puntozzero di stefano mingione
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2013 “UNE SAISON EN ENFERN” Parigi, Aprile-Agosto 1873 “Un tempo, se ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori s’aprivano, in cui tutti i vini scorrevano. Una sera, ho preso la bellezza sulle mie ginocchia – e l’ho sentita amara. - E l’ho insultata. Mi sono armato contro la giustizia. Sono fuggito. O streghe, o miseria, o odio, a voi è stato affidato il mio tesoro! Riuscii a far sparire nel mio spirito tutta l’umana speranza,. Su ogni gioia per strozzarla, ho fatto il balzo sordo della bestia feroce. Ho implorato i carnefici per mordere, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato i flagelli, per soffocarmi con la sabbia, con il sangue. La sventura è stata il mio odio. Mi sono steso nel fango. Mi sono asciugato all’aria del destino. Ed ho giocato qualche bel tiro alla follia. Arthur RimbaudTRANSCRIPT
PUNTOZZERO
Dipinto olio su tela cm.520x330
Composto di 12 sezioni cm.130x110
Di
Stefano Mingione
“2013”
“UNE SAISON EN ENFERN”
Parigi, Aprile-Agosto 1873
“Un tempo, se ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i
cuori s’aprivano, in cui tutti i vini scorrevano. Una sera, ho preso
la bellezza sulle mie ginocchia – e l’ho sentita amara. - E l’ho
insultata. Mi sono armato contro la giustizia. Sono fuggito. O
streghe, o miseria, o odio, a voi è stato affidato il mio tesoro!
Riuscii a far sparire nel mio spirito tutta l’umana speranza,. Su
ogni gioia per strozzarla, ho fatto il balzo sordo della bestia feroce.
Ho implorato i carnefici per mordere, morendo, il calcio dei loro
fucili. Ho invocato i flagelli, per soffocarmi con la sabbia, con il
sangue. La sventura è stata il mio odio. Mi sono steso nel fango.
Mi sono asciugato all’aria del destino. Ed ho giocato qualche bel
tiro alla follia.
Arthur Rimbaud
La genialità è senz’altro un errore. Un inconsapevole e presuntuosa condizione casuale,
inconscia, inarrestabile eppure, statisticamente ed antropologicamente irrinunciabile.
Inconsapevole poiché non si diventa geni, semplicemente, si nasce con un livello intellettivo
geneticamente superiore alla media, che poi naturalmente, va allenato, proprio come un talento
sportivo il quale, non avrebbe alcuna capacità, se non suffragato da un esercizio adeguato al
risultato che vuole ottenere.
Presuntuosa, perché il genio deve sfoggiare nel proprio intimo prima, e nell’azione poi, il
gusto dell’eccesso consapevole, per applicare ciò che egli sente poter coesistere con una
condizione di novità che egli reputa essere, da troppo tempo inesistente, e che quindi sia
ragionevole rendere effettiva.
Casuale, poiché l’invenzione, pur essendo sempre il frutto di un attenta applicazione,
solitamente, scaturisce da un errore, dal riconoscimento di questo e dall’inversione dello stesso
a proprio favore. La permanenza della genialità in un individuo deve essere inconscia. Il genio,
quello che inventa, che corre il rischio costante di sbagliare contro tutto e tutte le logiche fino a
quel momento esistenti, non può sapere di essere ciò che solo la storia può riconoscere.
Sarebbe un compito troppo arduo ed inutile per chi deve dedicare il proprio spazio cerebrale
ad un applicazione che ancora non esiste. Se accadesse egli reciterebbe una parte come fosse
scritta, sarebbe l’attore e non lo scrittore della commedia.
Il genio è inarrestabile, egli compie atti e percorre strade inesplorate come cercasse qualcosa di
cui nemmeno lui comprende l’esigenza. Se vede una via facilmente percorribile a margine di
un fitto bosco egli, senza alcun tentennamento, entra nel denso fogliame, si sporca, si strappa,
si graffia, si stanca ed esce dallo stesso molto tempo dopo chi ha invece percorso la strada
conosciuta.
Ma inaspettatamente, quando appare a rivedere la luce, è felice e soddisfatto come avesse
scoperto chissà quale cosa. In effetti, si è semplicemente reso conto che l’altra via era
sicuramente più agevole ed indicata per giungere dalla parte opposta, e lo farà per tutta la vita
fino a che, se avrà anche fortuna, da quel bosco potrebbe tornare con qualcosa tra le mani di
cui non si aveva conoscenza prima. E se tanto non gli riuscisse mai, avrà fatto per tutti i suoi
giorni ciò che desiderava.
