rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · pag 1 comunicato della sala stampa della...

72
RASSEGNA STAMPA di lunedì 3 luglio 2017 SOMMARIO Sulla triste vicenda del piccolo Charlie Gard è intervenuto sabato scorso il Patriarca Francesco Moraglia con una riflessione svolta perlopiù durante l’omelia della Messa celebrata presso l’Istituto di clausura delle Suore Bianche al Lido di Venezia. Ecco le sue parole, riprese poi dai giornali domenicali: “Purtroppo nella vita, talvolta, quello che conta è il “fare”, è l’efficienza. E, allora, quando siamo di fronte a chi non è più produttivo, efficiente o magari non lo è mai stato… che cosa fare? Ci si può chiamare Charlie Gard, avere solo dieci mesi e non avere avuto mai il bene della salute… E in questo caso gli uomini - con le loro leggi e sentenze - possono intervenire e decidere se una vita sia degna d’esser vissuta o meno. Se una società, una cultura, un ordinamento giuridico decidono della qualità di una vita, ma non del suo indiscutibile primato, allora si può cadere nell’arbitrio. La vita, invece, è un valore sempre. Anche quando non è più “affascinante”, anche quando non è più sana e vigorosa. Sempre si tratta di vita umana. E, come ci ha detto proprio in queste ore Papa Francesco, “difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno d’amore che Dio affida ad ogni uomo”. Se in una società, in una cultura o in un ordinamento giuridico si smarrisce il senso della vita - cioè il rispetto dell’uomo, sempre, in ogni frangente -, allora tutto dipende unicamente da chi, in quel momento, ha in mano le levi decisionali e potrà definire se una è vita è degna d’esser vissuta o meno. L’indignarsi - in modo pacato ma fermo - diventa, allora, il segno di una coscienza che si interroga non solo sulla doverosa qualità della vita ma anche sul suo imprescindibile valore. Perché, allora, solo qualche volta dire “Je suis Charlie”? No, io sono sempre il “Carlo di turno”, il Carlo sconosciuto che fatica e arranca lungo la strada del vivere comune. Sì, il “Carlo di turno” può essere l’erede al trono d’Inghilterra oppure un piccolo bambino di dieci mesi di cui i genitori chiedono di poterne tutelare la vita… Ma se sono le leggi degli uomini a decidere quale vita sia riconosciuta degna d’esser vissuta allora - non illudiamoci! - tutto può diventare possibile. In ogni senso, e non nel migliore”. E su Avvenire di sabato, in prima pagina, Marina Corradi così commentava: “Gli hanno concesso una proroga. Qualche ora ancora, o qualche giorno, perché i genitori abbiano modo, come si dice, «di elaborare il distacco ». Ma la strada di Charlie sembra comunque tracciata: un sentiero forzato, fra asettici protocolli medici e sentenze di alme Corti, che conduce alla morte. Sedazione profonda e sospensione dell’ossigeno a un bambino che da solo non respira. Ha una gravissima malattia genetica, è inguaribile, è la ragione addotta dai professori del Great Ormond Street Hospital di Londra. Inguaribile, forse, e però curabile. Charlie Gard, 10 mesi, è una creatura di cui finora ci si è presi cura, dandogli ossigeno, nutrendolo, idratandolo, non facendogli mancare l’affetto e la presenza dei suoi genitori. Ma adesso no, ora basta, è il verdetto in attesa di esecuzione. E non vogliamo pensare come si sentano quei giovani genitori, chini fino a oggi sulla presenza muta eppure viva del loro bambino, attenti al suo volto, ai suoi occhi. «Ci hanno abbandonati», hanno detto. Li hanno abbandonati i medici e i giudici inglesi e europei, ma, temiamo, non solo. L’attenzione mediatica a questo dramma è quasi solo inglese – giacché inglese è il bambino – e italiana, con un notevolissimo sollevarsi sul web di una corale protesta, e non solo da parte cattolica. Ma se ieri mattina aprivi i siti on line di 'Le Monde' e 'Le Figaro', di 'El Mundo' e 'Die Welt', non trovavi una parola sul destino di Charlie Gard. C’era spazio per la Giornata degli asteroidi, ma non per il bambino di Londra. Colpisce, questa indifferenza dell’Europa, incrinata qui e là da trepidanti veglie di preghiera, di fronte a due genitori che disperatamente hanno chiesto che loro figlio fosse lasciato vivere. Forse se, al contrario, quel padre e quella madre combattessero, come il padre di Eluana Englaro, perché la morte fosse data, allora il favore mediatico

Upload: others

Post on 20-Aug-2020

0 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

RASSEGNA STAMPA di lunedì 3 luglio 2017

SOMMARIO

Sulla triste vicenda del piccolo Charlie Gard è intervenuto sabato scorso il Patriarca Francesco Moraglia con una riflessione svolta perlopiù durante l’omelia della Messa

celebrata presso l’Istituto di clausura delle Suore Bianche al Lido di Venezia. Ecco le sue parole, riprese poi dai giornali domenicali: “Purtroppo nella vita, talvolta, quello che conta è il “fare”, è l’efficienza. E, allora, quando siamo di fronte a chi non è più produttivo, efficiente o magari non lo è mai stato… che cosa fare? Ci si può chiamare Charlie Gard, avere solo dieci mesi e non avere avuto mai il bene della salute… E in

questo caso gli uomini - con le loro leggi e sentenze - possono intervenire e decidere se una vita sia degna d’esser vissuta o meno. Se una società, una cultura, un

ordinamento giuridico decidono della qualità di una vita, ma non del suo indiscutibile primato, allora si può cadere nell’arbitrio. La vita, invece, è un valore sempre. Anche quando non è più “affascinante”, anche quando non è più sana e vigorosa. Sempre si

tratta di vita umana. E, come ci ha detto proprio in queste ore Papa Francesco, “difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno

d’amore che Dio affida ad ogni uomo”. Se in una società, in una cultura o in un ordinamento giuridico si smarrisce il senso della vita - cioè il rispetto dell’uomo,

sempre, in ogni frangente -, allora tutto dipende unicamente da chi, in quel momento, ha in mano le levi decisionali e potrà definire se una è vita è degna d’esser vissuta o meno. L’indignarsi - in modo pacato ma fermo - diventa, allora, il segno di

una coscienza che si interroga non solo sulla doverosa qualità della vita ma anche sul suo imprescindibile valore. Perché, allora, solo qualche volta dire “Je suis Charlie”? No, io sono sempre il “Carlo di turno”, il Carlo sconosciuto che fatica e arranca lungo

la strada del vivere comune. Sì, il “Carlo di turno” può essere l’erede al trono d’Inghilterra oppure un piccolo bambino di dieci mesi di cui i genitori chiedono di poterne tutelare la vita… Ma se sono le leggi degli uomini a decidere quale vita sia riconosciuta degna d’esser vissuta allora - non illudiamoci! - tutto può diventare

possibile. In ogni senso, e non nel migliore”.

E su Avvenire di sabato, in prima pagina, Marina Corradi così commentava: “Gli hanno concesso una proroga. Qualche ora ancora, o qualche giorno, perché i genitori

abbiano modo, come si dice, «di elaborare il distacco ». Ma la strada di Charlie sembra comunque tracciata: un sentiero forzato, fra asettici protocolli medici e sentenze di

alme Corti, che conduce alla morte. Sedazione profonda e sospensione dell’ossigeno a un bambino che da solo non respira. Ha una gravissima malattia genetica, è

inguaribile, è la ragione addotta dai professori del Great Ormond Street Hospital di Londra. Inguaribile, forse, e però curabile. Charlie Gard, 10 mesi, è una creatura di

cui finora ci si è presi cura, dandogli ossigeno, nutrendolo, idratandolo, non facendogli mancare l’affetto e la presenza dei suoi genitori. Ma adesso no, ora basta, è il verdetto in attesa di esecuzione. E non vogliamo pensare come si sentano quei

giovani genitori, chini fino a oggi sulla presenza muta eppure viva del loro bambino, attenti al suo volto, ai suoi occhi. «Ci hanno abbandonati», hanno detto. Li hanno

abbandonati i medici e i giudici inglesi e europei, ma, temiamo, non solo. L’attenzione mediatica a questo dramma è quasi solo inglese – giacché inglese è il

bambino – e italiana, con un notevolissimo sollevarsi sul web di una corale protesta, e non solo da parte cattolica. Ma se ieri mattina aprivi i siti on line di 'Le Monde' e 'Le Figaro', di 'El Mundo' e 'Die Welt', non trovavi una parola sul destino di Charlie Gard.

C’era spazio per la Giornata degli asteroidi, ma non per il bambino di Londra. Colpisce, questa indifferenza dell’Europa, incrinata qui e là da trepidanti veglie di

preghiera, di fronte a due genitori che disperatamente hanno chiesto che loro figlio fosse lasciato vivere. Forse se, al contrario, quel padre e quella madre combattessero, come il padre di Eluana Englaro, perché la morte fosse data, allora il favore mediatico

Page 2: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

da Parigi a Berlino a Madrid sarebbe un altro. Perché oggi chiedere la morte per chi soffre o è in stato vegetativo suona come una affermazione di indipendenza e di

libertà. Piace. Esiste, continuiamo purtroppo a doverlo annotare, un favor mortis, una preferenza al diritto di morire, in questo nostro Occidente. Invece il papà e la mamma

di Charlie volevano che il loro bambino vivesse. Così come può: legato a un respiratore, senza prospettive, a oggi, di guarigione e affidato a una costosa terapia

sperimentale che la solidarietà e la generosità 'dal basso' di tanti avrebbe reso possibile. Volevano tenerlo con sé: lasciare semplicemente che vivesse, accompagnato da tutti i possibili ausili della medicina. Non guaribile, quasi certamente, ma curabile,

ma accompagnabile, non guaribile ma oggetto di attenzione e di amore. Il no dei medici però è perentorio, e dottamente confermato dai giudici. Perché tanta

unanimità su una vicenda così estrema, così dolorosa? E perché la maggior parte dei media occidentali non ritiene ciò che sta accadendo in quella stanza di ospedale

interessante per i suoi lettori? Perché Charlie, agli occhi di certo Occidente, nello sguardo di quella cultura spesso denunciata dal Papa, è un condannato, o addirittura

uno 'scarto'. La sua vita non sarà mai quella di un bambino nato sano, ed è molto costoso mantenerlo nel suo limbo dormiente, attaccato a macchine complesse,

sorvegliato da medici e infermieri. Non si può, questa è la logica, spendere tanto per un bambino che non guarirà. Ma attenzione, è una logica che anche attraverso questo caso inavvertitamente si farà strada nei nostri ospedali, nei nostri gerontocomi. È una

selezione dei sani basata sulle leggi dell’economia. Non ci si può permettere certi lussi dispendiosi. Si comincia con un bambino con una rarissima e grave malattia

genetica. Poi in società sempre più vecchie si prenderà a valutare quanto costa tenere in vita certi handicappati gravi, i pazienti in stato di minima coscienza, e quelli

perduti nell’Alzheimer. Il bambino Charlie va a morire nel silenzio dei grande media europei. Come tacitamente arresi a un’evidenza: i più malati, i più deboli possono e devono essere scartati, addirittura per legge. Si parli, dunque, della Giornata degli

asteroidi, o del progresso avanzante, con i matrimoni omosessuali in Germania. Certe questioni penose conviene metterle in un angolo. Chissà, sennò, che la gente cominci a pensarci. L’Europa che non si cura di Charlie è la stessa del resto che non si occupa delle migliaia di donne, uomini e bambini che annegano nel Mediterraneo. Che chiude gli occhi. In questo l’Italia, la povera Italia, è un’eccezione. Per come salva i migranti

in mare, per come si solleva sul web contro la morte di Charlie. Quasi, si direbbe, nell’eco di una memoria che, per quanto si voglia disperderla, non si annienta

facilmente. Una memoria dentro la quale, da noi, ancora si trema al pensiero di quella iniezione di sedativo, di quel respiratore staccato dalla bocca di un bambino, finché non muoia per soffocamento. Al pensiero della morte legalmente comminata a un

bambino tra tanta indifferenza. Si trema come un sovvertimento della natura, e del desiderio di vita che è in noi. Si trema a quell’idea, come davanti a un’aspra

bestemmia” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 12 Il Patriarca alla festa patronale a San Pietro di Castello di Nadia De Lazzari Salesiani, cento anni a Venezia: una mostra fotografica IL GAZZETTINO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Moraglia: “Io sto con Charlie, la vita umana va sempre difesa” Il patriarca a fianco del bimbo “condannato” a morire 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Cipressina, il “don” volta pagina e lascia di Alvise Sperandio Il patriarca ha nominato un nuovo parroco ma senza assegnare un incarico all’attuale prete. Don Andrea ha salutato ieri i fedeli: “Pregate per me”

Page 3: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 1 luglio 2017 Pag VIII La festa entra nel vivo, domani messa col Patriarca di Claudia Meschini S. Pietro di Castello Pag XIII “Non faremo morire la nostra parrocchia” di Giacinta Gimma Ca’ Emiliani, comunità mobilitata dopo l’annuncio del trasferimento di don Luca Pag XVIII La parrocchia di S. Pietro accoglie Moraglia di Luisa Giantin Il Patriarca in visita ad Oriago: annunciate le nuove nomine sul territorio 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Müller: “Sorpreso”. Lo scontro con il Papa prima dell’addio di Luigi Accattoli L’ex Sant’Uffizio, il cardinale uscente: nessuna irritazione LA REPUBBLICA Pag 15 Non denunciò il prete pedofilo, quell’ombra nel passato del nuovo capo del Sant’Uffizio di Emiliano Fittipaldi e Giuliano Foschini IL FOGLIO Pag 1 Un arduo cammino sulle tracce di Lutero di Giuliano Ferrara L’azione di Francesco ispirata a una nozione della fede come rapporto intimo dell’individuo con dio, fuori da ogni legame dottrinalmente codificato. Vedremo preti trasformati in pastori e donne che dicono messa? AVVENIRE di domenica 2 luglio 2017 Pag 4 Dottrina della fede, nuovo prefetto. Ladaria subentra a Müller alla guida di Gianni Cardinale, Filippo Rizzi e Andrea Galli Un teologo professore prestato al servizio della Santa Sede. Quattro anni di riforme e nomine secondo Francesco Pag 22 Il volto del Padre illuminato dalla croce di Roberta Vinerba Le prediche di Spoleto / 2 CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 luglio 2017 Pag 16 Ex Sant’Uffizio, il Papa sostituisce Müller che criticò il Sinodo di Luigi Accattoli Lo spagnolo Ladaria al posto del cardinale tedesco. E’ il primo gesuita prefetto alla Dottrina della fede LA REPUBBLICA di domenica 2 luglio 2017 Pag 7 E Francesco archivia per sempre l’era Ratzinger all’ex Sant’Uffizio di Alberto Melloni IL GAZZETTINO di domenica 2 luglio 2017 Pag 11 Francesco cambia il guardiano della dottrina Non rinnovato l’incarico al Sant’Ufficio del tedesco Müller, che aveva firmato una lettera di critiche al Papa L’ESPRESSO di domenica 2 luglio 2017 Ai poveri resta solo Bergoglio di Sandro Magister Francesco sta accentuando l’attivismo della Chiesa per i ceti più bassi e nel dialogo con i movimenti anticapitalisti L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede

Page 4: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta di tenerezza di Giuseppe Betori Le prediche di Spoleto / 1 LA REPUBBLICA di sabato 1 luglio 2017 Pag 11 Scatta la caccia al successore di Pell, in bilico anche il presidente dello Ior di Paolo Rodari Peter Saunders: “Sul cardinale australiano avevo ragione io, non ci si può nascondere alla giustizia per sempre” IL FOGLIO di sabato 1 luglio 2017 Pag 3 Nuovi fulmini su San Pietro Cosa significa, se confermata, l’uscita del card. Müller dalla Dottrina della fede 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 luglio 2017 Pag 12 Quei sogni così fragili di un genitore di Silvia Avallone Il caso Charlie Pagg 18 – 19 Padri e separati: la “guerra” dei figli di Martina Pennisi e Maria Silvia Sacchi Molte leggi sono cambiate, anche se l’Italia resta un paese arretrato. Ma c’è chi prova a rompere la regola che vuole i bambini “proprietà” delle mamme IL GAZZETTINO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Banche venete, una lezione per il futuro di Romano Prodi AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 2 Giustizia solo insieme agli esclusi. Un patto sociale che vale nelle periferie come sul lavoro di Salvatore Mazza Pag 3 Regno Unito: occupazione al massimo, lavoro incerto di Silvia Guzzetti Il paradosso del mercato con la disoccupazione ai minimi. Genitori intercambiabili, si può essere sempre licenziati 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 6 “Venezia è invasa, ma noi rimaniamo qui” di Marisa Fumagalli e Pierluigi Panza Migliaia di residenti contro la pressione delle presenze turistiche. Critiche a Comune e Unesco. La soprintendente Codello: “Più tasse per i turisti e limiti per gli ingressi in piazza San Marco” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III Duemila “resistenti” per Venezia di Vettor Maria Corsetti “Di turismo si può anche morire”. Variopinto corteo per chiedere la tutela della residenza LA NUOVA Pag 12 “Terrorismo, il pericolo resta alto” di Carlo Mion Il procuratore aggiunto Adelchi d’Ippolito: a rialto un successo investigativo importante, ma non abbassiamo la guardia IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 2 luglio 2017 Pag XII Fiera e parrocchia in guerra per lo stand gastronomico di Melody Fusaro Chirignago: scambio di accuse tra gli organizzatori dell’evento di settembre e don Roberto Trevisiol

Page 5: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Pag XII Alle chiese una pioggia di contributi di f.fen. La Giunta stanzia 200mila euro per la manutenzione degli edifici di culto LA NUOVA di sabato 1 luglio 2017 Pag 2 Il governo ha deciso, grandi navi a Marghera di Enrico Tantucci Via libera al nuovo terminal, due banchine dal 2019 per le maxi crociere Pag 30 La “Madonna del S’ciopo” riavrà presto il suo fucile di f.ma 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pagg 8 – 9 I fiumi malati. Se il mare risale il Piave di Toni Frigo “Un tempo si poteva vivere di pesca, oggi l’habitat è stravolto” CORRIERE DEL VENETO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 La rabbia? Fenomeno “privato” di Vittorio Filippi Pag 3 Musulmani, in Veneto un centro di preghiera ogni quattro Comuni di Monica Zicchiero Oltre 117mila fedeli e 150 luoghi di culto CORRIERE DEL VENETO di sabato 1 luglio 2017 Pagg 2 - 3 A Cona scoppia la guerra tra i profughi. “Non ci stiamo più”. Bloccati i cancelli di Roberta Polese Il giorno più lungo del prefetto: “Le risposte? Le deve dare la politica” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il valore di avere un leader di Angelo Panebianco La legge sul voto Pag 2 Il modello Madrid. Quel muro eretto nel Mediterraneo con diplomazia (e soldi al Marocco) di Andrea Nicastro LA REPUBBLICA Pag 1 Perché i dem nuotano nel mare dell’azzardo di Stefano Folli IL GAZZETTINO Pag 1 La vecchia sinistra di nuovo insieme ma contro Renzi di Alessandro Campi Pag 8 Un “Charlie” anche in Italia ma è curato e ha nove anni La mamma: “ La malattia è la stessa, si nutre con un sondino e va a scuola” Pag 13 Il diritto di morire tra le braccia di chi ci ha amato di Alessandra Graziottin LA NUOVA Pag 1 Se la Lega fa politica con i piedi di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Lo spirito inquieto del Paese di Ernesto Galli della Loggia Politica e non voto Pag 3 Tutte le anime della sinistra, tra dissidenti pd e bandiere. In scena l’eterna nostalgia di Pierluigi Battista Pag 8 Nell’ex moschea del Califfo di Lorenzo Cremonesi

Page 6: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

La battaglia di Mosul Pag 20 I segnali contradditori dell’Islam contemporaneo di Angelo Scola LA REPUBBLICA di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Quel remake di Prodi e Berlusconi. Ecco l’Italia in fuga nel passato di Francesco Merlo AVVENIRE di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Charlie figlio nostro di Luca Russo L’Italia esageri: offra cittadinanza Pag 2 Cattolici e politica, un filo da riannodare di Giorgio Campanini L’astensione, in ogni forma, non è mai la regola Pag 3 Il drammatico bivio dell’altra America di Lucia Capuzzi Venezuela banco di prova del continente Pag 5 Charlie, le ultime ore con i genitori. Boom d’adesioni alla petizione web di Silvia Guzzetti Altra sentenza della Corte: stop agli interventi su un piccolo di 3 anni L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 La distruttiva cultura dello scarto di Ferdinando Cancelli Di fronte al drammatico caso del piccolo Charlie Gard Pag 1 Deserto spirituale di Lucetta Scaraffia CORRIERE DELLA SERA di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Alibi finiti sulla legge elettorale di Pierluigi Battista I quattro leader Pag 1 Renzi nella morsa del vecchio derby Prodi – Berlusconi di Francesco Verderami Pag 3 “Noi, tra moschee e garage. Ecco chi sono tutti gli imam” di Goffredo Buccini I luoghi dell’Islam in Italia Pag 5 Dopo il voto calano M5S e dem. Balzo della Lega, ora è al 15%. E Fi guadagna quasi un punto di Nando Pagnoncelli Rebus governabilità: solo Grillo, Salvini e Meloni potrebbero farcela Pag 8 Un verdetto di buon senso e di compassione per chi non ha neppure la speranza di Giuseppe Remuzzi Pag 20 La diplomazia “indifferente” dell’amministrazione Trump di Sergio Romano LA REPUBBLICA di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Pd e M5S ancora giù dopo il voto. E Prodi ritorna sul podio dei leader di Ilvo Diamanti Pag 1 Ma sui minori nessuno abbia potere assoluto di Chiara Saraceno AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 L’indifferente bestemmia di Marina Corradi Gli scartati e lo sguardo d’Europa

Page 7: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

IL GAZZETTINO di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Gli errori di Renzi e la strategia dell’odio di Bruno Vespa Pag 1 Ma il bene del minore non è la morte di Cesare Mirabelli Pag 18 L’invasione dei migranti è un fallimento per l’Unione di Massimo Adinolfi LA NUOVA di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Quell’unità smarrita dalla sinistra di Bruno Manfellotto Pag 5 La lezione di Simone Veil, madre dell’Europa civile di Roberto Castaldi

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 12 Il Patriarca alla festa patronale a San Pietro di Castello di Nadia De Lazzari Salesiani, cento anni a Venezia: una mostra fotografica Festa patronale e cittadina, ieri, nella gremita basilica di San Pietro di Castello guidata dai padri salesiani. La giornata è iniziata alle 9,45 con il corteo acqueo partito dal canale di San Giuseppe ed è continuata, alle 10,15, con la solenne celebrazione eucaristica presieduta dal patriarca Francesco Moraglia e la consegna dell'anello piscatorio alla presenza del prefetto Carlo Boffi e di numerose autorità civili e militari.Come da tradizione un pescatore, Sandro Nardo, ha consegnato al Patriarca una pesante cesta di pesci. Nell'omelia il presule si è soffermato su due punti: l'importanza della fede che nasce dall'ascolto della Parola e cresce quando è provata e la figura attuale di don Bosco. Sul messaggio educativo del prete torinese diocesano dichiarato santo nel 1934 il Patriarca ha detto: «I giovani hanno bisogno di questi maestri che siano testimoni e di testimoni che siano maestri. È un fatto di presenza e di cuore. Dobbiamo riscoprire la passione educativa».I fedeli poi si sono riversati nell'omonimo campo. Un colpo d'occhio gli stand, i palloncini donati ai bimbi, l'esibizione della banda musicale di S. Erasmo; per tutti bibite e fette di torta preparate da un centinaio di volontari. Il miglior dolce è stato è stato assegnato a Federica D'Antiga e alla figlioletta Sofia, 9 anni, che sono stare premiate con un grembiule, un paio di orecchini, un portachiavi e un libro di ricette. Nel congedarsi dalla folla il Patriarca ha salutato tutti, in particolare i piccoli e gli anziani; a tutti ha stretto la mano e consegnato una parola d'affetto. Nel pomeriggio la festa è proseguita con il torneo di scacchi lampo, il concerto corale di musica sacra, lo spettacolo di magia e tanta musica fino alle 23 con l'estrazione della lotteria di San Pietro. Da cento anni i Salesiani sono a Venezia: un tempo accoglievano orfani, oggi bambini del sestiere e giovani immigrati. Attualmente la comunità religiosa è formata da sette confratelli, cinque sacerdoti e due laici. Ieri in tanti hanno ricordato l'importante anniversario, dall'ispettore del Triveneto don Roberto Dal Molin al parroco don Narciso Belfiore della comunità parrocchiale di San Pietro di Castello, San Giuseppe, San Francesco di Paola e Sant'Elena. Quest'ultimo ha rievocato le due opere benefiche tuttora attive nel campo sociale, le Opere Riunite del Buon Pastore e la Cassa Cattolica. Nell'illustrare la mostra fotografica sui Salesiani allestita in campo San Pietro il religioso don Pierpaolo Rossini dapprima ha ricordato il trinomio dell'ordine scuola, lavoro, gioco poi ha aggiunto: «Nella Venezia paradiso del turismo e dei ricchi vacanzieri c'è anche una porta sempre aperta ai ragazzi e ai giovani. Don Bosco è arrivato qui cento anni fa chiamato da un futuro Papa, il cardinale patriarca Giuseppe Sarto che scrisse: i figli di don Bosco non hanno ancora piantato le loro tende a Venezia, vorrei che l'opera di carità che essi esercitano si stendesse anche a questa povera Diocesi».

Page 8: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

IL GAZZETTINO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Moraglia: “Io sto con Charlie, la vita umana va sempre difesa” Il patriarca a fianco del bimbo “condannato” a morire Continua a far discutere la vicenda del piccolo Charlie, il neonato inglese di dieci mesi affetto da una gravissima malattia genetica che sta inghiottendo il suo piccolo corpo. I genitori si sono opposti alla decisione dei medici londinesi di staccare “la spina”, ma i giudici hanno dato loro torto. Una morte che sarebbe dovuta avvenire venerdì, ma alla fine i medici inglesi hanno cambiato idea all’ultimo momento e hanno deciso di concedere più tempo ai genitori per dare addio al piccolo Charlie. Il bimbo è ricoverato al Great Ormond Street Hospital, dopo che quattro gradi di giudizio hanno confermato il parere dei medici, secondo i quali il piccolo non ha speranze di sopravvivenza ed è inutile continuare con terapie senza sbocco. Purtroppo nella vita, talvolta, quello che conta è il fare, è l'efficienza. E, allora, quando siamo di fronte a chi non è più produttivo, efficiente o magari non lo è mai sta... che cosa fare? Ci si può chiamare Charlie Gard, avere solo dieci mesi e non avere avuto mai il bene della salute E in questo caso gli uomini - con le loro leggi e sentenze - possono intervenire e decidere se una vita sia degna d'esser vissuta o meno. Se una società, una cultura, un ordinamento giuridico decidono della qualità di una vita, ma non del suo indiscutibile primato, allora si può cadere nell'arbitrio. La vita, invece, è un valore sempre. Anche quando non è più affascinante, anche quando non è più sana e vigorosa. Sempre si tratta di vita umana. E, come ci ha detto proprio in queste ore Papa Francesco, difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno d'amore che Dio affida ad ogni uomo. Se in una società, in una cultura o in un ordinamento giuridico si smarrisce il senso della vita - cioè il rispetto dell'uomo, sempre, in ogni frangente -, allora tutto dipende unicamente da chi, in quel momento, ha in mano le levi decisionali e potrà definire se una è vita è degna d'esser vissuta o meno. L'indignarsi - in modo pacato ma fermo diventa, allora, il segno di una coscienza che si interroga non solo sulla doverosa qualità della vita ma anche sul suo imprescindibile valore. Perché, allora, solo qualche volta dire Je suis Charlie? No, io sono sempre il Carlo di turno, il Carlo sconosciuto che fatica e arranca lungo la strada del vivere comune. Sì, il Carlo di turno può essere l'erede al trono d'Inghilterra oppure un piccolo bambino di dieci mesi di cui i genitori chiedono di poterne tutelare la vita Ma se sono le leggi degli uomini a decidere quale vita sia riconosciuta degna d'esser vissuta allora - non illudiamoci! - tutto può diventare possibile. In ogni senso, e non nel migliore. (Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia) Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Cipressina, il “don” volta pagina e lascia di Alvise Sperandio Il patriarca ha nominato un nuovo parroco ma senza assegnare un incarico all’attuale prete. Don Andrea ha salutato ieri i fedeli: “Pregate per me” Alla Cipressina la domanda si fa sempre più insistente: «Perché don Andrea lascia»? Il cambio inatteso del parroco, mentre don Andrea Favaretto si fa da parte, fa discutere il quartiere che fatica a trovare una spiegazione a fronte della linea del silenzio scelta dal diretto interessato e dalla diocesi. Di certo c'è che tra le nomine ufficializzate la scorsa settimana, il Patriarca Francesco Moraglia ha assegnato San Lorenzo Giustiniani a don Sandro Manfrè, che lascia il Corpus Domini al rione Pertini. Una decisione che ha colto di sorpresa molti anche perché non è passato inosservato il fatto che al trasferimento di don Sandro non sia coinciso un nuovo incarico per don Andrea, in tempi di oggettività scarsità di preti che comincia a lasciare sguarnite alcune comunità (al Cristo Lavoratore di Marghera hanno appena perso il parroco residente non senza preoccupazione tra la gente). Tra i fedeli c'è chi sussurra di «un periodo di riflessione determinato, forse, da una crisi vocazionale», ipotesi su cui il sacerdote preferisce non commentare: «Non

Page 9: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

rispondo né sì, né no», ha fatto sapere a specifica richiesta. Nelle messe di sabato sera e di ieri, don Andrea si è ufficialmente congedato dalla parrocchia con poche parole: «Dal prossimo anno pastorale il vostro parroco sarà don Sandro Manfrè ha detto dall'altare Mi dispiace se questa decisione sta facendo soffrire qualcuno e vi ringrazio per questi anni passati assieme. Mi avete fatto crescere come persona, cristiano e sacerdote, ma sento proprio l'esigenza di prendere un po' il fiato. Vi chiedo di starmi vicino e di continuare a pregare per me». Don Andrea resterà a vivere in canonica fino a Ferragosto, poi cambierà abitazione. Compirà 45 anni il mese prossimo e nei giorni scorsi aveva festeggiato il ventesimo di ordinazione sacerdotale ricevuta nel giugno del 1997 dall'allora Patriarca Marco Cè. Era arrivato alla Cipressina nel 2011 per sostituire don Gianni Antoniazzi che era stato trasferito a Carpenedo, tra le vivaci proteste dei fedeli, mentre la diocesi era appena stata decapitata ai vertici con il Patriarca Angelo Scola e il suo ausiliare Beniamino Pizziol prossimi a trasferirsi a Milano e Vicenza. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 1 luglio 2017 Pag VIII La festa entra nel vivo, domani messa col Patriarca di Claudia Meschini S. Pietro di Castello La Festa di San Pietro di Castello si avvia a conclusione dando spazio, domani a partire dalle 10.15, alla parte religiosa della festa con la celebrazione eucaristica presieduta dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, al quale verrà consegnato l'anello piscatorio, tradizionale segno di devozione. «Siamo molto soddisfatti - rileva Paolo Basili, presidente del Comitato organizzatore - anche quest'anno i veneziani hanno risposto bene a questa festa che contribuisce a rendere Venezia una città ancora viva, genuina, a misura di veneziano. Intanto oggi alle 16 si svolgerà la 23° edizione della regata delle Marie su mascarete organizzata dalla Remiera Casteo: alle partecipanti verrà offerta una piccola dote, ricordando quella elargita dal doge ai tempi della Serenissima alle ragazze fidanzate. Alle 16.30, concerto in basilica del coro inglese, Moira House Girls School, a seguire la 41° edizione della regata di San Pietro su sandoli a quattro remi. Alle 19.45, per allietare chi sta aspettando in coda il proprio turno per ordinare la cena allo stand gastronomico, si esibiranno i i Kosmonautas. Il gruppo si propone di sviscerare, poco alla volta, tutti i significati che la parola Jazz può contenere. Alle 21.15 in scena i Sensi di Colpa con il nuovo spettacolo Videokiller, un viaggio musicale dagli anni 70 fino ai ritmi moderni arricchiti e caratterizzati da effetti futuristici. Domenica, nel pomeriggio, torneo di scacchi e spettacolo di magia per i più piccoli. Alle 19.45 i Whiskey Facile con un repertorio di swing italiano, rivisitato e riarrangiato, oltre ad un omaggio alla canzone Italiana di Modugno, Mina e Gabriella Ferri. Gran finale folk, pop, rock con Los Massadores. Il palco si trasforma in un teatro, sia per l'utilizzo di scenografie e travestimenti, sia per le comiche e surreali conversazioni tra la band e il pubblico. Alle 23 estrazione della lotteria di San Pietro. Pag XIII “Non faremo morire la nostra parrocchia” di Giacinta Gimma Ca’ Emiliani, comunità mobilitata dopo l’annuncio del trasferimento di don Luca Una comunità che si avvia verso l'incertezza. I fedeli della parrocchia di Gesù Lavoratore a Ca' Emiliani, giovedì sera, hanno incontrato il vicario episcopale e moderatore della Curia monsignor Dino Pistolato che ha confermato la notizia del trasferimento a Murano del parroco don Luca Biancafior, presente a Marghera sud dal 2008. Un addio che coinciderà con il vuoto nella guida della parrocchia della città giardino. Che suscita preoccupazione. Malgrado la chiesa di Ca' Emiliani sia stata associata alla parrocchia orionina di S. Pio X di via Nicolodi, si teme per il futuro, reso meno buio dalla presenza di una comunità di laici molto attiva. Una trentina di persone, infatti, era presente al confronto con don Dino e si è detta disponibile a farsi parte attiva per la gestione della parrocchia. «Continueremo ad impegnarci perché sia la chiesa che il patronato continuino a rappresentare dei punti di riferimento per l'intera comunità: già adesso - spiegano le colonne della chiesa di Gesù Lavoratore - garantiamo l'apertura di questi due luoghi con dei turni di presenza, e continueremo a farlo anche quando, non sappiamo quando accadrà con precisione, don Luca lascerà la nostra parrocchia». La presenza vuole essere usata come antidoto all'abbandono. «Le notizie che vengono dalla

Page 10: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

parrocchia della Natività di Maria di Villabona, dove il patronato è finito in balìa di ladri e balordi commentano a Ca' Emiliani - ci impensieriscono non poco. Dovremo lavorare ancora di più, con la nostra presenza, per evitare questa deriva». Deriva che potrebbe essere dietro l'angolo in un rione in cui si convive con moltissimi casi di disagio sociale e dove, probabilmente, andava evitata la perdita di una guida spirituale. Ma a Ca' Emiliani si trattengono dallo scendere alla polemica. Molte sono le aspettative per l'arrivo, confermato dallo stesso Pistolato di una comunità di suore. «L'arrivo delle suore - auspicano a Ca' Emiliani - sarebbe molto significativo e potrebbe dare una nuova spinta all'impegno della parrocchia sul versante della missionarietà e della carità». Pag XVIII La parrocchia di S. Pietro accoglie Moraglia di Luisa Giantin Il Patriarca in visita ad Oriago: annunciate le nuove nomine sul territorio Mira. Il Patriarca Francesco Moraglia in visita alla parrocchia di S. Pietro a Oriago in occasione della festa del santo patrono. Ad accoglierlo il parroco don Cristiano Bobbo recentemente nominato anche arciprete della parrocchia di S. M. Maddalena di Oriago, parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Ca' Sabbioni e moderatore della collaborazione pastorale di Oriago Malcontenta. Giovedì scorso il patriarca di Venezia ha celebrato nella chiesa di S. Pietro a Oriago la messa solenne con tutti i sacerdoti del vicariato. Il patriarca dopo la celebrazione ha consegnato a tutti i partecipanti il pane benedetto e poi ha incontrato gli animatori del Grest. Una celebrazione particolare perché ha coinciso anche con il 40° anniversario dell'ordinazione sacerdotale del Patriarca e il 50° di parrocchia di S. Maria Maddalena a Oriago. Proprio in questi giorni il Patriarca Moraglia ha annunciato nuove nomine e nuovi incarichi rivoluzionando le parrocchie di Mira. Don Cristiano infatti oltre alla parrocchia di San Pietro Apostolo di Oriago, è stato nominato arciprete della Parrocchia di S. M. Maddalena di Oriago, parroco della Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Ca' Sabbioni e moderatore della Collaborazione pastorale di Oriago Malcontenta. Don Emilio Dall'Armi, già parroco di S. Pietro a Oriago, sarà collaboratore pastorale della Collaborazione di Oriago Malcontenta. A don Adriano di Lena, parroco di Santa Maria Maddalena da 12 anni è stato designato a Zelarino in qualità di collaboratore pastorale della Parrocchia di S.M. Immacolata e S. Virgilio. Don Giuseppe Bacci, don Giuseppe Beorchia e il diacono don Gianluca Fabbian saranno collaboratori pastorali della Collaborazione di Oriago Malcontenta mentre il nuovo parroco di S. Ilario di Malcontenta sarà invece don Alessandro Rosin al quale è stato affidato anche il compito di aiutare la Collaborazione pastorale di Catene Villabona. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Müller: “Sorpreso”. Lo scontro con il Papa prima dell’addio di Luigi Accattoli L’ex Sant’Uffizio, il cardinale uscente: nessuna irritazione Città del Vaticano. Il cardinale Gerhard Ludwig Müller minimizza la sua «cacciata» dall’incarico curiale di prefetto alla Dottrina della fede - che gli era stato affidato nel 2012 da Benedetto - dicendosi «sorpreso ma non irritato» dalla decisione di Francesco e negando sue divergenze con il Papa. Ma in Vaticano è dominante l’opinione che le «divergenze» rispetto alle intenzioni di Bergoglio abbiano avuto un ruolo decisivo nel suo allontanamento. All’indomani della cessazione dall’incarico, nel quale è stato sostituito dal numero due della Congregazione, l’arcivescovo spagnolo Luis Francisco Ladaria, Müller ha detto ieri in dichiarazioni ai media tedeschi che «non c’erano divergenze tra me e il Papa» e che Francesco gli ha comunicato che non intende prolungare i ruoli di Curia oltre i cinque anni «ed io sono stato il primo a cui questa prassi si è applicata». Ha detto anche che non tornerà in Germania: «Condurrò lavoro scientifico, svolgerò la mia funzione di cardinale, sarò attivo nella cura delle anime. Ho abbastanza da fare a Roma». E ancora: «Continuerò a proclamare la fede e a difenderne la verità, sia che ciò appaia opportuno o inopportuno». Vedremo se davvero, d’ora in poi, Francesco

Page 11: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sostituirà tutti i capi dicastero al compimento del primo quinquennio: pare un proposito poco verosimile e chissà se i due nel drammatico colloquio che hanno avuto nella mattinata di venerdì si saranno capiti. Le indiscrezioni dicono che il Papa intendeva proporre al cardinale il passaggio ad altri incarichi, come fece nel 2013 e nel 2014 con i cardinali Piacenza e Burke. Ma pare che Müller non li abbia neanche voluti ascoltare. Né era pensabile un ritorno in Germania come vescovo di una diocesi: il contesto tedesco gli è contrario. La ragione ultima della decisione del Papa non starebbe nella difficoltà di rapporto personale e neanche nella diversa percezione delle priorità a cui porre mano nella vita della Chiesa, ma nelle idee totalmente alternative che i due coltivano riguardo al compito della Congregazione per la Dottrina. Idee riassumibili con due battute, una di Müller e l’altra di Bergoglio. Nell’aprile del 2015 il cardinale ebbe a dire al quotidiano francese «La Croix» che con un Papa «pastore» qual è Francesco «la Congregazione ha la missione di fornire una strutturazione teologica al Pontificato». Ma Bergoglio non vede affatto così il rapporto tra pastorale e teologia e in più occasioni ha ricordato che il Papa - com’è detto nel Codice canonico - è «pastore e dottore supremo» della Chiesa. Detto altrimenti: il cardinale si è attribuito un compito di «controllore» o «arginatore» dottrinale del Pontificato che ha espresso in interventi pubblici variamente contrastanti con le intenzioni e qualche volta con le parole del Papa. La battuta di Francesco a specchio di quella del cardinale arrivò durante un colloquio con i partecipanti al Convegno della diocesi di Roma, a metà giugno dell’anno scorso: dopo aver esposto le sue intenzioni innovatrici in materia di pastorale familiare, disse: «Per favore non andate ad accusarmi con il cardinale Müller». Non era solo una battuta: lungo le settimane dei due Sinodi sulla famiglia il cardinale aveva svolto un lavoro di accompagnamento critico che Francesco di certo non apprezzava. Il resto è secondario. Sia Bergoglio sia Müller hanno fatto dei tentativi di avvicinamento reciproco in questi quattro anni. Il cardinale ha dedicato un libro al tema preferito da Francesco: «Povera per i poveri. La missione della Chiesa» (Lev 2014) e il Papa fece la prefazione a quel testo. Müller ha pure abbozzato un gesto di appianamento delle difficoltà d’intesa con un altro testo: «Benedetto & Francesco. Successori di Pietro al servizio della Chiesa» (Ares 2016). Un momento di collaborazione effettiva l’hanno poi vissuto nel comune impegno per la beatificazione dell’arcivescovo Romero: il cardinale garantì che i testi del «martire» salvadoregno non contenevano errori dottrinali. Dalla sostituzione di Müller con Ladaria verranno novità, ma non immediate né clamorose. Più novità ordinarie, di fattivo accompagnamento dottrinale a sostegno, che novità di pronunciamenti pubblici: Ladaria è persona riservatissima e tale resterà nel nuovo ruolo. Ma con lui Francesco trova un interlocutore, mentre Müller non lo era. LA REPUBBLICA Pag 15 Non denunciò il prete pedofilo, quell’ombra nel passato del nuovo capo del Sant’Uffizio di Emiliano Fittipaldi e Giuliano Foschini Roma. Nel marzo del 2012 l'arcivescovo Luis Ladaria Ferrer, che sabato è stato promosso da Papa Francesco nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha coperto, senza denunciarlo, un prete pedofilo che era stato ridotto allo stato laicale per abusi sessuali. Di più. Ha ordinato, nero su bianco, che la condanna canonica passasse sotto silenzio. Don Gianni Trotta, grazie all'acquiescenza del Vaticano e della curia locale, ha così potuto continuare indisturbato a violentare minorenni: dopo essere stato costretto a lasciare la tonaca è infatti diventato allenatore di una squadra di calcio giovanile, e in due anni ha molestato una decina di bambini vicino a Foggia. La storia di Trotta è stata raccontata lo scorso febbraio da Repubblica che oggi, insieme a L'Espresso, è in grado di ricostruire le responsabilità dirette di Ladaria. È lui che il 16 marzo 2016 firma il decreto in latino, nel quale invitava i superiori del pedofilo a stare zitti e muti per non «generare scandalo tra i fedeli». Una nuova spina per Papa Francesco, che - dopo l'incriminazione formale del suo (ormai ex) braccio destro George Pell per presunti abusi su alcuni adolescenti australiani - ha deciso di nominare Ladaria come successore di Gerhard Ludwig Müller, il cardinale tedesco licenziato in tronco anche perché giudicato poco incisivo nella lotta alla pedofilia. Un paradosso. Andiamo con ordine. Sappiamo che don Trotta viene messo sotto processo in Vaticano nel 2009. Sappiamo anche che della vicenda non trapelò nulla e che Ladaria, segretario della

