non è un segno da continuare anche ora?».I superiori infatti sanno di giocarsi parecchio nella nuova avventura: «È una follia, umana-

«Il Consiglio generale ci ha informato che, a domanda di due congregazioni re-ligiose femminili che lavorano in India, sono stati presi contatti con la Chiesa di quella nazione per studiare l'eventualità che religiosi indiani vengano accettati a Bétharram. Non si tratta di andare a cercare vocazioni, ma di aiutare alcuni giovani di quel Paese a scoprire la vita religiosa betarramita e a diventare mis-sionari nella loro stessa patria. Questo sforzo ci impegna tutti, spiritualmente e finanziariamente. All'unanimità il Capi-tolo generale ha domandato che i contatti in tal senso siano proseguiti».Comincia con questa breve nota, scrit-ta negli Atti del XXII Capitolo generale betarramita del 1987, la storia di Béthar-ram in India. Una vicenda che - quasi trent'anni dopo - possiamo ben dire che è andata lontano, e sulle sue gambe. Oggi il vicariato dell'India è infatti una realtà molto fiorente, con 4 case, 27 religiosi, di cui 20 sacerdoti, 23 seminaristi e giovani in formazione...Il seme di quest'opera però era stato pian-tato molto tempo prima, addirittura nel

PRIMI PASSI NEL SUBCONTINENTE

1988: da Roma parte un «esploratore», col compito di prendere contatti e valutare l'opportunità di una fondazione in India. Sono varie congregazioni di suore a incitare i betarramiti ad accettare la sfida.

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UN «FRULLATORE» DI POPOLI E CULTURE

Fin da tempi piuttosto lontani, l’India è un frullatore di popoli diversi per cultura, tradizioni e fede. Generazioni di viaggiatori, invasori e immigrati si sono incontrati qui, mischian-dosi più o meno consapevolmente tra loro e creando una società veramente multietnica.Se dovessimo fotografare il Paese dall’alto vedremmo una bella tavolozza composita con colori di pelle, tratti somatici e lingue diversissime. Gli antropologi parlano precisamente di tre ceppi raziali: i mongoli di lingua tibetana, per lo più concentrati nelle regioni orien-tali del Paese; i popoli del Sud-est e dell’altopiano centrale del Deccan, di statura bassa e folti capelli neri; infine gli europei, distribuiti un po’ dappertutto.Il complesso intreccio passa da una storia altrettanto variegata. A dare il la all’antichissima civiltà indiana sono delle popolazioni indoeuropee che circa 2000 anni prima di Cristo introducono un’organizzazione sociale a classi suddivise per etnia, che sarà alla base del rigidissimo sistema castale del Paese. Di questa prima cultura rimangono i «Veda», quattro libri sacri con inni e formule magiche che sono il primo nucleo dell’induismo. La fede indù ha fin da subito un carattere sociale e psicologico che risentirà dell’influenza di islam e buddhismo, ma prevale sulle due essendo tutt’oggi praticata dall’80% della popolazione.Il buddhismo e il giainismo, nati in quello stesso sud-est asiatico, predicano un’intima con-nessione tra spirito, corpo, natura e divinità, perciò prevedono anche pratiche ascetiche e diete vegetariane. Grazie al commercio lungo la via della seta il buddhismo si diffonde e arriva persino in Cina, tanto che l’antichissimo induismo ne risente: ad oggi però secondo le statistiche i buddhisti indiani sarebbero rimasti relativamente in pochi.Dopo l’espansione araba in Asia Minore, anche l’India recepisce l’islam. In particolare è un sovrano di origine turca ad impadronirsi della regione, instaurando il sultanato di Del-hi. In una regione già fortemente “religiosa”, l’islam non impone la conversione forzata, che però indubbiamente rappresentava un vantaggio, soprattutto per le classi sociali più deboli. Ancora oggi i musulmani sono almeno il 15% degli indiani. Il dialogo tra induismo e islam portò alla nascita della mistica musulmana dei sufi e del movimento riformatore e anticastale dei sikh. Questa religione monoteista polemizza con i riti induisti, ma anche con le sue posizioni politiche, e sono molti gli episodi di tensioni tra le due fedi.A conti fatti, la fucina indiana ha forgiato una civiltà di religiosità particolarissima proprio grazie agli spunti presi da autoctoni, ma anche da stranieri. In questo settore s’inseriscono pure i cristiani, anche se sono solo il 2% del totale. E non a caso la Costituzione parla di libertà di culto e di diritto religioso per tutti.

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comunità di Olton in Inghilterra, per metterli a contatto con le realtà betarramite europee, e poi farli tornare per gli studi in patria, dove saranno seguiti da un religioso missionario. «Ci sono dei pro e dei contro in questo modo di agire. Abbia-mo deciso di seguirlo perché ci sembra impor-tante che, prima di lanciare dei giovani nell'av-ventura di san Michele, sia giusto che possano conoscerla nella sua realtà odierna. D'altra parte non ci sembrava corretto che gli studi di base si compiano in una cultura diversa da quella india-na».Padre Landel ha scritto per i confratelli una gu-stosa e puntuale cronaca dei primi passi di Bé-tharram in India, compreso uno sciopero dei controllori di volo romani che gli ha scombusso-lato tutti i piani fin dall'inizio... Comunque sbar-ca a Bangalore alle 10 di sera del 18 aprile 1988: «Non immaginavo ancora che cosa mi stava succedendo. Non conoscevo nessuno, cercavo di trovare un telefono, e poi non avevo nemmeno una rupia in tasca... Alla fine vedo arrivare tre donne con un sari molto semplice e domando se aspettano qualcuno: siamo solo io e loro nell'a-eroporto. In effetti sono le suore Serve di Maria venute ad accogliermi».Arriva anche padre Mirco Trusgnach, altro be-tarramita missionario in Thailandia e già inviato in India l'anno precedente in una prima visita, e cominciano le prime esplorazioni del territorio. Panakahalli, a 6 ore di autobus, prima comunità delle Serve di Maria in India: «Già si compren-de il salto che bisogna fare tra Europa ed India,

mente parlando!», scrive il periodico Nouvelles en famille nel gennaio 1988; ma aggiunge che lo stesso si pensava nel 1856, quando il fondatore - agli albori della giovane congregazione - si privò dei più validi elementi per mandarli a fonda-re la missione in America Latina. Tutte le province dell'Istituto vengono invitate a fornire volontari e denaro per l'impre-sa: «Malgrado le nostre povertà, osiamo rischiare tutto. Il mondo si sposta verso l'Asia, non dobbiamo seguire questo mo-vimento? Non dobbiamo avere paura di inviare le nostre forze vive: sarà un arric-chimento per noi. Sarà mostrare la nostra fiducia nell'uomo e nella Chiesa». Il progetto iniziale prevede di trovare 4 religiosi disponibili a partire dal maggio 1989 per tre mesi; unica condizione: che sappiano l'inglese. Il loro coordinatore sarà padre Vincent Landel, che è il primo a partire nell'aprile 1988; base comu-ne: Bangalore, nello Stato di Karnataka. «Questi 5 fratelli dovranno inventare insieme qualcosa di appassionante, un altro tipo di comunità, un altro genere di presenza; dovranno scoprire come lo spirito di san Michele può mettere radici in India».Laggiù sono già stati allertati alcuni gio-vani che sono disposti a provare un'espe-rienza religiosa. Si pensa di portarli per qualche mese, nell'estate del 1988, nella

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la povertà ci assale dappertutto... La comunità è un piccolo angolo di paradiso in mezzo a una povertà contadina. Le suore sono lì in mezzo a un popolo di poveri, curano, educano i bambini, incoraggiano i più grandicelli ad andare a scuo-la, si occupano dei vecchi abbandonati, visitano i malati... Quando sono arrivate, il villaggio non aveva nemmeno l'acqua; o meglio, l'aveva in una grande vasca color cioccolato dove si faceva tut-to, dal lavare i panni e i piatti a fare la doccia e bere, animali e uomini. Quando si vede questa realtà, non si può che ammirare ciò che hanno vissuto queste suore, formate in Europa ma che hanno accettato di tornare in mezzo ai poveri». Le suore tengono moltissimo che i betarrami-ti si installino in India: «Vi aiuteremo in tutti i modi».La tappa seguente è il Kerala, Stato del sud dell'India dove un quarto della popolazione è

cristiana e si vanta di essere stata conver-tita dall'apostolo san Tommaso: «Chiese dappertutto, grandi croci, statue sacre a ogni incrocio...». Cinque cambi di auto-bus e 14 ore di viaggio per giungere ad Alwaye, dove un sacerdote locale - padre Paul Manavalan - si mette a disposizione e sarà davvero un enorme ed entusiasta aiuto per l'avvio di Bétharram in India. Ci sono già alcuni giovani disponibili a iniziare un cammino vocazionale, ma i vescovi del luogo - scottati da troppe con-gregazioni europee che vengono «a caccia di vocazioni» (all'epoca solo a Bangalore erano già presenti 130 Istituti religiosi...) - impongono saggiamente che i semina-risti prima di partire per l'estero trascor-rano almeno due anni di studio in patria. D'altra parte i betarramiti ripetono che

Una foto "d'epoca" dei primi tempi della fondazione betarramita in India

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e collocarvi una comunità di noviziato. Ma per farlo, secondo la legislazione indiana, occorre prima costituire una società di residenti che si intesti il tutto. Si decide pure di pubblicare alcuni annunci vo-cazionali sui giornali locali del sud dell'India, come è abitudine fare nel mondo anglofono. L'India ha poi leggi molto restrittive, gli stranie-ri ottengono il visto solo per tre mesi all'anno al massimo, per cui bisogna pensare a costituire équipe di educatori molto mobili e comunque farsi aiutare dal clero locale...«Non tutto è chiaro - spiega padre Landel ai confratelli - ma il movimento è lanciato, le cose si precisano, nasce una speranza. Alcuni giova-ni sono pronti a seguire la via di san Michele e sento sempre più quanto siamo fortunati ad ac-coglierli. Continuiamo a credere in ciò che sta nascendo».

non vogliono «entrare in India per avere vocazioni da mandare altrove; abbiamo fatto questa scelta perché crediamo che lo spirito di san Michele possa significare qualcosa in questo Paese».In effetti, rientrato l'«esploratore» padre Landel in Europa, i primi 3 aspiranti be-tarramiti - accettati il 28 aprile di quello stesso anno - trovano ospitalità in un se-minario locale e si continua con loro un contatto epistolare; sono tutt'e tre del Ke-rala: Jose Kallely, 19 anni, Thomas Kan-nampuzha, 20, Joseph Maliakkal,18.All'inizio del 1989 seconda missione in India di padre Vincent e padre Mirco; si capisce che la prima cosa da fare, se si vuole riuscire nella non facile impresa di installarsi in India, è comprare un appez-zamento di terreno, costruirvi una casa

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In effetti le cose marciano: in quello stesso 1989 altri 4 giovani aspiranti entrano nel seminario preparatorio di Aloor, una sorta di luogo co-mune dove abitano giovani destinati a diverse congregazioni religiose; si tratta dei due anni obbligatori prima di accedere agli studi superio-ri. Ai betarramiti si presenta anche un ragazzo del Kerala di 27 anni, che ha già frequentato la filosofia a Bangalore e domanda di entrare nella congregazione; si chiama Xavier Ponthokkan, viene inviato per il noviziato in Inghilterra e con i voti pronunciati nel settembre 1990 diventerà il primo betarramita indiano. All'inizio del 1990 anche il superiore generale dell'epoca, padre Terence Sheridan, si reca sul posto per studiare la situazione. I seminari indiani sono talmente pieni che si fatica a trovarne uno che possa ospi-tare anche i futuri betarramiti; alla fine si trova posto a Madras, Stato di Tamil Nadu, e a Ban-galore. «Sono tutti passi nuovi - scrive padre Sheridan - ma succede lo stesso a molte altre congregazioni. Se la Chiesa e Bétharram devono trovare un posto in questo vasto Paese, dobbia-mo avere il coraggio di andare avanti con spirito di fede. Sì, devo ammettere che è un rischio: ma la vita stessa non lo è?».

Nel 1991 nuovo viaggio del superiore, questa volta accompagnato da un con-fratello italiano, padre Enrico Frigerio, che è particolarmente adatto perché ha studiato le lingue e che nella storia dello sviluppo delle prime comunità betarra-mite in India avrà una grande parte. Gli aspiranti sono ormai 9, dispersi però su 4 luoghi di formazione: urge trovare una sede unica! Si pensa a Bangalore, capita-le del Karnataka, in quanto è una città in crescita e cosmopolita dove non si vedo-no le differenze con persone provenienti da altri Stati dell'India, ci sono numerose possibilità di formazione perchè moltis-sime congregazioni vi si sono stabilite, c'è la vicinanza delle Serve di Maria e in-fine fa meno caldo che in altre città, visti gli 800 metri d'altezza...Finalmente il 1° maggio 1992 giunge il permesso ufficiale dell'arcivescovo di Bangalore, monsignor Alphonsus Mathias, ad aprire una casa di formazio-ne in diocesi. Viene costituita un'associa-zione riconosciuta legalmente, chiamata «La congregazione del Sacro Cuore di

SHOBHANA SHAAKHA, UN «BEL RAMO» IN HINDI

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Bétharram», di cui la superiora genera-le delle Carmelitane Apostoliche della Beata Myriam assume cortesemente la presidenza: è il passo necessario per ac-quistare finalmente un piccolo terreno dai salesiani, in periferia ma ad appena 3 km dalla stazione ferroviaria della città. «Dolcemente Bétharram si fonda in In-dia» è la conclusione del superiore gene-rale padre Sheridan. Padre José Mirande aggiunge: «Intorno al nostro stabilirsi in India si crea un clima di luce, di azione della Provvidenza, di presenza discreta ed efficace della grazia. Tutto l'Istituto è disposto a ri-approfondire la sua spi-ritualità di fronte alla nuova scommessa di trapiantarsi al cuore di una spiritualità millenaria e così diversa».Dall'Inghilterra nel giugno 1993 arriva fratel Michael Richards per sovrinten-dere ai lavori di costruzione della recin-zione e delle fondamenta della casa; un forte aiuto viene dalle suore del Carmelo: suor Carlita, l'economa generale, si met-te addirittura a disposizione al cantiere perché sa che gli operai non avrebbero accettato ordini da uno straniero; e in ef-fetti in un paio d'anni il seminario sarà pronto ad accogliere i suoi abitanti. Nel 1994 giungono in Italia, a Sala Baganza (Pr), i primi novizi indiani. Nel genna-io successivo padre Francesco Radaelli, nuovo superiore generale, è in India:

«Tutto qui per me è nuovo, affascinante, e tutto mi dice, ancora una volta, per quanto riguarda la nostra famiglia betharramita, inizio di vita, speranza, futuro!».L'estate 1995 vede porre due pietre miliari nella storia di Bétharram in India: il 26 agosto l'ordi-nazione sacerdotale di padre Ponthokkan, pri-mo prete betarramita indiano, e il 1° settembre l'inaugurazione di Shobhana Shaakha («Ma-donna del Bel Ramo»), residenza della prima comunità betarramita in India. Esiste una bella cronaca degli avvenimenti.«Sabato 26 agosto tutta la piccola comunità betharramita dell'India si era recata a Sneha-puram, villaggio natale di padre Xavier nello stato del Kerala, diocesi di Trichoor, nel sud dell'India. Era accompagnata da padre Anthony Madej della vice-Provincia d'Inghilterra, dove Xavier aveva studiato per tre anni teologia, da padre Alessandro Paniga della Provincia d'I-talia, dove Xavier aveva appena terminato un anno di studi in spiritualità, e da padre Pierre S. Carricart, assistente generale. Quale segno di benedizione, come si dice comunemente, ha piovuto tutto il giorno: una pioggia monsonica, calda e ininterrotta... Ma i cuori erano tutti in festa: all'interno e all'esterno la chiesa era in-ghirlandata e decorata con fiori; donne in sari dai colori cangianti; uomini e bimbi in abiti di festa; più di mille persone si erano spostate per partecipare alla festa. All'esterno, sotto il riparo supplementare allestito davanti alla chiesa, la "banda" accordava gli strumenti, mentre all'in-

Si fonda la prima casa a Bangalore, viene ordinato il primo sacerdote locale, sorge il seminario... Insomma, l'albero di san Michele mette radici e «dolcemente Bétharram si fonda in India».

