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RASSEGNA STAMPA di giovedì 16 marzo 2017 SOMMARIO “Segni religiosi, l’intolleranza è un indicatore di declino. Accoglienza e libertà di pensiero alla base dell’Europa” è il titolo del pezzo di Carlo Cardia su Avvenire di oggi. Ecco le sue considerazioni: “La sentenza della Corte di Giustizia della Ue che legittima il divieto, sui luoghi di lavoro, d’indossare simboli religiosi, siano essi il velo islamico, la stella di Davide, il crocifisso o altri segni analoghi, riapre il contenzioso su un tema assai discusso, che forse in una società liberale non dovrebbe neanche esistere. In uno specifico passaggio, la sentenza afferma che il divieto non deve essere adottato per soddisfare clienti che desiderano evitare chi indossa il velo islamico; ma tranne questa ipotesi, un po’ astratta, si giustifica poi il divieto generale perché «è legittima la volontà di un datore di lavoro di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici che privati, un’immagine di neutralità». È opportuno premettere, per evitare un equivoco frequente, che la controversia riguarda il velo islamico, che copre solo il capo e non ha nulla a che vedere con il niqab, che nasconde il volto, o il burqa che copre tutta la persona. È evidente che, in questi casi, emergono questioni diverse che riguardano l’identificazione della persona, la sua relazionalità con gli altri, e nello sfondo la stessa tutela della dignità della persona che viene quasi nascosta nell’ambiente in cui si trova. Così, com’è opportuna la regolamentazione della neutralità dei pubblici funzionari, secondo regole di sobrietà e di saggezza. Con la questione del velo islamico rientriamo, invece, nella problematica dei simboli religiosi, per i quali l’Europa, da sempre ricchissima di simbologie le più diverse, dimostra intelligenza e tolleranza, e ci muoviamo nell’orizzonte della tutela della sensibilità e della libertà religiosa. Il divieto ha radici in una malformazione della tradizione separatista europea, in particolare di quella francese, legata a una concezione dogmatica della laïcité che ha assunto il significato di un supremo valore repubblicano. Come già ricordato più volte e anche ieri su 'Avvenire', l’avversione ai simboli ha provocato in Francia esiti paradossali, e s’è giunti al punto di proibirli a scuola, nelle gite scolastiche, ai genitori che accompagnano, o ritirano, i bambini da scuola. L’insegnamento scolastico è stato a tal punto privato di contenuti religiosi, che un Rapporto commissionato dal Governo (1989), e steso da Philippe Joutard, ha denunciato l’ignoranza di ragazze e ragazzi su aspetti centrali della storia dell’arte, della cultura. Visitando il Louvre, dice Joutard, molti giovani hanno chiesto alle insegnanti chi fossero tutte quelle Babysitter con il bambino in braccio che figurano nelle grandi opere dell’arte figurativa; oppure, davanti a San Sebastiano del Mantegna nella posa classica del martirio, hanno creduto che le frecce che lo colpiscono provenissero dagli Indiani d’America. Sembra uno scherzo, è una cosa tremendamente seria. E di recente, s’è superata la soglia del ridicolo, proibendo agli sportivi di farsi il segno della Croce, o di compiere altro atto religioso, entrando in un campo di calcio, o dopo aver segnato un gol. Più di recente, di fronte alla reazione popolare contro la proibizione di esporre pubblicamente dei presepi, il Consiglio di Stato francese ha dettato regole generali che riflettono l’imbarazzo di un ordinamento che vorrebbe liberarsi da pregiudizi del passato, ma finisce per rimanerne prigioniero. Il massimo organo giurisdizionale richiama i principi della laïcité, propri della Loi de séparation del 1905, e afferma che la raffigurazione del Natale è parte integrante della iconografia cristiana e riflette quindi un carattere religioso, però è anche parte di decorazioni che accompagnano tradizionalmente le feste di fine d’anno. Di qui, la conclusione per la quale in linea di principio non è consentito esporre presepi in edifici pubblici, a meno che esso abbia carattere culturale, artistico o festivo. In altri spazi pubblici, invece, con riguardo alle feste di fine anno, si può esporre il presepio purché esso non rappresenti un atto di proselitismo o di rivendicazione di una specifica opinione religiosa. Chiunque vede che è impossibile tracciare una ragionevole linea di confine tra i due significati della Natività. In un’ampia ricerca,

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Page 1: Rassegna stampa 16 marzo 2017...2017/03/16  · RASSEGNA STAMPA di giovedì 16 marzo 2017 SOMMARIO “Segni religiosi, l’intolleranza è un indicatore di declino. Accoglienza e libertà

RASSEGNA STAMPA di giovedì 16 marzo 2017

SOMMARIO

“Segni religiosi, l’intolleranza è un indicatore di declino. Accoglienza e libertà di pensiero alla base dell’Europa” è il titolo del pezzo di Carlo Cardia su Avvenire di oggi. Ecco le sue considerazioni: “La sentenza della Corte di Giustizia della Ue che

legittima il divieto, sui luoghi di lavoro, d’indossare simboli religiosi, siano essi il velo islamico, la stella di Davide, il crocifisso o altri segni analoghi, riapre il contenzioso su

un tema assai discusso, che forse in una società liberale non dovrebbe neanche esistere. In uno specifico passaggio, la sentenza afferma che il divieto non deve essere adottato per soddisfare clienti che desiderano evitare chi indossa il velo islamico; ma tranne questa ipotesi, un po’ astratta, si giustifica poi il divieto generale perché «è

legittima la volontà di un datore di lavoro di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici che privati, un’immagine di neutralità». È opportuno premettere, per evitare un equivoco frequente, che la controversia riguarda il velo islamico, che copre solo il capo e non

ha nulla a che vedere con il niqab, che nasconde il volto, o il burqa che copre tutta la persona. È evidente che, in questi casi, emergono questioni diverse che riguardano

l’identificazione della persona, la sua relazionalità con gli altri, e nello sfondo la stessa tutela della dignità della persona che viene quasi nascosta nell’ambiente in cui

si trova. Così, com’è opportuna la regolamentazione della neutralità dei pubblici funzionari, secondo regole di sobrietà e di saggezza. Con la questione del velo islamico rientriamo, invece, nella problematica dei simboli religiosi, per i quali

l’Europa, da sempre ricchissima di simbologie le più diverse, dimostra intelligenza e tolleranza, e ci muoviamo nell’orizzonte della tutela della sensibilità e della libertà

religiosa. Il divieto ha radici in una malformazione della tradizione separatista europea, in particolare di quella francese, legata a una concezione dogmatica della

laïcité che ha assunto il significato di un supremo valore repubblicano. Come già ricordato più volte e anche ieri su 'Avvenire', l’avversione ai simboli ha provocato in

Francia esiti paradossali, e s’è giunti al punto di proibirli a scuola, nelle gite scolastiche, ai genitori che accompagnano, o ritirano, i bambini da scuola.

L’insegnamento scolastico è stato a tal punto privato di contenuti religiosi, che un Rapporto commissionato dal Governo (1989), e steso da Philippe Joutard, ha

denunciato l’ignoranza di ragazze e ragazzi su aspetti centrali della storia dell’arte, della cultura. Visitando il Louvre, dice Joutard, molti giovani hanno chiesto alle

insegnanti chi fossero tutte quelle Babysitter con il bambino in braccio che figurano nelle grandi opere dell’arte figurativa; oppure, davanti a San Sebastiano del Mantegna

nella posa classica del martirio, hanno creduto che le frecce che lo colpiscono provenissero dagli Indiani d’America. Sembra uno scherzo, è una cosa tremendamente seria. E di recente, s’è superata la soglia del ridicolo, proibendo agli sportivi di farsi il segno della Croce, o di compiere altro atto religioso, entrando in un campo di calcio, o

dopo aver segnato un gol. Più di recente, di fronte alla reazione popolare contro la proibizione di esporre pubblicamente dei presepi, il Consiglio di Stato francese ha dettato regole generali che riflettono l’imbarazzo di un ordinamento che vorrebbe liberarsi da pregiudizi del passato, ma finisce per rimanerne prigioniero. Il massimo organo giurisdizionale richiama i principi della laïcité, propri della Loi de séparation

del 1905, e afferma che la raffigurazione del Natale è parte integrante della iconografia cristiana e riflette quindi un carattere religioso, però è anche parte di decorazioni che accompagnano tradizionalmente le feste di fine d’anno. Di qui, la conclusione per la quale in linea di principio non è consentito esporre presepi in

edifici pubblici, a meno che esso abbia carattere culturale, artistico o festivo. In altri spazi pubblici, invece, con riguardo alle feste di fine anno, si può esporre il presepio

purché esso non rappresenti un atto di proselitismo o di rivendicazione di una specifica opinione religiosa. Chiunque vede che è impossibile tracciare una

ragionevole linea di confine tra i due significati della Natività. In un’ampia ricerca,

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che il professor Stefano Testa Bappenheim sta conducendo sulla questione dei simboli religiosi nell’area occidentale, si rileva che le tendenze francesizzanti ottengono qua

e là qualche successo, ma più spesso prevalgono saggezza ed equità. Alcuni Paesi europei sono tradizionalmente più aperti e tolleranti: ad esempio la Gran Bretagna, ove il Turbante dei Sikh è ammesso quasi ovunque nei posti di lavoro; e l’Italia, dove non esistono veri divieti per i simboli religiosi, che ha ottenuto nel 2011, a vantaggio

dell’Europa intera, il riconoscimento della legittimità della presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche da parte della Grande Chambre di Strasburgo. Ma anche negli Stati Uniti, oltre alla celebre sentenza della Corte Suprema del 1984 per la quale «sarebbe ironico» se si volesse considerare la presenza del presepio negli spazi

pubblici come contraddittorio con il principio di laicità, dal momento «nei luoghi pubblici (americani) si cantano gli inni natalizi, il Congresso e il legislativo statale aprono le sessioni pubbliche recitando la preghiera»: una simile pretesa sarebbe

«esagerata e contraria alla storia della Nazione e alle decisioni di questa Corte». E sempre negli Usa, nel 2014 due dipendenti di religione musulmana dell’azienda dei

trasporti di New York, colpite da sanzioni disciplinari per aver indossato il velo, hanno ottenuto soddisfazione dalla New York Eastern District Court che ha condannato

l’azienda a un forte risarcimento. Oggi la questione dei simboli religiosi da indossare, o da esporre negli spazi pubblici, ha una sua specificità, e riguarda insieme la tradizione, le radici culturali delle popolazioni, la libertà religiosa individuale.

Pensiamo per un attimo a cosa significherebbe l’oscuramento dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro, e negli spazi pubblici delle società globalizzate. Esso ci ricondurrebbe

a un mesto provincialismo, ci farebbe perdere quell’ispirazione universalista che è propria delle società liberali, quella capacità di parlare agli altri, che ci ha reso attivi

a livello planetario. Immaginiamo di eliminare la simbologia religiosa in ogni continente, abbattiamo in Asia le statue di Buddha, i segni dell’induismo, spegniamo in America Latina i simboli delle sue tradizioni, in Occidente i segni ebraico-cristiani,

Dieci Comandamenti, Bibbia, Croce. Pensiamoci, compiremmo il più ottuso atto di oscuramento religioso e culturale che si possa immaginare contro le radici e tradizioni

cui s’ispira ciascun popolo. Forse è proprio questo che non c’è nella sentenza della Corte di Giustizia: quel respiro universale di accoglienza che garantisce la libertà di

pensiero, d’espressione, di religione, sempre più necessarie alle società della globalizzazione, nelle quali i popoli s’incontrano, si conoscono e rispettano, nelle

leggi e nel costume, le idee, la fede, le tradizioni degli altri. Anche con questi ideali è nata l’Europa, con le sue radici cristiane e liberali. Senza di essi può solo declinare”

(a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 7 Il Papa: è un peccato gravissimo licenziare per traffici e manovre di Gianni Cardinale Francesco ricorda ancora una volta che “il lavoro ci da dignità” Pag 19 “Siamo chiamati all’amore, alla carità” Francesco: è la vocazione più alta, cui si lega la gioia della speranza cristiana CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Matteo morto a 19 anni e la causa di beatificazione: “Mostrava Dio ai giovani” di Gian Guido Vecchi LA STAMPA Dallo Ior alla pedofilia le nuove sfide di Francesco di Andrea Tornielli A 4 anni dalla sua elezione restano ostacoli sul percorso del Pontefice LA NUOVA Pag 17 Oscar Romero arcivescovo verso la canonizzazione di Francesco Ruffato