Page 12: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Congregazione dal 2008 fino alla promozione di queste ore, e il suo superiore di allora, il prefetto William Levada, firmarono il decreto che condannò don Trotta alla pena massima, cioè la messa in stato laicale, per abusi sessuali su minori. Il documento venne inviato, presumibilmente, ai superiori dell'orco, che apparteneva alla congregazione della Piccola Opera della divina provvidenza, e risiedeva nel vescovato di Lucera, vicino a Foggia. Per il Vaticano Trotta è ufficialmente un pedofilo, ma nessuno si prende la briga di denunciarlo alle autorità italiane. Ladaria e Levada scelgono un'altra strada. Nel documento, dopo aver comunicato che «don Gianni Trotta è colpevole di delitti con minori contro il sesto comandamento» e che «il Sommo Pontefice Papa Benedetto XVI ha deciso con suprema e inappellabile sentenza che per il bene della Chiesa sia da irrogare la dimissione dallo stato clericale e dalla Piccola Opera della divina provvidenza», dispongono che «l'ordinario faccia in modo per quanto possa, che la nuova condizione del sacerdote dimesso non dia scandalo ai fedeli». Un invito, in pratica, all'omertà. Vero che nella missiva Ladaria e il suo capo di allora aggiungono che «l'ordinario», ossia coloro che avevano potestà diretta su don Trotta, avrebbe potuto rompere il patto dell'acquiescenza davanti a un nuovo «pericolo di abusi su minori», e che in quel caso si poteva «divulgare la notizia della dimissione, nonché il motivo canonico sotteso». Ma si tratta di una postilla pilatesca: invece di denunciare il pedofilo alla magistratura, il nuovo capo della Congregazione per la Dottrina della Fede spostava infatti ogni responsabilità di vigilanza sull'istituto di appartenenza del maniaco. Un controsenso, visto che il vescovo, il parroco e il superiore dell'Ordine non hanno più alcuna influenza su un sacerdote ormai spretato. Trotta decide di restare nel paesino, riciclandosi come allenatore di piccoli calciatori. Nessuna delle famiglie sa della sentenza, perché la curia e l'istituto tacciono. Dal 2012 al 2014 oltraggia così (almeno secondo le accuse) una decina di ragazzini, tra pulcini delle giovanili e bimbe perseguitate in chat. Gianni distrugge in pratica la vita di un' intera generazione del borgo. Solo nell'aprile del 2015, grazie alla denuncia dei genitori di un bimbo di prima media che aveva trovato finalmente il coraggio di parlare, l'ex don viene arrestato per ordine di un pm di Bari, Simona Filoni. A luglio del 2016 Trotta è stato condannato in primo grado a otto anni di carcere per la violenza sul dodicenne, e tra qualche giorno inizierà un nuovo processo per gli abusi sugli altri bambini. «Se la Congregazione e la curia locale avessero denunciato alle autorità il sacerdote invece di scegliere la strada del silenzio, i piccoli sarebbero stati salvati dall' orrore: noi l'avremmo fermato», chiosa un investigatore che segue il caso. Una scelta, quella di Ladaria e Levada, che è discutibile sotto il profilo etico, ma che resta impeccabile sotto il profilo canonico. La decisione inoltre è permessa dalla legge: grazie ai Trattati lateranensi in Italia gli ecclesiastici non hanno l'obbligo di denunciare le condotte dei loro sottoposti, anche se queste hanno rilevanza penale. L'opzione del silenzio, infine, permette oggi il solito scaricabarile. «Io non sapevo nulla di Trotta» ha spiegato il vescovo dell'epoca Domenico Cornacchia. Di certo c'è il dolore dei sopravvissuti, e il fatto che il nuovo prefetto voluto da Francesco forse avrebbe potuto salvare qualche bimbo, se solo avesse anteposto gli interessi dei più deboli a quelli della Chiesa. Roma. «Non ce l'aspettavamo. In questi mesi abbiamo aspettato una telefonata di qualcuno, magari del Papa nel quale abbiamo grande fiducia, che ci avesse detto: scusate, non accadrà più. Questa notizia ci lascia perplessi: ma davvero nella Chiesa non sta cambiando nulla?». A parlare sono genitori coraggiosi. I primi, e tra i pochi, che - assistiti dall'avvocato Lina Fiorilli - hanno avuto il coraggio di denunciare Gianni Trotta, l'ex prete che aveva abusato di loro figlio. I soli che continuano a combattere una battaglia di giustizia e verità: hanno partecipato a tutte le udienze in tribunale che hanno portato alla condanna di Trotta. E proprio in aula è stata prodotta la lettera firmata dall'arcivescovo Ladaria con la quale invitava al silenzio per evitare le scandalo.«Ci aspettavamo - dicono - che chiunque avesse avuto a che fare con quell'uomo che ha abusato dei nostri figli fosse messo da parte. Sapere che chi ha invitato al "silenzio", viene addirittura promosso, in un ruolo così importante per la Chiesa, non ci fa piacere». Repubblica a febbraio aveva raccontato la vostra storia. Cosa è cambiato da allora? «Siamo stati convocati dal vescovo di Lucera, quello nuovo, che ci ha detto: "Mi dispiace, non sapevo niente". È vero, certo. Ma chi c'era prima di lui, sì. La nostra

Page 13: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

domanda resta la stessa: chi sapeva, perché non ha parlato? Perché hanno consentito a quel signore di stare ancora con i nostri bambini quando sapevano già tutto?». Ricapitoliamo: la Chiesa scopre qualcosa e nel 2012 caccia don Gianni. «E nessuno dice nulla né ai magistrati, né alla polizia. E nemmeno alla nostra piccola comunità, 2.500 abitanti: don Gianni, lo chiamavamo tutti così, era un catechista. Quando venne in quella scuola calcio, nessuno sapeva che non fosse più prete: lo chiamavamo don Gianni e anche per quello gli affidavamo i nostri figli. Eravamo tutti convinti che fosse in attesa di una destinazione in Africa. E invece stava rubando per sempre il futuro dei nostri figli». IL FOGLIO Pag 1 Un arduo cammino sulle tracce di Lutero di Giuliano Ferrara L’azione di Francesco ispirata a una nozione della fede come rapporto intimo dell’individuo con dio, fuori da ogni legame dottrinalmente codificato. Vedremo preti trasformati in pastori e donne che dicono messa? Stando a quel che riferisce Paolo Rodari sabato, il cardinale Gerhard Mueller lascerà la guida della Congregazione erede del Sant'Uffizio, detta per la dottrina della fede, e sarà con ogni probabilità sostituito da un gesuita spagnolo. Il Papa non teologo, e antiteologico, tutto pastorale, che vuole sentire l'odore delle pecore del gregge santo di Dio addosso ai pastori, e non i fumi concettuali della tradizione dottrinale, si libera di un cardinale indocile, nominato da Benedetto XVI a capo della struttura cruciale del Vaticano. Probabilmente inevitabile, visto che Mueller era stato critico sulle posizioni e le procedure sinodali con cui il pontificato ha introdotto nella chiesa cattolica una sostanziale autorizzazione al divorzio, con nuovo matrimonio, e dunque faceva resistenza, pur nella disciplina e nel rispetto delle prerogative del suo boss, su un punto decisivo del dialogo col mondo com'è di questo straordinario e controverso vescovo gesuita di Roma. Il tema della dottrina della fede sarebbe di una certa importanza. Più ancora del diritto canonico, i cui libri furono bruciati in piazza in un famoso rogo luterano, la dottrina è l'impalcatura per così dire costituzionale dell'istituzione pellegrina che i cristiani nei secoli si sono dati allo scopo di custodire e sviluppare senza strappi il tesoro del loro credo, che ha sempre fatto leva sulla sua invariabilità dogmatica. (segue a pagina quattro) Per la chiesa romana, come per gli stati nazionali e gli esperimenti sovranazionali o federali, l'impianto di principio da cui poi tutto il resto dipende ha qualcosa di letteralmente sacrale: costituzioni e dottrina, in parallelo, sono il luogo della permanenza, sottratto alla danza delle opinioni, la pietra dura di ciò che non cambia nei principi fissati come guida del tempo che passa e modifica il procedere della storia, con la differenza che le carte normative secolari sono frutto di qualche secolo di modernità, con agganci più antichi, mentre la dottrina della fede cristiana è un complesso millenario, bimillenario di pensiero ritualizzato e fondato sulle fonti di una Rivelazione divina di cui la successione apostolica ha le chiavi, ma di cui nessuno può disporre con troppa disinvoltura. All'inizio del pontificato di Francesco, quando mi piaceva studiare con un certo accanimento da neofita le mosse, il progetto ipotizzabile e dunque le conseguenze per la cultura e i costumi mondiali di un papato gesuita, mi imbattei nella previsione di alcuni Reverendi Padri romani, che confidavano alla stampa questo concetto: non si può innovare la pastorale con radicalità senza conseguenze dottrinali, a una chiesa povera e per i poveri, definizione teologica e non sociologica, così come la concepisce il Papa argentino della teologia del popolo, dovranno corrispondere necessariamente nuove coordinate dottrinali, insomma forme nuove della tradizione di fede. Ci siamo, mi pare. Non è certo che il processo possa essere compiuto nell'ambito di questo regno pontificale, ma è avviato, e con un concistoro sempre più segnato dalla scelta di cardinali del sud del mondo è ipotizzabile un futuro di riforma anche teologica e dottrinale della chiesa latina o occidentale. Come si prega, come si intende la messa, la natura della confessione privata dei peccati, quali e come siano strutturati i sacramenti, tra questi il matrimonio e il sacramento dell'ordine che autorizza i preti a un vicariato del Cristo, per non dire del primato papale, tutto questo è stato oggetto della critica innovatrice e radicale dei protestanti a partire dal Cinquecento. L'azione di Francesco, ispirata a una nozione della fede come rapporto esclusivo, intimo e misericordioso dell'individuo con Dio, fuori da ogni legame concettualizzante e dottrinalmente

Page 14: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

codificato, fuori dall'alleanza ratzingeriana e giovanpaolina tra fede e ragione, va nella direzione, sulla scorta del Vaticano II inteso come rottura e rivoluzione dell'essenza della tradizione cristiana, fissata dalla predicazione del monaco agostiniano di Wittenberg. Forse era fatale che finisse così, con questo nuovo inizio o ripartenza nel segno della libertà di coscienza del cristiano e dell'aderenza sine glossa, come si dice, alle Scritture Sacre. Vedremo preti trasformati in pastori, cioè in sacerdoti laici eletti dalla comunità? Vedremo donne che dicono messa? Chi lo sa, la chiesa di Roma è lenta, ma la profezia martiniana sul ritardo di duecento anni da recuperare va integrata, a cinquecento anni dalle Tesi di Wittenberg, a un arco di recupero temporale più ampio: cinquecento anni da rivisitare e recuperare. Solo i gesuiti potevano pensare una cosa così rischiosa e ardua, nonostante tutta la loro celebrata prudenza. AVVENIRE di domenica 2 luglio 2017 Pag 4 Dottrina della fede, nuovo prefetto. Ladaria subentra a Müller alla guida di Gianni Cardinale, Filippo Rizzi e Andrea Galli Un teologo professore prestato al servizio della Santa Sede. Quattro anni di riforme e nomine secondo Francesco La Congregazione per la dottrina della fede ha un nuovo prefetto. Papa Francesco infatti non ha confermato nell’incarico il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, 70 anni a dicembre, nominando al suo posto il gesuita spagnolo Luis Francisco Ladaria Ferrer, 73 anni. Dopo che negli ultimi giorni si erano registrati a riguardo alcuni “rumores” mediatici, ieri c’è stato l’annuncio ufficiale. Con una insolita formulazione infatti la Sala Stampa vaticana ha dato notizia della «Conclusione del mandato quinquennale del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e nomina del successore». «Il Santo Padre Francesco – si legge – ha ringraziato l’Eminentissimo Signor Cardinale Gerhard Ludwig Müller alla conclusione del suo mandato quinquennale di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e di presidente della Pontificia Commissione 'Ecclesia Dei', della Pontificia Commissione biblica e della Commissione teologica internazionale, ed ha chiamato a succedergli nei medesimi incarichi Sua Eccellenza reverendissima monsignor Luis Francisco Ladaria Ferrer, S.I., arcivescovo titolare di Tibica, finora segretario della Congregazione per la dottrina della fede». Non ci sono state spiegazioni ufficiali sul perché di questo cambio della guardia nel dicastero vaticano deputato ad aiutare il Papa nella promozione della fede e, soprattutto negli ultimi anni, nell’opera di repressione nei confronti dei chierici che si sono macchiati del delitto di abuso nei confronti di minori. Né è stato specificato se al porporato tedesco era stato offerto un altro incarico da lui eventualmente non accolto. Müller era in carica dal 2 luglio 2012 quando Benedetto XVI lo scelse personalmente come successore del cardinale statunitense William J. Levada - classe 1936 - che aveva superato i 75 anni che segnano l’età pensionabile dei capi dicastero della Curia Romana. Mentre è stato papa Francesco a crearlo cardinale nel suo primo Concistoro del febbraio 2014. Originario di Mainz, il porporato tedesco è stato ordinato sacerdote nel 1978 e nel 1985 ha conseguito la libera docenza a Friburgo. Membro della Commissione teologica internazionale dal 1998 al 2002, in quest’anno san Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Regensburg e alla cerimonia di ordinazione episcopale è presente anche il cardinale Joseph Ratzinger. Benedetto XVI gli affida personalmente l’edizione delle sue Gesammelte Schriften, gli scritti di carattere teologico, incaricandolo di curare la pubblicazione dell’opera omnia presso la casa editrice Herder di Friburgo. A supporto scientifico di questo progetto, articolato in 16 volumi, fonda nel 2008 a Ratisbona l’Istituto Papa Benedetto XVI, il cui compito principale consiste nella raccolta e nell’elaborazione di tutto il materiale edito e inedito di Joseph Ratzinger. Ha all’attivo oltre cinquecento pubblicazioni scientifiche. Tra le più note, Katholische Dogmatik. Für Studium und Praxis der Theologie (Dogmatica cattolica. Per lo studio e la prassi della teologia), di 900 pagine edita nel 1995 da Herder e più volte ristampata e tradotta in diverse lingue. Numerosi i riconoscimenti internazionali tributatigli: tra gli altri, quelli di due atenei cattolici polacchi e della Pontificia Università di Lima in Perú per la sua collaborazione con il celebre teologo Gustavo Gutiérrez. Il gesuita Ladaria Ferrer, originario di Maiorca, era stato nominato arcivescovo e segretario della Congregazione il

Page 15: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

9 luglio 2008 da Benedetto XVI, e fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Ratzinger. Un gesuita mite e riservato rimasto, seppur da arcivescovo e segretario dell’ex Sant’Uffizio sempre nel corso di questi anni un “teologo professore” della Pontificia Università Gregoriana – (la sede scelta ancora oggi come sua abitazione privata da cui raggiunge a piedi o spesso in autobus il suo luogo di lavoro in Vaticano) – prestato al servizio della Sede Apostolica. È il profilo e lo stile – sempre lontano dai riflettori dei media – che ha contraddistinto l’azione dello spagnolo Luis Ladaria Ferrer in questi anni nella sua veste di segretario della Congregazione per la dottrina della fede. A designarlo in questo delicato incarico fu proprio papa Benedetto XVI il 9 luglio 2008. E pochi giorni dopo a consacrarlo vescovo (il 26 luglio) fu l’allora segretario di Stato il cardinale Tarcisio Bertone. Una nomina che rappresentò un unicum e una novità assoluta nella storia del dicastero vaticano – (la prima fra le Congregazioni della Curia Romana) – : mai fino ad allora un figlio di Sant’Ignazio – (se si esclude il “caso” di san Roberto Bellarmino nel Seicento) – era stato chiamato a ricoprire un ruolo di governo all’interno dell’ex Sant’Uffizio. Nato a Manacor, la seconda città, dopo Palma, dell’isola di Maiorca nelle Baleari, il 19 aprile 1944, Ladaria si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Madrid nel 1966, anno in cui fa il suo ingresso nella Compagnia di Gesù. Ha compiuto gli studi di filosofia e teologia all’Università Pontificia Comillas (Spagna) e presso la Philosophisch- theologische Hochschule Sankt Georgen di Francoforte: tra i compagni di studi di quei corsi figurerà anche il gesuita e futuro teologo di fama internazionale Jon Sobrino. Padre Ladaria viene ordinato sacerdote il 29 luglio del 1973. Due anni dopo nel 1975 ha conseguito il dottorato in teologia (il cui relatore della tesi era il patrologo gesuita Antonio Orbe) alla Pontificia Università Gregoriana con una dissertazione su «Lo Spirito Santo in Sant’Ilario di Poitiers» . E non a caso la figura del santo, vescovo di Poitiers dottore della Chiesa e autore del famoso trattato De Trinitate è stata sempre una delle stelle polari della ricerca scientifica come racconterà lo stesso Ladaria in un’intervista al mensile 30 Giorni nel 2008. Fondamentali nella formazione scientifica del neo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sono gli incontri con dei “veri maestri della fede e della teologia contemporanea” come Alois Grillmeier (futuro cardinale creato da Giovanni Paolo II) e Juan Alfaro. Altre figure di riferimento per Ladaria soprattutto negli anni della sua maturità teologica e spirituale –sono stati anche due altri gesuiti e consultori dell’ex Sant’Uffizio – creati poi cardinali proprio da Benedetto XVI – come il canonista Urbano Navarrete e il teologo tedesco Karl Josef Becker. Docente di teologia dogmatica prima all’Università Pontificia Commillas e poi alla Gregoriana (di cui è stato anche vice rettore) dal 1992 al 1997 – per voler dell’allora cardinale Joseph Ratzinger – viene nominato membro della Commissione teologica internazionale e dal 2004 ne è segretario generale (succedendo in questo prestigioso incarico al cardinale domenicano Georges Marie Martin Cottier). Nel 1995 viene nominato da Giovanni Paolo II consultore della Congregazione per la dottrina della fede. Un gesuita mite e umile definito solo pochi anni fa durante un convegno alla Gregoriana del novembre del 2014 dedicato all’opera teologica di Ladaria dal suo predecessore il cardinale Müller come «un amico, stimato teologo e confratello nell’episcopato». Era il 28 settembre 2013 quando Francesco istituiva il Consiglio dei cardinali, inizialmente composto da otto porporati, a cui si aggiunse nel 2014 il segretario di Stato Pietro Parolin, portandolo alla cifra che poi lo ha reso noto come “C9”. Fu quello l’inizio di un processo di riforma della Curia Romana che, se si è sviluppato più lentamente di quanto alcuni si aspettassero, nondimeno a quasi quattro anni di distanza ha portato a diversi cambiamenti di rilievo. Nel febbraio 2014 è stata istituita la Segreteria per l’economia, nuova struttura di coordinamento degli affari economici e amministrativi della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, affidata alla guida di un prefetto, il cardinale George Pell. Accanto alla Segreteria è nato anche il Consiglio per l’economia – coordinato dal cardinale arcivescovo di Monaco Reinhard Marx – con il compito di vigilare sulle attività amministrative e finanziarie della Curia Romana e dello Stato della Città del Vaticano. Nel giugno 2015 ha visto la luce la Segreteria per la comunicazione, con monsignor Dario Edoardo Viganò come prefetto, con il compito di riorganizzare o accorpare le realtà vaticane attinenti ai media (Pontificio Consiglio delle comunicazioni

Page 16: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sociali, Tipografia vaticana, Libreria editrice vaticana, L’Osservatore Romano, Servizio fotografico, Radio Vaticana; Sala Stampa della Santa Sede, Centro televisivo vaticano e Servizio internet vaticano). Nell’agosto dello scorso anno è stato creato il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, guidato dal cardinale Kevin Farrell, dove sono confluite le competenze e le funzioni del Pontificio Consiglio per i laici – fino allora guidato dal cardinale Stanislaw Rylko – e del Pontificio Consiglio per la famiglia. Presidente di quest’ultimo organismo era l’arcivescovo Vincenzo Paglia, che continua a “occuparsi del tema” in una doppia veste: di presidente della Pontificia Accademia per la vita e di gran cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, enti sottoposti entrambi a una profonda revisione. Sempre nell’agosto dello scorso anno è stato istituito un altro dicastero, quello per il Servizio dello sviluppo umano integrale, guidato dal cardinale Peter Turkson, che ha assorbito i Pontifici Consigli della giustizia e della pace (di cui era presidente lo stesso Turkson), Cor Unum (ultimo presidente, fino al 2014, il cardinale Robert Sarah), della pastorale per i migranti e gli itineranti (di cui era presidente il cardinale Antonio Maria Vegliò) e quello della pastorale per gli operatori sanitari (ultimo presidente, fino alla morte nel 2016, l’arcivescovo Zygmunt Zimowski). Un ulteriore ente creato da Francesco, nel marzo 2014, è stata la Pontificia Commissione per la tutela dei minori, presieduta dal cardinale arcivescovo di Boston Sean O’Malley. Tra le nomine “apicali” di organismi della Curia Romana compiute da Bergoglio, si possono poi ricordare: Segretario di Stato (2013), il cardinale Pietro Parolin; prefetto della Congregazione per il clero (2103), il cardinale Beniamino Stella; presidente della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti (2014), il cardinale Robert Sarah; presidente della Congregazione per l’educazione cattolica (2015), il cardinale Giuseppe Versaldi. Altre nomine sono state: elemosiniere apostolico (2013), l’arcivescovo Konrad Krajewski; penitenziere maggiore (2013), il cardinale Mauro Piacenza; segretario generale del Sinodo dei vescovi (2013), il cardinale Lorenzo Baldisseri; prefetto del Supremo tribunale della Segnatura apostolica (2014), il cardinale Dominique Mamberti; comandante della Guardia svizzera pontificia (2015), Christoph Graf. La Congregazione per la dottrina della fede fu istituita nell’anno 1542 da papa Paolo III con il nome di Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, con lo scopo di vigilare sulle questioni della fede e difendere la Chiesa dalle eresie. È quindi la più antica delle congregazioni della Curia Romana. Alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II, il beato Paolo VI ridefinì le competenze e la struttura della Congregazione e ne cambiò il nome in quello attuale. Oggi, secondo l’articolo 48 della Costituzione apostolica “Pastor bonus”, promulgata da san Giovanni Paolo II nel 1988, «compito proprio della Congregazione per la dottrina della fede è di promuovere e di tutelare la dottrina della fede e i costumi in tutto l’orbe cattolico: è pertanto di sua competenza tutto ciò che in qualunque modo tocca tale materia». La congregazione è attualmente costituita da 22 membri (cardinali, arcivescovi e vescovi). Il ruolo di segretario resta vacante, dopo la nomina di ieri a prefetto dell’arcivescovo Ladaria. Segretario aggiunto è l’arcivescovo Joseph Augustine Di Noia, sottosegretario monsignor Giacomo Morandi e promotore di giustizia padre Robert Joseph Geisinger. Il dicastero comprende tre uffici: dottrinale, disciplinare e matrimoniale. Pag 22 Il volto del Padre illuminato dalla croce di Roberta Vinerba Le prediche di Spoleto / 2 Dopo il cardinale Giuseppe Betori è la francescana suor Roberta Vinerba a continuare la riflessione sulle parole del Padre Nostro, al centro quest’anno delle “Prediche di Spoleto”. Il ciclo, all’interno del Festival dei Due Mondi, continua fino a sabato 15 luglio. Venerdì 7 luglio sarà dom Donato Ogliari, abate di Montecassino, a intervenire su «Venga il tuo regno», mentre sabato 8 luglio il cardinale Gianfranco Ravasi proporrà una riflessione su «Sia fatta la tua volontà»; domenica 9 luglio tocca a Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, su «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; venerdì 14 luglio padre Ermes Ronchi parlerà su «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» e, infine, l’arcivescovo di Spoleto Norcia, monsignor Renato Boccardo chiuderà il ciclo su «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male».

Page 17: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Gesù ci consegna, nella preghiera del Padre nostro, sette domande. Mentre le ultime quattro «offrono alla sua grazia la nostra miseria» (Catechismo della Chiesa cattolica, 2803), le prime tre dicono la nostra vera identità nello strapparci dal baricentro autoreferenziale dell’io per gettarci nella contemplazione adorante del Padre. Il protagonista qui è il Tu del Padre e non la nostra indigenza. Chi ama non può che indirizzare tutto se stesso verso l’amato. Così noi, figli nel Figlio, partecipiamo di questo desiderio ardente del Figlio per la gloria del Padre e siamo aiutati a desiderare bene, a desiderare attendendo un compimento e attendendolo fattivamente. Che cosa desideriamo quando chiediamo che il suo Nome sia santificato? Desideriamo che in noi si compiano «tutti i misteri di Cristo» ( Fonti Francescane, 811), che il nostro battesimo giunga a piena fioritura fino al frutto maturo del Paradiso e che vedendo in noi questa pienezza di vita, altri giungano a glorificare il Padre. Desideriamo che il Padre sia conosciuto e sia reso trasparente dalla nostra vita: «risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Gesù prima di essere arrestato prega: «Padre giusto il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato, sia in essi e io in loro» (Gv 17,25-26). Gesù è il rivelatore del Nome, conosce il Padre perché viene da lui, ed è anche l’unico che può dire chi è Dio. Per la cultura semitica la domanda andrebbe posta in questi termini: qual è il nome di Dio? Poiché il nome era identificato con l’essenza della persona stessa, conoscerlo era come possederne il segreto intimo. Il nome è lo svelamento della propria intimità, è rendersi accessibili all’altro, rendersi vulnerabili, aprire un varco in se stessi perché l’altro possa entrarvi. Dire il nome significa dirsi disponibili alla relazione, è farsi dono all’altro. Una relazione inizia con un come ti chiami? Da qui la confidenza, l’essere parte della vita di qualcuno, possederne, in qualche misura, la chiave di accesso. Dio consegna il proprio nome a Mosè (cf Es 3,14) e nel rivelarsi come Colui che è rivela se stesso come Colui che è, che era – il Dio dei Padri (cf Es 3,6.13) e che sarà – la promessa per il futuro (cf Es 3,8.17). JHWH rivela se stesso come il Dio vivo che agisce nella storia, altro rispetto a Mosè (cf Es 3,5) eppure vicino (cf Es 33,11), altro rispetto ad Israele (cf Es 19,23) eppure vicino (cf Sir 24,7-8). Il Nome si è dato ad Israele con patto di fedeltà: «Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta» (Lv 26,11-13); come uno sposo alla sposa: «come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5b). La fedeltà di Dio a Israele resterà nonostante Israele. Nonostante Israele cerchi continuamente di farsi un nome facendo a meno del Nome, nonostante Israele che pur esprimendo con la riverenza cultuale la sacralità del Nome non vi corrisponderà con l’adesione del cuore: «Questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le sue labbra mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani» (Is 29,13). Israele non comprende l’amore con il quale Dio lo ama: non comprende la gratuita irrazionale preferenza di Dio e con il suo comportamento disonora il Nome. «Giunsero fra le nazioni dove erano stati spinti e profanarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: “Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese”. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che la casa d’Israele aveva profanato fra le nazioni presso le quali era giunta» (Ez 36,20-21). Qui il tema del Nome si intreccia con quello della santità. Dio è santo perché usa misericordia, perché si china continuamente in favore di un popolo ribelle. Egli conosce solo il movimento di discesa: «Sono sceso per liberarlo« (Es 3,8) disse a Mosè riguardo Israele e continua questo movimento nel voler restare presso Israele pur in mezzo alle sue prostituzioni. Il Nome liberante è il Nome santo. La discesa, la kenosis Dio, in ultimo, la compie mandando l’Amato, il Figlio perché «il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17b) fino alla discesa estrema della croce, il luogo nel quale la santità di Dio si rivela pienamente. E rivelandosi si vela nuovamente: perché non è cosa umana comprendere che la gloria di Dio (gloria nella scrittura è sinonimo di santità) sia un uomo nudo illividito su una croce. La santità di Dio dunque, è la sapienza della croce là dove si svela un amore che si fa carico dell’altro fino a non tenere niente per sé. Dio è il Santo che soffre. Santificare il nome di Dio è lasciare

Page 18: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

che lo Spirito in noi faccia morire le opere della carne, l’uomo vecchio che vuol farsi da solo, che vuole farsi Dio e che nega l’esistenza e la dignità a qualunque altro nome che non sia il proprio. Quando preghiamo che venga santificato il nome di Dio, altro non desideriamo che il Nome di Dio rivelato da Gesù, quello di Padre, sia così trasparente in noi, così luminoso in noi, nella nostra vita ordinaria, da illuminare tutti quelli che si trovano in questa casa comune che è la famiglia umana e la storia tutta. CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 luglio 2017 Pag 16 Ex Sant’Uffizio, il Papa sostituisce Müller che criticò il Sinodo di Luigi Accattoli Lo spagnolo Ladaria al posto del cardinale tedesco. E’ il primo gesuita prefetto alla Dottrina della fede Città del Vaticano. Cambio netto in Curia: Francesco sostituisce il cardinale tedesco Gerhard Müller, prefetto alla Dottrina della Fede, con il vice dello stesso dicastero, l’arcivescovo gesuita spagnolo Luis Ladaria. Sia Müller sia Ladaria erano stati chiamati a quei ruoli da papa Benedetto (l’uno nel 2012, l’altro nel 2008) e costituivano il pedale destro e sinistro di quella macchina: Benedetto privilegiava il destro, Francesco ora sposta il piede sul sinistro. Si tratta della maggiore novità introdotta nella Curia da papa Bergoglio dopo la sostituzione, nel 2013, del cardinale Bertone con il cardinale Parolin in Segreteria di Stato. Gerhard Müller, ratzingeriano integrale (a lui Benedetto ha affidato la pubblicazione della sua «Opera omnia»), all’arrivo di Francesco ha cercato di collaborare lealmente con il nuovo Papa, ma vi è riuscito solo sui temi sociali e non su quelli propriamente dottrinali. La vicinanza al Papa sui temi sociali è espressa in un libro di Müller intitolato «Povera per i poveri. La missione della Chiesa» (LEV 2014) per il quale Francesco ha scritto la prefazione. Nell’ottobre del 2015 fu tra i tredici firmatari di una lettera al Papa che protestava per la conduzione troppo liberal del secondo Sinodo sulla famiglia. Ultimamente aveva disapprovato le interpretazioni «aperte» delle indicazioni papali sui divorziati risposati che invece il Papa approvava. Luis Francisco Ladaria Ferrer, 73 anni, viene dall’isola di Maiorca, nell’arcipelago delle Baleari. Professore di dogmatica alla Gregoriana, vicerettore della stessa, segretario della Commissione teologica internazionale, è il primo gesuita al quale sia stata affidata la guida della Dottrina della Fede. Si considera un moderato: «Non mi piacciono gli estremismi, né quelli progressisti, né quelli tradizionalisti» disse in una rara intervista al mensile Trentagiorni , quando Benedetto lo nominò segretario alla Dottrina. Ambienti della destra spagnola e curiale lo considerano pericoloso per i suoi studi di «antropologia teologica» e sul «peccato originale» ma lui non si è mai curato di rispondere alle accuse, mostrando in ciò una libertà di spirito tipicamente gesuitica, simile a quella di papa Bergoglio di fronte ai tanti attacchi. «Ciascuno è libero di criticare» disse nell’intervista citata: «Questi pareri non mi preoccupano più di tanto». LA REPUBBLICA di domenica 2 luglio 2017 Pag 7 E Francesco archivia per sempre l’era Ratzinger all’ex Sant’Uffizio di Alberto Melloni E quattro. Dopo la scelta del presidente della Cei, la nomina del vicario di Roma e il congedo di Pell, Francesco ha fatto brillare la quarta carica di dinamite sotto le cristallizzazioni di cordate ecclesiastiche apparentemente irreformabili. Anziché rinnovare il mandato del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller, lo ha congedato e tante grazie. Un gesto senza precedenti nella storia. Da quando la suprema Congregazione della romana e universale inquisizione è stata fondata nel 1542 i quarantasei titolari hanno lasciato l’incarico: o perché fatti Papi (4 volte, Ratzinger incluso); o per nomina a più alto ufficio (3 casi); o per età (3 casi); 2 soli erano stati dimessi (Marescotti nel 1716 e Panebianco nel 1882) ormai malati, e gli altri sono morti in carica. Mai era accaduto che un prefetto non ancora settantenne e in salute ricevesse il benservito al millimetrico scadere del suo quinquennio che oggi è fissato come durata di ogni mandato rinnovabile: Bergoglio lo ha fatto con lo stile quatto e inflessibile di chi non ha un disegno di potere, ma una urgenza evangelica. I perché di questo licenziamento non sono indecifrabili e trovano conferma nel modo stesso in cui è

Page 19: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

uscita la clamorosa notizia. L’addio a Müller doveva renderlo noto la Santa Sede lunedì: ma uscito dall’udienza papale di venerdì scorso il porporato s’è aperto con qualche amico di provata indiscrezione e a sera tutti sapevano tutto. Un’inclinazione alla visibilità che combacia col modo in cui, in questi anni, Müller ha agito. Quantomeno freddo davanti a questioni disciplinari piene di dolore come quella delle vittime dei preti pedofili. Zelante nel fare da megafono alle opposizioni rumorose che oppongono al Sinodo e al Papa preoccupazioni teologiche grossolane. Un nugolo di dichiarazioni, articoli, interviste, dichiarazioni di Müller non sono la causa unica, ma sono servite a far sembrare lo stonato “quartetto dei Dubia” un inesistente “movimento antibergogliano”. E in molte sedi Müller si era invece proposto come autorità interprete e giudice della coerenza tra Francesco e un “magistero” della chiesa ridotto ad una breve antologia di rigidità dottrinali. Non era una posizione conservatrice: era una posizione eversiva. Un cardinale ha il dovere di dire al Papa (in privato) cosa a suo avviso sbaglia nel governo; non può far intendere (in pubblico) che il Papa potrebbe anche essere eretico, a meno che non abbia intenti eversivi, appunto.Francesco era rimasto impassibile davanti a ciò: era ed è convinto che gli antagonisti sono “come chiodi” e più li si batte, più si conficcano nel legno secco della chiesa; dunque bisogna aspettare che i chiodi si cavino da sé. Perciò ha atteso l’ultimo giorno lavorativo del quinquennio di Müller e gli ha comunicato che sarebbe stato sostituito da Luis Francisco Ladaria Ferrer, 73 anni, teologo dotto e di leggendaria mitezza, amato in Gregoriana e in Spagna, stimato da tutti, distantissimo dalla rozzezza di quelli che si definiscono “conservatori”. Con Ladaria – che conosce benissimo la macchina della Congregazione e non potrà essere usato o ingannato da alcuno, sia sul piano teologico che su quello disciplinare – finisce l’era Ratzinger dell’ex Sant’Uffizio. Quando Giovanni Paolo II nel 1981 portò a Roma l’allora arcivescovo di Monaco voleva esattamente un giudice e interprete capace di trasformare in una politica dottrinale il suo magistero pastorale. Ratzinger si prestò volentieri a fare da giudice e interprete dogmatico del Papa: lo fermò quando pensava esagerasse (Wojtyla voleva sigillare un’enciclica sulla vita col crisma dell’infallibilità; gli fornì la categoria del magistero “definitivo” per imbrigliare le discussioni difficili; gli prestò la sua ecclesiologia universalista. Una volta diventato Papa, Benedetto XVI non aveva bisogno di nessuno: e chiamò Levada e poi Müller (dal quale si aspettava l’accordo coi lefebvriani mai raggiunto) ma non gli diede la porpora. Francesco Müller se l’è tenuto e lo ha creato cardinale: lasciandolo libero per un altro incarico alla scadenza del primo mandato Francesco dice che il suo ministero non ha bisogno di tutori, perché ha nel vangelo sine glossa il suo pungolo e il suo metro. Ma con il fragore della quarta esplosione sveglia anche gli altri capi dicastero e gli ecclesiastici in carica: e conferma che il lottatore Bergoglio lotta. E se qualcuno si assopisse ci sarà la nomina dell’arcivescovo di Milano, e poi Parigi. E altro ancora. IL GAZZETTINO di domenica 2 luglio 2017 Pag 11 Francesco cambia il guardiano della dottrina Non rinnovato l’incarico al Sant’Ufficio del tedesco Müller, che aveva firmato una lettera di critiche al Papa Terremoto in curia. Il Papa gesuita affida a un teologo gesuita il vertice dell’ex Sant’Uffizio. Il pontificato di Francesco è foriero di continue novità. Stavolta il sostanziale cambiamento riguarda la sostituzione di un pezzo da novanta della squadra di governo. Il cardinale Gerhard Muller, il teologo tedesco che fino a oggi ha guidato la Congregazione della Fede e che in questi anni aveva dato parecchio filo da torcere a Bergoglio in fatto di riforme, lascia l’incarico. Dall’oggi al domani. L’indiscrezione del suo siluramento aveva preso a circolare alcuni giorni fa negli ambienti più tradizionalisti. Poi ieri mattina è arrivata la conferma ufficiale con l’annuncio vaticano della nomina di padre Luis Ladaria Ferrer, un gesuita spagnolo di 73 anni che nel 2008 Benedetto XVI chiamò a fare da segretario alla Dottrina della Fede. Ufficialmente il cambio della guardia è motivato dalla scadenza del quinquennio di permanenza alla congregazione di Mueller anche se, normalmente, la conferma del secondo quinquennio è sempre stata un proforma. Ma non stavolta. Per Muller si è trattato di una doccia fredda considerando la sua età: ha 70 anni. Gli mancavano 5 anni per raggiungere l’età della pensione ma la sua uscita di scena potrebbe salvare l’applicazione uniforme dell’Amoris Laetitia, il