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LE MERAVIGLIE DELLA BEATA MIRIAM

«La Beata Miriam farà che Bétharram sia accolta nel Paese dal quale lei è stata rifiutata»: così una suora del Carmelo Apostolico di Bangalore ha augurato ai primi padri betarra-miti che approdavano in India. Che cosa voleva dire?La storia ha ramificazioni lontane e si fonda su una figura enigmatica e affascinante, Mariam Baouardy, religiosa e mistica di origine palestinese, vissuta anche in Francia e in India alla fine dell'Ottocento e molto legata alle vicende dei betarramiti (le abbiamo dedicato un dossier speciale nel numero 4 di «Presenza» del 2012). Mariam nacque nel 1846 ad Abellin, un villaggio vicino a Nazareth, da famiglia cristiana. Rimasta presto orfana, seguì in Egitto lo zio che - secondo il costume orientale - a 12 anni la promise in sposa a un parente; lei però rifiutò, scatenando le ire della famiglia. In seguito a varie vicissitudini e al rifiuto di convertirsi all'islam, un musulmano le tagliò la gola con una scimitarra. Ma Miriam miracolosamente guarì: era il primo dei segni pro-digiosi (estasi, rivelazioni, stigmate, levitazioni) che poi caratterizzarono tutta la sua vita.Fedele al proposito di consacrarsi a Dio, la giovane (completamente analfabeta) lavora a lungo come domestica in diverse case finché a 18 anni capita in una famiglia che la porta con sé in Francia, a Marsiglia. Lì può cominciare a frequentare un convento che la accetta come novizia. Anche quella esperienza però non funziona: la «piccola araba» non viene ammessa alla professione religiosa, tuttavia nello stesso periodo può seguire un'altra suora (madre Veronica, futura fondatrice delle Carmelitane Apostoliche indiane) al Carmelo di Pau, nei Pirenei vicino a Bétharram. Lì finalmente nel 1867 riesce a vestire l'abito, non senza altre difficoltà.

Le suore Carmelitane Apostoliche che hanno accolto i betarramiti in India

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Ma le peripezie di suor Maria di Gesù Crocifisso (così il suo nome da religiosa) sono lun-gi dall'essere terminate. Ancora novizia, viene scelta insieme a 5 consorelle per andare a fondare un Carmelo in India, a Mangalore: il vescovo carmelitano del luogo, infatti, mon-signor Marie-Ephrem, ritiene che la presenza di suore sia molto preziosa in ambito indù e anzi preme perché nel gruppo sia presente anche la giovane araba, di cui sono note le caratteristiche mistiche. Proprio grazie a una visione di suor Miriam viene individuato il benefattore, un nobile belga, che offre il denaro necessario all'impresa.Le religiose partono così nell'agosto 1870 accompagnate da due sacerdoti carmelitani e tre terziarie. Un viaggio altamente drammatico: ad Aden, sul Mar Rosso, due delle reli-giose muoiono di malattia e anche una terza - la superiora madre Elia, con la quale suor Miriam aveva grande confidenza - muore poco dopo lo sbarco in India. Le sei religiose alla partenza sono dunque dimezzate all'arrivo a Mangalore, il 19 novembre 1870. Per la «piccola araba» comincia un periodo felice: si sta preparando alla professione perpetua e sembra che tutti, il vescovo e le consorelle, siano felici del suo comportamento. I voti solenni vengono infatti pronunciati un anno dopo, il 21 novembre 1871, ma esatta-mente da quel giorno comincia un paradossale capovolgimento di giudizio nei confronti della nuova suora. Ella infatti torna ad essere protagonista di espressioni mistiche straordinarie, profezie ed estasi, e comportamenti che sconcertano e che alla fine vengono giudicati frutto di auto-suggestione se non addirittura demoniaci. La nuova superiora e il vescovo si pronunciano in tal senso (anni dopo avranno modo di ritrattare tali impressioni) e la stessa interessata manifesta la volontà di tornare in Francia, cosa che avviene il 23 settembre 1872. Suor Miriam ha dunque passato in India due anni scarsi soltanto, e per di più con effetti difficili da decifrare anche nel contesto della sua vita precedente e successiva: tornata a Pau, infatti, la «Piccola Araba» ripartirà nel 1875 per la Terrasanta, dove fonderà i Car-meli di Betlemme e Nazareth (da sempre legati ai preti del Sacro Cuore) e dove morirà il 26 agosto 1878; Giovanni Paolo II la dichiarerà beata il 13 novembre 1983. Il mistero del veloce passaggio di suor Maria di Gesù Crocifisso in India ha comunque dato frutto: le Carmelitane apostoliche fondate da Madre Veronica oggi contano 27 con-venti nella grande Penisola, con oltre 1000 suore tutte indiane o dello Sri Lanka e molte novizie. In più ora ci sono anche i betarramiti, che non a caso hanno intitolato la loro Provincia asiatica proprio alla Beata Miriam.

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zione per il definitivo assetto interno. È una bella casa, spaziosa, solida, fun-zionale, decorata per l'occasione con ghirlande e fiori. Davanti a 150 invitati (una decina di congregazioni, membri del clero secolare, vicini e amici, i com-pagni di scuola dei giovani betarramiti, i responsabili e gli operai che lavorano alla costruzione) monsignor Alphon-sius Mathias, arcivescovo di Bangalore, scopre la placca commemorativa dell'e-vento, padre Enrico Frigerio - nominato superiore della nuova casa - tiene il di-scorso ufficiale e padre Pierre Carricart a nome del Consiglio generale taglia il na-stro e guida il corteo alla cappella - il vero cuore della casa, capace di contenere an-che 200 persone e decorata da vetrate vi-vaci - per la cerimonia della benedizione, la consacrazione dell'altare e la messa. Il nome indiano scelto per la nuova fon-dazione è Shobhana Shaakha, ovvero «Bel Ramo» in hindi.I primi ospiti sono due studenti di teolo-gia, Paul Biju Alappat e Anthony Britto Rajan; poi negli anni si aggiungono loro molti altri tra aspiranti e giovani in for-mazione (nel 1997 sono già 20). La comunità è diretta da padre Frigerio, cui nel 1996 si aggiunge dal Brasile pa-dre José Mirande, vi abitano anche pa-dre Xavier e i religiosi fratelli Gerard Su-therland e Michael il costruttore. Infatti

terno i musicisti aggiustavano la loro sonorizza-zione, molto moderna».«La cerimonia dell'ordinazione comincia e dura circa un'ora e mezza. Monsignor Joseph Kun-dukulam, arcivescovo di Trichoor, celebra in rito siro-malabarese e in lingua locale malayala. Rito relativamente sobrio, senza gesti di osten-tazione, con molti testi e canti recitativi. La folla, seduta per terra per tutto il tempo della celebrazione, ha partecipato con grande atten-zione e prendendo parte ai canti intonati e ac-compagnati dall'orchestra. Per noi occidentali, l'ascolto attento e la pre-ghiera silenziosa sono stati i soli modi di par-tecipare alla celebrazione; la similitudine con il rito latino era comunque sufficientemente chia-ra. Al termine della cerimonia il novello prete ha celebrato subito la sua prima messa concele-brata, circondato da una dozzina di sacerdoti, di cui quattro betharramiti. La folla, in piedi, sem-brava partecipare ancora di più, aiutata dall'or-chestra e da due o tre solisti... Dopo tre ore di celebrazione, gli stomaci comin-ciavano a brontolare! Tutti sono stati invitati al pranzo: davanti alla casa di padre Xavier era allestito un grande riparo moderno, una spe-cie di tendone dai colori sgargianti; a fianco un servizio cucina che forniva in abbondanza riso, carne, pesce, varie salse a tutti gli invitati... Una giornata di festa e di gioia pienamente riusci-ta!».Il 1º settembre nuova cerimonia: apertura uffi-ciale del seminario, sebbene ancora in costru-

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i lavori non sono finiti: oltre ai completa-menti interni, vengono costruiti una stal-la per alcune mucche, il porcile (due ma-iali), un pollaio per galline e conigli, una vasca per i pesci; nel grande orto cresce inoltre un frutteto rigoglioso e una buo-na varietà di verdure. Gli studenti stessi fanno i coltivatori, ac-cudiscono gli animali e lavorano la terra guidati da un uomo esperto del luogo: al di là del valore educativo del lavoro manuale (è molto facile staccare questi giovani dall'ambiente da cui provengo-no, creando per loro un'oasi protetta e privilegiata ma lontana dalla vita della gente con cui invece dovranno lavorare), il «frutto del proprio lavoro» significa concretamente cibo quotidiano... E del resto ogni casa religiosa in India si mantiene così, per cui già si comincia a pensare a un altro terreno che possa ser-vire sia per le coltivazioni, sia per una seconda casa destinata al noviziato dei futuri consacrati. È necessario peraltro essere accorti e se-veri: l'esperienza di molte altre congre-gazioni insegna che non bisogna lasciarsi affascinare dalle numerose richieste di entrare a far parte dell'istituto, dettate però da considerazioni di sicurezza eco-nomica e miglioramento del proprio sta-to sociale; e tutti concordano nell’invito a «non correre», sia a livello di formazione

che di reclutamento. Continua la stretta colla-borazione e amicizia con il resto del clero locale, da quello diocesano ai religiosi e alle religiose: Shobhana Shaakha ospiterà nel tempo studenti di varie congregazioni e sacerdoti secolari. Lo raccomanda lo stesso arcivescovo: «State at-tenti a non creare una realtà chiusa! Cercate di instaurare rapporti di conoscenza e di amicizia con i vicini; andate da loro, avvicinateli, interes-satevi alla loro vita e ai loro bisogni. La vita religiosa non può essere isolamento (come ai tempi dei monaci del deserto); deve essere tra la gente, nel mondo, perché possa es-sere luce del mondo». Ai betarramiti si consiglia fortemente che, ap-pena possibile, inizino un’attività pastorale missionaria con una piccola comunità in cam-pagna, perché i giovani possano vedere fin da subito che entrano nella congregazione per una missione da compiere e non per installarsi in una comoda sistemazione.Tanti rischi, ma pure molta speranza: come in tutte le giovani realtà. L'assistente generale padre Giacomo Spini, in visita alla comunità, annota: «In India si sta co-struendo una grande storia. È un nuovo ramo che si è ben innestato su Bé-tharram e che presenta tanti germogli che pro-mettono uno sviluppo grande e ricco di frutti.Formare, seguire, accompagnare questi giova-ni che si affacciano a Bétharram è costruire fu-turo, è ridare vita e sviluppo al carisma di san Michele».

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I CRISTIANI NATI DALL'APOSTOLO TOMMASO

In India una gran parte della Chiesa cattolica, quella del Sud, fa risalire la sua fondazione a san Tommaso, l’apostolo «incredulo» che volle mettere il dito nelle piaghe del Risorto e poi nell’anno 52 sarebbe sbarcato sulle coste dell’India per evangelizzarla. Nel Kerala san Tommaso è praticamente dappertutto: a Mylapore, presso Madras, si venera il luogo del suo martirio e la sua tomba (oggi vuota, perché i resti sarebbero conservati parte in Portogallo e parte in Italia). C’è persino una croce che l’apostolo avrebbe scolpito con le sue mani e un ritratto della Madonna dipinto da san Luca e portato in India da Tomma-so… Tutte leggende ? Oggi anche gli studiosi rivalutano un nucleo storico di fondo e del resto sono documentati gruppi di cristiani nel Sud dell’India almeno dal IV secolo.I cristiani di san Tommaso appartengono a un rito particolare, il siro-malabarese, che ha liturgia e gerarchia proprie. Dal Kerala questi cattolici sono emigrati in varie altre parti del Paese (circa la metà dei preti e delle suore indiane sono originari di questo Stato), dove però si mantiene il rito latino, a parte una piccola minoranza (circa 300.000 persone) sempre nel sud del Kerala che è di rito siro-malankarese. Queste diversità creano in effetti alcuni problemi e talvolta conflitti tra cattolici, per questioni di competenza gerarchica sui vari fedeli ; a volte nelle città ci sono due cattedrali e due arcivescovi di rito diverso, l’uno a pochi passi dall’altro…Del resto, con la dominazione portoghese nel XVII secolo, venne effettuata una campa-gna di «normalizzazione» di tutte le Chiese cristiane anche con metodi violenti : i latini bruciavano i libri sacri dei fratelli di altro rito e proibivano di celebrare le loro liturgie. Il clero missionario imponeva ai convertiti nomi portoghesi, li costringeva a mangiare carne bovina (le vacche per gli indù sono sacre), a calzare scarpe invece di andare a piedi nudi come nell’uso tradizionale… Tutte pratiche che rendevano la Chiesa cattolica anche visivamente «estranea» alla cultura indiana. Infatti nel 1620 si verifica la «rivolta dei cristiani di san Tommaso», dei quali prese le difese l’illuminato gesuita italiano Roberto de Nobili (1577-1656), vero modello di inculturazione: vestiva la tunica gialla dei guru, studiava il sanscrito e leggeva i libri sacri induisti. Per questo venne accusato di essere pagano e di incentivare le superstizioni, ma di fatto preparò la via al clero indigeno.Oggi la Chiesa cattolica in Kerala è molto viva. I siro-malabaresi nel mondo sono circa 4 milioni, 500.000 dei quali emigrati nei Paesi arabi in cerca di lavoro ; in patria costitu-iscono circa un quarto della popolazione del Kerala (mentre in tutta l’India i cristiani non raggiungono il 2%) e dal 1887 hanno vescovi propri, anche un cardinale, che reggono 29 diocesi.

