amore santo

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Nicola Bertocchi, LGB, sentimentale

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NICOLA BERTOCCHI

AMORE SANTO  

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AMORE SANTO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-553-3 Copertina:Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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Ad Andrea, a mia madre, a Emanuela

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RODIN... CHE FIGURA DI MERDA! «Eccoci! Dopo tutto questo tempo ci ritroviamo!» Davide era davvero stupito di incontrare di nuovo Matteo. Aveva quasi dimenticato il suo viso, ma gli era bastato uno sguardo più approfondito e l’aveva riconosciuto. Il fatto di incontrarsi al museo Rodin, dopo anni di assoluto silenzio e mancanza di notizie, gli aveva fatto usare un tono di voce più alto del dovuto e del voluto. I visitatori, un’orda di giapponesi completi di macchine fotografiche rigorosamente sigillate - per regolamento -, si girarono e lo squadrarono con occhi sorpresi e scandalizzati. Impensabile violare un tempio dell’arte con un tono di voce tanto sconveniente. E in italiano! Matteo, ancora in dubbio che si stesse rivolgendo a lui, si girò a guardarlo. Dio quanto era cambiato, eppure come era uguale a quando si erano conosciuti! «Non credo ai miei occhi. Davide, ma proprio al Rodin dovevamo rivederci? Se non fossi un inguaribile cinico penserei che l’hai fatto di proposito!» «Matteo, non sopravvalutarti tanto. Mio Dio, ma come sei cambiato!» «Grazie, davvero consolante. Tu invece sei solo peggiorato! Non oso immaginare che carattere di merda ti sia venuto con l’età!» Si abbracciarono e si scambiarono due baci sulla guancia. L’età di cui parlavano i due erano i 35 anni, ma considerato che il loro ultimo incontro si era consumato sotto una torre romana, nel

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centro di Como, 15 anni prima, diciamo che il tempo aveva effettivamente cambiato i tratti. I giapponesi continuavano a guardarli, come fossero stati un teatro improvvisato o un’opera contemporanea vivente. Avevano una sorta di ammirazione-invidia nei loro occhi, e i due uomini non ne capivano davvero il motivo. «Direi che possiamo spostarci un attimo di qui, che dici?» disse Matteo prendendo per un braccio Davide e trascinandolo letteralmente in una sala poco affollata. Tra i due, Matteo era sempre stato quello timido, quello riservato e poco socievole e Davide non si sorprese affatto della sua reazione, semplicemente finse sconcerto alzando gli occhi al cielo quando lui lo guardò. «Dai, non fare lo scemo! Allora che fai a Parigi? Vacanze? Lavoro?» «Macché lavoro! Sai che ho sempre voluto passare una vita in vacanza e quindi ho realizzato il mio sogno: vivo mantenuto e giro il mondo a spese del mio uomo!» Davide rise forte mentre finiva la frase. «Beh, se ti rende felice...» aveva cominciato Matteo un po’ imbarazzato, ma si interruppe subito perché capì che l’amico lo stava prendendo in giro. «Sei sempre il solito! No, sul serio, che fai qui?» «Sono in ferie per tre giorni e ho deciso di venire a Parigi, è sempre il meglio per me! In effetti ci torno ogni anno, perché non finisce mai di stupirmi e di farmi sentire a casa! E tu invece? Non hai sempre detto che odi i francesi? Che la Francia sarebbe meravigliosa se non ci fossero i francesi? Ti sei arreso?» «Bello mio, tutti ci si arrende prima o poi! Ho dovuto accettare che la Francia pullula di francesi e cominciare a farci il callo. Così mi sono trasferito qui a Parigi qualche mese fa. Ti dirò che l’esperimento sta andando meglio del previsto. Vivo in un quartiere carino, non sono lontano dalla Tour Eiffel, così non mi manca mai il punto di riferimento per l’orientamento.»

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«E bravo Matteo! Sei addirittura venuto a vivere a Parigi! Sono sconvolto. Dentro sono già svenuto e mi sono già schiaffeggiato per riprendermi, te lo giuro!» «Io mi chiedo quando la smetterai di fare lo stupido Davide, davvero. Ah, ora ricordo: è per questo che non ci vediamo da 15 anni!» Il tono era divertito, ma la frecciatina era stata scoccata con la stessa ferocia di un arciere a caccia. «Touché. Ah scusa, ora che sei per metà francese non vorrei mai che la mia pronuncia ti suonasse volgare.» «Sei impegnato tutto il pomeriggio con gite e musei o hai due minuti liberi?» «Dipende dalla proposta.» Davide non aveva perso il vizio di essere malizioso, e così dicendo gli fece l’occhiolino. Matteo non si scompose e continuò «Vorrei presentarti il mio compagno se hai due minuti. Credo che un po’ di compagnia italiana non ti darà fastidio, no?» «Oh, oh, oh. Sei fidanzato quindi? E io che sono ancora zitello, non ci posso credere! Ma chi ti ha preso con il brutto carattere che ti ritrovi?» «Molto. Molto. Molto divertente. Non sono fidanzato, o meglio non esattamente. Allora che ne dici? Abito a due passi da qui – questo museo è la mia seconda casa praticamente. Andiamo che ti presento Rocco.» «Ma ti prego: Rocco? Ma che razza di nome è? Va bene dai, se proprio insisti, andiamo. Ora mi hai incuriosito: mi chiedo chi diavolo sia il pazzo che ha deciso di stare con te. Lasciamo questa roba e usciamo va’!» «Roba? Ti prego Davide, non sei proprio cambiato!» Così dicendo Matteo estrasse un piccolo tesserino dalla tasca e la guardia all’uscita di sicurezza li fece passare. Davide capì di aver fatto, per l’ennesima volta, una figura di merda. Uscirono sulla piazza che dà sull’imponente agglomerato degli Invalides e si diressero verso avenue de Tourville passeggiando.