Page 20: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

documento più importante del pontificato con il quale è stato riformato il matrimonio cattolico bersagliato da continui impedimenti e intralci da parte di vescovi ed episcopati (per esempio come quello polacco). Il benservito a Muller fa però affiorare curiose contraddizioni, per esempio il fatto che ai vertici di importanti dicasteri Francesco mantenga al loro posto cardinali abbondantemente pensionabili (Bertello al Governatorato e Amato alla Congregazione dei Santi). L’arrivo di padre Ladaria Ferrer dovrebbe portare più armonia; pur essendo stato per quasi dieci anni il braccio destro di Muller alla Congregazione della Fede, sulle questioni teologiche ha un approccio più morbido, dialogante. Molti lo descrivono come un teologo di impronta conservatrice ma moderato, un centrista, attento a rispettare i confini delle questioni di fede senza eccedere negli estremismi. L’ESPRESSO di domenica 2 luglio 2017 Ai poveri resta solo Bergoglio di Sandro Magister Francesco sta accentuando l’attivismo della Chiesa per i ceti più bassi e nel dialogo con i movimenti anticapitalisti Testo non disponibile L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede Congedo al cardinale George Pell La Santa Sede ha appreso con rincrescimento la notizia del rinvio a giudizio in Australia del cardinale George Pell per imputazioni riferibili a fatti accaduti alcuni decenni orsono. Messo al corrente del provvedimento, il cardinale Pell, nel pieno rispetto delle leggi civili e riconoscendo l’importanza della propria partecipazione affinché il processo possa svolgersi in modo giusto e favorire così la ricerca della verità, ha deciso di far ritorno nel suo Paese per affrontare le accuse che gli sono state mosse. Il Santo Padre, informato di ciò dallo stesso cardinale Pell, gli ha concesso un periodo di congedo per potersi difendere. Durante l’assenza del prefetto, la Segreteria per l’economia continuerà a svolgere i propri compiti istituzionali. I segretari rimarranno in carica per il disbrigo degli affari ordinari, donec aliter provideatur. Il Santo Padre, che ha potuto apprezzare l’onestà del cardinale Pell durante i tre anni di lavoro nella Curia romana, gli è grato per la collaborazione e, in particolare, per l’energico impegno a favore delle riforme nel settore economico e amministrativo e l’attiva partecipazione nel Consiglio di cardinali. La Santa Sede esprime il proprio rispetto nei confronti della giustizia australiana che dovrà decidere il merito delle questioni sollevate. Allo stesso tempo va ricordato che il cardinale Pell da decenni ha condannato apertamente e ripetutamente gli abusi commessi contro minori come atti immorali e intollerabili, ha cooperato in passato con le autorità australiane (ad esempio nelle deposizioni rese alla Royal Commission), ha appoggiato la creazione della Pontificia commissione per la tutela dei minori e, infine, come vescovo diocesano in Australia ha introdotto sistemi e procedure per la protezione di minori, e per fornire assistenza alle vittime di abusi. AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta di tenerezza di Giuseppe Betori Le prediche di Spoleto / 1 Anche quest’anno si rinnova la tradizione, all’interno del Festival dei Due Mondi delle “Prediche di Spoleto”. Il ciclo che si apre oggi e continua fino a sabato 15 luglio è intitolato La preghiera di Gesù: il Padre Nostro. Oggi apre il ciclo l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, con una riflessione sulle parole «Padre nostro che sei nei cieli» (di cui anticipiamo alcuni stralci), approfondendo il senso con cui sperimentare la paternità di Dio dopo il tempo che con Freud aveva annunciato la «morte del padre». Domani suor Roberta Vinerba mediterà su «Sia santificato il tuo nome»; venerdì 7 luglio dom Donato Ogliari, abate di Montecassino, su «Venga il tuo regno», mentre sabato 8 luglio il cardinale Gianfranco Ravasi proporrà una riflessione su «Sia fatta la tua volontà»; domenica 9 luglio tocca a Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di

Page 21: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Sant’Egidio, su «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; venerdì 14 luglio padre Ermes Ronchi parlerà su «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» e, infine, l’arcivescovo di Spoleto Norcia, monsignor Renato Boccardo chiuderà il ciclo su «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male». Padre nostro che sei nei cieli, possiamo incontrarti sulla terra? Questa domanda può essere il punto di partenza della nostra riflessione sulla prima parola della preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli. Perché che ci sia un Padre nei cieli può essere una interessante rivelazione fatta alla nostra conoscenza, ma che questo Padre sia da noi raggiungibile e lo sia non solo nel futuro, ma fin da questo momento, significa poter colmare la nostra esistenza di una presenza amorosa, di cui il nostro cuore sente ardentemente l’esigenza. Eppure, se il cuore manifesta questo desiderio, per altri versi il mondo attorno a noi registra quella che potremmo definire una dolorosa assenza. L’enfasi sulla “morte del padre” accompagna la retorica della nostra epoca, almeno dal sorgere della psicoanalisi. La riflessione di Freud, di Lacan, come anche del meno citato Mitscherlich – l’autore di Verso una società senza padre (1963) –, ci rende consapevoli della scomparsa dell’immagine del padre consegnataci dalla tradizione, il pater familias, il padre a cui Kafka scriveva la Lettera pubblicata postuma nel 1952, la figura paterna che aveva dominato la scena familiare per secoli. Quando ci rivolgiamo a Dio col titolo di “Padre”, diciamo qualcosa di preciso. Anzi, la rivelazione cristiana – parlandoci di un Padre – non solo dice come dobbiamo intendere correttamente Dio, a ben vedere ci dà anche un punto di vista nuovo sul reale. Se Dio fosse solo un principio ordinatore, qualcosa di simile al Dio di cui possono parlare i filosofi, lo si potrebbe raggiungere mediante il ragionamento. Lo stesso Tommaso d’Aquino introduce una piccola distanza, quando sottolinea come il principio del reale, raggiunto in ciascuna delle vie della conoscenza di Dio, «lo chiamiamo Dio», «viene chiamato Dio» (Summa Theol., I, qu. 2, art. 3). Dio, ci dice la rivelazione cristiana, non è solamente un Dio ordinatore: egli è Padre. E questa affermazione porta con sé la conseguenza che anche il reale è visto totalmente sotto un altro punto di vista; in particolare per quanto riguarda la creatura dotata di libertà e di intelligenza. È la rivelazione di Gesù che provoca questa “conversione paterna” della nostra immagine di Dio. Qui possiamo anche immaginare che il Bambino Gesù abbia avuto una scuola di paternità nella testimonianza di san Giuseppe. La famiglia di Nazareth fu per Lui il luogo in cui fare esperienza concreta e quotidiana della sollecitudine amorosa di un padre. In quella dimora umile e dignitosa, alla presenza discreta e appassionata di san Giuseppe, «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Come ricordava Papa Francesco nell’Omelia della Messa per l’inizio del ministero petrino (19 marzo 2013), san Giuseppe è il custode di Maria, di Gesù e della Chiesa, e svolge questo compito con attenzione a Dio. Aggiungeva il Papa: «Il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole; anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore». Ma Gesù, nel suo continuo richiamarsi al Padre, ci permette di rovesciare un’altra prospettiva, oggi sempre più diffusa. Come fa notare Marcel Gauchet in un brillante volume, «se il XX secolo è stato quello della scoperta del bambino reale, il XXI secolo si apre nel segno della sacralizzazione del bambino immaginario» (Il figlio del desiderio, Vita e pensiero, 2010). Così oggi siamo sempre più proiettati nel guardare ai figli come oggetti del desiderio, come prolungamento narcisistico del nostro sguardo. Al contrario, fa notare Massimo Recalcati, occorre recuperare il senso di un debito simbolico, rendersi conto che siamo anzitutto figli. Solo a partire dall’assunzione consapevole dell’essere figli possiamo diventare adulti e generare, a nostra volta, dei figli: altrimenti ci troviamo a essere in competizione con i nostri figli per gli stessi spazi (adulti che si vestono e si comportano come ragazzini) oppure pretendiamo che essi siano sempre felici e pieni di successo (e siamo incapaci di sostenerli negli inevitabili fallimenti della vita). Recalcati si richiama a Telemaco come esempio del figlio che ha bisogno del padre e lo cerca, che vuole ereditare qualcosa dal padre. Chi non accetta questo debito simbolico fa come i vignaioli omicidi della parabola evangelica: nelle parole di Recalcati, i vignaioli rigettano «la filiazione simbolica nel nome di un fantasma di autogenerazione» (Il complesso di

Page 22: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Telemaco, Feltrinelli 2014). È l’inganno del serpente che nel paradiso terrestre suggerisce ad Adamo ed Eva che saranno come Dio, cioè in grado di autogenerarsi (cfr. Gen 3,5). Non possiamo dimenticare che invece siamo tutti generati dal Padre. Ma che vuol dire allora che Dio è Padre? Dobbiamo ancora una volta rifarci a colui che ci parla di Dio in questo modo: dobbiamo ancora una volta rivolgerci a Gesù. Gesù ha incontrato in Giuseppe la testimonianza di un amore paterno, la casa paterna è stata per lui un luogo di sollecitudine e custodia, di tenerezza e passione. Ma se Gesù parla di Dio come un Padre, è perché ha una testimonianza ancora più profonda, ancora più radicale; della quale la vita di Giuseppe può considerarsi solo come l’immagine. Se nelle parole di Gesù Dio ha i tratti del Padre, è perché ha su questo un’attestazione ancora più intima e veritiera. Vale a dire che Gesù non si è creato l’immagine di Dio come un Padre, non si è fatto un concetto del Creatore, adattandolo a una figura a tutti familiare, che trasmette il senso della protezione e dell’affetto. Gesù ha vissuto realmente l’esperienza di Dio Padre: se Gesù può rivelare agli uomini che questo è il volto di Dio, è perché sperimenta continuamente questo nel proprio cuore. Gesù chiama il Padre Abbà, babbo, svelando un’intimità con Lui che scombina il modo con cui nella storia gli uomini hanno guardato a Dio. Per Gesù Dio è Abbà, perché Lui, Gesù è il Figlio. Gesù ci dice che Dio non è solo il Creatore, l’Onnipotente, l’Altissimo: è Babbo, la persona che ogni figlio ha bisogno di avere per sentirsi sicuro, per aprirsi al mondo con la fiducia necessaria. L’intimità che Gesù ha con il Padre apre a un affetto nutrito di tenerezza. C’è una cosa che forse non si nota a sufficienza, ma che è piena di significato. A ben vedere, nel Vangelo Gesù distingue il suo rapporto con il Padre da quello che abbiamo noi. Nel giorno della Risurrezione, mentre dice a Maria di Magdala di andare ad annunciare ai discepoli la sua ascesa al Padre, lo fa con queste parole: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”» (Gv 20,17). E anche quando insegna la preghiera che dà il titolo a questa conferenza non dice: «quando preghiamo, dobbiamo dire: Padre nostro », ma dice: «Voi dunque pregate così: Padre nostro...» (Mt 6,9). In un commento al passo di Matteo in cui Gesù parla del Padre nostro, Papa Francesco sottolinea che «se lo spazio della preghiera è dire “Padre”, l’atmosfera della preghiera è dire “nostro”: siamo fratelli, siamo famiglia» (Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 giugno 2016). Ecco perché la preghiera che Gesù insegna comincia con queste parole: in questo modo ci ricordiamo che siamo fratelli e che il mondo in cui siamo non è nostro, ma ci è stato donato da un Padre sovrabbondante di amore per l’uomo. LA REPUBBLICA di sabato 1 luglio 2017 Pag 11 Scatta la caccia al successore di Pell, in bilico anche il presidente dello Ior di Paolo Rodari Peter Saunders: “Sul cardinale australiano avevo ragione io, non ci si può nascondere alla giustizia per sempre” Testo non disponibile IL FOGLIO di sabato 1 luglio 2017 Pag 3 Nuovi fulmini su San Pietro Cosa significa, se confermata, l’uscita del card. Müller dalla Dottrina della fede Testo non disponibile Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 luglio 2017 Pag 12 Quei sogni così fragili di un genitore di Silvia Avallone Il caso Charlie Un figlio nasce prima di venire al mondo. Le sue cellule, le sue ossa, il disegno del suo volto prendono forma dal tessuto essenziale di cui è fatto: il desiderio. Che non ha nulla

Page 23: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

a che spartire con gli altri desideri, perché è un chiamare senza oggetto, immaginare uno sconosciuto, pregare una storia d’iniziare. Non ci sono ragioni che sostengano questa domanda immane e spericolata. Nessuno è all’altezza di diventare genitore, mancano spalle abbastanza robuste, strade valide già tracciate, l’equilibrio necessario a prendere decisioni che incideranno sulla felicità di un altro. Eppure lo desideriamo, questo altro. Assembliamo camerette, facciamo spazio negli armadi. La sua attesa è manomissione, insinuazione del nuovo nelle vecchie regole quotidiane. Sono le tutine di ciniglia color pastello lavate e stirate. È la paura di quel che accadrà e la smania che il tempo passi. Che arrivi in fretta, lui con la sua presenza. Allora ci adoperiamo: le lenzuola piccole per la culla, l’amido di riso per il bagnetto. «Vogliamo fargli un bagno a casa, vogliamo sederci sul divano con lui, vogliamo dormire nel letto con lui, vogliamo poterlo mettere in una culla perché non ci ha mai dormito» implorano Chris e Connie nell’ultimo video. L’elenco delle cose semplici. Non secondo ragione, ma secondo desiderio, questo elenco è un diritto. Anzi, prima ancora, una necessità fisica che viene dalla zona più remota del nostro stomaco, da dietro lo sterno, da più oltre. Guardare il lettino pronto, le coperte rimboccate, la camera colma di giochi, e pretendere che là, prima o poi, nostro figlio verrà ad abitare. Quando questo si avvera, quando lo vediamo - vivo e reale -, esistere, non ci sono più argini. Solo il futuro conta. Un futuro che non è universale, non è una parola. È il suo corpo. Sono il suo peso, la sua altezza, la forma precisa delle sue orecchie. Non c’è cosa che valga più della salute, della felicità di quel corpo. Che è sconosciuto, ma pieno dei sogni che gli abbiamo affidato. Sogni piccoli, elementari, come immergerlo in una bacinella d’acqua a 37,3 gradi. Vederlo crescere. Assistere al suo primo sorriso, alla prima volta che afferrerà un oggetto, al giorno in cui saprà voltarsi e poi rotolare. Avere questo privilegio: stare lì, dentro il divenire di una persona. Che può solo fiorire, imparare. Perché deve. Perché così è giusto. Charlie Gard, appena nato, è uscito dall’ospedale. Come tutti, con la sua promessa. Chris e Connie lo hanno sistemato nell’ovetto facendo attenzione, con l’insicurezza e la goffaggine della prima volta. Sono saliti in auto e hanno guidato esageratamente piano. Hanno avvertito in gola, con i sensi in allerta, la minaccia del meteo: troppo caldo, troppo freddo. A ogni passo, là fuori, hanno affrontato la misura incontrollabile del mondo. Regredendo a una condizione dove tutto è pericolo, e il solo compito è difendere. Dallo smog, dai rumori, dalla polvere. Difendere a qualsiasi costo lui; infinitamente esposto, e carico di speranze. Poi si arriva. Si apre la porta. Si entra. Poi si comincia. Nella normalità nuova. Connie, Chris e Charlie, questo inizio, lo hanno ricevuto. Hanno conosciuto l’emozione di svegliarsi di soprassalto, la mattina dopo, nella solita casa, e correre a vedere come tutto fosse diventato diverso. Rivolgersi le domande stupide dei principianti: Senti se respira! Abituare lo sguardo a un volto così piccolo, che quando alzi gli occhi e li posi su chiunque altro, ti sembra enorme. Aspettare la crescita delle ciglia. Che lui ti guardi e ti riconosca. Scoprire il suo odore. Tutto questo, per Connie e Chris, è durato otto settimane. Dopo, è successa la cosa che ogni genitore dentro di sé, nel luogo più oscuro che ha, teme. Si sono accorti che qualcosa non andava. Che Charlie non reagiva, sembrava come inanimato. Sono corsi indietro, in ospedale, contro la direzione giusta delle cose, contronascita. Non sono più usciti. L’orizzonte del mondo si è ristretto a una stanza del Great Ormond Street Hospital. Sono scattati gli esami, i protocolli, le diagnosi, le sentenze. Le parole che non capisci: sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. Che cerchi di studiare forsennatamente, anche se non sei un medico, anche se sei impotente. Un genitore non può essere impotente. Può solo farsi tigre e combattere. Esigere che se suo figlio non potrà mai camminare, né sorridere, né parlare, forse potrà vivere. In qualche modo, che ancora non si conosce, che ancora non esiste. Lo faremo esistere lo stesso. Perché non si può tradire quella promessa. Non puoi abdicare. Anche se i polmoni non funzionano, i reni non funzionano, il cuore non funziona. Un genitore è una persona fragilissima. Deve servire, spostare montagne, essere un mezzo per. Deve, in fondo, essere capace di un unico compito infame: quello di separarsi. E tu lo accetti, ma solo a patto che tuo figlio realizzi la sua promessa. Lo lasci andare, ma solo in un luogo più ospitale e accogliente. Se no, no. E lo strazio di combattere ogni giorno la stessa battaglia vana, varrà la pena. Qualsiasi prezzo, varrà la pena. Perché non esiste altro senso. E tu non senti ragioni. Tuo figlio non ha una ragione. Ha dieci mesi, un volto. Ha un nome.

Page 24: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Pagg 18 – 19 Padri e separati: la “guerra” dei figli di Martina Pennisi e Maria Silvia Sacchi Molte leggi sono cambiate, anche se l’Italia resta un paese arretrato. Ma c’è chi prova a rompere la regola che vuole i bambini “proprietà” delle mamme Sale sull’autobus con il passeggino e lo infila con manovra svelta nell’apposito spazio dedicato. Dopo, è un continuo di «eh», risolini, rimandi tra il padre e la bambina nel passeggino. Se c’è una cosa che si vede a occhio nudo a Londra è la quantità di padri che si occupano dei propri figli. Di qualunque nazionalità o religione siano. «Mia moglie è stata chiara - dice un imprenditore italiano sposato con una inglese -. Mi ha detto subito che dei figli mi sarei dovuto occupare anche io esattamente come lei». Ne hanno tre e adesso che si sono separati, e lui è tornato in Italia, fa continuamente Milano-Londra per occuparsi, appunto, dei figli. Anche perché, racconta un altro padre italiano, «qui molti hanno un lavoro flessibile o comunque si esce presto dall’ufficio». Londra non è la panacea del mondo e non è nemmeno rappresentativa di un intero Paese così come tutte le grandi metropoli e come ha dimostrato il voto su Brexit. Ma certo fa effetto vedere così tanti uomini camminare con neonati nel marsupio, spingere carrozzine, dare biberon. E senza che ci sia la madre a fianco a controllare “le manovre”. A Milano qualcosa si muove, eppure sul tema padri-figli in caso di separazione siamo ancora lontani. Non che qualcuno non ci provi. E se ci prova vive su di sé il pregiudizio che vuole i figli delle mamme. È guardato «strano»: dagli avvocati, dagli assistenti sociali, dai giudici. «Mi serve sempre almeno un’ora per giustificarmi e convincere gli interlocutori che voglio continuare a occuparmi di mia figlia perché l’ho sempre fatto, non per ripicca nei confronti della mia ex, e che il tempo che mi sarà concesso sarà sicuramente meno di quello che le ho dedicato quotidianamente durante il mio matrimonio», racconta un padre 39enne che si sta separando nel capoluogo lombardo. Non dimentichiamo che nel 2013 questa tendenza ad adottare misure automatiche in favore della madre sono costate all’Italia una condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una delle dieci negli ultimi sei anni per violazione del diritto alla bigenitorialità. Il Paese si trova in mezzo a una transizione profonda e non si sa se andrà avanti o tornerà indietro. Molte leggi sono cambiate negli ultimissimi anni. Sulla spinta delle prime associazioni dei padri separati, come «Crescere Insieme» fondata da Marino Maglietta, è stata introdotta la norma che ha previsto come regola l’affidamento condiviso dei figli a entrambi i genitori perché non perdessero il sacrosanto rapporto con il genitore che usciva di casa; anche se poi dovendo dare a questi figli/e una residenza quest’ultima continua a essere soprattutto quella della madre e il sistema di mantenimento degli stessi quello dell’assegno mensile (l’Istat dice che continuano a pagarlo i padri con poche variazioni: dal 93,9 per cento del 2007 al 94,1 per cento del 2015). Nel nostro Paese sono state, inoltre, accelerate le procedure di separazione-divorzio (2015) e previste forme alternative ai giudici: ci si può separare e divorziare con la sola assistenza dell’avvocato o direttamente in Comune (2014). Lo si è fatto per «disingolfare» la giustizia, oberata da cause su cause. Il punto è che i genitori italiani separati/divorziati hanno finito per delegare ai giudici ogni decisione, abdicando alla loro funzione primaria: quella di essere genitori, appunto. Lo conferma il procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Milano Circo Cascone: «Il giudice, i servizi sociali, i consulenti devono agire in via residuale: quando i genitori scelgono di non decidere per i loro figli e danno sfogo al conflitto e quindi al processo. Sono loro a scegliere la macchina risolutiva del conflitto che poi criticano per le decisioni che emette. Basterebbe allora scegliere di comporre la lite con un accordo avvalendosi della mediazione familiare o della negoziazione assistita. Ma questo avviene raramente». Cascone chiosa, centrando uno degli aspetti più delicati: «Una cultura della mediazione probabilmente è quello che manca ancora oggi nei genitori che litigano». Se manca, sono i giudici a iniziare a fare da sbarramento. A Milano, ai due genitori che non riuscivano a mettersi d’accordo sulle vacanze, la sezione Famiglia, guidata da Anna Cattaneo, ha fissato l’udienza per discutere il ricorso dopo le vacanze, costringendo i due a mettersi d’accordo da soli. A Catania il giudice Felice Lima è andato oltre: ha deciso la stabile collocazione del figlio (ovvero nella casa di chi il figlio dovesse avere la residenza principale) presso il padre, anziché la madre, nonostante fossero entrambi adatti. Secondo Lima, dando maggiori responsabilità ai padri si otterrebbe una diminuzione del

Page 25: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

numero di «padri disimpegnati» e di «madri proprietarie». In sostanza: ai padri ed ex coniugi (italiani) va concesso più spazio anche per educarli alle conseguenze relazionali, economiche e professionali che comporta crescere in casa, da soli, i figli. «Ci si prende a bambinate», è stato detto durante l’incontro organizzato in Tribunale a Milano dal Centro per la riforma del diritto di famiglia. Effettivamente è emerso che l’intero sistema che ruota alla famiglia sta scadendo di qualità. Tutti parlano del diritto dei bambini e delle bambine, ma nella pratica tutti cercano di far vincere il proprio cliente. E questa è parte importantissima del problema della crisi della famiglia in Italia. Manca la legge più importante, quella dei patti prematrimoniali: la possibilità di decidere, quando ci si sposa, quali saranno le condizioni del divorzio. Senza questa legge l’Italia è nella situazione di avere una famiglia che parte con una certa logica (quella basata sulla comunione dei beni, ancorché la maggioranza scelga il regime della separazione dei beni) e una fine in cui è come se non ci si fosse mai visti prima. Lo dimostra la cosiddetta «sentenza Grilli», emessa dalla Corte di Cassazione, secondo la quale nel determinare l’assegno di mantenimento all’ex coniuge non si deve più tener conto del «tenore di vita» goduto durante il matrimonio. Molti, anche molte donne, hanno detto che spingerà le mogli all’autonomia. «La verità - dice Anna Danovi, avvocata matrimonialista e presidente del Centro per la riforma del diritto di famiglia - è che si chiede a donne ampiamente adulte che hanno lasciato il lavoro e la propria carriera per seguire la famiglia di rimettersi sul mercato del lavoro. Cosa trovano a quell’età? Una mia cliente di 50 anni, con tre figli, che ha lasciato tutto d’accordo con il marito, non ha trovato altro che mettersi a dare ripetizioni private». Nel frattempo, però, il marito grazie al fatto che la moglie si occupava dei figli ha potuto fare una carriera brillante. Ed è qui che l’avvocata vedere una differenza nei padri. «Le donne chiedono che gli uomini si facciano carico dei figli, ma quando il padre è un uomo che ha un lavoro che lo impegna 10 ore al giorno difficilmente accetta di farsi carico dei figli. Anche se magari a parole lo dice». Perché alla fine un punto centrale sta proprio lì. Se si vive per il lavoro, non si può vivere per gli affetti. E qualcuno dei figli si deve occupare. IL GAZZETTINO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Banche venete, una lezione per il futuro di Romano Prodi Il governo italiano ha finalmente preso la necessaria decisione sul salvataggio delle due banche venete che versavano da lungo tempo in una crisi irreversibile e che correvano il rischio di infettare tutto il sistema bancario italiano. La decisione è stata oggetto di molte critiche sia per l’onere che essa potrà comportare sul bilancio dello Stato, sia per il vantaggio che sembra essere derivato a Banca Intesa, che si è assunta il compito di assorbire quello che resta della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Non mi sento di entrare sugli aspetti qualitativi e quantitativi di quest’intervento pubblico anche perché le possibili conseguenze finanziarie di alcune di queste decisioni non possono ancora essere quantitativamente definite. Mi limito solo a sottolineare che l’intervento con denaro pubblico ha costituito una prassi costante degli innumerevoli salvataggi bancari messi in atto in tutti i paesi del mondo durante la lunga crisi economica che abbiamo forse definitivamente alle spalle. Senza ritornare sugli interventi del governo americano attraverso la così detta Tarp, è bene ricordare che l'aiuto pubblico versato alle banche tra il 2010 e il 2014 è stato di oltre il 10% del Pil in Germania e in Olanda ma solo dell'1% in Italia, dove pure molte banche erano oppresse da un peso eccessivo di crediti di assai dubbia solvibilità. Dati questi punti di partenza l'intervento del governo avrebbe dovuto essere salutato con favore, soprattutto perché ha tolto di mezzo il rischio di fallimenti sistemici che avrebbero potuto non solo danneggiare il sistema bancario italiano ma contagiare anche quello europeo. Eppure bisogna ammettere che le pesanti critiche negative pervenute da parte germanica sul salvataggio delle banche venete sono del tutto giustificate in quanto decisamente in violazione dello spirito dell'Unione bancaria e del senso per cui è stata creata. Il salvataggio delle banche venete ha infatti trasferito sulle spalle dello Stato alcuni oneri che le regole della neonata Unione Bancaria europea mettono ora sulle spalle dei detentori di azioni e di obbligazioni. In parole più semplici, non vengono oggi ritenuti legittimi interventi pubblici che erano invece ammessi negli anni nei quali lo Stato tedesco e quello olandese hanno pesantemente aiutato il proprio sistema bancario. Anche noi italiani dobbiamo

Page 26: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

evidentemente essere soggetti a queste regole che noi stessi abbiamo sottoscritto. I tedeschi hanno perciò ragione di lamentarsi e di rinforzare la loro resistenza al completamento di un'Unione Bancaria che esige il rigoroso rispetto della comune disciplina. A questo punto dobbiamo osservare che la Commissione Europea di Bruxelles, che sempre accusiamo di applicare le regole in modo burocratico, ha usato ogni finezza giuridica per permettere al governo italiano di trovare una via d'uscita da un pasticcio che poteva danneggiare in modo irreparabile tutto il nostro sistema economico. Ha quindi agito in modo saggio anche se contro la lettera della legge. Non mi sento tuttavia di concludere che tutto è bene quello che finisce bene perché questa vicenda lascia troppe ferite aperte e ci obbliga a riflettere sul funzionamento del nostro sistema bancario. Ci dobbiamo infatti chiedere perché, nei confronti delle crisi bancarie, non si è agito in tempo, con la stessa tempestività con cui sono intervenuti i governi olandese e tedesco. Bisogna cioè riflettere sull'efficacia degli strumenti di sorveglianza della Banca d'Italia e sulla debolezza del coordinamento fra il Ministero dell'Economia e la stessa Banca d'Italia. Sono passati troppi anni dal momento in cui a Siena, in Veneto, nelle Marche, ad Arezzo o a Ferrara la insostenibilità della crisi rendeva inevitabile un intervento sulla banca locale, rispetto al momento in cui si è finalmente cominciato a prendere le necessarie decisioni. Tutto questo non solo ha fatto lievitare il peso degli interventi che si sono dovuti infine adottare ma ha anche gravemente danneggiato l'intera economia italiana, essendo stato causa non secondaria dell'aumento dello spread che ha mantenuto più alti del dovuto i tassi di interesse del nostro pesante debito pubblico. Accogliamo quindi con un sospiro di sollievo le decisioni prese ma impariamo almeno due lezioni per il futuro. La prima è che il processo di sorveglianza sul sistema bancario deve essere rapido e incisivo, così come le decisioni del governo, a loro volta, non possono essere continuamente rinviate da pressioni e interessi indebiti. La seconda lezione è che non possiamo più illuderci che si possa ripetere la misericordiosa eccezione che è stata usata da Bruxelles nei nostri confronti. Riflettiamo infine sul fatto che, con il salvataggio delle banche venete, il nostro sistema bancario può esprimere un sospiro di sollievo ma che i problemi che stanno alla base della sua persistente debolezza sono ancora presenti e minacciosi e che bisognerà perciò porre progressivamente rimedio all'eccesso dei crediti inesigibili e ai troppo elevati costi di un settore economico che si sta trasformando in modo radicale e che ancora più si trasformerà in futuro. AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 2 Giustizia solo insieme agli esclusi. Un patto sociale che vale nelle periferie come sul lavoro di Salvatore Mazza Quello rivolto mercoledì scorso da papa Francesco ai sindacalisti della Cisl è stato un discorso emozionante, drammatico, coinvolgente. Parole andate diritto al cuore dei problemi del lavoro che, soprattutto in questi tempi che il lavoro non c’è, hanno voluto ricordare a tutti quale sia la vera essenza della questione, e quali siano le vere sfide che ci sono in ballo. «Sindacato – ha detto non a caso all’inizio – è una bella parola che proviene dal greco syn-dike, cioè “giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi. Il buon sindacato rinasce ogni giorno nelle periferie, trasforma le pietre scartate dell’economia in pietre angolari». Un discorso in cui, aldilà delle diverse e importantissime questioni affrontate – il lavoro femminile, la necessità di un nuovo patto generazionale, lo sfruttamento, la condizione dei migranti –, Francesco ha una volta di più messo il dito sulla sempre più ampia è profonda piaga del nostro tempo: una sperequazione economica che rischia di stravolgere irreversibilmente la stessa struttura fondante della società. Parole forti, che come sempre hanno anche fatto storcere la bocca a qualcuno. Non è un problema di oggi. Perché, in effetti, sono decenni che la dottrina sociale della Chiesa mette in guardia circa quella deriva. Puntualmente corretta, se non avversata o addirittura combattuta, dai corifei di una economia ridotta a capitalismo finanziario le cui non-regole hanno finito per dettare e condizionare i tempi della politica, fino a rovesciarne la vocazione e a far perdere la nozione stessa di bene comune. Dom Helder Camara, che dal 1964, e per oltre vent’anni, fu vescovo di Olinda e Recife, in Brasile, diceva con una battuta: «Se do da mangiare ai poveri dicono che sono un santo, ma se chiedo perché ci debbano essere così tanti poveri, o se dico che i lavoratori hanno diritto a un giusto salario, allora mi danno del comunista». La stessa

Page 27: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

schizofrenia che investì papa Wojtyla dalla pubblicazione della Centesimus annus in avanti, nel 1991, e che diciannove anni dopo, a Westminster, fece dire a Benedetto XVI: «È stato incoraggiante, negli ultimi anni, notare i segni positivi di una crescita della solidarietà verso i poveri che riguarda tutto il mondo. Ma per tradurre questa solidarietà in azione effettiva c’è bisogno di idee nuove, che migliorino le condizioni di vita in aree importanti quali la produzione del cibo, la pulizia dell’acqua, la creazione di posti di lavoro, la formazione, l’aiuto alle famiglie, specialmente dei migranti, e i servizi sanitari di base. Quando è in gioco la vita umana, il tempo si fa sempre breve: in verità, il mondo è stato testimone delle vaste risorse che i governi sono in grado di raccogliere per salvare istituzioni finanziarie ritenute “troppo grandi per fallire”. Certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente “troppo grande per fallire”». Sulla linea dei suoi predecessori, Francesco non offre, non può offrire, ricette preconfezionate. Però col suo richiamare non solamente quelli che sono i princìpi etici ineludibili, quelli che dovrebbero regolare il patto sociale di una società che voglia dirsi veramente civile, ma soprattutto esortando i cristiani, a dare testimonianza concreta circa l’applicazione di quei princìpi, rilancia un messaggio profondamente e radicalmente evangelico. Che non è solamente un appello generico alla perequazione delle ricchezze, affinché nessuno possa dirsi escluso, ma si fonda su quel «ama il prossimo tuo come te stesso» che, alla fine, dovrebbe distinguere i credenti in Cristo. Quasi a dire: se vuoi dirti davvero cristiano, tu per primo non puoi comportarti in maniera diversa da quella che il tuo stesso credere impone. E questo vale a tutti i livelli. Non ci sono “ma” o distinguo possibili. «Cultura, volontariato e lavoro – ha detto papa Ratzinger nel 2012 – costituiscono un trinomio indissolubile dell’impegno quotidiano del laicato cattolico, che intende rendere incisiva l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa, tanto nell’ambito privato quanto nella sfera pubblica della società. Il fedele laico si mette propriamente in gioco quando tocca uno o più di questi ambiti e, nel servizio culturale, nell’azione solidale con chi è nel bisogno e nel lavoro, si sforza di promuovere la dignità umana». Un presenza e un’azione capace di sconvolgere i tanti alibi alle omissioni. A iniziare dalle nostre. Pag 3 Regno Unito: occupazione al massimo, lavoro incerto di Silvia Guzzetti Il paradosso del mercato con la disoccupazione ai minimi. Genitori intercambiabili, si può essere sempre licenziati Susie e Nick, british con lauree diverse. In musica Susie, che doveva essere insegnante ed è finita a lavorare come manager in una multinazionale di informatica; in ingegneria meccanica Nick. Stessa generazione, quarantenni, con un tratto in comune alla stragrande maggioranza dei cittadini del Regno Unito: il lavoro fisso, sicuro, che non c’è più. È il paradosso, o forse no, del mercato del lavoro in Gran Bretagna che il mese scorso ha registrato il livello più basso di disoccupazione – appena il 4,5% – dal 1975, ma in cui il licenziamento è sempre dietro l’angolo. Tanto che tra marito e moglie occorre essere intercambiabili in tutto: lavori domestici, cura dei figli e soprattutto mantenimento della famiglia, perché lo richiede il sistema economico nel quale si vive. Quando a casa rimane il marito lo stipendio lo guadagna la moglie e viceversa e il problema non è come inserirsi in 'quell’azienda così sicura' ma come costruirsi un portfolio di esperienze e competenze che consenta di trovare subito un nuovo lavoro appena si è perso quello vecchio, perché è ciò che avverrà. Così si impara – missione non facile – a tenere sempre un occhio su nuove opportunità anche mentre si è impiegati e si ridimensiona, paradossalmente, proprio perché così insicuro, il significato e il valore del lavoro stesso. Se una volta si provava verso l’azienda, dove si trascorreva una intera vita lavorativa, un profondo attaccamento e ci si sentiva quasi dei traditori ad andarsene, oggi ad occupare il centro degli affetti sembra essere tornata la famiglia, quei legami che, unici, rappresentano un saldo punto di approdo nella grande tempesta di un mercato così instabile. Le storie di Susie e Nick sono emblematiche. Nick, 43 anni, dottorato di ricerca in ingegneria meccanica a Sheffield e una lunga esperienza commerciale, superqualificato, ha fatto una cosa inimmaginabile fino a poco tempo fa: si è licenziato quando la moglie Wendy aspettava il secondo bambino. Certo l’ha fatto dalla posizione privilegiata di chi ha sempre qualche proposta di lavoro e non è mai stato disoccupato a lungo, ma la paura di perdere il ruolo di breadwinner, di sostegno

Page 28: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

principale alla famiglia, così importante per l’identità maschile, l’ha provata, fortissima, anche lui. «È stato difficilissimo. Sentivo, dentro di me, quel messaggio antico che mi diceva che è l’uomo che deve portare a casa lo stipendio e, licenziandomi, mi comportavo da egoista e mettevo a rischio la mia famiglia. In fondo mi sono laureato nel 1994, quando attraversavamo una dura recessione, e ho fatto un dottorato di ricerca proprio perché non riuscivo a trovare un buon lavoro», spiega. «Qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Magari mezzo milione di ingegneri sarebbero arrivati dall’India e il mercato del lavoro sarebbe cambiato improvvisamente e sarebbe poi stato impossibile rientrare. Certo – continua – io e mia moglie abbiamo sempre risparmiato. È la nostra rete di protezione dall’insicurezza del mercato. Abbiamo risparmi sufficienti per vivere per un periodo ragionevole prima di trovare un nuovo impiego se rimaniamo senza lavoro». Con quella somma da parte Nick avrebbe potuto comprarsi una bella automobile e tenersi il suo lavoro, investendo magari anche nella pensione, ma «quei primi sei mesi di vita di mio figlio non sarebbero tornati mai più ed era importante per me trascorrerli con mia moglie Wendy, il neonato Nye e mia figlia più grande Bronwyn», dice, «e dimenticare per un attimo il lavoro, avere tempo per noi, fare tutto con la lentezza giusta, senza essere sempre sovraccaricati, stanchi e stressati». «Avevo letto che il dispiacere più grande degli uomini, quando sono in punto di morte, è di aver trascorso troppo tempo al lavoro e non sufficiente con la loro famiglia e non volevo che capitasse a me. Non volevo perdermi l’infanzia dei miei figli – spiega ancora Nick –. Non mi sono mai pentito e quei sei mesi di vita della mia famiglia sono uno dei ricordi più belli». Alla fine tutto è andato per il meglio. L’impresa, che fa consulenza alle diverse società che, in Gran Bretagna, operano nelle ferrovie privatizzate, anziché accettare la lettera di licenziamento di Nick, ha deciso di tenerlo offrendogli uno 'zero hours contract' ovvero un contratto che permette all’azienda di licenziare il dipendente in qualunque momento ma consente anche al lavoratore di rifiutare il lavoro che gli viene offerto. «In realtà, in questo periodo, hanno sempre bisogno di me e finisco per lavorare circa trentasette ore alla settimana o anche di meno se ho bisogno di più tempo per la mia famiglia», spiega ancora Nick. Gli 'zero hours contract', ormai assai diffusi in Gran Bretagna, sono messi in discussione per il rischio di sfruttamento del dipendente che comportano, «ma, nel mio caso – continua Nick – questo tipo di accordo è vantaggioso sia per me sia per l’azienda dal momento che sono ancora molto richiesto ma posso gestire il mio tempo e, quando ne ho bisogno, trascorrerne di più con la mia famiglia». Oggi in Gran Bretagna è raro che qualcuno mantenga lo stesso impiego per più di dieci anni, mentre in passato era normale rimanere nella stessa impresa per venti o trent’anni. «Mi hanno licenziato la prima volta alla fine degli anni novanta – racconta Susie, sposata a Robin, due figli ancora alle elementari –. Allora si provava ancora un profondo sentimento di vergogna quando si perdeva il lavoro mentre oggi è considerato normale. Convivo con l’insicurezza ogni giorno sapendo che lo stipendio che ricevo alla fine del mese può mancare. Ho perso il lavoro altre due volte anche se con un buon pacchetto di licenziamento. La mia azienda manda via dipendenti ogni anno e, ormai, è normale vedere quella parola 'licenziato' sul curriculum». L’ex insegnante di musica spiega che la sua personalità la spinge a non cercare in continuazione altri lavori ma a dedicarsi completamente a quello che ha al momento. In fondo, nonostante sia rimasta a casa due volte, ha lavorato sempre nello stesso gruppo, anche se con ruoli diversi. «Sono fedele al mio datore di lavoro e mi piacerebbe rimanere, ma può darsi che l’azienda si muova in una direzione che non mi interessa e allora me ne andrò. Per me è importante la possibilità che mi offrono di lavorare da casa, per alcune ore ogni settimana, e di cenare con i miei figli che sono ancora piccoli – continua Susie –. Il fatto che lavoriamo in due mi fa sentire sicura. Abbiamo finito di pagare il mutuo della nostra prima casa proprio quando è cominciata la crisi del 2008 grazie al fatto che abbiamo due stipendi». I l lavoro, nel Regno Unito, è spesso meno sicuro che in Italia, anche se alcuni settori, come quello accademico, sono ancora in grado di offrire contratti permanenti. Gli stipendi, a differenza dell’Italia, sono di solito inversamente proporzionali al grado di sicurezza dell’impiego. «Un consulente di un’azienda di informatica, per esempio, potrebbe avere un contratto di soli pochi mesi e venire pagato benissimo per la sua competenza e la natura molto breve del suo contratto – spiega Anthony Glass, docente di economia all’università di Loughborough –. I risparmi diventano, di conseguenza, una rete di protezione e una famiglia solida è importante perché occorre la sicurezza di due

Page 29: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

stipendi per sopravvivere e i due partner devono essere intercambiabili sia per quanto riguarda lo stipendio che la cura della casa e dei figli». «La Brexit, però, ha posto un grande punto interrogativo su tutto ciò – continua il professore –. È difficile, infatti, prevedere quali saranno le conseguenze ma è probabile che si verifichi una 'fuga' di stranieri che hanno lavori poco pagati. Per gli impieghi qualificati e pagati meglio, invece, probabilmente non cambierà molto, perché le aziende cercheranno ancora di attrarre gli stranieri più preparati e li sosterranno quando cercheranno di ottenere il diritto di lavorare nel Regno Unito. Tuttavia è possibile che alcuni grandi gruppi, preoccupati per il rischio di perdere l’accesso a mercati europei chiave, decidano di trasferirsi altrove e questo potrebbe danneggiare l’economia britannica nel lungo periodo». Nella Gran Bretagna della piena occupazione, non c’è nulla di più incerto del proprio lavoro. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 6 “Venezia è invasa, ma noi rimaniamo qui” di Marisa Fumagalli e Pierluigi Panza Migliaia di residenti contro la pressione delle presenze turistiche. Critiche a Comune e Unesco. La soprintendente Codello: “Più tasse per i turisti e limiti per gli ingressi in piazza San Marco” Parte del testo non disponibile «Il rapporto tra residenti e turisti è un problema, ma alcuni aspetti sono enfatizzati: meglio affrontare 20 milioni di turisti a Venezia che 20 milioni di auto a Roma». La soprintendente Renata Codello (Segretario regionale) ha qualche suggerimento per drenare l’alta marea dei turisti, più invasiva dell’acqua alta. «Su Venezia gravitano decine di agenzie turistiche con una frammentazione. Così si finisce con l’avere una concentrazione negli stessi luoghi nelle stesse ore con un danno per tutti. Serve coordinamento». Ticket o tornelli? «Il ticket non è in considerazione. Bisogna far pagare una tassa di soggiorno ai Bed and Breakfast e agli alloggi turistici. Il costo in più dei rifiuti per i turisti è di molti milioni. L’idea tornelli è respingente, bisogna limitare il massimo affollamento in area marciana con strumenti tecnologici di informazione». Gli abitanti, intanto, calano e si lamentano. «Sì, ma ci sono anche fenomeni nuovi: 15 anni fa non si trovava un supermercato; adesso sì sparsi in città. I veneziani hanno disagio da affollamento, ma molti cedono le proprie case ai turisti per avere una rendita. C’è da sperare che la nuova delibera limiti i cambi di destinazione d’uso». Nella città del cinema non c’è più un cinema... «Ma abbiamo più di duemila eventi all’anno, la Fenice e mostre strepitose. Inoltre per i cittadini ci sono norme di salvaguardia: sui vaporetti salgono prima i veneziani, che hanno uno sportello prioritario. I turisti pagano 7 euro e i veneziani un euro e mezzo. Al Lido stanno aumentando i residenti veneziani, anche perché ha servizi orientati ai residenti. È vero che i progetti di rigenerazione degli Hotel Des Bains ed Excelsior non sono partiti, ma gli stabilimenti balneari funzionano e il Lido ha ottenuto il bollino blu di acqua pulita». I turisti che piacciono sono solo quelli ricchi. «Il problema del turismo giornaliero riguarda il fine settimana e su questo è difficile intervenire. Il turismo di altissima gamma sta invece occupando nuovi siti: oltre al Cipriani e all’Hilton ora ci sono l’Isola delle rose (Hotel Marriott realizzato da Matteo Thun) e il Kempinsky a San Clemente». Gli alberghi sono cari, le case carissime. «Alberghi ci sono per varie gamme e non costano più che a Parigi. I costi delle case sono stabilizzati, non più alti che a Firenze: costoso è il restauro. Ma questo ha consentito di

