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Rivista tecnico scientifica riguardante metodi, approcci, strumenti ed esperienze sullo sviluppo di nuovi prodotti e sulla loro produzione.

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Sommariosettembre-ottobre 2014

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Proprietà OTTOLOBI editoria e comunicazioneVia A.Caretta, 320131 - Milanot/f 02.36798297www.ottolobi.itP.IVA 03559000983N.REA: MI-2021527

Pubblicità t/f [email protected]

Editoriale Le nostre Rubriche:

Design Industriale a cura di G.Alito

Metodi di sviluppo prodotto a cura di N.Lippi

Metodi di produzione a cura di A.Viola

L’intervista a cura di C.Ravaioli

Project management a cura diA.Fischetti

Software a cura di S.Di Pietro

Creatività a cura di D.Donati

Ecodesign e sostenibilità a cura di Collettivo NUUP®, sustainable creativity

LCA a cura di M.Granchi e R.Bozzo

Un libro in 10 minuti (management) a cura di P.Pirone

Qualità del servizio a cura diM.Galgano

REDAZIONALE Come trasformare la passione in emozioni intervista a Mario Manganelli

Gli autori di METHODO

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OOPEN (TRUE) INNOVATION

Non mi piace sentire parlare d’innovazione, non mi piace vedere istituzioni pubbliche o semipubbliche investire denaro in scatole vuote o in cui l’accesso avviene, quando va bene, per titoli. Non mi piace soprattutto un’innovazione aperta unicamente agli ingegneri — sto parlando anche contro di me — o a persone in generale che avendo studiato molti anni e solo per aver osservato prodotti e concetti del passato, debbano essere gli unici in grado di creare il futuro.

Per fortuna credo che le cose stiano cambiando, la parola “open” derivante dalla web-democrazia si può mettere ormai davanti a tutto e, cosa più importante, finalmente è approdata davanti a “innovation”. Per ora questo termine è ancora abusato, forse chiamano open il guardare al di fuori del proprio confine aziendale, aprirsi a banche dati, ad altri attori generalmente istituzionali, quali università e centri di ricerca, ma per essere aperta l’innovazione lo deve essere realmente per tutti, teoricamente anche all’uomo della strada e alle sue idee.

Si dice che il potere non appartiene più a chi ha i mezzi di produzione, chiunque può diventare inventore ma soprattutto produttore e imprenditore. Allo stesso modo con cui oggi è possibile autoprodursi un libro, domani — anche in questo momento per i pionieri — sarà possibile creare, realizzare e vendere oggetti, prodotti più o meno complessi. In un certo senso questa sarà la nostra fortuna, almeno dal punto di vista occupazionale, la manifattura su larga scala non sta più offrendo posti di lavoro a causa dell’aumento dell’automazione, piuttosto si sta contraendo. Il movimento chiamato dei “Makers”, dei Fablab, cerca d’invertire questa tendenza dando vita a tanti piccoli imprenditori globali, creatori di prodotti di nicchia ma che grazie alle potenzialità della rete — e al fatto che i prodotti oggi sono descritti interamente da informazioni digitali — possono diventare miniere di profitti, oltre i propri normali confini fisici.

Oggi, quindi, la strada da percorrere per rovesciare questo stato di cose non è quella che porta al ritorno delle fabbriche gigantesche con eserciti di dipendenti, ma quella che permette di creare un tipo di economia più simile al web stesso, bottom up, largamente distribuita

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e altamente imprenditoriale, un po’ come era l’economia prima della rivoluzione industriale, fatta di tanti piccoli artigiani (artigiani digitali appunto), ma con mezzi di produzione tutt’altro che artigianali.

Da questo affascinante mondo nascono anche importanti opportunità per le grandi imprese. Immaginate un luogo (anche virtuale) dove le aziende portano i loro prodotti e chiedono a una comunità di reinventarli, modificarli, aggiungere funzioni, ove chiunque — grazie alle sue idee e alle sue capacità digital-artigiane — possa partecipare al processo d’innovazione. Il tutto a costi ridottissimi e con l’opportunità di coinvolgere i propri clienti.

Noi siamo pronti alle nuove sfide. METHODO, che è tutt’altro che statico, in un futuro non troppo lontano cercherà di essere un supporto a questo nuovo mondo, apportando competenze, rete ed energia a chi per ora dispone solo di splendide idee.Buona lettura. Nicola Lippi

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Nei numeri precedenti abbiamo parlato prima di eccellenza e dopo di quale eccellenza, cercando di liberare questo termine da tutte le inutili sovrastrutture ideologiche che lo appesantiscono da sempre. Quindi, per fare un sunto delle “puntate precedenti”, potremmo dire che la nostra fantomatica impresa “Italia”, per essere profittevole, dovrebbe operare nella parte alta della forbice di prezzo e - dunque - produrre solo eccellenza. Sappiamo inoltre che l’impresa “Italia” è una leader di diversificazione, quindi legittimata a operare in moltissime categorie di prodotto e relative fasce di mercato.Affermando che quella dell’eccellenza è l’area di pertinenza ideale e definendo meglio i “confini” del termine eccellenza abbiamo certamente sfoltito di molto la quantità di “strade possibili” da scegliere per intraprendere un percorso che sia il meno tortuoso e quindi meno rischioso possibile. Tuttavia questo non è sufficiente. Paradossalmente è proprio uno dei pregi della nostra impresa, cioè l’essere leader di diversificazione, che rende insufficienti i dati fino a ora raccolti al fine di operare scelte strategiche di prodotto/mercato.Gli esperti di marketing ci dicono da tempo immemore, ormai, che il mercato ha la forma di una piramide, anche se ultimamente ha subito una mutazione genetica non poco significativa della quale parleremo in seguito. In prossimità del vertice ci sono i prodotti premium ma pochi consumatori target, alla base i prodotti entry level con tanti consumatori target.Un’impresa leader di diversificazione,

come la nostra, sta lontana dalla base ma si muove nel resto dello spazio (mercato) disponibile. Si muove in orizzontale, quindi prodotti diversi ma, si muove anche in verticale (senza appoggiarsi al fondo), quindi - e soprattutto, direi - consumatori diversi. Osservando una qualsiasi analisi statistica focalizzata su un prodotto o su una categoria di prodotti simili noteremo una sorta di stratificazione tendenziale dei comportamenti del consumatore nei

QUALE DESIGN PER QUALE MERCATO PER QUALE UTENTE

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a cura di Giuseppe Alito

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QUALE DESIGN PER QUALE MERCATO PER QUALE UTENTE

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confronti dello stesso prodotto (o della stessa funzione d’uso). Pur non esistendo (nella realtà) confini nitidi tra una fascia di consumo e un’altra esistono, invece, delle differenze nette e sostanziali nella scala di priorità dei valori che stanno alla base della scelta di una stessa funzione d’uso in fasce di mercato differenti operata da soggetti diversi tra loro.Per fare un esempio pratico il consumatore x che decide di comprare una sedia da

Kartell e il consumatore y che decide di acquistarla al bricocenter operano la stessa scelta in termini di funzione d’uso ma pongono una scala di valori completamente differente. Quindi acquistano la stessa “che cosa” ma una differente “quale”.