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«Seriamente, hai un po’ di tempo? Perché per arrivare a casa ci vorrà una mezz’oretta a piedi, altrimenti facciamo due chiacchiere in un bistrot qui dietro. Non voglio monopolizzarti, non ti ho neanche chiesto se sei venuto in vacanza da solo.» «Non preoccuparti, sono qui solo e il mio pomeriggio prevedeva solo il museo Rodin. Venendoci ogni anno diciamo che comincio a conoscer Parigi piuttosto bene e ho già visitato le principali attrazioni. Rodin mi mancava perché è uno dei musei meno importanti e quindi...» Gaffe numero 2. Matteo non vi fece caso. Il gusto per l’arte di Davide era di poco più affinato di quello che un gatto potrebbe avere per la lettura di un libro: inesistente. «Almeno passeggiamo un po’ insieme, come ai vecchi tempi» cercò di rimediare. «Certo, come ai vecchi tempi...» Il silenzio infine si impose, camminavano uno accanto all’altro, senza parlare e senza guardarsi, come due compagni di viaggio abituati a stare insieme, ma con una sensazione imbarazzante di fondo. «Prendiamo per Boulevard Garibaldi» disse Matteo dopo minuti di cammino, vedendo che l’amico si guardava intorno cercando qualche punto di riferimento o qualche indicazione. «Ah, perfetto! E dimmi, è lontano dove vivi? Ti trovi bene?» «Siamo quasi arrivati, abito in Rue Violet, ci puoi credere? Poteva capitarmi una via con un nome meno delizioso?» Si diedero uno sguardo d’intesa. «In realtà te l’ho detto: non mi trovo malaccio. Mi sono trasferito qui quando mi sono reso conto che non avevo più nulla che mi tenesse legato all’Italia e alla mia casa, dopo che il mio compagno si è dileguato senza avvisarmi e senza lasciarmi nessun messaggio. Diciamo che la prima cosa che ho pensato è stata proprio di andarmene il più lontano possibile.»

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Il sole primaverile era già basso e allungava le ombre a dismisura. I parigini hanno una strana idea dell’igiene alimentare: due uomini in giacca e cravatta correvano con una baguette infilata sotto il braccio senza alcuna protezione, in balia di aria, smog, a contatto diretto con la giacca. Davide era senza parole, non si aspettava che Matteo entrasse tanto nello specifico, dopo solo pochi minuti che stavano parlando. «E così ho deciso, ho lasciato la mia casa a un inquilino, un vegano mezzo fuori di testa del quale mi fido ciecamente. Le uniche cose che troverò saranno al massimo i ragni che lui non vuole ammazzare o cacciare, ma sono certo che mi terrà l’appartamento in ordine e senza combinarmi disastri. Così col suo affitto pago quasi per intero l’affitto qui e riesco a mantenermi col lavoro al museo. Faccio la guida al museo, grazie per avermelo chiesto» Davide in realtà era entrato in una fase di ipnosi ascoltando il racconto dell’amico. Matteo, la stessa persona che a vent'anni, nel pieno della ribellione, non voleva cambiare ristorante perché si sentiva più “sicuro” frequentando sempre gli stessi posti con le stesse persone. Matteo, che alla proposta di fare le ferie insieme, quando ancora si amavano alla follia, aveva risposto che non ne era sicuro perché non si sentiva pronto. Matteo, quello che, quando la madre lo aveva spronato a frequentare un corso di qualsiasi cosa purché facesse qualche attività oltre la scuola, aveva risposto che non se la sentiva perché non aveva ancora un “interesse tanto forte da spingerlo a uscire”. Non riuscì neanche a percepire il sarcasmo della battuta sul suo lavoro. Davide stava semplicemente cercando di capire se la persona che aveva di fronte era ancora il ragazzo di cui si era innamorato a diciassette anni o se era diventato un’altra persona.

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«E quando sono arrivato, grazie a un amico che aveva dei contatti, sono riuscito ad avere subito il posto al museo. Capisci, al museo Rodin. Oddio! Quante volte ne abbiamo parlato io e te. E quante volte l’avevo sognato quando ancora frequentavo il liceo. Così sono occupato tutto il giorno, e i giorni hanno cominciato a scorrere e pian piano mi sono abituato a vivere in questa splendida città. L’unica cosa che ho capito però è che non è la città dell’amore, non è la città del romanticismo. Esattamente come un’isola, una città non può contenere nulla in sé, ma sono le persone che la visitano e la vivono che portano con sé l’amore e il romanticismo. Così io, da vero parassita qual sono, approfitto dell’amore che portano qui le coppiette, lo respiro guardandole passeggiare lungo la Senna la sera, lo vedo negli occhi degli innamorati mentre mi chiedono di scattar loro una fotografia davanti alla Tour Eiffel, abbracciati. Lo sento e per il momento mi basta viverlo indirettamente.» Passarono davanti a una splendida boulangerie, la pasticceria/forno francese. Il bancone assomigliava più a una gioielleria, fatta di perle di cioccolato, brillanti di zucchero e collier di pasta dorata. Il nome del negozio era “Amandine”. «Eccoci» proruppe all’improvviso Matteo, «siamo arrivati.» Davide si guardò intorno, effettivamente il quartiere non era niente male, con i portoncini dipinti, i negozi illuminati, i marciapiedi puliti e le persone che camminavano non troppo in fretta. Non erano di corsa come nelle vie più centrali ma non andavano neanche a quel passo stanco della periferia, semplicemente camminavano. La porta d’ingresso era di un blu quasi elettrico e si aprì subito dopo che Matteo ebbe digitato il codice d’accesso sulla tastierina del citofono. C’era una scala con la ringhiera in ferro battuto ridipinto, troppe volte, con vernice nera lucida. Gli scalini erano puliti e ripidi. Cominciarono a salirli mentre Matteo sembrava sempre più in imbarazzo, ma era troppo contento di aver incontrato il suo

