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Page 1: Preview Il linguaggio delle emozioni

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Page 2: Preview Il linguaggio delle emozioni

Che cosa è meglio? Una felicità a buon

mercato, oppure un'estrema sofferenza?

Allora, cosa è meglio?

F. Dostoevskij

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Page 3: Preview Il linguaggio delle emozioni

PREMESSA DELL’AUTORE

E' davvero possibile un approccio filosofico ad una scienza ostica

come la psicoanalisi? E’ ancora consentito ad uno studioso di

filosofia, quando non proprio ad uno storico o letterato, di

addentrarsi nei labirinti di una disciplina che i più rivendicano

come medica? Il problema pur non essendo nuovo (già nel 1943

Jung rivelava i suoi dubbi riguardo alla psicoterapia in genere:

"Noi psicoterapeuti dovremmo essere veri filosofi o medici

filosofi; anzi... già lo siamo anche se non vogliamo ammetterlo")

nel panorama culturale mantiene tuttavia inalterato e forse ha

anche accresciuto il suo fascino. Se di scienza si tratta, e il dubbio

dopo l’epistemologia popperiana, le critiche di Wittgenstein,

l’ironia di Deleuze e le ragioni sulla non falsificabilità (e dunque

sulla dimostrabilità) delle teorie freudiane è comunque obbligato,

quale contributo potrà allora mai dare e soprattutto con quali

strumenti opererà un metafisico (un ontologo, un fenomenologo)

nel controverso campo della psiche e della malattia mentale?

Freud, com’è noto, desiderava che la scienza da lui inventata non

dovesse assolutamente ridursi nelle mani della medicina empirica,

né tanto meno in quelle più anguste della neuro-biologia, ambienti

nei quali pure si era formato. Il medico, stando alle sue parole,

sarebbe per qualche misteriosa ragione la persona meno indicata

all'esercizio dell'analisi della mente e delle tortuosità dell'inconscio.

Perché dunque questo accanimento nei riguardi della scienza

ippocratica, quale la ragione della generale diffidenza verso la

neuro-anatomia nello studio delle patologie mentali? Questo è il

primo importante interrogativo al quale si cercherà di rispondere

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Page 4: Preview Il linguaggio delle emozioni

nel corso del trattato. Per ora ci basti sapere che Freud rompe una

tradizione centenaria di convinzioni e convenzioni che

concepivano la psiche e le sue deviazioni come il risultato di un

complesso sistema di evoluzioni (o involuzioni) essenzialmente di

tipo organico e biologico. Non è che Freud rifiutasse radicalmente

i presupposti dell'assioma scientifico che peraltro sono alla base

dello stesso positivismo darwiniano; accadde piuttosto allo

studioso viennese di intuire all’interno di una visione

meccanicistica della psiche, intesa come un organo la cui

funzionalità è condizionata dalle ereditarietà biologiche di geni e

di tare cromosomiche, una componente emotiva autonoma e

perlomeno parzialmente indipendente dalle dinamiche fisiologiche.

La malattia non sarebbe allora rilevabile organicamente perché la

sua origine (e questa ipotesi avrà aprendo alle scienze sociali degli

sviluppi allora impensabili) non è pre-determinata da un gretto

fatalismo che infierisce già dalla nascita nello sviluppo della

personalità, ma è da considerarsi come un fenomeno evolutivo-

affettivo più problematico, contingente e storico. Lo stato morboso

non coincide pertanto con questa o quella nevrosi, questa o quella

psicosi perché nevrosi e psicosi non sono tanto sofferenze

organiche di un singolo individuo, quanto piuttosto (e più

semplicemente) un primo drammaturgico tentativo di guarigione

sociale; anzi nel paradosso già sono in un certo senso guarigione,

superamento della malattia. Anticipando, anche se da un angolo

radicalmente diverso e per via traslata, quanto in tempi più recenti

sosterranno il Comportamentismo (l'attività cosciente e morale non

è che una somma di riflessi che avvengono nel cervello) e meglio

ancora il Cognitivismo. Ma di questo si parlerà in maniera più

articolata nelle pagine che seguono.

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Detto questo, si capisce perché per Freud nel campo della psiche il

medico possa lasciare lo stetoscopio al filosofo come al sociologo,

allo studioso delle scienze umane quanto al poeta; in una parola

allo psicoanalista. Ma lo psicoanalista non è forse un medico, certo

più occulto e misterioso, che come il collega clinico visita il

paziente, pronuncia una diagnosi e prescrive delle cure? E allora in

cosa si differenzia dallo scienziato empirista? Apparentemente in

nulla, a guardar bene in tutto. Innanzitutto la visita non è una

visita, la diagnosi non è una diagnosi e la cura non è una cura. Per

lo meno dal punto di vista rigidamente ortodosso. Lo psicoanalista

non visita perché ascolta, non formula una diagnosi perché nulla

c'è da diagnosticare ma da portare alla coscienza, non cura perché

il farmaco con cui opera è unicamente la parola.