Al di là di ogni considerazione di carattere economico che porterebbe i più a pensare che chi compra al bricocenter lo fa perché non può permettersi Kartell - considerazione sfatata da innumerevoli indagini che ci dicono che chi acquista prodotti economici non è necessariamente “povero” - il nocciolo della questione è invece molto più sofisticato e ben poco noto, quantomeno agli operatori (designers e imprese) che nel corso di questi ultimi anni hanno considerato il mass market come una sorta di eldorado popolato da soggetti incapaci di “creare bellezza”. Proponendosi, quindi, come salvatori eruditi e illuminati che, attraverso una errata trasformazione dell’offerta,

hanno cercato di proporre lo stile “Kartell” al consumatore “bricocenter” pensando di farlo contento perché finalmente reso libero dal brutto. Una sorta di “esorcismo artigianale” che qualcuno - ancora meno intelligente - ha chiamato design democratico! E’ proprio dietro l’errata convinzione che chi compra “bricocenter” vorrebbe possedere “Kartell”, il luogo dove s’insidia l’errore più grave e più

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Nel numero 2 di METHODO abbiamo ampiamente posto in evidenza il ruolo dell’architettura di prodotto e il relativo impatto sul funzionamento aziendale. Avevamo già precedentemente fissato i requisiti del nuovo prodotto, a questo punto è il momento di costruirne l’architettura, ovvero definire chi dovrà svolgere le funzioni (derivanti dai requisiti), impostare conseguentemente il numero di elementi del sistema e le relative interfacce. Nel fare questo non ci concentreremo unicamente nella direzione che porta a prodotti modulari. La modularità infatti non è un concetto dicotomico, in linea di principio non esistono sistemi (beni, servizi, organizzazioni, etc.) perfettamente modulari e altri totalmente integrali. Al contrario, vi sono prodotti (o più in generale sistemi) caratterizzati da un diverso livello di modularità. Il giusto livello dovrà essere individuato sulla base delle considerazioni già fatte nel numero precedente con l’aiuto di alcuni strumenti di analisi che andremo a presentare. Prima ancora però di ragionare su quali debbano essere i “candidati moduli” è importante realizzare il cosiddetto “progetto concettuale”(figura 1) che passa attraverso la definizione della “matrice morfologica”.

DESCRIZIONE DEL SISTEMA E MATRICE MORFOLOGICA

Il processo di astrazione è necessario per individuare ciò che è essenziale e ignorare ciò che è particolare, legato solo a pregiudizi o a tradizioni tecniche dell’azienda. Ad esempio nel caso di un progetto di un dispositivo per misurare in modo continuo

la quantità di liquido in un serbatoio, è più opportuno formulare il problema in questo modo:

- Misurare la quantità di fluido in continuo piuttosto che:- Misurare il livello di un liquido con un galleggiante.

E’ necessario quindi astrarre da particolari soluzioni già configurate soluzioni innovative migliori. Sappiamo bene come esistano più principi fisici, e quindi più dispositivi, che possano svolgere la stessa funzione. Elencarli prima di scegliere è un dovere.

Il progettista deve confrontare le nuove soluzioni con le soluzioni preesistenti sulle quali deve ampiamente documentarsi, e valutare se la nuova soluzione soddisfi i seguenti requisiti:

PROGETTAREa cura di Nicola Lippi

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L’ARCHITETTURA DI PRODOTTOFigura 1 - Dalle specifiche alla soluzione

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- Sicurezza migliorata- Spazio e peso sono ridotti- I costi sono ridotti- I metodi di fabbricazione sono migliorati- I tempi di consegna sono ridotti

Questi, e altri requisiti, potrebbero avere di volta in volta una importanza relativa diversa. Per giungere alla formulazione astratta di questi problemi essenziali è quindi necessario analizzare la specifica relativamente alle funzioni richieste e ai vincoli posti, elencando in ordine d’importanza decrescente le strutture funzionali.

Le strutture funzionali

Per quanto già visto in precedenza, i requisiti determinano la funzione cioè la relazione tra ingressi e le uscite di un

sistema che può essere un impianto, una machina o un prodotto qualsiasi. Formulato il problema è possibile indicare una funziona globale (o complessiva) che può esprimere la relazione tra ingressi e uscite indipendentemente dalla soluzione.

Come un sistema tecnico o ingegneristico può essere suddiviso in sottosistemi (gruppi) ed elementi, così una funzione globale può essere divisa in sottofunzioni di minore complessità. Si giunge così a una combinazione di sottofunzioni che danno origine alla struttura funzionale del sistema complessivo.

Prendiamo come esempio una semplice macchina da caffè per utilizzo domestico (figura 2)

L’ARCHITETTURA DI PRODOTTOFigura 1 - Dalle specifiche alla soluzione

Figura 2 - Struttura funzionale di una macchina da caffè

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Nell’ultimo numero di METHODO abbiamo visto come l’implementazione del modello lean production passi attraverso l’applicazione (e personalizzazione) di 3 principi operativi di riferimento: in questo numero inizieremo a vedere come sia possibile introdurre in azienda questi principi attraverso una serie di metodologie e strumenti, da tempo utilizzati in tutto il mondo ma, ahimè, molto meno conosciuti e applicati nelle aziende italiane.

Prima di cominciare è tuttavia opportuno ricordare come tutte le metodologie che verranno presentate in questo e nei prossimi numeri di METHODO, rappresentino solo dei mezzi con i quali sia possibile introdurre nella propria azienda il modello lean, ma che il fine — e quindi l’obiettivo — debba essere solo e soltanto la riduzione degli sprechi nelle attività produttive.

La “cassetta degli attrezzi” del modello lean

Secondo il modello lean production, il processo produttivo ideale (cioè quello con massima efficacia ed efficienza) è quello ”capace di realizzare un prodotto con un flusso continuo di attività produttive che pulsano come pulsa il mercato”: secondo questo punto di vista, quando vi è un’interruzione del flusso produttivo, si genera uno spreco proprio perché ci si allontana dalla situazione ideale.