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vecchio amico. Al secondo piano si fermò davanti a un portoncino con spioncino d’ottone e il numero appeso: 21A. Matteo armeggiava con il mazzo di chiavi per recuperare quella giusta e Davide si accorse che era un po’ agitato. «Senti, se è un problema o se sei in imbarazzo non ti preoccupare, posso anche non conoscerlo, in fondo è stata tua l’idea.» «No, che dici! Vieni, vieni che te lo presento.» Spalancò la porta su un appartamento che era più vuoto che pieno, nel senso che c’era davvero lo stretto indispensabile del mobilio e non c’era alcuna traccia di vita, di calore umano. O di passaggio umano! «Rocco! Rocco! Sono io!» gridò Matteo entrando. Il suo tono aveva qualcosa di strano, una specie di sussiego forzato, quella dolcezza strana che si usa chiamando... un gatto. E infatti si presentò un gattone grigio, uno splendido certosino con gli occhi azzurro cielo, che miagolava allegramente e si mise subito a strusciare il fianco e la coda sul polpaccio di Matteo. «Eccolo qua il mio Rocco!» E lo prese in braccio, arrossendo completamente in viso. «Ti giuro Matteo, non so più che pensare: o sei completamente ammattito o mi hai fatto fare una passeggiata di mezz’ora per conoscere un gatto! Che cazzo mi combini?» Matteo era arrossito proprio per questo: si era reso conto di quanto fosse stata sciocca la sua idea di invitare a casa Davide, con la scusa di fargli conoscere il suo compagno. «Beh, scusami, in realtà mi sembrava più divertente quando te l’ho proposto, ora mi rendo conto che è stata una stronzata. Ti va un caffè?» Cercava di divincolarsi dal discorso e dalla situazione. Davide chiuse la porta dietro di sé e seguì l’amico in cucina. «Rocco è stato il primo a entrare in appartamento, prima dei mobili perché ci si è rifugiato appena ho aperto la porta il giorno del trasloco. Gli operai hanno cercato di cacciarlo in tutti i modi ma lui si è rintanato sul cornicione e non c’è stato verso. Così

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l’ho fatto rientrare da solo, con calma, e ho lasciato che si accomodasse. Il giorno dopo ho chiesto ai vicini se qualcuno sapeva qualcosa di questo gatto e dopo averlo descritto, tutti mi han detto che era il gatto di Arnaud, un anziano signore trovato morto qualche settimana prima. Viveva in questo appartamento.» «Matteo, come sei diventato crudo!» Davide era quasi sobbalzato sulla sedia: non credeva alla superstizione ma evitava di passare sotto le scale aperte, si fermava se un gatto nero gli attraversava la strada, gettava il sale dietro le spalle se si rovesciava sulla tovaglia e così via. L’idea che un tizio fosse schiattato nello stesso appartamento dove lui ora si trovava non gli piaceva granché, anzi lo infastidiva. «Ma smettila, cosa vuoi che sia? Oltretutto così ho potuto strappare un prezzaccio al padrone di casa, altrimenti col piffero che potevo permettermi di pagare l’affitto in questa zona! Siamo nel “sezième”, te ne rendi conto? Zucchero? Latte?» «Due di zucchero e un goccio di latte, ti ringrazio.» «Bene, vedo che bevi sempre zucchero e caffè. Ti prendo il latte.» «Ma poi, che hai fatto? Hai deciso di tenere il gatto? Ma quanti anni ha? Non avrà mica malattie, vero?» Così dicendo, Davide smise improvvisamente di carezzare il gatto, che si era accomodato sulle sue gambe per farsi coccolare. Capendo l’antifona, Rocco sgattaiolò sulla poltrona del soggiorno e si acciambellò per schiacciare l’ennesimo pisolino. «Poi visto che lui non se ne voleva andare e che la casa, diciamocelo, era più sua che mia, ho lasciato che ci abituassimo a vicenda alla presenza dell’altro. Lui sa che detesto quando cerca di leccarmi la guancia la mattina per svegliarmi e io so che lui detesta quando dimentico di cambiargli la lettiera. Devi vedere che scene! Ci siamo abituati ed è per questo che lo presento come il mio compagno di vita. Oltretutto Rocco è un nome che ricorda la

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nostra gloria nazionale. Sai quanto mi invidiano quando dico “Torno a casa perché Rocco mi aspetta?”» «Uhm, immagino. Senti, ma non è che sei troppo solo Matteo? Mi pare che tu faccia dei discorsi da gattara, quelle poverette che vivono circondate solo da gatti e ci parlano e pretendono di capire anche le risposte.» Davide alzò improvvisamente gli occhi, allarmati, e li piantò in quelli di Matteo «Ti prego, dimmi che non pensi che il gatto ti risponde!» Matteo si girò di nuovo per recuperare alcuni biscotti da un contenitore di ceramica chiuso con un coperchio di sughero, sul quale facevano bella mostra alcuni topolini e pezzi di formaggio fatti con del fimo. «Ma no, che dici... Com’è che sei ancora single invece tu? Oh, scusa, preferisci zitello?» «Ehi bello! Io sono solo per scelta. E dopo i 40 si comincia a chiamarsi zitelli, perché prima si è semplicemente “single”. Oltretutto, devo infierire ricordandoti che vivi con un gatto che chiami compagno di vita? Ti prego, non istigarmi a essere cattivo con te.» «Ah, certo. Ora dici “solo per scelta”. Molto bene, progressi davvero inenarrabili, complimenti.» E così dicendo Matteo finse un applauso rivolto verso Davide. «Quanto ti è costata la psicoanalisi per arrivare a dirlo? Non dirmi diecimila dollari come per Richard Gere in Pretty Woman! Sarebbero stati davvero buttati e soprattutto ti ha convinto di una cazzata quello psicologo!» «Bene, ricominciamo col sarcasmo... Senti ma tu invece com’è che ti sei fatto lasciare e ti sei dovuto allontanare da casa tua pur di non ricordarti chi sei?» Davide capì subito di aver calcato troppo la mano e come le parole furono uscite dalla sua bocca, ebbe un’irresistibile voglia di poterle ritirare, come si fa con un lenzuolo steso all’aria, ma si