Il genio è statisticamente ed antropologicamente irrinunciabile. Statisticamente poiché essendo
un errore genetico, purtroppo o per fortuna si ripete esattamente come le eccezioni nei grandi
numeri o, appunto purtroppo, come le malattie o le malformazioni fisiche in tutti gli esseri
viventi. Tale errore pur essendo assolutamente siffatto costituisce una variabile essenziale,
antropologica, all’evoluzione ed all’avanzamento di una specie, sia essa monocellulare o multi
come quella umana.
Credo che un numero estremamente piccolo corrisponda alle persone effettivamente scoperte
tali. Si pensi a quanti miliardi di queste sono esistite dal momento in cui l’essere umano può
considerarsi intelligente e quante poche di esse abbiano avuto accesso ai media del loro tempo.
In quanti villaggi sperduti per il mondo intero sono nati individui con attitudini eccezionali al
ragionamento ed alla creatività, abbiano prodotto conseguentemente oggetti o semplicemente
idee di livello e non abbiamo mai saputo nemmeno che siano esistite.
Quanti artisti hanno creato musica, pittura e scrittura e le loro opere sono rimaste in cantina
perché non avevano propensione alla divulgazione, interesse o fortuna. Essendo la genialità da
considerarsi una malformazione, vista la sua rarità, si diffonde esattamente come una malattia
insolita e, senza prediligere nella norma, un luogo od un tempo all’altro.
La genialità è in definita, tra le tante cose, un errore dell’inconscio che si ripete in modo
essenziale, non dando alcun vantaggio a chi ne è portatore (trascurerei i geni che si
arricchiscono, sono pochi e dubbi, Picasso certamente si arricchì, Van Gogh morì suicida e
povero, Einstein aveva un buono stipendio da professore universitario) ed, in qualche caso,
enormi a chi ne usufruisce.
Un capitolo a parte andrebbe dedicato all’intelligenza, un aggettivo che, soprattutto nella
società contemporanea e massmediale, si usa con una leggerezza sorprendente e con diffusa
superficialità comunemente accettata. Partendo dal presupposto conclamato che la razza
umana è per lo più corrispondente al significato di tale parola, è altrettanto chiaro che spesso
viene usata per sottolineare caratteristiche migliori in un individuo piuttosto che in un altro.
Una persona che parla in modo corretto, veloce e ben argomentando, magari riempiendo di
citazioni il proprio discorso, fa un bell’effetto ad ascoltarlo e spesso, lo si definisce
“intelligente” come a metterlo, in una categoria superiore di cui solo alcuni possono far parte.
In effetti, è solo un essere ben allenato a fare ciò che fa, che probabilmente ama in modo
sufficiente o smisurato, che ha buona memoria ed alta concezione di se. Il che non è cattiva
cosa ma, non certo il modo per misurare la consistenza e l’ampiezza di cui sopra.
L’intelligenza nasce nel momento in cui l’essere umano è capace di distinguersi dal mondo
animale poiché riesce a percepire l’esistenza della coscienza, anche senza rendersene conto, e
comincia a paragonare una cosa ad un’altra, un oggetto all’altro, una sensazione ad un’altra.
Maggiore e la sua capacità di allacciare un iter creativo tra due cose differenti, più ampia è la
sua visione di uno spazio reale e di uno virtuale “il pensiero” di grado più alto sarà il suo
quoziente intellettivo o “intelligenza”
Non basta ricordare interi volumi a memoria per essere intelligenti. È come se ai tempi della
scoperta del fuoco, uno dei nostri pelosi predecessori riuscisse a rammentare la forma di tutti
gli alberi e le pietre che lo circondavano, mentre un altro, vedendo ardere i resti di un tronco
colpito da una saetta, prendesse un tizzone ancora acceso e se lo portasse in grotta per
accendere altra legna. L’effetto dell’intelligenza deve essere creativo altrimenti è solo
memoria. In definitiva di tale aggettivo si potrebbe fare a meno, poiché usarlo troppo spesso è
adulatorio o razzistico. Siamo tutti intelligenti in quanto esseri umani e con propensioni
diverse più o meno utili.