Una nevrosi, e questa è l’ottica corretta per orientarsi nello studio

della patologia (il cui valore si comprenderà solo più avanti nella

sua portata storica), è da considerarsi come un segno o un gioco

linguistico il cui significato è da ricercarsi in una distorsione

semantico-visiva della verità (e in quanto tale heideggerianamente

dell'essere e del nulla) intesa come legge morale, una specie di

chiaroscuro posto tra l'Io cosciente e l'Eros rimosso; condizione

dell’esistenza che per quanto sofferta si configura a volte come

l’unica possibilità di tolleranza dell’angoscia. E nella ricerca della

verità è (per dirla con Gadamer) più utile il filosofo, quando non

proprio il poeta di un clinico anatomista. Ecco perché il punto di

vista dal quale è inquadrato questo studio sulla nevrosi è quello

fenomenologico (il problema è di indagare lo scheletro della

patologia concepita come rifiuto della verità nel suo sfondo

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morale) ed ha come punto di riferimento Heidegger e la sua

conferenza Dell'essenza della verità.

E' noto a tutti che più di un fenomenologo (i quali pure molto

hanno dato alla psicoanalisi, per lo meno in termini di

concettualizzazione) Heidegger era e voleva essere un ontologo,

uno studioso dell'essere prima che dell'uomo; ma come spesso

accade nella filosofia la sua ricerca ossessiva, pur dai limbi lontani

della teoria, ha saputo guardare anche altrove, incontrare questioni

impensabili a chi osservi dall'empireo inumano dell'epoché,

sprofondare oltre le pretese di una legge morale che gli appariva

non più accettabile come principio di ragione, fino all'ultimo dei

rimandi e delle cause finali: dalla questione della verità a quella

rigenerante della libertà e della poesia. In un cammino antropo-

ontologico che come quello dell'analizzante e dell'analizzato si è

condotto nell'unica direzione percorribile, quella estetico-

archeologica del linguaggio e della parola. Il nevrotico ha abiurato

l'imperativo morale, ed è sprofondato nel nulla della coscienza

bacchica? Si è lasciato tentare dalle promesse faustiane? Ha, in

una parola, smarrito il senso della verità? Ebbene il senso è un

esistenziale e come tale andrà ricercato nella mitologia della

forma, nell'archetipo della ragione che si apre a quel linguaggio

autentico che da Socrate in poi consente di avvicinarsi all'essere e

al suo senso, nella profondità del Sé. Ma la parola può davvero

essere una medicina, il farmaco che conduce ad una vittoria sul

materiale simbolico rimosso? Il linguaggio l'unica via per

introdurre in abissi nascosti che si configurano, in ultima analisi,

come la ragione stessa dell'esistenza? Freud doveva anche se in

modo velato pensarlo; Heidegger di più ne era certo.

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Due paragrafi di questo libro saranno dedicati proprio agli autori

che del logos e della parola hanno fatto il centro dell'interesse

filosofico: Heidegger e per quanto lontano Socrate, il filosofo che

nella maieutica (e quindi in quel continuo interrogare con cui

martellava eroticamente l'interlocutore) ha identificato la forza

veritativa del linguaggio, il mistero di quella parola svelante che

per l'ontologo sarà invece più direttamente la casa e il luogo

storico della manifestazione dell'essere, lo spazio nel quale si apre

il senso delle cose ed ha voce il trionfo bacchico della libertà.

L'opera di Freud s'inserisce proprio in una logica (ermeneutica-

maieutica) di questo tipo, nello sforzo di recuperare la coscienza

infelice alla dimensione purificatrice della verità (purificazione che

nella confessione si configura come una conversione alla legge

morale), nel tentativo di fare cioè della sofferenza nevrotica

un'occasione per riguadagnare l'esserci in quello stato di verginità

semantica che sempre è assente nel tormento mentale. E il malato

è difatti tale, nel senso che è là che si fonda lo stato angoscioso,

perché ha perduto il senso originario del significante primario e in

esso la struttura esistenziale (antropo-ontico-ontologica, pilastro

teoretico dell'edificio trascendentale kantiano) della libertà.

Allora: Socrate, Kant e Heidegger sono questi gli autori più vicini,

pur nelle differenze di discipline (1) alle convinzioni freudiane, e

tra le convinzioni in cima a tutte quella per molti versi spaventosa

di un'erotica autonoma dalla volontà, di tutto quello che concerne

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NOTA 1) la struttura del testo è divisa in due parti; i primi sei capitoli delineano

propriamente la teoria psicoanalitica e sono una propedeutica agli ultimi sei, vero oggetto

della discussione, che presentano invece un approccio più tecnicamente filosofico ai problemi.