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WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Ce la farà Papa Francesco? di Gianni Valente L’ultima puntata dell’analisi. C’è chi ha già scritto il finale prevedendo il fallimento delle riforme. Ma queste previsioni non fanno i conti con il vero sguardo del Papa e con il fatto che le cose non dipendono (troppo) da lui 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 39 Riapre il teatro liberty dedicato a Lino Toffolo di Giuseppe Barbanti Ultimato il restauro del “gioiellino” decorato da Zecchin 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Legittima difesa, cambio di rotta di Massimiliano Melilli Dopo il caso Birolo Pag 7 L’impiegata si ammala, 173 colleghi le regalano un anno e mezzo di ferie di Andrea Priante Vicentina colpita da aneurisma, rischiava di restare senza stipendio IL GAZZETTINO Pag 6 Velo e lavoro: “Qui i divieti non servono” di Mattia Zanardo Dopo la sentenza europea le imprese del Nordest si interrogano sul copricapo islamico 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 11 di Gente Veneta in uscita venerdì 17 marzo 2017: Pagg 1, 9, 22 Il desiderio? Una famiglia salda di Marta Gasparon e Tiziano Scatto L’assemblea diocesana in San Marco e il libro del pellegrino di Borbiago segnalano un’attesa comune. Stesse richieste per i fidanzati e i devoti al santuario Pag 1 Al posto del velo una spilletta con la mezzaluna di Giorgio Malavasi Pag 1 Costretti a bere a peso d’oro: è giusto? di Giulia Busetto Pag 3 Ol Moran, 20 anni al top per la parrocchia veneziana in Kenya Una delegazione di cinque laici e due sacerdoti, fra cui il primo parroco don Giovanni Volpato, si è recata in visita alla comunità guidata da don Giacomo Basso. Al centro la preghiera di gratitudine per i due decenni nei quali sono cresciuti numeri, strutture e qualità della vita Pag 7 Padre Voltan rieletto Provinciale dei frati Conventuali: «Essere veri e vicini alle persone: è la nostra missione» di Giorgio Malavasi Mestre, il 31 agosto via dal Sacro Cuore: «Con sofferenza, perché è una realtà bella». Dall’estate i Conventuali anche ai Tolentini e a San Pantalon Pag 11 Il pastore Prigge: «L’unità in Cristo è ora a portata di mano» di Giorgio Nordio Alla guida della comunità luterana di Venezia, Bernd Prigge fa il punto sul cammino di avvicinamento: «Sono stati chiariti la gran parte dei problemi e delle difficoltà che per cinque secoli hanno diviso e contrapposto le due Chiese. Oggi vogliamo chiederci perdono l’un l’altro, per stare insieme in Cristo» Pag 12 Per 2500 ragazzi suona l’ora della Festa a Jesolo

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Arriveranno da 90 parrocchie della diocesi, domenica 19 al Pala Arrex. La messa presieduta dal Patriarca aprirà la giornata. Seguiranno le testimonianze di tre giovani e un pomeriggio di gioco. Per numeri, quella del 2017 sarà un’edizione da record Pag 13 S. Camillo: sforna brevetti a un passo dalla vendita di Lorenzo Mayer Un sistema robotizzato per la riabilitazione della mano e un caschetto contenitivo che, nel corso di un certo esame, tiene fermo il paziente quanto più possibile, con risultati più precisi: sono due brevetti del 2016. Intanto è in stallo la compravendita … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 C’è il vuoto (ma non sia una resa) di Antonio Polito Chi tira a campare? LA REPUBBLICA Pag 1 La diga olandese di Bernardo Valli Pag 1 La mediocrità della politica di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 Luce sui “soldi” della politica di Danilo Paolini Caso Consip, una seconda lezione Pag 2 Un po’ di buonsenso nel calcio “almeno a Pasqua” di Italo Cucci L’ipotesi di giocare una partita il 16 aprile. E le alternative Pag 3 Le gambe molli dell’autocrate di Raul Caruso Erdogan: crisi interna, politica estera muscolare Pag 3 Segni religiosi, l’intolleranza è un indicatore di declino di Carlo Cardia Accoglienza e libertà di pensiero alla base dell’Europa IL GAZZETTINO Pag 1 Come inseguire i nazionalisti, la lezione di Rutte di Marco Gervasoni LA NUOVA Pag 1 La xenofobia non sfonda, bene per la Ue di Gigi Riva Pag 1 La legittima difesa che funziona di Fabio Pinelli

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 7 Il Papa: è un peccato gravissimo licenziare per traffici e manovre di Gianni Cardinale Francesco ricorda ancora una volta che “il lavoro ci da dignità” Fa un «peccato gravissimo» chi licenzia per compiere «manovre economiche» o fa traffici «non del tutto chiari ». Parole chiarissime quelle pronunciate ieri da papa Francesco nei saluti finali dell’udienza generale del mercoledì. Parole pronunciate già più volte in passato e che ieri ha ribadito dopo rivolto un «pensiero speciale» al centinaio di dipendenti di Sky Italia presenti in piazza san Pietro, auspicando che «la loro situazione lavorativa possa trovare una rapida soluzione, nel rispetto dei diritti di tutti, specialmente delle famiglie». «Il lavoro ci dà dignità, – ha proseguito il Papa – e i

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responsabili dei popoli, i governanti hanno l’obbligo di fare di tutto perché ogni uomo e ogni donna possano lavorare e così avere la fronte alta, guardare in faccia gli altri, con dignità». Così, ha concluso, «chi, per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari, chiude fabbriche, chiude imprese lavorative e toglie il lavoro agli uomini, compie un peccato gravissimo». In un servizio dedicato alle parole del Pontefice la Radio Vaticana ricorda che sono «570 i dipendenti del gruppo televisivo - che fa capo alla corporation 21st Century Fox della famiglia del noto imprenditore australiano Rupert Murdoch, che ha attività nell’intero Pianeta - ad essere coinvolti in un discutibile piano di riorganizzazione di Sky Italia». L’emittente vaticana ha anche dato voce a Paolo Centofanti, rappresentate sindacale di base nelle trattative tra i lavoratori e la direzione dell’azienda. Il sindacalista ha riferito che i lavoratori hanno accolto «in maniera ovviamente positiva e profonda» il saluto del successore di Pietro. «Alcuni di noi avevano le lacrime agli occhi», ha aggiunto. Per il rappresentante dei lavoratori di Sky Italia, le parole ascoltate in piazza San Pietro «hanno confermato l’estrema sensibilità del Papa e della Santa Sede per il richiamo forte che papa Francesco ha fatto più volte su una questione fondamentale». «Oggi (ieri per chi legge, ndr) – ha concluso Centofanti alla Radio Vaticana – c’è un incontro e speriamo che ci sia qualche ripensamento e, oltre a questo, qualche motivazione in più e qualche possibilità di sostegno in più». Pag 19 “Siamo chiamati all’amore, alla carità” Francesco: è la vocazione più alta, cui si lega la gioia della speranza cristiana Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Sappiamo bene che il grande comandamento che ci ha lasciato il Signore Gesù è quello di amare: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente e amare il prossimo come noi stessi (cfr Mt 22,37-39), cioè siamo chiamati all’amore, alla carità. E questa è la nostra vocazione più alta, la nostra vocazione per eccellenza; e ad essa è legata anche la gioia della speranza cristiana. Chi ama ha la gioia della speranza, di arrivare a incontrare il grande amore che è il Signore. L’apostolo Paolo, nel passo della Lettera ai Romani che abbiamo appena ascoltato, ci mette in guardia: c’è il rischio che la nostra carità sia ipocrita, che il nostro amore sia ipocrita. Ci dobbiamo chiedere allora: quando avviene questa ipocrisia? E come possiamo essere sicuri che il nostro amore sia sincero, che la nostra carità sia autentica? Di non far finta di fare carità o che il nostro amore non sia una telenovela: amore sincero, forte … L’ipocrisia può insinuarsi ovunque, anche nel nostro modo di amare. Questo si verifica quando il nostro è un amore interessato, mosso da interessi personali; e quanti amori interessati ci sono … quando i servizi caritativi in cui sembra che ci prodighiamo sono compiuti per mettere in mostra noi stessi o per sentirci appagati: «Ma, quanto bravo sono»! No, questa è ipocrisia! o ancora quando miriamo a cose che abbiano “visibilità” per fare sfoggio della nostra intelligenza o della nostra capacità. Dietro a tutto questo c’è un’idea falsa, ingannevole, vale a dire che, se amiamo, è perché noi siamo buoni; come se la carità fosse una creazione dell’uomo, un prodotto del nostro cuore. La carità, invece, è anzitutto una grazia, un regalo; poter amare è un dono di Dio, e dobbiamo chiederlo. E Lui lo dà volentieri, se noi lo chiediamo. La carità è una grazia: non consiste nel far trasparire quello che noi siamo, ma quello che il Signore ci dona e che noi liberamente accogliamo; e non si può esprimere nell’incontro con gli altri se prima non è generata dall’incontro con il volto mite e misericordioso di Gesù. Paolo ci invita a riconoscere che siamo peccatori, e che anche il nostro modo di amare è segnato dal peccato. Nello stesso tempo, però, si fa portatore di un annuncio nuovo, un annuncio di speranza: il Signore apre davanti a noi una via di liberazione, una via di salvezza. È la possibilità di vivere anche noi il grande comandamento dell’amore, di diventare strumenti della carità di Dio. E questo avviene quando ci lasciamo guarire e rinnovare il cuore da Cristo risorto. Il Signore risorto che vive tra noi, che vive con noi è capace di guarire il nostro cuore: lo fa, se noi lo chiediamo. È Lui che ci permette, pur nella nostra piccolezza e povertà, di sperimentare la compassione del Padre e di celebrare le meraviglie del suo amore. E si capisce allora che tutto quello che possiamo vivere e fare per i fratelli non è altro che la risposta a quello che Dio ha fatto e continua a fare per noi. Anzi, è Dio stesso che, prendendo dimora nel nostro cuore e nella nostra vita, continua a farsi vicino e a servire tutti coloro che incontriamo ogni giorno sul nostro

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cammino, a cominciare dagli ultimi e dai più bisognosi nei quali Lui per primo si riconosce. L’apostolo Paolo, allora, con queste parole non vuole tanto rimproverarci, quanto piuttosto incoraggiarci e ravvivare in noi la speranza. Tutti infatti facciamo l’esperienza di non vivere in pieno o come dovremmo il comandamento dell’amore. Ma anche questa è una grazia, perché ci fa comprendere che da noi stessi non siamo capaci di amare veramente: abbiamo bisogno che il Signore rinnovi continuamente questo dono nel nostro cuore, attraverso l’esperienza della sua infinita misericordia. E allora sì che torneremo ad apprezzare le cose piccole, le cose semplici, ordinarie; che torneremo ad apprezzare tutte queste piccole cose di tutti i giorni e saremo capaci di amare gli altri come li ama Dio, volendo il loro bene, cioè che siano santi, amici di Dio; e saremo contenti per la possibilità di farci vicini a chi è povero e umile, come Gesù fa con ciascuno di noi quando siamo lontani da Lui, di piegarci ai piedi dei fratelli, come Lui, Buon Samaritano, fa con ciascuno di noi, con la sua compassione e il suo perdono. Cari fratelli, questo che l’apostolo Paolo ci ha ricordato è il segreto per essere – uso le sue parole – è il segreto per essere «lieti nella speranza» (Rm 12,12): lieti nella speranza. La gioia della speranza, perché sappiamo che in ogni circostanza, anche la più avversa, e anche attraverso i nostri stessi fallimenti, l’amore di Dio non viene meno. E allora, con il cuore visitato e abitato dalla sua grazia e dalla sua fedeltà, viviamo nella gioiosa speranza di ricambiare nei fratelli, per quel poco che possiamo, il tanto che riceviamo ogni giorno da Lui. Grazie. CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Matteo morto a 19 anni e la causa di beatificazione: “Mostrava Dio ai giovani” di Gian Guido Vecchi Città del Vaticano. «È difficile vivere nel mondo quando la fede ci dice che non siamo del mondo». Matteo Farina era nato ad Avellino e viveva a Brindisi, amava lo sport e la chimica, suonava la chitarra e cantava in una band, si era innamorato (ricambiato) di una ragazza, Serena. Aveva dieci anni quando annotò sul diario un sogno nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2000, Padre Pio da Pietrelcina che gli diceva: «Se sei riuscito a capire che chi è senza peccato è felice, devi farlo capire agli altri, in modo che potremo andare tutti insieme, felici, nel regno dei cieli». Ne aveva tredici quando un mal di testa atroce lo portò fino ad Hannover, in Germania, la prima diagnosi del tumore al cervello, e lui scriveva: «Abbattersi non giova a nulla, dobbiamo invece essere felici e dare sempre gioia. Più gioia diamo più gli altri sono felici. Più gli altri sono felici più siamo felici noi». Sei anni di lotta, tre interventi chirurgici. Matteo è morto il 24 aprile 2009, a diciannove anni. Il mese prossimo, proprio il 24 aprile, nella cattedrale di Brindisi si chiuderà solennemente il «processo diocesano sulla vita, le virtù, e la fama di santità del Servo di Dio Matteo Farina»; durante la cerimonia, presieduta dall’arcivescovo Domenico Caliandro, verranno messi i sigilli alla documentazione raccolta nella diocesi - scritti, testimonianze - e la pratica andrà in Vaticano per la causa di beatificazione e canonizzazione. Certo questi processi sono lunghi, richiedono anni. Si rivedranno le carte, si risentiranno i testimoni. Ma la storia di Matteo Farina è già un fenomeno straordinario, tra i fedeli. Un’associazione a suo nome, gruppi di preghiera, un sito internet, profili su Facebook e Instagram, la Via Crucis con i suoi testi nella parrocchia di San Lorenzo, a Brindisi. Moltiplicata sui social network - con l’hashtag #matteodonodidio -, si diffonde la fama di santità per «una vita breve ma impeccabile ed eccellente», la vita di un ragazzo nato in una famiglia profondamente credente per il quale «la fede è aggrapparsi a Dio per diffondere la sua Parola» e che di sé scriveva: «Spero di riuscire a realizzare la mia missione di “infiltrato” tra i giovani, parlando loro di Dio (illuminato proprio da Lui); osservo chi mi sta intorno, per entrare tra loro silenzioso come un virus e contagiarli di una malattia senza cura, l’Amore!». Il senso dell’amicizia, il carattere aperto, «la pura offerta di sé». La postulatrice della causa, Francesca Consolini, ricorda una frase: «Vorresti gridare al mondo che faresti tutto per il tuo Salvatore, che sei pronto a soffrire per la salvezza delle anime, a morire per Lui». Alla sorella disse: «Sorridi Erika, preghiamo con gioia, i cristiani sorridono sempre, sorridi». Gli ultimi giorni Matteo Farina non poteva più parlare. «Alla domanda della mamma di offrire la sua grande sofferenza per la salvezza delle anime, fece cenno di sì con la testa e con gli occhi».