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dalle suore del Carmelo Apostolico, affinché i figli di san Michele assicurino loro l'assistenza religiosa; il nome scelto è Maria Kripa, ovvero «benedizione di Maria». Vi si distaccano padre Mirande e il neo-prete padre Britto per seguire i 13 studenti più giovani nel postulandato: sono ragazzi tra i 15 e i 17 anni, provengono da 4 lin-gue diverse perché sono stati presi dai gruppi più poveri; il primo anno della loro formazio-ne prevede infatti l'insegnamento dell'inglese e dell'hindi.La crescita di Bétharram in India è spettacolare, ogni anno gli aspiranti aumentano quasi a pro-gressione geometrica. Nei primi anni Duemila i membri delle comunità superano già il numero di 50, la gran parte dei quali ovviamente in for-mazione. A volte i seminaristi vengono inviati per un periodo all'estero, in Inghilterra, per co-noscere più da vicino la famiglia betarramita nel continente in cui è nata; parimenti qualche gio-vane chierico straniero, per esempio dal Brasile o dalla Thailandia, trascorre periodi di esperien-za e studio in India. Ogni anno è scandito dalle nuove professioni religiose, poi dalle ordinazio-ni sacerdotali...Il consiglio di allargare il raggio anche a realtà di vera missione viene ascoltato. Nel 2006, per

15 agosto 1997: 51° anniversario dell'in-dipendenza dell'India. Nel nome del Ma-hatma Gandhi si issa la bandiera e si leg-ge il messaggio ufficiale. Ma subito dopo è la festa per la professione perpetua di Paul Alappat Biju e di Antony Rajan Brit-to: i primi due indiani formati intera-mente nella comunità betarramita. Non sono passati nemmeno 10 anni dal primo viaggio esplorativo di padre Landel.A Bangalore sta sorgendo un'altra casa per il noviziato, che verrà aperto nel 1998 con tre aspiranti: Valan, Enakius e Ster-vin. L'anno seguente si decide di conso-lidare l'internazionalità della congrega-zione inviando due studenti betarramiti thailandesi a completare gli studi di teo-logia in India: si pongono così le basi per una collaborazione che continua tuttora all'interno della Regione anglofona dell'i-stituto.Il 1° giugno 1999 viene aperta la seconda comunità betarramita indiana a Manga-lore, a 350 km a sud di Bangalore nello stesso Stato di Karnataka, la città dove la Beata Miriam si era stabilita nell'Ot-tocento. La casa è stata offerta proprio

SEGNO DI PACE CONTRO LE DIVISIONI

Nuova fondazione a Mangalore e poi, col crescere delle vocazioni, l'apertura alle missioni nei posti più difficili e poveri dell'India del Nord, dove i cattolici sono un'infima minoranza. E dove il dialogo tra le religioni è questione vitale.

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esempio, il seminarista Pascal Ravi trascorre un intero anno di esperienza pastorale a Guaripur nell'Assam, al nord-est dell'India al confine con il Bangladesh, dove abitano povere tribù; la sua è anche una missione esplorativa per scoprire nuovi campi in cui impiegare le giovani forze di cui progressivamente si dispone.Infatti nel 2009 ecco il giovane betarramita padre Shaju Kalappurackal aprire la missione di Hojai nell'Assam, arcidiocesi di Guwahati, in una zona molto povera dove i villaggi sono abitati da tre minoranze etniche (Karbi, Gar-ro, Santal) e i cattolici sono meno dell'1% della popolazione; insieme ad alcuni seminaristi, che si avvicendano in loco, padre Shaju compie un apostolato veramente missionario, con la gestio-ne di scuole, l'organizzazione della catechesi, i giri nei villaggi... C'è anche un collegio cattolico intitolato a Don Bosco. Nella zona altri betarra-miti via via si impegneranno nella pastorale: pa-dre Subesh come rettore di un seminario a Bon-gaigon, fratel Satish nel Nagaland, fratel Jude a Shilong... Dall'ottobre 2010 la parrocchia di Cri-

sto Redentore a Hojai viene ufficialmente affidata ai betarramiti, con padre Shaju parroco (oggi lo sostituisce padre Subesh Sebastian Odiyathingal, sempre affianca-to da vari seminaristi in stage pastorale); per raggiungerla da Bangalore occorre un viaggio di 3 giorni in treno... Via via, col crescere della comunità, i be-tarramiti accettano il ministero anche in varie parrocchie nella diocesi di Bangalo-re: San Tommaso per padre John Britto, Sant'Antonio nella periferia di Adhigon-dana Halli con padre Valan Peter Kana-garaj , il Santo Nome di Gesù nell'altro quartiere di Rajarajeshwari Nagar con padre Anthony Britto... Dal 2010 padre Britto Rajan svolge l’incarico pastorale nella missione di St. Lawrence.Ma ci sono anche i primi dolori, i lutti. Colpisce molto la tragica morte di padre Xavier Ponthokkan il 13 ottobre 2006: sia per la giovane età del sacerdote (non aveva nemmeno 45 anni), sia perché era

Alcuni seminaristi betarramiti indiani

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stato il primo betarramita indiano. Ave-va chiesto di entrare nella congregazione nel 1989, ai primi padri che si erano reca-ti in India, quindi aveva fatto il noviziato in Inghilterra e studiato anche in Italia; sacerdote dal 1995, era stato superiore prima a Bangalore poi a Mangalore e dal 2001 era responsabile dell'intera delega-zione indiana. Padre Xavier rimane vit-tima di un incidente stradale di ritorno dall’Andra Pradesh.È un colpo che segna fortemente la gio-vane comunità betarramita indiana, che infatti nel 2013 ha deciso di dedicare un'opera caritativa al suo primo confra-tello. Tanto più che nel febbraio 2008 la famiglia betarramita indiana subisce un'altra perdita, quella del seminarista Denis Cuntinha, 37 anni, deceduto per attacco cardiaco a poche settimane dai voti perpetui.Nel novembre 2007 Bangalore viene scel-ta come sede per lo svolgimento del Con-siglio di congregazione: da tutto il mon-do, i responsabili betarramiti si ritrovano per la prima volta insieme in India; è un gesto significativo per «manifestare la vitalità di Bétharram in quest’immensa nazione e incoraggiare la giovane Delega-zione scossa dal decesso, un anno fa, del suo primo superiore e primo betharrami-ta indiano».Nella cultura indiana, nella quale i segni

del corpo sono fondamentali, si tratta di una oc-casione tutt'altro che formale, come sottolinea padre Biju, diventato superiore dopo la morte di padre Xavier: «L’annuncio dell’arrivo del Consi-glio di congregazione a Bangalore ha suscitato in noi gioia e fierezza. L’abbiamo considerato come una grazia speciale del Signore, un onore ed una riconoscenza per le nostre comunità e per il po-polo dell’India. Abbiamo accolto questo avveni-mento di gran cuore, con entusiasmo e speranza. Ogni comunità ha pregato specialmente e quoti-dianamente per il successo dell’incontro. Per le nostre comunità e i nostri amici era un’eccellen-te opportunità di incontro, di scambio e di co-noscenza reciproca. Per tutta la durata del Con-siglio, la presenza dei padri ha riempito i nostri giovani fratelli di gioia e di zelo. E io credo che i membri del Consiglio hanno provato gli stessi sentimenti durante il loro soggiorno in India».È anche l'occasione in cui l'India viene «promos-sa» a Vicariato nella Regione Beata Myriam, alla pari e insieme con Inghilterra e Thailandia. Pesa sempre però la dipendenza economica dall'Eu-ropa, soprattutto dall'Inghilterra. Nel 2008 col-pisce l'India un'ondata di violenze anticristiane, come periodicamente avviene in questo Paese dove la convivenza religiosa viene talvolta turba-ta da questioni politiche nazionali e internazio-nali, fino ad arrivare alla nascita di movimenti integralisti e alla violenza.Il 14 settembre atti di vandalismo sono segnalati contro una ventina di chiese a Mangalore e an-che Maria Kripa è fatta oggetto di una sassaiola

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MISTICO, POVERO, PROFETICO:DA NOI IL RELIGIOSO DEV'ESSERE GURU

La Chiesa in India è diventata una potenza: possiede beni, denaro, ospedali, opere… Ma sono queste le cose di cui l’India ha bisogno? Ha soprattutto bisogno di persone la cui vita è centrata su Dio, di persone religiose radiose che respirino e traspirino il Vangelo.Siamo così noi? No! La vita religiosa in India è diventata una faccenda di comodità, di potere. Voi cominciate in India adesso: non prendete la nostra stessa malattia. Spesso diamo una testimonianza contro il Vangelo. Abbiamo bisogno di essere purificati, abbia-mo bisogno di una disciplina di vita. La Chiesa offre i sacramenti, ma aiuta le persone ad incontrare il Cristo ed a convertirsi per costruire il Regno? La gente viene forse da noi per chiederci: «Insegnateci a pregare, condividete con noi qualcosa di Dio»? No, ma piuttosto: «Avete un posto per mamma all'ospedale o per mio figlio a scuola?». Riceviamo la vita dal Cristo per poi offrirla e darla in cibo come eucaristia? La mia vita religiosa non è un oggetto di consumo, di piacere? Oggi, si cerca ovunque il successo, l'efficacia. Noi dobbiamo andare verso le persone inefficienti: malati, vecchi, bambini, handicappati. Il Signore ci parla attraverso ciò che è debole nel mondo.Noi, religiosi, siamo chiamati ad essere profeti: il profeta è qualcuno che ascolta Dio, che ha un'esperienza di Dio, che legge i segni dei tempi in favore della società. Tutta la nostra vita deve manifestare il Vangelo. Non facciamo come i missionari di prima che cercavano di convertire le persone, di farli cambiare di religione: no, convertire è aiutare l'altro a volgersi verso il Regno di Dio, a costruirlo. Dobbiamo essere semplici, accessibili. Dobbiamo avere sogni per gli uomini d’oggi. E per realizzare questi sogni, dobbiamo essere pieni dello Spirito che mette in noi ciò che dobbiamo dare agli altri.Siamo chiamati a rifondare la nostra congregazione, a vivere il carisma nell’intimo del cuore ed a lasciarlo esprimersi attraverso la società, la cultura, per rispondere ai bisogni degli uomini d’oggi. È finito il tempo di quando si lavorava solamente nella propria con-gregazione: dobbiamo lavorare in rete, con altre congregazioni e con i laici, come pure con altre religioni. Abbiamo bisogno di persone coraggiose che osano proporre novità.Quando cercate vocazioni, non restate in un solo luogo ma andate in diverse parti dell'In-dia: se no, ci sarà una lingua dominante, il che non è bene. La formazione deve essere adattata. Non ci sono soluzioni pronte all’uso, bisogna discernere, bisogna cercare con tanta pazienza e molta preghiera, rimanendo aperti, umili… Non si finisce mai: il Signore è presente. Viene, viene sempre sulle nostre strade. Abbiamo bisogno di mistici. Per es-sere testimoni dobbiamo essere mistici. Non basta essere buoni religiosi, fedeli agli orari ed agli esercizi comunitari. Dio deve essere la nostra passione, la nostra fame, la nostra sete; se no, non abbiamo ragione di esistere come religiosi oggi. Amen.