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rese conto che non era possibile: come l’acqua le sue parole si erano versate e avevano intriso tutto l’ambiente. «Scusa...» «No, e di che?» «Non volevo essere così bastardo. Posso solo immaginare cosa...» «No Davide, non puoi immaginare. Lascia perdere. Non puoi neanche capire cosa voglia dire alzarsi la mattina e non trovare più il tuo compagno in casa. E tanto meno le sue cose. Lascia perdere, davvero.» Errore madornale. Aveva capito subito di aver toppato alla grande, ma non riusciva più a risalire dalla china, come un ragno intrappolato tra le pareti in una vasca da bagno, troppo scivolose per arrampicarvisi. «Direi che è il caso che me ne vada Matteo, mi sembra chiaro.» «Sai che ti dico? Hai ragione. Ho sbagliato io a trascinarti fin qui. Usciamo così torno al museo e tu puoi continuare la tua vacanza. Ci siamo rivisti, salutati e ora ci possiamo ridire addio.» Erano sulle scale, entrambi in silenzio. Chiuso il portoncino d’entrata, sul marciapiede, ci fu di nuovo l’imbarazzo del saluto. «Alla fine della via trovi Buolevard de Grenelle e sia a destra che a sinistra c’è una fermata della metro. Quella di Sinistra è più vicina, è Dupleix...» «Grazie, credo tornerò in albergo ora.» «Se mi dici dove alloggi ti dico le fermate, altrimenti trovi le cartine all’entrata della stazione.» «Sono in rue de la Victoire, ma mi arrangio con le fermate, oramai le conosco a memoria. Grazie del caffè Matteo. Scusami ancora. Auguri per tutto.» Abbraccio, bacio sulle guance, distacco. Com’era diverso il saluto di benvenuto da quello di arrivederci! «Grazie a te Davide. Buona vacanza e buon rientro.» Si incamminarono in due direzioni diverse. Davide si girò a guardare l’amico allontanarsi, mentre Matteo non si voltò, era

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troppo arrabbiato in quel momento e stava pure allungando la strada pur di non incontrarlo di nuovo.

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VINO, BISTROT E COMPAGNIA La metrò in quella stazione era sopraelevata e per un bel tratto si poteva godere lo spettacolo dei tetti parigini, dei comignoli fumanti stretti e lunghi, dei piccioni appoggiati ai davanzali mentre dondolano la testa ritmicamente. Si scorgevano persino alcuni giardini “segreti”, ricavati su qualche terrazza o in un cortile interno dei palazzi, e si godeva della bellezza della città. Ma Davide non guardava, semplicemente vedeva. Assente. Gli passò davanti una donna con un cagnolino microscopico, che incespicava nelle proprie gambette; un ragazzo senza fissa dimora era salito sulla stessa vettura dove lui era seduto, imbracciando una vecchia fisarmonica ammaccata. «Madames et messieurs, excusez-moi de vous derangez...» e il rumore della ferraglia aveva coperto tutto il resto. Filari di alberi svettanti, palazzi, spazio, palazzi, alberi, palazzi. Così finché si svegliò dal suo torpore allo sbalzo d’aria, e rumore, della metro che entrava nel tunnel e scendeva nelle viscere della città. Quanto è strana l’invenzione della metropolitana. L’uomo è andato a copiare il sistema più infido della sopravvivenza: le tane dei topi e i cunicoli delle talpe. Davvero meschino. Doveva scendere e cambiare linea, dalla verde doveva passare ad un altro colore, ma in quel momento era talmente assente da non capire più nulla. Un ragazzo dagli occhi neri lo stava guardando e gli sorrideva. Era vestito di tutto punto, impeccabile nel suo completo grigio scuro e la ventiquattrore di pelle nera con chiusura color argento. Non era la prima volta che Davide veniva abbordato sui mezzi

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pubblici, e soprattutto non era la prima volta che gli succedeva a Parigi. Scese senza aver contraccambiato con particolare calore al sorriso dello sconosciuto e si trovò nel bel mezzo di una stazione piastrellata anche sul soffitto. E sporca. Si guardò intorno per capire dove fosse l’uscita: si era rotto si stare sottoterra e aveva deciso di camminare. Il pomeriggio aveva ancora tanta luce da regalargli e soprattutto si sarebbe fermato in qualche “coin”, angolo di strada, a prendere un caffè o a deliziarsi con una brioche suisse, la sua preferita. Prese le scale. Una donna, che poteva essere rom, tendeva il braccio senza guardare i passanti, ripetendo la stessa cantilena incomprensibile, dove l’unica parola di senso compiuto era “aidez-moi”. L’aria lo colpì all’improvviso in pieno viso e la polvere gli finì negli occhi. Dovette girarsi di spalle e fermarsi qualche secondo per sfregare gli occhi, temendo di perdere le lenti a contatto. Poi ricominciò la salita proteggendosi il viso con una mano. Il sole effettivamente era già basso, ma la luce era buona e dava l’impressione di augurare una splendida serata, fatta di tinte lapislazzuli e rosate. «Cosa desidera?» «Un caffè lungo per favore e una suisse.» «Spiacente, le suisse sono terminate» Dannazione! «Allora mi porti solo il caffè, grazie» I passanti gli camminavano a pochi centimetri di distanza: se non fosse stato per il vetro fra di loro, Davide avrebbe potuto di certo sentirne i profumi e avvertirne le chiacchiere, ma grazie al cielo c’era quel vetro tra di loro. Una coppia era seduta di fronte a lui, comodamente accoccolata nelle sedie accostate, lui le cingeva le spalle col suo braccio e studiavano una mappa della città scegliendo la prossima meta o il ristorante dove cenare.

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Ecco cosa poteva fare: tornare all’albergo, prepararsi e prenotare all’Ambassade de l’Auvergne, cenare e concludere con la loro magnifica mousse au chocolat. Guardò se il cameriere portava il suo caffè, perché ora aveva cambiato piani e non voleva trattenersi per molto in quel locale. Arrivò il caffè, Davide lo pagò, lo bevve piuttosto in fretta, per scaldarsi un poco le ossa e uscì di nuovo in strada. La serata andò esattamente come se l’aspettava: il maître lo accolse calorosamente, come tutti gli anni, avendo imparato a riconoscerlo dopo le prime visite, e lo trattava come fosse un ospite fisso. Davide chiedeva sempre un tavolo al piano terra, nella taverna, dove i prosciutti appesi al soffitto creavano l’illusione di casa e di familiarità; le pentole di rame e i quadri di nature morte e cacciagione non lo facevano impazzire, ma erano parte del pacchetto. La mousse fu veramente la conclusione della sua cena, favolosa, e si intrattenne per qualche minuto, visto che il maitre aveva due minuti di calma nell’andirivieni di commensali, e fece due chiacchiere. Non si parla di molto con un parigino se non si è parigini. Ci si attiene al tempo, all’affollamento dei turisti e ai complimenti sul cibo. Fine. Niente dettagli personali, niente divagazioni sulla storia del locale, dei piatti o delle tradizioni che segue. Per avere queste informazioni Davide aveva dovuto diventare di “famiglia” al locale. Uscì in strada dopo aver sorseggiato una deliziosa grappa alla prugna, e il vento freddo cominciava a soffiare. La perturbazione era in arrivo e il concierge dell’albergo l’aveva già avvisato di portare con sé l’ombrello l’indomani, perché davano pioggia. Fece quattro passi nei dintorni, ma la zona non era frequentata e si ritrovò solo a un incrocio con nient’altro che un gatto randagio come testimone. Tornò alla stazione della metropolitana e fece ritorno all’albergo. Stava per varcare la soglia quando una voce familiare lo sorprese alle spalle, alla sua destra.