Page 30: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

avere un Canal Grande tutto in ordine: negli anni Ottanta cadeva a pezzi. Molti compratori sono stranieri, è vero; ma alcuni aiutano: una signora americana ha comprato Ca’ Dario senza timore degli spettri». L’ex Fondaco dei Tedeschi è diventato uno shopping mall per mano di Koolhaas… «A me sembra un’operazione riuscita. La presenza di merce di valore sta allontanando la vendita di paccottiglia e ha creato posti di lavoro per i giovani». Serve il referendum per separare Venezia-Mestre? «È un controsenso. Si sta cercando di far decollare la città metropolitana e si torna su questioni nostalgiche. I 7 euro del vaporetto mantengono anche le linee mestrine. Venezia terrebbe le tasse di soggiorno, ma rischierebbe di diventare una città chic per le élite. Venezia è integrazione». Europa Nostra ha proposto di farla diventare Capitale europea della cultura. «Idea importante, ma queste iniziative, lanciate anche ai tempi del sindaco Costa, vanno poi seguite e tradotte concretamente in azione vitale. Si può inventare un anno di cura della città, estendendo questa richiesta fuori dall’Italia». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III Duemila “resistenti” per Venezia di Vettor Maria Corsetti “Di turismo si può anche morire”. Variopinto corteo per chiedere la tutela della residenza Un variopinto corteo di manifestanti tra i 6 e i 76 anni. Che da campo e fondamenta dell'Arsenale a riva degli Schiavoni, nonostante il solleone, ha coinvolto circa duemila persone (e anche di più, secondo gli organizzatori). Con i politici mescolati discretamente tra la folla, e i rappresentanti di 42 tra associazioni e comitati o semplici cittadini a fare la parte del leone con cartelli e striscioni, slogan, bandiere e brevi discorsi al megafono. E i centri sociali che con il consueto impianto mobile hanno assicurato il sottofondo musicale, attingendo abbondantemente dal repertorio dei Pitura Freska. A colpire di Mi no vado via, ieri mattina, soprattutto l'adesione di Confartigianato Venezia e l'intervento in veneziano del suo rappresentante delegato e membro di giunta Antonio Moressa. Che, pur non usando i toni polemici degli altri rispetto al sindaco Luigi Brugnaro e all'Amministrazione comunale, ha detto che «Venezia non è fatta per i soli turisti», e per salvarla «bisogna dare voce agli artigiani», mentre l'uditorio sollecitava all'unisono più botteghe per loro. «Dai trecento partecipanti al primo flash mob siamo passati a oltre duemila persone ha commentato Marco Gasparinetti di Venezia mio futuro Di questo passo per riunirci dovremo chiedere a Brugnaro la Misericordia, perché la sala San Leonardo non ci basterà più. Il sindaco accentratore che si tiene una molteplicità di deleghe e non ascolta nessuno non può ignorare quanto sta succedendo. Questa manifestazione cittadina ha schierato 42 organismi diversi ed è rivolta in primo luogo a lui. Per lanciargli il messaggio che Venezia è anche nostra». Dopo la partenza da campo dell'Arsenale, la prima a prendere la parola è stata Barbara Pastor di Futuro Arsenale, che ha attaccato Ca' Farsetti in quanto «sorda alle istanze e alle proposte dei cittadini». Tommaso Cacciari del Comitato no grandi navi, invece, ha parlato di corteo straordinario partito come una scommessa e anche numericamente superiore alle aspettative: «Questa è la Venezia degna che resiste ha aggiunto Stiamo costruendo un grande noi fatto di tanti io, in risposta a Brugnaro che vorrebbe fare di Venezia una seconda Dubai». Giampietro Pizzo, già candidato sindaco per VeneziaCambia, ha chiesto la discussione del Piano degli interventi da parte del Consiglio comunale. Mentre Lidia Fersuoch di Italia Nostra ha sollecitato per settembre «gli Stati Generali dei comitati cittadini, come quelli che hanno preceduto la Rivoluzione Francese». Critico con Brugnaro e la sua maggioranza anche l'attore e regista Alessandro Bressanello. Perché a suo giudizio il sindaco, detentore della relativa delega, «ha un'idea di cultura da Roxy Bar». «Quando ho sentito che c'era una manifestazione per proteggere Venezia e i suoi diritti civili, mi sono informata subito presso parenti e amici. Ed eccomi qui, insieme a loro. Perché questa è stata e nel cuore continua a essere la mia città». Tra i partecipanti a Mi no vado via, anche Laura Fragiacomo, veneziana ed ex cafoscarina che da trent'anni vive all'estero: prima a Londra, dove ha conosciuto suo marito, e più recentemente in Nuova Zelanda. «È giusto che Venezia sia protetta dai tanti pericoli che minacciano la

Page 31: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sua incolumità continua Come il turismo, che non va demonizzato ma nemmeno subìto. E le navi da crociera, decisamente troppo grandi rispetto ai suoi edifici». Giovanni Cavalieri, che porta al collo un cartello in dialetto dove spiega di essere veneziano, di non essere in vendita e di volere restare qui, si scaglia contro il turismo di massa e uno sfruttamento della città basato sulla logica del denaro a tutti i costi: «Tanti interessi in gioco e scarsa attenzione verso le necessità dei residenti lamenta Di turismo si può vivere, ma anche morire. Troppi bar, quasi fossimo tutti alcolizzati. E bed & breakfast che spuntano come funghi: solo nella calle dove vivo, se ne contano quattro. Mentre una vera politica per la casa è di là da venire». «Sono qui per protestare contro tutto quello che porta Venezia a essere una non-città aggiunge l'ex libraio e ora promotore culturale Vittorio Marchiori Inoltre, su Venezia e Mestre comuni autonomi, dopo tanti no voterò sì, per cercare di cambiare quanto gli altri non hanno voluto cambiare. Non si tratta più di destra e di sinistra, perché a questo livello le responsabilità sono equamente divise». Per Luca, operatore nel settore alberghiero, «di questa manifestazione sono condivisibili i princìpi di massima. Specie in materia di residenza, che richiede un interesse adeguato da parte di chi ha il governo della cosa pubblica. La politica dell'attuale Amministrazione comunale non mi trova d'accordo, e ritengo avrà conseguenze gravi. Di questo passo, tra poco, nemmeno avremo più una città». «Nato negli Stati Uniti da genitori veneziani, da un anno e mezzo mi sono stabilito qui conclude Frank Barbalato Rispetto a come la ricordavo, la città è cambiata in peggio. Non può vivere di solo turismo, e va ripopolata. Gli assi portanti del suo rinnovamento? Tutela dell'ambiente, una seria politica residenziale, la regolamentazione dei flussi turistici e una diversificazione della sua economia». Tra i cartelli più originali sfoggiati, fotografati e filmati durante la manifestazione, sicuramente quello fai-da-te di quattro signore con le parole in blu su fondo bianco: Veneziani assediati / non domati / residenti / resistenti. Ma degno di menzione, soprattutto per le sue dimensioni, anche lo striscione d'apertura di corteo in italiano e in inglese Il mio futuro è Venezia. Oltre ai cartelli contro l'Unesco, accusata di essere un ente inutile dopo la proroga concessa a Venezia e all'Italia in materia di grandi navi. Tra l'altro, ieri il portavoce del 25 Aprile, Marco Gasparinetti, in un tweet ha accusato di tradimento la direttrice Unesco Irina Bokova, visto l'annuncio di una moratoria di 2 anni per l'analisi del dossier Venezia. Tra gli altri messaggi scritti o gridati dai manifestanti, Via gli avvoltoi dalla laguna, La città siamo noi, Più botteghe per gli artigiani, Basta alberghi a Venezia, Ca' di Dio per i nostri veci, Distruggete Venezia solo per denaro. Nonché, da una barca, un solitario Autonomia, Statuto speciale, Venezia città-stato. E in chiusura, il fin troppo scontato Chi non salta Brugnaro è, scandito al megafono da Marco Gasparinetti del Comitato 25 Aprile. Pur essendo indubbiamente molto partecipata, alla manifestazione erano assenti quasi tutte le persone di ispirazione politica vicina a quella dei fucsia del sindaco Brugnaro ma anche dei suoi alleati a cominciare da Forza Italia e la Lega. Sparuta anche la rappresentanza della destra. «Per quanto riguarda i contenuti della manifestazione, il ripopolamento e la necessità di cambiare molte cose in città non si può che essere d’accordo - commenta il consigliere fucsia Maurizio Crovato - ma è evidente che questa manifestazione sia stata strumentalizzata politicamente in senso anti Brugnaro, tra l’altro siamo esattamente a due anni dall’insediamento. E questo mi pare puerile. Questi sono problemi di tutti, non di una parte politica». Per Crovato, insomma, l’obiettivo era solo la giunta Brugnaro. «Una manifestazione non si nega a nessuno - prosegue - ma che il capopopolo sia Tommaso Cacciari mi fa un po’ sorridere. E che c’entra poi “Venezia e Mestre due grandi città”? Mi piacerebbe davvero aver visto una manifestazione simile di Tommaso Cacciari con Casson sindaco. È nella puerilità della sinistra pensare che questi siano solo i “loro” problemi. Invece sono problemi della città e Brugnaro non è di destra né di sinistra. Io - conclude - ho visto anche manifestare diversa gente titolare di bed & breakfast. Avrebbero dovuto rinunciare a manifestare, se non altro per coerenza». Da Gian Angelo Bellati a Stefano Chiaromanni, nutrita la presenza di sostenitori di Venezia e Mestre comuni autonomi tra i partecipanti alla manifestazione partita da

Page 32: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

campo dell’Arsenale e conclusasi intorno al monumento dedicato a Vittorio Emanuele II. Tra gli altri volti noti gli ex assessori Roberto D’Agostino, Tiziana Agostini e Luigi Giordani, gli ambientalisti Andreina Zitelli e Cristiano Gasparetto nonché Roberto Ellero, già anima di Circuito Cinema e del Centro culturale Candiani. Per volontà degli organizzatori, invece, sottotono la presenza di politici: Nicola Pellicani (Pd), Giovanni Pelizzato (lista Casson), Sara Visman (Movimento 5 Stelle) e Pietro Bortoluzzi (Fratelli d’Italia). LA NUOVA Pag 12 “Terrorismo, il pericolo resta alto” di Carlo Mion Il procuratore aggiunto Adelchi d’Ippolito: a rialto un successo investigativo importante, ma non abbassiamo la guardia «Come per i reati riconducibili al fenomeno della criminalità organizzata anche per quanto riguarda il terrorismo l'aver sventato un tentativo è sempre e comunque un risultato "parziale". Sarebbe drammaticamente miope pensare di aver debellato il fenomeno solo perché si è riusciti a colpirne una singola manifestazione». Il procuratore aggiunto di Venezia Adelchi d'Ippolito invita a non abbassare la guardia ad alcuni mesi dallo smantellamento della cellula jihadista kosovara che voleva compiere un attentato sul ponte di Rialto. Scampato pericolo. ma la guerra al terrorismo è lunga? «Anche all'indomani di un risultato investigativo o repressivo di rilievo la guardia va tenuta alta, anzi, vorrei dire più alta di prima: il sollievo - e la soddisfazione - che certamente magistratura, forze dell'ordine e comunità civile possono condividere non devono portare a sottovalutare, ciascuno per l'ambito che gli compete, il fatto che permane il rischio concreto di altri attentati, della nascita di nuove cellule, della radicalizzazione di altri soggetti che pur vivendo nel nostro territorio finiscono per sposare la causa perversa e violenta dello stato islamico». Un lavoro complesso senza sosta e che impone l'approfondimento di ogni piccolo elemento raccolto? «La lotta al terrorismo non si improvvisa, né si può gestire con interventi a intermittenza, confinati al prevenire e perseguire la singola manifestazione criminosa che è sempre spia di un fenomeno più vasto. Richiede un impegno ininterrotto e soprattutto coordinato tra investigatori, inquirenti e gli altri organi istituzionali (prefetture) che collaborino e scambino, tra di loro e con le realtà istituzionali centrali (Pna) le informazioni di cui dispongono in un piano unitario di prevenzione e repressione». Un metodo investigativo che premia? «I risultati che si sono ottenuti a Venezia sono emblematici, sono il frutto di un'attività investigativa prolungata, paziente e costante. Un metodo di lavoro che si è rivelato efficace reso possibile grazie a una fitta rete di rapporti investigativi che la Procura Distrettuale ha saputo intrattenere e intrattiene, oserei dire quasi quotidianamente, con tutti i comandi periferici delle forze dell'ordine. In tal modo, attraverso questo continuo scambio di informazioni, è possibile registrare anche i segnali più impercettibili di allarme, tutte le anomalie o le situazioni sospette che possono così essere valutate in tempo reale dalla Procura Distrettuale». Quali piste battere per individuare i terroristi che vivono tra noi? «Una particolare attenzione viene rivolta alla intercettazione dei flussi di denaro sospetti. Non dimentichiamo che il terrorismo necessita di essere finanziato. Seguire il filo rosso del denaro consente d'intercettare chi questo denaro mette a disposizione o chi se ne deve servire per attuare i vari piani criminali. Un altro importantissimo bacino di informazioni è senza dubbio il web. È un fatto ormai notorio come l'arruolamento dei combattenti dell'Is sia in pratica l'ultimo tassello di un processo di radicalizzazione che ha come principale cinghia di trasmissione proprio la rete».Combattere il terrorismo è una battaglia difficile che deve impegnare tutti? «È una battaglia che, come altre combattute nel nostro paese, si può vincere. Nessuno pensi però che il contrasto al terrorismo soprattutto a questo terrorismo sia questione che riguarda solo la magistratura e la polizia giudiziaria. La fiducia che inquirenti e forze dell'ordine hanno direi meritatamente saputo guadagnare da parte dell'opinione pubblica deve trasformarsi in collaborazione attiva di ogni componente della società civile, nel cogliere e segnalare situazioni sospette e nel sollecitare interventi tempestivi». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 2 luglio 2017 Pag XII Fiera e parrocchia in guerra per lo stand gastronomico di Melody Fusaro

Page 33: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Chirignago: scambio di accuse tra gli organizzatori dell’evento di settembre e don Roberto Trevisiol «Se non troviamo volontari per il Magna e bevi non avremo alternativa a chiedere a qualcun altro che prenda in mano la manifestazione». L'appello di don Roberto Trevisiol, pubblicato nei giorni scorsi nel foglietto parrocchiale, ha fatto saltare sulla sedia il presidente dell'associazione Fiera Franca, Giuseppe Saccoman. Che tra i due non corra buon sangue non è una novità, ma di recente sembrava in corso una tregua. Fino a quando le parole riportate sul giornalino hanno rispolverato i vecchi rancori. Da anni la fiera e l'iniziativa della parrocchia convivono. Il gruppo sportivo della chiesa di San Giorgio organizza il Magna e bevi, lo stand gastronomico nei giorni della Fiera Franca di Chirignago che si svolge nel secondo fine settimana di settembre. Che cos'è una fiera senza lo stand gastronomico? Secondo Saccoman, però, se c'è il Magna e Bevi è solo per quieto vivere: «Un'iniziativa svolta da anni dal gruppo nel sagrato della chiesa ricompensato al parroco, non compresa nel programma ma tollerata dall'organizzazione per quieto vivere». Quest'anno però la San Giorgio non se l'è sentita: i soci, anche per ragioni di età, non sono più in grado di garantire la parte più pesante del lavoro, il montaggio e lo smontaggio dello stand. Confermata la disponibilità per la cucina, la parrocchia ha lanciato un invito ai parrocchiani: fatevi avanti. Cosa non gradita da Saccoman che, con l'associazione, si era già proposto per prendere in mano lo stand. «Avevamo informato il parroco, assicurandogli un compenso per l'uso dell'area del sagrato - spiega Saccoman - e don Roberto Trevisiol si era impegnato a dare una risposta a breve. Ma siamo ancora in attesa». E accusa il parroco di confondere le idee: «L'unica manifestazione è la Fiera Franca organizzata dal gruppo omonimo. Don Roberto dice che sono fallite le sue consultazioni personali e omette di dire che non ci ha risposto. Ha scelto la solita strada conflittuale, inserendosi abusivamente con artefatta imposizione nella manifestazione». Sull'altro fronte, però, il parroco nel frattempo ha già trovato qualcuno disposto a prendere in mano la gestione dello stand. Si tratta di Giorgio Simion del supermercato Despar, che ha messo a disposizione risorse e materie prime. «È tutto a posto - dicono dalla parrocchia -. Abbiamo prenotato i capannoni, chiesto i permessi e il gruppo è pronto. Quella gastronomica è un'iniziativa parrocchiale portata avanti insieme alla San Giorgio, ma c'è chi vuole mettere zizzania». Pag XII Alle chiese una pioggia di contributi di f.fen. La Giunta stanzia 200mila euro per la manutenzione degli edifici di culto Quelli della diocesi la fanno da padrone. Ma, nei 200mila euro stanziati dalla Giunta a favore della manutenzione degli edifici di culto, qualche migliaio di euro è riservato anche per Avventisti, Anglicani, Valdesi e Comunità ebraica. In ballo c'è quanto prevede la legge regionale sull'utilizzo dei proventi per le opere di urbanizzazione, nella quale si stabilisce che i Comuni del Veneto debbano destinare una quota per gli interventi manutentivi negli edifici religiosi. Nei giorni scorsi la Giunta Brugnaro ha dunque stanziato 200mila euro di cui 177mila andranno al Patriarcato, 8mila alla diocesi di Chioggia (per la chiesa di S. Stefano a Pellestrina) e il resto alle altre confessioni. Buona parte dei fondi saranno ripartiti tra le chiese della terraferma, a partire dai 45mila destinati alla parrocchia di S. Maria e S. Vigilio a Zelarino, per interventi sullo scoperto del patronato e sul sagrato. Altri 20mila euro andranno alla parrocchia di S. Lorenzo di Mestre, necessari al restauro della facciata della chiesa di San Girolamo, e 21mila per sistemare il tetto della chiesa di Gesù Lavoratore a Marghera. Sempre a Marghera, per la parrocchia di S. Pio X, 16mila euro sono stati assegnati per la sostituzione di parte dei serramenti, mentre per la parrocchia mestrina del Corpus Domini, al Rione Pertini, sono stati messi a disposizione 10mila euro per sistemare il sagrato e gli infissi della canonica; infine, in terraferma, 17mila euro andranno alla parrocchia di San Michele Arcangelo, a Marghera, per manutenzioni varie. A Venezia, assegnati 10mila euro alla parrocchia di San Francesco di Paola per la messa a norma dell'impianto di riscaldamento, e 20mila euro alla chiesa di San Trovaso per misure preventive e protettive di sicurezza del campanile. Alla parrocchia di Santa Maria Elisabetta del Lido, finanziati con 16mila euro gli interventi al tetto, cornici e grondaie della chiesa. Per quanto riguarda gli edifici religiosi delle altre confessioni, la Comunità ebraica riceverà

Page 34: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

ottomila euro per la manutenzione degli infissi in legno della Sinagoga, mentre due contributi da tremila euro andranno all'Unione delle chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno e alla Chiesa Evangelica Valdese, rispettivamente per la sostituzione della pavimentazione chiesa Avventista di Mestre e per la manutenzione di Palazzo Cavagnis a Venezia. LA NUOVA di sabato 1 luglio 2017 Pag 2 Il governo ha deciso, grandi navi a Marghera di Enrico Tantucci Via libera al nuovo terminal, due banchine dal 2019 per le maxi crociere Venezia. Il Governo sceglierà Porto Marghera come nuovo terminal di attracco delle grandi navi da crociera, prevedendo già dal 2019 due banchine provvisorie nel canale industriale Nord, nell'area che fa riferimento alla Fincantieri. Ma resta in piedi formalmente - come soluzione primaria - anche lo scavo del Canale Vittorio Emanuele, anche se, visti i problemi ambientali e logistici e di sicurezza che l'intervento comporterebbe, sembra al momento più una «candidatura di bandiera», per non sconfessare anche il sindaco Luigi Brugnaro e lo stesso presidente dell'Autorità Portuale di Venezia Pino Musolino - dopo Paolo Costa - che l'hanno inizialmente sostenuta, più che un decisivo via libera, data anche la probabile necessità di sottoporre il progetto alla Valutazione d'impatto ambientale del Ministero dell'Ambiente.La novità è arrivata ieri per bocca del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro intervenuto al convegno «Invest in Venice» organizzato nella sede della Camera di Commercio da Regione Veneto, Veneto Promozione e Confindustria di Venezia e dedicato agli investimenti su Venezia.Se il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio negli ultimi giorni ha dichiarato più volte come prossima la decisione del Governo sul problema grandi navi, senza però entrare volutamente nel merito, è stato Brugnaro ieri a rompere gli indugi, svelando le intenzioni del ministro, evidentemente concordate anche con lui.«Due accosti a Marghera per le grandi navi dal 2019». «Posso annunciare che prima dell'estate il Governo annuncerà la soluzione per il problema delle Grandi Navi e penso e auspico che il progetto alternativo scelto sarà quello dello scavo del canale Vittorio Emanuele, aumentandone la profondità con la rimozione dei fanghi per il passaggio delle Grandi navi. Ma in contemporanea si attrezzerà anche un primo terminal crocieristico a Marghera, per le navi superiori alle 96 mila tonnellate di stazza, che ora non possono entrare in laguna. Sono previsti entro il 2019 due accosti sul canale Nord nelle banchine adiacenti alla Fincantieri. Una terza nave da crociera potrà attraccare a Marghera entro il 2021 in adiacenza al canale Brentelle. In un momento successivo sarà realizzato anche il "dente" già previsto dal progetto dell'architetto Roberto D'Agostino. Il canale Vittorio Emanuele dunque, resta sullo sfondo - in attesa di valutarne la reale fattibilità tecnica - ma intanto già tra due anni circa il 40% del traffico crocieristico attuale dovrebbe spostarsi su Marghera, lasciando intravedere questo come il vero terminal crocieristico del futuro, mantenendo la Marittima in prospettiva per le navi da crociera più piccole, fino a 40 mila tonnellate e per gli yacht.L'attacco di Musolino. Ma sul problema grandi navi è stato duro anche l'intervento del presidente dell'Autorità Portuale di Venezia Pino Musolino, che ha parlato della «puzzetta sotto il naso» di chi ne critica il passaggio in laguna. «C'è chi dice che sono brutte da vedere - ha insistito - ma la bellezza è nell'occhio di chi guarda. Per me brutto sarebbe vedere 4500 persone impegnate a Venezia nel settore crocieristico perdere il lavoro perché la città ha deciso di rinunciare a oltre il 3 % del suo prodotto interno lordo. Il no e basta non è una soluzione. Ci sono invece soluzioni tecniche fattibili, che consentiranno di mantenere e sviluppare il polo crocieristico veneziano». Zoppas: «La conca di navigazione del Mose è sbagliata».È stato poi il presidente di Confindustria Venezia Matteo Zoppas a toccare un altro tasto dolente sul piano portuale: quello della conca di navigazione che dovrebbe ospitare le navi quando il Mose è chiuso e non possono entrare subito in porto, che risulta essere largamente insufficiente.«La conca di navigazione già costruita a Malamocco è chiaramente inadeguata a ospitare le navi - ha detto Zoppas - eppure si continua ad andare avanti con i lavori del Mose come se il problema non esistesse. Quand'è che ci decideremo ad affrontarlo?». Anche Brugnaro ha parlato della conca come di «una feritoia in cui nessuno vuole entrare». Ma il più duro è stato ancora una volta Musolino. «Qui ci sono 653 milioni di euro di fondi pubblici sprecati per un progetto sbagliato - ha detto il presidente del Porto – di cui

Page 35: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

qualcuno dovrà rendere conto. Non si offenda il provveditore alle opere pubbliche Linetti, perché l'opera è tecnicamente stata realizzata in modo corretto, il problema è la progettazione che l'ha preceduta e che non ha tenuto delle reali esigenze del Porto di Venezia». Fatti incontestabili. Ma va ricordato - per dovere di cronaca - che al tempo, quando si chiese la realizzazione della conca di navigazione, a fornire le indicazioni progettuali per dimensioni e caratteristiche al Magistrato alle Acque e al Consorzio Venezia Nuova fu proprio l'Autorità Portuale di Venezia di allora. Pag 30 La “Madonna del S’ciopo” riavrà presto il suo fucile di f.ma Treporti. "Madonna del s'ciopo" di Cavallino-Treporti senza fucile: il consiglio provinciale di Federcaccia sottoscrive la denuncia fatta ai carabinieri dal presidente della sezione di Cavallino-Treporti, Primo Cimarosto, e appoggia il procedimento penale, nell'ambito del quale si costituirà parte civile. «Ci associamo a cacciatori e pescatori locali», fanno sapere dal consiglio dell'associazione, «per ripristinare il piccolo monumento in seguito agli atti vandalici chiedendo al parroco di Treporti una benedizione dopo la profanazione».«Si tratta di una profanazione», continua in una nota Federcaccia, «compiuta da teppisti che si firmano animalisti. Soggetti che hanno bisogno di nascondersi dietro gli animali tanta è la loro ignoranza. Quanto accaduto offende profondamente la comunità di Cavallino-Treporti, oltre ai cacciatori, pescatori e tutti coloro che amano e rispettano la Laguna Nord. In particolare gli animalisti hanno offeso chi ha voluto costruire il capitello come tempio votivo per aver avuto salva la vita dalle mitragliate del 1944: il nostro associato Primo Cimarosto». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pagg 8 – 9 I fiumi malati. Se il mare risale il Piave di Toni Frigo “Un tempo si poteva vivere di pesca, oggi l’habitat è stravolto” Treviso. Chiare, fresche e dolci? Torbide, calde e salate, altroché. Le acque della Piave che vanno da Ponte di Piave fino a Noventa e Fossalta e giù fino al mare sono tutto fuorchè degne dei poeti. Pagano il prezzo dei "furti" e delle "ferite" patiti a monte e precedono di poco un fenomeno, quello del "cuneo di sale", che crea gravi problemi all'habitat vegetale e animale del fiume sacro alla Patria. Ne sa qualcosa l'oasi naturalistica "Codibugnolo", nata per autoalimentarsi con piante e animali, ma già in sofferenza e costretta a rifornirsi di varietà e specie provenienti da altre aree protette. Ci è capitato personalmente di trovare una delle sue "anime", nella selva del Parco dello Storga a caccia di erbe, piccole querce e rari salici bianchi con cui integrare la flora autoctona. Il fatto è che la Piave è snaturata nelle sue acque, che, prive di vita, continuano a perdere biosalubrità. Lo dice anche il nostro giovane "barcaro", Christian, che ci accompagna verso il mare, nel viaggio finale su questo povero Piave desolato. Lui ti porta, con calma, nei luoghi giusti per farti un'idea su quanto accade. Buche dominate dalle mucillagini, calde come un brodo primordiale e non certo animate da vita ittica e capaci di filtrare l'acqua. La colpa non è nemmeno di quelli "lassù": quelli del Bellunese che piantano centraline elettriche come piovesse; o di quelli del medio corso che cavano a piene ruspe e pescano l'acqua dalle falde impoverendole e distruggendo l'equilibrio idrogeologico. «Qui dovrebbero essere fatti i laminatoi - dice Marco Zanetti, biologo-imprenditore - Non certo nell'alto corso del Piave. Si fanno dove c'è acqua, non dove non ce n'è. E si prova a far ripartire il circolo virtuoso che purtroppo è già saltato o sta saltando. Non stupiamoci se il mare risale il fiume e rende tutto brullo. Se dal fiume non scende niente, c'è il caso, a seconda delle maree, di vedere la stessa bottiglia di plastica navigare prima verso sud, poi verso nord nell'arco della stessa giornata. e allora non stupiamoci se l'acqua non si depura».Già, l'acqua: tanta, pulita. Dice ancora il biologo Zanetti: «L'acqua ha bisogno di scorrere in superficie per ripulirsi. I nostri nonni, che avevano quasi sempre ragione, dicono che l'acqua "se neta co la gà passà tre sassi". Il mantenimento della qualità dell'acqua è un punto d'arrivo della battaglia che

Page 36: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

associazioni e comuni devono fare insieme. Ma una larga fetta della Piave circola in tubature parallele e il sole e i sassi non li vede nemmeno. E allora ecco che senza acqua depurata non ci sono nemmeno biodiversità, che creano un circolo virtuoso la cui presenza, un tempo, rendeva vivo il basso corso del Piave». L'attacco passa per l'alveo ma anche per le rive. Ci fu un momento in cui fu deciso, nel tratto che scende a San Donà, di fare interamente piazza pulita della vegetazione sulle rive (s'intende per non dare riferimenti a chi volesse capire quanto l'erosione che il fiume patisce sia naturale e quanto.... forzata e voluta). «La popolazione si ribellò e fu fiancheggiata dalle associazioni di tutela ambientale - racconta Maurizio Billotto vicepresidente di Legambiente veneta - e ottenemmo lo stop, quindi uno studio di tutto ciò che viveva lungo le rive e un piano molto dettagliato di ciò che si poteva disboscare». E scendendo il Piave ci viene in mente quella sentita al convegno di qualche giorno fa a Maserada: «Come dice Michele Zanetti, dell'Associazione naturalistica sandonatese,- nel letto del fiume abbandonato all'incuria, ti puoi aspettare da un minuto all'altro di veder spuntare una tigre, ma non certo la flora e la fauna che ci furono quarant'anni fa».«Non chiedete un commento ai pescatori, che ormai non sanno nemmeno più perché escono la mattina, di buonora, con canna, reti e nasse in mano», dice Christian, che sul fiume, in barca, dove ci ospita, vive. Ci fu anche un tempo in cui si viveva di pesca fluviale, qui, e lo diceva Felice Gazzelli di Ceggia: «Ho sei generazioni di pescatori alle spalle. Io ho pescato fino a che c'è stato mio padre, scomparso 20 anni fa» racconta, «Allora c'era acqua pulita che scendeva da nord e si poteva vivere di pesca. Non è più così, perché qui arriva dal mare l'acqua salata. I pescatori sono gente che ama il fiume e vanno ascoltati. Non c'è più acqua da pesce, qui». E allora al capezzale richiamiamo il biologo Marco Zanetti, della società di ricerche e analisi ecobiologiche Bioprogramm. «I traumi sono molteplici, come abbiamo visto dalle centrali idroelettriche al deflusso minimo imbroglione, dai cavatori che cambiano le caratteristiche del letto del fiume fino a chi depaupera senza controllo le falde, togliendo lo zoccolo liquido alle acque che dovrebbero scorrere in superficie». Scrive in una relazione: «Il fiume quando viene colpito da un input, un inquinamento, qualcosa che lo modifica al suo interno, ha il potere di assorbirlo e di tornare nelle sue condizioni di equilibrio iniziale. Con la diminuzione della portata, il Piave, degradato nelle sue componenti strutturali, diminuisce il suo potere omeostatico e non è più capace di sopportare piccoli fenomeni di inquinamento che sarebbe stato in grado di sopportare se fosse nelle sue condizioni naturali. Abbiamo alvei che rimangono asciutti per lunghi periodi dell'anno e quindi si impermeabilizzano al ritorno delle acque, Il contatto con la falda comunaue viene a mancare e non si ha il processo di filtrazione naturale. Il risultato dell'impermeabilizzazione è che le acque scorrono solo in superficie e producono danni. Aggiungeteci le piene improvvise che provocano il "drift" ossia l'asporto di materiali verso valle ed ecco il quadro . Nei periodi di riduzione della portata si ha invece la messa a secco e la scomparsa delle uova e degli avannotti di pesce e la riduzione delle popolazioni biologiche per cambiamenti strutturali dell'habitat. Come tutto questo non possa non ripercuotersi nella vita del Basso Piave è lampante. Ribadisco che dagli sbarramenti servono rilasci d'acqua modulari delle acque. un rilascio costante o limitato a certi periodi non ha senso. I produttori di energia idroelettrica, ad esempio, devono rilascare dei picchi di magra e di morbida che siano quelli naturali, che ci sono sempre stati nei nostri fiumi. E gli enti captatori dell'acqua devono essere obbligati a smaltirsi anche i picchi di piena: non è possibile che quando l'acqua non c'è, loro possano prelevarsela tutta, mentre quando c'è l'ondata di piena utilizzino il fiume come canale scolmatore. E' inammissibile dal punto di vista biologico, ma anche dal punto di vista etico, perchè c'è a rischiare è la vita umana, che conta un po' più di quella del fiume». Nel frattempo si registra la notizia della prossima chiusura dell'Ispra, Istituto per la Protezione e Ricerca Ambientale. Come a dire che gli americani con Trump fanno solo le cose più in grande di noi, ma l'andazzo è quello. Chi può pagare, ha sempre ragione e a chi importa il destino del Piave dopo che il Veneto ha già assistito allo scippo di Adige e Brenta? Ma il caso Piave è ancora aperto, anche culturalmente. Non esisterebbe la civiltà del fiume e non esisterebbe, almeno in parte, Venezia così com'è, se il Piave non fosse stato una via d'acqua (allora l'acqua c'era) percorsa dagli zattieri con merci e carbone diretti alla foce e quindi alla Laguna. A proposito di Laguna: su quella del Mort, vicino a Eraclea, dove un tempo terminava il fiume, incombe una minaccia: quella di un affare da

Page 37: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

mezzo miliardo di euro, chiamato Valle Ossi, fatto di posti barca e villette su 250 mila ettari. I naturalisti vi si oppongonono e credono che l'area dovrebbe diventare un parco. I politici si confessano impotenti di fronte a un affare privato. Già l'area è di proprietà degli speculatori.Ma questa è un'altra storia. CORRIERE DEL VENETO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 La rabbia? Fenomeno “privato” di Vittorio Filippi «La boje, e de boto la va fora» (bolle, e sta per traboccare). Ciò che bolliva e che stava per esplodere era la pazienza dei contadini del basso Veneto nei difficili anni ottanta dell’Ottocento, stretti tra la miseria e la pellagra. Fu una rivolta popolare che produsse 160 arresti e nulla di più, se non il gonfiarsi delle migrazioni. Questa volta la storia non si ripete, la crisi cattiva della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca non ha prodotto una nuova «la boje». Certo, ci sono stati – come a Vicenza – urla, cartelli, cori, fischi dei piccoli azionisti che manifestavano rabbia e delusione; e a Montebelluna un plateale tentativo di suicidio per fortuna non finito nel dramma. Perfino «poco», nella tragedia della caduta di due banche. Eppure è una storia grossa: secondo i numeri raccolti dall’ufficio studi degli Artigiani di Mestre, le due banche messe assieme rappresentavano l’ottavo gruppo bancario italiano (sia in termini di totale attivo che di impieghi), il nono in termini di raccolta e addirittura il settimo per sportelli. E solo in Veneto le due banche pesavano per quasi il 12% in termini di mercato degli impieghi commerciali (a cui seguiva il Friuli con il 9). Con una crescita degli impieghi sospettosamente generosa proprio negli anni della crisi: più 27 per cento dal 2008 al 2016, quando invece l’intero sistema bancario italiano rimaneva perfettamente stabile. Ormai, come dicono le cronache, siamo letteralmente all’ammainabandiera: la settimana prossima le vecchie insegne delle due banche scompariranno e saranno sostituite da quelle di Intesa San Paolo. Ma è un ammainabandiera che investe molte altre cose. Le risorse finanziarie per cominciare, pari ad otto miliardi di euro di patrimoni azzerati. E la distruzione di valore economico non si ferma qui perché vanno aggiunti i 30 miliardi di raccolta persi negli ultimi tre anni. Naturalmente c’è anche una ragioneria simbolica, sociale, perfino etica che è andata erosa e di cui occorre tener conto. Ad esempio è stato ampiamente incrinato un capitale di fiducia – dietro i soldi c’è sempre la fiducia, insegna Georg Simmel nel suo “Filosofia del denaro” – che in queste due banche “di territorio” aveva ampiamente (perfino troppo, col senno di poi) creduto. Rivelando che non tutto ciò che c’è nel territorio è “per” il territorio. Anche i tanti (e spesso retorici) discorsi sull’etica nell’economia si sono sbriciolati di fronte alla procedure finanziarie spensierate e garrule (per usare degli eufemismi gentili) dei due istituti di credito, per non parlare di certe faraoniche (auto) retribuzioni e prebende di manager, amministratori e presidenti. Peccato anche perché le banche popolari – che di popolare hanno poi lasciato i buchi – hanno origini lunghe e nobili, risalgono al tardo Ottocento, al pensiero solidaristico cattolico, all’intrapresa di imprenditori retti ed illuminati. Dovevano nutrire dal basso lo sviluppo del piccolo capitalismo familiare locale con una finanza modesta ma capillare e diffusa. Ciò nonostante, “la boje” rimarrà un fenomeno privato, riservato, chiuso nella piccola scatola dei propri sentimenti traditi. Non sarà pubblico o politico nè tantomeno ribellistico. D’altronde quello veneto è sempre stato un “capitalismo senza classi”, in cui ognuno costruisce da sé la propria biografia: lavorativa, imprenditoriale, finanziaria, reddituale. Con molta discrezione e senza sbavature polemiche. E poi, si sa, la grande finanza non è mai stata nel dna del Veneto, molto più vocato invece al fare agricolo e manifatturiero. Non è un caso che le esportazioni siano ripartite alla grande con in testa le vendite di macchinari. In questo continuiamo ad essere bravi. Pag 3 Musulmani, in Veneto un centro di preghiera ogni quattro Comuni di Monica Zicchiero Oltre 117mila fedeli e 150 luoghi di culto Venezia. Una decina di capannoni industriali, quattro garage e un’ex autorimessa a Ponte di Brenta a Padova, quattro che un tempo erano uffici e tre locali che hanno pure le vetrine perché nati come negozi; a San Giovanni Lupatoto la sede è l’ex Calzaturificio Armani. La comunità turca e quella bengalese di Verona hanno un imam ma non una