Suor Lucyfondatrice di un ashram (centro di spiritualità) cattolico

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che danneggia il tetto. Nessuno rimane ferito e il superiore padre Biju fa interve-nire la polizia; ma rimane un'atmosfera di paura. I responsabili sono i membri del partito fondamentalista indù Sangh Pari-var, che accusano i cristiani del Karnata-ka di «conversioni forzate»: un pretesto spesso usato in India, dove la legislazione è particolarmente severa contro ogni pro-selitismo. Tra l'altro, la Chiesa cattolica proibisce le conversioni forzate e i nuovi cristiani vengono accolti solo dopo atten-ta analisi delle motivazioni e della libertà di scelta, dopo un lungo periodo di cate-cumenato. Padre Biju testimonia: «Il 14 settembre, mentre tutta cristianità venera la Croce, le sue chiese e le sue istituzioni sono state attaccate e degli innocenti sono stati in-carcerati. Senza un valido motivo, chiese e conventi di Mangalore (persino la cap-pella di un monastero) sono state prese d’assalto, con statue rotte, bibbie e libri di

canto bruciati. Lo stesso giorno, durante la cele-brazione eucaristica, abbiamo pregato per que-sta intenzione. Ma dopo cena alcuni facinorosi hanno scagliato pietre contro la nostra abitazio-ne. Subito abbiamo chiamato la polizia, che è in-tervenuta rapidamente. Da allora il quartiere di Mary Hill si avvale della protezione permanente della polizia. I giornali del 16 settembre hanno riferito di 11 attacchi, mentre in realtà ce ne sono stati molti di più, importanti o meno. Nella città di Mangalore sono stati attaccati il monastero dell’Adorazione, la chiesa di Kulshekar, gli edifi-ci parrocchiali di Milagres, Padoua, il priorato di Sant’Anna, la nostra comunità di Maria Kripa, il convento di Mary Hill con gli edifici annessi. Lo stesso si è verificato a Permannoor e in altri luo-ghi. Sono stati registrati attacchi nella periferia di Mangalore. In una chiesa alcune suore e alcu-ni laici sono stati picchiati e feriti. Nello stesso periodo, nel distretto di Bangalore, ci sono sta-ti attacchi a Kolar, Thumkur e in altri luoghi. È evidente che queste azioni violente sono state pianificate e concertate. In vari luoghi, dove si

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cercano la divisione».Commenta infine padre Biju, vicario re-gionale: «Malgrado le sue ricchezze cul-turali e religiose, l’India di oggi è ferita, ha bisogno di una liberazione interiore. L’India è vittima del sistema delle caste, del fanatismo religioso, della discrimina-zione sessuale, dello sfruttamento econo-mico e dell'emarginazione delle donne, dei bambini, degli emarginati. In questo terreno, Bétharram ha un ruolo profeti-co da svolgere: essere un ramo di ricon-ciliazione e di pace, a immagine di Gesù, ramo Salvatore teso da Dio all'umanità. Siamo chiamati a rivelare la giustizia e la compassione di Dio verso i poveri e i diseredati, con l’opzione per i poveri, la semplicità di vita, una forte esperienza di Dio, la santità personale e la vita fraterna. L’India è un crogiolo di religioni. La reli-giosità è essenziale alla vita, all’arte e alla cultura indiana. L’esperienza spirituale è apprezzata al-tamente, le donne e gli uomini di Dio godono di grande stima e rispetto. Sen-za essere ufficialmente cristiani, un gran numero di indiani accettano, adorano e seguono il Cristo come loro Signore e Maestro. Il pluralismo religioso, il senso del sacro, la spiritualità dell'unità nella diversità, sono dei tesori dell'India che possono ar-ricchire la famiglia di Bétharram».

sono verificate le aggressioni più violente, alcu-ni giovani cristiani hanno risposto con lanci di pietre, però la Chiesa condanna qualsiasi atto di violenza ed esorta i propri fedeli a non cedere a tali provocazioni. Questi sono crimini contro l’umanità». I cristiani di Mangalore organizzano anche ma-nifestazioni di protesta, bloccando l'autostrada e subendo una violenta repressione da parte della polizia. La violenza si estende a vari Sta-ti indiani, con incendi di chiese e ferimento di preti o suore. I vescovi si fanno sentire contro quella «manifestazione della crescente intolle-ranza di certi settori della società, che sfidano apertamente i diritti costituzionali dei cittadini di questo Paese. Chiediamo loro di smettere di provocare le minoranze cristiane e di proseguire nel cammino di dialogo e dignità al momento di affrontare le questioni sociali, religiose e politi-che. La comunità cristiana finora si è compor-tata in modo pacifico, anche in situazione di provocazione estrema. Questo atteggiamento non deve essere interpretato come una forma di debolezza, ma come opzione preferenziale per i principi di una convivenza civile. La comunità cristiana continua ad offrire i suoi servizi a tutti i settori della società indiana senza alcuna discri-minazione. Le accuse infondate di conversioni fraudolente sono dovute agli interessi di gruppi impegnati a polarizzare la società in base alle credenze reli-giose. Noi, come cittadini responsabili dell'In-dia, non soccomberemo a queste tattiche che

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di ILARIA BERETTA

Padre Jose Kumar, quando ha deciso di diventare betarramita?«Vengo da un piccolo villaggio nel sud est dell'India. Ho deciso di entrare nel seminario betarramita nel 1999, quando avevo 16 anni. L'ingresso nella congre-gazione betarramita è stato un evento drammatico che ha scosso totalmente i miei desideri e le mie scelte; infatti avrei voluto diventare un monaco carmelitano fin dall'infanzia: la chiesa del mio villag-gio era amministrata da carmelitani e mi è stata sempre molto cara. Inoltre anche mio fratello è un monaco della stessa congregazione. Ma i piani di Dio sono al di là della no-stra immaginazione e lui ti prende pro-prio dove non te lo aspetti. Quando nel 1999 ho finito gli studi, la conoscenza e l'intervento di alcune persone mi hanno indirizzato verso la famiglia betarrami-

ta. Sono convintissimo che Dio abbia un piano specifico per me in questa congregazione: altri-menti non mi avrebbe messo tra i betarramiti». A differenza dei suoi confratelli india-ni impegnati nel seminario di Banga-lore o a Mangalore, lei lavora nella missione di Hojai, nel Nord dell’India. Qual è la situazione in cui vive?«Hojai è una piccola città nello stato di Assam, nella parte nord-est dell'India nelle colline ai piedi dell'enorme catena dell'Himalaya. Qui la popolazione appartiene a diversi gruppi etnici e religiosi. Il 49,5% della gente è musul-mana: per lo più si tratta di emigrati dal Bangla-desh sia legalmente che illegalmente. L'altra metà degli abitanti pratica l'induismo, mentre solo lo 0,5% è costituito da cristiani, sikh, giainisti e buddisti. C'è una varietà notevole anche dal punto di vi-sta etnico con gruppi bengalesi, assamesi e ma-nipuri. Inoltre è un'area sensibile che durante il periodo successivo all'indipendenza indiana

LA MIA BÉTHARRAM? PICCOLA E POVERA, MA BELLA

Anche il prete può finire «in minoranza». Succede a padre Jose Kumar Johnrose, betarramita indiano mandato in missione in una zona sperduta ai piedi dell'Himalaya dove le famiglie cristiane si contano sulle dita di una mano. Un mondo piccolo, che a chi ha il carisma del basco Michele non dispiace affatto.

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[1947, ndr] ha visto scontri tra musulmani e indù».

In cosa consiste il suo lavoro?«Faccio il vice parroco nella chiesa di Mukhthi-data, che in lingua hindi significa del Santo Re-dentore. È una piccola parrocchia dove un altro betar-ramita, padre Subesh Odiyathingal, è parroco. Inoltre insegno nella scuola unita alla nostra parrocchia».

Sinceramente: come pensa che possa essere utile il carisma betarramita in questa realtà? «Esiste forse un posto dove il carisma di san Michele è irrilevante? No, e a maggior ragione qui da noi. Siccome Hojai è una realtà sensibile, incline

alla violenza civile, molti preti diocesani e anche qualche congregazione religiosa sono stati riluttanti a continuare la mis-sione. La nostra parrocchia è rimasta vuota per alcuni mesi. Allora l'arcivescovo di Gu-wahati ha chiesto ai betarramiti di am-ministrarla. La prontezza del “campo volante” di san Michele in India ci ha fatto abbandonare coraggiosamente alla volontà di Dio: ed eccoci a Hojai. Anche se i cristiani sono solo una manciata, poco meno di 100 persone, provvediamo ai bisogni di 1500 studenti ogni anno, tra i quali il 99,5% non sono cristiani! In un decennio i be-tarramiti sono stati maestri apprezzati; noi stessi abbiamo ereditato questo cari-sma e lo esercitiamo qui».

Una delle chiese in cui lavorano i betarramiti indiani

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Precisamente di quante persone vi prendete cura?«Come ho detto, abbiamo solo 15 fami-glie cattoliche nella nostra parrocchia, sparse lungo un'area di 10 km intorno alla chiesa. Questi cattolici appartengono alle tre tribù principali del luogo, ovvero Garo, Karbi e Saura. Però proponiamo Cristo anche ai non cristiani, attraverso l'esempio della vita comunitaria e le ce-lebrazioni liturgiche. Negli anni abbiamo creato possibilità di alloggio per i ragazzi che vengono da zone tribali lontane dal-la scuola. Garantiamo loro vitto, alloggio e un'educazione di qualità. I ragazzi a convitto partecipano alla messa, ad al-cune preghiere e al rosario... e persino i cristiani sarebbero sorpresi a vedere la partecipazione attiva dei non cristiani alla liturgia!».

C'è qualcosa di cui è particola-mente fiero?«Il più grande onore che ho è essere un missionario betarramita. Ma come betar-ramita proprio qui ad Hojai sono fiero di essermi guadagnato la benevolenza delle persone. A causa di alcune vicende del passato di cui non parlerò e per l'opera di alcuni preti diocesani e altre congre-gazioni religiose, a Hojai si era diffuso un clima ostile e un comportamento avver-so da parte dei locali nei confronti della

missione. Ma noi betarramiti siamo stati capaci di risanare questo rapporto corrotto e abbiamo creato lentamente una mentalità diversa nei confonti del centro missionario. Inoltre sono orgoglioso di testimoniare la vera vita comuni-taria, un aspetto mancante prima del mio arrivo tra i betarramiti. Questo è possibile anche grazie alla presenza di alcune suore nei due conventi adiacenti alla chiesa. Anche loro sentono il Dna diverso dei betarramiti e apprezzano molto la nostra presenza. Bétharram è sempre piccola e povera, ma non smette mai di essere bella. E in questa parrocchia non c'è dubbio che abbiamo impresso il marchio indelebile di Bétharram».

Ha qualche progetto per il futuro?«A questo proposito lasciatemi precisare che la parrocchia dipende dall'arcidiocesi di Guwaha-ti; noi siamo solo assistenti in aiuto alla diocesi. Non abbiamo libertà economica e perciò non abbiamo modo di amministrare la parrocchia. Inoltre la popolazione cristiana è costituita so-lamente da un drappello di persone. Cerchiamo di provvedere ai parrocchiani sotto l'aspetto pa-storale e formativo. Come parte integrante del nostro zelo missionario, insieme alle sorelle del Sacro Cuore e alle suore di Notre Dame, ci sfor-ziamo di mettere in atto programmi sociali per aiutare le famiglie povere a uscire dall'ingiusti-zia sociale. Ma al di là di questo, proprio in quanto betarra-miti, non possiamo avere nessun progetto spe-cifico in questa parrocchia affidataci».

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SAN MICHELE SBARCA IN INDIA

San Michele è andato a visitare i suoi seguaci in India. Al termine del 150° della morte del fondatore, infatti, le reliquie di padre Garicoits sono volate da Roma nella comunità di Shobana Shaakha a Bangalore e di lì sono state trasportate in diverse comunità per esporle alla pubblica venerazione e per far conoscere la spiritualità betarramita.Le reliquie sono state accolte anzitutto dalla comunità del Consiglio generale delle Suore del Carmelo Apostolico, le religiose della Beata Miriam: la Superiora generale stessa ha accolto una delegazione di religiosi betarramiti e insieme hanno pregato davanti alle reliquie. In seguito i padri monfortani - che gestiscono una scuola vicino alla città - hanno invitato la comunità betharramita a organizzare un incontro di preghiera per i loro studen-ti. È stata poi la volta della parrocchia della Santa Famiglia: molti fedeli si sono presentati per ricevere una benedizione. E da ultimo i cattolici della parrocchia di Sant’Antonio - di cui Shobhana Shaakha è parte - sono accorsi numerosi in chiesa per pregare san Michele insieme a tutti i padri e fratelli betarramiti.Da Bangalore le reliquie sono poi state trasferite a oltre 2000 km a nord, in Arunachal Pradesh, dove il betarramita padre Shaju svolge la sua missione.Accoglienza piena di entusiasmo per l'evento; a Kunu, una delle cappelle della vasta parrocchia, la venerazione delle reliquie è stata l’occasione per celebrare i sacramenti della riconciliazione e dell’unzione degli infermi. Il giorno seguente anche nella chiesa parrocchiale si è celebrata l’eucaristia durante la quale sono state venerate le reliquie. Sulla strada del ritorno tappa a Mingtong, parrocchia «sorella» gestita dai salesiani dove ancora una volta le reliquie di san Michele Garicoits hanno ricevuto l’omaggio dei fedeli.Mangalore ha invece celebrato la parte finale del 150° con l'inaugurazione della restau-rata cappella del nuovo seminario betarramita di Maria Kripa, intitolata al Sacro Cuore. La chiesa risale al 1961 ed è stata rinnovata con le offerte di molte persone generose. Alla benedizione erano presenti il vescovo Aloysius D’Souza, suor Agatha Mary superiora generale del Carmelo Apostolico, Peter e Paul Mascarenhas, rispettivamente ingegnere e architetto, padre Austin Hughes superiore regionale e padre Biju Alappat, vicario re-gionale.