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«Buonasera.» Si voltò spaventato perché era assorto nei suoi pensieri e non aveva neanche notato la presenza di un’anima viva mentre camminava alla volta dell’albergo. Eppure veniva proprio dalla stessa direzione. Aveva visto qualche figura vicino alla sinagoga, poco distante, ma gli pareva che stessero entrando, non uscendo. Matteo aveva un passo svelto e si avvicinò a Davide, prendendolo sotto braccio. «Non mi vorrai dire che stai già andando a dormire!» «Ciao! Che fai qui? Come hai fatto a trovarmi?» «Per trovarti non mi ci è voluto molto. Sapevo che eri in rue de la Victoire e ho cercato in internet gli alberghi in questa via. Questo è l’unico segnalato, quindi o qui o in una camera in affitto, cosa che non ho creduto possibile. Ecco come si è ristretta la scelta. Ti aspetto da mezz’oretta.» «Sei stato fortunato, perché pensavo di uscire e star fuori anziché rientrare, e mi avresti aspettato per un pezzo! Che sorpresa! Che ti succede?» «Niente, sono stato un cafone e volevo chiederti scusa. Abbiamo avuto la possibilità di rivederci, dopo quindici anni dal nostro ultimo incontro, e mi pareva stupido sciuparla per un’incomprensione e una scivolata. Facciamo pace e usciamo a berci qualcosa, se ti va.» «Mi sorprendi molto Matteo. E non lo pensavo possibile. Sei imprevedibile!» Davide, dal gradino dov’era, a venti centimetri di altezza, guardava negli occhi Matteo, illuminato solo nella parte destra del viso dal lampione che c’era accanto. Aveva gli occhi umidi, per il freddo o per l’emozione. Davide preferì pensare per l’emozione, lo coinvolgeva molto di più. Scese dal gradino e gli porse il braccio più comodamente. «E vada per la bevuta insieme allora!» «Speravo accettassi!» «Dove si va?»

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«Che ne so? Non la conosco molto bene questa parte di città, facciamoci un giretto e poi scegliamo dove sederci!» Cominciarono a scendere rue Taitbout e si diressero verso Buolevard La Fayette. Camminavano stretti stretti, stringendosi a vicenda il braccio come per confermare che erano presenti l’uno per l’altro. «Sai che sei permaloso?» proruppe sorridendo Davide. «Certo che lo so. Tu sei stato anche senza tatto però!» «Vabbè, diciamo che siamo pari e ricominciamo da capo? Ciao Matteo! Che piacere ritrovarti! Cosa ci fai da queste parti?» «Molto spiritoso Davide, molto spiritoso.» «Se non ti conoscessi penserei che ti senti solo o stai cercando di portarmi a letto.» «E se fosse sia l’uno che l’altro?» «Beh, allora mi sorprenderesti molto.» Avevano capito entrambi che quella notte avrebbero fatto l’amore insieme, ma ciò che più interessava a entrambi era tutto ciò che ci sarebbe stato prima e, con tutta probabilità, dopo. Al contrario delle conquiste occasionali che avevano provato entrambi, stavolta non c’era il brivido dello sconosciuto, ma quello della riscoperta, del conosciuto ma forse un po’ dimenticato. Camminarono per un po’ sul Boulevard, senza dirsi nulla, assaporando il fresco della serata, guardando le macchine sfrecciare e i passanti camminare schiamazzando. Si rifugiarono in un piccolo bistrot, dove ordinarono del vino rosso e Matteo anche un toast: era a digiuno perché non aveva appetito prima di uscire, ma ora la fame cominciava a farsi sentire. «E allora, che mi dici? Che lavoro fai tu?» «Il lavoro che ho sempre detto avrei evitato come la peste: l’impiegato in serie. Grande azienda, personale sterminato, numeri per distinguerci, stipendio buono, lavoro noioso. Direi che ho stenografato alla perfezione la mia occupazione.»

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«Che ti aspettavi? Cosa vorresti fare?» «Beh, diciamo che per un po’ sono andato avanti a sognare di fare qualcosa di artistico, di creativo. Sognavo e intanto dovevo preoccuparmi di come sopravvivere, quindi ho dovuto cercarmi un lavoro che mi mantenesse. Così, per necessità ho fatto un colloquio con l’ufficio personale di una piccola azienda famigliare, mi hanno assunto temporaneamente e ho cominciato la tiritera del lavoro in ufficio. Cominci pensando che lo fai solo per un periodo, per andare avanti finché non trovi il lavoro della tua vita, e poi ti ci abitui e non ti muovi più. Non dico che tutti siano scontenti di lavorare in ufficio, perché tu sai che ci sono persone che vogliono fare quel tipo di lavoro ripetitivo e sempre uguale. Ma quelli come me, che non ce la fanno se non hanno una novità ogni tanto, soffrono la situazione e le soluzioni sono due: o ti arrendi e ti fai piacere il lavoro, oppure continui a essere insoddisfatto e cerchi sempre qualcosa di diverso, qualcosa che forse non esiste e quindi non troverai mai.» «Oh lalà, come siamo diventati grandi in fretta.» Matteo stava ingoiando l’ultimo boccone di toast e bevve un generoso sorso di vino. Si scaldò subito, dal petto fino alle tempie, e si sciolse un poco. Decise di togliersi persino la giacca che ancora indossava, pur essendo all’interno il locale. «Cresciuti in fretta dici? Per me siamo stati scaraventati nella vita senza preavviso piuttosto! Hai presente quando nascono i puledri e devono mettersi subito in piedi? Ecco, diciamo che io l’ho vissuta così: ti buttano nel mondo vero e devi saper stare in piedi perché se cadi son cazzi amari, scusa il francesismo.» Risero di cuore. «Sei sempre il solito tragico! Hai sempre avuto i tuoi alle spalle che ti spingevano e sostenevano, non posso credere che tu fossi impreparato.» «Beh, sai qual è stata la differenza? Che a un certo punto loro hanno deciso che dovevano solo spingermi, e quindi ho fatto quel