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LA STAMPA Dallo Ior alla pedofilia le nuove sfide di Francesco di Andrea Tornielli A 4 anni dalla sua elezione restano ostacoli sul percorso del Pontefice A quattro anni da quel «buonasera» con il quale si presentò dalla loggia di San Pietro Papa Bergoglio continua a richiamare all'accoglienza, alla misericordia e si prepara ad affrontare un'impegnativa agenda di viaggi con mete quali l'Egitto, la Colombia, l'India, il Bangladesh e il Sud Sudan. In Vaticano il cantiere delle riforme chieste a gran voce dai cardinali nelle congregazioni pre-conclave, rimane aperto. Molti si domandano: ce la farà Francesco? Alcuni, ragionando nell'ottica dei business-plan aziendali, prevedono di no. Lo scorso dicembre, parlando alla Curia, il Papa ha elencato tutti i «passi compiuti» nelle riforme, elencandone 19. Ben 9 riforme riguardano le strutture economico-finanziarie, 6 le strutture curiali, 2 la lotta alla pedofilia. Trasparenza finanziaria - Lo Ior, la «banca vaticana», è stata risanata e i correntisti vagliati. Per razionalizzare le spese e gli appalti è stata creata la Segreteria per l'Economia che avrebbe inizialmente dovuto sia gestire parte del patrimonio dell'Apsa sia controllare la correttezza della sua stessa gestione. Negli anni sono stati applicati dei correttivi per far tornare separati chi gestisce e chi controlla, e i poteri della Segreteria sono stati ridimensionati. È stata anche ridimensionato da Francesco il sogno di chi voleva trasformare lo Ior in una banca d'affari. Nella fase iniziale delle riforme si sono sprecati gli incarichi a società di consulenza internazionali McKinsey, Promontory, Erns Young, Kpmg. Oltretevere si sono registrati malumori per il modo con cui il cardinale prefetto per l' Economia George Pell ha agito, presentandosi come il «manager della Santa Sede». E nelle prime fasi ogni obiezione di metodo è stata frettolosamente bollata come «resistenze alla riforma». Una Curia più snella - Più lento appare il percorso di riforma delle congregazioni e degli uffici curiali. Per snellire senza licenziare si è provveduto ad accorpare, facendo nascere due nuovi grandi dicasteri al posto dei sette precedenti: uno per i «Laici, la famiglia e la vita», e un altro «per il Servizio dello Sviluppo umano integrale». Intanto è attesa per Pasqua la nascita del nuovo portale web unico per tutti i media vaticani, unificati nella Segreteria per la comunicazione. Tra le decisioni più dolorose e discusse, la fine delle trasmissioni in onde corte di Radio Vaticana in Africa, da sostituire con speciali tecnologie semplificate per gli smartphone. Le piccole vittime - Deciso a continuare nella linea intrapresa da Benedetto XVI per contrastare i crimini della pedofilia, Papa Bergoglio ha istituito la Commissione per la Tutela dei Minori, perché offra indicazioni e suggerimenti. Ha poi stabilito l'imputabilità per i vescovi negligenti che non siano intervenuti per impedire ai preti pedofili di nuocere ancora. Già due ex vittime hanno però lasciato la commissione. L'ultima, Marie Collins, l'ha fatto in polemica con alcuni atteggiamenti della Curia denunciando mancanza di collaborazione. Processi per la nullità - La riforma che più ha toccato la vita della gente comune riguarda i processi di nullità matrimoniale, che il Papa ha voluto rendere più snelli, più celeri, gratuiti e più accessibili, permettendo ad ogni vescovo di istituire un proprio tribunale. Inoltre, con l'esortazione Amoris laetitia, che muove un passo verso divorziati risposati e conviventi, Francesco chiede più accoglienza e accompagnamento. Il documento ha provocato un dibattito ancora aperto dopo la presentazione dei famosi «dubia» di quattro cardinali. Malumori e slogan - La resistenza al Papa si è fatta agguerrita e ben organizzata, soprattutto sul web, dove si leggono aspre critiche verso le parole di Francesco sui poveri, i migranti, l'accoglienza e la misericordia. D'altra parte anche tra i convinti sostenitori del Pontefice fuori e dentro il Vaticano non si è evitato il rischio di ridurre il suo messaggio a slogan, quasi che il Papa fosse un brand da utilizzare per risollevare l'immagine della Chiesa. «Quando vengo idealizzato mi sento aggredito», ripete Bergoglio. Il popolo dei fedeli e anche molti dei «lontani», poco o nulla interessati a certi dibattiti autoreferenziali, continua intanto a guardare con interesse e simpatia alla testimonianza di Francesco. LA NUOVA

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Pag 17 Oscar Romero arcivescovo verso la canonizzazione di Francesco Ruffato Il 24 marzo ricorre la venticinquesima giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. Sono moltissimi. Tra questi campeggia Monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador (El Salvador). Fu assassinato 37 anni fa (24 marzo 1980,ore 18,45), mentre celebrava la messa, da un sicario di Roberto d’Aubisson, esponente del Fronte armato anticomunista. Fu beatificato il 23 maggio 2015 a San Salvador e ora si parla di canonizzazione: dichiarazione di santità. Il postulatore della causa, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, informa che è documentato, per intercessione del beato Romero, un presunto miracolo. Si tratta di una inspiegabile guarigione: «Una donna del Salvador alla sua settima gravidanza rischiava, per una gravissima complicazione, di morire lei e il bambino. Le preghiere di moltissime persone per ottenere l’intercessione del beato Romero furono efficaci: la mamma partorì il bambino sano e salvo. I medici lo considerano un miracolo. Il processo creato per la verifica si è concluso con la dichiarazione per un evento straordinario, inspiegabile clinicamente. Manca ora il giudizio positivo della Congregazione delle cause dei santi che affiderà il tutto all’esame di una Commissione di teologi esperti. La dichiarazione ufficiale della santità di Romero potrebbe riportare pace nel suo Paese, in cui, afferma il Postulatore Paglia, «ci sono ancora sacche di resistenza per quanto riguarda la sua memoria». Recentemente altri fatti prodigiosi, senza spiegazioni umane, sono stati registrati e attribuiti all’intercessione di Romero. Provengono dal Panama, dove avrà luogo la prossima Giornata mondiale della gioventù (2018). Ho l’età per ricordare il drammatico finale del discorso di Monsignor Romero, domenica 23 marzo 1980: «Rivolgo un appello agli uomini dell’esercito, in particolare alle truppe della Guardia Nacional, della Polizia e delle caserme. Fratelli fate parte del nostro popolo. Voi uccidete i vostri fratelli e sorelle contadini. Davanti all’ordine di uccidere, dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: Non uccidere… In nome di Dio, in nome delle persone che soffrono (…) vi prego, vi scongiuro, vi ordino: deponete le armi, fate cessare la repressione». Il giorno dopo lo assassinarono. Aveva 62 anni. Nel 1983 Giovanni Paolo II visita El Salvador. Contro ogni protocollo, il Papa entra nella cattedrale, chiusa per ordine del governo, e si inginocchia davanti alla tomba di Romero. Alzandosi dice: «Romero è nostro». Benedetto XVI a un giornalista in viaggio verso il Brasile nel 2007 ha detto: «Romero era certamente un grande testimone della fede, un uomo di grandi virtù cristiane, che si è impegnato per la pace e contro la dittatura. C’era il problema che una parte politica voleva prendere la figura di Romero per sé come bandiera, ingiustamente. Non dubito che Romero meriti la beatificazione». La sua testimonianza è radicalmente evangelica e chiede di essere compresa in tutta la sua forza. Non a caso Papa Francesco, nel ricevere i vescovi salvadoregni dopo la beatificazione, ha parlato di un “martirio anche post mortem”, per le opposizioni al suo riconoscimento da parte di alcuni vescovi e sacerdoti. Questo suona scandalo in sede civile ed ecclesiastica. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Ce la farà Papa Francesco? di Gianni Valente L’ultima puntata dell’analisi. C’è chi ha già scritto il finale prevedendo il fallimento delle

riforme. Ma queste previsioni non fanno i conti con il vero sguardo del Papa e con il fatto che le cose non dipendono (troppo) da lui

Ce la farà, Papa Francesco? Se lo chiedono, a volte, anche alcuni tra i tanti che guardano con gratitudine al suo ministero quotidiano. Tra speranza e trepidazione, senza risposte scontate, affidano a un sospiro di preghiera anche il desiderio di un tempo di cammino disteso e prolungato, da vivere in compagnia di un Papa che aiuti tutti a riscoprire e assaporare giorno per giorno l’autentica natura della Chiesa. Quella di una «madre feconda» che vive solo della «confortante gioia di annunciare il Vangelo», secondo l’immagine usata dal cardinale Bergoglio nel suo intervento alle Congregazioni generali, prima del conclave. Lo stesso quesito - posto con tono incalzante, condito magari da sorrisetti irrisori, o con pose da analisti distaccati – è diventato ormai il mantra da cui prendono le mosse quasi tutte le considerazioni sul papato in corso d’opera provenienti

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da monsignori praticoni e da frotte di operatori del mainstream mediatico-culturale impegnati sul fronte vaticano. Il metro mondano-aziendalista - Le due prospettive di sguardo da cui viene posta la domanda prefigurano scenari diversi. Le digressioni mediatiche sul futuro delle riforme avviate sotto Papa Bergoglio di solito non tengono in conto la natura propria della Chiesa come criterio guida per giudicare le singole scelte compiute, gli obiettivi auspicati e la prospettiva di fondo. Si applicano meccanicamente al Papa le categorie e i criteri di giudizio riservati agli amministratori delegati assunti per risanare le mega-aziende decotte. Così, il pontificato viene descritto come una forsennata corsa a ostacoli, cadenzata dai successi «folgoranti», dalle frenate obbligate e dai fallimenti «avvilenti» del Papa global manager. Il metro mondano-aziendalista utilizzato per leggere gli anni di Papa Francesco – quelli passati, e quelli che il Signore vorrà ancora donarci – lascia poco scampo. La frenesia di valutare rendimenti e dividendi delle singole operazioni toglie letteralmente il respiro. La narrazione del «Papa-eroe solitario» - La riforma raccontata come impresa del Papa-eroe solitario contro i mali della Chiesa sembra costruita apposta per sboccare nel finale non lieto del proprio naufragio. Alla mercè dei sabotatori che esultano a ogni intoppo, seminando divisioni e dubia tra il popolo di Dio (per poi dire che il popolo di Dio è diviso e dubbioso). Appesantita dai narcisismi più o meno interessati di tutti gli aspiranti contributors, che spacciano come sostegno alle riforme di Bergoglio i libri sulle orge dei preti, o spettacolarizzano anche la lotta alla pedofilia e la carità per i senza tetto. Gli stessi che oggi sono intenti ad alzare ogni giorno l’asticella delle performance richieste al Papa ottuagenario, potrebbero presto tirar fuori l’armamentario dei luoghi comuni sul Papa «riformista» che perde colpi e che «inizia a deludere». I seriosi commentatori avvezzi a raccontare la Chiesa come un gioco di palazzo a squadre, forse hanno già pronto l’editoriale in cui narreranno del Papa Don Quijote che non ce l’ha fatta, e ha perso la sua battaglia contro i mulini a vento (della Curia, dei cardinaloni, dell’oscurantismo clericale, delle lobby finanziarie et cetera). Quale riforma interessa a Francesco? - Messa così, Papa Francesco non ce la può fare. Nonostante tutte le trovate a effetto per rendere la sua presenza «virale» sui social, la riforma di marca mondano-aziendalista che gli affibbiano come prova obbligata per entrare nella Hall of fame dei superleader globali appare fuori dalla portata. E in realtà, non è detto che gli interessi. Magari, a tener conto delle cose che dice, l’eventuale riuscita di una riforma così concepita e realizzata potrebbe anche apparirgli come una iattura. La riforma, così come viene delineata da tanti analisti di questioni vaticane – e in verità, persino in qualche documento «programmatico» - rimane di fatto un processo di ristrutturazione di apparati e procedure, secondo criteri di efficienza funzionale. Accredita l’immagine di una Chiesa che cambia e si ri-fonda per forza propria, per processi di auto-cosmesi ecclesiale ricalcati sui format in uso negli uffici di gestione risorse umane, al netto di qualche fervorino posticcio sulla «conversione missionaria voluta da Papa Francesco». Mentre a chi lo ascolta davvero, l’attuale Successore di Pietro ha voluto suggerire in tutti modi che le autentiche riforme ecclesiali attingono da un’altra sorgente, e vengono mosse da altri intenti. Le riforme per la salvezza delle anime - Già prima del conclave, nel breve discorso rivolto ai colleghi cardinali durante le Congregazioni generali, l’allora arcivescovo di Buenos Aires aveva identificato proprio l’auto-referenzialità come malattia della Chiesa, insieme al «narcisismo teologico». E aveva aggiunto che proprio l’affrancamento dall’immagine di Chiesa mondana e auto-sufficiente, «che vive in se e per se stessa», avrebbe potuto suggerire le possibili riforme «che devono essere fatte per la salvezza delle anime». Già il domenicano Yves Congar, grande teologo del Concilio, constatava che «Le riforme riuscite nella Chiesa sono quelle che si sono fatte in funzione dei bisogni concreti delle anime». Anche il Concilio Vaticano II aveva proposto e approvato le riforme nel desiderio che la luce di Cristo brillasse con più trasparenza sul volto della sua Chiesa: si trattava di togliere ostacoli e inutili zavorre, anche cambiando istituzioni e prassi, solo per far risaltare che la Chiesa «non possiede altra vita se non quella della grazia» (Paolo VI, «Credo del Popolo di Dio»). Uno sguardo alla storia - Lungo questa via si sono mossi in passato i tentativi di riforma ecclesiale più efficaci nel rendere più semplice la vita cristiana a tutti i fedeli. Quelli disposti a lasciare le porte aperte all’operare della grazia di Cristo, senza declassarla a