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Il cristianesimo è ormai la terza religione dell'India (dopo l'induismo e l'islam), con circa 24 milioni di seguaci, e la percen-tuale dei cattolici in particolare cresce a un tasso maggiore di quello della popo-lazione totale, ma pur nella tradizione tollerante e multiculturale della peniso-la non si ferma la persecuzione contro i cristiani. Secondo un recente rapporto, ancora nel 2013 sono stati oltre 4000 i casi di violenza contro i cristiani ad opera soprattutto di gruppi estremisti indù atti-vi in molte parti del Paese, compresi ben 7 omicidi (uno di un bambino) e abusi o percosse su 1000 donne, 500 bambini e circa 400 ministri di diverse confessioni. Inoltre sono documentati attacchi a oltre 100 chiese e luoghi di culto cristiano. In totale oltre 200 sono i casi definiti gravi. L'India figura all'ottavo posto tra gli Stati che maggiormente perseguitano i cristia-ni nel mondo.L’intensità delle violenza varia da Stato e Stato della grande nazione asiatica; spic-cano il Karnataka (lo Stato di Bangalore) dove, nonostante il cambio di governo, la persecuzione cristiana è più diffusa, e il Maharashtra che «sembra essere il

prossimo laboratorio dell’estremismo indù». Al-tri Stati ben rappresentati nella classifica delle persecuzioni sono Andra Pradesh, Chattisgarh, Gujarat, Orissa, Madhya Pradesh, Tamil Nadu, Kerala. Molto spesso poi la polizia rifiuta di re-gistrare le denunce e i mass media omettono di riportare e le notizie o le minimizzano.Non si tratta solo di episodi passeggeri; il rap-porto esamina infatti anche i difetti nel sistema giuridico, che permette la diffusione delle vio-lenze e l’impunità dei colpevoli. Per esempio un ordine presidenziale del 1950 che nega ai dalit (fuoricasta) cristiani e ad altre minoranze i di-ritti riconosciuti ai dalit indù; oppure le leggi anti-conversione in vigore in sette Stati indiani. Al contrario è ferma in Parlamento una legge ap-posita contro le violenze «religiose».Se poi davvero «religiose» sono... Perchè spes-so lo sfondo confessionale dei conflitti nasconde motivazioni ben più prosaiche e subdole, come quelle nazionaliste ed economiche. In Orissa per esempio, uno degli Stati più poveri dell'India e anche uno con la maggior presenza di tribali (di-fesi dai cristiani nonché - con insolita e non vo-luta "alleanza" - da movimenti guerriglieri ma-oisti), le numerose conversioni spesso suscitano rivalità tra gruppi e la reazione di organizzazio-ni legate all'estrema destra nazionalista hindu;

TRA TOLLERANZA E PERSECUZIONE:LE CONTRADDIZIONI DEL

GIGANTE

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inoltre multinazionali e forti gruppi di potere economico, legati all'industria estrattiva, hanno interesse a cacciare i contadini tribali cristiani dai loro territori per impiantarvi miniere. Non per nulla in anni recenti proprio nell'Oris-sa si sono registrare sommosse violente contro i cristiani. Nell'estate 2008 ben 60.000 fedeli hanno dovuto fuggire dalle loro case per rifu-giarsi in luoghi più protetti, 400 villaggi hanno subito una vera e propria « pulizia etnica» di tut-ti i cristiani, più di 6.000 case e 340 tra chiese e cappelle, dispensari e scuole sono state bruciate e distrutte, migliaia di fedeli sono rimasti feriti, diverse donne e ragazze e una suora hanno subi-to violenza (ma i colpevoli sono stati poi assolti) e 75 cristiani (22 cattolici, 28 battisti, 12 pente-costali, 5 di chiese indipendenti) e 8 tribali non cristiani sono stati brutalmente assassinati; an-che Amnesty International è intervenuta presso il governo indiano per garantire la difesa delle minoranze cristiane, ma delle 3.232 denunce ef-fettuate durante quella terribile estate solo 327 sono finite dinanzi a un giudice, e solo 86 sono sfociate in condanne, ma per reati minori. Eppu-re la cultura indiana è nota per la sua tolleran-za e mitezza, in India non esiste nemmeno una legge anti-blasfemia e la libertà religiosa è più o meno garantita ovunque... Come si conciliano queste contraddizioni?Ha scritto un esperto in questioni asiatiche, il giornalista direttore dell'Agenzia AsiaNews e missionario del Pime padre Bernardo Cervelle-ra: «Grazie all’annuncio cristiano, la società in-

diana sta cambiando e persone che prima erano ai margini, divengono protagonisti di sviluppo. Tribali spesso utilizzati come schiavi per i lavori agricoli e dalit, gli emarginati dalle caste, vedono nel cristia-nesimo una strada per migliorare la loro situazione, vedere affermati i loro dirit-ti, trovare finalmente una dignità al loro essere uomini. I fondamentalisti indù si oppongono all’impegno dei cristiani e vo-gliono bloccare ogni conversione. In tal modo essi tradiscono l’induismo di Gan-dhi, che voleva per l’India un Paese laico, aperto a tutte le religioni, l’eliminazione delle caste e la dignità dei dalit, da lui de-finiti "figli di Dio" (harijian). Con il loro nazionalismo esclusivo molto vicino al nazismo, questi gruppi distruggono an-che la storia dell’India, da sempre luogo d’incontro e di integrazione fra culture e religioni. I vescovi indiani continuano a chiedere protezione e giustizia per i cri-stiani non per interessi di gruppo, ma perché l’India si salvi da un’involuzione antistorica e intollerante: l’India della nonviolenza e del dialogo oggi ha i suoi campioni proprio nei nuovi martiri, ucci-si a causa della fede, uccisi perché credo-no in un’India multireligiosa e libera.Il loro sacrificio non sia dimenticato, e sia invece apprezzata di più la vera potenza rivoluzionaria e sociale del Vangelo».Infatti monsignor John Barwa, arcivesco-

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unità, di comunione e simpatia, di armonia» tra le comunità cristiane di diverse confessioni. Per questo un altro noto missionario-giornalista, padre Piero Gheddo, è ottimista sul futuro no-nostante le violenze: «Per due motivi. Primo: i movimenti estremisti indù (da cui vengono gli episodi di persecuzione anti-cristiana) sono espressione di un’India che sta tramontando, l’India delle caste e dei fuoricasta, dei proprieta-ri terrieri e dei bramini che detengono il potere economico e politico. Tutto questo tramonta per il sistema democratico ma anche per l’influsso delle missioni cristiane e oggi delle Chiese locali, con le loro opere di educazione e di promozione economico-sociale delle popolazioni più misere e in passato schiavizzate. Secondo: con famiglie solide e numerose voca-zioni sacerdotali e religiose, una teologia viva-ce e seriamente impegnata nell’inculturazione, una conferenza episcopale e anche associazioni laicali visibili e influenti nella società indiana anche attraverso le molte scuole e università, la giovane Chiesa locale dell’India secondo me è oggi il miglior esempio di come l’azione missio-naria delle Chiese cristiane nei tempi moderni ha prodotto buoni frutti».

vo di Cuttack-Bhubaneswar nello Stato di Orissa, a 5 anni dal pogrom del 2008 - definito il maggior caso di violenza con-tro i cristiani della storia indiana - ha vo-luto ricordare «quelle anime coraggiose» e il frutto del loro sacrificio: «Visitando le comunità colpite - ha scritto - i fede-li dicono al vescovo: "I persecutori han-no bruciato le nostre case, le proprietà e massacrato i nostri cari, ma non hanno potuto distruggere la nostra fede e non possono separarci dall’amore di Cristo. Siamo orgogliosi di essere cristiani e or-gogliosi della nostra fede”. Parole e azioni del genere sono chiari segni della crescita nella fede. Sono magari poveri e analfa-beti, ma gente ricca di fede». Non esiste la certezza che le persecuzioni non si ri-peteranno («Viviamo confidando in Dio e facendo ogni sforzo, come individui e comunità, per costruire la pace a Kan-dhamal, ma ci arrendiamo a Dio»), tutta-via proprio gli attacchi hanno rafforzato la comunità «e hanno aiutato giovani e meno giovani a rendersi conto del valore della fede», oltre a creare «forti legami di

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Manifestazione di cristiani dell'India controle violenze degli estremisti indù

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BANGALORE CHIAMA ALLA RICONCILIAZIONE

Un intero Anno dedicato alla riconciliazione: è l’iniziativa lanciata nei mesi scorsi dall’ar-cidiocesi di Bangalore, in India. Dal 5 marzo al prossimo 13 febbraio 2015, in coinci-denza con le celebrazioni per il Giubileo di platino dell’arcidiocesi, a 75 anni dalla sua fondazione, tutte le comunità della Chiesa locale sono invitate a organizzare iniziative e preghiere sotto lo slogan «Beati gli operatori di pace».La scelta è stata voluta dallo stesso arcivescovo monsignor Bernard Moras, che ha preso la decisione dopo aver visto «l’impatto negativo causato dalle incomprensioni e dalle divisioni all’interno della comunità» e con l’obiettivo di «riportare la vera armonia, la comprensione reciproca e l’unità tra i fedeli, a tutti i livelli».La diocesi è stata scossa da un grave fatto: l'assassinio, avvenuto il 1° aprile 2013, del rettore del seminario, padre Thomas: il caso è tuttora avvolto dal mistero, ma nel marzo scorso sono stati arrestati per il delitto due sacerdoti e un laico e un gruppo di sacerdoti e di cristiani ha iniziato un forte movimento di protesta, accusando anche l'arcivescovo di essere corresponsabile nell'arresto di tre innocenti. Sullo sfondo del caso c'è la divisione tra i cristiani della diocesi: quelli di origine locale si sentono trascurati rispetto ai fedeli provenienti dal Tamil Nadu, tra cui 8 dei 10 vescovi dello Stato e lo stesso arcivescovo. Nel tentativo di governare la situazione monsignor Moras ha annullato l'assemblea dio-cesana prevista in primavera ed ha emanato una lunga circolare in cui smentisce tutte le accuse di aver fatto incarcerare degli innocenti.Su queste basi va certamente inquadrata anche l'iniziativa dell'Anno di riconciliazione: «Siamo chiamati ad essere figli e figlie di Dio ma possiamo godere di questo privilegio

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solo quando iniziamo un processo di personale e collettiva riconciliazione e riparazione». Per l’anno giubilare – considerato «una grazia per tutti noi» - l’arcidiocesi lancia un appel-lo al clero, ai religiosi, ai laici cristiani come pure a tutti gli uomini di buona volontà; per prima cosa occorre «prendere coscienza dell’impatto negativo e degli stereotipi dovuti a vari fattori, che creano incomprensioni e disunione tra noi». Quanto alle iniziative pra-tiche, sono suggerite le celebrazioni liturgiche ma anche programmi a carattere sociale. Per l’Anno della riconciliazione è stato preparato materiale apposito, striscioni, simboli e immaginette, distribuite in tutte le parrocchie diocesane.È stata composta anche una «preghiera della riconciliazione» da recitare ogni giorno, alle messe, negli istituti religiosi e nelle famiglie: «Dio di misericordia e compassione... apri i nostri occhi affinché possiamo vedere il bene nel nostro prossimo; apri le nostre orecchie perchè possiamo ascoltare con rispetto e umiltà; tocca le nostre labbra perché possiamo dire le tue parole di pace e perdono... Guida il lavoro della tua Chiesa nella nostra arcidiocesi e rinnovaci con lo Spirito del tuo amore».L'arcidiocesi di Bangalore, che ha per patrono il grande evangelizzatore dell'India san Francesco Saverio, conta circa 425.000 cattolici su 30 milioni di abitanti, circa 1,4% della popolazione. Il vescovo chiede alle 135 parrocchie, agli oltre 900 sacerdoti dio-cesani, alle 54 congregazioni maschili, alle 9 di soli fratelli e alle 133 di suore esistenti nella sua giuridizione di «promuovere un vero spirito familiare tra i diversi gruppi locali e di instaurare la vera amicizia cristiana». Per diventare - conclude la preghiera - «strumenti di pace e ambasciatori di riconciliazione». Non si tratta peraltro dell'unico caso di divi-sioni all'interno della Chiesa indiana. Suscita problema da anni anche la discriminazione dei «dalit», i fuoricasta considerati «intoccabili» dagli induisti ma che costituiscono circa il 70% dei cattolici indiani. Nonostante la Chiesa cattolica sia una delle realtà che più vistosamente si batte contro l'aberrazione del sistema castale, anche con iniziative pubbli-che come marce di protesta e documenti ufficiali, non poche sono le critiche anche per la discriminazione che esiste di fatto al suo interno: su un totale di 170 vescovi indiani, per esempio, soltanto una decina sono dalit; in alcuni Stati esistono cimiteri separati o addi-rittura liturgie «separate» (a volte richieste dai dalit stessi). A volte i dalit hanno difficoltà a entrare in seminario o persino a fare i chierichetti. Ancora nel 2003 Papa Giovanni Paolo II, ricevendo i vescovi del Tamil Nadu, li esortava a lavorare per superare questa divisione: «Ogni forma di pregiudizio di casta nei rapporti tra cristiani è contrario a una autentica solidarietà umana, minaccia per un’autentica spiritualità e serio ostacolo per missione di evangelizzazione della Chiesa. Quindi, gli usi e le tradizioni che perpetuano o rafforzano la divisione per casta debbono essere riformati in modo sensibile e diventare espressione della solidarietà della comunità cristiana».

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di ILARIA BERETTA

Distano quanto un «coast-to-coast» negli Sta-tes, ma tra thailandesi e indiani non corre de-cisamente buon sangue. Sarà la cultura diver-sissima fin dall’alimentazione, la storia o le abitudini opposte: sta di fatto che tenere insie-me le due realtà è una bella impresa, che però sembra riuscire ai betarramiti. Infatti proprio in India il responsabile del seminario e maestro dei novizi della congregazione è il thailande-se padre Chan John Kunu. Per questo non c’è sguardo più onesto del suo per farsi raccontare come vede la Chiesa in India.

Padre Chan, lei è thailandese. Che ef-fetto le ha fatto essere finito in India?«Sì, precisamente provengo dalla tribù karia-na nella parte nord della Thailandia più vicina all’India, e penso che questo mi abbia aiutato tanto ad adattarmi. È stato abbastanza facile abituarsi a lavorare con nuove persone, in di-verse situazioni, ma anche adeguarsi al cibo e alla cultura. In questo senso sono stato fortu-nato. In più tra il 1999 e il 2002 ho frequentato

il corso per formatori in India e ho pure studiato teologia... Tutte cose che mi hanno aiutato molto a capire e ad accet-tare meglio come si vive qui».

Quali sono le differenze della congregazione in Thailandia e in India? «Innanzitutto è la storia della congre-gazione a essere diversa. In Thailandia tutto è iniziato con l’esplosione del co-munismo in Cina nel 1950, che ha cau-sato l’esilio del missionari nel nord della Thailandia, dove hanno iniziato l’evan-gelizzazione nella diocesi di Chiang Mai. Solo nel 1987 abbiamo aperto la casa di formazione per garantire continuità alla missione e al carisma della congrega-zione. Finora abbiamo formato 15 preti thailandesi e 5 diaconi saranno ordinati quest’anno. In India invece la storia ini-zia da subito con il reclutamento di gio-vani per la formazione e con la loro pre-parazione alla missione in accordo con le necessità della Chiesa. Oggi abbiamo 20

UN THAILANDESE PER FORMARE GLI INDIANI

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largo ai giovanidossier

preti indiani che lavorano nel seminario, nelle parrocchie e in Inghilterra».

Perché ha scelto di farsi betar-ramita?«Quando ero piccolo, nel mio villaggio c’era sempre qualche missionario be-tarramita europeo. Di loro mi colpiva che avessero scelto di dare una testimo-nianza di vita proprio in mezzo a noi, dedicandosi a predicare il Vangelo in-stancabilmente, con fedeltà, semplicità e capacità nell’adattarsi al nostro stile di vita. Perciò ho voluto continuare quella missione ovunque sono stato, realizzan-do lo spirito dell’ecce venio nella respon-sabilità quotidiana».

Qual è il suo lavoro in India? «Sono maestro dei novizi, e come tale penso di aver enfatizzato molto l’ecce venio. Seguiamo uno stile di vita con-creto che comprende preghiere e lezioni di spiritualità, ma anche il servizio alla comunità, tra cui la pulizia della casa, il giardinaggio, lo sport e l’organizzazione di giochi».