Si può affermare che, mentre un processo produttivo può essere definito come “un insieme di risorse e attività tra loro interconnesse che trasformano degli elementi in ingresso (input) in elementi in uscita (output), un flusso produttivo è “un insieme di risorse e di attività ininterrotte che trasformano gli elementi in ingresso in elementi in uscita”.

I principali fattori produttivi che concorrono a realizzare un prodotto sono uomini, materiali e macchine e il flusso produttivo ideale è quindi quello in grado di non interrompere il flusso di generazione del valore del prodotto da parte di questi fattori: che cosa è la sovrapproduzione se non l’interruzione del flusso dei materiali? Che cosa rappresenta una macchina ferma (in attesa) durante un cambio formato? Il movimento di un operatore non è di fatto un’interruzione nella creazione del flusso del valore del prodotto?

Il modello lean production fornisce una serie di metodologie che, se applicate correttamente, aiutano a ridurre le interruzioni di questi flussi di risorse. Le principali sono:

• 5S (Seiri, Seiton, Seiso, Seiketsu, Shitsuke): per definire un posto di lavoro standard ed evidenziare immediatamente qualunque anomalia rispetto allo standard definito;

• TPM (Total Productive Maintenance): per massimizzare l’efficienza produttiva degli impianti;

COSTRUIRE LE BASI PER IL MIGLIORAMENTO DEL PROCESSORu

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ea cura di Alberto Viola

PRODUTTIVO: LO STRUMENTO DELLE

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• SMED (Single Digit Minute Exchange of Dies): per ridurre al minimo i tempi di setup di macchine e impianti produttivi;

• CELL DESIGN: per collegare in sequenza (“a flusso”) tutte, o alcune operazioni a valore aggiunto, necessarie per produrre un determinato prodotto, riducendo al minimo gli sprechi durante il flusso produttivo;

• KANBAN SYSTEM: per implementare la produzione “tirata dal cliente”.

In questo numero ci occuperemo delle 5S, metodologia che fa da sfondo ed è preliminare all’utilizzo di qualsiasi altra metodologia lean facente parte della “cassetta degli attrezzi”

a nostra disposizione: come vedremo, le 5S ci consentono di definire una configurazione standard del processo produttivo e dei suoi fattori (uomini, macchine e materiali).

Il metodo delle 5S

Uno dei principali insegnamenti che ci ha lasciato Taichi Ohno, inventore del Toyota Production System (e quindi della lean production) è il seguente: “Dove non c’è standard non ci può essere miglioramento”.

Cos’è uno standard? Una definizione che mi piace molto è: “lo standard è il miglior metodo a oggi conosciuto e condiviso per produrre”,

COSTRUIRE LE BASI PER IL MIGLIORAMENTO DEL PROCESSOPRODUTTIVO: LO STRUMENTO DELLE 5S

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28 anni e una laurea in ingegneria meccanica, Filippo Tognarelli ha una passione viscerale per la musica. Dal punto di vista professionale è responsabile Ricerca e Sviluppo presso Dorelan, azienda forlivese leader nel settore della produzione di materassi, letti, reti e guanciali. Di giorno cerca di alzare lo standard di qualità di un prodotto e la sera suona la batteria in quattro diversi progetti musicali. Lo abbiamo incontrato per conoscere da vicino un altro ruolo chiave del processo produttivo e per scoprire se il suo lato artistico lo aiuti in qualche modo nell’ambito professionale.

Innanzitutto mi piacerebbe sapere qualcosa sul suo background, professionale ma anche personale.Vengo da Santa Sofia, una cittadina dell’Appennino Tosco-Romagnolo in provincia di Forlì Cesena. Mi sono laureato in Ingegneria Meccanica dopo aver frequentato le scuole superiori all’ITIS G.Marconi di Forlì diplomandomi come Perito Elettrotecnico. Dopo il diploma ho intrapreso una strada diversa per seguire quella che, in fondo, è sempre stata una passione: macchine, meccanismi, soluzioni. Inoltre mi piace scoprire sempre ambiti nuovi, un aspetto che penso sia importante per la mia vita personale e lavorativa. Nel 2004 ho effettuato uno Stage presso Romagna Acque Spa come elettricista mentre nel 2008 ho fatto un’esperienza di tirocino per tre mesi alla Babbini Spa (Gruppo Cangialeoni),

dove ho potuto toccare con mano la vita e i compiti di un Ufficio Tecnico. Nel 2013 ho seguito un corso di specializzazione dal titolo “L’ottimizzazione del processo produttivo per la riduzione dei costi e degli sprechi” e in seguito ho partecipato a un Workshop, organizzato da una delle società più qualificate del management consulting di matrice giapponese, dal titolo Kart Factory, che mi ha permesso

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Intervista

a cura di Corrado Ravaioli

LO SVILUPPO DI UN PRODOTTO TRA METODO E CREATIVITÀAlla ricerca del prodotto perfetto.

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di approfondire in maniera concreta il concetto di Lean Production.Nel tempo libero continuo a coltivare la mia grande passione per la musica. Suono la batteria da quando avevo sei anni. Attualmente seguo quattro progetti musicali diversi, spaziando dal pop al rock progressive, fino al musical.E per anni ho giocato a calcio, facendo le giovanili nella squadra del mio paese. Ho militato alcuni anni in promozione e poi sono passato al calcio a 5, sempre a Santa Sofia, in C1.

Da quanto tempo lavora in Dorelan? Può spiegarci in poche parole in quale comparto operate, il mercato di riferimento.Sono in Dorelan dal 2011. Questa realtà nasce nel 1968 e da oltre 15 anni è leader nel settore della produzione di materassi, letti, reti e guanciali.Nel corso degli anni la crescita dell’azienda è stata costante ed è diventata laboratorio di

progettazioni, innovazioni tecniche e di design, realizzando sempre nuove soluzioni nell’ambito del sistema letto. Dorelan pensa e produce unendo l’esperienza del passato alla moderna tecnologia rendendo ogni prodotto la massima espressione di artigianalità, tecnologia ed estetica.Il nostro mercato principale è l’Italia dove siamo presenti con 65 punti vendita in

franchising e con la presenza in tutti i principali rivenditori. Da diversi anni, inoltre, ci stiamo imponendo in maniera importante in Europa occientale, Europa dell’Est, Asia centrale, Medio Oriente, Sud-Est asiatico e America centrale, valorizzando al meglio la manifattura italiana e il Made in Italy.