Page 38: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sede e si riuniscono nelle case messe a disposizione. Il Veneto musulmano prega così, in luoghi di culto improvvisati e riadattati, tanti tappeti e la predica del venerdì che spesso l’imam deve ripetere a turni perché i fedeli sono tanti e i locali piccoli. Eppure il Veneto è la terza regione d’Italia dopo Lombardia ed Emilia per popolazione musulmana residente e per numero di centri di preghiera, 150 dei quali 119 censiti e gli altri 31 ancora da verificare. E non ha una sola vera moschea. Sono le istantanee che disegna il dossier che sta realizzando la più forte organizzazione musulmana d’Italia, l’Ucoii. Come anticipato ieri dal C orriere della Sera , è stato consegnato al ministro dell’Interno Marco Minniti. Dei 119 luoghi di preghiera, 50 sono associazioni, 24 centri culturali; 38 sono in affitto, 16 fungono da biblioteca, 10 propongono corsi di italiano, 15 di arabo e 13 fanno lezioni coraniche. La quasi totalità è sunnita, solo a Vicenza c’è un centro sciita pachistano in via San Pio X. La più alta concentrazione è proprio a Vicenza e tra i sette del capoluogo c’è il centro Ettawba in un capannone di 1.500 metri quadri di via Vecchia Ferriera, uno dei più grandi del Veneto che alla preghiera del venerdì che raccoglie fino a 800 persone. Padova è l‘altra città con più luoghi di preghiera, Belluno ne ha pochi ma intorno a quello di Ponte delle Alpi ruotano 600 persone. Nella Treviso che per un ventennio è stata dello sceriffo leghista Giancarlo Gentilini ce n’è solo uno in via Pisa, ai piedi del grattacielo; in compenso la provincia ne conta 25. A Verona in una fabbrica dismessa di via Bencivenga Biondani c’è il Consiglio Islamico di Verona, il centro più grande del Veneto: 1.952 metri quadri e qualcosa come mille persone che lo frequentano nel fine settimana. Il referente è l’imam Mohamed Guerfi, che ha vinto la battaglia di autorizzazioni che l’ex sindaco Flavio Tosi aveva ingaggiato contro l’uso religioso dello stabile. «Noi siamo a posto e non penso ci siano problemi col nuovo sindaco Sboarina - prevede Guerfi - Sapevo che i musulmani in Veneto sono tanti ma non immaginavo fossero così numerosi. La maggior parte dei fedeli sono operai e lavorano nell’industria e nelle fabbriche, qualcuno nell’agricoltura ma è una comunità molto variegata», spiega Guerfi. Che oltre a dedicarsi alla comunità lavora in un’agenzia di viaggi che organizza pellegrinaggi alla Mecca. «Ogni anno dall’Italia partono 2.800 pellegrini, da Verona 240 per tutto il Nord Italia- racconta - È un viaggio costoso, 4.500-5.000 euro per venti giorni, tutto compreso. Si risparmia per anni per andare con la moglie alla Mecca almeno una volta nella vita». A Venezia (quattro centri islamici nel capoluogo e sette in provincia), la maggior parte dei fedeli invece lavora in centro storico. «Non esiste ristorante che non abbia uno o due dipendenti di fede musulmana», assicura l’architetto Mohamed Amin Al Ahdab, presidente del centro culturale di via Monzani a Marghera, capannone di 1.200 metri quadri in affitto ristrutturato e riadattato. «La sola comunità bengalese conta 8mila persone: costruire una moschea non è un lusso ma una necessità». Fin dagli anni delle amministrazioni di centrosinistra la comunità musulmana prova a individuare l’area, serve una zona centrale e comoda ai mezzi e con parcheggi ma non è mai compatibile con lo strumento urbanistico. «E adesso la nuova legge regionale ha messo tanti di quei paletti che pare impossibile poter realizzare una moschea in una zona residenziale come accade per chiese e sinagoghe», obietta Amin Al Ahdab. I ricchi sceicchi che ormeggiano lo yacht in Riva degli Schavoni, i turisti che arrivano da Dubai e dagli Emirati vanno a pregare in via Monzani. «Non un bel biglietto da visita - ammette l’architetto - Ma non si accetta l’idea di una moschea, non è stata tollerata neanche per i sei mesi del padiglione islandese della Biennale alla Misericordia. Venezia è sempre stata la porta d’Oriente, dare un luogo di preghiera aiuta i musulmani a sentirsi parte integrante della città e della comunità. Una moschea serve da punto di riferimento provinciale e aiuta il controllo degli imam. Pregare non è una vergogna; non vorremmo solo lavorare e pagare le tasse». CORRIERE DEL VENETO di sabato 1 luglio 2017 Pagg 2 - 3 A Cona scoppia la guerra tra i profughi. “Non ci stiamo più”. Bloccati i cancelli di Roberta Polese Il giorno più lungo del prefetto: “Le risposte? Le deve dare la politica” Venezia. Le parole del premier Paolo Gentiloni che a Berlino chiede la collaborazione degli altri paesi europei nella ricollocazione degli stranieri, e le polemiche sulla chiusura dei porti italiani alle navi straniere, volano sopra la testa dei 1400 rifugiati ospiti della base di Cona, e di tutti i migranti che in Veneto devono stringersi per l’arrivo di altri

Page 39: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

disperati giunti coi barconi. E a Conetta ieri all’alba qualcuno ha deciso che la misura era colma. I volti dei migranti sono stanchi e sfibrati dal caldo dentro e fuori dalle tende del più grande centro di accoglienza del Nordest, e sono pronti alle barricate ogni volta che a tavola, ai bagni, nelle camerate e nelle file per il pranzo c’è da stringersi un po’ di più. E ieri, dopo l’arrivo a Cona della prima tranche di una ventina di persone, piccolo anticipo di una massiccia carica di nuovi profughi che stanno per giungere in regione, (le previsioni parlano di 1400 persone), hanno mandato in scena l’unica protesta che conoscono: quella del blocco dei cancelli e delle barricate all’entrata, che è stata serrata all’alba da una cinquantina di persone. Nessuno entra e nessuno esce. Il casus belli è l’arrivo, la notte scorsa, di due pullman: il primo aveva 6 persone, che sono stati fatti scendere, ma quando i profughi hanno capito che ne sarebbe arrivato un altro con altre 26 persone hanno bloccato i cancelli. Il prefetto di Venezia carlo Boffi ha chiamato di notte i colleghi delle altre province e i 23 sono stati ricollocati altrove. Ma a quel punto gli stranieri non hanno mollato la presa e sono rimasti inchiodati ai cancelli della base, nel timore che la promessa non sarebbe stata mantenuta. I migranti, poche decine, sono stati accolti alla caserma Serena di Treviso e alla Zanusso di Oderzo, altri piccoli gruppi sono giunti a Verona. Ma sono gli ospiti di Cona ad avere i nervi più tesi: sono già in 1500 lì dentro, un’enormità. Anche per loro non sono i piccoli numeri a fare la differenza: per 20 persone in più lo spazio c’è, basta stringersi un po’. Ma è la prospettiva futura a mettere tutti in ansia. Ed è per questo che si mettono gli uni contro gli altri: quelli che sono lì da più tempo non voglio i nuovi profughi. A tentare di contenerli ci sono altri stranieri, referenti della cooperativa Edeco che gestisce il centro, che vigilano per lo più che nessuno parli con i giornalisti. Le regole, all’interno della base, sono chiare: chi si lamenta e crea disordini resta, chi tiene un basso profilo viene premiato e ha più chance di andarsene. E infatti a mezzogiorno di ieri, forse spinta anche dalla necessità di dare un segnale, la Prefettura di Venezia ha portato via 16 persone, per le quali è stata trovata una sistemazione alternativa. Ma quelli che restano non esauriscono la rabbia. Ci ha provato il viceprefetto vicario di Venezia Sebastiano Cento a tener calmi gli animi. In mattinata è stato fatto entrare dentro la base per cercare di dare delle spiegazioni. Intanto passano le ore e il cielo coperto regala un po’ di tregua dal caldo insopportabile. Ma dura poco. Il prefetto Boffi aveva detto che chi è li da mesi sarebbe andato a stare negli appartamenti, e che ci sarebbe stato un ricambio, ma i trasferimenti, a parte quello di ieri, sono pochi. «Le liste di persone che hanno i requisiti per essere spostate sono pronte da tempo» dice Simone Borile, patron di Edeco, la coop dell’accoglienza che gestisce Conetta. Il segnale è chiaro: i posti, fuori dagli hub, sono pochi. La situazione è tornata alla normalità nel pomeriggio, ma la polveriera resta lì pronta ad esplodere in ogni momento: entro 10 giorni si dovranno smaltire 1400 arrivi, se per venti persone si assaltano i cancelli nessuno sa quello che potrà succedere con sbarchi più corposi. Il sindaco di Cona Alberto Panfilio, giunto davanti alla base ieri, non riesce a contenere la rabbia, urla nei microfoni e davanti alle telecamere, esasperato da promesse non mantenute: «Lancio un grido ai politici del Veneto, si tolgano la casacca e vengano qui al fianco dei cittadini di Cona ma anche dei migranti, che non hanno colpe, e che vengono trattati senza alcuna dignità umana». Al termine di una giornata di trattative Panfilio è riuscito a strappare un impegno da parte del Ministero: «Mi hanno detto che cercheranno altre aree demaniali al più presto e che Cona verrà alleggerita di 200 posti» dice il sindaco. E se la lega al dito, perché non è questo il momento di fare un’altra promessa da marinaio. Nelle ore in cui andava in scena la protesta di Conetta anche a Bagnoli sono arrivate una quarantina di profughe con dei bambini. Verranno presto spostate, ma intanto stanno lì. Intanto la prefettura di Padova ha mandato per la terza volta in pochi giorni una mail a tutte le coop: «Cercate posti, ne servono il più possibile» dice il prefetto di Padova Renato Franceschelli in soldoni. Lo sforzo d’integrazione è quindi trasversale: operatori, profughi e, primi fra tutti, i cittadini veneti. Cona (Venezia) Non parlano una parola di italiano ma si fanno capire benissimo i profughi trincerati dietro i cancelli del centro di accoglienza di Cona: «Very bad problem. La notte scorsa sono arrivati gli autobus con 100 nuove persone, volevano portarli qui dentro nella base: abbiamo detto che non sarebbero entrati e non sarebbe entrato nessuno del personale». I profughi bloccati nei pullman a Cona e rispediti in altri centri

Page 40: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

di accoglienza del Veneto non erano 100 ma 23, ma l’esagerazione è tipica di chi è sempre più esasperato, come gli ospiti del centro di accoglienza di Cona che sono arrivati al limite di sopportazione. «Abbiamo bisogno di essere trasferiti, siamo troppi. La prefettura ha detto che porteranno da un’altra parte dieci di noi ogni settimana. Io non me ne vado, sto qui. Neanche nei prossimi sei mesi me ne vado, ci sono molte persone prima di me, la lista è lunga. Qui la gente sta per molto tempo, c’è chi ci sta da oltre un anno. We need transfer». E ancora: «Ieri sera sono rimasto con il piatto vuoto in mano per un’ora con un caldo bestiale in attesa che mi dessero da mangiare, non ho passato l’inferno in barca per arrivare in Italia e fare questa vita qui». Vengono dalla Guinea Bissau e da altre aree martoriate dell’Africa i 1400 migranti ospiti dell’hub veneziano. Gli abitanti di Cona passano davanti alla base neanche tanto incuriositi. I profughi escono alla spicciolata, c’è chi sfugge alle telecamere, c’è chi invece si ferma a parlare seppur con una gran paura di finire nei guai. Garantendo l’anonimato qualche informazione trapela. Un ragazzo parla in cambio di una sigaretta e di qualche altra che si mette in tasca per passare la giornata. «Siamo lì dentro tutto il giorno a far niente, potendo lavoreremmo volentieri ma ci dicono che non ci è permesso, guardiamo poca tv, e giochiamo a pallone, ma sempre meno perché lo spazio si riduce sempre di più». In realtà, la cooperativa sta realizzando anche campi di basket e pallavolo, quindi lo spazio per lo sport non manca. Difficile scremare la verità dall’enfasi della rabbia e dall’attenzione che chiedono queste persone. Tutti gli ospiti però sono concordi nell’affermare che dentro alla base di Cona il tempo sembra non passare mai: «Corsi di italiano? non li facciamo, non li abbiamo mai fatti» spiega un ragazzo in francese. I corsi di italiano però ci sono, non sono obbligatori, ma sei insegnanti lavorano 36 ore la settimana ciascuno e se qualcuno vuole imparare l’italiano il tempo c’è. Riusciamo a scambiare il numero di cellulare con uno dei ragazzi che nel pomeriggio manda un video delle «camerate», che poi sono tendoni con sotto centinaia di letti a castello, che molto somigliano agli allestimenti che c’erano a Padova, nella ex caserma Prandina. Il disordine è quello tipico di una camerata di ventenni costretti a dormire tutti insieme, nulla di clamoroso tranne il caldo soffocante che tutti dicono di sentire. Mentre i giovani escono con la bicicletta giusto per spezzare la giornata, qualche anziano del posto si lamenta. «Sono qui che non fanno niente tutto il giorno, vede come si vestono? con la canottiera, le pare il modo di andare in giro?». Un’obiezione facilmente smontabile visto che di certo gli stranieri non possono andare a fare shopping in giro. «Beh, ma non c’è decoro, vanno portati in un’isola lontana e lasciati lì, oppure rispediti a casa, qui non li vogliamo». Parole che evidenziano che la misura è colma per tutti. E la convivenza di 1500 stranieri con un paesino di poche anime è sempre più difficile. Venezia È stata una giornata d’inferno quella di ieri per il prefetto di Venezia Carlo Boffi. Preceduta, pure, da una nottata in bianco. La prima telefonata era arrivata nel cuore della notte. Ci sono i profughi assiepati davanti ai cancelli della base di Cona: hanno accolto sei persone ma ne hanno respinte altre 23 e non intendono aprire i cancelli. Emergenza numero uno: trovare un posto per quelli che sono in autobus e non sanno dove andare. Parte il giro di telefonate a tutti i colleghi prefetti del Veneto per trovare un posto per i migranti. In qualche ora il posto si trova. Emergenza numero due: calmare gli animi dei migranti di Cona. A fare da mediatore viene quindi mandato il viceprefetto vicario Sebastiano Cento, che deve trovare il modo di farsi capire. Arriva l’alba, e a Venezia è un giorno particolare: si deve assegnare il bando per l’emergenza diffusa ovvero vagliare le offerte delle cooperative che ospitano negli appartamenti. Vengono assegnati 911 posti, 87 in più rispetto all’anno scorso. «Un ottimo risultato - dice Boffi - ci attiveremo da subito per trovare il posto per smaltire Cona». Altro giro di telefonate. Intanto a Cona la protesta aumenta, arrivano le telecamere, le immagini fanno il giro del telegiornali. Va in inda il sindaco di Cona Alberto Panfilio, così arrabbiato che si lascia sfuggire anche qualche parolaccia. Urge correre ai ripari. Boffi sente al telefono Panfilio e parlano a lungo, e alla fine trovano l’accordo di svuotare Cona di almeno 200 posti entro le prossime settimane. «So bene che i sindaci hanno avuto tante promesse - spiega Boffi - ma io sono un funzionario dello Stato e devo attenermi alla realtà, è la politica che deve mantenere la parola data». Già, la politica. Quella della sinistra che fa cortei e barricate ideologiche contro l’accoglienza massiva non ha la forza (politica) per risolvere la questione, quella del centrosinistra sembra l’emblema del detto popolare «come fai,

Page 41: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sbagli», e si trova ad affrontare una delle migrazioni più imponenti dell’epoca moderna con strumenti talvolta inadeguati e tanti (troppi) sindaci ostili. E poi ci sono i salotti estivi, dove si parla anche di accoglienza. Di migranti ha parlato infatti Luigi Di Maio M5s ospite della kermesse «Garda d’Autore», in piazza del municipio a Garda. Intervistato dal giornalista Gianluigi Nuzzi, ha detto: «Non mi sento populista, ma l’esodo di migranti va fermato, vanno chiusi i porti e vietate le imbarcazioni che vanno sulle coste libiche a prenderli. Ma se arrivano comunque vanno distribuiti tra i paesi d’Europa e i 5 miliardi che l’Italia sborsa per l’accoglienza alle organizzazioni che non presentano nemmeno i propri bilanci, si devono dare a quei Paesi per aiutarli a casa loro». Nuzzi gli ha anche chiesto se condivide il messaggio di Papa Francesco sull’accoglienza. «Io non litigo con Papa Francesco – ha replicato Di Maio – me la prendo con le istituzioni: Macron ci sta rispingendo i migranti a Ventimiglia, mentre noi siamo diventati il porto d’Europa». Un discorso fotocopia a quello di Giancarlo Giorgetti, che ha espresso posizioni discordanti, invece, con l’altro vice segretario della Lega, Lorenzo Fontana.Tanto che Paolo Liguori, giornalista di Mediaset che ha intervistato i due, ha concluso affermando: «Su questo palco non c’è stato l’accordo Lega-M5S, invece sono emerse le due anime della Lega sulle alleanze con il centrodestra». Se Di Maio, infatti, ha tagliato subito corto dicendo: «Il M5s ha la sua identità e non prevede nessuna alleanza con altre forze politiche», i due esponenti leghisti si sono distanziati. «Con noi solo forze che sottoscrivono la nostra posizione sull’Europa, quindi non ci possiamo alleare con gli europeisti – ha esordito Fontana (con chiaro riferimento a Berlusconi nei Popolari europei ndr) – Dobbiamo essere alternativi alla globalizzazione». E Giorgetti: «A livello locale la gente vuole le alleanze, ma a livello nazionale Berlusconi continua a coltivare l’idea di negoziazione con Renzi» . Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il valore di avere un leader di Angelo Panebianco La legge sul voto Perché in questo caotico «ritorno al futuro», mentre si consuma il passaggio dall’età del maggioritario all’età del proporzionale e vengono rispolverati gli antichi riti proporzionalistici, Forza Italia sembra in grado di adattarsi ai nuovi tempi con relativa facilità, mentre il Partito democratico rischia l’autodistruzione? Entrambe queste formazioni sono figlie della stagione maggioritaria. Forza Italia irruppe nella politica italiana quando quella stagione prese il via (1994). Il Partito democratico nacque in seguito, per fusione fra post-comunisti ed ex sinistra democristiana, perché, in regime di maggioritario, le aggregazioni sono premiate e le divisioni penalizzate. Per alcuni anni la formula del Pd funzionò. Poi, quando quel compromesso fra reduci si logorò, irruppe sulla scena un capo carismatico che sbaraccò le nomenclature e per un po’ ebbe il partito in pugno. In ogni caso, Forza Italia e Partito democratico, figli del maggioritario, si differenziano sia dalla Lega (nata nella precedente età proporzionale e che, all’epoca della svolta dei primi anni Novanta, non promosse ma subì il maggioritario) sia dai Cinque Stelle, la cui ascesa, mandando all’aria il gioco bipolare (centrosinistra contro centrodestra), preannunciò il tramonto della democrazia maggioritaria. Perché dunque Forza Italia sembra in grado di sopravvivere nella nuova stagione con più facilità del Partito democratico? Come sempre, è una questione di leadership. Forza Italia, creatura di Berlusconi, è ancora, nonostante età e traversie, sotto il suo controllo. Il Partito democratico invece è guidato sì da un capo carismatico ancora forte (come hanno mostrato le primarie di quel partito) ma comunque indebolito da alcune sconfitte, quella referendaria in primo luogo. È un partito che ha già subito una scissione e che, nella nuova stagione, rischia ancora più grosso. Per capire quali siano le differenze fra i due partiti si pensi a cosa, presumibilmente, accadrà dopo le prossime elezioni. In regime di proporzionale le alleanze di governo si fanno dopo il voto, non prima. Ebbene, in quel momento (tranne nell’improbabile caso di una strepitosa vittoria del Partito democratico), quando si tratterà di negoziare la formazione del governo, Berlusconi si

Page 42: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

troverà in una condizione decisamente migliore di Renzi. Perché potrà scegliere, a seconda delle convenienze e delle rispettive forze parlamentari, se allearsi con la Lega oppure con il Partito democratico. Nell’uno come nell’altro caso il suo partito non potrebbe fare altro che seguirlo. In una situazione assai diversa si troverà invece Renzi. Come si capisce già in questi giorni. Quando, insieme agli scissionisti, anche l’opposizione interna al Pd dice che, dopo le elezioni, va esclusa l’alleanza con Berlusconi, sta in realtà sottintendendo (senza bisogno di dirlo, poiché la proporzionale consente ogni genere di ipocrisie) che, dopo il voto, il Pd dovrà negoziare con Grillo. Mentre Forza Italia sarà pronta ad allearsi con chi deciderà Berlusconi, il Partito democratico subirà probabilmente lacerazioni interne e feroci scontri fra i proponenti di opposte alleanze. Salvo nel caso - ma è tutto da verificare - che Renzi riesca a fare eleggere solo parlamentari a lui fedeli. In caso contrario, il rischio della frantumazione del partito potrebbe diventare molto alto. La morale è che mentre Forza Italia è (al momento) perfettamente a suo agio nelle inedite vesti di campione del proporzionale (Berlusconi ha appena invocato di nuovo l’adozione del sistema elettorale pseudo-tedesco), il Partito democratico potrebbe invece non sopravvivere al cambiamento. Mentre Forza Italia può mutare pelle, il Partito democratico non è in grado di farlo. Non è solo per una questione di ambizioni personali (che peraltro sono il sale e il motore della politica) che Renzi non può rinunciare a proporsi come candidato premier per il dopo-elezioni. È ovvio che, a meno di un grande successo elettorale, non sarà lui il premier: il premier verrà designato al momento della negoziazione fra i partiti. Ma se rinuncia, come molti lo esortano a fare, a chiedere per sé la premiership, egli sarà costretto a dichiarare ufficialmente esaurita la mission che giustificò la nascita del Partito democratico e la sua esistenza successiva: quella di un partito costruito intorno a una leadership il cui scopo è battere elettoralmente gli avversari e prendersi il governo. Per questo, difficilmente, nella stagione politica che verrà dopo le elezioni, il Partito democratico (la parte che si riconosce in Renzi) potrà rinunciare al tentativo di imporre di nuovo una qualche forma di maggioritario. Ma, si dice, non servirà a nulla. Per l’opposizione di tutti gli altri, Berlusconi per primo. Forse. E forse no. Se le elezioni dovessero risolversi in un netto vantaggio per Forza Italia rispetto alla Lega di Salvini, allora anche Berlusconi potrebbe trovare di nuovo conveniente rispolverare l’antica vocazione maggioritaria. Ma c’è anche un’altra ragione, ancor più forte. In regime di proporzionale Berlusconi non potrà mai optare per l’auto-pensionamento. Senza di lui Forza Italia sarebbe in condizioni persino peggiori del Partito democratico. Forza Italia senza Berlusconi, in regime di proporzionale, avrebbe ore e minuti contati: non ci sarebbe nessuna possibilità di tenere insieme, nello stesso contenitore, i suoi tanti cacicchi. Con il maggioritario, per le costrizioni che esso impone alle forze politiche, Forza Italia potrebbe forse superare la crisi di successione. Con la proporzionale, un meccanismo che premia le scissioni, quasi certamente no. Pag 2 Il modello Madrid. Quel muro eretto nel Mediterraneo con diplomazia (e soldi al Marocco) di Andrea Nicastro Per andare dall’Africa all’Europa non è necessario rischiare la traversata dalla Libia verso l’Italia. C’è una strada molto più breve. Bastano 9 minuti e mezzo, quanti ne ha impiegati il 7 marzo scorso un gommone a chiglia rigida per lasciare la passeggiata di Fnideq, in Marocco, e arrivare sul lungomare di Ceuta, enclave spagnola in Africa. Lì, sono sbarcati bagnandosi i piedi appena, 17 migranti della Guinea che, come prevedono le norme europee, sono stati registrati, visitati e intervistati per l’eventuale domanda di asilo politico. Con il mare calmo anche passare lo stretto di Gibilterra è estremamente più semplice che affrontare il Canale di Sicilia. L’Europa si vede con facilità dal Marocco, come dalla Turchia si vedono le isole greche. Tra gli Stati della frontiera meridionale d’Europa (Grecia, Spagna e Italia) la nostra penisola è la più lontana. Allora perché nel 2016 sono arrivati in Spagna 6.109 migranti mentre in Italia ne sono sbarcati 181 mila? Sul versante turco-ellenico la risposta è nei tre miliardi l’anno che l’Ue paga ad Ankara per bloccare il flusso verso la Grecia. Sulla frontiera marocchino-spagnola la solidità del blocco ai migranti ha una spiegazione molto simile, con la differenza che non è l’Ue a pagare, ma direttamente Madrid di tasca propria. Nella bolletta spagnola anti-immigrazione ci sono due voci. Una è puramente economica, fatta di accordi

Page 43: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

commerciali, esenzioni doganali, investimenti e aiuti allo sviluppo che Madrid concede generosamente a Rabat. L’altro prezzo è politico e si concretizza nell’appoggio spagnolo alle rivendicazioni marocchine di sovranità sul Sahara Occidentale che invece vorrebbe essere indipendente. Durante il vertice franco-spagnolo di febbraio il premier Mariano Rajoy ha definito «eccellenti» i rapporti con Rabat. «Le forze di sicurezza marocchine - ha detto Rajoy - hanno messo in atto tutto ciò che potevano per fronteggiare il flusso migratorio». In effetti il Marocco non solo controlla, ma, come fa anche l’Algeria con la Spagna, è disponibile a riprendersi i migranti sbarcati nel regno spagnolo. Il vantaggio di avere come dirimpettai due Stati dalle polizie efficienti come Marocco e Algeria è evidente soprattutto a noi che è toccata in sorte la Libia del post Gheddafi, ancora terra di nessuno. Ma anche la splendida cintura di sicurezza di Madrid non è perfetta e non è detto duri all’infinito. Fuori dal muro che difende l’enclave spagnola di Ceuta ci sono circa mille africani irregolari pronti ad arrampicarsi sul filo spinato per entrare nella fortezza europea. L’ultimo assalto massiccio è stato alla vigilia del Ferragosto 2014 con 1.200 migranti giunti via mare in 24 ore in Andalusia e altri 300 scavalcando il muro di Ceuta e Melilla. A Madrid pochi dubitano che ondate come quella possano ripetersi in qualsiasi momento, incontenibili, per quanto si rafforzino la barriera terrestre o la sorveglianza delle coste. Basta che Rabat lo permetta. Può farlo e potrebbe volerlo fare. La Corte Ue di Giustizia ha dichiarato il 21 dicembre scorso che il «Sahara Occidentale non fa parte del Marocco». Un colpo durissimo alle ambizioni del regno di Mohamed VI. A febbraio una dichiarazione del ministro Aziz Akhnnouch (uno dei più ricchi e influenti nel governo marocchino) è suonata come un avvertimento: «Se la sentenza sul Sahara Occidentale troverà un seguito pratico, smetteremo di sforzarci di trattenere le ondate migratorie». Pochi giorni dopo è partito il gommone con i 17 africani in direzione Ceuta (Spagna). Chiaro, no? L’Africa è a 9,5 minuti e il Marocco può aprire i rubinetti quando vuole. Il Sahara Occidentale vale un altro tsunami migratorio? LA REPUBBLICA Pag 1 Perché i dem nuotano nel mare dell’azzardo di Stefano Folli L'immagine di Silvio Berlusconi che, compunto, si raccoglie in preghiera davanti al feretro di Kohl è perfetta per descrivere la condizione del centrodestra. Il fondatore di Forza Italia vive la sua terza giovinezza collocando se stesso e il suo partito nel solco del Ppe di Angela Merkel: vale a dire quanto di più lontano ci sia dalle pulsioni "sovraniste" ed euro-scettiche della Lega. Grazie al sistema proporzionale, non c'è l'ipotesi che Berlusconi e Salvini (più Giorgia Meloni) debbano accorparsi in un'unica lista. Ognuno per sé e poi si vedrà nel prossimo Parlamento. Ma è evidente - e non da oggi - che Forza Italia ha l'ambizione di diventare il baricentro della prossima stagione politica insieme al Pd renziano. Dipenderà dai voti, s'intende, ma per una volta le contraddizioni nel campo del centrodestra sono minori di quelle che germogliano a sinistra. In fondo Renzi deve ricostruire dalle fondamenta la sua proposta agli elettori e deve farlo in condizioni di crescenti difficoltà. Le elezioni amministrative hanno dimostrato che se Grillo perde qualche voto, il vantaggio è tutto della destra. Tanto è vero che il capo dei Cinque Stelle è corso ai ripari da tempo per intercettare i consensi tentati di rifluire verso Salvini o addirittura verso Berlusconi: vedi le posizioni sull'immigrazione e sul ruolo delle Ong o le riserve sullo ius soli. Di certo, il Pd non recupera nei confronti del M5S. Un certo populismo morbido a cui Renzi indulge proprio per blandire l'elettorato cosiddetto anti-sistema non ha dato frutti. Quel che è peggio, si è rivelato privo di risultati anche il reiterato tentativo di aprire varchi importanti nell'opinione di centro-destra. Le civetterie intorno al "figlio di Berlusconi", erede politico dell'uomo di Arcore, capace di tenere insieme una sinistra residuale e l'anima moderata del Paese, non hanno portato fortuna al giovane ex premier. Berlusconi è sempre lì, la destra anche e i voti attribuiti al Pd nei sondaggi non segnalano alcuno sfondamento. Anzi, le ricerche più recenti - a cominciare da quella di Ilvo Diamanti - indicano un certo logorìo del Pd. Al punto che ci si domanda con quali argomenti e quale prospettiva il partito renziano affronterà la campagna elettorale. Da un lato, l'unico sbocco sembra essere - appunto - un accordo di governo con Berlusconi, ammesso che siano sufficienti i seggi parlamentari (al momento non sembrano esserlo). Ma la sola eventualità alimenta il dissenso di Orlando e della minoranza. Dall'altro, il "partito nuovo" che Renzi vorrebbe rifondare intorno a se stesso

Page 44: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

presenta dei contorni nebulosi. È chiara l'intenzione di punire i notabili (Franceschini e gli altri) sottraendo loro i migliori posti in lista e usandoli per creare un plotone di fedelissimi nei gruppi parlamentari. Ma questo suggerisce l'idea che l'intera struttura del Pd, i suoi quadri e la rete del potere locale, è considerata superflua o dannosa dal segretario. E che per recuperare i voti dispersi nell'astensione sono sufficienti il leader e il suo carisma, il suo rapporto un po' magico con le masse. È una scommessa al limite dell'azzardo anche perché i temi della campagna potrebbero essere più favorevoli alle forze populiste che al Pd. A parte l'economia, la crescita ancora fragile, il peso del fisco e del debito pubblico, resta centrale la questione drammatica dell' immigrazione. Non è facile per il partito di maggioranza adottare una linea dura, più in sintonia con una certa opinione pubblica esasperata specie al Nord. Tutto dipende alla fine dalla risposta dell'Europa: se fosse negativa, l'Italia dovrebbe affrontare da sola un'emergenza senza precedenti. Chiudere i porti, rivedere i rapporti con le Ong, combattere gli scafisti, rimpatriare chi non ha i requisiti: un conto è minacciare, un altro è avere la forza politica di affrontare un simile conflitto. Tanto più che la sinistra di Campo progressista e Mdp è sulla linea tradizionale dell' accoglienza e in termini elettorali avrà qualcosa da guadagnare dallo slittamento a destra del Pd. Se fossero vere le previsioni che assegnano al movimento di Pisapia un potenziale 7-8 per cento, vorrebbe dire che Renzi si troverà stretto in una morsa. Forse più che un nuovo partito è necessaria una nuova politica di qui al 2018. IL GAZZETTINO Pag 1 La vecchia sinistra di nuovo insieme ma contro Renzi di Alessandro Campi La sinistra del domani, che abbiamo visto riunita l'altro dì intorno a Giuliano Pisapia, somiglia davvero tanto a quella del passato. Eguale a se stessa, immobile più che eterna: le idiosincrasie di sempre, medesimi rituali collettivi, parole d'ordinanza che cambiano nella forma restando intatta la sostanza. Questa sinistra è da decenni che litiga e si divide, salvo ritrovarsi sempre, nell'attesa però di scomporsi nuovamente. Quando vince è il cammino del progresso, quando perde è colpa della reazione in agguato, mai delle sue cattive analisi o ricette. È una sinistra capace di accendere speranze nobili salvo scoprire sempre che la realtà è un'altra cosa. E poi quell'idea ossessiva che l'accompagna dalla nascita, rassicurante per sé ma fastidiosa per tutti gli altri, di battersi sempre e solo per le cause giuste di saper fiutare e accompagnare il movimento della storia. Nella romana piazza dei Santi Apostoli ah, la forza di simboli e memorie di cui proprio non ci si riesce a liberare, anche quando sono oggettivamente flebili e inclinano al patetico c'erano le bandiere rosse, lo spirito di militanza, la voglia di socialismo, il desiderio di riscatto in realtà non troppo facilmente distinguibile dal desiderio di vendetta. C'erano anche tante storie personali, di reduci sconfitti insoddisfatti e nostalgici di una storia gloriosa, che però non è quella del comunismo, ma più modestamente quella dell'Ulivo prodiano, che si vorrebbe far rinascere contro la tentazione dell'uomo solo al comando. Ma c'era soprattutto un fantasma: appunto quello di Matteo Renzi, seppure poco evocato nella speranza, segreta e vana, di esorcizzarlo. Quest'ultimo, Renzi non il suo fantasma, ha provato a creare una sinistra diversa da quella che voleva cambiare il mondo nel nome dell'ideologia. E che parlava a nome del popolo salvo aver smesso di frequentarlo e di condividerne usi e costumi. Ha conquistato lottando sul campo, come fanno i politici di razza un partito che era l'innaturale e precaria sommatoria di antiche oligarche, tenute insieme da un comune nemico, quel Cavaliere che ancora scorrazza indomito nelle praterie della politica italiana, più che da un progetto condiviso. Ha usato sicuramente metodi spicci e parole sgarbate. Ma il senso di marcia era evidente, come era chiaro il racconto pubblico che ne ha accompagnato l'ascesa: largo ai giovani talentuosi in un paese di vecchi e notabili, meno burocrazia e basta con le rendite di posizione, ottimismo e fiducia invece che il pauperismo malinconico di marca berlingueriana, niente moralismi o complessi di superiorità nei confronti degli avversari, uscire dai confini elettorali storici della sinistra parlando agli italiani tutti, eccetera. Poi Renzi s'è incartato e bloccato, forse anche per il solito errore che fanno i leader di mettersi intorno persone fidate ma non sempre all'altezza. Ma anche per non aver tenuto nel debito conto la forza frenante dei corporativismi italici. Ha perso un referendum senza spiegarne a sé e agli altri il motivo. Ha lasciato il governo

Page 45: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

ma ha trasmesso l'impressione di non pensare ad altro che a riprenderselo. Coloro che aveva politicamente scontentati o offeso o messo ai margini si sono alla spiccia riorganizzati, tornando pimpanti. Ed è cominciata quella caccia all'uomo che oggi potrebbe essere arrivata ad un punto di svolta. Nel senso che i suoi nemici della sinistra, da ovunque provenienti e per quanto tra di loro anch'essi divisi, diventeranno ora un partito. Col quale gli si chiede ipocritamente di governare insieme il Paese, ma è chiaramente una trappola, essendo la sua uscita di scena l'implicita conditio sine qua non di ogni possibile intesa o unione a sinistra. Si dirà che è una proposta irragionevole e suicida, quella di una sinistra che vorrebbe allearsi con un Pd senza Renzi, ma l'autolesionismo, ci eravamo dimenticati di dirlo, è un altro degli stigmi negativi di quel mondo. Si andrà dunque allo scontro, ognuno per la sua strada, anche perché nel frattempo Renzi sembra aver chiarito l'intenzione di rilanciare il suo progetto ad oggi obiettivamente appannato. Dopotutto è il segretario di fresco nuovamente plebiscitato del suo partito, l'unico che a sinistra abbia una forza reale, essendo quella degli altri solo potenziale e tutta da verificare alle urne (e in alcuni casi meramente mediatica). Farà dunque lui le liste alle prossime elezioni. E potrà così provare un'operazione di ricambio davvero radicale del personale politico-parlamentare, evitando di restare preso, come sinora è stato, nel gioco interno delle correnti e negli equilibrismi sul territorio. L'appello alla società civile, da dove vorrebbe attingere le energie fresche che secondo lui servono alla sinistra e all'Italia, è un mito ricorrente della politica italiana da oltre vent'anni, dal berlusconismo al grillismo, che non ha prodotto grandi frutti. A Renzi si possono solo fare i migliori auguri, ma avendo ormai contro la sinistra degli apparati è l'unica strada che gli resta: sarà la via italiana al macronismo, resa particolare dal fatto che il Pd è pur sempre un partito radicato e con una storia alle spalle, da cambiare e non da ripudiare o annichilire come è accaduto in Francia con i socialisti. Se Renzi insegue il neo-inquilino dell'Eliseo, i suoi avversari fanno invece il verso al radicalismo di Melenchon e di Corbyn, nella convinzione che una sinistra nuovamente radicale nei programmi e nelle parole sia ciò che il tempo storico richiede. Può darsi, ma attenti a non volere troppo per ottenere poco. Anche Pisapia, par di capire, vorrebbe strizzare l'occhio ai moderati. Senza rendersi conto che anche il ceto medio riflessivo (cioè i moderati col bollino di qualità concesso dalla sinistra) difficilmente può entusiasmarsi alla prospettiva di una patrimoniale e di un ritorno alla tassa sulla prima casa. La destra oggi non è in testa ai sondaggi perché vanno di moda il razzismo e il nazionalismo, ma perché il ricettario socio-economico di una certa sinistra, anche se declinato con l'amabile nonchalance radical-borghese che caratterizza Pisapia, sembra concepito apposta non per ridurre le diseguaglianze sociali ma per deprimere ancora di più l'economia. Come finirà? Probabilmente con l'approvazione, dopo l'estate, della legge elettorale proporzionale affossata nelle settimane scorse per l'errore di averla legata alla scadenza delle elezioni anticipate, ma che a questo punto con la legislatura che si avvia alla sua scadenza naturale potrebbe convenire (al di là delle convinzioni più profonde) davvero a tutti. Ognuno si prenderà i suoi voti Renzi, Pisapia-Bersani, Berlusconi, Salvini e poi si vedrà. Non è il massimo per la stabilità e il futuro dell'Italia, ma è il massimo di quanto possa offrire questa confusa stagione politica. Pag 8 Un “Charlie” anche in Italia ma è curato e ha nove anni La mamma: “ La malattia è la stessa, si nutre con un sondino e va a scuola” Lucca - I genitori di un bimbo di nove anni, affetto dalla stessa malattia di Charlie Gard, sono in contatto da tempo con la famiglia inglese a favore della quale la madre del piccolo italiano ha lanciato anche un appello. Emanuele Campostrini, Mele, vive a Massarosa, in provincia di Lucca, ed è affetto da deplezione del dna mitocondriale: è sordo, non parla, ma respira da solo, va a scuola e comunica attraverso un puntatore ottico. «Non c'è nulla di più bello dell'essere genitori. La malattia è un aspetto secondario. Noi decidemmo di andare avanti», ha spiegato al quotidiano La Nazione la mamma di Mele, Chiara Paolini, che con il marito Massimo è in contatto con la famiglia Gard. «Spesso parlo con la zia di Charlie - spiega mamma Chiara - la sorella del papà. Mi dice che i suoi genitori sono sempre con il bimbo, possono stare nello stesso letto, coccolarlo, gli stanno accanto, è molto bello e molto brutto assieme, perché sanno che è stata decretata la sua morte». «La differenza tra Mele e Charlie - ha spiegato ancora la

Page 46: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

mamma di Mele - è solo nel tipo di gene malato, che causa però la stessa malattia, e nelle leggi dello Stato in cui vivono. La legge sul fine vita che vige in Inghilterra è stata riconosciuta suprema dai giudici europei, rispetto al diritto alla vita di Charlie. In Italia, invece, la legge vieta l'interruzione delle cure nei bambini senza il permesso dei genitori. Questo diritto diventerebbe, anche da noi, molto più incerto se passasse la legge sul DAT in discussione al Senato. Penso che dobbiamo combattere perché quella legge non passi, per non metterci nei guai». Mele è il secondo di tre figli, è nato nel 2008. Una volta diagnosticata la malattia, racconta ancor mamma Chiara, «i medici dissero che sarebbe vissuto al massimo un anno e ci consigliarono di accompagnarlo alla morte, evitando l'accanimento terapeutico. Per un certo tempo ci lasciammo convincere che fosse la strada migliore. Ma una notte Mele ebbe un attacco e io lo ventilai per diverse ore. Ero divisa a metà. Non volevo che soffrisse ma nemmeno lasciarlo andare. Capii, però, che mentre lo aiutavo a respirare lo stavo, in realtà, accompagnando alla vita; così decidemmo di andare avanti». Mele va a scuola in ambulanza e un'infermiera lo accompagna, si nutre attraverso un sondino. «Per il resto - dice la mamma - è un bimbo felice, amato e pieno di speranza». Le polemiche anche politiche sulla decisione dei giudici europei e inglesi di sospendere la cura di Charlie continuano a dividere. Ieri il deputato Gian Luigi Gigli (gruppo parlamentare DeS-Cd), Presidente del Movimento per la Vita Italiano, ha rivolto un appello-sfida al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: «Dopo averli privati della potestà genitoriale, del diritto alla libera scelta del medico e del passaporto - manco fossero due delinquenti - al papà e alla mamma di Charlie è stata graziosamente concessa qualche altra ora per stare in compagnia del piccolo condannato a morte. Charlie però non potrà morire nella sua culla, a casa sua, neanche si trattasse di Totò Riina. La motivazione ufficiale è che Charlie è affetto da una malattia inevitabilmente mortale, come se ognuno di noi non lo fosse. Il ministro Lorenzin, che è mamma di due bambini, faccia un bel gesto e chieda al suo omologo inglese di autorizzare il trasferimento di Charlie in un ospedale italiano. Sostenga la richiesta affermando che da noi la pena di morte non esiste e che in Italia inguaribile non vuol dire incurabile. La nostra immagine di paese civile ne uscirebbe rafforzata e la gran parte degli italiani la ringrazierebbe». Pag 13 Il diritto di morire tra le braccia di chi ci ha amato di Alessandra Graziottin Il piccolo Charlie Gard, nato a Londra nell'agosto 2016, ha le ore contate. Sarebbe già morto da mesi, se dall'11 ottobre 2016 non fosse tenuto in vita, intubato, nel reparto di terapia intensiva del Great Ormond Street Hospital. Il piccolo è affetto da una rarissima malattia genetica, la sindrome da deperimento mitocondriale. La malattia è genetica, autosomica recessiva: entrambi i genitori sono portatori sani. Questa alterazione genetica lede i mitocondri, che sono i polmoncini delle cellule. Il corpo del piccolo va incontro di fatto ad un'asfissia generalizzata progressiva: già dopo due mesi dalla nascita il piccolo non cresceva più, anzi deperiva rapidamente. Le lesioni cerebrali sono gravi e irreversibili, il piccolo non vede da mesi, non sente, non può più muoversi. È alimentato e respira artificialmente. Senza questi aiuti tecnologici, sarebbe già morto. La malattia non ha cure e le proposte di trattamento in USA non hanno chance di restituire al piccolo ciò che ha già perduto: un cervello funzionante, un corpicino che possa recuperare i devastanti danni già determinati in modo pervasivo da questa malattia che colpisce il 100 per cento delle cellule dell'organismo, proprio perché ne colpisce gli organelli essenziali alla loro funzione e vita, i mitocondri appunto. È questa spietatezza della biologia, che non lascia scampo, ad aver dato unanimità ai verdetti dei giudici a tutti i livelli di giudizio cui i genitori del piccolo si sono rivolti per poter continuare a cercare e sperare in una cura. Questo è il lato medico-scientifico della questione. Poi c'è il lato umano, che ha scosso, e giustamente, gli animi di milioni di persone. Perché sono coinvolti i sentimenti più profondi. Il primo, più potente, universale e comprensibile, è il diritto di un genitore di sperare contro ogni speranza. Di credere in un miracolo, in una chance inattesa, in una terapia inaspettatamente efficace. Di crederci perché la vita non è fatta solo di biologia e scienza, ma anche di sogni, di speranze, di desideri: ogni genitore che ha avuto un figlio malato, specialmente se in modo grave, conosce a fondo le angosce, la disperazione, il tormento, la ricerca disperata di un'altra chance, di un'altra possibilità, di un'altra opportunità. Da medico, purtroppo devo riconoscere che