Quanti novizi avete?«Dal 2009 a oggi tra India e Thailandia abbiamo portato alla professione 15 no-vizi. Nell’anno accademico che partirà da giugno 2014 abbiamo 5 candidati al no-

viziato che provengono in maggioranza dall’In-dia».

L’India e la Thailandia fanno parte della stessa Regione betarramita, in-sieme all’Inghilterra: sente la diffe-renza d’approccio al carisma di san Michele? «Ogni Regione ha la sua tradizione da betarra-mita. Credo che ogni religioso debba mantenere e vivere il carisma del fondatore il più possibi-le a contatto con la propria realtà. Certamente la nostra Regione ha molte differenze rispetto all’Occidente: per esempio nel numero delle vo-cazioni, nelle distanze spaziali, nella cultura e nell’economia. Di conseguenza è diverso anche il metodo di formazione e il modo di fare par-rocchia. Mi sembra che il materialismo e l’indi-vidualismo diffusi un po’ dappertutto debbano comunque riorientare l’azione del nostro stile di vita betarramita».

Lavorando con i giovani, si aspetta una crescita della congregazione in India?«Certo come formatore m’aspetto lo sviluppo dell’istituto, in India e anche in qualsiasi altro luogo; in particolare spero in una crescita uma-na che tenga conto di limiti e pregi, e che non dimentichi mai il carisma di san Michele. L’importante è vivere il proprio compito come una missione, con responsabilità ma anche en-tusiasmo».

Le Regione betarramita anglofona ha scelto di collocare il suo noviziato in India, ma con un «maestro» thailandese: padre Chan John Kunu. Che qui racconta la sua esperienza di missionario in una Chiesa allo stesso tempo «vicina» e «lontana»…

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JANA GANA MANASei il dominatore delle menti di tutti,Colui che regge il destino dell'India.

Il tuo nome risveglia i cuori di Punjab, Sind, Gujarat e Maratha,dei Dravida e Orissa e Bengali;

Echeggia nella colline di Vindhya e Himalaya,Si unisce alla musica dello Yamuna e del Gange

ed è cantato dalleonde del Mare Indiano.

Essi implorano le tue benedizioni e cantano le tue lodi.La salvezza di tutti aspetta nella Tua mano,

Tu che reggi il destino dell'India,Vittoria, vittoria, vittoria a Te.

inno nazionale dell'Indiascritto nel 1911

dal grande poeta indianoRabindranath Tagore

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in ricordo di..

di ALESSANDRO PANIGA

Era il 22 luglio 1964. Noi seminaristi eravamo al santuario della Caravina, sul lago di Lugano, per le vacanze estive. Quel pomeriggio andammo a bagnarci appena sotto casa, nel lago, e lì successe la disgrazia. Le immagini di quel pome-riggio sono ancora presenti nel nostro animo, quasi scolpite dentro la nostra mente. Le acque infide di quel lago ce lo portarono via, ma lui è ancora vivo nel nostro cuore. Noi chierici tutti lo stima-vamo e lo amavamo e veramente da lui andavamo come a un amico; la confi-denza in lui nasceva spontanea. Per tutti aveva un sorriso aperto, cordiale, conci-liante. E noi ammiravamo la sua sempli-cità, il suo riserbo e il rispetto delicato e sincero per tutti. Le parole e gli esempi di padre Ezio non possono, non devono andare perduti nel tempo. Sarebbe come

sciupare un grande dono che Dio ci ha fatto. Vorrei qui solo ricordare alcuni tratti della sua personalità come uomo, poeta, musicista. E poi il suo essere religioso e sacerdote. Il suo impe-gno come direttore spirituale e professore.

UOMO, POETA E MUSICISTANoi l’abbiamo conosciuto uomo di cella, di pre-ghiera; uomo di studio. Riservato e appassio-nato, discreto e audace, in una sintesi meravi-gliosa che il Signore però ha voluto maturasse e sbocciasse solo in cielo. Padre Ezio ha scritto tante poesie; io ne ho raccolte 65. All’inizio del 1964 aveva mandato a Roma al “Festival del-la poesia” alcune sue composizioni poetiche e il 16 aprile, tre mesi prima di morire, aveva ricevuto la notizia che aveva superato la pri-ma selezione con altri pochi (tra oltre ottomila partecipanti). Avrebbe dovuto partecipare an-che a un’altra selezione per arrivare alla pro-clamazione della “Poesia dell’anno”. Invece… Ma le sue poesie sono piaciute e piacciono per-

PADRE EZIOLE ALI DI UN POETA

Sono passati 50 anni e mi sembra ieri. Sembra sia successa ieri la tragica morte di un confratello che per me e per tanti di noi negli anni Sessanta è stato un maestro, un padre, un fratello. Sto parlando di padre Ezio Soroldoni...

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ché sono profonde, genuine, attuali e sincere. Vi scopriamo la persona gentile qual era, che amava le cose semplici e sapeva descriverle con immediatezza ed efficacia. Un'alba per lui è «biancore di seta»; vedeva i pioppi al di là del nostro giardino «uguali a scope giganti infisse nel suolo»; e in primavera «i peschi del cielo fanno ricami rosa»; in autunno «la nebbia den-sa attorno ai neon è bambagia di luce»; e in in-verno la terra innevata è «letizia del cielo». Ezio aveva un animo molto sensibile e proprio per questo sentiva forte la sofferenza fisica e morale, viveva le inquietudini, le passioni e le attese delle anime grandi. Le passioni per lui hanno le «mani rapaci» e i piaceri sono «sbarre della mia prigione». Conosceva le lusinghe della tentazione che si presenta come un “amico”; si ritrovava spesso avvinto dalle prove e dalle pas-sioni: «Sono casa deserta, sono colmo di vuoto, sono strada buia, che l’insonne paura percorre e raggela». Sapeva di essere fragile come ogni es-sere umano: «Misuro la fatica del tempo e l’in-quieto silenzio dei sensi». Ma non disperava; la sua fiducia in Dio era grande: «Dio, ridammi luce di tua visione».Aveva dentro di sè un dinamismo che lo rinno-vava continuamente e gli impediva di adagiar-si, di abituarsi al tran-tran ordinario della vita: «Ho paura, Signore, di essere uomo fatto di am-biente, di atmosfere respirate!». Voleva vivere, non lasciarsi vivere. Per questo sentiva forte dentro di sé la voglia di crescere, di donarsi in-teramente e in modo rinnovato a Dio e ai fratel-

li. La sua anima di poeta la manifestava anche nella musica. Gustava la musica, e voleva che anche noi l’amassimo e la gu-stassimo; era il nostro maestro di canto: ogni settimana ci insegnava con pazienza e impegno tanti bei canti anche polifoni-ci. Ce ne spiegava il senso, l’anima; ce ne illustrava il valore e ci infondeva tanta armonia. Chi di noi non lo ricorda al pia-noforte mentre con delicatezza e com-petenza suonava pezzi impegnati d’ogni genere? Era una delizia ascoltarlo, ed anche un profano sentiva, più che la sua abilità, la sua sensibilità, tutto il cuore che ci metteva nel rendere il brano vivo e armonioso. Ci sono rimaste alcune belle musiche che lui stesso aveva composto.

RELIGIOSO E SACERDOTEPadre Ezio è stato un vero religioso, per-ché ha saputo vivere profondamente la sua consacrazione. Dalle sue parole si intuiscono le sue convinzioni, gli slanci, ma anche i suoi tormenti, le difficoltà nel vivere con fedeltà e generosità i voti religiosi. Non ha nascosto né a sé né a noi i rischi e le difficoltà della vita reli-giosa, ma è sempre vissuto nella ferma convinzione della grandezza di questa vocazione. In occasione di una professio-ne religiosa così si rivolgeva al giovane professo: «L’atto che oggi compi non è il risultato né della tua intelligenza, né del

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tuo cuore: è una risposta incomprensi-bilmente libera a un influsso misteriosa-mente irresistibile di Colui che ti ama… Dovrai ogni giorno piegare le ginocchia, la mente, il cuore davanti a questo Re di libertà, per dirgli le tue difficoltà e per chiedergli la sua grazia… Non importa che arrivi sfigurato al traguardo; quel che conta è che il traguardo sia Dio». Per padre Ezio nella vita religiosa è fon-damentale la fedeltà. È quanto ha riba-dito in occasione della rinnovazione dei voti:«Sono trascorsi molti anni forse dal giorno della nostra professione. E, dopo tanti anni, qual è il nostro attuale grado di fedeltà?Qual è il posto di Dio dentro a questo rosario di ore della nostra vita religiosa?...Forse non siamo ancora in-namorati di Dio, perché siamo ancora troppo ammalati di nostalgie per tut-to quello a cui abbiamo rinunciato: la ricchezza,l’amor proprio, la nostra vo-lontà… Ma chi può dirsi più felice di noi, più ricco di noi, più fecondo di noi? Noi dovremmo cantare tutto il giorno dal-la gioia di aver perso la testa per Dio, e dovremmo cantare anche quando den-tro l’anima c’è la tempesta del dubbio, il buio pesto della notte, mentre forse qual-che lacrima trattenuta ci gonfia gli occhi, tanto è il dolore che ci tortura. Noi abbia-mo le ali: se le teniamo chiuse saranno un peso in più sul nostro corpo, ma se le

apriamo, il cielo è tutto per noi».Padre Ezio era un vero prete, un uomo di Dio. Per questo era esigente: con gli altri, ma so-prattutto con se stesso. Non poteva sopporta-re i preti mediocri. In una sua poesia del 1958 scriveva che un prete mediocre è «voce muta», è «cristallo opaco di egoismo», è uno che ha «tradito la Parola con le parole». Sull’esempio di san Michele ha riconosciuto di essere mise-ro di fronte all’onnipotenza di Dio, si riteneva peccatore, ma aveva una grande fiducia nella misericordia divina, malgrado la sua pochez-za. E dal suo cuore sgorgarono queste parole sincere e profonde: «Mi sono accorto che mi preoccupo troppo dei miei peccati; do troppa importanza ai miei sbagli. Qualche giorno fa in chiesa ho conosciuto la gioia di essere misero davanti all’onnipotenza divina. Se avanzo tanto difficilmente, se ho così paura dell’Amore, forse è perché il mio sguardo è troppo a lungo posato sul mio essere, quasi a cercare in me la salvez-za della redenzione… Sento di odiare il peccato con tutta la forza del mio essere, perché mi sem-bra insopportabile che Dio non mi abiti anche per un solo instante».

DIRETTORE SPIRITUALE E PROFESSORE DI FILOSOFIAPadre Ezio era un’anima ricca; la sua vita spi-rituale metteva profonde radici nel silenzio, nel raccoglimento e nella preghiera. La sua esperienza spirituale non l’ha custodita gelo-samente per sé, ma l’ha donata gioiosamente.

in ricordo di..

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Diceva: «La mia santità non sarà vera se sarà soltanto mia». I chierici che guidava sono stati i più beneficiati dalla sua parola, dai suoi con-sigli, dai suoi incoraggiamenti. Padre Ezio ha saputo conquistare i giovani a lui affidati. Qual-che testimonianza diretta lo dice chiaramente: «Ascoltava, ascoltava molto. Non interrompe-va mai; mi lasciava sfogare la mia amarezza e la mia tristezza. Ma non era assente, soffriva con me, partecipava alla mia sofferenza. Quasi per farmi comprendere che mi capiva, mi par-lava delle sue sofferenze: il dolore per la mor-te della sua cara mamma, il dolore alla testa di cui spesso soffriva, le sue lunghe notti inson-ni»; «Andavo da lui tranquillamente sicuro di essere ascoltato. Non dava segni di fretta o di noia»; «Entro nella camera di padre Ezio per parlare un po’ con lui. Subito mi chiede come sto di salute. Mi domanda come vanno gli studi, vuol sapere notizie dei miei familiari… Intanto una certa corrente di simpatia, di gratitudine, di rispetto nei suoi riguardi circola in me, perché sento che qualcuno si interessa di me, delle mie cose di ogni giorno». «Era un direttore spiri-tuale attento, aperto e delicato, perché trattava tutti come persone che hanno la loro strada da percorrere, la loro via tracciata da Dio. “Non devi mai pensare – mi diceva - che io possa fare molto per te. Non sono io a farmi santo al tuo posto: dipende soprattutto da te».

Sentiva la scuola come luogo del suo apo-stolato e ad essa dedicava le sue migliori energie. Amava l’insegnamento e ne sen-tiva tutta l’importanza formativa; non tralasciava sforzo e occasione per appro-fondire i suoi studi.Questo è il padre Ezio che io, che noi suoi chierici abbiamo conosciuto. Neanche la morte può cancellare dalla nostra mente la sua figura, la sua statura morale, il suo fulgido esempio. È passato tra noi con la rapidità di una stella che traccia una scia luminosa e scompare, ma è andata a fis-sarsi in cielo e la sua luce continua a bril-lare. Il nostro fondatore diceva: «Lascia-mo dietro di noi una traccia luminosa»; padre Ezio l’ha lasciata nel cuore di tutti noi con la sua parola, il suo esempio, con la sua vita e la sua morte. Lui non ne aveva paura. Nell’ultimo anno della sua vita ce ne ha parlato per diverso tempo, nelle sue conferenze quasi quotidiane. Era pronto e aveva solo 32 anni. Nelle sue poesie parlando della morte diceva: «Penso volentieri e spesso alla morte. Mi pare di capire meglio la vita». E anche: «Non so il tuo volto e le tue mani, ma tu sei uguale al gorgo fatale che risucchia e che uccide». Sembra quasi un presenti-mento della sua fine nelle acque del lago.