Quali sono le sue mansioni principali?Sono Responsabile R&D, il mio è un ruolo che spazia a 360° gradi su tutta l’azienda e non solo. La mia mansione principale consiste nello sviluppo di un prodotto, che non vuol dire semplicemente valutare il prodotto in sé, ma tenere conto di tutti gli aspetti legati alle richieste del mercato, al processo produttivo e alla logistica di produzione.Sviluppare macchinari per la produzione dei nuovi prodotti o per migliorare il processo produttivo dei vecchi.Un ruolo che mi permette di affrontare ogni aspetto dell’azienda e mi costringe ad avere una visione ampia tenendo presente tutte le fasi del lavoro.Questo grazie a un’azienda che crede e investe tantissimo in Ricerca e Sviluppo oltre che in tecnologie produttive sempre più moderne. Lo dimostra anche il nuovo stabilimento dove ci siamo trasferiti a gennaio 2012, una struttura moderna e altamente funzionale.

Ci parli degli aspetti più avvincenti e quelli più delicati del suo lavoro.Sicuramente gli aspetti più avvincenti sono legati alla ricerca — anche attraverso viaggi

LO SVILUPPO DI UN PRODOTTO TRA METODO E CREATIVITÀ

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Quest’anno è stato celebrato il settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia. Lo sbarco dell’esercito alleato sulle coste della Normandia, iniziato all’alba del 6 giugno del 1944, è stato l’evento che ha condotto la guerra contro la Germania nazista verso la sua fine.

Questa imponente operazione bellica, denominata “Operazione Overlord”, forse la più vasta mai effettuata in tutta la storia militare, può essere considerata come un progetto di grande complessità. Basti pensare che in tale progetto furono utilizzate 5000 navi e mezzi da sbarco, 6 corazzate, 23 incrociatori, 256 cacciatorpediniere, 277 dragamine, 1200 aerei per le divisioni aviotrasportate, più di 1000 bombardieri e — solo per la prima ondata dello sbarco — 130000 uomini appartenenti a 12 nazioni diverse.

Nell’ambito dell’Operazione Overlord la parola “rischio” aveva senza alcun dubbio assunto il suo significato più vero, sia

per la riuscita dell’operazione stessa, sia — soprattutto — per le persone che vi parteciparono. E’ difficile per noi, a distanza di tempo e molto lontani da uno scenario come quello, immaginare cosa volesse dire la parola “rischio” per quei ragazzi di vent’anni che si apprestavano a saltare giù dai mezzi da sbarco e raggiungere le spiagge della Normandia bersagliate da un implacabile fuoco nemico.

Nel contesto in cui ci troviamo ora, comodamente seduti davanti allo schermo del nostro computer, dopo un esordio così drammatico, vorremmo cercare di tranquillizzarci e riportare invece la nostra attenzione su rischi sicuramente a molto minore impatto emotivo, cioè quelli insiti nella gestione dei progetti.

Come tutti ben sanno, il successo di un progetto è determinato dal raggiungimento di tre obiettivi principali:

1. il rispetto dei tempi;2. il rispetto dei costi;3. il rispetto dei risultati.

Purtroppo tutte le statistiche dimostrano che sono pochi i progetti riusciti a raggiungere tali obiettivi. Moltissime sono le cause che hanno portato al fallimento di progetti che non hanno rispettato tempi, costi e conformità dei “deliverables” alle specifiche originarie. Fra le cause d’insuccesso dei progetti certamente una delle più importanti è la non adeguata gestione dei rischi.

I RISCHI NELLA GESTIONE DEI PROGETTIR

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a cura di Alberto Fischetti

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I RISCHI NELLA GESTIONE DEI PROGETTIET 27

Un rischio è qualsiasi area d’incertezza che rappresenta una minaccia per il progetto. La maggior parte dell’attenzione richiesta dalla gestione dei rischi sarà rivolta a evitare o ridurre la probabilità di eventi che potrebbero portare “fuori rotta” il progetto, oppure l’effetto negativo che tali eventi avrebbero sul progetto in caso essi dovessero presentarsi. Il rischio è strettamente legato al concetto d’incertezza e poiché per sua definizione un progetto implica la realizzazione, senza la possibilità di sperimentarne prima lo svolgimento, di qualcosa che non esisteva prima, ecco che si può dire che non esista progetto che non contenga una qualche misura più o meno grande di rischio.Per gestire i rischi, è necessario prima identificarli, valutarne la probabilità che essi occorrano e stimare l’impatto che potrebbero avere sul progetto. In pratica, poiché un progetto si articola nelle due fasi principali di pianificazione e poi di esecuzione, possiamo associare a ognuna di queste due fasi un trattamento dei rischi secondo questo

schema:

Nella fase di pianificazione di un progetto devono essere valutati i rischi (risk assessment), mentre nella fase di esecuzione di un progetto devono essere gestiti i rischi (risk management) qualora essi si presentino.

Una corretta gestione di un progetto mira a contenerne l’esposizione al rischio adottando misure volte a ridurre e, in alcuni casi, eliminare il rischio di non conseguire gli obiettivi stabiliti.

Vorremmo ora esaminare un po’ più in dettaglio le due fasi del risk assessment e del risk management, sperando di poter dare qualche utile suggerimento di carattere pratico a chi abbia la responsabilità di progetti.

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Ci sono moltissimi casi dove è necessaria la sincronizzazione di due o più basi di dati: archivi di utenti remoti, acquisizione asincrona di aggiornamenti; altrettanto spesso queste acquisizioni richiedono anche ulteriori elaborazioni, quali ad esempio adattamento o rielaborazione dei dati aggiornati. L’ambiente nel quale avviene questa sincronizzazione comporta delle restrizioni che vincolano lo studio e l’implementazione di una strategia efficace: banda di rete a disposizione, capacità di elaborazione e ampiezza della ram a disposizione, solo per citarne alcune. Risulta evidente la necessitá di elaborare una strategia efficiente e ció è possibile solamente se si ha a disposizione un algoritmo efficiente, cosa che consenta di svincolare le possibili strategie necessarie alla implementazione richiesta dai vincoli di dimensione e frequenza degli aggiornamenti.

La scelta tecnica

Volendo chiarire con un esempio concreto, immaginiamo una società “vendo tanto” che si occupa di grande distribuzione e che ha la necessità di mantenere aggiornati i listini dei punti vendita. È facile immaginare la complessità che comporta la formulazione di un listino, e quanto sia importante che gli aggiornamenti dello stesso siano, una volta delineati, trasmessi tempestivamente ai propri punti vendita. Sfortunatamente nell’azienda “vendo tanto” la procedura che effettua l’aggiornamento non è stata ritenuta degna di attenzione particolare perché erroneamente ritenuta non di fondamentale

importanza. La software house infatti ha impegnato le migliori risorse a implementare i processi che attengono alla formulazione del listino e non a come questo dato sia poi successivamente propagato. Quindi il network operativo dell’azienda “vendo tanto” copia nottetempo l’archivio listino integralmente negli elaboratori remoti dei negozi con una procedura che comporta anche la messa in manutenzione degli impianti in questione durante l’aggiornamento che avviene una volta al giorno.Tutto normale, al limite il sistema che trasferisce l’archivio ripete l’operazione nel malaugurato caso il trasferimento sia interrotto per qualsivoglia ragione al costo di solo un’altra oretta di fermo manutenzione. Prima di addentrarci nell’esempio vorrei che il mio lettore tenesse presente questa regola fondamentale per chi sviluppa soluzioni tecniche (non solo software):

“compito di un progettista é quello di rendere possibili le scelte di politica aziendale, non costringere queste a essere conseguenti a scelte tecniche.”