Page 47: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

allo stato attuale della ricerca questa malattia non ha una chance realistica non tanto e non solo di essere curata, ma di curare i danni biologici irreversibili in atto già da mesi. Ha senso allora andare negli USA a tentare anche questa cura sperimentale? E ha senso per chi? Dal punto di vista dei genitori e del loro bisogno di sperare contro ogni speranza, sì, ha senso. Tra l'altro, con l'enorme somma raccolta con le donazioni, non è nemmeno in discussione il diritto economico alla cura, che possono pagare senza caricare il servizio sanitario inglese. Ma dal punto di vista del bambino, ha senso questo accanimento? Lui non ha voce, non l'ha più da tempo. Cosa direbbe, se potesse scegliere? Quanti di noi, sapendo di restare comunque dei vegetali per il resto della vita, vorrebbero continuare a passarla intubati, nutriti artificialmente, senza parlare, senza sentire, senza vedere, senza potersi muovere, forse sentendo solo un dolore profondo (come succede ai prematuri, e ce ne siamo accorti solo da pochi anni)? Pochissimi credo. Credo che anche questo piccolino abbia diritto di morire in pace, senza più accanimenti terapeutici, già in atto da nove lunghi mesi. Tuttavia, su un punto cruciale non sono d'accordo né con i giudici né con i medici. Questi genitori disperati, e questo piccolino che ha conosciuto un frammento di vita luminosa e poi le tenebre di un malattia feroce e veloce, hanno tutto il diritto di condividere nell'intimità della casa gli ultimi momenti, l'ultimo addio. Hanno ragione i genitori a chiedere che il piccolo, intubato, venga portato a casa. Il diritto di morire tra le braccia di chi ci ama, e in modo misterioso forse amiamo anche nelle tenebre della morte cerebrale, è umanissimo, profondo e inalienabile. LA NUOVA Pag 1 Se la Lega fa politica con i piedi di Francesco Jori Dalla Lega calcio alla Lega calci. Promette di dispensare pedate nel lato B, Toni Da Re, segretario del Carroccio veneto, a chi dall'interno del partito critica i deludenti risultati di questa tornata elettorale: risposta magari debole sul piano politico, ma sicuramente efficace su quello pratico. E che si intona alla perfezione con il nuovo corso muscolare introdotto a livello nazionale da Matteo Salvini: non sei d'accordo? «Fora di ball». Linea ispiratrice da sempre dell'ormai fu-sindaco di Padova Massimo Bitonci, che l'ha applicata con una rigorosa par condicio: amici e avversari, "uniti nella botta".Colpisce, in tutti questi atteggiamenti, l'assenza di ogni pur minimo cenno di autocritica. Dopo gli ultimi risultati, la Lega in Veneto guida oggi un solo capoluogo su sette, oltretutto marginale come Rovigo; dove per giunta il sindaco non gode di molta popolarità neppure tra i suoi. Il caso Padova è esemplare, col risultato di sconfinare nel ridicolo: si arriva a mettere sotto accusa per mancata collaborazione l'alleato di Forza Italia, cioè di un partito che non è riuscito a racimolare neanche il 4 per cento... E si ripropone il trito copione del tradimento, senza chiedersi come mai il sindaco defenestrato avesse perso per strada metà della sua giunta già prima di essere sfiduciato dal Consiglio. In ogni caso, il risultato non cambia: scaricare le responsabilità della sconfitta sugli altri, e respingere a sdegno e pedate le riflessioni sulle proprie, è l'equivalente politico della vecchia battuta, «non sono io razzista, sono loro che sono negri». Serve per autoassolversi, non per capire e soprattutto per rimediare. Che sarebbe invece importante: anche perché non si può sempre confidare sull'inconsistenza degli avversari, com'è fin qui avvenuto in regione. E come il segnale anomalo di Padova dovrebbe suggerire. Oltretutto, questa linea muscolare non rispecchia la vera anima della Lega, particolarmente in Veneto: dove il Carroccio ha potuto e può tuttora contare su una rete di amministratori validi e con alto indice di gradimento; come ha potuto sperimentare lo stesso Da Re nella sua lunga esperienza di sindaco di Vittorio Veneto. Politici sostanzialmente moderati, che non stavano allineati e coperti a prescindere, neppure quando al vertice del partito c'era il Capo Unico, Bossi, con certi suoi cavalli di battaglia come la secessione. E che proprio per questo sono arrivati a governare decine di Comuni ispirandosi non ai proclami ma ai fatti, non agli slogan ma alla sostanza: votati e spesso confermati anche da fasce di elettorato esterno per la loro concretezza e la capacità di farsi interpreti della comunità, non di una sua parte. Lo stesso governatore della Regione Luca Zaia, pur uniformandosi alla linea nazionale, non ha mai fatto e non fa uso dei toni aspri e sprezzanti esibiti dai Salvini romani e dai Bitonci veneti. Di fatto, la Lega di oggi è tutt'altro che monolitica come la vorrebbe far apparire il suo muscolare segretario. Esiste, in una sua

Page 48: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

componente tutt'altro che marginale, la convinzione che non serve aumentare le percentuali di voto, se poi quel consenso non diventa politicamente spendibile; e d'altra parte, spesso le urne forniscono risposte ben diverse da quelle dei sondaggi. Come dimostra proprio quel modello lepenista cui Salvini si ispira: alla prova dei fatti, il partito dell'esplosiva leader francese rimane assolutamente marginale. E l'anima veneta della vecchia Liga sa bene che i consensi si guadagnano non con le comparsate televisive e con i titoli di giornale, ma battendo il territorio a tappeto e vendendo non fumo ma sostanza. Perciò, forse è meglio partire dalle critiche per farne motivo di analisi, confronto e rimedi, anziché viverle con fastidio e minacciare dure reprimende. Ci sono molti modi di fare politica, certo. Ma quello con i piedi non ha mai portato lontano. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Lo spirito inquieto del Paese di Ernesto Galli della Loggia Politica e non voto Quale messaggio hanno ricevuto dopo il 4 dicembre gli Italiani da Matteo Renzi? Cioè da colui che nel 2013 si era affacciato sulla scena nazionale sconvolgendola con un’immagine e un messaggio in grande parte nuovi, da colui che per tre anni aveva governato il Paese con un’inedita sebbene scemante incisività, che infine aveva deciso di dare un esito culminante a questa sua parabola puntando tutto su una rilevantissima riforma costituzionale? Che cosa hanno saputo di lui, e da lui, fino a oggi, dopo la clamorosa sconfitta che quel 4 dicembre lo ha costretto a lasciare Palazzo Chigi? Essenzialmente una cosa sola: che in realtà Matteo Renzi non voleva rinunciare affatto al potere perduto e intendeva ritornare al più presto al governo. Non importava molto in quale modo, anzi in ogni modo: tenendo lui a battesimo, o meglio al guinzaglio, il ministero Gentiloni; ribadendo il suo pieno dominio sul Partito democratico, sulla Rai e su tutto; affrettando il più possibile le elezioni; essendo disponibile a leggi elettorali anche assai diverse; lasciandosi le mani libere per ogni eventuale alleanza presente o futura. Insomma il giovane leader che si era presentato al Paese dicendosi disponibile solo per fare certe cose, per una sola politica, ora non si sapeva più che cosa intendesse fare, quali programmi avesse in mente se non ritornare al potere. E a tutt’oggi non si sa. Dal 4 dicembre Renzi, infatti, non è stato più capace di dire nulla al Paese. È come se il non aver avuto il coraggio di parlare in modo approfondito della propria sconfitta e dei suoi motivi, non aver avuto il coraggio di apparire un vinto alla platea che fin dall’inizio era stata davvero la sua - quella della più vasta opinione pubblica - gli abbia anche impedito di cercare la vera rivincita lì dove solo poteva ottenerla. Invece dopo il 4 dicembre i suoi unici interlocutori sono divenuti gli altri politici. Neanche durante la campagna per le primarie democratiche è riuscito a trovare qualcosa dell’empito antico, dell’antica capacità di convincere. La kermesse del Lingotto è stata la stanca ripetizione del già visto. Gli stessi riti, lo stesso battutismo, le stesse formule, e quasi sempre le stesse facce. Nessuna idea o proposta nuova capace di produrre interesse, sorpresa, mobilitazione. Di far scorgere il segnale di un nuovo inizio. È questo remake che sta perdendo l’ex presidente del Consiglio, o che forse ormai lo ha già perduto. Ci sono sconfitte da cui alla fine si può uscire vincitori, altre che invece ridimensionano per sempre. È quest’ultimo caso ciò che sembra essere successo a Matteo Renzi: il 4 dicembre ha avviato la sua trasformazione da uno statista potenziale a una promessa mancata. Ma i suoi avversari e concorrenti non si illudano: se Renzi è stato ridimensionato loro sono restati i nani che erano. Sicché oggi, mentre la crisi del renzismo riaccende la rissa generale, mentre perciò si rianimano le ambizioni di tutte le mosche cocchiere e di tutte le rancide vecchie glorie che a sinistra vaneggiano di coalizioni miracolose, al centro sognano di Grandi Centri e a destra di clamorosi ritorni, lo spirito del Paese, invece, si rinchiude sempre di più in una inquietudine senza speranza che colpisce le opinioni più diverse. È l’inquietudine disperata di chi non riesce a vedere in nessuna parte politica la consapevolezza della gravità del declino italiano, né alcuna proposta credibile per farvi fronte, né alcuna serietà di propositi e soprattutto alcuna leadership all’altezza del compito che i tempi imporrebbero. È una disperazione muta che va oltre la tradizionale divisione tra Destra e Sinistra per lasciare spazio solo a

Page 49: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

un interrogativo comune: dove rivolgersi con un minimo di fiducia? In chi sperare? Nell’impossibilità di trovare una risposta l’unico esito è la crescita progressiva del numero di coloro che non vanno più a votare. La verità è che dopo appena vent’anni dalla fine del sistema politico che aveva caratterizzato il primo mezzo secolo della Repubblica, oggi si sta virtualmente disarticolando pure il secondo che gli era succeduto nel 1994-96. Alla fine delle ideologie novecentesche non siamo stati capaci di sostituire alcuna nuova idea del Paese, alcuna nuova narrazione del suo passato così come alcun nuovo progetto circa il suo futuro. E così una crisi si somma all’altra: a quella delle idee quella dello strumento partito. Delle prime non c’è più alcun segno di vita, dei secondi rimangono solo i loro simulacri rappresentati dai cosiddetti partiti personali (quelli attuali lo sono tutti): in pratica una coorte di seguaci tenuti insieme dal vincolo della convenienza/fedeltà destinato a durare finché dura la fortuna del capo. Ciò che ne risulta è sotto gli occhi di tutti: una vera e propria desertificazione politica dove esiste unicamente il giorno per giorno, che rende impossibile qualsiasi leadership autentica. Forse non è un destino solamente dell’Italia. Ma da noi come sempre le conseguenze sono più gravi. Al vuoto delle idee e all’assenza dei partiti noi non abbiamo, infatti, la possibilità di supplire con l’iniziativa di solide istituzioni e di élite prestigiose e riconosciute, in grado come in Francia di fare blocco e di «inventarsi» dal nulla una leadership tipo quella di Macron, autentico Manchurian candidate arrivato al successo grazie ad uno straordinario colpo di fortuna. Da noi la desertificazione politica significa solo da un lato ancora maggior potere alle lobby e alle corporazioni di ogni genere, sempre più autorizzate a fare quello che vogliono, dall’altro il via libera alle genuine pulsioni di una società «civile» che non ha fatto mai gran conto né dello Stato né dell’interesse collettivo. In entrambi i casi non proprio un gran bel viatico per il futuro. Pag 3 Tutte le anime della sinistra, tra dissidenti pd e bandiere. In scena l’eterna nostalgia di Pierluigi Battista L’entusiasmo e l’ardore del nuovo inizio no, quelli non c’erano. Però c’erano molto languore e molta tenera malinconia per un ritorno. Perché a piazza Santi Apostoli non c’era un nuovo inizio trionfante e tambureggiante. C’era il ritorno degli affetti, il ritrovarsi, il riabbracciarsi, il rivedersi. C’era la sinistra che si commuove alla parola sinistra. C’era il ritorno di un popolo disperso. Un giovane con la chitarra sul palco vedeva finalmente tornare le bandiere rosse. È tornato Leoluca Orlando, che anzi non se n’era mai andato. È tornata Sabrina Ferilli che dopo un fugace incantamento per i Cinque Stelle lascia a un ritornato Gad Lerner un messaggio che la piazza accoglie con un caloroso applauso. È tornato Antonio Bassolino, che sembra più giovane di vent’anni fa quando un D’Alema, anche lui tornato dall’Europa spietata e rottamatrice, lo aveva incluso nel partito dei sindaci «cacicchi». Ora stanno nella stessa piazza di Pierluigi Bersani, tornato con le sue metafore, con Giuliano Pisapia, tornato dal vano tentativo di mettere insieme questa piazza e Matteo Renzi. È come se fosse tornata in una piazza Santi Apostoli che aveva conosciuto le notti trionfali dell’Ulivo l’immagine di una sinistra che fu. Non una piazza contro Renzi, che anzi è stato poco nominato, se non per allusioni e punzecchiature oblique. Ma una piazza che provava ad assaporare l’illusione di un mondo senza Renzi. Non contro, ma senza. Ed era una sensazione strana. C’erano i dissidenti del Pd che quasi si sentivano frastornati, in libera uscita. Andrea Orlando, appena arrivato, ha chiesto ripetutamente di Gianni Cuperlo, come se non avesse voluto restare da solo, e quando qualcuno gli diceva che questa piazza era «contro il Pd», lui replicava «non è così», e quando qualcuno gli diceva che era «contro Renzi», lui replicava ancora «non è così». C’era Cuperlo che spiegava come il centrosinistra a suo parere dovrebbe prendere spunto dall’Olanda anni Settanta, quella del calcio totale e di Johan Cruijff, ma se qualcuno gli faceva notare che poi quell’Olanda le prendeva dalla Germania, lui non è che si dimostrasse pentito per l’azzardato paragone. C’erano frammenti di una sinistra trattata in questi anni come un imbranato, parole di Renzi in una Leopolda, che cerca di infilare un vecchio gettone nel telefonino. Una sinistra che si è offesa e che rivendica, come ha detto Bersani, di avere almeno «un pensiero», a differenza, pare di capire, del cerchio dei pasdaran renziani. E però il rapporto tra la tradizione e la modernità deve essere molto complicato se un momento di forte tensione si è avuto quando dal palco hanno chiesto di non sventolare troppo le bandiere

Page 50: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

altrimenti si sarebbero oscurate le telecamere che riprendevano per lo streaming . Ma come, fischiavano allibiti dalla piazza, siamo venuti fin qui proprio per sventolare le nostre rosse bandiere di «Articolo 1», e voi ci dite di tenerle arrotolate? Ma no, rispondevano dal palco, è che così impedite a tanta gente sparsa per l’Italia di seguire questa manifestazione. Ecco, le due anime della sinistra che convivono con difficoltà si sono scontrate ancora una volta. Pisapia ha detto che in questa manifestazione prendeva forma la nuova «casa comune» della sinistra, ma si capisce che le tante sinistre presenti non riescono a mettersi d’accordo sull’arredamento e sulle icone da appendere alle pareti. Si ritrovano con affetto e anche dolcezza come se un usurpatore avesse strappato via la sinistra dal cuore della politica. E danno la colpa all’usurpatore Renzi se le cose vanno male. Ma vanno male per la sinistra in tutta Europa, il Partito socialista in Francia ha il 6 per cento, in Germania un disastro, lo stesso Jeremy Corbyn, che in questa piazza viene idolatrato, ha vinto rispetto alle aspettative ma in Gran Bretagna comunque c’è un governo dei Tories, e anche i democratici in America non se la passano bene e non hanno nemmeno un Renzi contro cui prendersela. Ma qui vogliono riappropriarsi di una simbologia, di una mitologia, di una storia, di una tradizione, di un linguaggio, di una piazza. Per questo il sentimento del «ritorno» è così più forte di un «nuovo inizio» di cui non si sente la spinta combattiva, per la verità. E non si sente neanche una parola concreta su quello che dovrebbe essere fatto da qui alle elezioni, e come presentarsi e con chi. «Insieme», dice l’insegna della manifestazione. Ma insieme a chi? Intanto insieme in una piazza con le bandiere, le canzoni e gli slogan che più stanno a cuore. Anche alla presidente Laura Boldrini che qui dismette l’abito istituzionale per reimmergersi nella sinistra di cui è figlia. Ai fuoriusciti del Pd divisi in tanti gruppi, alla vecchia sinistra, ai Verdi riesumati per l’occasione, a coloro che stanno ancora nel Pd con disagio come Orlando, Cuperlo, Cesare Damiano e non vorrebbero sentire nominare Renzi e scuotono la testa se invece devono commentare le parole di chiusura alla coalizione del segretario a Milano. E cercano una bandiera, rossa, da sventolare «insieme». L’eterno ritorno. Pag 8 Nell’ex moschea del Califfo di Lorenzo Cremonesi La battaglia di Mosul Quasi non ci credi quando finalmente arrivi a trovartelo di fronte: fracassato, pezzi sparsi di marmo bianco e calcinacci, volumi del Corano dai fogli spiegazzati giacciono attorno tra le macerie. Eccolo il «minbar» della moschea Al Nuri, il pulpito dei sermoni più famoso della nostra era, quella del terrore di Isis e delle minacce del «Califfo». E’ ridotto a questo caos disperato, sporco, fatto di spari, incendi, fumo e bombe, che puzza di morte, l’odore dolciastro dei cadaveri in decomposizione sotto le rovine della cittadella medioevale. Mosul è in rovina, danneggiata al cuore, largamente da ricostruire. Tre anni fa, qui Abu Bakr al Baghdadi si autoproclamava Califfo, capo indiscusso di Isis. Prometteva un’era nuova, la glorificazione della purezza sunnita, dell’età dell’oro dei primi Califfi, la realizzazione di un’utopia fondata sulla soppressione di ogni oppositore «eretico». «Sono il vostro leader, sebbene io non sia migliore di voi», dichiarava sotto il turbante nero in una megalomaniaca apparizione, dove pretendeva persino di legittimarsi a discendente del Profeta. Il suo sogno folle e fanatico si infrange solo 36 mesi dopo. «Avveniva esattamente il 4 luglio 2014», precisa ad alta voce un generale delle truppe speciali irachene arrivato di corsa per farsi riprendere dalle televisioni di Bagdad, che adesso però procede lento, a passi incerti come tutti noi tra le montagne di macerie, con i soldati che mettono in guardia sul pericolo di mine nascoste. Ci arriviamo da sud in tarda mattinata dopo una lunga attesa negli Humvee, i gipponi militari di fabbricazione americana, delle unità della «Brigata Dorata» irachena con la massiccia blindatura resa torrida dal sole implacabile. I media locali rilanciano la notizia per cui davvero Al Baghdadi potrebbe essere morto, come già ipotizzavano da Mosca un paio di settimane fa. Da Bagdad i comandi parlano ormai di «vittoria da annunciare ufficialmente entro un paio di giorni». E qui tra i soldati l’euforia è tanta. Tre anni fa erano ridotti a branchi di uomini in fuga, disperati, braccati dai jihadisti del Califfo che li sterminavano in gigantesche mattanze di massa riprese con i cellulari e messe in rete per diffondere il terrore e annullare la loro volontà di resistere. Oggi hanno la meglio. Sono stati addestrati e armati soprattutto dagli americani, sanno che ogni loro difficoltà

Page 51: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sarà comunque superata grazie agli aiuti del Pentagono. L’Isis è battuto, sconfitto. Lo testimoniano le macerie polverose della Al Nuri. Sta ancora in piedi la porta d’accesso principale, con il cancello in ferro battuto e l’iscrizione verde sull’arco marmoreo che lo sovrasta. All’interno, il celebre minareto arcuato (lo chiamavano «il gobbo») fatto saltare in aria con furia nichilista dall’Isis nei giorni scorsi è l’unico elemento architettonico che sia ancora in qualche modo riconoscibile. La sua base decorata con bassorilievi antichi oltre 800 anni è ben visibile. E così anche i tronconi spezzati del corpo centrale. Ma il resto della struttura della moschea, una delle più antiche e famose dell’Iraq nell’era islamica, è un tappeto di macerie. Alti nel cielo volano i caccia americani che ogni tanto tirano bombe di precisione. Più bassi pattugliano i droni e gli elicotteri iracheni. Gli spari dei soldati con armi leggere sono continui. Gli ultimi combattenti di Isis sono invece come talpe nelle loro tane. Stanno nascosti nel dedalo di tunnel e ricoveri sotterranei. Ogni tanto lanciano una bomba a mano, un loro cecchino tira per uccidere. Oppure cercano di piantare altre cariche esplosive tra i vicoli stretti per rallentare l’avanzata dei nemici. «Ovvio che ci sono ancora cellule di fanatici pronte a colpire. Sono sotto terra, escono all’improvviso e fanno imboscate alle spalle. Altri cercano di scappare nella notte per unirsi alle loro unità ancora forti verso Tal Afar e i villaggi che portano al confine con la Siria», dicono Riad Abdel Hussein e Eimad Aidan, due soldati quasi trentenni originari di Babel, una delle città sciite a sud di Bagdad. Impossibile tirare conclusioni certe, ma l’impressione è che la grande maggioranza dei soldati delle unità combattenti in prima linea siano sciiti venuti dal Sud del Paese. I loro commilitoni stanno distribuendo bottigliette d’acqua ai civili che emergono come fantasmi impolverati da ciò che resta delle loro case. E qui non è difficile osservare una nota che stride con la propaganda rilanciata dalle autorità irachene. Loro parlano di «fratellanza» e «soldati liberatori» nei confronti di una popolazione che sarebbe ben contenta di venire finalmente salvata dal giogo di Isis. Ma qui a scappare sono soprattutto donne, malati, bambini e vecchi. Non sentiamo parlare di «scudi umani». Gli uomini quasi non ci sono e non è difficile scorgere occhiate d’odio da parte delle donne. «Siete contenti? Avete battuto l’Isis, perché adesso venite a chiederci anche i nostri nomi?», dicono aggressive un paio sulla trentina quando cerchiamo di intervistarle. I soldati vogliono sapere dove sono i loro mariti, i figli maschi più grandi. Controllano sospettosi i rifugi sotterranei da dove esce questa fila continua di affamati e soprattutto assetati. Per i soldati ogni uomo giovane va trattato come fosse un terrorista potenziale, se non certo. Quelli che scorgiamo sono per lo più feriti, con le barbe lunghe, magrissimi. La prima linea si è adesso spostata un centinaio di metri più a nord della moschea in direzione del Tigri. Quando la lasciamo verso le quindici tutta l’area è scossa da forti esplosioni con nuvole grigie che ammorbano l’aria. Una donna sviene, lasciando due bambini piccoli che fissano i gipponi con gli occhi sbarrati di paura. Le pattuglie cercano le bombe trappola. Ancora davanti alla Al Nuri, aprendo casualmente la serranda di un negozio, i soldati scoprono un’autobomba pronta per l’uso. Ma poi nessuno ci fa più caso. E’ arrivato un gippone carico di bottigliette d’acqua ghiacciate. E ci si accalca tutti per conquistarne almeno una. Pag 20 I segnali contradditori dell’Islam contemporaneo di Angelo Scola Pubblichiamo l’intervento del cardinale Angelo Scola rivolto al Comitato scientifico della Fondazione Oasis. Al tema dell’Islam è dedicato il nuovo numero della rivista Oasis (Marsilio). Oltre Isis. Non dopo Isis. Il fenomeno del jihadismo non scomparirà neppure nel momento in cui venisse meno la sua dimensione territoriale in Siria e Iraq. Non va dimenticato che vi sono altre aree di crisi, come la Libia, in cui le formazioni jihadiste «persistono e si estendono», per citare un loro slogan. L’oltre va dunque preso in senso concettuale, come un gettare lo sguardo al di là del fenomeno del jihadismo, per individuare i cambiamenti strutturali e di paradigma che esso ha indotto nel mondo musulmano e nell’Occidente, sempre più reciprocamente implicati. Vorrei, a questo proposito, concentrarmi su due fenomeni: da un lato la crescente istituzionalizzazione dell’Islam, per poter definire chi parla per i musulmani; dall’altro un inedito dibattito su che cos’è l’Islam, stimolato anch’esso dalle efferate azioni dei gruppi jihadisti che, come

Page 52: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

sappiamo bene, si richiamano e utilizzano una simbologia e un lessico religioso islamico. Questo dibattito propone, a mio avviso, il tema della libertà, come spero di riuscire a suggerire, con un’urgenza inedita. Non ho la pretesa di approfondire questi delicati temi, che richiedono una conoscenza specialistica dell’Islam. Sono però contento di constatare che sempre più numerosi autori musulmani, di fede o di cultura, interloquiscono con Fondazione Oasis, certi che il metodo adottato - una volta l’ho riassunto nella formula «parlare con i musulmani, non sui musulmani» - sia l’unico in grado di leggere veramente la complessa situazione dell’Islam contemporaneo, decifrando i contraddittori segnali che esso lancia. Sappiamo bene però che la frase di Kipling «East is East and West is West and never the twain shall meet» non ha oggi alcun significato, se mai ne ha avuto in passato. E così, inevitabilmente, il mio sguardo si sposta verso l’Occidente, a partire dall’esperienza di questi anni a Milano, una città che sta soltanto ora prendendo coscienza di essere metropoli. Nel mio ultimo libro, Postcristianesimo, ho cercato di proporre alcune riflessioni, che stanno sotto il duplice segno del malessere e della speranza. Un malessere che, per singolare coincidenza con quanto sta avvenendo nel mondo islamico, è legato in larga misura proprio alla libertà, o meglio a una concezione ridotta della libertà, intesa come assenza di vincoli, strutturalmente opposta a un’autorità vissuta sempre come oppressiva. La cifra dominante del nostro tempo sembra essere quella di Narciso. Ora, è ben vero che Origene ha potuto dare una lettura positiva di questo mito greco, a riprova del fatto che non esiste nessuna forma dell’umano che sia esclusa dall’abbraccio della Grazia. E tuttavia, mi sembra che nel frangente attuale prevalga decisamente il ripiegamento autistico su di sé e l’appiattimento sull’istante, come un flusso a cui abbandonarsi gaiamente (l’amor fati di Nietzsche suonerebbe ancora troppo serio e professorale). In ogni caso sono convinto che l’orrendo jihadismo, nella sua versione europea, resti più il tragico sintomo di una grave prova che un reale progetto alternativo. Esso sembra a me una forma di antimodernità che tuttavia rimane succube della modernità, in un certo senso come il fascismo rimase succube del marxismo che voleva combattere, prigioniero della pura antitesi e quindi incomprensibile senza la tesi a cui si opponeva. Questo non significa naturalmente che non si debba approfondire e combattere la specificità del discorso jihadista, che non è nato l’altro ieri, avendo alle spalle decenni di propaganda e politica culturale, come ha ricordato di recente il professor Dassetto. È anzi evidente che esiste un ampio lavoro di studio da fare per comprendere le radici culturali di questo fenomeno. Ma occorre liberarsi dall’illusione che, sconfitto il jihadismo, le società europee si libererebbero delle loro contraddizioni per entrare finalmente nella «fine della storia». No, sconfitto il jihadismo, le società europee si ritroveranno con i loro problemi. O, per dirla in un altro modo, solo risolvendo i problemi generati da un liberismo soffocante le società europee saranno in grado di sconfiggere il jihadismo. Proprio per questo mi pare centrale ricercare una vera e propria alleanza con quanti, nel mondo musulmano, mettono oggi a tema la questione della libertà, senza rinunciare a declinarla in modo non relativistico e quindi mantenendola ancorata a un riferimento veritativo. È questa la vera alleanza che, anche come Oasis, dobbiamo cercare: non un’alleanza contro, ma per qualcosa, un’alleanza che passa attraverso i confini, che unisce e non divide, che cerca di generare soggetti in grado di assumere le enormi responsabilità etiche che - Guardini lo aveva previsto - la tecnoscienza ci mette sulle spalle. Nel cercare d’immaginare questa alleanza siamo sicuri di poter contare sull’esempio di papa Francesco e sul suo invito a vivere la «gioia del Vangelo». La «sveglia» che ci ha trasmesso durante la sua visita a Milano, come anche il grande insegnamento del suo viaggio in Egitto, in particolare laddove ha affermato che «l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità», sono per noi un invito a perseguire con fiducia lungo questo cammino. Ovviamente con chi ci sta. LA REPUBBLICA di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Quel remake di Prodi e Berlusconi. Ecco l’Italia in fuga nel passato di Francesco Merlo Vogliamo tornare dentro la gabbia dalla quale eravamo evasi e sogniamo un futuro di mummie, cadaveri dissotterrati, viagra, dentiere in forma smagliante, con la tecnologia della maschera e l’estetica dell’Avatar. «Meglio loro che voi» dicono infatti a Renzi e a

Page 53: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Grillo gli italiani dispettosi che, in stato di atroce allegria, inseguono le ombre di Berlusconi e Prodi. I due vecchi campioni sconfitti, che erano “naturalmente” usciti di scena, sono infatti in testa ai sondaggi elettorali. E sembra inverosimile, quasi un racconto gotico, con l’orrore e l’ironia della cara, invecchiata patonza che, come Gloria Swanson, la famosa attrice del muto, con la pretesa dell’intramontabilità è tornata a girare riportando il centrodestra del Cavaliere in testa alle classifiche di gradimento. Più che una scelta politica sembra un vaffa al vaffa e uno sberleffo al rottamare che - ormai lo sappiamo - non ha mai avuto né rotta né mare. E si rivede pure Bertinotti, che fu lo spray di acqua di comunismo e ora è spray di acqua benedetta; e si rimpiange non solo Berlinguer, che è un mito mai tramontato, ma lo stile Cossutta addirittura, che fu il busto di Lenin tra le «buone cose di pessimo gusto» nel salotto di nonna Speranza. E con loro tornano il proporzionale e Vasco Rossi, don Milani e la Carrà, le lucciole di Pasolini e il Maurizio Costanzo show, le “casette” nelle zone terremotate mai ricostruite, e Renzo Arbore ovviamente, al cui amatissimo ridente faccione, che è una raccolta di memorabilia, la Rai ha già affidato le feste del prossimo Natale con la riedizione, ça va sans dire, di Indietro tutta. Attenzione, però: non è l’eterno ritorno delle indomabili macchiette che ogni tanto organizzano un raduno di ex per rifare la Dc con il sindaco De Mita, o per rifondare il comunismo con gli onorevoli Ferrero, Diliberto e Rizzo. E siamo oltre il solito revival estivo con Bobby Solo e Tony Dallara, e ben al di là del cuore incollato allo specchietto retrovisore che da 50 anni ripropone Gianni Morandi il quale, come nel mondo fanno Mick Jagger e Paul McCartney, custodisce la nostra memoria, protegge l’illusione di un’insuperabile adolescenza italiana. È vero che in tutto il mondo va di moda il vintage e dovunque c’è stato il rilancio del vinile e delle musicassette. Ma solo l’Italia ha l’ossessione del remake, in un cortocircuito di passato e futuro. L’Inghilterra non si affida ai sopravvissuti, e anche il vecchio del Labour è una novità: sicuramente Corbyn non è un ex a caccia di quei poveri bis che alla fine guastano anche la memoria degli originali. E vale pure per Renzi che, sconfitto al referendum, è ora l’orso addomesticato e spelacchiato che pateticamente si sta esibendo nello stesso habitat che gli era stato naturale e lo avevo visto trionfare per forza e per imprevedibilità. La sorpresa dell’exit, che è intelligenza e civiltà, ha invece rinnovato la Francia, l’Austria, l’America (anche se in peggio), l’Olanda… Solo l’Italia ha sempre sete di cedrata, spuma, tamarindo…, e infatti la Moretti ha imbottigliato birra e chinotto, birra e limonata, birra e gassosa (in Romagna si chiamava “bicicletta”, in Francia “panaché” e in Inghilterra “shandy”). E va bene che la nostalgia, prima di essere marketing e tic reazionario, è il sentimento che meglio ingombra e illustra l’Italia che, secondo l’Istat, è un paese di vecchi e per vecchi, con il tasso di natalità più basso d’Europa. Ma c’è qualcosa di più nella sconfitta del “nuovo” e nel rimpianto come progetto, nel “come eravamo” spacciato per strategia culturale. In faccia alla ferocia senza grandezza del turpiloquio degli incompetenti di Grillo, e in risposta alla Rete come sfogatoio e pattumiera del risentimento, risorge dunque Arcore, dove si andava per scalare le classi sociali e per risolvere i conflitti politici: “venite con le signore” diceva allora Berlusconi che a 82 anni è intanto diventato di vetro, delicato di sangue e viscere, una lampada fioca com’è lo spirito della vita “lo quale - dice Dante - dimora nella secretissima camera de lo cuore”. Così il passato è la disperata via di fuga di un paese stupito e instupidito che si traveste e insegue i leader che si ricandidano, i sindaci che ci riprovano, i deputati che si riciclano. E la voglia di un rassicurante déjà vu resuscita anche l’Ulivo insieme con ”l’Italia è il paese che amo”, come se il professore fosse ancora “la mortadella dal volto umano” che saprebbe tenere insieme Renzi e D’Alema, Bersani ed Emiliano, Franceschini e Orlando come tenne insieme i cani e i gatti della sinistra di allora, Di Pietro e Bertinotti, Veltroni e D’Alema (sempre lui, ancora più ludopatico di rancore), Mastella e Marini, i global e i no global, i pacifisti e i guerrafondai. E come se il cavaliere fosse ancora oggi la somma di tutti quei terribili ma popolarissimi soprannomi (più di cento a partire da Berluskaz e Sua Emittenza) che sbeffeggiandolo ne proteggevano la leadership, la riconoscevano irridendola. Si tratta invece di proiezioni, di ombre appunto, di una nostalgia che è smarrimento perché è vero che Berlusconi e Prodi fanno tenerezza agli italiani, che per loro si divisero in destra e sinistra, ma come il ricordo delle vecchie malattie superate, come le cicatrici di un acutissimo morbillo che siamo contenti di avere avuto. Umberto Eco confessò di provare nostalgia per “gli orribili anni Quaranta”, quando si tremava “di freddo e di paura“. Ricordo con tenerezza — scrisse — “le notti

Page 54: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

passate nel rifugio antiaereo: ci avevano svegliato nel bel mezzo del sonno più profondo, trascinati in pigiama e cappotto in un sotterraneo umido, tutto in cemento armato, illuminato da lampadine fioche …”. Spiegava così che l’origine della nostalgia è un rifiuto della realtà: spesso è una reazione nevrotica, persino una contraffazione del passato. E sebbene non ci sia paragone possibile tra le tragedie della storia e l’attuale farsa italiana, val la pena ricordare che forse nessuno ha spiegato la nostalgia meglio del grande scrittore ungherese Imre Kertész (Nobel nel 2002) che confessò nel suo bellissimo “Essere senza destino” di provarla - la nostalgia appunto - per il campo di concentramento dove era stato internato all’età di 15 anni, e che pure aveva raccontato in modo realistico e terribile. Ebbene, secondo Kertész la società ungherese nella quale viveva non era degna dei morti nel lager. Così, nella povera commedia italiana, Grillo e Renzi non sono degni di quella stagione di scontro che, nella lontananza della nostalgia e grazie al “valore di vetustà” che vi stende sopra, come una patina di vecchiaia, ci appare addirittura bella. Solo il tempo e la nausea del presente stanno rendendo rassicuranti gli amori e gli odi di quel bruttissimo romanzo nazionale - il berlusconismo appunto - che dopo 23 anni non riesce a diventare storia. AVVENIRE di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 Charlie figlio nostro di Luca Russo L’Italia esageri: offra cittadinanza Caro direttore, vorrei rivolgermi ai miei connazionali per far sapere loro che il piccolo Charlie è anche italiano! È una rivelazione choc, lo so, ma Charlie Gard, il bimbo di soli 10 mesi condannato a morire a motivo della sua malattia rara, è un po’ anche mio figlio. Per questo non riesco a tenermi fuori dall’angosciante dibattito che in diverse parti del mondo ha filosofeggiato sulla pelle di un bimbo più che mai indifeso dopo che una sentenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo ha aperto definitivamente la strada davanti a chi lo vuol lasciar morire. Niente è più innaturale di non voler far curare un figlio! Conosco l’alfabeto del dolore che spesso si compone in una fraseologia incomprensibile e impronunciabile come 'sindrome di deperimento mitocondriale', 'microcefalia congenita' o 'derivazione ventricolo-peritoneale in soggetto con tetraparesi spastica-distonica' e chissà quante ne potremmo ripetere. Conosco soprattutto il linguaggio duro delle corsie degli ospedali e quello ansiogeno delle corse rapidissime a sirene spiegate in ambulanza; conosco la punteggiatura fatta di continui puntini sospensivi delle sale d’attesa delle terapie intensive e dei mille punti interrogativi degli ambulatori medici. Il linguaggio del dolore è universale e inevitabilmente ci lega all’altro con intima confidenza, facendoci sentire parte di quelle storie che, pur lontane, sentiamo ficcarsi con impeto dentro al petto, portando talora ineffabile dolore e diventando prossime. È così che posso dire che Charlie è anche mio figlio, perché so cosa vuole dire tenere tra le braccia la carne debolissima di una creatura che ami, so bene cosa vuol dire dividere lo sguardo tra il volto dolcissimo di un figlio e i monitor che tengono sotto controllo i suoi parametri vitali, conosco le notti insonni ad abbassare la febbre con la tachipirina e a cullare con la filastrocca preferita che rilassa anche le distonie più insistenti della mia piccola principessa. Non sbaglio: il dolore ci rende prossimi. Allora con l’ardire di un padre che come un leone lotta per la vita del figlio, così anch’io, un po’ padre di Charlie Gard, chiedo a tutti noi, concittadini italiani, di osare! Sì, ci chiedo di esagerare. E dico agli amici politici di ogni partito: andate oltre i protocolli istituzionali, che spesso tengono ingabbiato l’uomo dentro rigide formalità. Esagerate, esageriamo, con il gesto folle della pietà, con la pazzia della misericordiache sa prendersi a cuore le creature più fragili e indifese perché voi per primi sapete, come ognuno di noi, che la gente che abita un Paese si può definire 'popolo' solo nel momento in cui non abbandona i figli più deboli. Pietà e misericordia: termini nei quali l’eloquenza politica non si imbatte facilmente, che a volte evita ad arte. Ma la pietà e la misericordia sono gli atteggiamenti che ricordano all’uomo di essere uomo, e a un popolo di poter essere solidale. Oggi pietà e misericordia sembrano forse pura follia, ma di questa follia non possiamo fare a meno. Per questo chiedo ai nostri rappresentanti politici, e a tutta la mia gente, di saper essere uniti e di offrire la cittadinanza d’Italia a Charlie Gard e ai suoi genitori. Possiamo farlo, perché noi italiani sappiamo prenderci cura di chi è più debole. Diamo un segnale controcorrente a una società sempre più spezzettata in solitudini, dimostriamo anche