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formula ornamentale dei pronunciamenti clericali. In altre occasioni storiche, quando ha prevalso l’impulso a «costruire» o riformare la Chiesa immaginandola come entità auto-fondante, in grado di affermare da sé la propria strutturata rilevanza nelle vicende del mondo, anche i riformismi ecclesiali sono potuti degenerare in nuovi trionfalismi auto-compiaciuti, come mostra la storia della Chiesa almeno da Gregorio VII in poi. Trionfalismi e clericalismi di vecchio e nuovo conio possono apparire differenti o addirittura contrapposti, ma hanno tutti una radice comune: per i trionfalisti e i clericali di ogni risma, la Chiesa non vive come riflesso della presenza di Cristo (che la edifica istante per istante con il dono del Suo Spirito) ma si concepisce come realtà materialmente e religiosamente impegnata a realizzare da sé stessa la propria rilevanza nella storia. Dove guarda il Papa - Anche per i percorsi di riforma ecclesiale avviati sotto Papa Francesco si aprono due possibili strade: quella mondano-aziendalista – imboccata per impulsi inerziali e quasi meccanici dagli apparati - e quella che non si consegna alle procedure di ingegneria istituzionale, che lascia aperte le porte all’operare efficace e storico della grazia, e ha come sorgente effettiva la gioia del Vangelo, la «confortante allegria» di annunciare il Vangelo (Evangelii gaudium). La predicazione reale di Papa Francesco, i gesti da lui posti per suggerire a tutta la Chiesa la via della «conversione pastorale», lasciano intuire senza esitazioni da quale parte guarda l’attuale Successore di Pietro: mentre continua a confessarsi peccatore e «fallibile», non appare condizionato dall’angoscia di mietere in fretta successi da dare in pasto ai media e ai critici che biasimano la confusione dei troppi «cantieri aperti». Ha riconosciuto fin dall’inizio, e continua a confessarlo in ogni suo gesto, che le cose non dipendono da lui. Che il Signore primeréa, opera prima. Il destino delle attuali riforme - Le circostanze concrete del tempo vissuto nella Chiesa rendono facile riconoscere che anche il destino delle riforme «bergogliane» non dipende dalla scaltrezza di progetti e strategie, ma rimane sospeso alla grazia. Esso ha a che fare con gli anni di intenso lavoro che il Padreterno vorrà regalare a Papa Francesco. Dipende dai suoi successori, se avranno o meno la volontà di proseguire sulla stessa via o cambiare rotta; e dipende anche dall’eventualità che fioriscano nel mondo altri pastori, ognuno con la sua sensibilità e la sua storia, chiamati a dilatare per grazia il respiro di una Chiesa senza specchi, che non guarda se stessa, che non si curva sulle sue magagne. Ed esce da se stessa non per onorare gli slogan sulla «Chiesa in uscita», ma solo per andare incontro a Cristo, nei fratelli e soprattutto nei poveri. Per tutto questo, lo sguardo di Bergoglio può seguire il cammino delle riforme con pazienza e senza angosce, rimanendo fedele al principio – tante volte da lui riproposto – che «il tempo è superiore allo spazio», e conviene avviare e accompagnare i processi, piuttosto che occupare posizioni. Una possibilità per tutti di aiutarlo - Intanto, mentre anche sacerdoti e monsignori levano invocazioni per chiedere la sua rapida scomparsa terrena, tutti quelli che vogliono bene a Papa Francesco, e lo vogliono aiutare, possono approfittare di una chance a portata di mano per tutti: quella di prenderlo sul serio, quando chiede – e lo fa con tutti - di pregare per lui. (Maria, Madre di misericordia, a lui pensaci tu). Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 39 Riapre il teatro liberty dedicato a Lino Toffolo di Giuseppe Barbanti Ultimato il restauro del “gioiellino” decorato da Zecchin Dopo l’ex Ponte Longo, anche il Teatro della Parrocchia di San Pietro di Murano, di cui è stato appena ultimato il restauro, sarà intitolato a Lino Toffolo. Venerdì sera l’inaugurazione. La vita dello scomparso attore e autore muranese è infatti strettamente legata a questo spazio, che aprì i battenti nel lontano 1912. Un teatro in stile liberty voluto dall’allora parroco di San Pietro, don Bertanza: la parte murale e architettonica fu affidata all’ingegner Paolo Bertanza, mentre Vittorio Zecchin, artista, pittore, designer muranese curò la decorazione del palcoscenico restituita ora in parte all’originario

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splendore dal restauro curato da Gina Schiavon e un altro pittore Dino Martens disegno il bellissimo sipario stile liberty andato perduto. La vivacità della vita culturale a Murano ancora nella prima metà del ‘900 è documentata dalla presenza di ben 6 filodrammatiche: ma vi venivano proposte anche opere liriche, concerti e recite scolastiche. Nel dopoguerra il Teatro venne usato anche come cinema parrocchiale sino alla chiusura negli anni Sessanta. Nel 1973 fu proprio Lino Toffolo a lanciare la proposta di risistemare il teatro, rendendolo nuovamente agibile e restituendo alla comunità muranese uno spazio destinato ad ospitare in maniera continuativa lo spettacolo dal vivo: in molti muranesi aderirono subito con entusiasmo e il teatro fu ridipinto, l’impiantistica sistemata con la conseguente riapertura al pubblico con la messa in scena de “I rusteghi”. Per decenni la Compagnia Teatrale Muranese ha mantenuto il teatro vivo e ospitale, proponendo i suoi spettacoli e organizzandovi rassegne di teatro amatoriale sino a una nuova chiusura dovuta alla necessità di mettere a norma lo spazio. Grazie all’entusiasmo dei parroci succedutisi nel tempo, don Nandino Capovilla e poi, da quando c’è un unico sacerdote ai vertici delle due parrocchie dell’isola, don Carlo Gusso e don Alessandro Rosin, più di una decina di anni fa partirono sempre con il coinvolgimento di Lino Toffolo e della Compagnia Teatrale Muranese, il cui impegno è sempre stato fondamentale, i lavori che sono giunti a compimento in questi mesi. Dopo molti anni, come era accaduto nel 1973, il Teatro è stato nuovamente ristrutturato ed adeguato alle normative grazie all'aiuto dei maestri vetrai dell'isola, a molti amici e al Comune. I primi lavori poterono iniziare grazie al ricavato dalla vendita di alcune opere donate dai maestri vetrai muranesi. Fra gli attori che vedremo nei prossimi giorni in scena in “Sior Todero brontolon”, in una riduzione contenuta nell’arco di un’ora e un quarto, di cui Lino Toffolo è stato a più riprese interprete una decina di anni fa, alcuni sono coinvolti nella difesa del Teatro ora intitolato a Lino Toffolo dagli anni Settanta. Ad alternarsi sul palco troveremo Gianluigi Bertola, Alex Bonora, Mario D'Alpaos, Maddalena Donà, Evi Ferro, Beatrice Marchetti, Mary Moretti, Lucia Nason, Beppe Ragazzi, Noemi Schiavon, Andrea Tosi e Paolo Zaniol. Già dal prossimo autunno il Teatro Lino Toffolo presenterà la sua programmazione per l’annata 2017/2018: sarà un cartellone curato dalla Compagnia Teatrale Muranese, con spettacoli selezionati di prosa, musica e danza, aperto a tutto il nuovo pubblico. Serata inaugurale per il rinnovato teatro della Parrocchia di S. Pietro di Murano intitolato a Lino Toffolo. Venerdì 17 marzo alle 21 va in scena nella riduzione in atto unico dello stesso Toffolo il “Sior Todero Brontolon” di Carlo Goldoni nell’allestimento della Compagnia Teatrale Muranese: gradito il papillon, nel solco di un vezzo caro all’indimenticabile Lino. Lo spettacolo viene replicato sabato 18 alle 21 e domenica 19 alle 16. Biglietto Euro 12.Prevendita presso il teatro giovedì 16 dalle 17 alle 18.30, o un’ora prima. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Legittima difesa, cambio di rotta di Massimiliano Melilli Dopo il caso Birolo In principio fu il caso Stacchio. 7 giugno 2016: archiviata la posizione di Graziano, il benzinaio di Ponte di Nanto che la sera del 3 febbraio 2015 - secondo i giudici - sparò esclusivamente per proteggere la commessa dell’oreficeria dell’amico Robertino Zancan e se stesso. Ma nelle ultime 48 ore altre due sentenze fra Lombardia e Veneto fanno giurisprudenza e invitano alla riflessione. Sparò ad un rapinatore, pluripregiudicato albanese, per difendere la famiglia, uccidendolo. Per questo motivo Rodolfo Corazzo, gioielliere di Rodano, nel Milanese, era finito sotto indagine. L’accusa: eccesso colposo di legittima difesa. A quasi un anno e mezzo di distanza dall’episodio, l’inchiesta è stata archiviata. Ancora. La Corte d’appello di Venezia ha assolto Franco Birolo, il tabaccaio di Civè di Correzzola che nella notte del 25 aprile 2012 uccise con un colpo di pistola il moldavo Igor Ursu durante un furto nella sua tabaccheria. Ribaltata così la sentenza di