Il lettore che ha o abbia avuto nella sua vita professionale responsabilità direttive sa perfettamente che molte delle strategie aziendali non possono essere attuate a causa di vincoli tecnologici, spesso banali, che riescono comunque a impedire l’attuazione di scelte strategiche. Ma torniamo al nostro esempio, la società “vendo tanto” decide di divenire molto più aggressiva sul mercato espandendo l’orario dei punti vendita sulle

AGGIORNAMENTO DELLE BASI DI DATI

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a cura di Silvestro Di Pietro

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AGGIORNAMENTO DELLE BASI DI DATI

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24h. Il problema dell’aggiornamento dei prezzi che normalmente avviene effettuando una messa in manutenzione del sistema diventa ora un problema vincolante: non è accettabile un fermo macchine di un’ora che interrompe la procedura di vendita.

Come ho descritto nello scorso numero di questa pubblicazione il problema delle scelte manageriali rispetto la risorsa IT ha radici profonde, determinate dalla bassa cultura e dai bassi investimenti in risorse qualificate. Come nel numero scorso anche a questo problema proveremo a dare una soluzione. Aggiornare due basi dati in maniera efficiente comporta acquisire queste tre informazioni: cosa va aggiornato, cosa va aggiunto e cosa va rimosso. Trasferire in blocco tutto il listino, quantomeno una sua parte, non necessita di acquisire queste informazioni e permette di evitare di dover scrivere procedure che l’elaborino. Volendo esemplificare in sql (Simple Query Language): la procedura di aggiornamento, aggiunta e rimozione ha strutture sintattiche diverse mentre importare integralmente una tabella è un’operazione che si effettua con un singolo comando; va da sé che questa risulta essere la scelta maggiormente seguita. La differenza che passa tra una soluzione semplice e una soluzione semplicistica va sempre rapportata alle sue conseguenze: adottare una soluzione semplicistica, in questo ipotetico caso, genera nel tempo delle importanti limitazioni, e questo avviene in una parte del sistema apparentemente marginale rispetto al resto della soluzione informatica. Nel quotidiano si scopre che di fatto non è possibile prevedere tutte le possibili implicazioni future di una implementazione informatica; quello che si può fare é di effettuare sempre e comunque le implementazioni improntate nel massimo dell’efficienza possibile tenendo sempre

presente che:

“Non esistono implementazioni mai realizzate precedentemente facili da fare, eventualmente ce ne sono di già di fatte bene.”

Sulla base di questa massima, in questo articolo sarà illustrato un semplice e originale algoritmo di sincronizzazione di basi dati che ho disegnato anni fa per tenere aggiornato un archivio indirizzi remoto ma che nel tempo si é rivelato un formidabile strumento che ha reso possibili moltissime applicazioni.

L’algoritmo

Come precedentemente scritto, per poter fare un aggiornamento è necessario avere come informazione la lista degli elementi da aggiungere, quella degli elementi da aggiornare e lista degli elementi da rimuovere. Risulta chiaro che l’aggiornamento va perciò eseguito in due fasi distinte: l’analisi e l’aggiornamento vero e proprio. Scopo di questo algoritmo è quello di fornire appunto le liste delle modifiche da effettuare. Lo descriverò in maniera semplificata, considerando un aggiornamento da lista sorgente autoritativa (master) verso una lista obiettivo non autoritativa (slave). La procedura necessita in ingresso di due liste che chiameremo sorgente e obiettivo. Postuliamo che le due liste siano formate da registrazioni che contengano un identificativo e un valore atto a indicare variazioni delle singole registrazioni, diciamo una data di modifica.La caratteristica di un identificativo é la sua univocità: un codice articolo indica una registrazione in maniera univoca sia nella lista sorgente che in quella obiettivo, altra caratteristica necessaria per questo campo è la sua ordinabilità, cioè la capacità che

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a cura di Daniela Donati

Per gli amanti del genere, una lettura assai interessante è la storia delle invenzioni e, più precisamente, il processo creativo che ha dato origine a molti degli oggetti e delle soluzioni che ogni giorno utilizziamo. Scorrendo le pagine del libro Eureka! 100 inventori + 100 invenzioni che ci hanno cambiato la vita di Antonio Cianci, potremmo scoprire, ad esempio, come sono nati i surgelati, la scolorina e i cotton fioc. Inoltre, con un ulteriore sforzo associativo, cogliere il medesimo processo creativo che ne è alla base.

L’invenzione dei surgelati risale al 1916 e si deve a un giovane biologo statunitense, Clarence Birdseye, considerato appunto il fondatore della moderna industria del cibo surgelato. Osservando gli indiani Inuit pescare, egli vide il pesce ghiacciarsi rapidamente a contatto con l’aria gelida e al momento dello scongelamento risultare ancora molto fresco; intuì quindi che la chiave per avere a disposizione qualsiasi cibo, in qualsiasi momento, risiedeva nella velocità (se il cibo viene congelato velocemente si ricopre di cristalli molto piccoli che preservano il prodotto, se invece il processo di congelamento avviene lentamente, il ghiaccio prende la forma di cristalli molto grossi e taglienti, che lacerano il cibo dall’interno) e così

inventò il processo di congelamento.