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capitombolo. E questo mi ha fatto crescere e maturare in fretta. Peccato avessi vent'anni, porca miseria!» «Ma raccontami di te. Sei sempre stato solo o c’è stato qualcuno di importante in questi anni?» «Qualcuno sì. Importante, ehm, solo uno. E difatti sono rimasto un poco scottato. Ma è stato un bel po’ di tempo fa. Sono già passati anni.» «Ah, ah» Matteo annuiva ritmicamente, guardando in viso l’amico, ma con lo sguardo era perso oltre, come se stesse pensando. «Mi spiace di averti fatto incazzare oggi, non volevo. Hai voglia di raccontarmi qualcosa o non ti va?» Matteo ritornò subitamente con lo sguardo, fissando Davide negli occhi. «Mi va di raccontarti come sono andate le cose Davide, perché lo sa solo Dio se non ho bisogno di un amico che mi ascolti e che capisca come mi sono sentito in quei giorni.» «E io sono qui per questo!» Davide si alzò e spalancò le braccia facendo un gesto teatrale per sottolineare la comicità della sua risposta: aveva letto tutta la tristezza nelle parole del suo amico e cercava di sciogliere la tensione che, in ogni caso, sarebbe seguita. «Siediti idiota! Sai che detesto le scenate in pubblico!» «Va bene, farò quel che vuoi. Sono tutto orecchie» «Non voglio raccontarti tutta la storia perché sarebbe tremendamente noiosa, ma ti racconterò solo come riassunto-delle-puntate-precedenti che ci siamo conosciuti per caso in città, io passeggiavo dopo aver fatto la spesa e lui era in bicicletta. Io e Thomas ci siamo conosciuti, piaciuti e messi insieme in tempi brevissimi. Poi siccome lui insisteva, io ho accettato di andare a vivere da lui, anche se i miei non erano d’accordo. Abbiamo convissuto per alcuni mesi, finché non è arrivata sua madre a trovarlo. Sapevo che Thomas e i suoi genitori erano originari della Polonia, ma visto che lui non aveva alcun contatto con loro

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e non ne parlava mai non mi sono fatto troppe domande e non ho cercato risposte. Quando lei è arrivata, e con mia massima sorpresa aveva le chiavi di casa sua, è scoppiato il finimondo. La madre era convinta che lui fosse studente all’università e vivesse da solo nell’appartamento che loro pagavano per lui. Quando Thomas mi aveva detto che la casa era di famiglia aveva tralasciato questi piccoli dettagli. Insomma, la madre era imbufalita per tutta la situazione, anche perché non sapeva che il figlio frequentasse uomini, essendo una cattolica integerrima, e non l’aveva neanche sfiorata l'idea di avere un figlio gay. Così, fra scenari apocalittici di “fulmini che cadranno dal cielo e voragini zolforose che si apriranno sotto i vostri piedi”, ce ne siamo andati, in due giorni, raccogliendo tutte le nostre cose e trasferendoci per qualche giorno da una coppia di amici. La situazione era critica perché io non potevo più tornare a casa, lui non aveva più una casa e noi come coppia facevamo acqua da tutte le parti. Thomas in tutto ciò aveva anche un contratto a tempo determinato e la sua sicurezza era praticamente ridotta a zero. Mi sono rimboccato le maniche e ho trovato un piccolo appartamento. L’ho comprato facendo un mutuo che mi avrebbe accompagnato fino alla morte e ci siamo trasferiti in tempi record. All’inizio è stato terribile: io non mi fidavo più di Thomas e lui non aveva idea di come fare a venirne fuori, scusandosi continuamente e cercando di non perdere la ragione. Abbiamo passato momenti terribili e la vita quotidiana con tutte le sue difficoltà, mancanze nel nostro caso perché eravamo ridotti alla canna del gas, non aiutava di certo.» «Altro vino?» il cameriere non aveva neanche aspettato che Matteo interrompesse il fiume di parole, ma si era intromesso all’improvviso. «Sì, ci lasci la bottiglia, grazie.» Davide era pronto di spirito nonostante il coinvolgimento nell’avventura dell’amico. Gli versò

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un abbondante calice, fece altrettanto per se stesso e brindarono, silenziosamente, uno alla volta dell’altro. «Insomma, fra difficoltà continue e inizi di fortuna ce l’abbiamo fatta e dopo pochi mesi Thomas ha ottenuto un’ottimo lavoro, ben pagato e con alcuni benefit che ci facevano comodo, come l’auto e il telefono, e la vita è diventata più semplice e più scorrevole. Abbiamo potuto confrontarci un po’ più serenamente e ti giuro che, per qualche tempo, ho pensato a quanto fossi stato sciocco ad aver dubitato dell’amore che Thomas nutriva per me. Mi aveva chiarito che si vergognava della situazione coi suoi genitori e che, siccome l’ipotesi di una loro visita era così remota, non gli sembrava il caso di sollevare la questione. Peccato che la visita fosse stata meno remota delle sue aspettative! Poi è successo qualcosa, di cui non ha voluto parlarmi, ma che certamente l’ha disturbato o infastidito. Sono quasi certo che avesse riallacciato i rapporti con suo padre. Sua madre non voleva più saperne perché aveva un figlio che sarebbe andato all’inferno e che “non aveva neanche l’intenzione di redimersi e salvarsi”. Suo padre deve avergli parlato e deve averlo convinto a tornare a casa o simili, perché da lì sono cominciate alcune strane discussioni tra di noi, con Thomas che mi usciva con frasi un po’ misteriose e, soprattutto, senza motivazioni apparenti. Per farla breve, una mattina di settembre, giovedì 10 per essere esatti, mi sono svegliato e non l’ho trovato nel letto. Ci eravamo addormentati tardi per seguire un film in dvd, avevamo fatto l’amore e poi ci eravamo addormentati. L’avevo sentito alzarsi dal letto durante la notte, ma capitava talmente spesso che lui soffrisse di insonnia e si alzasse per vedere la tivù o per leggere le notizie in internet che proprio non mi stupii di nulla. In realtà era tutto studiato e programmato. Lui doveva partire per un viaggio di lavoro all’estero l’indomani, così almeno mi aveva detto, e siccome si sarebbe trattenuto per una decina di giorni fuori casa aveva preparato un consistente bagaglio. Mi accorsi solo quella mattina che aveva già preparato tutta la sua roba, mi