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primo grado che aveva invece condannato Birolo a 2 anni e 8 mesi di carcere (e 325 mila euro di risarcimento ai parenti della vittima), ritenendolo colpevole di eccesso di legittima difesa. Qualcosa è cambiato. Se da un lato è vero che ci muoviamo sul labile confine tra legittima difesa ed eccesso di difesa, dall’altro, anche secondo gli stessi giudici, appare sempre più un diritto insindacabile, in circostanze di reale pericolo, proteggere la propria vita e quella dei familiari. Vite stravolte, comunque. In tutti i casi di rapine finite nel sangue, con l’omicidio di uno o più malviventi, facciamo i conti con il dramma di uomini che sorprendono un ladro in casa o nell’ attività commerciale di proprietà e gli spara. E’ il dramma del benzinaio Graziano Stacchio, del gioielliere Rodolfo Corazzo, del tabaccaio Franco Birolo. Segue lungo elenco di altri casi. C’è un passaggio emblematico nell’intervista al Corriere del Veneto rilasciata dal Pg Antonino Condorelli sul caso Birolo: «Era certo che la sua vita e quella dei suoi familiari fossero in pericolo e c’erano diversi fattori che hanno contribuito a trarlo in inganno. In un caso del genere, la condotta non è sanzionabile». La stessa Chiesa è intervenuta più volte a margine del caso Birolo. Il patriarca di Venezia Moraglia: «Un diritto la legittima difesa. Casi complessi, i giudici valutino bene». Monsignor Tessarollo, vescovo di Chioggia: «Un padre deve difendere la casa». Il diritto alla difesa è sacrosanto, anche con mezzi estremi, purché vi sia un pericolo concreto di aggressione. Altrimenti, sia chiaro, se io cittadino-commerciante-artigiano sparo al ladro, ma alle spalle, magari a sangue freddo, è omicidio da Far West non più legittima difesa. Pag 7 L’impiegata si ammala, 173 colleghi le regalano un anno e mezzo di ferie di Andrea Priante Vicentina colpita da aneurisma, rischiava di restare senza stipendio Dueville (Vicenza) - «Mi hanno stupito». E a 78 anni, un passato come presidente del Padova Calcio e, prima ancora, come patron di un Basket Famila Schio che gli portò in dote otto Scudetti, nove Coppe Italia e sette Supercoppe Italiane, l’imprenditore vicentino Marcello Cestaro non è tipo da sorprendersi facilmente. «Ma stavolta i miei ragazzi sono stati davvero bravi». I «ragazzi» sono i quasi duecento dipendenti della Unicomm di Dueville – l’azienda di cui è proprietario assieme al fratello Mario - e in palio non c’erano trofei ma qualcosa di molto più importante. La storia è quella di Roberta (il nome è di fantasia), una loro collega quarantenne impiegata nel settore acquisti. Il primo giugno dello scorso anno, mentre è in ufficio ha un malore. «Non ci vedo bene, mi sento male», dice. Gli altri la soccorrono ma è già tardi. «Aneurisma», spiegano i medici. Roberta entra in coma e subisce un delicato intervento chirurgico. Si aggrappa alla vita con le unghie, con quella forza che solo le mamme come lei riescono a tirare fuori. E infatti ce la fa. «Ma ora deve ripartire», spiega una collega. Non è facile: la riabilitazione è un percorso difficile e, soprattutto, molto lento. «Ci vuole pazienza», le raccomandano gli specialisti. E così deve ricominciare a lottare, dentro e fuori le cliniche ma sempre sorretta dal marito che la protegge anche adesso, a distanza di mesi. Intanto, la scrivania dell’Unicomm sembra sempre più lontana. I colleghi l’aspettano ma tornare in ufficio è impossibile: la priorità è quella di ristabilirsi, superando le conseguenze di quel maledetto aneurisma che l’ha colpita. Un passo alla volta, come dicono i dottori. E se dopo sei mesi ancora non si vede la fine del tunnel, non resta che mettersi l’animo in pace. Invece, a complicare le cose è proprio il lavoro: trascorsi sei mesi di malattia, i giorni di assenza retribuita stanno per esaurirsi. L’azienda fa quel che può per darle una mano e garantirle un’entrata economica: le concede prima i permessi, poi le ferie arretrate. Ma anche quelle sono destinate a finire presto e, visto che ancora la riabilitazione non è conclusa, Roberta rischia di ritrovarsi senza stipendio né contributi previdenziali. «Dovevamo trovare il modo di aiutarla, di offrirle un aiuto concreto, oltre che un sostegno morale», raccontano le colleghe del settore acquisti. Ma cosa si può fare? Una di loro legge sul giornale la storia di Nicole, la bimba di Marostica colpita da tetraparesi spastica e dei dipendenti della Brenta Pmc che a dicembre regalarono le ferie alla sua mamma per permetterle di starle accanto negli ultimi giorni di vita. Ecco l’idea: se quel sistema ha funzionato per quella donna, forse può aiutare anche Roberta. E allora le impiegate dell’Unicomm studiano la questione, si informano, e trovano la conferma in una norma inserita dal Jobs Act. Si chiamano «ferie solidali» e in pratica consentono, in casi particolari, di trasferire qualche giorno di vacanza in favore di

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colleghi. «Il gruppo ha sparso la voce, coinvolgendo quanti più dipendenti possibile - racconta Cestaro - e alla fine hanno aderito in 173, donando ciascuno un giorno di ferie. Si sono comportati come una grande famiglia, sono molto orgoglioso di loro». Il regalo all’impiegata malata prende la forma di 2.272 ore di congedo retribuito. Per chi, come Roberta, ha un contratto part-time, significa un anno e mezzo di stipendio assicurato. «Sono convinto che tornerà a stare bene prima della scadenza ma in caso contrario l’azienda studierà il modo di venirle incontro», assicura il titolare. La storia della mamma malata e dei lavoratori che hanno rinunciato a una fetta delle loro vacanze per aiutarla, ha fatto scalpore. «È un gesto spontaneo - raccontano all’Unicomm - e magari servirà d’esempio ad altre aziende, perché ci sono molte persone che si trovano a vivere gli stessi tormenti che sta affrontando la nostra collega». Anche Michela Lorenzin, la madre della piccola Nicole, è commossa: «Sono felice che la vicenda che ha riguardato la mia bambina abbia suggerito come aiutare un’altra donna in difficoltà. Anche ora che è diventata un angioletto, la mia Nicole continua a seminare felicità». IL GAZZETTINO Pag 6 Velo e lavoro: “Qui i divieti non servono” di Mattia Zanardo Dopo la sentenza europea le imprese del Nordest si interrogano sul copricapo islamico Le imprese del Nordest non tolgono il velo. E non tanto per una questione di principio, ma perché quello dei copricapi islamici femminili o di altri segni religiosi non è problema all'ordine del giorno. Così la sentenza della Corte di giustizia europea, che ha respinto il ricorso di due donne mussulmane in Francia e in Belgio, licenziate per non aver voluto togliersi il velo, delinea un orizzonte ancora piuttosto lontano da queste latitudini. Nei due stabilimenti di Castelfranco e Resana (Treviso) della Global Garden Products, multinazionale tra i principali produttori europei di tagliaerba e altri apparecchi per giardinaggio, al picco stagionale lavorano complessivamente circa 550 operai. La metà circa sono stranieri, moltissimi originari del Maghreb e dall'Africa Centrale. E una larga parte sono di fede mussulmana. Tanto che, qualche anno fa, l'azienda ha allestito, per loro, in un locale interno una piccola sala di preghiera. «I dipendenti si fermavano a pregare dove capitava e così abbiamo voluto dare loro uno spazio adeguato spiega il responsabile delle risorse umane Massimo Bottacin . Abbiamo sempre affrontato eventuali questioni relative ai nostri lavoratori islamici in modo molto sereno e pragmatico. Ad esempio, riguardo alle limitazioni alla dieta, abbiamo previsto una maggiore varietà nei menu. Quello del velo però è un problema che non abbiamo mai dovuto affrontare, né che ci è mai stato posto, forse anche perché, in maggioranza, i nostri addetti sono uomini». E se un domani un'operaia volesse tenere il capo coperto con il tradizionale foulard? «Come azienda risponde Bottacin forniamo degli indumenti di lavoro ai dipendenti. Qualora volesse indossarlo e non contrasti con le prescrizioni di sicurezza o con lo svolgimento delle mansioni produttive, non vedo perché dovrebbe riguardarci». Si dirà: metalmeccanico, attività fortemente maschile, per giunta svolta al chiuso di una fabbrica, ovvio che la questione abbia scarsa rilevanza. Puntiamo allora al settore socio-sanitario, ad altissima concentrazione di occupazione femminile, spesso anche immigrata, e a diretto contatto con il pubblico. Insieme si può è una delle maggiori cooperative sociali del Veneto. Conta 1.350 soci-lavoratori, di cui le donne rappresentano il 96%. Tra queste, 282 hanno 33 nazionalità diverse da quella italiana. «C'è una sola nostra socia che indossa lo hijab (il velo che lascia scoperto il volto, ndr.) spiega la presidente Paola Pagotto . Non abbiamo mai riscontrato problemi né dai colleghi, né dagli utenti o dai loro familiari. Se in futuro dovessero manifestarsi, regolamenteremo anche questo aspetto, partendo da una posizione di buon senso, così come abbiamo fatto, ad esempio, per la necessità di adottare un abbigliamento dignitoso e professionale. In effetti sorride la presidente, finora più che chiedere di scoprirsi, alle volte c'è stata l'esigenza di coprirsi un po' di più». C'è chi vorrebbe vietare il velo per legge: «Più che proibire per legge osserva Pagotto sarebbe importante che l'azienda potesse regolarne al suo interno l'uso. Noi siamo una coop di ispirazione cristiana, nel mio ufficio è appeso un crocefisso, ma non ritengo debba esser imposta né l'adozione, né l'eliminazione di un simbolo religioso ad alcuno».

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Venezia. Se la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha legittimato il divieto di indossare il velo islamico sul posto di lavoro, perché non possono farlo anche l'Italia e il Veneto? È la domanda che sostanzialmente pone Alberto Villanova, consigliere regionale di Zaia Presidente e promotore di due iniziative in tal senso, una rivolta al parlamento nazionale e l'altra alla stessa Regione. Ma mentre la proposta statale di proibire burqa e niqab rischia di rimanere sulla carta, quella veneta sembra avere qualche possibilità in più, visto fra l'altro che in commissione Affari Istituzionali era stata approvata a larghissima maggioranza (un solo astenuto). «Se la legge nazionale deve seguire il suo iter afferma Villanova noi possiamo già intervenire ora, regolamentando l'accesso alle nostre sedi e agli ospedali: rispetto la fede e il credo altrui, ma pretendo anche che vengano garantite condizioni di sicurezza a tutti. Di questi tempi, celare il volto con l'uso del velo islamico può creare disagio e insicurezza. Come Regione non possiamo sostituirci al legislatore nazionale nella materia, tuttavia abbiamo un buon margine d'azione per quanto riguarda le nostre strutture». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 C’è il vuoto (ma non sia una resa) di Antonio Polito Chi tira a campare? Tirare a campare no, Gentiloni ha detto che non intende farlo. Ma scegliendo quella metafora al nostro presidente del Consiglio sicuramente non è sfuggita l’eco della postilla che sempre vi aggiungeva Giulio Andreotti: tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia. Se il premier si sente stretto in questa alternativa così classicamente da Prima Repubblica, come in un qualsiasi governo a guida democristiana del tempo che fu, ha le sue ragioni. La lunga crisi del Pd, che cova da mesi sotto le ceneri referendarie del governo Renzi ma che forse era cominciata da molto prima, sta esportando instabilità in tutto il sistema. Ieri Gentiloni ha respinto l’attacco esterno portatogli dal Movimento Cinque Stelle, che facendo cadere Lotti avrebbe fatto cadere l’intero Gabinetto e forse messo fine alla legislatura. Ma che accadrà quando un ben più infido attacco sarà portato dal gruppo bersaniano di Mdp? Gli scissionisti, infatti, seppure con zoppicante logica, non hanno votato ieri la mozione di sfiducia dei Cinquestelle ma vogliono ugualmente le dimissioni di Lotti, e hanno depositato una mozione in cui chiedono che Gentiloni gli ritiri le deleghe. Se fosse calendarizzata, rischierebbe di raccogliere più consensi di quella bocciata ieri: una vera e propria trappola ad orologeria. Per una strana congiuntura, il governo Gentiloni è apparso prima come la mera prosecuzione del renzismo sotto altra forma, e poi invece è diventato la bandiera degli oppositori di Renzi. Gli oppositori di Renzi, sia fuoriusciti sia rimasti, i quali giuravano di volerlo difendere dalle manovre per ottenere le elezioni anticipate. Ma in realtà né ai renziani né agli anti renziani sembra importare davvero della sua sorte, concentrati come sono entrambi a prendere la migliore posizione di partenza di questa nuova, lunghissima, estenuante campagna elettorale, prima per le primarie pd e poi per il Parlamento, che è cominciata dopo quella già infinita del referendum. È presumibile che Gentiloni ballerà davvero quando a ottobre dovrà varare la legge di Stabilità. Tutti la vorranno più simile a un programma elettorale che a un programma di governo. E questo il premier non potrà permetterlo, perché l’Italia non può permettersi un anno e più di stallo, dal dicembre dello scorso anno al febbraio del prossimo. Perciò Gentiloni ha avvertito il pericolo del tirare a campare. La sua preoccupazione è pienamente giustificata. C’è solo da sperare che si comporti di conseguenza. Oggi il governo è forse il solo punto fermo della vicenda politica italiana, e del vuoto su cui è nato dovrebbe piuttosto fare un punto di forza, per affrontare le scelte, numerose e difficili, che urgono. La prima, quella forse più complicata, è la legge elettorale. Già era discutibile rinviarla a dopo la decisione della Consulta, visto che l’Italicum era condannato da mesi; poi è stato solo furbo rinviarla a dopo la pubblicazione della sentenza. Ma adesso è insostenibile l’argomento che bisogna aspettare le primarie del Pd. È un modo di ammettere, oltre ogni pudore, che in Italia le leggi elettorali si fanno ormai in aperto ossequio alle