Page 55: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

così che possiamo essere forti e coesi, appassionati e solidali. Ogni uomo, proprio ognuno di noi, sa per esperienza quanto dolore possa portare lo strappo prematuro dalla vita di persone care. Perciò supplico: mostriamoci popolo, proviamo a sentirci parte di un’umanità che sa ancora cogliere la vita in ogni suo momento, anche quello più delicato e stanco. Una vita così piccola e fragile pretende, per la legge della compensazione, il gesto sproporzionato dell’eccesso di umanità. Proviamoci. Esageriamo, cittadini e politici tutti insieme, un popolo unito. Offriamo la piena cittadinanza italiana al piccolo Charlie Gard. E aiutiamo i suoi genitori a percorrere assieme a lui con dignità e amore, sino all’ultimo istante ragionevolmente possibile, la strada della speranza e della cura. E ricordiamoci che il piccolo Charlie è già un po’ italiano, perché ogni figlio, soprattutto se piccolo e fragile, è un po’ figlio nostro. Pag 2 Cattolici e politica, un filo da riannodare di Giorgio Campanini L’astensione, in ogni forma, non è mai la regola A più riprese, e con autorevoli interventi, sulle pagine di “Avvenire” è stato riproposto il problema del difficile dialogo – per non dire di un freddo silenzio – tra comunità cristiana e politica, con un distacco iniziato – a giudizio di altrettanto autorevoli osservatori – con l’abbandono dell’esplicito riferimento all’ispirazione cristiana di un partito, la Dc, che a lungo era stato il più saldo punto di riferimento in politica dei cattolici italiani. Ma, finita quella stagione, è oggi improponibile un partito che nei fatti (anche se non necessariamente nella denominazione) abbia alla sua base i valori del Cristianesimo? La malaccorta, o forse strumentale, interpretazione di una dichiarazione rilasciata da papa Francesco, il 29 aprile scorso, in occasione del suo viaggio in Egitto sembra avere autorizzato alcuni commentatori a recitare il de profundis circa la possibilità di un’esplicita ispirazione cristiana della politica, ma in verità non è così. «Parlando dei cattolici – ha testualmente affermato il Papa –, uno mi ha detto: Perché non pensa di far fare un partito per cattolici? Ma questo signore vive nel secolo scorso». Queste parole sono state interpretate da gran parte della stampa come definitiva liquidazione dei partiti di ispirazione cattolica, oltre tutto bollando di obsolescenza (appunto perché nati nel Novecento) partiti di ispirazione cristiana ancora vivi e vegeti, quali esistono in numerosi Paesi dell’Europa centrale, a partire dalla Cdu tedesca. L’ironia del Papa è in realtà riferita a quel far fare. Non è la Chiesa a “fare” (o a “disfare”) un partito politico: sono i cittadini cattolici a scegliere se militare in un partito laico oppure a denominazione cristiana, fatto salvo il dovere di attenersi, ovunque si trovino a operare, agli autentici valori del cristianesimo, riproposti dalla Chiesa attraverso il suo insegnamento in materia di Dottrina sociale. Che sia la Chiesa a “fare” o a “disfare” i partiti: è questo ciò che appartiene al secolo scorso... Resta comunque il disagio, nell’elettorato cattolico italiano, nel dover votare partiti “laici” all’interno dei quali operano anche cattolici, ma che non sempre sono del tutto coerenti, per la loro stessa natura pluralistica, in ordine alle istanze etiche a più riprese proposte dalla Dottrina sociale della Chiesa. Dietro difficoltà a misurarsi sino in fondo con la legittima laicità della politica stanno, da una parte, la sottovalutazione dell’importanza che la buona politica ha per una serie di valori che, per essere anche laici, non per questo sono “meno cattolici”: si pensi alla salvaguardia della pace, alla lotta alla disoccupazione, all’accoglienza dei migranti, e così via; dall’altra parte una lettura della storia in base alla quale si interpretano i successi (o gli insuccessi) dei politici di ispirazione cristiana soltanto in ordine a pure importanti questioni etiche. Amintore Fanfani non è riuscito a impedire il divorzio né Benigno Zaccagnini la depenalizzazione dell’aborto, ma si può seriamente ritenere che il loro impegno politico sia stato insignificante? Occorre dunque fare i conti con quel relativo che è sempre, e inevitabilmente, la politica e imparare ad accettare il dialogo e a sottoporsi alla fatica della mediazione. Solo in casi eccezionali e di manifesta incompatibilità tra valori evangelici e prassi politica sarebbe doveroso “ritirarsi sotto la tenda”; ma non dovrebbe essere questa la normale scelta di coloro che, da credenti, si impegnano in politica e di quanti, essi pure credenti, sono chiamati a esprimere il loro voto. L’astensione dal voto, la “scheda bianca”, la presa di distanza dovrebbero essere sempre una dolorosa eccezione, mai la regola. Pag 3 Il drammatico bivio dell’altra America di Lucia Capuzzi

Page 56: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Venezuela banco di prova del continente È, forse, il più drammatico banco di prova per la tenuta della democrazia in America Latina. Nelle piazze venezuelane – in fermento dal 4 aprile, con un bilancio di oltre ottanta vittime – si consuma l’ultimo atto di un conflitto di lungo corso. Le cui radici affondano nella cosiddetta 'prima Repubblica', quella instaurata alla fine della dittatura di Marco Pérez Jiménez, nel 1958. Un sistema senza dubbio stabile quanto disfunzionale, poiché basato sul patto tra i principali partiti nazionali. Oltre al potere e relative reti clientelari, essi si spartivano la principale risorsa del Paese: la rendita petrolifera. Il greggio non era solo il fondamento dell’economia bensì la stessa garanzia di sopravvivenza di tale pseudo-democrazia consociativa. Con i soldi dell’oro nero trasformati in aiuti, le classi popolari venivano compensate dalla cronica emarginazione dalla scena pubblica e dall’arena decisionale. Crollato il prezzo internazionale del petrolio alla fine degli anni Ottanta, l’intero meccanismo è andato in pezzi. Il 7 febbraio 1989, la popolazione delle baraccopoli – migliaia e migliaia di persone – scesero dalle colline intorno a Caracas per protestare contro una serie di tagli decisi dal governo. L’esercito intervenne: fu un massacro. Il fenomeno Chávez è maturato in quella crisi. Certo, ci sono voluti dieci anni – e un golpe fallito – perché l’autoproclamato erede di Simón Bolívar conquistasse, democraticamente, la presidenza. L’ex parà – l’outsider, l’antipolitico, l’alternativa all’élite corrotta e incapace – ha avuto gioco facile non solo a vincere. Bensì a smontare, pezzo a pezzo, il 'vecchio sistema' da cui i più erano sempre stati relegati i margini. Quando il conflitto tra l’ansia di rifondazione del leader e i contrappesi istituzionali propri di una democrazia, per quanto malandata, si è fatto stridente, Chávez l’ha risolto con il metodo del populismo classico: svuotarli senza negarli. Come insegna il politologo Carl Mudd, i caudillos 'salvatori' delle democrazie diventano complici del loro assassinio. Pochi, all’epoca, ci hanno badato: con il valore del greggio moltiplicato per sette nei primi anni del Duemila rispetto al decennio precedente, il presidente ha dato vita un capillare sistema di sussidi. Che gli ha garantito la fedeltà di milioni di poveri. Oltre che delle Forze armate, tuttora spina dorsale del governo. L’intera impalcatura ha cominciato a scricchiolare dal 2013 quando, alla morte di Chávez – sostituito dal 'grigio' Nicolás Maduro – si è sommato il crollo del prezzo dell’oro nero: nel 2016, un barile è arrivato a costare meno di trenta dollari. Un duro colpo per qualunque Paese petrolifero. Quasi mortale nel caso del Venezuela che sul greggio ha sempre basato politica ed economia. Entrambe sono, dunque, ora al collasso. Incalzato dall’opposizione, il governo Maduro ha reagito con una chiusura sempre più allarmante: blocco del referendum per la sua destituzione, tentativo di esautorare il Parlamento ribelle, annuncio della convocazione di un’assemblea per riscrivere la Costituzione, quella voluta da Hugo Chávez. La mossa ha suscitato un crescente malumore anche nelle file governative, dalla procuratrice generale Luisa Ortega Díaz ai militari. L’implosione interna è uno dei possibili scenari futuri. L’alternativa, a cui le parti sembrano rassegnate, è lo scontro a oltranza. Dello stesso parere, buona parte dell’opinione pubblica internazionale. Tra le poche voci dissonanti, quella di papa Francesco che, lo scorso autunno, si è impegnato a facilitare la mediazione dell’Unione degli Stati sudamericani (Unasur). Il tavolo, però, è saltato dopo il primo incontro per l’intransigenza dei partecipanti. Il dialogo, cioè il riconoscimento di qualcosa di buono nell’avversario, non è un’opzione contemplata nell’eterna lotta venezuelana tra pseudodemocrazie basate sul petrolio, di tono populista o oligarchico. Finora il Paese – non il solo nel Continente – è rimasto intrappolato in questa tragica danza. Dovrà farlo all’infinito? Sì, se una parte farà piazza pulita dell’altra. Il dialogo fra i due Venezuela non è, dunque, solo una questione etica per evitare lo sbocco violento. È un’occasione storica per costruire una democrazia che non sia solo una formula vuota o un patto tra élite. Il tempo stringe: il 30 luglio Maduro ha convocato le elezioni dell’Assemblea costituente. La riscrittura delle regole rappresenterebbe una pericolosa deriva in senso autoritario. Il Venezuela e l’America Latina non meritano di tornare indietro, all’era dei regimi. Pag 5 Charlie, le ultime ore con i genitori. Boom d’adesioni alla petizione web di Silvia Guzzetti Altra sentenza della Corte: stop agli interventi su un piccolo di 3 anni

Page 57: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Londra. Stanno trascorrendo con il loro piccolo le ultime preziosissime ore della sua vita. Chris Gard e Connie Yates, i genitori di Charlie, ormai famosi in tutto il mondo per la tenacia con la quale hanno combattuto perché il figlio, gravemente disabile, possa continuare a vivere, hanno inviato, venerdì sera, sul loro profilo Twitter, una foto di famiglia. Papà e mamma, sdraiati accanto al neonato, cercando un ultimo abbraccio, un’ultima coccola, un ultimo bacio prima che i medici del Great Ormond Street Hospital stacchino la spina della macchina che consente a Charlie di respirare. Sembra che l’ospedale abbia concesso ai genitori tutto il weekend «per costruire quei ricordi dei quali faremo tesoro per il resto della nostra vita», come hanno detto proprio mamma e papà. Purtroppo i dottori del prestigioso ospedale pediatrico londinese non hanno consentito a Chris e Connie di portarsi a casa Charlie e fargli quell’ultimo, tanto desiderato, bagnetto vegliandolo, ancora per una notte, nel suo lettino. Il bambino, affetto da una gravissima malattia, “doveva” morire venerdì. È stato un video straziante, su YouTube, nel quale i genitori raccontavano il desiderio di trascorrere ancora qualche ora con Charlie, a convincere l’ospedale a ritardare la sua morte. Anche papa Francesco, venerdì, con un tweet, ha ricordato che «difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno d’amore che Dio affida ad ogni uomo». Mentre l’Osservatore Romano ha denunciato la «distruttiva cultura dello scarto». Sull’argomento è intervenuto il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, che ha invitato a riflettere sul fatto che «se una società, una cultura, un ordinamento giuridico decidono della qualità di una vita, ma non del suo indiscutibile primato, allora si può cadere nell’arbitrio ». Nato con una rarissima disfunzione del mitocondrio, che colpisce solo sedici persone in tutto il mondo, e porta al deperimento di tutti gli organi, interrompendo funzioni vitali come la respirazione, Charlie è riuscito a sopravvivere per dieci mesi. I medici del Great Ormond Street Hospital hanno deciso, lo scorso marzo, che, per il piccolo, non c’era più nulla da fare ed era ora di staccare i macchinari che lo tenevano in vita. È cominciata, così, la lunga battaglia legale dei genitori all’High Court di Londra, poi alla Corte d’Appello, infine alla Corte Suprema e, da ultimo, anche alla Corte europea per i diritti dell’uomo nel tentativo disperato di salvare il figlio. Il tribunale di Strasburgo ha, infatti, confermato, martedì scorso, che i medici potevano staccare la spina, impedendo al bambino di respirare. L’appoggio alla famiglia del piccolo da parte dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, anche grazie a diversi hashtag sui social network, è stata immensa. In Italia sono state organizzate anche veglie di preghiera, adorazioni eucaristiche e rosari. La petizione dell’organizzazione Citizen go per salvare la vita del bambino ha raccolto 150.575 firme che sono in costante aumento. Né il bambino è l’unico ad essere lasciato morire per decisione dei medici senza che si tenga conto della volontà della famiglia. È il quotidiano Daily Mail a raccontare la storia di un altro piccolo di tre mesi, con il cervello gravemente danneggiato, del quale si è deciso di interrompere la vita. L’Alta Corte ha stabilito che, anche in questo caso, i medici possono evitare operazioni e tentativi di rianimazione per salvare il piccolo nel caso quest’ultimo abbia un arresto cardiaco. Gli specialisti hanno scelto questa strada, benché i genitori non fossero d’accordo. Il padre del piccolo vuole più tempo per esplorare la possibilità di trovare cure alternative. «Ho promesso al mio bambino di mantenerlo in vita», avrebbe scritto al giudice il papà. L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 2 luglio 2017 Pag 1 La distruttiva cultura dello scarto di Ferdinando Cancelli Di fronte al drammatico caso del piccolo Charlie Gard Dall’ottobre dell’anno scorso il piccolo Charlie Gard è stato seguito al Great Ormond Street Hospital (Gosh) di Londra per l’aggravarsi delle sue condizioni generali in seguito ad una rarissima forma patologica. L’encefalomiopatia mitocondriale porta rapidamente al venir meno delle funzioni vitali per la debolezza muscolare e la compromissione del sistema nervoso centrale: la ventilazione, la nutrizione e l’idratazione clinicamente assistite possono solo ritardare la morte che resta in tali casi una conseguenza inevitabile. Quello del bambino inglese è un caso drammatico sotto molti punti di vista: la sua tenerissima età, la situazione di totale dipendenza, la fragilità estrema di chi non è riuscito nemmeno più a piangere in questi lunghi mesi, la battaglia legale dei due giovani genitori per mantenere il sostegno vitale al piccolo, battaglia che si è infranta sul

Page 58: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

rifiuto di intervenire della Corte europea per i diritti umani pronunciato pochi giorni fa. A complicare l’intera vicenda ha contribuito ancora una volta una dilagante e distruttiva cultura dello scarto che, colpendo i più deboli, intorbida le acque e impedisce di distinguere la verità dalla menzogna. «Charlie è stato assistito dai più esperti team medico-infermieristici che i nostri eccellenti ospedali possono offrire» si leggeva in questi giorni sulle colonne del «Daily Telegraph». Su questa affermazione occorre soffermarsi attentamente e per un momento fare un passo indietro per riflettere su come sia stato possibile arrivare a un così grande fallimento in un contesto apparentemente ottimale come quello descritto dal «Telegraph». I medici del Gosh hanno affermato che era giunta l’ora nei confronti di Charlie di applicare esclusivamente le cure palliative e che quindi ogni sostegno vitale doveva essere sospeso a favore di una pura palliazione dei sintomi. Ma la medicina palliativa esclude ogni mezzo di sostegno vitale? La risposta è chiaramente no: l’idratazione, la nutrizione e la ventilazione meccanica, a meno che non siano fonte di effetti avversi o che il paziente non le desideri, possono coesistere con il perfetto controllo dei sintomi disturbanti messo in atto da un buon approccio palliativo. E se, capovolgendo la prospettiva, l’approccio palliativo fosse stato considerato nel caso di Charlie fin dall’inizio della sua storia sarebbero stati messi in atto questi mezzi di sostegno vitale? Vi è la possibilità che di fronte all’ineluttabilità della morte imminente tali mezzi sarebbero stati considerati “sproporzionati” ab initio e quindi non messi in atto, limitandosi a controllare i sintomi disturbanti fino al naturale e purtroppo inevitabile decesso che, a quel punto e con l’aiuto di un’équipe specializzata, avrebbe potuto avvenire anche a casa. Il ruolo della medicina palliativa diviene quindi cruciale anche in questo caso: senza contraddizioni essa da un lato può accompagnare coloro che, sostenuti dalle macchine, sono comunque destinati a spegnersi per inevitabili complicazioni e dall’altro può insegnare a evitare l’accanimento terapeutico nelle cui pieghe possono celarsi insidie come quella che hanno vissuto in prima persona il piccolo Charlie e i suoi genitori Chris e Connie. È forse di una visione come questa che spesso paiono sprovvisti «i più esperti team medico-infermieristici che i nostri eccellenti ospedali possono offrire»: una visione che avrebbe probabilmente messo al riparo i genitori dalla pur comprensibilissima tentazione di ricercare altre improbabili e costose soluzioni mediche. Pag 1 Deserto spirituale di Lucetta Scaraffia Il drammatico caso del piccolo Charlie mette in evidenza i guasti che può compiere la diffusione generalizzata della cultura dello scarto tante volte denunciata con forza dal Papa e di una visione solo tecnico-scientifica della pratica medica. Provocando una diffidenza che può giungere fino a irreparabili rotture della fondamentale alleanza terapeutica fra paziente (o, come in questo caso, tra la famiglia di quest’ultimo) e medici, da una parte, e fino alla mistificazione e alla strumentalizzazione delle notizie, dall’altra. Alcuni media, soprattutto in Italia, si sono distinti per cavalcare questa tragica vicenda facendone oggetto di conflitto ideologico, ulteriore occasione per schierarsi politicamente pro o contro l’eutanasia. Anche se nella straziante vicenda del piccolo Charlie Gard non è questo il problema. La frase, più volte ripetuta, «staccare la spina» evoca immediatamente un atto eutanasico, e non la possibile scelta di porre fine a un accanimento clinico, da sostituire con cure palliative. E se quella spina non avesse dovuto essere mai attaccata? Nel caso britannico non abbiamo gli elementi per rispondere, ma sappiamo che, in un mondo in cui si chiede alla scienza di vincere la morte in ogni modo possibile, è sempre più difficile trovare posto alla dolorosa ma ineludibile accettazione della fine. E per i medici trovare le parole per spiegare a quei poveri e disperati genitori che il loro strazio sarà inevitabile, e porsi al loro fianco con umanità e carità. Qui quello che è mancato - pare di capire - è un orizzonte umano e spirituale più ampio nel quale iscrivere, anche se non spiegare, il mistero del dolore infantile, e più in generale della sofferenza. Correre da una speranza medica, spesso illusoria, a un’altra, senza lasciare a quella povera creatura il modo di morire con il minor dolore possibile, ma nella accettazione di questo tragico destino, è il segno del deserto spirituale moderno, è l’altra faccia dell’eutanasia e di una mentalità che si sta sempre più diffondendo.

Page 59: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Alibi finiti sulla legge elettorale di Pierluigi Battista I quattro leader Forse i maggiori esponenti politici non hanno capito che l’opinione pubblica, sentendo parlare ininterrottamente e vanamente da anni di legge elettorale, è incerta se reagire a ogni riapertura del dibattito con l’irritazione rabbiosa o con uno sbadiglio. Un mese fa circa sembrava cosa fatta: un accordo tra i quattro maggiori partiti per un «tedesco» molto, forse troppo, italianizzato, e tuttavia incardinato sul principio proporzionale in auge in Germania e una soglia di sbarramento alta per impedire l’eccesso di dispersione sui partiti piccoli o minuscoli. Poi sono arrivati gli agguati, le macchinazioni parlamentari, le accuse incrociate di tradimento e tutto è andato in fumo. Ora Berlusconi, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, rilancia il modello «tedesco». Può piacere oppure no, basta che gli altri interlocutori lo dicano. O dicano, ma sempre in tempi strettissimi, ma davvero strettissimi, se intendono lavorare per una legge elettorale che favorisca le coalizioni. Perché oggi non è più tempo per sofisticate disquisizioni politologiche sui benefici dell’uno e dell’altro sistema. Oggi, a nemmeno otto mesi dalla scadenza naturale della legislatura, le possibilità sono ridotte: o si conclude sul «tedesco», o si fa una legge più maggioritaria (ma con chi? Chi è disposto a farla?) oppure si va a votare con la legge elettorale che c’è, cucita dalle sentenze della Corte Costituzionale. Negare questa realtà è da irresponsabili, e ogni ulteriore balletto che non preveda un impegno chiaro sarebbe solo il segno della irredimibile inettitudine di una classe politica che non riesce a mettersi d’accordo nemmeno sulle regole del gioco anteponendo veti, convenienze di partito, personalismi, retropensieri, tattiche dal fiato corto sulla necessità di dotare la democrazia italiana degli strumenti per selezionare una rappresentanza politica e un’opzione di governo. Siamo arrivati a luglio, e nemmeno i sospetti sulle elezioni anticipate funzionano più. Ma è giusto che gli italiani sappiano se Berlusconi, Renzi, Grillo, Salvini, il quadrilatero su cui si stava costruendo l’accordo di giugno, sono in grado per l’ultima volta di partorire la legge elettorale che stavano per varare un mese fa prima del grande pasticcio che l’ha affossata, se trovano un altro accordo nei tempi residui di questa legislatura, o se invece, come molti temono, alzano bandiera bianca, incapaci di mettere su una legge che avevano detto di voler varare. Prima hanno aspettato la sentenza della Consulta, poi le motivazioni della sentenza, poi le primarie del Pd, poi le elezioni amministrative. Ma adesso non ci sono più alibi. Perché tergiversare è già una risposta: è la scelta di andare a votare con una legge che certamente renderà impossibile in Parlamento, nelle due Camere del Parlamento, una maggioranza in grado di esprimere un governo. Una sconfitta. Una pessima figura. Una dimostrazione di impotenza e di insipienza. E anche una mancanza di rispetto per gli italiani costretti da anni ad ascoltare discorsi su un argomento non proprio appassionante come la legge elettorale e che si stanno rendendo conto dell’incapacità della nostra classe politica, trasversalmente, senza distinzioni di produrne una, che deve essere condivisa come sempre devono essere sempre condivise le proposte sulle regole del gioco. Speriamo in un ultima resipiscenza prima del tempo scaduto. C’è una clessidra che, assieme al tempo, misurerà in pochi giorni la serietà delle quattro forze politiche che un mese fa hanno fatto saltare un accordo con manovre incomprensibili. E a tempo scaduto non ci sarà davvero un’altra possibilità. Una sconfitta umiliante per le forze politiche, se non sapranno rispondere all’ultima chiamata. Pag 1 Renzi nella morsa del vecchio derby Prodi – Berlusconi di Francesco Verderami Rieccoli: Berlusconi contro Prodi, Prodi contro Berlusconi. Ventuno anni dopo il loro primo duello, i protagonisti della Seconda Repubblica tornano a rivaleggiare. Stavolta sulla legge elettorale. Il Cavaliere è per il proporzionale, il Professore per il maggioritario: quando si dice una scelta di campo. In palio non c’è più Palazzo Chigi ma il suo controllo, la capacità cioè di influire sugli uomini e sui futuri assetti di governo. Cinquestelle permettendo. Come se il tempo non fosse passato, Prodi e Berlusconi

Page 60: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

ripropongono il vecchio derby. Sembrano usciti dalla piscina di Cocoon, rinvigoriti politicamente dal consenso che avvertono a ogni loro uscita pubblica. «Non mi sono mai sentito così bene», sorrideva il Professore giovedì dopo l’ovazione che gli era stata tributata alla convention della Cisl. «Appena scendo dall’auto, c’è la fila di ragazzi che vogliono farsi la foto con me», commentava il Cavaliere qualche settimana fa: «Al Tg5 invece ho visto un servizio e non c’era nessuno attorno a Renzi». Renzi, appunto. Dovrebbe dipendere da lui l’ultima parola sul modello elettorale, e infatti è a lui che il Cavaliere e il Professore si rivolgono: il primo per puntare all’accordo di larghe intese dopo il voto, il secondo per impedire che l’accordo tra i due si realizzi dopo il voto. Cinquestelle permettendo. Così lo scontro a distanza è ripreso. Con il fondatore del centrodestra che - rivedendo il rivale in scena - si è chiesto se «esser stato umiliato tre volte dai suoi non gli è bastato». E con il fondatore dell’Ulivo che - divertito - insieme ad alcuni amici si è chiesto se al rivale «esser stato sempre battuto da me non gli è bastato». E poi ci sarebbe sempre Renzi, appunto. Il leader democrat - viste le circostanze - ha spostato a settembre la ripresa del confronto sulla legge elettorale. Avesse insistito gli sarebbe saltato il partito. Le camarille tattiche non ingannino: la scelta del rinvio è frutto di un’intesa tra Renzi e Berlusconi con il beneplacito del Colle, preoccupato - dopo il tonfo alla Camera dell’intesa sul proporzionale - di garantire la stabilità. Perché resta l’auspicio di Mattarella di veder approvato un nuovo sistema di voto «omogeneo per i due rami del Parlamento», ma senza che in questa fase venga minata la tenuta del governo, impegnato a scrivere la legge di Stabilità e alle prese con l’emergenza migratoria, che non può risolversi con velleitarie azioni unilaterali italiane. Tutti nel Palazzo si preparano alla sfida di settembre sulla legge elettorale, che disegnerà i futuri scenari di potere. Cinquestelle permettendo. L’idea di tenere sotto pressione il leader democratico - continuando a proporre una riforma di stampo maggioritario - accomuna Prodi a quanti dentro e fuori il Pd osteggiano il ritorno di Renzi a Palazzo Chigi con il sostegno di Berlusconi. Questo è il disegno: perché è chiaro che, in sistema multipolare, con due diverse Camere e due diversi elettorati, nessun modello di voto consentirebbe di evitare governi di larghe intese. Nell’altra metà campo, invece, l’idea di Berlusconi è che ci siano ancora margini per arrivare a un’intesa con Renzi sul proporzionale. Il Cavaliere ritiene che il primo accordo non abbia retto perché comprendeva le elezioni anticipate. Ma a settembre, visto che a quel punto si andrà a scadenza naturale di legislatura, è convinto che si ricreeranno le condizioni dell’intesa, perché «il tedesco converrà a tutti»: a quella parte del Pd anti-renziano che constaterà come sia impossibile l’intesa con Mdp; a Mdp che per conquistare voti non potrà coalizzarsi con il Pd; e ovviamente a sé medesimo. È una scommessa però, dato che l’idea di Renzi - per ora - è di restar fermo. Stretto nella morsa tra Berlusconi e Prodi, fa mostra di non voler toccare i meccanismi di voto esistenti per Camera e Senato. Anche perché, senza un sostegno di Grillo, «prepareremmo a M5S la campagna elettorale». In quel caso, con il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, il Cavaliere - che rifiuta di allearsi con Salvini - si troverebbe davanti a un bivio: soggiacere all’intesa con la Lega o decidere di andare da solo, mettendo in preventivo una rottura in Forza Italia. Perché è vero che Berlusconi e Prodi hanno ripreso a duellare e che il tempo sembra non essere passato. Ma il tempo passa. Pag 3 “Noi, tra moschee e garage. Ecco chi sono tutti gli imam” di Goffredo Buccini I luoghi dell’Islam in Italia L’imam della comunità islamica di Ancona si chiama Dachan Nour e il suo cellulare è 337… Quello della moschea di Acate, provincia di Ragusa, è Mohemed Mansrit e il suo telefonino è 333… La sala di preghiera di Campobasso si trova nell’ex hotel Eden, zona industriale. A Roma, nella famosa (e per taluni aspetti controversa) moschea «Al Huda» a Centocelle, gli imam Mohamed Ben Mohamme e Hosny Hawadallah fanno anche assistenza ai migranti: li si può contattare pure su [email protected]. In quella del Pigneto, «E Makki», c’è la madrassa dei bambini. A Milano, la moschea di via Padova 144 sta in un ex garage che può «contenere fino a 400 fedeli» ma chissà quanti ne stipa nei giorni del Ramadan e della Festa del Sacrificio. Al numero 380... Abdullah vi risponderà dal centro islamico di Salina, isola del Gattopardo. La città con più moschee è

Page 61: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Bologna: ne ha cinquantuno. La Regione con più musulmani è la Lombardia, con 428.357. Dalla Valtellina alle Eolie: nomi, indirizzi, attività, tipologie dei fabbricati, ministri di culto. Eccolo, moschea per moschea, il profilo dell’Islam italiano. Quelli dell’Ucoii, che l’hanno realizzato in un anno (parzialmente: il dettaglio analitico delle ultime sei regioni sarà pronto a settembre) lo chiamano censimento, con qualche comprensibile cautela. È, in realtà, il più poderoso lavoro di auto-schedatura mai tentato dai musulmani di casa nostra. Ed è, politicamente, un grande passo verso lo Stato. Profilo collettivo - Perché le 62 cartelle di cui (finora) si compone sono state mandate direttamente a Marco Minniti, che Izzedin Elzir è solito definire «il nostro ministro». Elzir è l’imam di Firenze e da sette anni guida l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, l’Ucoii, la più forte organizzazione musulmana nel nostro Paese. Questo censimento è figlio di una svolta che, gradualmente, ha allontanato l’Ucoii dalle suggestioni radicali e lo ha avvicinato molto alla nostra Costituzione (recente è la firma di un patto nazionale, proprio con Minniti). «Siamo per la trasparenza assoluta», dice Izzedin Elzir, «e, se prima percorrevamo un sentiero, con Minniti abbiamo imboccato un’autostrada». Alla fine dell’autostrada, onesto dirlo, c’è l’obiettivo del riconoscimento giuridico e dell’intesa con lo Stato (l’Islam è la seconda religione italiana per numero di praticanti) con i notevoli vantaggi connessi: un percorso iniziato dieci anni fa con Giuliano Amato, smarrito e ora ripreso con forza dall’esecutivo Gentiloni con l’intento non troppo nascosto di bilanciare con maggiore integrazione la maggiore attenzione a sicurezza interna e confini marittimi. Ma sarebbe miope ridurre a scambio mercantile ciò che appare anche un notevole mutamento culturale. Nel sottosuolo - Censimento alla mano, le moschee italiane sono 1.219. Bisogna però intendersi sulle parole. Le moschee vere e proprie, con tutti i canoni architettonici e urbanistici, sono appena l’1 per cento; i capannoni industriali sono il 35 per cento, così come i magazzini; i garage il 20 e gli scantinati il 9 per cento: nominalmente, dunque, i fedeli si riuniscono quasi sempre in associazioni e centri culturali, assai spesso in affitto. Dentro buchi troppo sovente precari e insalubri. La questione della costruzione di moschee attrezzate e alla luce del sole, insomma, non è secondaria (a Sesto San Giovanni, per esempio, ci si è giocata la recente elezione del sindaco). «Il Profeta dice: Dio bello ama la bellezza», sorride Izzedin Elzir, «e l’Italia è il Paese della bellezza. È una notevole contraddizione che tanti musulmani debbano pregare nel sottosuolo, non le pare?». Il tema è assai sensibile... «Lo so. La gente all’inizio dice no. È successo a Colle Val d’Elsa, per dirne una, nel Senese. Poi, quando la moschea si apre, ci si conosce e comincia la vera interazione. Nel giardino della moschea di Colle Val d’Elsa ora vengono a giocare i bambini dei vicini». Assai sensibile è anche (o soprattutto) la questione delle moschee radicali. Non è così lontano il ricordo della peggiore stagione milanese di viale Jenner, l’istituto culturale islamico legato a inchieste, trame, sospetti. Oggi le moschee ispirate dai salafiti (quei tradizionalisti ostili all’integrazione che vagheggiano il ritorno all’Islam delle origini) sono il 15 per cento, dunque circa 180 in tutt’Italia. Non poche. A Milano ancora viale Jenner e via Quaranta (ne fu imam Abu Omar). In Piemonte la moschea di Novara. A Bari l’associazione Raham, guidata dall’imam Abdul Rahaman... «I salafiti ci sono, sì, ma non c’è più nessuno che non riconosca lo Stato come a viale Jenner quindici anni fa», sostiene Izzedin Elzir: «Dall’11 Settembre tante cose sono cambiate anche tra noi. Grazie a Dio, al lavoro delle comunità islamiche e delle forze dell’ordine, non abbiamo leadership che attirino il radicalismo. Certo, ci sono diverse scuole di pensiero e... un individuo può sempre capitare. Il salafismo ostacola l’integrazione, purtroppo, ma non è un pericolo, qui da noi. Loro si definiscono tradizionalisti. Per me si sono semplicemente fermati sulla spiaggia, senza entrare davvero dentro l’Islam. Ma l’85 per cento delle nostre moschee ha un pensiero equilibrato». Partita politica - E di equilibrio ce ne vorrà parecchio pure per noialtri, al bivio tra relegare quasi un milione e 800 mila musulmani nella preghiera semiclandestina o farne emergere il culto coi contraccolpi che possono derivare. Nell’ex roccaforte rossa di Budrio, ad esempio, per 18 mila abitanti le moschee (per ora associazioni islamiche) sono già due. Poche? Troppe? Per capire se nel ribaltone delle ultime comunali c’entrino una reazione irrazionale contro gli imam Tahar Abu Ayoub e Abdelhadi Elhirch, l’angoscia creata da Igor il killer o, semplicemente, l’istinto suicida del Pd, servirà un profeta. O, meglio ancora, un politico vero.

Page 62: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Pag 5 Dopo il voto calano M5S e dem. Balzo della Lega, ora è al 15%. E Fi guadagna quasi un punto di Nando Pagnoncelli Rebus governabilità: solo Grillo, Salvini e Meloni potrebbero farcela Le elezioni comunali di giugno hanno rappresentato, come di consueto, una sorta di ordalia e anche il dibattito post-elettorale ha seguito il copione usuale: tra i diversi esponenti politici, infatti, il significato del risultato uscito dalle urne nonché le presunte motivazioni di voto degli elettori sono risultati tutt’altro che univoci. E ciò è accaduto anche all’interno degli stessi partiti o tra partiti appartenenti alla stessa area. Si è assistito a una sorta di gioco delle parti: c’è chi ha utilizzato toni trionfali, chi ha minimizzato un esito negativo, chi ha drammatizzato. Quasi sempre in modo apodittico, senza lasciare spazio a dubbi. Ma chi ha vinto secondo gli italiani? La maggioranza relativa degli intervistati (37%) assegna la vittoria a tutto il centrodestra nel suo insieme e a costoro si aggiunge il 14% che indica Berlusconi e il 9% Salvini; a seguire il 24% ritiene che abbia vinto l’astensione, indice di disaffezione dei cittadini nonostante si trattasse delle elezioni comunali, cioè quelle più prossime agli interessi dei cittadini. Chiudono la graduatoria il Movimento 5 Stelle e Renzi, citati rispettivamente dall’11 e dal 5%. Anche tra le file del Pd la maggioranza attribuisce la vittoria al centrodestra o ai suoi leader, in particolare a Salvini (16%, peraltro alla pari di Renzi) e una quota non trascurabile (37%) accentua l’importanza attribuita al «partito del non voto». Tra i pentastellati la maggioranza attribuisce la vittoria al proprio movimento (37%) e, a seguire, all’astensione (30%) mentre gli elettori del centrodestra appaiono decisamente galvanizzati e considerano il risultato soprattutto una vittoria dell’intera area politica e in secondo luogo del proprio leader: Salvini, indicato dal 42% dei leghisti, e Berlusconi, dal 32% dei suoi elettori. Le opinioni si dividono riguardo alla strategia futura del Pd: il 54% degli italiani ritiene che il partito di Renzi debba rafforzare l’unità a sinistra mentre il 46% è di parere opposto e pensa che l’alleanza con la sinistra possa determinare una sconfitta per il Pd. Si tratta di una divisione presente anche tra gli elettori del Pd (55% a 45%). Il voto di giugno ha rovesciato le opinioni riguardo alla data delle prossime elezioni politiche: oggi infatti il 56% vorrebbe che si votasse alla fine della legislatura mentre il 44% auspica di votare il più presto possibile. Solo i pentastellati preferiscono il voto subito (60%), mentre nel centrodestra gli elettori sono decisamente più divisi, probabilmente perché nonostante il positivo risultato ottenuto alle comunali ritengono che ci sia bisogno di più tempo per definire i programmi e, soprattutto, la leadership. Analogamente tre elettori su quattro del Pd vorrebbero votare a fine legislatura, in parte perché molti si oppongono a far cadere il governo Gentiloni che continua a mantenere un buon livello di consenso, in parte perché si sono acuite le tensioni interne, testimoniate dalle dichiarazioni di alcuni importanti esponenti del partito, e la ricomposizione richiede tempo. Anche gli orientamenti di voto hanno fatto registrare alcuni cambiamenti degni di rilievo. In particolare rispetto alla settimana antecedente il primo turno delle comunali i due principali partiti fanno segnare una flessione, più marcata per il M5S (-2,3%) rispetto al Pd (-1,5%). Il vantaggio del primo sul secondo si è assottigliato e si attesta allo 0,5% (28,3% a 27,8%). Al contrario il centrodestra appare in crescita, soprattutto per merito dei due principali soggetti: la Lega passa dal 12,4% al 15% e sorpassa Forza Italia che dal 13,5% sale al 14,3%. Fratelli d’Italia fa registrare una lieve flessione (da 4,8% a 4,2%). Nell’insieme, quindi, si attesta al 33,5% (+2,8%). Alla luce di questi dati, simulando la ripartizione dei seggi secondo quanto previsto dall’Italicum, l’unica maggioranza possibile sarebbe quella tra M5S (193 deputati) e sovranisti (104 per la Lega e 28 per FdI). Viceversa un’alleanza tra Pd (197), Forza Italia (99) e liste autonome/voto estero (9) si fermerebbe sotto la soglia dei 316, non potendo contare né sull’area centrista né sulla sinistra che al momento risulterebbero sotto il 3%. Ipotizzando una lista unica di sinistra la situazione cambierebbe perché ci sarebbero i presupposti per una ipotetica (anche se poco realistica) maggioranza extralarge che comprenda, nell’ordine, Pd (186), Forza Italia (93), sinistra (37) e liste autonome/voto estero (9). Insomma, nonostante qualche cambiamento, la governabilità continua ad essere una chimera .