I Cotton fioc, che molti di noi utilizzano nonostante oggi i medici ne sconsiglino l’uso per la pulizia dell’orecchio, sono rimasti sostanzialmente uguali, nonostante siano trascorsi più di novant’anni dalla loro invenzione. Nel 1923 infatti, Leo Gerstenzang, inventore statunitense di origine polacca, osservando sua moglie mentre puliva le orecchie del figlio utilizzando uno stuzzicadenti, sulla cui estremità aveva fissato un fiocco di cotone, ebbe l’idea di migliorarne la funzionalità utilizzando un bastoncino morbido con del cotone incollato alle estremità. Così nacquero i moderni bastoncini.Un’altra statunitense, Bette Clair McMurray,

ARS CREANDI: TECNICHE DI CREATIVITÀ E SPUNTI PER IL CAMBIAMENTO

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AUTOPRODUZIONE 2.0 Ru

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a cura di NUUP, Sustainable Creativity®. Revisione del testo e coordinamento articolo a cura di Luca Pastore per NUUP, Sustainable Creativity®

Il fenomeno dei Fablab (autoprodu-zione) e la produzione diffusa a km zero legata al tessuto imprenditoriale del territorio

I Fablab (fabrication laboratory) sono una rete di laboratori di fabbricazione digitale. Nati al MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston si stanno diffondendo in tutto il mondo con l’intento di rendere accessibili gli strumenti di fabbricazione digitale a privati, istituzioni e aziende. Le attrezzature presenti in questi luoghi consentono la realizzazione di svariati prodotti a seconda delle esigenze e dei singoli bisogni. Sono centri di produzione d’idee, aperti al pubblico e connessi in rete. Un Fablab è quindi un laboratorio che accanto agli utensili della tradizione (martello, cacciavite, sega circolare, pialla, smerigliatrice, macchine da cucire, etc...) affianca gli utensili del futuro (lasercutter, stampanti 3D, CNC, vinyl cutter, software e componenti basati su tecnologia Arduino); uno spazio del “fare tecnologico” e dell’artigianato digitale, di condivisione (sharing) di ambienti, know-how, relazioni, canali commerciali, competenze tecniche e attrezzature. Il target interessato può comprendere scuole, università, designer, imprese creative, makers, aziende, così come semplici cittadini che vogliono trasformare le loro idee, creative e innovative, in prodotti unici e irripetibili. I settori d’interesse sono: product, forniture, food, fashion design, integrazione elettronica, architettura, campo biomedicale.

Tutto ciò sviluppa e dà ispirazione a quella corrente definita “do it yourself”, legata al tema della personalizzazione, quindi alla cultura dell’autoproduzione e alle successive fasi di promozione e di autofinanziamento tramite siti di crowdfounding.

Il contesto in cui questi laboratori nascono e crescono è legato al passaggio dall’intelligenza collettiva, cioè analogica/televisiva caratterizzata da un rapporto passivo con il pubblico, a quella connettiva/attiva, fatta d’interazione favorita dal mondo digitale; una forma di produzione quindi “autocratica”, un processo di tipo circolare per cui chi produce, investe o consuma è intercambiabile, senza che nessuna autorità assenta come un oggetto debba essere o meno, chi usa può modificare, chi produce può usare, chi crea può produrre, etc…

Digital revolution, social network, smart cities, open data: tutto ciò può portare a un rischio, il cosidetto “too much virtual” che relega alla esclusione sociale chi non ha possibilità di accesso ai media e alla rete. Questa tendenza viene in parte contrastata tramite questi laboratori, gestiti da persone definite Makers, da “make” cioè “fare” e “sono”, come ribadisce Luca Castelli, «un fenomeno moderno che affonda però le radici in un sentimento antico che è quello del desiderio di produrre, creare, riparare e modificare gli oggetti».

Il settimanale “The Economist” parla di

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a cura di NUUP, Sustainable Creativity®. Revisione del testo e coordinamento articolo a cura di Luca Pastore per NUUP, Sustainable Creativity®

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Terza Rivoluzione Industriale, in cui tutta la parte di branding e retail, dal notevole peso in fase di diffusione di un prodotto, può essere ridiscussa e addirittura esclusa dal classico processo di commercializzazione, per cui possiamo pensare, ad esempio, a un prodotto ideato in Italia ma stampato, in tempo reale, dall’altra parte del mondo eliminando, inoltre, le fasi di trasporto e di logistica.

Fablab Reggio Emilia è uno dei Fablab che riunisce in sé quanto appena esplicitato. Nasce come laboratorio di “Reggio Emilia Innovazione” all’interno di uno spazio di arte contemporanea. Questa è una caratteristica specifica di questo luogo che sfrutta la grande opportunità di avere un rapporto col pubblico diretto in cui le mostre presenti all’interno dello spazio vengono messe in stretta relazione con le attività del Fablab stesso: le performance artistiche sono in tal modo combinate alla progettazione di gadget, alla prototipazione e stampa 3D nonchè laboratorio introduttivo alla robotica. Più che attorno alle macchine il Fablab cresce intorno alle persone.

I Fablab diventano “nuove possibili formule” che consentono alle imprese d’investire poche risorse senza rinunciare alla ricerca e sviluppo; è proprio grazie alla prototipazione rapida a basso costo e alle particolari offerte formulate in questi spazi di costruzione che gruppi di lavoro interdisciplinare possono dare un concreto contributo all’esigenze

delle aziende o dei singoli cittadini.

In particolare il Fablab Reggio Emilia organizza dei “Challenge”, una formula rivolta alle aziende, la cui sfida è quella di mettere alla prova talenti creativi su tematiche specifiche proposte dalle aziende presenti sul territorio al fine di lavorare congiuntamente allo sviluppo di nuove e concrete proposte indirizzate all’economia reale del territorio.

Nell’ambito della produzione territoriale c’è da segnalare Slowd, una piattaforma che applica il concetto di “chilometro zero” nel mondo del design, mettendo in relazione designer emergenti, artigiani e clienti finali. I progetti dei designer selezionati vengono caricati sul sito di riferimento, il cliente acquista il prodotto e l’artigiano del network più vicino al cliente lo realizza. Il know-how profondo dell’artigianato di punta viene così messo in rete con i designer emergenti e

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Introduzione

Da tempo il consumatore ha una scelta varia di prodotti equivalenti offerti a lui con differenti caratteristiche che ne contraddistinguono la modalità di utilizzo. Un consumatore infatti dispone adesso di molteplici canali per raggiungere un prodotto/servizio, che gli viene così offerto con caratteristiche differenti: diverse marche o distributori, una diversa modalità di acquisto, la possibilità di avere dei commenti sulle sue caratteristiche, diverse fasce di prezzo, livelli qualitativi più disparati, etc.

Tra le varie caratteristiche, che contraddistinguono un prodotto/servizio da un altro analogo, inizia da poco a farsi strada la variabile ambientale, variabile che può riguardare le prestazioni ambientali del prodotto stesso o anche l’impegno ambientale dell’ azienda che lo eroga al consumatore.

Ma quanto incide questo aspetto, quanto il consumatore italiano medio è pronto a recepire il messaggio ambientale e - informato - quanto è in grado di decifrare le indicazioni che gli vengono rese?

Nel presente articolo si vuole cercare di dare una risposta a questa domanda, basandosi su vari studi effettuati nell’ultimo periodo in Europa e in Italia.