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erano rimaste in casa solo le poche cose che erano da lavare e da stirare. Tutto era sparito, tutto. In camera noi avevamo solo gli armadi del vestiario, mentre il resto delle cose erano in una sorta di ripostiglio e, una volta chiusa la porta della camera e del corridoio, evidentemente Thomas aveva svuotato tutta la sua parte di armadiatura nella notte. Non mi ha lasciato biglietti, lettere, cartoline dopo qualche giorno dalla sparizione, indizi o altro. La mattina mi sono svegliato e lui non c’era. Ho pensato fosse già partito per il viaggio e non avesse voluto svegliarmi. Ancora sotto le coperte ho provato a chiamarlo al cellulare, ma ho sentito immediatamente lo squillo della suoneria provenire dal cassetto del suo comodino. Che idiota!, ho pensato io, si è dimenticato il cellulare a casa. Che scemo che sono stato, penso ora! Mi sono alzato per recuperare il cellulare e cercare di rintracciarlo al lavoro per capire se era già partito. La mia sorpresa è stata massima quando sul suo cellulare non ho trovato più un numero nella rubrica, nei messaggi o nelle chiamate ricevute/effettuate. Nulla, era una tavola bianca dove esisteva solo il mio sms di pochi secondi prima. Oltretutto proveniva da mittente sconosciuto secondo il suo telefono, perché Thomas aveva cancellato anche il mio di contatto dalla sua rubrica. Ho cominciato a spaventarmi, in realtà ho pensato a una trama in cui lui era una vittima, non un carnefice. Mi sono ricreduto praticamente subito quando ho aperto l’armadio e non ho trovato più nulla delle sue cose. Sono andato in cucina e non c’era nulla di strano, nessun oggetto in giro, nessun messaggio o post-it attaccato sul frigo, nessuna lettera, niente di anomalo insomma. Sono andato nel ripostiglio e lì ho avuto la conferma che non cercavo: aveva portato via tutte le sue cose, scarpe e cianfrusaglie comprese.»

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Davide era atterrito dal racconto lucido di Matteo. Parlava come se stesse raccontando le vicende di un amico comune, e non le proprie. Aveva un distacco pazzesco e accennava a dettagli senza porvi coscientemente attenzione o emozione. «Ma tu credi che io mi sia arreso? No! Il sottoscritto, un completo deficiente, ha aspettato un orario decente e ha chiamato l’ufficio di Thomas e si è sentito rispondere, con evidente imbarazzo, che non lo vedevano da una settimana perché aveva dato le dimissioni con effetto immediato e non aveva più fatto sapere nulla. Ho riattaccato senza neanche ringraziare la squinzia all’altro capo del telefono. Ringraziare di cosa? Per avermi dato una badilata sui denti? Ho cominciato a mettere insieme i pezzi del disastro e capire che, effettivamente, Thomas mi aveva lasciato e non aveva avuto neanche il coraggio e la decenza di dirmelo. Aveva fatto l’amore con me la notte precedente, oltretutto cercandomi lui, con un trasporto e una passione che da un po’ mancava, e poi durante la notte, alla chetichella, se l’era filata. Così, senza dire niente e senza disturbarsi di informarmi. Un vigliacco e un codardo. L’ironia vuoi sapere qual è? Che con la scusa che coi suoi non parlava e non li vedeva mai, non avevo un indirizzo, un numero di telefono o un modo per rintracciarli. Era sparito nel nulla. Siccome da giorni non vedevo l’auto aziendale, perché si era licenziato il bastardone, avevo chiesto come mai e lui mi aveva detto che era in officina per la revisione e che, quindi, doveva muoversi con i mezzi perché non c’erano auto sostitutive. Come diavolo aveva pensato tutto senza lasciarmi intendere nulla? Eravamo usciti a cena durante quell’ultima settimana, due volte da soli e una con amici, e il codardo aveva anche fatto la scenetta della stanchezza del lavoro e che doveva coricarsi presto per l’alzataccia mattutina. Ero incazzato nero, Davide, non puoi capire cosa non sia stata per me quella mattinata. E la beffa era che non avevo nessuno cui

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dirlo o col quale confidarmi. Alla fine, preso dalla disperazione ho chiamato mia madre e le ho detto “Mamma, Thomas se n’è andato di casa, senza dirmi niente. Stamattina mi sono alzato e lui era sparito”. “...Ma ti ha rubato qualcosa da casa? Beh, senti, meglio così. Meno male che la casa è intestata solo a te...” Non so cosa abbia detto lei dall’altra parte perché ho riappeso, avevo già le lacrime che scendevano e non avevo uno straccio di amico che potesse ascoltarmi e capirmi.» In quel momento, per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare, Matteo ebbe uno strano luccichio negli occhi e finalmente una lacrima sgorgò per correre sulla sua guancia, poi venne raggiunta da un’altra lacrima. Matteo pianse, senza singhiozzi, senza scomporsi, ma semplicemente lasciò che le lacrime scendessero senza pudore sul suo viso, mentre Davide lo guardava, visibilmente commosso a sua volta. «Dio come mi dispiace Matteo. Mi dispiace che non ci fosse nessuno che potesse consolarti o stringerti.» Così dicendo si sporse dalla sedia dov’era seduto o lo abbracciò stretto stretto, per fargli capire che lui lo capiva e c’era per consolarlo. Matteo aveva bisogno di una spalla cui appoggiarsi e poter piangere senza vergogna o ritegno e così si abbandonò sempre più liberamente al suo pianto. Il cameriere li guardava da lontano con una disapprovazione evidente e scuotendo la testa. Nel locale erano in un punto piuttosto isolato e nessuno si era accorto del loro pianto, oppure non se n’erano interessati. «Scusami, ora mi passa, giuro che ora mi passa.» Matteo si soffiò il naso in un fazzoletto di carta e, subito dopo, riprese un poco di quella calma che aveva mantenuto durante tutto il racconto. «E poi tutto ha cominciato a girarmi intorno, come quando sei ubriaco e non capisci bene cosa sta succedendo. Sono andato al lavoro, ho combinato dei disastri e mi hanno chiesto di prendere ferie finché non mi fossi ristabilito, possibilmente nell’arco di tre