Padre Ezio Soroldoni all'organo

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missione

di CLAIRE GUILLOT*

Nell’ottobre 2011 ho lasciato la Francia per lavorare come infermiera volontaria per due anni al «Centre de santé Saint Michel» a Bouar. Come direbbe fratel Angelo, direttore del Centro, un’infer-miera al Saint Michel è una «super infer-miera». Appena arrivata il mio pensiero é stato che mai avrei potuto essere una «super infermiera» e sostenere tutta la situazione: laureata da solo due anni, straniera in un Paese di cui non conosce-vo né lingua né cultura, con la prospetti-va di un lavoro così diverso da quello che ero abituata a fare in Francia: una bella sfida!Ma dopo un bel corso di sango (la lin-gua locale) e un apprendistato sotto la guida di Aurelie, l’infermiera volontaria che mi aveva preceduta, eccomi già in piena azione. Il Centro ha in cura 500 sieropositivi, una quarantina dei qua-li sono bambini; offre una media di 20

VOLONTARI, VITE PARALLELE

Una è una donna, l'altro un uomo. Una francese, l'altro italiano. Una parte, l'altro arriva... Due storie diverse, eppure così simili. Che cose le accomuna? Un'esperienza di volontariato nella missione betarramita in Centrafrica.

di IVAN GUSMEROLI*

«Oh Centrafrique...».Sono queste le primissime parole dell'inno na-zionale di questa terra. Mi verrebbe da aggiun-gere «Mon Dieu!». Sono tornato in Repubblica Centrafricana a due anni dalla prima esperienza e dopo aver visitato alcune altre missioni in Ghana e Rwan-da. Quello che sono riuscito a capire da queste pur brevi ma intense esperienze, é che l'Africa coi suoi pregi e difetti cresce nonostante tutto e lo fa in fretta.Da due giorni faccio l'autista: accompagno col pick-up stracarico di sementi due dipendenti del progetto agricolo seguito da padre Benia-mino; ho così potuto vedere e constatare più da vicino la situazione in cui versa la popolazione dopo i recenti e tristissimi postumi del colpo di Stato. Il morale della gente é basso, c'è chi mi mostra la sua casa bruciata dai ribelli Seleka e chi mi chiede di far sapere come vanno le cose anche in Italia. Per me e per il mio francese é difficile capi-

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visite al giorno e tre degenti diurni. I pazienti raggiungono il Centro una volta al mese o più frequentemente, se necessario; alcuni vengono anche da lontano, sia per la qualità dell’acco-glienza che per la possibilità di essere curati con medicine anti-retrovirali. La mia giornata inizia con le visite della mattina, nelle quali imparo ad ascoltare e a conoscere i pazienti; valuto l’effica-cia della cura che stanno seguendo, osservando gli esami del sangue; li aiuto a capire che cosa significa essere sieropositivi e che effetto avran-no le medicine; se é necessario, li indirizzo all’o-spedale pubblico.Poi pianifico le visite a domicilio per i pazienti troppo malati o che per vari motivi non si sono presentati. Il pomeriggio é dedicato alla parte amministrativa: é un momento più tranquillo, utile per fare il punto sulle cartelle cliniche. Una delle cose più importanti per me é che in questi due anni non mi sono mai sentita sola! Sempre, ho condiviso tutte le riflessioni e tutte le deci-sioni con fratel Angelo. Il Centro Saint Michel é una squadra di professionisti centrafricani e italiani uniti nella comune missione. Certo, vivere per due anni lontano da casa, in un luogo così diverso, non é semplice; mi sono resa conto che forse servono un po’ di sana fol-lia, di gioia di vivere, molta molta molta pazien-za e humor. Questa esperienza per me ha signi-ficato condividere momenti di gioia dei pazienti (il test negativo per un bambino nato da una madre sieropositiva), i loro momenti difficili (la perdita di un famigliare, la scoperta della siero-

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re esattamente le loro storie ma basta guardarsi attorno per accorgersi che c'è tanto bisogno e bisogno di ogni cosa. Quando poi senti i bambini cantare pro-prio sulla melodia dell'inno nazionale un ritornello che dice «Noi ci siamo, via i Seleka», capisci quanto la tragedia é viva e ben presente nei loro cuori.Qui a Bouar nella missione di Fatima dove vivo, la situazione é tranquilla e il bisogno di ricominciare é primario; manca quasi tutto e si faticano a trova-re le cose più elementari anche a causa della fuga al'estero della maggior parte dei commercianti (tutti musulmani). A dare conforto e aiuto concreto sono ri-masti i missionari, che quotidianamente vengono ringraziati per il loro operato e per la protezione che hanno offerto nei momenti più difficili. Quello che mi colpisce di più in questi primi giorni é un fatto che, come se fos-se routine, si ripete quotidianamente: ogni mattina sento bussare alla porta e appaiono persone di tutte le etnie e reli-gioni, chi con della verdura, chi con dei manghi, chi con del pane fritto... Piccoli doni ma grandi gesti che evidenziano tutta la gratitudine di questa gente.Che dire? Ricominciare é sempre diffi-cile ma la volontà non manca! Ho visto nei miei primi giri nei villaggi dei bei passi avanti nell'agricoltura con l'in-

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positività). Ho cercato di essere sempre nello stato d’animo di chi sta imparando; ho cercato di essere autonoma nel mio lavoro. Insieme ai colleghi ho cercato di immaginare e sperimentare progetti nel campo dell’educazione terapeutica, nel lavoro di comunicazione con i bambini sieropositivi e con le classi del liceo del-la città, nella formazione degli assistenti sociali che seguono i pazienti a domicilio.E infine...forse quello che più mi sta a cuore: lavorare al Centro Saint Michel é stato sopratutto scoprire qualcosa della vita della comunità religiosa di Béthar-ram e delle suore. Una bella ed unica esperienza, che lascia il segno!

*Parigi

missione

serimento di nuovi metodi di coltivazione e la diversificazione del tipo di ortaggi e prodotti. Il progetto agricolo sembra proprio funzionare; ho assistito ai dibattiti nei villaggi e tutta la co-munità si sente coinvolta e responsabilizzata. Ora sul territorio sono presenti anche molte or-ganizzazioni internazionali, ma distribuiscono aiuti qua e là senza un vero criterio... Poi da un giorno all'altro se ne andranno, con tutti i loro fuoristrada nuovi e il seguito di autisti e dipen-denti ben pagati, ma i problemi e la fame re-steranno. La fiducia e la collaborazione si affi-nano col tempo. E qui c'è gente che ha dedicato e sta dedicando una vita per aiutare Mamma Africa e i suoi figli. A loro va il mio ringrazia-mento e la mia ammirazione. A presto!

*Sondrio

Padre Tiziano Pozzi (secondo da sinistra) con alcuni volontari italiani in Centrafrica

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FLAVIO, «CERCATORE DI FONTI» IN CENTRAFRICA

Ci sono dei «volontari» che vanno più in là del volontariato. Ci sono donne e uomini, single o sposati, vecchi e giovani, che - partiti magari per prova, per «un’esperienza» o per cercare chissà che - si ritrovano così radicalmente trasformati al punto che ciò che doveva rimanere solo «volontariato» (ovvero episodio temporaneo, slancio di generosità, attività comunque non professionale) si tramuta invece in vocazione, missione, in motivo buono per vivere e - in non pochi casi - addirittura per morire.Tra questi laici «più che volontari» c’era sicuramente Flavio Quell’Oller, un giovanottone veronese cha ha trascorso 12 anni nelle missioni cappuccine del Centrafrica e poi, per altri 20, ha gestito con la moglie il magazzino del convento di Genova Pontedecimo, da cui partivano i container di supporto per il terzo mondo. È stato lui stesso a narrare la sua storia in un libro che ha voluto intitolare «Prima che sia troppo tardi» (si può chiederlo allo 010/6509136) e che ha voluto scrivere mentre giaceva malato del morbo che l’ha portato alla morte nel 2010, a 54 anni e con 4 figli.All’inizio degli anni Ottanta Flavio partiva come volontario laico per il Centrafrica, de-stinato a Bocaranga nell’estremo ovest del Paese, 150 km a nord di Bouar (dove di lì a qualche anno sarebbero giunti i betarramiti). Nella missione cappuccina il giovane - che aveva lavorato nei cantieri - fonda una scuola per apprendisti muratori e riesce persino a scoprirsi delle doti da rabdomante che danno ragione del suo insolito cognome (Quell’Ol-ler in cimbro, lingua di una minoranza etnica di origine germanica ancora oggi presente in alcune zone del nord-est d’Italia, pare significhi proprio «cercatore di fonti») e soprattut-to lo rendono ancora più utile grazie alla costruzione di pozzi nei villaggi.Flavio rientra in Italia con l’assillo della propria strada: la vita coi cappuccini gli fa pensa-re a una vocazione religiosa, ma un anno sabbatico trascorso da fratel Carlo Carretto a Spello, in Umbria, lo convince che deve invece rimanere laico e sposato. Torna in Africa, dove comincia ad occuparsi pure dei bambini disabili; non dimentico dell’esperienza mi-stica e delle doti edilizie, però, costruisce a Bocaranga un originalissimo eremo romanico in pietra a volta e soprattutto conosce la volontaria Silvana, che diventa nel 1990 sua moglie. È proprio Silvana a scrivere la seconda parte del libro, con la storia della malattia finale del marito: «A lui non piaceva farsi notare, ma il bene fatto anche a un solo fratello più piccolo è rimasto e parla da solo».

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intervista

di OMBRETTA T. RINIERI

Quasi non la scorgi la chiesetta di San Guglielmo a Castellazzo. Imboccando il lungo viale dei Leoni dalla statale Vare-sina e la maestosità di Villa Arconati che attira l’occhio e l’attenzione; percorren-do la strada con ai lati gli spazi aperti del Parco delle Groane e superati i cancelli della «Piccola Versailles italiana» in di-rezione del Borgo e del Santuario della Fametta, la curva e la controcurva che seguono ne nascondono la piccola faccia-ta, e si potrebbe passarla via quasi senza neppure uno sguardo di sfuggita tanto è nascosta alla vista dietro l’angolo retto del muraglione, a confine con la villa. Ep-pure questo luogo, che sembra sperduto e senza tempo, è una vera e propria cala-mita per i fedeli che vi giungono da molti paesi limitrofi del territorio e addirittura da Milano. La chiesina è parrocchia e, dal 1976, è retta dalla comunità religiosa dei padri betarramiti. In Castellazzo la co-munità religiosa che gestisce la parroc-

chia attualmente è composta dai padri Egidio Zoia e Ennio Bianchi. La vita di padre Egidio, 82 anni, è legata a quella del Borgo ormai da oltre trent’anni; in pratica dall’arrivo dei betar-ramiti a Castellazzo.Padre Egidio, come mai sono arrivati i betarramiti a Castellazzo?«Fu il cardinale di Milano Giovanni Colombo che nel 1976 chiese ai padri del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram di venire a Castellazzo per reggere le sorti della parrocchia che allora contava oltre 400 abitanti, e per avere una co-munità che si interessasse anche della pastora-le del lavoro e della scuola. Il periodo a cavallo fra gli anni '70 e '80 è stata un'epoca di grande contestazione nella politica, nella società e nelle scuole; in questi ambiti si sentiva la necessità di un maggior impegno pastorale. Nel 1976 furono così inviati a Castellazzo padre Giovanni Or-landi in qualità di parroco e padre Aurelio Riva come responsabile per la pastorale nel mondo del lavoro per i decanati di Busto Arsizio, Sa-ronno e Bollate. L’ anno successivo mi aggiunsi io come insegnante nell’Istituto sperimentale di Bollate e responsabile della pastorale scolastica

PICCOLI MA VIVI

Quasi 40 anni di presenza betarramita in un luogo alle porte di Milano eppure sperduto nella campagna, a fianco di una villa patrimonio mondiale dell'arte ma anche in un borgo sempre più spopolato... Questo è Castellazzo. E ha tanta voglia di restare se stesso.

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corale recitazione delle ore". Dalla pri-ma impostazione del "fare" si passò con Martini all'"essere". Altri si susseguiro-no: padre Angelo Pessina per poco tem-po e, per tempo ancora minore, padre Emilio Manzolini, mentre più tardi ri-mase qualche anno padre Ernesto Col-li. Con la diminuzione degli abitanti di Castellazzo, la comunità religiosa veniva chiamata sempre più ad essere punto di riferimento e causa di animazione per le parrocchie vicine. Ecco allora la pro-posta di incontri di preghiera, corsi sulla Bibbia, convegni di studio, proposte di vita comune, riflessione, discernimen-to vocazionale, confessione e direzione spirituale, come aveva chiesto il cardinal Martini. A Castellazzo, oltre ai "Concerti in villa", ai "Cortili fioriti" o al "Maggio Castellazzese" hanno luogo anche mo-menti forti di spiritualità».È cambiata molto la comuni-tà parrocchiale negli ultimi trent’anni?«Quando sono arrivato la prima volta era una bella comunità di circa 450 abitanti con tanti giovani, i quali però, una vol-ta che si sposavano, si trasferivano fuori dal borgo. L’ultimo censimento che ho fatto in occasione della benedizione delle famiglie, lo scorso Natale, ha registrato 128 abitanti, compresi coloro che abita-no nelle frazioni Scessa e Prevosta».

in decanato. Da parecchi anni quindi vivo qui, anche se sono stato assente due volte: dal 1985 al '91 e dal 1998 al 2000; ho potuto vedere tutti i cambiamenti del Borgo di Castellazzo. Nel 1991 tornai quando il cardinale Carlo Maria Martini diede una nuova impostazione alla nostra co-munità. Ora sono parroco dal 1° gennaio 2002».Perché nel 1991 il cardinale Martini sentì l'esigenza di cambiare imposta-zione alla parrocchia? «Con padre Aurelio partito per il Brasile e pa-dre Giulio Forloni, che mi aveva sostituito nella scuola e in partenza anche lui, la comunità veni-va a perdere l’identità primitiva. In parrocchia erano rimasti padre Giacomo Ghislanzoni e pa-dre Giovanni, perché era venuto a mancare an-che padre Arnaldo Guerra chiamato in paradiso troppo presto. Ai padri Giovanni e Giacomo mi aggiunsi io. Il 5 aprile 1991, a conclusione di una sua visita pastorale, Martini aveva specificato in una lettera le finalità della presenza dei betar-ramiti in parrocchia: "Siete maggiormente in-dotti, come comunità di religiosi, a impegnarvi con assoluta priorità nella formazione interiore sia dei vostri parrocchiani, sia di molti altri del territorio circostante che potrebbero riferirsi a voi per itinerari di fede... (potreste) assumere un prezioso ruolo formativo a servizio del de-canato... e (diventare) richiamo per persone che cercano guide e condizioni adatte per mo-menti di riflessione, scuola di preghiera, discer-nimento vocazionale, confessione, direzione spirituale, esemplari celebrazioni eucaristiche,