Ho fatto questa premessa che apparentemente poco o nulla avrebbe a che fare con la tela da me
dipinta e di seguito presentata, perché una mattina, proprio mentre lavoravo a questo grande
quadro, che nessuno mi aveva commissionato, ad un certo punto, mi sono fermato ed ho scritto
le prime tre righe della riflessione, ora ampliata, ed appena sostenuta sulla “genialità”.
Osservavo il capiente spazio occupato dalla tela (da terra al soffitto tutta l’altezza del mio
studio, e metà della larghezza, 3,3 metri per 5,2) che poi avrei chiamato “PuntoZzero” e mi
sentivo fuori luogo, come avessi intrapreso una questione che non c’entrava nulla con la mia
vita attuale.
Non avevo fatto un quadretto di critica alla società politica corrente per poi passare
velocemente ad altro. No! Mi ero preso il compito di costruire un affresco complicato dalla
presenza di innumerevoli fatti e figure che si alternavano in forma di satira evidente, satira che
quasi mai avevo raffigurato con tanta veemenza in altri dipinti, essendo stato sempre
maggiormente attirato da una pittura espressionista, che partisse dalla realtà, e che venisse poi
rivisitata da tutte le contraddizioni, il disagio o il piacere che fosse, del mio inconscio o, per lo
meno, di quel tanto io ne percepissi, ed a questo, mi sentissi di addebitare l’invenzione
momentanea.
Non lo nego, ho avuto per un attimo un alternanza di sentimenti contrapposti tra il ritenermi un
cretino o un genio ma senza riuscire sul momento, a prendere una decisione su quale di questi
due effetti prevalesse nel corrispondere ad una logica comprovabile. Non è un evento
facilmente descrivibile, poiché nell’atto di riceverlo, non se ne ha consapevolezza. Più o meno,
si prova un’emozione con tutti i crismi che tale condizione determina: ansia, palpitazione,
gioia e fastidio, dolore e piacere, irrequietezza e spossatezza.
Ci si sofferma a guardare l’opera dal basso in alto, da vicino, da lontano, da un lato e dall’altro
per poi darle le spalle come nel tentativo di resettare la visone percepita ma, pochi istanti dopo,
si ricomincia e tutto appunto, senza rendersene conto. Nei minuti appena successivi all’evento
scrissi quelle “tre righe” ed, appena ebbi terminato anche quell’azione, mi sentii meglio, pur
continuando a non comprendere nulla di ciò che era accaduto.
Un mese e mezzo prima, dopo anni di angherie subite, non certo sulla mia pelle, ma
sicuramente, dalla grande maggioranza del popolo Italiano per conseguenza di una classe
politica malata di alterigia, superficialità e spesso ladrocinio, in un susseguirsi di culmini di
idiozia ed esibizione di bassa qualità etica e morale di questa, decisi di non ascoltare più i vari
media, di non parlare più nel “vuoto passare del tempo” ma di agire con ciò che presumo saper
fare, il mio lavoro.
Volevo per quanto possibile, lasciare un racconto di quanto esibito dalla parte governativa e di
quanto subito da quella popolare. Non volevo piantare ne bandiere ideologiche ne, tanto meno,
esprimere un malore personale. Sarebbe stato sufficiente dipingere la tela che avrebbero
voluto realizzare tutte quelle persone a me sconosciute, e che maggiormente avevano ed
hanno, subito l’alterazione della propria libertà.
Lo avevo fatto da molto giovane quando realizzai svariati quadri, disegni e poesie legati alla
Shoa, non solo perpetrata nei confronti del popolo Ebraico ma di tutti quanti ne furono
coinvolti: dagli aguzzini, alle vittime, all’umanità intera, alle bombe nucleari di Hiroshima e
Nagasaki in seguito, dalla Corea, al Vietnam. Allora lo feci preso dall’orrore di quello che non
avevo vissuto, ora invece, per il disgusto che, pur con le dovute distanze dal terribile evento
Nazista, doveva avere lo scopo medesimo di non dimenticare.
Ho costruito 12 telai che uniti tra loro avrebbero composto un’unica tela. Questo, per ovviare
ad una eventuale trasportabilità dell’opera, pur sfruttando al massimo, lo spazio a disposizione
all’interno del mio studio. Volevo però, e qui è sorto un problema compositivo, che ogni
riquadro avesse una sua logica, una amalgama propria nel rispetto dello stile totale. Dunque,
non un soggetto primario contornato da rappresentazioni minori ma, svariati tasselli stesi uno
accanto all’altro, protagonisti della medesima storia in cui vi fosse in ognuno, equilibrio della
forma, del colore, del contenuto narrativo e del gesto pittorico.