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convenienze politiche del momento. Una prassi sciagurata, che già stiamo pagando a caro prezzo. LA REPUBBLICA Pag 1 La diga olandese di Bernardo Valli La diga olandese ha funzionato. Ha tenuto. La temuta ondata populista, islamofoba ed euroscettica, non si è abbattuta sui Paesi Bassi, rimasti fedeli alla tradizione cosmopolita e permissiva. I partiti democratici hanno conquistato la stragrande maggioranza dei 150 seggi del Parlamento. Ma la viscerale avversione per lo straniero non è stata estirpata del tutto dal voto di ieri. Serpeggia nelle vecchie Province Unite, come nel resto dell'Europa. Il sentimento xenofobo non ha prevalso, ma non è diminuito. Anzi è cresciuto, sia pure leggermente e non come sperava Geert Wilders. Il quale sarà deluso dopo le tante promesse dei sondaggi. Il tribuno xenofobo avrà più deputati, 19 invece di 15. Il suo partito (della Libertà) ne ha guadagnati un numero troppo sparuto per alimentare sogni di governo. Il suo avversario, il liberal-consevatore, Mark Rutte, lo ha sconfitto perché il suo partito sarà più presente in Parlamento. Ma dei 41 seggi che aveva nella precedente assemblea ne ha conservati soltanto 31. La distanza tra Rutte e Wilders si è accorciata. Wilders non parteciperà comunque al futuro governo, poiché nessuno lo vuole come partner, dovrà accontentarsi di vantare un più consistente numero di elettori. Non un successo, dunque, ma una speranza rivelatasi un'illusione. Per l'Olanda europeista è invece un segno di stabilità, perché i partiti che la difendono possono creare un loro governo. L'avanzata della sinistra ecologista contrapposta al modesto risultato dell'estrema destra è stato un fatto rilevante per l'Olanda e per l'Europa. Come è stata importante la grande affluenza, l' 82 per cento, che non ha favorito come si pensava l'estrema destra. Il biondo Geert Wilders, che nasconde sotto la capigliatura tinta i lineamenti ereditati da un'ascendenza indonesiana (da cui non sono escluse tracce musulmane) ha conservato, anzi rafforzato una base da cui difendere quella che chiama l'identità europea e cristiana. I forse vaghi legami con l'Asia non appartengono più alla sua memoria. L'Olanda è ospitale con gli uomini e con le idee. Ha accolto la Ragione: quando era perseguitata altrove. Le eccentricità non la turbano. La posizione di Wilders andrebbe riconosciuta come una libertà, se chi l'incarna non volesse chiudere le moschee, proibire il Corano e non chiamasse "canaglie" gli immigrati marocchini. Sull'elezione di ieri ha pesato la controversia tra l'Aia e Ankara. Il presidente turco prepara per il sedici aprile un referendum che dovrebbe conferirgli più poteri, e per questo ha bisogno anche dei suffragi dei turchi residenti all'estero. A questo fine ha mandato dei suoi ministri a tenere comizi nelle comunità turche in Europa. Il premier Mark Rutte ha impedito agli inviati di Erdogan di adempiere alla loro missione. Gli ha chiuso la porta in faccia. E Ankara ha reagito con una collera tale da far apparire il governo olandese un difensore della inviolabilità nazionale di fronte alla prepotenza dei turchi. Rutte ha svolto un compito gradito agli elettori sensibili ai richiami islamofobi di Wilders. Ed è probabile che gli abbia sottratto dei consensi. L'Europa esce rassicurata dal voto olandese. Ma non del tutto. L'elezione di ieri ha rinviato la partita ai prossimi appuntamenti. Il populismo non è dilagato nelle pettinate pianure strappate al mare per ospitarvi quanto di meglio la nostra civiltà europea abbia saputo dare. Ma l'elezione di metà marzo ha rivelato quanto esso sia radicato in un paese in cui tanti profughi hanno trovato una patria. L'affluenza alle urne, a Rotterdam, a Amsterdam, all'Aia, a Utrecht, nella ricamata Delft, doveva darci un segnale. Dopo un 2016 con forti accenti populisti, prima la Brexit e poi l'avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, volevamo sapere quel che ci riserva l'anno in corso, durante il quale sono in programma elezioni sia in Francia sia in Germania. La Francia vota tra poco più di un mese e le elezioni olandesi dovevano servire per misurare il livello populista in Europa. Ma Parigi non è l'Aia. Né è Berlino. L'esperienza populista continua. Pag 1 La mediocrità della politica di Stefano Folli La piccola pièce teatrale andata in scena ieri pomeriggio al Senato ha una caratteristica: nessuno fra i protagonisti e i comprimari è veramente colpevole, nessuno è veramente innocente. Il ministro dello Sport non meritava probabilmente la mozione di sfiducia, le

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cui ragioni sono tutte politiche, ma il quadretto da lui descritto per difendersi è un po' troppo candido per essere convincente. In fondo esistono riscontri non banali a sostegno delle accuse. La presunzione di innocenza è fuori discussione, ma non tutti i presunti innocenti sono ministri della Repubblica. E in ogni caso l'intera storia si è rivelata poco interessante, considerando l'esito parlamentare più che scontato. La mozione dei Cinque Stelle, destinata a non essere approvata, serviva unicamente a rappresentare il partito di Grillo come unica opposizione di fronte alla grande alleanza degli altri, dal Pd a Forza Italia. Tuttavia il gioco era troppo scoperto per essere efficace, anche solo sul piano mediatico; per giunta si è svolto nelle stesse ore in cui una certa patina di ridicolo si è distesa sul leader carismatico del M5S, per via del bizzarro sistema in stile "scatole cinesi" grazie al quale Grillo scinde le sue responsabilità personali da ciò che pubblica il famoso blog. In definitiva l'intera vicenda Lotti ha un retrogusto di mediocrità: una brutta rappresentazione della politica attuale, ma anche della cosiddetta anti-politica. Nessun pathos, fra gli accusatori non meno che fra i difensori. Abbastanza stucchevole l'argomento del diretto interessato, secondo cui tutto accade perché si vogliono colpire le fatidiche "riforme" di Renzi; imbevuti di manierismo i teoremi di chi ha chiesto la sfiducia. Ognuno ha recitato una parte, senza troppa convinzione. Ora spetterà alla magistratura approfondire l'inchiesta e valutare gli elementi sul tavolo, a cominciare dalle dichiarazioni dell'amministratore Consip, Marroni. Poi si vedrà. Nel frattempo l'istintivo realismo dell'opinione pubblica ha capito quel che c'era da capire. Forse nessuno ha commesso reati, ma certo la storia è tipicamente italiana: un intreccio di favori fatti e ricevuti, di promesse e di millanterie, di contatti obliqui all' interno di una cerchia ristretta, felice di aver conquistato il potere inteso come il forziere del tesoro. Chi ha motivo di rammaricarsi sono solo coloro che in passato si erano dimessi per situazioni analoghe a quelle in cui si è trovato impelagato Lotti. In un'epoca che sembra remota, Josefa Idem e Nunzia De Girolamo. In tempi più recenti, Maurizio Lupi e Federica Guidi. Allora s'invocò, con fondamento, l'opportunità politica per indurre gli interessati a fare il "passo indietro". Il garantismo sacrificato alla ragion di Stato: tutti e quattro, in momenti diversi, accettarono di lasciare le loro poltrone. Si disse che era stata fatta la cosa giusta per non lasciare un'ombra di sospetto sul governo e la maggioranza. E per non alimentare, neanche a dirlo, il mostro insaziabile del populismo. Adesso quegli argomenti vengono rovesciati nel loro esatto contrario. L'opportunità politica non vale quando si tratta di Lotti, per il quale mettono la mano sul fuoco sia il suo amico Renzi sia il premier Gentiloni. Si può capire: il ministro dello Sport è un personaggio strategico in un certo sistema di potere. La sua caduta avrebbe conseguenze non trascurabili nel momento in cui il governo è sulla rotta che conduce al 2018 e alla fine naturale della legislatura. Del resto, la conclusione parlamentare della vicenda non rafforza e non indebolisce Gentiloni. Semmai contribuisce a ingessarlo in vista dei prossimi mesi che saranno comunque difficili sotto l'aspetto politico ed economico. Lotti è un piccolo tassello in un affresco assai più vasto e drammatico. Ci sono il rapporto con l'Europa e una duplice manovra finanziaria da definire in tempi brevi. E c'è la partita a scacchi con i Cinque Stelle rimasta a metà. Il presidente del Consiglio sembra cercare una sua dimensione e un'identità che non coincida solo con la protesi del renzismo declinante. Su questo sentiero il caso Lotti val bene un pizzico di cinismo. AVVENIRE Pag 1 Luce sui “soldi” della politica di Danilo Paolini Caso Consip, una seconda lezione Abbiamo già sottolineato come le inchieste in corso a Napoli e a Roma sulla vicenda Consip abbiano fatto riemergere con prepotente evidenza il problema della riservatezza delle indagini e della pericolosità di certi cortocircuiti giudiziario-mediatici. Tanto che il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, aprendo i lavori del plenum la scorsa settimana, ha avvertito il dovere di ricordare come le fughe di notizie, in quel caso e in tutti gli altri, rischiano «di minare la credibilità degli organi inquirenti». Nello scorso fine settimana, al Lingotto di Torino, Stefano Graziano, dirigente del Pd prima indagato con grande clamore e dopo un anno scagionato non con altrettanto clamore, ha lanciato la proposta di rendere pubblici gli avvisi di garanzia soltanto dopo l’eventuale rinvio a giudizio. Può essere o meno una buona idea (e in

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alcune circostanze potrebbe forse non essere fattibile), ma sarebbe il caso di ragionarci seriamente sopra per tutelare gli indagati, le indagini stesse e – scusate se insistiamo tanto su questo termine forse fastidioso e desueto in tempi di giustizialismo galoppante – lo Stato di diritto. Ugualmente importante, anzi necessaria, sarebbe una riflessione su un altro aspetto riaffiorato per il tramite delle indagini sulla Consip: i finanziamenti da e per le fondazioni politiche. Nulla di illegale, almeno fino alla prova del contrario, ma in questo caso il nodo è politico. È vero, abbiamo visto che il finanziamento pubblico ai partiti non impedì l’esplosione di Tangentopoli. La sua abolizione ha però prodotto la diversificazione degli 'approvvigionamenti' sotto forma di rimborsi ai gruppi (pensiamo a quelli dei Consigli regionali, che appena qualche anno fa fecero gridare alla Rimborsopoli), ha condotto a quel meccanismo scarsamente popolare che è il 2 per mille che i cittadini possono destinare attraverso la dichiarazione dei redditi alla forza politica preferita e, infine, alla proliferazione delle fondazioni politiche. Queste ultime sono formalmente 'pensatoi' nati per sviluppare e far circolare idee vicine alle varie culture politiche esistenti nel nostro Paese. E nessuno nega che assolvano anche tale compito. Ma pure per far circolare idee servono soldi ed è già stato notato che negli ultimi anni questo genere di fondazioni è cresciuto di numero: secondo il sito specializzato Openpolis siamo ora a 65, soltanto 4 delle quali hanno messo nero su bianco i nomi dei propri finanziatori: per lo più, grandi gruppi industriali e bancari pubblici e privati. Tutte le altre non dicono da chi prendono soldi, né esiste l’obbligo di rendere noto l’importo delle donazioni. Viene naturale chiedersi se davvero si tratti di donazioni liberali e disinteressate e, anche, quanto ci sia di trasparente in una tale forma di finanziamento della politica. Sarebbe curioso, per esempio, sapere quanti tra i finanziatori di questo o quel think tank conservatore siano anche nell’elenco (segreto) dei contributori, o magari dei soci, di una delle tante fondazioni progressiste. O magari viceversa. Per non parlare poi degli effetti di questo fiorire di fondazioni sul male endemico della politica italiana, non scomparso nemmeno negli anni del bipolarismo: il frazionamento tra i partiti e all’interno dei partiti. Molti 'pensatoi' corrispondono ad aree o correnti di partito e, a voler essere maliziosi, si potrebbe pensare che fungano anche da salvadanai delle stesse. Che cosa c’è in tutto ciò di diverso, di migliore, di più chiaro rispetto al vecchio finanziamento pubblico ai partiti? È il caso di chiedersi se non valga la pena con estremo rigore, sobrietà, rendicontazioni accurate e vigilanza severa tornare indietro (ma già ci sembra di sentire alzarsi nelle piazze i cori 'anti-casta'...). O, almeno, decidersi a regolamentare davvero e seriamente il sistema di raccolta dei fondi privati. Altrimenti resta una terza possibilità: che tutti i partiti si dotino di un blog pieno di pubblicità e di annunci commerciali, espliciti o sotto forma di link a notizie «che potrebbero interessarti», rastrellando così a suon di clic i propri finanziamenti. Non è un’idea originale, ma pare – pare – che funzioni. Pag 2 Un po’ di buonsenso nel calcio “almeno a Pasqua” di Italo Cucci L’ipotesi di giocare una partita il 16 aprile. E le alternative La partita Roma-Atalanta è tanto delicata – non si sa se per le inquietudini di Spalletti e Totti o per la suprema e sacra serenitá del signor Gasperini – da esser programmata per domenica 16 aprile. Domenica di Pasqua. Ironia sprecata: dipenderebbe solo da meccanismi regolamentari male interpretati. Ovvero ignorando il buonsenso. Senza salire sul pulpito, né minacciando il fuoco eterno, si può affermare con serena fermezza che si tratta di una scelta sciocca in assoluto, offensiva per i cattolici che intendono ancora osservare non solo la tradizione bensì – per chi non lo sapesse, e non penso certo ai nostri lettori – il Precetto pasquale ch’è entrato nelle nostre menti fin da bambini quando abbiamo sentito dire dal prete o dai genitori “almeno a Pasqua”, traguardo consentito ai tiepidi o ai distratti per la Confessione e la Comunione. Possiamo allora dire ai calciatori “riposate almeno a Pasqua”? E se mai ci rispondessero “sono decisioni prese dai padroni” dovremmo rispolverare un’antica, amarissima e ingiusta definizione che descrisse crudelmente il ruolo di certi atleti: vite vendute. Peccato, perché il calcio non è solo un gioco come tanti, ma una affermata risorsa sociale. Prendete Max Allegri che raccomanda al calcio e a certi suoi protagonisti di non turbare i bambini: applausi, com’è bravo (davvero), altro che quelle risse diseducatrici; sì, siamo tutti d’accordo, e quanto ci rincuora il cameraman che allo stadio indugia sul volto dolcemente appassionato di un