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Coi giovani hai tenuto i contatti o sono volati via?«Quasi tutti sono andati via, ma sono rimasti in contatto, non solo con me ma con la comunità. Questi giovani ritorna-vano e ritornano ancora oggi per respi-rare l’aria dell’infanzia e per continua-re, pur abitando fuori paese, il "Maggio Castellazzese". Questa manifestazione, sorta all’ombra del campanile con i ge-nitori, e stata poi portata avanti da quei giovani e ormai è diventata una tradizio-ne che dura da quasi trent’anni. In que-sti ultimi tempi si è dato un tema a tesi seguendo questo schema: culturale, re-ligioso e ricreativo. Durante il "Maggio" si sono avuti eventi molto interessanti come esposizioni di icone sacre molto belle e originali; esibizione della Schola Gregoriana Mediolanensis la cui tipicità è il canto gregoriano con testi liturgici che risalgono ai primi secoli della Chie-sa; mostre di pittori sia locali che di fama internazionale: ne cito uno per tutti, il

pittore di acqueforti Ciry, il quale arrivava da un’esposizione in Belgio».Per il «Maggio Castellazzese» è nata un’associazione specifica?«No, è nato in parrocchia. Successivamente nel suo sviluppo, per iniziativa di alcune persone che contribuivano all'organizzazione, è sorta per motivi più ricreativi che culturali e religiosi l’associazione "Vivere Castellazzo", la quale or-ganizza ancora adesso tornei di scopa, birimba (burraco) o altre attività oltre a continuare a dare un supporto alla parrocchia. Il "Maggio" e sempre organizzato dalla parrocchia e dall’asso-ciazione "Vivere Castellazzo"».Perciò sei tu, padre Egidio, la mente del «Maggio»?«No, la mente è il gruppo dirigente. lo sono sta-to magari l’ideatore».San Guglielmo è frequentata da molti fedeli del territorio limitrofo a Castel-lazzo. È sempre stato così?«La parrocchia è sempre stata frequentata da-gli abitanti dei paesi viciniori, soprattutto da quando vi si trova la comunità religiosa con lo

intervista

Il complesso del borgo e della villa di Castellazzo (Mi) visto da una ripresa aerea

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CASTELLAZZO PICCOLA VERSAILLES

Il luogo è piccolo, ma il libro che lo descrive è impegnativo e anche corposo. «Castellaz-zo: parrocchia e borgo» è la bella fatica storica e letteraria compiuta da padre Egidio Zoia e Giovanni B. Sordelli per illustrare a un vasto pubblico le bellezze dell'agglomerato che da quasi 40 anni presso Bollate, ai margini di Milano nel verdissimo parco delle Groane, accoglie anche una comunità di betarramiti.Il volume, stampato a cura della parrocchia di San Guglielmo e dal quale riprendiamo l'intervista pubblicata in queste pagine, ripercorre la ricca storia plurisecolare di Castel-lazzo dai romani ai giorni nostri. Basti a dire che la più antica menzione della chiesa risale al 1341. Nella zona passava una importante strada romana che metteva in comu-nicazione Milano col Nord Europa, poi nel medioevo il borgo divenne luogo fortificato («castellaccio») a difesa della metropoli contro eventuali invasioni.L'epoca di maggior splendore però cominciò nel Rinascimento, quando i nobili Cusani scelsero il luogo per edificare una lussuosa villa di campagna, che poi nel Seicento passò agli Arconati cui si deve il grandioso complesso attuale denominato «Piccola Versailles». Una vicenda illustre in cui i betarramiti sono entrati solo negli ultimi decenni ma con gran-de onore: grazie anche a loro, infatti, Castellazzo ha difeso fino ad oggi le sue ricchezze ambientali e storiche. E anche il libro appena stampato ne è dimostrazione.

Villa Arconati a Castellazzo di Bollate

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scopo suggerito dal cardinale Martini, come detto, di essere punto di riferimen-to e accompagnamento spirituale. San Guglielmo è piccola ma posta in luogo particolare. Padre Giacomo, che prima di venire qui era al santuario della Cara-vina in Valsolda, diceva che confessava più persone a Castellazzo che non in quel santuario, per dire che tantissima gen-te passa di qua, suona il campanello in chiesa e noi scendiamo. Ci sono persone che magari non vengono più, e altre che tornano regolarmente. Vengono anche molti bambini e giovani scout, gruppi di parrocchiani per mezze giornate di ritiro, momenti di preghiera, pellegrinaggi alla Fametta. Attualmente c’e un gruppo biblico molto numeroso seguito da padre Ennio, da parecchi anni il gruppo famiglia, un gruppo dell’adora-zione, i laici che seguono la spiritualità betharramita. Essendo una parrocchia piccola, è piu facile rispetto ad altri parroci andare in-contro alle necessità e alle esigenza par-ticolari delle persone, per esempio a cop-pie di fidanzati che, per la preparazione al matrimonio, impediti per problemi logistici di residenza o di orari di lavo-ro, non possono frequentare i corsi nelle proprie parrocchie».Quale incidenza ha il santuario della Fametta per la vita parroc-

chiale di Castellazzo?«Molta, sia in quella parrocchiale che nella vita di tutta la zona, perché il santuario è sempre stato considerato dai fedeli del territorio un punto di riferimento. Gia nell’800 era meta di pellegrinaggi, anche per coppie di giovani spo-si».Vi sono avvenuti dei miracoli?«Di miracoli non ho notizia, ma di molte grazie ricevute sì». È in corso nella diocesi di Milano una riorganizzazione delle strutture eccle-siastiche in Unità e/o Comunità pa-storali. A Bollate, per il momento, c’è una situazione un po’ anomala con due Unità pastorali e una parrocchia ancora autonoma, che è San Gugliel-mo. Ma questa situazione per quan-to tempo durerà ancora? Castellazzo potrebbe perdere il suo parroco? «Guardando al futuro, Castellazzo quasi sicura-mente entrerà a far parte di questa Comunità pastorale e quindi perderà la sua autonomia come parrocchia, dopo oltre sei secoli di vita. Se i padri betarramiti resteranno sul luogo, vi saranno sempre sacerdoti in parrocchia, ma resteranno presenti come comunità religiosa e non più come parroci; il parroco ovviamente ri-siederebbe a Bollate San Martino. Sarebbe una cosa curiosa: i primi parroci di Castellazzo era-no dei religiosi, esattamente dell’ordine degli Umiliati, e gli ultimi sono anch’essi religiosi, i padri betarramiti».

intervista

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di ILARIA BERETTA

Si fa ma non si dice. In un’epoca in mondovisione, dove ogni post svela qualche intimo dettaglio, sembra impossibile tenere un segreto. Eppure a noi «nati digitali» l’impresa sembra riuscire ogni volta che c’è in ballo Dio. Esatto, perché la nostra generazione sempre online ogni tanto stacca i cavi e senza wi-fi si collega al cielo... Un’operazione nascosta verso un Dio che c’è – risulta ovvio per la maggior parte – ma guai a dirlo.L’ambiente non conta: a Fisica e a Lettere, in Statale come in Cattolica... non c’è giovane che ammetta a cuor leggero di chiudere la porta della propria stanza per pregare. Le eccezioni ci sono, è vero, e di solito (non sempre) coincidono con gruppi di giovani poco critici, parecchio «esaltati» e altrettanto orgogliosi come veri papa-boys. In maggioran-za però l’abitudine è un’altra; lo dicono le statistiche che fotografano un mondo intriso di spiritualità, anche se generica e non proprio declinata entro le religioni tradizionali. Lo confermano pure il picco dei viaggi alla «ricerca» interiore, che spesso paradossal-mente sono proprio mète religiose antichissime com’è nel caso del cammino di Santiago di Compostela.Certo siamo ben lontani da litanie e rosario, ma chi ha detto che questo non sia un pregare più intenso? Anzi, la segretezza dell’invocazione ha parecchio dell’evangelico, anche con tutta la spontaneità e l’inventiva del caso. C’è chi prega con le mani lavorando, chi lo fa scoprendo gli uomini e chi… solo in To-scana. Mi stupisce che la sostanza sia ancora quella del «non cade foglia che Dio non voglia», eppure non lo si dice per niente in giro.

CHI HA DETTO CHE I GIOVANI NON PREGANO?

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Spiegare il passaggio sotto silenzio di un’Ave Maria mal si giustifica con una generica vergogna. A venti o trent’anni suonati non regge la scusa del dover essere accettati nel gruppo. Per di più la tendenza si ritrova identica come un fil rouge nella matassa di vite di diversi giovani: parlare tranquillamente di fede o spiritualità è diventato pressoché impossibile. Altro che sesso: l’argomento politicamente scorretto fino a cinquant’anni fa, oggi ha ben poco di pruriginoso, complice anche la società che parlandone (troppo) l’ha desacralizzato. Il vero tabù della nostra generazione è Dio.Sì, inutile negarlo: non se ne parla mai. In un gruppo d’amici, meglio tenere le bocche cucite sull’argomento ed evitare brusche sterzate su un terreno molto sdrucciolevole, a meno di sapere di essere nella botte di ferro di un ambiente amico... Persino nel con-testo scientifico si va con i piedi di piombo. Nonostante sia impossibile descrivere ma-tematicamente la probabilità dell’equilibrio del sistema-mondo senza un «intervento dall’alto», nessuno con addosso il camice s’azzarda a pronunciare la parola Dio, troppo poco «scientifica» anche per uno studioso cattolico. E poco conta che recentemente si sia parlato proprio di «particella di Dio»...Certo, a renderci di poche parole sull’argomento hanno contribuito «per contrappasso» secoli di un Paese ufficialmente cattolico e scandito da riti religiosi. D’altra parte però non dire la propria dimostra che non c’è il coraggio di promuovere una vera alternativa. Insomma, la nuova tensione verso Dio e il desiderio -forse più apostolico che mai- di co-municazione col cielo non bastano. Anche in un’orchestra sullo spartito dello strumento che non deve suonare si legge tacet, ovvero «zitto!». Ma è un silenzio necessario al resto del gruppo, tanto che talvolta tacere è proprio come suonare insieme. Invece il mutismo su Dio non fa gruppo, anzi: isola e disgrega persone che con altre potrebbero proporre qualcosa di nuovo sul tema.Quindi che fare? Per iniziare, ne ho parlato in un dialogo informale con la mia amica complementare e a sorpresa ci si sono aperte prospettive serissime. Mettendo insieme le nostre diverse visuali, abbiamo tracciato il quadro del problema e insieme abbiamo progettato un’idea. Parlarne. È semplice e quasi banale: ma serve proprio promuovere il risveglio del dibattito su Dio tra noi giovani a tappeto, ovvero in Chiesa, a scuola, ma anche in viaggio o davanti a una birra. «Pronunciate il nome di Dio ad hoc» reciterebbe d’altronde la versione in positivo del comandamento... Per rompere il muro del silenzio e ricreare una comunità, dunque, non resta che aprire bocca.

largo ai giovanilargo ai giovani

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IL SEGRETO DEI MISSIONARI – ROBERTO BERETTA

UN GIORNO A ROMA, ABBRACCI GRATIS PER TUTTI

I SANTI DELLA MISERICORDIA E DELLA FAMIGLIA – ALDO NESPOLI

UN RAGAZZO ROZZO DIVENTATO SANTO – ERCOLE CERIANI

TRE VOLUMI IN GIRO PER L’ITALIA

LAICI TUTTI IN MOVIMENTO

MISSIONE NEL PAESE DOVE LO SPIRITO È CARNE

PRIMI PASSI NEL SUBCONTINENTE

UN «FRULLATORE» DI POPOLI E CULTURE

SHOBHANA SHAAKHA, UN «BEL RAMO» IN HINDI

LE MERAVIGLIE DELLA BEATA MIRIAM

I CRISTIANI NATI DALL’APOSTOLO TOMMASO

SEGNO DI PACE CONTRO LE DIVISIONI

MISTICO, POVERO, PROFETICO: DA NOI IL RELIGIOSO DEV’ESSERE GURU

LA MIA BÉTHARRAM? PICCOLA E POVERA, MA BELLA

SAN MICHELE SBARCA IN INDIA

TRA TOLLERANZA E PERSECUZIONE: LE CONTRADDIZIONI DEL GIGANTE

BANGALORE CHIAMA ALLA RICONCILIAZIONE

UN THAILANDESE PER FORMARE GLI INDIANI – ILARIA BERETTA

JANA GANA MANA

PADRE EZIO LE ALI DI UN POETA – ALESSANDRO PANIGA

VOLONTARI, VITE PARALLELE - CLAIRE GUILLOT, IVAN GUSMEROLI

FLAVIO, «CERCATORE DI FONTI» IN CENTRAFRICA

PICCOLI MA VIVI – OMBRETTA T. RINIERI

CASTELLAZZO PICCOLA VERSAILLES

CHI HA DETTO CHE I GIOVANI NON PREGANO? - ILARIA BERETTA

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SOMMARIO

Presenza Betharramita. N. 3 Luglio/Settembre 2014 Trimestrale di notizie e informazioni della Vicaria Italiana della Congregazione del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram

Registrazione del Tribunale civile di Milano n. 174 11 marzo 2005Redazione: Via Italia, 4 / 20847 Albiate (MB) Tel. 0362 930 081 Fax 0362 930 057E-mail: [email protected] responsabile Roberto BERETTA RedazioneIlaria BERETTA Ricerca Immagini e CopertinaErcole CERIANIImpaginazione e Grafica www.grfstudio.com

Spedizione in Abbonamento Postale art. 2, comma 20 C. Legge 662/98 MILANOStampa Pubblicità & Stampa s.r.l. Via dei Gladioli, 6 / Lotto E/5 70026 MODUGNO (BA) Tel.: 080 5382917 Fax: 080 5308157 www.pubblicitaestampa.it

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Presenza Betharramita. N. 3 Luglio/Settembre 2014 Trimestrale di notizie e informazioni della Vicaria Italiana della Congregazione del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram

Registrazione del Tribunale civile di Milano n. 174 11 marzo 2005Redazione: Via Italia, 4 / 20847 Albiate (MB) Tel. 0362 930 081 Fax 0362 930 057E-mail: [email protected] responsabile Roberto BERETTA RedazioneIlaria BERETTA Ricerca Immagini e CopertinaErcole CERIANIImpaginazione e Grafica www.grfstudio.com

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Presenza BetharramitaPreti del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram

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