Il gesto pittorico è la maniera finale di comunicare di un pittore attraverso il pennello, come lo
posiziona, come lo lascia scorrere, come lo spinge o lo ritrae al consumo della propria
ispirazione momentanea ed il più possibile istintiva. Se ne delinea, sperando di aver spiegato la
difficoltà dell’azione creativa, che ripetere senza ovvietà questa intenzione per 12 volte,
almeno per quanto riguarda le mie doti, non è stato facile ed a costituito tema da risolvere e
non solo una realtà da interpretare attraverso la riesecuzione delle mie conoscenze soggettive.
Accadde così che dopo aver realizzato un bozzetto di massima ed averlo in maniera davvero
attenta riportato sulla tela, senza preparare anzitempo alcun esempio coloristico della vicenda,
avvenne che, cominciando ad usare la tavolozza, mi ritrovai volontariamente davanti ad una
grande superficie senza avere la minima idea dei colori che avrei impiegato. Un grande bianco
e nero, bene assemblato ed assai soddisfacente cui un rosso, un giallo od blu, avrebbero potuto
magnificare o distruggere quanto di buono realizzato al momento.
Ne per vittimizzare ne tanto meno per mitizzare la mia persona, si tenga conto che in questi
ultimi anni vivo in modo appartato il mio lavoro, la mia giornata, la mia esistenza. Non ho
amici artisti e pochissimi in genere con cui scambiare opinioni di alcuna natura, ne
professionale, ne politica, ne superficiale. Va da se che ogni decisione sul da farsi, soprattutto
dal punto di vista professionale, è di mia unica responsabilità nel bene, nel male, ma anche in
una certa solitudine, e che quest’ultima, sia per scelta o per naturale propensione
all’incomunicabilità, rende la mia passione verso ogni emozione costantemente estrema.
Così che quando mi scopro davanti ad una grande soluzione da trovare, questa mi appartiene
tanto nell’oblio quanto nella disperazione. Perciò scrivo di me e del mio impegno, perché tolta
la mia encomiabile e lucidissima moglie Alessandra, nessuno sa veramente del mio lavoro e
del mio pensiero. Credo infatti che se avessi potuto disporre, proprio come io sto facendo
ultimamente, degli scritti personali di alcuni grandi artisti che illustrassero motivazioni e
sentimenti della propria opera ne sarei stato assai felice.
Va da se che non voglio paragonarmi a nessuno, sia esso eccelso o scadente, o che posso
apparire presuntuoso, ma vale anche, che esaminata la questione a posteriori, probabilmente
molto a posteriori, ciò che ora si mostra in un modo domani potrebbe essere in un altro e ne io
ne voi, forse sapremo se quanto tento di far accadere sarà utile a molti o a pochi.
Non starò a raccontare in modo esatto come e perché mi diressi in una direzione anziché in
un’altra fino al termine dell’intera tela, poiché molti sentieri li ho già dimenticati ed altri
sarebbe troppo dottrinale imporli ed io, non sono professore altro che su di un mero pezzo di
carta malamente guadagnato a 17 anni. Quello che intendevo, era comunicare alcune arie,
alcune musiche che ho avvertito, e come esse si sono mosse intorno a me, nel facilitarmi o
complicarmi il lavoro.
Nella vita di un essere umano tutto si svolge tramite una sintesi dall’esterno all’interno ed il
contrario. Una sintesi che sboccia in ognuno di noi senza che ce ne possiamo ribellare. Un
luogo delle cose che si concretizza attraverso il sentimento e la razionalità, la sofferenza,
l’abbandono e l’insurrezione. Un coacervo di accadimenti che sembrano non dipendere dalla
nostra volontà, e che sono invece, esattamente la soggettivazione di quanto abbiamo costruito
nel bene e nel male, nella saggezza e nell’ignoranza. Di cui avremo sempre una naturale
inconsapevolezza, per rispetto di ciò che avremmo voluto essere, e raramente ci è riuscito.
S.M.
Stampato Giugno 2013
In 10 esemplari di seguito firmati dall’autore
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