Le tendenze del consumo sostenibile in Italia

Come punto di partenza, per parlare

di consumatori e sostenibilità, bisogna ricordare che le ricerche sui dati di consumo sostenibile in Italia sono agli inizi. L’Italia infatti era l’unica nazione europea nella quale non era presente un’ etichetta ambientale fino all’istituzione dell’Ecolabel a livello europeo; infatti paesi come la Germania già dagli anni ’70 possiedono etichette - quindi marchi di qualità e ambientali - che certificano le caratteristiche di un prodotto, anche dal punto di vista ecologico. Va da sé che lo studio delle abitudini di consumo legate alla performance ambientale siano abbastanza limitati e di recente applicazione.

Nonostante il breve periodo di analisi gli andamenti del mercato mostrano già chiaramente un diffuso interesse verso i temi della sostenibilità ambientale e del consumo critico e responsabile. Quanto emerge è particolarmente interessante e - inoltre - denota come questa attenzione verso le politiche verdi si sta tramutando velocemente in Italia da tendenza associata a una moda, a un vero e proprio impegno per un “bene comune”, visto l’alto e crescente numero di attori istituzionali ed economici che aderiscono a questo movimento.

Un aspetto molto interessante è rivestito poi dal tipo di comunicazione che il consumatore italiano cerca o si aspetta da un’azienda attenta all’ambiente: infatti, la diffidenza nelle novità e nei proclami - tipica del consumatore italiano - fa sì che si ricerchi un elevato livello d’ informazione. Il consumatore non si ferma quindi ad azioni di marketing di facciata senza reali interventi di sostanza - ovvero i casi di greenwhasing - ma

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a cura di Massimo Granchi e Riccardo Bozzo

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vuole vedere un impegno ambientale reale e comprensibile. Con il termine anglofono greenwashing si intende il “lavaggio verde” dell’immagine che un’azienda dà di sé o dei suoi prodotti e servizi, attraverso l’esaltazione di presunti vanti ecologici ovvero dare un’immagine distorta della reale salvaguardia dell’ambiente messa in campo, ad esempio proponendo prodotti a “impatto zero” mentre in realtà l’azienda ha azzerato o compensato gli impatti di una sola parte della catena produttiva o per un breve periodo di tempo. Questo fenomeno, che esiste in tutto il mondo, in Italia ha portato l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (“Antitrust”) a emettere dal 2009 al 2013 numerosi provvedimenti.

Le aspettative del consumatore

Oltre ai famosi casi citati in precedenza, vi sono poi molti casi meno famosi di greenwashing e molte situazioni in cui un attento osservatore può notare una informazione incompleta o poco chiara. Tale pratica è particolarmente insidiosa, non solo perché anche quando praticata da poche imprese essa rischia di compromettere l’intero comparto dei prodotti ecologici, ma innanzitutto perché va a mettere in discussione il rapporto stesso tra imprese e consumatori, un rapporto che deve assolutamente porsi su un piano di assoluta parità e trasparenza, tale per cui venga valorizzato il rapporto di fiducia.

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a cura di Pasqualina Pirone

Estratto da: ELOGIO DELL’ERRORE di Tim Harford (Traduzione di Francesco Casolo). Sperling & Kupfer Editori SpA. Copyright 2011 Tim Harford

«Il bizzarro compito dell’economia è dimostrare agli uomini quanto poco sanno di ciò che immaginano di poter progettare.» Friedrich von Hayek

Istintivamente, quando ci troviamo di fronte a una sfida complicata, cominciamo a cercare un leader che possa risolverla.

Spesso, però, per risolvere problemi complessi come quelli attuali non bastano neppure le menti più eccelse. Forse la prova migliore di quanto stiamo dicendo si può ricavare da una straordinaria ricerca sui limiti dell’expertise avviata nel 1984 da un giovane psicologo chiamato Philip Tetlock.

Molti risultati della ricerca sono umilianti per certi guru di professione. E perché non dovrebbero? Una delle cose più divertenti scoperte da Tetlock è stata che più gli esperti erano famosi — i presenzialisti dei dibattiti televisivi — più erano incompetenti.

… i suoi risultati dimostravano chiaramente che gli esperti facevano in ogni caso meglio dei non esperti. Questi professionisti istruiti,

intelligenti e con una lunga esperienza alle spalle offrono dunque intuizioni che si rivelano utili, ma che non vanno più in là di questo. E la colpa non è loro, ma del mondo in cui vivono — e in cui viviamo anche noi —, il quale è troppo complicato perché chiunque possa farne un’analisi impeccabile.

Ciò non avviene perché ogni volta eleggiamo i candidati sbagliati, ma perché sovrastimiamo le reali possibilità che una leadership del mondo moderno ha di

ELOGIOERROREdell’

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raggiungere determinati obiettivi.

Philip Tetlock ha mostrato gli enormi ostacoli che gli analisti politici ed economici incontrano nel tracciare previsioni accettabili, ed è inevitabile che tutti quei professionisti del marketing, dello sviluppo dei prodotti o delle strategie fatichino allo stesso modo per prevedere quello che succederà domani.

Non sono tanti i dirigenti d’azienda che amano ammetterlo, ma il mercato trova a tentoni la via giusta, mentre le idee vincenti prendono il volo e le altre scompaiono. Quando guardiamo ai sopravvissuti di questo processo — Exxon, General Electric e Procter & Gamble — non dovremmo vedere semplicemente storie di successo. Dovremmo fermarci a osservare anche la lunga e travagliata trama di fallimenti di tutte quelle aziende e idee che non ce l’hanno fatta.

I biologi hanno una parola per descrivere il modo in cui una soluzione scaturisce da un insuccesso: evoluzione. Spesso sinteticamente definita come il processo di sopravvivenza del più adatto, l’evoluzione è in realtà innescata dalla sconfitta del meno adatto. In maniera del tutto sconcertante,

data la nostra istintiva convinzione che i problemi complessi richiedano soluzioni progettate da esperti, l’evoluzione è anche completamente casuale. Un’incredibile complessità nasce come risposta a processi semplici: applichi alcune varianti a quello che già hai, elimini gli errori e tieni i successi, e così all’infinito. Variazione e selezione, ancora e ancora. Siamo abituati a pensare all’evoluzione come a qualcosa che accade nel mondo naturale, come a un fenomeno biologico. Ma non è sempre così.