Page 63: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

Pag 8 Un verdetto di buon senso e di compassione per chi non ha neppure la speranza di Giuseppe Remuzzi «Come è possibile che certi medici decidano di far morire un bambino e di farlo contro il parere dei genitori?» vi chiederete. E ancora: «Che diritto hanno i giudici inglesi e poi quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo di negare perfino l’ultima speranza a un bambino gravemente malato?». Detta così, parrebbe proprio che i medici di Great Ormond Street Hospital abbiano sbagliato. E che i giudici, nel decidere che un bimbo di nemmeno un anno debba smettere di vivere, si stiano prendendo una licenza che non gli compete. Tanto più che ci sarebbe una cura sperimentale, mai studiata davvero nell’uomo, d’accordo, ma nei topi sì e funziona. E allora perché non provare? I perché sono tanti; vediamoli uno dopo l’altro. La sindrome da deplezione del Dna mitocondriale è rarissima: a parte l’estrema debolezza dei muscoli (tutti i muscoli, anche quelli che servono per respirare e per deglutire), la malattia si associa a danni gravissimi al cervello e poi al cuore (è un muscolo anche lui) e poi al fegato, allo stomaco, all’intestino. Come se non bastasse, ci sono acidosi lattica e danni renali. Di fronte a un quadro così drammatico, cosa hanno fatto i pediatri di Londra? Il possibile e l’impossibile: lo hanno nutrito e idratato artificialmente, lo hanno fatto respirare con una macchina perché i muscoli di Charlie erano troppo deboli per deglutire e anche solo perché potesse respirare da solo. Mamma e papà erano accanto a lui in rianimazione giorno e notte, per nove interminabili mesi, le condizioni di Charlie continuavano a peggiorare, questo lo vedevano anche loro, ma Charlie era ancora lì, potevano accarezzarlo, abbracciarlo, perfino parlargli e illudersi che il loro bambino sentisse e riconoscesse le loro voci. I medici di Great Ormond Street erano pessimisti ma Connie e Chris non ne volevano sapere. «Ci sarà pure qualcuno in qualche parte del mondo che ha visto bambini così e che li sa curare, chissà forse i medici di Londra non sono poi così aggiornati...». Quando non sono vicino a Charlie, Connie e Chris sono al computer a cercare storie di altri bambini con lo stesso difetto genetico. E così scoprono che con la stessa variante di Charlie ce ne sono altri sette di bambini morti tutti in tenerissima età, «forse i medici di Great Ormond Street hanno ragione…». I genitori di Charlie però non si rassegnano, ormai sanno tutto di deplezione del Dna mitocondriale da mutazione del gene RRM2B - così si chiama la malattia che affligge il loro meraviglioso bambino - e scovano due lavori sui topi fatti a Stoccolma da biochimici che, già da qualche anno, si erano messi in testa di correggerlo, quel difetto genetico. Come? Sono riusciti ad avere topi con una mutazione del Dna molto simile a quella di Charlie. Quei topi appena nati sembravano normali, poi però cominciavano ad avere gli stessi sintomi dei bambini con la deplezione mitocondriale e nel giro di pochi giorni morivano. L’impresa di provare a curarli sembrava disperata ma la scienza fa miracoli, certe volte, e i ricercatori del Karolinska hanno avuto l’idea giusta: incrociare i topi malati con altri che esprimono in eccesso un gene capace di produrre quello che serve per migliorare la funzione dei mitocondri; i nati da questo incrocio avevano una malattia meno grave e vivevano più a lungo. Nulla di tutto questo si può fare nell’uomo, almeno per adesso, ma c’era un’ultima possibilità, forse, quella che i medici chiamano «terapia nucleosidica». Si tratta di una cura a base di deossicitidina e deossitimidina, messa a punto da biologi della Columbia University di New York. Queste sostanze si somministrano per bocca e allungano la vita - dei topi - di qualche settimana. Funzionerà nell’uomo? Non abbiamo nessuna idea, ma Connie e Chris le cose le guardano con altri occhi ed è un gran bene (tanti dei successi recenti nella cura delle malattie rare si devono proprio agli stimoli formidabili che ci arrivano quasi ogni giorno dagli ammalati). «Perché non proviamo con la cura dei nucleosidi, quella dei dottori di New York?» si chiedono. Ne parlano con i pediatri che sarebbero anche disponibili, tanto più che c’è qualcuno negli Stati Uniti che lo farebbe, ma ci vogliono tanti soldi. Connie e Chris non si danno per vinti, creano una Fondazione che riesce a raccogliere in poco tempo tutti i soldi che servono. Nessuno, però, nemmeno chi ha proposto quella cura, pensa che il piccolo possa prenderne vantaggio: «È troppo presto, siamo solo agli inizi di una storia che forse ci porterà da qualche parte, forse no». E poi, se qualcuno in qualche parte del mondo sapesse curare le malattie da deplezione mitocondriale, lo sapremmo e quella cura sarebbe a disposizione di tutti. E Charlie, intanto? Sta sempre peggio: non solo, ma nelle ultime settimane risonanza magnetica ed altri esami ancora più sofisticati dimostrano che nel cervello ci sono danni

Page 64: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

irreversibili, che nessun trattamento per quanto sperimentale potrà mai modificare. In queste condizioni, tenere quel povero corpicino attaccato ad una macchina che respira per lui vuol dire solo prolungare l’agonia. Chi volesse sostenere che nel cervello di Charlie poteva esserci qualcosa di vitale dovrebbe ammettere che quel piccolo soffriva (e vi assicuro che dopo nove mesi di rianimazione le sofferenze possono essere atroci). Se invece nel cervello di Charlie di neuroni non ce n’erano più, andare avanti non avrebbe proprio avuto senso. Fare il medico è rianimare, certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili, fa parte delle nostre responsabilità a tutela di chi non ha più speranza. E quelli di Great Ormond Street non erano soli, hanno sentito colleghi bravissimi a Barcellona e tutti gli esperti che ci sono al mondo nel campo dei disordini mitocondriali. E i giudici? La sentenza di quello dell’Alta Corte di Inghilterra e Galles che invita i medici «with the heaviest of hearts» (con il pianto nel cuore, diremmo noi) a sospendere i trattamenti è fatta di 30 pagine appassionate, piene di cultura medica e giuridica, ma anche di compassione e buon senso, insomma un riferimento imprescindibile per chi volesse approfondire questa materia. «Charlie morirà sapendo di essere stato amato da migliaia di persone» scrivono i genitori. È una frase bellissima. C’è di più: Connie e Chris useranno i soldi che hanno raccolto perché si faccia più ricerca su queste malattie, così che un giorno altri bambini con danni da deplezione mitocondriale possano vivere un po’ più a lungo e forse anche guarire. Pag 20 La diplomazia “indifferente” dell’amministrazione Trump di Sergio Romano Gli ambasciatori degli Stati Uniti sono inviati personali del presidente. Alcuni appartengono alla carriera diplomatica e possono conservare la carica anche dopo la elezione di un nuovo capo dello Stato, se gli sono graditi. Ma le regole e la tradizione vogliono che i capi delle missioni diplomatiche si dimettano per consentire al nuovo arrivato di scegliere la persona che sembra meglio rispondere alla politica estera della nuova amministrazione. Dobbiamo supporre che questo sia accaduto anche dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma il nuovo presidente non ha fretta. Come è stato ricordato in un’altra occasione, la distribuzione dei poteri fra il presidente e il Congresso gli permette di nominare, dal momento in cui assume le sue funzioni, circa 4.000 persone, tra funzionari di vario grado e magistrati federali. Ma il numero della caselle vuote, a poco meno di sei mesi dal giorno del giuramento è ancora piuttosto elevato. Il caso degli ambasciatori è particolarmente interessante. Come ha ricordato Franco Venturini sul Corriere del 29 giugno, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma è ancora quello nominato a suo tempo da Barack Obama. Ma l’Italia non è una eccezione. Alla fine di giugno, poco meno di sei mesi dopo il giuramento, Trump non aveva ancora nominato i rappresentanti degli Stati Uniti presso la Commissione europea di Bruxelles, l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Unesco, gli uffici europei delle Nazioni Unite. Il 27 giugno i soli Stati dove fosse arrivato un nuovo ambasciatore americano erano il Belgio, il Portogallo e la Santa Sede. I vuoti verranno colmati, prima o dopo, ma è probabile che questa indifferenza ai rapporti diplomatici con molti Paesi e istituzioni non sia casuale. A Donald Trump le organizzazioni internazionali, l’Unione Europea e le maggiori democrazie del Vecchio Continente non sono congeniali. Hanno sistemi politici, tradizioni culturali e ambizioni unitarie che le rendono estranee alla cultura politica del nuovo presidente. Gli interlocutori preferiti di Trump sono quelli che dispongono di grandi poteri personali e li esercitano con grande autonomia. Vi sono probabilmente altre ragioni. Trump viene dal mondo degli affari e ha evidenti ambizioni politiche, ma non ha le esperienze e le conoscenze di chi ha frequentato i corridoi e le anticamere della politica durante una buona parte della sua esistenza. Per nominare un ambasciatore o un direttore generale deve affidarsi ai suggerimenti di un consigliere; ma è ossessionato dal timore di avere collaboratori non assolutamente leali; e quando deve scegliere fra un militare e un civile, sceglie spesso il militare. Ha fatto anche nomine civili, come nel caso del Dipartimento di Stato, per cui ha scelto Rex Tillerson, già amministratore delegato di Exxon Mobil, una delle maggiori aziende petrolifere del mondo. Lo ha scelto, presumibilmente, perché aveva una considerevole esperienza medio-orientale. Ma dopo avergli affidato il più importante dei dicasteri americani, ha

Page 65: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

chiamato accanto a sé il marito di sua figlia, Jared Kushner, e ne fatto la sua eminenza grigia per i rapporti con l’Arabia Saudita e Israele. Trump non è il primo presidente americano che preferisce servirsi di un consigliere privato piuttosto che di un servitore dello Stato. Durante i negoziati di pace, alla fine della Grande guerra, Woodrow Wilson prestava attenzione ai consigli del colonnello House piuttosto che a quelli del segretario di Stato Robert Lansing. A giudicare dai risultati, soprattutto per i rapporti con l’Italia, la scelta non fu felice. Ma Wilson aveva una grande reputazione e un brillante passato accademico, mentre Trump è soprattutto un grande venditore delle due merci che sa fabbricare con maggiore profitto: il lusso e lo svago. Per gli alleati degli Stati Uniti non sarà facile parlare di politica internazionale con il nuovo inquilino della Casa Bianca. LA REPUBBLICA di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Pd e M5S ancora giù dopo il voto. E Prodi ritorna sul podio dei leader di Ilvo Diamanti Il voto amministrativo "locale", anche stavolta, ha avuto effetti politici "nazionali". Era prevedibile e sembra essersi puntualmente verificato, come mostra il sondaggio dell'Atlante politico di Demos. In particolare, la cattiva prestazione del centrosinistra, che ha perduto il governo di molte città, ha ridimensionato il consenso verso Matteo Renzi. E verso il Pd. O meglio, il PdR. Il Partito di Renzi. In questi giorni, cioè, all'indomani della consultazione, le stime di voto vedono, infatti, il Pd in calo di oltre due punti. Mentre il M5S, a sua volta attore-non protagonista di questa elezione, ha perduto circa un punto e mezzo. Non molto. A conferma che le logiche del voto cambiano, a seconda del tipo di elezione. A livello locale conta essere presenti con candidati credibili. A livello nazionale è importante farsi sentire. Anche se solo criticamente. I due partiti, peraltro, restano in testa alle preferenze degli elettori. Quasi alla pari. Intorno al 26%. Ma arretrano, entrambi. Il Pd, in particolare, tocca il livello più basso, degli ultimi tre anni. Tuttavia, è ancora il primo partito. Dietro a loro, Forza Italia e Lega risalgono di circa un punto. Uniti, potrebbero competere per il primato. Ma separati restano a oltre dieci punti di distacco da Pd e M5S. I due partiti che, ormai da anni, si fronteggiano. Almeno nei sondaggi. Dietro, c'è molta frammentazione. A destra, al centro, nella sinistra, vecchia e nuova. L'impatto delle amministrative risulta, comunque, forte anche rispetto alla popolarità dei leader. E il prezzo più alto lo paga, di nuovo, Matteo Renzi. Ottiene, infatti, fiducia dal 32% dei cittadini: 7 punti meno di un mese fa. Si tratta del livello più basso dal 2014, quando il "rottamatore" è sceso decisamente in campo. Senza guardare in faccia nessuno. (Sicuramente non Enrico Letta...) Va aggiunto, peraltro, che Renzi non perde posizioni rispetto agli altri leader nazionali. Davanti a lui, ma di poco, vi sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Dietro: tutti gli altri, vecchi e nuovi. Di destra, centro e sinistra. Da Pisapia a Berlusconi. Da Di Maio e Grillo fino ad Alfano e Speranza, che chiudono la graduatoria, sotto il 20%. 'unico leader che conferma la propria posizione "di comando" è il premier, Paolo Gentiloni. Sempre primo, con il 45% delle preferenze. Una valutazione che conferma il giudizio nei confronti del governo che egli presiede. In leggera crescita negli ultimi tre mesi, con il 41%. L'orientamento verso Gentiloni e il suo governo è, comunque, significativo. Gentiloni piace perché è diverso dagli altri. È il Capo del governo, non di un partito o di una fazione. In tempi arroganti e chiassosi, interpreta il ruolo in modo misurato. E quasi "defilato". D'altronde, è "di passaggio", come il suo governo. Destinato a durare fino alle prossime elezioni. Che non è ancora chiaro quando avverranno. Tanto meno: quale partito vincerà. Ma soprattutto: quale coalizione potrà governare. Visto che, da solo, nessun partito è in grado di vincere. E di governare. Mentre, al tempo stesso, nessuna coalizione sembra abbastanza solida e coesa. Perché ci sono diverse "destre" e diverse "sinistre". Poco compatibili, al loro interno. A Centrodestra: Forza Italia e Lega, con il sostegno dei FdI, potrebbero ottenere consensi molto ampi. Sicuramente, non distanti dal Centrosinistra. Ma poi si incaglierebbero sullo scoglio della leadership. Che Berlusconi non cederà "mai" ad altri. Tanto meno a Salvini. Il quale, però, è deciso a proporre la "sua" Lega Nazionale come forza di governo. Senza la mediazione di altri. Neppure di FI. (Anche se è difficile per una forza apertamente antieuropea). Berlusconi, tuttavia, non trascura il ruolo di "Pronto soccorso", a sostegno di un governo - magari guidato proprio da Renzi. In caso di urgenza. "Per il bene del Paese". Perché mai, dunque, dovrebbe "legarsi" in modo

Page 66: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

indissolubile alla Lega? Il problema del Centrosinistra è diverso. Ci sono diverse sinistre che faticano a coesistere. Sono divise, concorrenti, sorte, talora, da fratture e divisioni interne. Oggi, d'altronde, a Piazza Santi Apostoli, su iniziativa di Pisapia, le Sinistre a sinistra del Pd sfileranno "Insieme". Di fatto: contro il renzismo. D'altra parte, se consideriamo il consenso di cui disporrebbero le diverse, possibili coalizioni, nessuna appare in grado di andare oltre un terzo dei consensi fra gli elettori. L'ipotesi che gode del favore più ampio si riferisce ai partiti di Centrodestra (37%). Che però, come si è detto, sono divisi sulla leadership. C'è invece più insofferenza verso le intese che comprendano il M5S. E verso un'alleanza fra Pd e FI che vada oltre lo stato di necessità. Rilevante, infine, appare, l'adesione a una coalizione fra Pd, Mdp e altri soggetti di Sinistra: 34%. Anche qui, però, si porrebbe il problema della leadership. Affrontato, negli ultimi tempi, evocando la candidatura di Prodi. Valutata dall'interessato con giusta cautela. E distacco. Prodi, infatti, è figura che unisce, a centrosinistra. Apprezzato dal 57% degli elettori del Pd e addirittura dal 74% da quelli più a sinistra. Ma "osteggiato" dagli elettori di Centrodestra. Soprattutto di FI. D'altronde, è l'unico ad aver battuto per due volte Berlusconi. Per questo, se si considera l'elettorato nell'insieme, ottiene fiducia dal 32% degli elettori. Come Renzi. Molto al di sotto di Gentiloni. Così, Prodi preferisce intervenire "da fuori". Spostando la sua tenda, a seconda del caso e della necessità. Lui, padre fondatore dell'Ulivo, perché dovrebbe farsi logorare dalle fratture fra la destra e la sinistra? E dalle divisioni interne che attraversano la destra ma anche la sinistra? Rileggendo le indicazioni di questo sondaggio e, ancor prima, le "dinamiche" e le "statiche" del quadro politico, emerge un Paese dai confini indefiniti. Dai destini incerti. Così, se chiedete agli italiani (indagine Demos) quale sia il carattere che li distingue maggiormente dagli altri popoli, la maggioranza risponde: "L'arte di arrangiarsi". Come stupirsi? Pag 1 Ma sui minori nessuno abbia potere assoluto di Chiara Saraceno Il caso del piccolo Charlie, il bimbo inglese di 10 mesi nato con una malattia genetica incurabile che non gli consentiva neppure di respirare autonomamente e progressivamente gli atrofizzava il cervello, che ha visto i genitori combattere contro i medici ed essere sconfitti dai tribunali, porta ancora una volta alla ribalta la questione di chi abbia, in ultima istanza, il diritto di decidere in nome del bene di un bambino: i genitori, i giudici, i medici o altri ancora? Nella sua tragicità estrema, perché si tratta di un neonato condannato fin dalla nascita a sofferenze e del dolore di genitori che hanno continuato a sperare sino all’ultimo che ci potesse essere una possibilità di cura, richiama altri casi. Altri casi in cui il conflitto tra genitori e, a seconda delle situazioni, medici, giudici o assistenti sociali è insanabile e ciascun soggetto tenta di prevalere in nome delle proprie buone ragioni, o anche solo della superiorità - morale, scientifica o giuridica - del proprio diritto a decidere su quale sia il bene del bambino. Lo vediamo ogni volta che un bambino è sottratto alla potestà di genitori giudicati incapaci di provvedere al suo bene, ma anche quando questa sottrazione non avviene, e assistenti sociali e giudici vengono accusati di non aver agito per tempo. Lo stiamo vedendo in questi mesi nei conflitti sulle vaccinazioni, con genitori che proclamano il proprio intoccabile diritto a proteggere la salute dei propri figli non facendoli vaccinare, ma, di conseguenza, anche a far loro correre altri, statisticamente più certi, rischi. C’è un confine al potere di decisione dei genitori sui propri figli? E quali sono i rischi di uno Stato o di una magistratura che espropriano i genitori della capacità di decidere sui rischi da far correre ai figli, sulla loro vita e sulla loro morte? Viceversa, quali sono i rischi, per i bambini innanzitutto, dell’essere lasciati esclusivamente al potere di decisione, e al discernimento, dei genitori? In realtà nelle società democratiche i diritti, e le responsabilità, nei confronti dei bambini sono condivisi tra diversi soggetti e nessuno ha un potere assoluto. Accanto al diritto e dovere dei genitori di allevare e crescere i figli ci sono le norme sull’obbligo scolastico e il dovere della collettività a garantire l’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie. I tribunali minorili e l’assistenza sociale rivolta ai minori sono nati storicamente non, o non solo, per sorvegliare e punire i minori devianti, ma per proteggerli da adulti irresponsabili o abusanti. I bambini e in generale i minorenni sono divenuti progressivamente titolari di diritti propri, che i genitori, ma anche le istituzioni pubbliche, sono tenuti a salvaguardare. Tra questi c’è, come per gli

Page 67: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

adulti, il diritto alla salute, quindi alla prevenzione e alle cure quando necessarie e appropriate, alla dignità, al non essere sottoposti a sofferenze inutili. Di solito i diversi soggetti che hanno la responsabilità del benessere di un bambino si affidano l’uno all’altro in una sorta di divisione delle competenze. È agli insegnanti che tocca insegnare le varie materie, anche se possono esserci conflitti ai margini sugli stili educativi e relazionali. È ai medici che tocca decidere come affrontare una malattia o indicare le misure di prevenzione necessarie, anche se si può discutere ed eventualmente cambiare il medico che non convince. Il problema sorge quando i diversi soggetti che hanno responsabilità per il bene del bambino entrano in radicale conflitto proprio sull’identificazione di questo “bene”, come nel caso del piccolo Charlie. È in questi casi che interviene la magistratura. Perché un adulto può decidere per sé e ha il diritto sia di chiedere il proseguimento a oltranza delle cure, anche contro ogni ragionevole speranza, sia quello di rifiutarle. Il dibattito sul testamento biologico riguarda precisamente l’esercizio di questo diritto anche quando non si è più in grado di farlo autonomamente. Si discute anche dell’età in cui un minore ha diritto di esprimere la propria volontà in questo campo, come già avviene per altre questioni. Ma un bambino piccolissimo, un neonato, non può parlare per se stesso. Qualcun altro deve parlare per lui. Nel caso del piccolo Charlie, genitori e medici hanno valutato diversamente che cosa fosse meglio per lui: essere tenuto in vita artificialmente soffrendo, con una situazione già fortemente e irreversibilmente compromessa, per provare una cura sperimentale, o invece essere lasciato morire cessando la respirazione artificiale. Tre livelli di giudizio in Inghilterra hanno valutato che la posizione dei medici era più aderente al bene del bambino, più rispettosa del suo diritto a non soffrire inutilmente e a morire dignitosamente di quella dei genitori, pur motivata da un enorme e straziante amore. La Corte Europea dei diritti umani, interpellata, ha dichiarato la propria incompetenza, di fatto avallando il giudizio delle Corti inglesi. Una decisione emotivamente difficile da accettare, imperfetta come tutte le decisioni che hanno a che fare con la vita, la morte, gli affetti. Che tuttavia va letta nell’ottica di un conflitto sull’obiettivo condiviso di fare la cosa migliore per un piccolo, non di una lotta di potere tra giudici, medici, genitori e neppure di una negazione del diritto alla vita di chi ha una disabilità grave. AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 L’indifferente bestemmia di Marina Corradi Gli scartati e lo sguardo d’Europa Gli hanno concesso una proroga. Qualche ora ancora, o qualche giorno, perché i genitori abbiano modo, come si dice, «di elaborare il distacco ». Ma la strada di Charlie sembra comunque tracciata: un sentiero forzato, fra asettici protocolli medici e sentenze di alme Corti, che conduce alla morte. Sedazione profonda e sospensione dell’ossigeno a un bambino che da solo non respira. Ha una gravissima malattia genetica, è inguaribile, è la ragione addotta dai professori del Great Ormond Street Hospital di Londra. Inguaribile, forse, e però curabile. Charlie Gard, 10 mesi, è una creatura di cui finora ci si è presi cura, dandogli ossigeno, nutrendolo, idratandolo, non facendogli mancare l’affetto e la presenza dei suoi genitori. Ma adesso no, ora basta, è il verdetto in attesa di esecuzione. E non vogliamo pensare come si sentano quei giovani genitori, chini fino a oggi sulla presenza muta eppure viva del loro bambino, attenti al suo volto, ai suoi occhi. «Ci hanno abbandonati», hanno detto. Li hanno abbandonati i medici e i giudici inglesi e europei, ma, temiamo, non solo. L’attenzione mediatica a questo dramma è quasi solo inglese – giacché inglese è il bambino – e italiana, con un notevolissimo sollevarsi sul web di una corale protesta, e non solo da parte cattolica. Ma se ieri mattina aprivi i siti on line di 'Le Monde' e 'Le Figaro', di 'El Mundo' e 'Die Welt', non trovavi una parola sul destino di Charlie Gard. C’era spazio per la Giornata degli asteroidi, ma non per il bambino di Londra. Colpisce, questa indifferenza dell’Europa, incrinata qui e là da trepidanti veglie di preghiera, di fronte a due genitori che disperatamente hanno chiesto che loro figlio fosse lasciato vivere. Forse se, al contrario, quel padre e quella madre combattessero, come il padre di Eluana Englaro, perché la morte fosse data, allora il favore mediatico da Parigi a Berlino a Madrid sarebbe un altro. Perché oggi chiedere la morte per chi soffre o è in stato vegetativo suona come una affermazione di indipendenza e di libertà. Piace. Esiste, continuiamo purtroppo a doverlo annotare, un

Page 68: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

favor mortis, una preferenza al diritto di morire, in questo nostro Occidente. Invece il papà e la mamma di Charlie volevano che il loro bambino vivesse. Così come può: legato a un respiratore, senza prospettive, a oggi, di guarigione e affidato a una costosa terapia sperimentale che la solidarietà e la generosità 'dal basso' di tanti avrebbe reso possibile. Volevano tenerlo con sé: lasciare semplicemente che vivesse, accompagnato da tutti i possibili ausili della medicina. Non guaribile, quasi certamente, ma curabile, ma accompagnabile, non guaribile ma oggetto di attenzione e di amore. Il no dei medici però è perentorio, e dottamente confermato dai giudici. Perché tanta unanimità su una vicenda così estrema, così dolorosa? E perché la maggior parte dei media occidentali non ritiene ciò che sta accadendo in quella stanza di ospedale interessante per i suoi lettori? Perché Charlie, agli occhi di certo Occidente, nello sguardo di quella cultura spesso denunciata dal Papa, è un condannato, o addirittura uno 'scarto'. La sua vita non sarà mai quella di un bambino nato sano, ed è molto costoso mantenerlo nel suo limbo dormiente, attaccato a macchine complesse, sorvegliato da medici e infermieri. Non si può, questa è la logica, spendere tanto per un bambino che non guarirà. Ma attenzione, è una logica che anche attraverso questo caso inavvertitamente si farà strada nei nostri ospedali, nei nostri gerontocomi. È una selezione dei sani basata sulle leggi dell’economia. Non ci si può permettere certi lussi dispendiosi. Si comincia con un bambino con una rarissima e grave malattia genetica. Poi in società sempre più vecchie si prenderà a valutare quanto costa tenere in vita certi handicappati gravi, i pazienti in stato di minima coscienza, e quelli perduti nell’Alzheimer. Il bambino Charlie va a morire nel silenzio dei grande media europei. Come tacitamente arresi a un’evidenza: i più malati, i più deboli possono e devono essere scartati, addirittura per legge. Si parli, dunque, della Giornata degli asteroidi, o del progresso avanzante, con i matrimoni omosessuali in Germania. Certe questioni penose conviene metterle in un angolo. Chissà, sennò, che la gente cominci a pensarci. L’Europa che non si cura di Charlie è la stessa del resto che non si occupa delle migliaia di donne, uomini e bambini che annegano nel Mediterraneo. Che chiude gli occhi. In questo l’Italia, la povera Italia, è un’eccezione. Per come salva i migranti in mare, per come si solleva sul web contro la morte di Charlie. Quasi, si direbbe, nell’eco di una memoria che, per quanto si voglia disperderla, non si annienta facilmente. Una memoria dentro la quale, da noi, ancora si trema al pensiero di quella iniezione di sedativo, di quel respiratore staccato dalla bocca di un bambino, finché non muoia per soffocamento. Al pensiero della morte legalmente comminata a un bambino tra tanta indifferenza. Si trema come un sovvertimento della natura, e del desiderio di vita che è in noi. Si trema a quell’idea, come davanti a un’aspra bestemmia. IL GAZZETTINO di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Gli errori di Renzi e la strategia dell’odio di Bruno Vespa Tema: come cacciare il segretario del Partito democratico eletto due mesi fa dopo primarie alle quali hanno partecipato 1.800mila persone. L'avessero dato agli esami della maturità, sarebbe stato più difficile di quello sul poeta Caproni. Perché la soluzione non c'è. Renzi fu eletto con un consenso superiore alle attese e chi lo ha votato sapeva benissimo di scegliere al tempo stesso e a norma di statuto il segretario del Pd e il candidato premier del partito. In questo periodo, Renzi ha patrocinato e ottenuto un accordo con gli altri partiti principali (M5S,Forza Italia e Lega Nord) per una legge elettorale proporzionale con sbarramento, programmando le elezioni a settembre. Qui il segretario ha commesso due errori. Ha immaginato che Grillo resistesse alle pressioni della base contrarissima a un accordo con lui e Berlusconi. Ha sottovalutato l'istinto di sopravvivenza di centinaia di parlamentari per niente disposti a rinunciare a sei mesi di stipendio. Il terzo errore è stato di sottovalutare l'impatto delle elezioni amministrative di domenica scorsa, in cui il Pd ha perso i sindaci di due capoluoghi simbolo (Genova e L'Aquila) e di altre 28 città importanti o significative. Ma immaginare che questo scalfisca le ambizioni e i diritti dell'uomo significa non conoscere né l'uno, né gli altri. Romano Prodi e Walter Veltroni non si riconoscono (e si capisce) in questo Pd così diverso da quello fondato dieci anni fa al Lingotto di Torino. Ma rappresentano essi stessi due Pd incompatibili tra loro: Prodi, un centrosinistra largo, dall'Ulivo all'Unione; Veltroni, un partito a vocazione maggioritaria, inquinato a suo tempo dalla inutile e

Page 69: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

fuorviante alleanza con Di Pietro, ma perfettamente in linea con la tradizione europea. Il problema è che in questi anni una spaventosa crisi economica e le fatali insufficienze delle coalizioni tradizionali hanno fatto crescere un terzo incomodo fatale: il Movimento 5 Stelle, che malgoverna quasi dovunque, è stato castigato più del Pd alle ultime amministrative, ma gode tuttora di un consenso nazionale molto importante. Anche Renzi concepisce un Pd a vocazione maggioritaria: il problema è che questa è politicamente impossibile. Il segretario resta comunque al centro dei giochi. Giuliano Pisapia è un gentiluomo, ha lasciato un buon ricordo come sindaco, ma il movimento che verrà battezzato domani a Roma è destinato a togliere un po' di voti al Pd senza raggiungere un livello idoneo a costituire una coalizione maggioritaria di sinistra. Sembra nato, insomma, più per far perdere il Pd alle elezioni che non per costituire con esso una simbiosi vincente. Se non altro perché la sua politica è molto diversa da quella con cui Renzi bene o male ha avuto i consensi che ha avuto. All'ondata montante di chi dice che il segretario non è idoneo a governare il paese (Unfit, scrisse l'Economist di Berlusconi), Renzi ha risposto ieri dicendo fuori i vecchi capibastone e i loro protettori. E ciascuno faccia il suo identikit. Sembra non esserci spazio che per l'odio. Basta vedere la sostanziale indifferenza con cui la sinistra interna ed esterna al Pd ha archiviato l'incredibile macchinazione giudiziaria del caso Consip. E sull'odio non si è mai costruito niente di buono. Pag 1 Ma il bene del minore non è la morte di Cesare Mirabelli E’ un diritto triste quello che dispone la fine della vita di un bambino interrompendo il sostegno vitale che gli è necessario e sedandolo per accompagnarlo alla morte. Un diritto che, al senso comune, appare tanto più crudele se confrontato con la tenace volontà dei genitori di offrire al loro figlio una opportunità di cura sperimentale in un altro pur remoto centro sanitario. Non si consente forse di praticare nuove terapie compassionevoli quando la sperimentazione clinica non dà ancora certezze e può essere, al limite, la cura dannosa o letale? Ma vale la pena correre ogni rischio in situazioni altrimenti prive di speranza? Nel caso del piccolo Charlie la soluzione è stata diversa, imposta all'esito di un percorso giudiziario, contro la volontà dei genitori che hanno contrastato ogni atto che avesse come effetto di porre fine alla vita del loro piccolo. C'è da domandarsi quali diritti sono in gioco. Anzitutto il diritto alla vita ed alla salute che nella vita ha il suo presupposto. Lo prevedono le costituzioni, le convenzioni internazionali sui diritti umani ed ancor prima acquisizioni di civiltà e tradizionali regole di deontologia medica. I trattamenti sanitari devono rispettare la dignità della persona. Non possono essere imposti contro la volontà di chi ha diritto di esprimerla ma non possono neppure essere sottratti e non praticati. È questo il tema in discussione nel nostro Parlamento e le modalità previste dalla nuova disciplina possono richiedere ancora qualche adeguata calibratura nel delineare il rapporto tra medico e paziente. Per i figli minori è dei genitori la responsabilità di esprimere la volontà che deve essere tutelata e che deve essere orientata alla tutela della vita e della salute del minore. Rimangono esclusi l'accanimento terapeutico, gli interventi di trattamenti futili, la loro palese inappropriatezza. Ma ci sono altri, siano essi medici o anche giudici che possono dire al posto dei genitori che è meglio lasciar morire un bambino sottraendo il sostegno vitale anziché farlo soffrire in una prospettiva di vita breve e senza speranza? Non è questa una resa che ha il sapore dell'abbandono in un momento di straordinaria difficoltà? II caso giudiziario del piccolo Charlie sarà archiviato esauriti tutti i ricorsi agli organi giudiziari. Ma il caso rimane aperto nel sentire collettivo, e sembra non ancora definitivamente e irrimediabilmente chiuso. Le autorità inglesi hanno differito l'attuazione delle procedure sanitarie previste alle quali sarebbe inevitabilmente seguita la morte per dar tempo ai genitori di svolgere fino in fondo la loro funziona di protezione del loro bambino. Confidiamo che questo porti ad una migliore ponderazione da parte di tutti coloro che ancora hanno titolo in questa vicenda su quale sia il preminente interesse del minore che difficilmente può essere la morte e non invece di vita. Pag 18 L’invasione dei migranti è un fallimento per l’Unione di Massimo Adinolfi

Page 70: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

La risposta dell'Unione europea non si sa se arriverà; di sicuro però si farà attendere. Conta poco che il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, abbia definito eroici gli sforzi che l'Italia è chiamata a compiere per dare accoglienza ai migranti, in realtà siamo alle solite: non c'è, allo stato, alcuna comune volontà dei Paesi europei di far fronte alla situazione. Così ascoltiamo quello che pensa la Francia, che parla per bocca di Macron e dichiara disponibilità ad accogliere i soli rifugiati, non i «migranti economici». Poi sentiamo la Cancelliera Merkel affermare con maggiore generosità (almeno a parole) che l'Italia e la Grecia non vanno lasciate sole. Registriamo gli apprezzamenti per l'impegno italiano e lamentiamo invece che alcuni paesi europei se ne lavino le mani; ma in questo confuso concerto di voci discordi, regolate esclusivamente dagli interessi nazionali, si disperde il significato stesso dell'unità europea. Non si capisce dove si trovi, chi la rappresenti, in che modo si senta chiamata in causa. In realtà, non c'è, in questo momento, nessun altro tema nell'agenda europea che sia declinato su base nazionale più del tema migrazioni. E d'altra parte non c'è nessun altro tema che, più di questo, possa mai trovare soluzione su un piano meramente nazionale. Perché non è una soluzione la chiusura delle frontiere, così come non lo è l'apertura. Respingere, così come accogliere, sono verbi che richiedono di essere costruiti in una frase: quando, dove, come. Lo si vede bene dal gesto spazientito che ha spinto il governo italiano a minacciare la chiusura dei porti alle organizzazioni non governative che portano sulle nostre coste, quotidianamente, migliaia di migranti. A parte i complessi problemi legati al diritto internazionale (ma un'emergenza è un'emergenza: e il diritto, soprattutto il diritto internazionale, finisce di solito con l'adeguarsi), è chiaro che per il ministro dell'Interno, Marco Minniti, non si tratta di una soluzione, ma di una misura resa necessaria, oltre che dal numero eccezionale di sbarchi di queste ore, dalla difficoltà a spiegare cosa mai impedisca alle navi di attraccare in altri porti: maltesi, spagnoli o francesi. Una gestione comune del fenomeno, sia in termini di rimpatri che in termini di ricollocamento nei Paesi dell'Unione, non c'è. Il piano Juncker di ripartizione pro quota dei nuovi arrivi (che pure vale solo per i rifugiati, aventi diritto alla protezione internazionale) è un clamoroso fallimento È bene essere chiari: le politiche di accoglienza sono politiche umanitarie: benemerite, ma da sole non possono bastare. Diviene anzi sempre più difficile mantenerle, se non sono affiancate da tutto ciò che uno Stato (e una comunità di Stati, se esiste) può fare per regolare i rapporti coi Paesi viciniori. Finché la Libia rimarrà nell'attuale situazione di instabilità, rimarrà anche il corridoio lungo il quale si riverseranno tutti coloro che cercano in Europa migliori condizioni di vita. Possiamo resistere all'idea che i barconi carichi di migranti debbano essere respinti, solo se non ci limitiamo ad attrezzarci per i salvataggi in mare, ma proviamo anche a ridurre a monte i flussi migratori. Diversamente, non ci tireremo via dalla trappola umanitaria che gli egoismi degli altri Stati membri dell'Unione scarica sul nostro Paese. Perché non è per una cieca fatalità che la meta preferita degli scafisti che attraversano il Mediterraneo è l'Italia, e la rotta libica il percorso più affollato. Ciò dipende da un calcolo preciso, da una diversa probabilità di successo, assicurata lungo queste vie, e per esempio dalla forte riduzione dell'agibilità della rotta balcanica. È anzi evidente che qualora diminuissero dovessero diminuire le aspettative di un buon esito, diminuirebbero anche gli sbarchi. Orbene, se non si vuole tradurre questo assioma spietato ma evidente in una politica attiva di respingimenti, bisogna almeno che si rendano disponibili altre leve di azione. Se quelle detenute dall'Unione latitano, e quelle a disposizione del nostro Paese si rivelano insufficienti, allora non ci sarà accoglienza che tenga. E il rischio che cresca il numero di coloro che saranno accolti solo dalle onde del mare aumenterà enormemente, macchiando per sempre l'onore dell'Europa. LA NUOVA di sabato 1 luglio 2017 Pag 1 Quell’unità smarrita dalla sinistra di Bruno Manfellotto Sarà solo un caso, ma anche i casi in politica contano, e le coincidenze di più, se non altro per il loro straordinario valore simbolico. Dunque ieri mattina, mentre a Milano si davano gli ultimi ritocchi all'assemblea dei circoli del Pd e a Roma convergevano le truppe di Pisapia & C. per il raduno di oggi, si diceva anche addio a "l'Unità", glorioso quotidiano fondato da Antonio Gramsci (nel 1924!) e via via diretto dai big del Pci-Pds-Ds-Pd. Chiuso, finito, si riparte dal web, dal digitale, da un'app. E buona fortuna. Ma è

Page 71: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

come se passasse in archivio - forza dei simboli, appunto - anche quella parola, "unità", che per un secolo è stata mantra, sogno, aspirazione della sinistra. Tutti insieme. Più o meno appassionatamente. Quando ci si riusciva. Ma è proprio l'unità (politica) che si è smarrita a sinistra. Nonostante i tentativi recenti di resuscitarla. Ricordate tutti com'era cominciata, solo pochi mesi fa. Si era fatto avanti Giuliano Pisapia, avvocato di grido, ex deputato di Rifondazione comunista e poi bravo sindaco che aveva governato Milano con un centrosinistra allargato, con l'intenzione dichiarata di aprire un dialogo con il Pd e rimettere insieme i cocci della sinistra. Poi si era fatto sotto anche Romano Prodi, guarda un po' chi si rivede, apparentemente più defilato, ma con le stesse intenzioni: professore-vinavil, il ponte, la tenda in giardino e via così. Non è durata molto. Adesso sembra che ognuno voglia andare per la sua strada. Concorrenti, l'uno alternativo all'altro. Pisapia va a caccia dei voti che ieri furono del Pd e che, delusi o scontenti o chissà, si sono rifugiati nel partito dell'astensione o sono finiti in casa Grillo-leghista. In quanto a Renzi, all'inizio ha valutato la strada del dialogo, poi si è fermato quando ha visto che gli sarebbe toccato avere di nuovo a che fare con la diaspora dei Bersani, D'Alema, Speranza, i quali ponevano la condizione che il candidato premier non fosse lui... E ha deciso di continuare per la sua strada, rottamare per sempre ogni lascito della vecchia sinistra e andare a caccia del voto moderato. L'esito delle amministrative ha accelerato il distacco tra i due fronti. E forse non poteva che finire così. A pensarci bene, già il Pd nato al Lingotto sotto il segno di Walter Veltroni aveva vocazione riformista e maggioritaria, provava a chiudere con la stagione delle coalizioni (Unione, Ulivo), fissava nuovi confini, si può dire che cominciasse ad archiviare esperienze obsolete o finite male, senza però risolvere la questione di fondo che da allora andrà sotto il nome di «fusione a freddo» (copyright Emanuele Macaluso): la convivenza sotto lo stesso tetto delle due anime del partito, la cattolica post-democristiana e la post-comunista. Se le cose stanno così, Renzi di fatto ha solo provato a chiudere la partita, però con i tempi e i modi suoi propri: la rottamazione, e poi la sfida della riforma costituzionale e del referendum, continuazione dello scontro politico con altri mezzi. La prima si è fermata a metà, la seconda non solo si è trasformata nella più cocente sconfitta di Renzi, ma ha finito per dare legittimità e autonomia ai suoi oppositori: se lui si è intestato il 40 per cento di "sì", gli altri si sono sentiti consacrati, pro quota, da quel 60 per cento di no. Con queste premesse, il dialogo diventa una chimera. Dunque siamo ora al punto che il Pd riunisce le sue strutture a Milano per "Italia 2020" (cioè, guardiamo avanti); e Pisapia - che di quella città è stato sindaco - scende invece nella Capitale per l'evento "Insieme" (gli anti Renzi si organizzano in una forza alternativa al Pd, appunto). Difficile insomma che il clima cambi, almeno per via politica. Qualcosa potrebbe succedere, ha ragione Prodi, solo con una nuova legge elettorale che spingesse a mettersi insieme e ridimensioni egoismi e velleità. Se ciò accadrà, ma è ogni giorno più difficile, avremo forse chiarezza e stabilità. In caso contrario, il sistema proporzionale lasciatoci in eredità dalla Consulta fotograferà l'esistente. E spingerà alle più stravaganti alleanze di governo: magari Lega e Grillo insieme, e Renzi e Berlusconi alleati. È il bipolarismo, bellezza. Pag 5 La lezione di Simone Veil, madre dell’Europa civile di Roberto Castaldi Si parla spesso dei padri dell'Europa, trascurando il contributo delle madri dell'Europa. La scomparsa di Simone Veil ce lo ricorda. La sua vita è in un certo senso una metafora della nostra storia e del passaggio dalle tragedie del nazionalismo alla pace e al benessere portati dall'unità europea. Simone Veil (nata Simone Jacob), morta ieri a 89 anni, era un'ebrea francese. Come tale venne deportata ad Auschwitz. Tutta la sua famiglia fu deportata in diversi campi, e solo lei e una delle sue sorelle sopravvissero. Ha quindi subito in prima persona gli orrori provocati dai nazionalismi, dalla guerra mondiale all'Olocausto, prova concreta che il processo di civilizzazione è, purtroppo, reversibile. Questo vale per tutte le conquiste di civiltà, in termini di diritti e democrazia, che sono sempre fragili e richiedono costanti cure, senza poter mai essere date per scontate. Questa esperienza ha certamente segnato la sua vita e l'ha resa particolarmente attenta e sensibile ai valori fondamentali della nostra civiltà. Più tardi, nel 2000 è stata tra i fondatori e il primo presidente della Fondazione per la Memoria della Shoa in Francia, di cui è poi rimasta presidente onorario. Dopo la guerra si iscrive

Page 72: Rassegna stampa 3 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 1 Comunicato della Sala stampa della Santa Sede . AVVENIRE di sabato 1 luglio 2017 Pag 18 La paternità di Dio è fatta

alla Facoltà di giurisprudenza, conosce e poi sposa Antoine Veil, di cui prende il cognome. Dopo la laurea e una breve esperienza come avvocato passa il concorso per entrare in magistratura, dove arriverà ad essere Segretario generale del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 1974 dopo l'elezione a presidente di Giscard D'Estaing diviene ministro della Salute nel governo Chirac. Grande sostenitrice dei diritti delle donne, dopo una dura battaglia politica riesce a far approvare la legge che rende legale l'aborto in Francia. Nel 1979 guida le liste di centro-destra e viene eletta al Parlamento Europeo nella prima elezione diretta a suffragio universale. E diviene la prima Presidente del Parlamento eletto, fino al 1982. Dopo le elezioni europee del 1984 diverrà capogruppo dei liberali europei. Nelle elezioni politiche del 1988 di fronte alla possibilità di accordi tra i gaullisti e il Fronte Nazionale per il secondo turno, si schiera contro qualsiasi candidato del Fronte, e annuncia che piuttosto voterebbe i candidati socialisti. Nel 1989 si presenta alle elezioni europee con una propria lista centrista con un profilo europeista che raccoglie oltre l'8%. Nel 1993 diviene nuovamente Ministro nel governo Balladour, di cui sostiene la candidatura alle presidenziali nel 1995, in quanto candidato gaullista europeista. Le elezioni vedono però la vittoria di Chirac, gaullista che corre su una piattaforma euroscettica, e lei lascia il governo. Nel 1998 viene nominata nella Corte costituzionale francese dover rimarrà fino al 2007, con una breve pausa nel 2005 per partecipare attivamente alla campagna referendaria a sostegno della ratifica del Trattato costituzionale europeo. La mancata ratifica costituirà una grave battuta d'arresto per il processo d'integrazione europea, di cui ancora oggi subiamo le conseguenze. La sua partecipazione alla vita e al dibattito pubblico francese ed europeo è continuata anche in seguito. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti sia in Francia che nel resto del mondo e nel 2008 è divenuta Accademica di Francia. L'Europa e i suoi valori hanno costituito un orientamento fondamentale della sua azione politica. Avremmo bisogno che lo fossero anche per molti altri. Torna al sommario