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giorni. Tre giorni per rimettere insieme la mia vita e ricominciare a vivere come se niente fosse. Come un lutto, uguale, dovevo seppellire la mia vita precedente e ricominciare da capo. Peccato che non sapessi ancora che i danni di Thomas non erano finiti. Avevamo un conto in banca in comune, con due bancomat, uno ciascuno. Ti lascio solo immaginare cosa non ho pensato quando ho scoperto che, durante la settimana e la notte stessa, aveva finito di prelevare praticamente tutto il possibile tranne i soldi del mutuo. Era un galantuomo il mio fidanzato: non voleva che avessi difficoltà con la banca! Ho dovuto stringere i denti all’inverosimile per non denunciarlo ai carabinieri, perché già immaginavo le scene e le battute. Ho reagito lavorando e cercando di risparmiare il più possibile e riottenere un briciolo di sicurezza. Devo dire che più tardi, 4 mesi dopo, quando oramai ero uscito dalla calamità e vivevo già qui, è arrivato un accredito da un conto corrente polacco, prestanome ho scoperto poi, per la cifra che aveva prelevato e qualcosa in più: un interesse del 4,5%. Non sapevo se voleva ulteriormente sbeffeggiarmi o se intendeva fare l’ultimo gesto da cafone qual è. Ho preso i soldi e li ho messi da parte per le emergenze. Ma al momento insomma ho lavorato e mi sono ristabilito. Mi è venuta l’idea che non ci fosse più nulla a trattenermi dov’ero: non avevo più un compagno, non avevo amici veri e presenti, non avevo un lavoro che mi entusiasmasse, i miei li vedevo una volta ogni sei mesi per un pranzo domenicale nel quale dovevo solo dribblare le domande e dare risposte evasive, un mutuo che comunque dovevo pagare. E quindi ho preso la decisione di scappare dall’Italia, di andare un po’ in giro per trovare qualcosa di bello che mi attendesse. Sono arrivato a Parigi pieno di speranze dopo telefonate e mail interminabili con Thierry, un mio ex compagno dell’università che studiava in Italia. Lui mi ha aiutato cercandomi un posto dove stare, per qualche giorno, mi ha anche ospitato nel suo appartamento e abbiamo cercato un lavoro. Mi ha consigliato sul

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da farsi, come proporsi per un posto di lavoro, come affrontare il problema della lingua, come “prendere” i francesi. Insomma, mi ha fatto da life coach per qualche giorno, finché vinto dalla stanchezza della ricerca e spossato dai rifiuti mi sono rifugiato al museo Rodin per trovarvi un po’ di conforto. Ho sempre adorato Rodin e il suo modo di vedere la scultura, e il poterlo ritrovare vivo nelle sue opere mi dava conforto. Ho notato che presso la biglietteria accettavano curriculum e domande di assunzione, così senza grandi motivazioni ho lasciato i miei dati. Il caso ha voluto che cercassero una guida che parlasse anche italiano e così, in pochissimi giorni, ho avuto il lavoro. Nel frattempo sono riuscito a trovare anche il mio appartamento, sempre grazie a Thierry e al suo modo di fare parigino. O forse grazie al fatto che nessuno voleva andare in un appartamento dove, pochi giorni prima, era schiattato un vecchietto, ritrovato con qualche giorno di ritardo dai vicini un po’ preoccupati.» «Meno male che questo dettaglio non me l’hai detto quando sono stato da te oggi...» «E quindi tutto è partito anche qui come una routine: gli orari, la spesa, le uscite molto sporadiche e le passeggiate interminabili. È come se non mi stancassi di vedere e rivedere le stesse piazze, le stesse facciate, gli stessi alberi per un numero interminabile di volte. È come se questa città volesse adottarmi e mi stesse insegnando a riconoscerla e a conoscerla, mi dà i punti di riferimento e mi dice che lei sarà qui, sempre, senza cambiare e senza sparire. Più probabilmente questo è quello che voglio pensare io: una pietra è più fedele di un uomo.» «Dio mio, ecco perché ci tieni tanto a quel randagio!» Davide si era ripreso e cercava di rallegrare l’atmosfera. «Ecco perché ci tengo tanto a quel randagio e alle pietre di quel museo. Mi hai scoperto!» Risero serenamente e si guardarono fissi negli occhi. Matteo allungò una mano a sfiorare quella di Davide, appoggiata sul tavolino del bar.

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«Hai voglia di dormire da me?» Davide strinse le dita fra le sue «Certo che mi va. Vuoi già andare o rimaniamo ancora un po’ qui?» «Facciamo due passi, così il vento porta via un po’ di pensieri e di tristezza, e ci incamminiamo verso casa.» «Come vuoi.» Quando furono sulla strada, non ebbero più imbarazzo o indecisione sul da farsi e Matteo prese per mano Davide, come due fidanzati innamoratissimi, mentre camminavano sul boulevard illuminato. C’erano davvero poche persone intorno e, spinto da un’irrefrenabile impulso, Davide si fermò e trattenne Matteo tirandolo a sé, lo strinse fra le braccia e gli diede un bacio. Di quelli con gli occhi chiusi e il cuore che batte a mille, uno di quei baci nei quali avverti tutto il calore dell’altro e sai che anche lui sta provando la stessa cosa. Un bacio da innamorati insomma.