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fanciullo, di una bimba, addirittura di una famigliola serena, piuttosto che sull’orda degli ultrà. Sono buoni sentimenti e momenti educativi più di quanto lo sia la moralistica, bacchettona ricerca di un labiale blasfemo, spesso utile a erudire chi l’ignora; sono l’antidoto naturale – più che predicato – non solo alla violenza ormai compagna quotidiana della Società, ma alla volgarità, alla maleducazione non appartenente per principio allo sport. Eppure al peggio – sapientemente organizzato – non c’è mai fine ed è ormai abituale reagire davanti ai misfatti calcistici con una sbuffata, una scrollata di spalle e un “non c’è più religione”. Perché non c’era bisogno di Desmond Morris per scoprire anche una particolare sacralità dell’evento che già da lungo tempo nell’Italia cattolica aveva almeno un po’ sottratto la domenica alla Chiesa. Ma perché opporre, in realtà, il profano al sacro? Vi spiegheranno che tutto dipende da una partita di Coppa della Roma con il Lione, che se la Magica vincesse dovrebbe giocare non il Sabato Santo con tutte le altre squadre, ma godendo di un giorno in più di riposo. E allora? Escludendo il parere dei rivali di fiume che, poco caritatevoli, risolverebbero il problema augurandosi un successo dei francesi, ci si aspetta che sia proprio la Roma – l’unica che può decidere – a chiedere comunque il posticipo al lunedí di Pasquetta. Giorno in cui, liberati dall’impegno di esser buoni e bravi “almeno” a Pasqua, si può far festa anche in uno stadio. Ci pensino, i dirigenti della Roma, “almeno” per rispettare il loro Vescovo. Pag 3 Le gambe molli dell’autocrate di Raul Caruso Erdogan: crisi interna, politica estera muscolare La prova di retorica aggressiva e muscolare che Recep Tayyip Erdogan, presidente turco, sta offrendo in questi giorni rispetta un copione consueto dei regimi autoritari prossimi al tracollo. Nessun analista dispone della fatidica 'sfera di cristallo' per leggere il futuro, ma diversi indizi e qualche corposa prova indicano che la Turchia – come, prima o poi, tutte le società che svoltano in maniera chiara verso l’autoritarismo – ha intrapreso un percorso di declino economico che comincia a influenzare in maniera sostanziale le scelte di politica internazionale. I dati economici sono chiari in questo senso. L’erdoganomics non sta mantenendo le promesse. Il tasso di crescita del Pil, benché positivo, è inferiore rispetto al passato. In breve, la crescita ha cominciato a rallentare. Inoltre, essa è guidata principalmente dai consumi interni. La nota particolarmente dolente, infatti è la debolezza degli investimenti privati nei settori manifatturieri. Non a caso, il peso di questi nel Pil è di gran lunga inferiore a quello registrato negli anni Novanta del secolo scorso e nei primi anni duemila fino alla crisi globale del 2008. L’inflazione è attestata intorno all’8% annuo, ben al di sopra di un tasso desiderabile, e il tasso di disoccupazione è in crescita oramai dal primo trimestre del 2016 e ha raggiunto il 12,7%. Il dato più elevato a partire dal 2010. Al fine di bilanciare le tendenze negative, la spesa pubblica è in aumento, e in alcuni frangenti è stata finanziata, con tasse più elevate al fine di evitare una crescita eccessiva del debito pubblico. Dal punto di vista valutario, la lira turca si è svalutata nei confronti dell’euro. E se da un lato tale svalutazione può favorire le esportazioni future, dall’altro essa determina anche costi più elevati per le imprese importatrici, impedendo allo stesso tempo anche la riduzione dell’inflazione. Uno dei settori che ha particolarmente sofferto le crisi e i conflitti regionali in corso e l’esacerbata violenza politica interna è stato chiaramente il settore turistico che ha visto crollare le visite dal resto del mondo e in particolare dai Paesi europei. I dati economici, insomma, sono oggettivamente preoccupanti. Ed è questo che porta a dire che il declino economico tipico delle autocrazie sembra aver avuto avvio. Erdogan e i membri del suo governo sono del tutto consapevoli che il deterioramento della situazione economica potrebbe far evaporare il sostegno al governo e si ritrovano quindi costretti a trovare argomenti per rafforzare il proprio consenso interno. In questa luce, la crisi turco-olandese e le minacce di denunciare intese con l’Unione Europea assumono contorni più chiari, come manifestazione di quella che si definisce diversionary foreign policy tipica delle autocrazie in crisi. Nemici e avversari esterni divengono naturalmente gli obiettivi di retorica e propaganda nazionaliste se non di vere e proprie dispute militari. La domanda da farsi è, allora, fino a dove si spingerà Erdogan. È purtroppo lecito prevedere che nel momento in cui i dati economici continueranno a peggiorare e il governo di Ankara si ritroverà ancora più debole, Erdogan e i suoi insisteranno in maniera più decisa nella limitazione della libertà dei propri concittadini da

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un lato e in un’aggressiva retorica internazionale dall’altro. E che tutto ciò sarà favorito dall’inazione dei Paesi europei. A ben guardare, infatti, l’unica vera forza di Erdogan in questo momento è la debolezza e l’incapacità della Ue nel formulare una politica estera e una politica di sicurezza comuni. È questo, infatti, che consente al governo turco di rimandare scelte che potrebbero risultare tragiche se Erdogan volesse a tutti i costi mostrarsi credibile di fronte alla comunità internazionale. In ogni caso la dilazione non sarà lunga. La retorica antieuropea, infatti, oltre a peggiorare le relazioni diplomatiche non favorirà nel contempo il mantenimento e la prosperità dei rapporti economici aumentando la velocità con la quale il declino economico turco si concreterà. L’auspicio è che la spirale disastrosa che si è ormai avviata venga fermata prima che l’aggressività turca da verbale e diplomatica si trasformi in militare. In questo contesto, ancora una volta i Paesi europei sono chiamati a dare una risposta credibile comune. Quella risposta che, sino a oggi, risulta 'non pervenuta'. Pag 3 Segni religiosi, l’intolleranza è un indicatore di declino di Carlo Cardia Accoglienza e libertà di pensiero alla base dell’Europa La sentenza della Corte di Giustizia della Ue che legittima il divieto, sui luoghi di lavoro, d’indossare simboli religiosi, siano essi il velo islamico, la stella di Davide, il crocifisso o altri segni analoghi, riapre il contenzioso su un tema assai discusso, che forse in una società liberale non dovrebbe neanche esistere. In uno specifico passaggio, la sentenza afferma che il divieto non deve essere adottato per soddisfare clienti che desiderano evitare chi indossa il velo islamico; ma tranne questa ipotesi, un po’ astratta, si giustifica poi il divieto generale perché «è legittima la volontà di un datore di lavoro di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici che privati, un’immagine di neutralità». È opportuno premettere, per evitare un equivoco frequente, che la controversia riguarda il velo islamico, che copre solo il capo e non ha nulla a che vedere con il niqab, che nasconde il volto, o il burqa che copre tutta la persona. È evidente che, in questi casi, emergono questioni diverse che riguardano l’identificazione della persona, la sua relazionalità con gli altri, e nello sfondo la stessa tutela della dignità della persona che viene quasi nascosta nell’ambiente in cui si trova. Così, com’è opportuna la regolamentazione della neutralità dei pubblici funzionari, secondo regole di sobrietà e di saggezza. Con la questione del velo islamico rientriamo, invece, nella problematica dei simboli religiosi, per i quali l’Europa, da sempre ricchissima di simbologie le più diverse, dimostra intelligenza e tolleranza, e ci muoviamo nell’orizzonte della tutela della sensibilità e della libertà religiosa. Il divieto ha radici in una malformazione della tradizione separatista europea, in particolare di quella francese, legata a una concezione dogmatica della laïcité che ha assunto il significato di un supremo valore repubblicano. Come già ricordato più volte e anche ieri su 'Avvenire', l’avversione ai simboli ha provocato in Francia esiti paradossali, e s’è giunti al punto di proibirli a scuola, nelle gite scolastiche, ai genitori che accompagnano, o ritirano, i bambini da scuola. L’insegnamento scolastico è stato a tal punto privato di contenuti religiosi, che un Rapporto commissionato dal Governo (1989), e steso da Philippe Joutard, ha denunciato l’ignoranza di ragazze e ragazzi su aspetti centrali della storia dell’arte, della cultura. Visitando il Louvre, dice Joutard, molti giovani hanno chiesto alle insegnanti chi fossero tutte quelle Babysitter con il bambino in braccio che figurano nelle grandi opere dell’arte figurativa; oppure, davanti a San Sebastiano del Mantegna nella posa classica del martirio, hanno creduto che le frecce che lo colpiscono provenissero dagli Indiani d’America. Sembra uno scherzo, è una cosa tremendamente seria. E di recente, s’è superata la soglia del ridicolo, proibendo agli sportivi di farsi il segno della Croce, o di compiere altro atto religioso, entrando in un campo di calcio, o dopo aver segnato un gol. Più di recente, di fronte alla reazione popolare contro la proibizione di esporre pubblicamente dei presepi, il Consiglio di Stato francese ha dettato regole generali che riflettono l’imbarazzo di un ordinamento che vorrebbe liberarsi da pregiudizi del passato, ma finisce per rimanerne prigioniero. Il massimo organo giurisdizionale richiama i principi della laïcité, propri della Loi de séparation del 1905, e afferma che la raffigurazione del Natale è parte integrante della iconografia cristiana e riflette quindi un carattere religioso, però è anche parte di decorazioni che accompagnano tradizionalmente le feste di fine d’anno. Di qui, la conclusione per la quale in linea di principio non è consentito esporre presepi in edifici pubblici, a meno che