Sappiamo che il processo evolutivo è innescato da variazione e selezione. In biologia la variazione emerge dalle mutazioni e dalla riproduzione sessuale, che mischia i geni di due genitori. La selezione avviene attraverso l’eredità: le creature di successo si riproducono prima di morire e i loro discendenti condividono alcuni dei loro geni. Anche in un’economia di mercato agiscono variazione e selezione. Le nuove idee fioriscono dalle menti di scienziati e ingegneri, da meticolosi manager di medio livello all’interno di grandi aziende o da imprenditori ambiziosi. La selezione sanziona gli errori, dato che le idee cattive faranno poca strada sul mercato: per avere successo devi realizzare un prodotto che i clienti desiderino comprare a un prezzo che copra i costi e batta i naturali concorrenti. Molte idee non superano questo «test», e se non sono troncate sul nascere dal management finirà con l’occuparsene un tribunale fallimentare. Le buone idee, invece, si diffondono perché vengono copiate dagli avversari, perché i dirigenti mollano l’azienda per mettersi in proprio o perché le aziende con buone idee diventano sempre più grandi. Combinando variazione e selezione, abbiamo costruito il contesto

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Ing. Manganelli, che cosa offre questo Master?

Offre una risposta concreta al bisogno di una figura tecnica flessibile con elevate competenze specialistiche e trasversali sia nella progettazione che nel calcolo strutturale. Il Master propone un percorso di formazione ingegneristica innovativo che unisce le conoscenze teoriche tecniche a quelle pratiche, con l’obiettivo di formare figure professionalmente specializzate in grado di inserirsi direttamente nella realtà del progetto dei motori moderni orientati anche all’utilizzo su veicoli da competizione con approfondimenti utili ad aree che nell’edizione precedente non erano presenti. Ho volutamente inserire nuovi moduli di formazione quali: aerodinamica e dinamica del veicolo, aerodinamica e dinamica del motoveicolo, i gruppi Power Unit Hybrid per veicoli da competizione e un interessante approfondimento sull’utilizzo dei materiali compositi, in particolare del carbonio.

Professionalità, qualità dell’insegnamento, ma anche la possibilità di un futuro nelmondo del lavoro: qual è il valore aggiunto di questo Master?

Il master si propone, in modo particolare, di: − chiarire e illustrare i regolamenti tecnici che sono alla base delle categorie da competizione; ET 66

Mario Manganelli, Responsabile Area Motori Racing di Aprilia Racing, presenta il Master in Ingegneria del Veicolo da Competizione: «Vorrei che gli studenti capissero l’importanza del lavoro e dello studio: senza passione non si ottengono risultati. Questo corso è una grande opportunità per diventare una figura tecnica con elevate competenze trasversali sia nella progettazione che nel calcolo strutturale».

Come trasformare la passione in emozioni

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− illustrare la teoria di base dei motori come cenni fondamentali; − definire il processo di progettazione di un motore da competizione; − approfondire la definizione dei componenti principali che compongono un motore 4T; − mostrare nel dettaglio gli impianti funzionali e accessori del motore 4T; − disegnare e progettare tramite CAD 3D & 2D di ultima generazione seguendo un training dedicato alcuni componenti principali del motore; − conoscere tramite le attività di Training Advance il calcolo strutturale FEM e CFD con software evoluti e dedicati alle attività di “Engine design”; − presentare e approfondire le conoscenze sulla dinamica del veicolo e del motoveicolo; − introdurre e ampliare le conoscenze sull’aerodinamica del veicolo e del motoveicolo; − confrontarsi con ingegneri che lavorano nel settore race Engine design & Vehicle development; − presentare e illustrare le tecniche di progettazione e produzione dei materiali compositi che utilizzano la fibra di carbonio; − approfondire le conoscenze delle nuove tecnologie sulle Power Unit da competizione, sulla tecnologia Hybrid e simili sistemi di trazione; − affrontare le problematiche di Team Working e di Problem Solving tramite un esperto del settore di consulenza aziendale; − conoscere e confrontarsi con le diverse esigenze delle realtà aziendali e con la pianificazione dei progetti;− indicare gli obiettivi e quindi i percorsi lavorativi nel settore auto-motoristico internazionale.

Mario Manganelli in sella all’Aprilia SBK RSV4 che ha vinto con Max Biaggi il campionato piloti e costruttori WSBK nel 2010.«È la moto a cui sono più affezionato,così pure al pilota Max Biaggi, che ancora sento spesso, essendo la prima moto con cui ho vinto qualcosa di importante nella mia professione di ingegnere e capo progetto motori racing».

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a cura di Mariacristina Galgano

PROGETTARE LA QUALITÀ NEI SERVIZILA QUALITÀ NASCE IN “PROGETTAZIONE”

Questa fase evidenzia bene il ruolo cruciale che una buona progettazione può giocare ai fini della Qualità del servizio.

La fase di progettazione è finalizzata a tradurre correttamente i bisogni e le aspettative dei clienti, rilevati nella fase di qualità prevista, in target di prestazione di servizio da erogare, sviluppando e standardizzando le caratteristiche del sistema di erogazione del servizio.

Le specifiche di Qualità del servizio così definite costituiscono il riferimento al quale uniformare prestazioni, atteggiamenti e comportamenti e sulle quali impostare il sottosistema di controllo della Qualità erogata.

L’entrata reale della “voce del cliente” in azienda è l’obiettivo strategico da perseguire in questa fase. Nella logica della Qualità, ogni elemento del sistema di erogazione del servizio deve essere coerentemente pensato e progettato in funzione dei bisogni e delle aspettative del cliente, anche negli aspetti che in apparenza non sono a diretto contatto con il cliente.

Il sistema di erogazione del servizio è qui inteso come l’equivalente del sistema

di produzione di un prodotto e riguarda uomini (front-line, cliente, altri clienti, accompagnatori dei clienti, back office), macchine, strumenti e supporti operativi (hardware, software, etc.), ambiente, processi (sequenzialità di operazioni e modalità di gestione) e sistema organizzativo.S’individua una fase di definizione e di scelta di posizionamento aziendale sul target di clientela a cui rivolgersi e sul livello di prestazioni da offrire a fronte del prezzo riconosciuto e richiesto. Standard di prestazione e caratteristiche degli elementi costituenti il sistema di erogazione discendono da questa scelta di fondo, supportata dall’informativa sviluppata nella macrofase di definizione della qualità prevista.

Dopo aver definito il “valore” del servizio da erogare si procede con un approccio guidato e strutturato (Quality Function Deployment) alla definizione delle specifiche di Qualità alle quali uniformare il sistema di erogazione del servizio.

Un contributo importante all’individuazione dei bisogni latenti dei clienti e alla proposta di soluzioni progettuali vincenti è in genere sviluppato — nelle aziende che operano in Qualità — dall’attività di miglioramento continuo sviluppata coinvolgendo attivamente gli operatori con strumenti innovativi. ET 73ETcontinua...

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