In fondo al volume è stato aggiunto posteriormente un articolo sul concetto di volontà datato

VI-2000

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l'Es e le sue pulsioni. La nevrosi è infatti propriamente per la

psicoanalisi (per Freud certamente più che per Jung o Adler) la

manifestazione di un conflitto morale suscitato dalla legge dell’Io,

una perversione al negativo che solo nel tragico del sintomo riesce

però a trovare il modo di superarsi, l’equilibrio ad una spesso

vuota e arida emotivita'.

Al di là dei notevoli contributi dati da Freud (che ha anche cercato

per lo meno di riflesso di dare un'ossatura solida a quanto era stato

scritto prima nel campo delle scienze umane -Nietzsche ad

esempio- arrivando a riorganizzare, senza dubbio filosoficamente,

un pensiero più che millenario su quanto era stato concepito in

ambito erotico) alla letteratura filosofica (problema significativo,

basta pensare al valore erotico della bellezza all’interno della

dialettica platonica) non sembra tuttavia che il padre della

psicoanalisi, contrariamente a quanto fece Jung, abbia dato il

giusto riconoscimento all’estetica (intesa come insieme delle forme

simboliche che strutturano il modo di vedere il mondo) nella prassi

terapeutica. L'analisi dell'inconscio può infatti essere condotta non

solo nella forza di un linguaggio che ha l'aspetto del ritorno

dialettico al Sé ma, una volta spogliato dalle sovrastrutture

linguistiche (magari attraverso l’uso dell’epoché fenomenologica),

anche nel simbolismo mitologico che porta l’impronta della storia

e della cultura (Jung), in parole che conservano la memoria

culturale di quella lingua originaria che è nella sostanza l'archetipo

della perfezione formale. Pura forma: l'a priori di ogni legge,

dell'imperativo morale. Il farmaco capace di redimere non solo chi

ha raggiunto e magari superato i limiti dell’alienazione (o se si

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preferisce della legge morale), ma il mondo e l'umanità, la vita in

tutte le sue articolazioni. Si deve curare la sofferenza, certo, ma in

essa un mondo sempre più incapace di togliere e superare nel

medesimo processo storico la differenza tra soggetto e predicato

(Hegel), recuperare alla coscienza collettiva una generazione che

ha smarrito il senso olistico e progettuale della platonica idea del

bene. Lo psicoanalista (il filosofo-psicoanalista) si configura

quindi come il demiurgo di una nuova etica che abbia nella lingua

poetica (quella che dà nome alle cose e fonda l’essere) la ragione

di una tecnica (maieutica, medica, apotropaica) in grado di

liberare dalle barbarie di un'epoca che ha nell’essere-per-la-morte

(quale ultima sublimazione del consumo) la fonte della propria

alienazione. La sua medicina. Ma come questo possa accadere

cercheremo per quanto sarà possibile di spiegarlo nelle pagine che

seguono.

Un ultimo argomento, quello forse di maggior interesse filosofico,

è come si è detto la centralità dell'eros e dell'erotica (concetto che

Jung, dando alla libido un significato più diluito di quello

grettamente sessuale, sostituisce con quello meno compromesso di

energia psichica) all'interno della dinamica morbosa della

malattia. La nevrosi è non a caso concepita come il risultato di un

conflitto angoscioso tra il desiderio e la rinuncia, la tentazione

profanatrice e una morale mutilante che può talvolta assumere

storicamente il ruolo della repressione sociale. La pulsione erotica

ha dunque nelle sue distorsioni semantiche un ruolo patogeno

essenziale, capace com’è di indurre a superare i limiti del sacro, di

assaporare il brivido dell’infrazione, l’estasi della disubbidienza;

perché l’eros è così: violento e distruttivo, anche mortale. A volte.

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Altre può però rivelarsi come la chiave in grado di aprire la

prigione narcisistica, il ritiro dal mondo in cui rinchiude la

malattia per condurre finalmente nell'aperto della libertà. E nella

verità della libertà magari anche, chissà, alla poesia.

In due parole: questo studio è strutturato attorno a Freud (più che

ad altri, Jung ad esempio) ma solo perché il suo pensiero (topico,

dinamico, economico) gravita attorno a quella mitologia erotica

che è il fondamento (e la finalità) di ogni filosofia dopo quella

platonica. In quell’amore -in fondo- per l’assoluto che di vetta in

vetta e di cima in cima trascina nel solo sentiero consentito della

conoscenza; tra le mille tortuosità di una radura dialettica

pericolosa e selvaggia che ricorda davvero il percorso

impraticabile della psicoanalisi.

Milano XI-’97, G. Buonofiglio

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