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esso abbia carattere culturale, artistico o festivo. In altri spazi pubblici, invece, con riguardo alle feste di fine anno, si può esporre il presepio purché esso non rappresenti un atto di proselitismo o di rivendicazione di una specifica opinione religiosa. Chiunque vede che è impossibile tracciare una ragionevole linea di confine tra i due significati della Natività. In un’ampia ricerca, che il professor Stefano Testa Bappenheim sta conducendo sulla questione dei simboli religiosi nell’area occidentale, si rileva che le tendenze francesizzanti ottengono qua e là qualche successo, ma più spesso prevalgono saggezza ed equità. Alcuni Paesi europei sono tradizionalmente più aperti e tolleranti: ad esempio la Gran Bretagna, ove il Turbante dei Sikh è ammesso quasi ovunque nei posti di lavoro; e l’Italia, dove non esistono veri divieti per i simboli religiosi, che ha ottenuto nel 2011, a vantaggio dell’Europa intera, il riconoscimento della legittimità della presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche da parte della Grande Chambre di Strasburgo. Ma anche negli Stati Uniti, oltre alla celebre sentenza della Corte Suprema del 1984 per la quale «sarebbe ironico» se si volesse considerare la presenza del presepio negli spazi pubblici come contraddittorio con il principio di laicità, dal momento «nei luoghi pubblici (americani) si cantano gli inni natalizi, il Congresso e il legislativo statale aprono le sessioni pubbliche recitando la preghiera»: una simile pretesa sarebbe «esagerata e contraria alla storia della Nazione e alle decisioni di questa Corte». E sempre negli Usa, nel 2014 due dipendenti di religione musulmana dell’azienda dei trasporti di New York, colpite da sanzioni disciplinari per aver indossato il velo, hanno ottenuto soddisfazione dalla New York Eastern District Court che ha condannato l’azienda a un forte risarcimento. Oggi la questione dei simboli religiosi da indossare, o da esporre negli spazi pubblici, ha una sua specificità, e riguarda insieme la tradizione, le radici culturali delle popolazioni, la libertà religiosa individuale. Pensiamo per un attimo a cosa significherebbe l’oscuramento dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro, e negli spazi pubblici delle società globalizzate. Esso ci ricondurrebbe a un mesto provincialismo, ci farebbe perdere quell’ispirazione universalista che è propria delle società liberali, quella capacità di parlare agli altri, che ci ha reso attivi a livello planetario. Immaginiamo di eliminare la simbologia religiosa in ogni continente, abbattiamo in Asia le statue di Buddha, i segni dell’induismo, spegniamo in America Latina i simboli delle sue tradizioni, in Occidente i segni ebraico-cristiani, Dieci Comandamenti, Bibbia, Croce. Pensiamoci, compiremmo il più ottuso atto di oscuramento religioso e culturale che si possa immaginare contro le radici e tradizioni cui s’ispira ciascun popolo. Forse è proprio questo che non c’è nella sentenza della Corte di Giustizia: quel respiro universale di accoglienza che garantisce la libertà di pensiero, d’espressione, di religione, sempre più necessarie alle società della globalizzazione, nelle quali i popoli s’incontrano, si conoscono e rispettano, nelle leggi e nel costume, le idee, la fede, le tradizioni degli altri. Anche con questi ideali è nata l’Europa, con le sue radici cristiane e liberali. Senza di essi può solo declinare. IL GAZZETTINO Pag 1 Come inseguire i nazionalisti, la lezione di Rutte di Marco Gervasoni Apocalisse rimandata. Affondamento del Titanic Europa scongiurato, almeno per ora. E' questo la prima impressione a caldo, fondata al momento solo sugli exit poll. Il premier uscente Rutte, pur perdendo voti, si conferma alla guida del primo partito, vincendo la sfida con il nazionalista Wilders. Quali sono le lezioni da trarre? La prima è che vengono smentiti coloro che raccomandano di «non inseguire» i populisti, perché gli elettori finirebbero per preferire l'originale alla copia. Rutte ha fatto esattamente il contrario: ha inseguito i populisti. Da mesi infatti va dicendo che per rilanciare la Ue occorre «meno Europa» (cioè meno integrazione), che l'Olanda non può accogliere tutti gli immigrati, e due giorni fa ha contrapposto il «populismo cattivo» quello di Wilders, a quello «buono», che sarebbe il suo. Anche il trattamento non proprio diplomatico riservato ai ministri di Erdogan va nella direzione di questa politica di ritrovato orgoglio nazionale. Se i risultati saranno confermati, è stata una strategia pagante, almeno sulla breve distanza. E dimostra che i populisti si sconfiggono andando all'ascolto degli elettori di quei partiti, non trattandoli come «basket of deplorables », come la sfortunata Clinton ha chiamato gli elettori di Trump. Un monito per i moderati e conservatori europei, ma anche per i progressisti, per quanto per loro seguire questa strada sia più difficile. La seconda

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lezione è che non esiste un effetto Trump. O meglio esiste, ma è l'opposto di quello che tutti hanno temuto da mesi. Gli elettori olandesi forse non gradiscono il presidente Usa, di certo non amano le sue imitazioni: e Wilders non solo ha continuato a immedesimarsi nell'inquilino alla Casa bianca, ma è stato uno dei pochi politici europei accolti dal suo staff già in campagna elettorale. La terza lezione è che molti sono scontenti dell'Europa, ma al momento del voto, i partiti che rivendicano la rottura della Ue e soprattutto il salto nel buio dell'uscita dell'euro non convincono: troppi sono i timori nell'imboccare strade che non si sa dove potrebbero portare, magari anche verso la miseria. Tanto più che l'Olanda, dell'euro, è uno dei paesi che più ha tratto e trae vantaggio. Quindi tutto bene? Niente affatto. La vicenda olandese ci dice che per capire i movimenti «populisti», cioè nazionalisti, bisogna evitare sia le pose isteriche, secondo le quali stiamo tutti diventando «xenofobi», sia le letture riduttive, per cui queste forze starebbero già declinando. Il risultato di Wilders, per quanto deludente rispetto i sondaggi, non è certo quello di un movimento in via di sparizione. Tanto più che, come si vedrà nelle prossime settimane, egli si candida a diventare la principale forza di opposizione del paese. Bisogna infatti smettere di pensare che vi sia una correlazione meccanica tra crisi economica, povertà e ascesa dei populisti: il caso olandese, con un tasso di disoccupazione più basso di quello tedesco e con un Welfare generoso, dimostra che i movimenti populisti, più che reddito, richiedono identità. A cittadini che si domandano «chi siamo noi»?, «dove andiamo?», come paese e come collettività, essi danno delle risposte, nella direzione di restaurare i valori della tradizione e della nazione. Finché saranno le sole forze politiche a promettere identità, mentre le altre si producono in cifre oppure in astratti disegni multiculturalistici, esse avranno il vento in poppa. Il monito non è solo rivolto alle forze politiche nazionali; è da Bruxelles, dal progetto europeo, che deve venire uno sforzo di immaginazione capace di presentare l'Europa come disegno concreto, e non come algida utopia tardo illuministica. Altrimenti, alla prossima tornata elettorale, opportunamente riveduti e corretti, i distruttori dell'Europa trionferanno. LA NUOVA Pag 1 La xenofobia non sfonda, bene per la Ue di Gigi Riva Con la cautela accentuata dai recenti rovesci dei sondaggisti e dunque maneggiando con estrema cura i primi exit poll (premessa scontata ma obbligatoria), l’Olanda che esce dal voto di ieri è un lasciapassare per continuare a sperare che l’Europa non termini la sua corsa in questo fatale ’17. Paragonate a un torneo calcistico, le elezioni a Amsterdam sono state definite un quarto di finale, cui seguirà la semifinale (Francia, aprile-maggio) e la finale (Germania, settembre). Si va avanti, dunque. Geert Wilders, 53 anni, leader del partito per la libertà, xenofobo, anti-islamico, l’uomo che vorrebbe distruggere Bruxelles, avanza e nemmeno in modo corposo, sicuramente non sfonda. Come volevano i sondaggi dell’ultima settimana e in opposizione a quelli più antichi che ne disegnavano un trionfo. Scendono ma reggono i liberali del premier uscente Mark Rutte, primo partito e probabile incarico di formare il nuovo governo. Crollano fino a essere ridotti al lumicino i laburisti, dunque la sinistra tradizionale a tutto vantaggio di una crescita, questa sì, impetuosa dei verdi. Non sarebbe finita sotto un cono di luce così abbagliante la piccola Olanda, se non fosse stata considerata come la cartina di tornasole per altre consultazioni di ben maggiore peso in un Occidente che si trova davanti alle stesse sfide, cioè alle stesse paure. Se per gli europeisti convinti l’esito è confortante, sarebbe però miope tirare un sospiro di sollievo. Geert Wilders ha ragione quando ieri, a urne ancora aperte, ha concluso che comunque avrebbe vinto perché i suoi temi sono diventati il terreno di confronto. E da questo punto di vista bisognerà ringraziare il sultano Erdogan per aver sfidato così apertamente il governo dei Paesi Bassi costringendo Rutte a una robusta reazione contro uno Stato musulmano. Così facendo ha indotto una parte dell’elettorato a scegliere l’usato sicuro e non l’avventurismo. Non sappiamo se Rutte avrebbe assunto la stesso postura senza l’incubo delle urne alle porte. Ma ciò che resta e che conta, in prospettiva francese e tedesca, è che solo uno spostamento a destra poderoso ha salvato, con un colpo di coda, il primato di un partito tradizionale contro l’ondata populista. Era, del resto, l’intento del “Républicains” francesi quando hanno scelto alle primarie Francois Fillon e prima che si scoprisse il suo familismo amorale. L’Olanda si salva da Wilders spostandosi a destra

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però sposando la sua agenda, nonostante la tripla A delle agenzie di rating, la 17a economia del mondo e la decima per reddito pro capite, una disoccupazione al 5,4 per cento quando era all’8,3 nel 2013. Dunque non era la crisi, o la sfiducia nell’euro a gonfiare le vele del populismo, ma l’emotività legata alle questioni identitarie in un Paese che, dopo aver molto integrato, non sa come assorbire le ultime ondate migratorie. Wilders si sfila dal primo piano del palcoscenico, le sue idee restano sulla scena e vedremo come i partiti di sistema li affronteranno in una prospettiva non estremista. Certo è che mancherà, nella dialettica della democrazia dell’alternanza, una sinistra laburista praticamente ininfluente, ridotta al lumicino, e superata persino dai socialisti radicali per una polarizzazione che ha riguardato un po’ tutti, compresi i politici che hanno cambiato d’abito, indossando quelli dei guerrieri, alla penultima ora. L’assenza di una sinistra riformista è il grande vuoto che sta del resto segnando anche l’approccio alle due date per l’Eliseo e che dovrà far riflettere chi si rifiuta di considerare la scomparsa della socialdemocrazia nel Vecchio Continente. A meno che questa sia riscattata dalla speranza tedesca di Martin Schultz, in prodigioso recupero, almeno nei sondaggi, dopo però aver orientato la sua bussola decisamente a sinistra. Un’ultima riflessione sul numero dei votanti in Olanda, l’81 per cento, un’enormità. A conferma che pur nelle differenze, gli elettori sono concordi sul fatto che in gioco, in Europa, c’è qualcosa di epocale. E sono corsi a votare. Pag 1 La legittima difesa che funziona di Fabio Pinelli L’inadeguatezza della legge e l’inefficienza della giurisdizione sono il leitmotiv, spesso a corrente alternata, delle reazioni della pubblica opinione di fronte ai casi più eclatanti, che assurgono agli onori della cronaca giudiziaria, in materia di sicurezza urbana e individuale. Quando accadono vicende oggettivamente tragiche, come la morte violenta di una persona, per mano di chi decide di difendere se stesso, i propri familiari, il proprio patrimonio, da un’aggressione illecita, mediante l’utilizzo di un’arma legittimamente detenuta, sembra inevitabile la tendenza alla radicalizzazione del giudizio. Cosicché, di fronte alla oggettiva necessità di un processo, che provi a ricostruire, tra mille difficoltà probatorie, le ragioni e i torti di ciascuno in vicende tanto complesse come quella che ha visto suo malgrado protagonista il tabaccaio di Civè di Correzzola, il signor Franco Birolo, la reazione più diffusa è quella, se l’esito interlocutorio è sgradito, di gridare allo “scandalo del giudizio” (da rovesciare); se l’esito è invece gradito, di gridare allo “scandalo della legge”, (da modificare). L’epilogo del giudizio d’appello, che ha visto assolto l’imputato dalla contestazione di aver ucciso per colpa colui che aveva aggredito i suoi spazi privati, per rapirne con la violenza il patrimonio, sembra invece testimoniare l’esatto contrario delle grida poc’anzi ricordate: vale a dire, sia che la struttura della giurisdizione penale funziona e sa funzionare, soppesando con assoluta capacità critica e dialettica - oltreché in tempi francamente ragionevoli, visto che è decorso poco più di un anno tra i due gradi di giudizio di merito - la ripartizione delle ragioni, dei torti e delle responsabilità; sia che la disciplina legislativa in materia di legittima difesa non abbisogna di essere ulteriormente emendata, nella direzione della sottrazione al giudizio giuridico, e dell’attribuzione alla disponibilità esclusiva del privato, della decisione sulla giustizia o meno di un’aggressione difensiva così greve da produrre la morte dell’aggressore. La disciplina legislativa della legittima difesa, estesa dal legislatore nel 2006 ad abbracciare la liceità della difesa domiciliare e patrimoniale, ha dimostrato di sapere comprendere gli spazi di liceità di difese legittime dagli esiti gravi e irreversibili; ha dato prova di non necessitare di modifiche estensive, che finirebbero per procurare quell’effetto, decisamente pericoloso, di mettere l’aggredito nella condizione di essere giudice privato, al momento del fatto, della liceità della sua reazione violenta, sottraendosi al processo di ricostruzione della sua eventuale responsabilità. Una strada che aprirebbe pericolosamente al disordine sociale e all’abdicazione dei principi fondamentali dello Stato di diritto, che esige di conservare in capo alla funzione giudiziaria pubblica il giudizio sul bilanciamento di interessi contrapposti, come quelli oggettivamente in gioco in vicende come questa. Certo, si dirà, l’imputato, oltre ad essere, a futura memoria, per sempre segnato nella propria coscienza dalla tragica vicenda che lo ha visto protagonista sopravvissuto, ha dovuto subire l’agonia e la gogna di un lungo processo, per vedere riconosciute le proprie ragioni soggettive. E siccome il

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processo è oggettivamente pena, è assolutamente comprensibile, sul piano umano, che l’imputato opponga, oltre alla propria innocenza, ora certificata dalla Corte d’Appello, una sorta d’ingiustizia del processo subito, che invece doveva essere evitato. Tutto ciò è vero; purché non si dimentichi, tuttavia, che la contropartita di questo giudizio di liceità dell’azione difensiva è stata comunque la morte di un giovane malvivente, che prima di essere tale era un essere umano, vivente: un essere umano la cui dignità non era stata certo acquistata per onore, ma che comunque oggi non deve essere smarrita per disonore. È dunque bene che il giudizio sulla liceità o meno di una vita stroncata di un uomo, per mano di un altro uomo, sia e resti di una pubblica Corte: che ha dimostrato, tale giudizio, di saperlo ben fare. Torna al sommario