strada di cani

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E [email protected] T +39 333 6105387 T +86 150 2102 1969 “Strada di cani” è depositato in S.I.A.E.

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E [email protected] T +39 333 6105387 T +86 150 2102 1969 “Strada di cani” è depositato in S.I.A.E.

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le storie 00 introduzione 05 01 il fossato 07 02 a mare 17 03 ricordi di ricordi 25 04 la revolución, desde el cielo 33 05 lucciole, lanterne 39 06 in vino veritas 47 07 l’ultima lettera di dc 51 08 per francesco, in rima 55 09 sulla curva di san martino 63 10 jazz cafè 69 11 189 passi per diventare nessuno 77 12 lady bastard 83 i cani 17 foto 01 15 27 foto 02 23 35 foto 03 31 41 foto 04 37 47 foto 05 45 53 foto 06 49 59 foto 07 53 69 foto 08 61 77 foto 09 67 85 foto 10 75 91 foto 11 81 97 foto 12 87

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“I cani siamo noi. Ed è ora che cominciamo a ululare.” José Saramago “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo che valga una camminata senza fine per la strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani” Pierpaolo Pasolini “If dogs run free, why not me Across the swamp of time?” Bob Dylan “+ cani, - tv” Scritta murale in Via Garofani, Pisa

“...for I am a rain dog too” Tom Waits

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Vorrei raccontare ogni cielo che ho visto, ogni nuvola passare, i colori, le carezze, le lacrime, tutto. Il perché di preciso non lo so. Forse perché credo che dio abbia davvero la barba bianca e ci aspetti di là per chiederci di raccontargli tutto quello che abbiamo visto e allora mi preparo, che di scene mute ne ho già fatte abbastanza a scuola.

Raccontare come quando la televisione non c’era ancora

e non aver niente da raccontare voleva dire non aver vissuto. Magari cose da poco, come gli angeli di Wenders, però invece che in cima ai tetti di Berlino stando seduti davanti al caminetto, castagne e vino rosso, Dylan e Tom Waits che cantano in coro Forever Young e Dean Moriarty che li guarda, ride, esclama “They know time!” e poi se ne va a continuare il suo viaggio infinito. E noi con lui, che anche noi siamo gente di strada. Nemmeno tanto per scelta: è che prima di noi c’erano case in cui stare, dopo ne resterà solo una virtuale e fatta di niente, e a noi capitati nel mezzo tocca star fermi agli incroci. A volte a un passo dalla meta, un attimo dopo perduti di nuovo per colpa di piogge improvvise che cancellano via le poche pisciate allegre con cui credevamo di aver marcato per sempre i quattro angoli stretti della nostra vita.

Quanto al tempo, do we really know time? Uno ci si può

buttar dentro a capofitto ma arrivare a conoscerlo davvero, chissà. Però a vent’anni cantavamo time is on my side e perlomeno adesso abbiamo capito che il tempo non sta dalla parte di nessuno, che si limita solo a passare correndo verso il grande buio o forse la grande luce - chissà, mi piacerebbe saperlo, mi piacerebbe sapere tante cose che non so. Allora che almeno sia bello guardarlo passare (sempre ammesso che esista davvero, il tempo), tanto bello da aver voglia di raccontarlo e far sorridere dio. Quanto al resto, come dicono in Spagna: a vivir, que son dos días. Barcelona, día de San Jordi 2008

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...la sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, il destino, quando, d’un tratto, esplode.

Alessandro Baricco, Oceano Mare

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Il fossato

Salgo sulla collina solo quando ne ho bisogno. Non lo decido nemmeno io, mi portano le gambe, sanno che qua sono solo e c’è silenzio, due cose che mi fanno bene. Arrivato sulla cima mi siedo sempre nella stessa posizione, con le spalle al villaggio mi tengo davanti il fossato e poco più in là il filo dell’orizzonte che lo divide dal cielo. Mi porto dietro una testa piena di complicazioni e l’orizzonte mi aiuta a svuotarla, forse perché è una linea appena percettibile, una cosa semplice. Infatti guardo l’orizzonte e dopo poco un liquido nero inizia a colarmi dalle orecchie, dalle orecchie mi scende sul collo, s’infila tra la schiena e la camicia, la camicia si bagna e mi si appiccica alla pelle, mi sento sporco, sento sporco anche il mondo che pure in altri momenti mi sembra una cosa splendente. Quando il liquido nero termina di traboccare resto lì senza muovermi, penso a niente e aspetto che il vento mi asciughi; e quando il vento ha finito mi alzo e torno a casa. Vengo per svuotarmi e perdere materia molle, per questo sono qui, è il mio desiderio più forte. A quindici anni volevo diventare come la pietra di un ruscello, duro, levigato, invulnerabile, senza grasso e con pochi nervi, capace appena di sentire la carezza dell’acqua. Non ci sono riuscito e pago pegno.

All’improvviso scivolando sul silenzio mi arriva all’orecchio una voce che conosco. Non so da dove viene, so che penso: è meno lontano di quello che credevo. È la voce di mio nonno, il nonno contadino con degli occhi azzurri da sognatore appoggiati su una testa che considerava i sogni un lusso inutile, la pelle ispida e una voce sabbiosa e piena di fumo che però adesso mi arriva addolcita dal tono mieloso che usano i vecchi quando parlano ai bambini. La voce mi dice di guardare il villaggio. Dice: guarda, Dio ci tiene sul palmo della mano e ci protegge, le montagne intorno a noi sono le sue dita, le dita di Dio, le vedi pipi? Continua: guarda giù, si vede la linea della vita della mano di Dio, era la linea del fiume ma un giorno Dio la trasformò in un cerchio, il simbolo dell’eterno, e quel

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giorno nacque il fossato. Guarda il fossato, guarda come brilla, guarda com’è bello pipi.

Mi ricordo che ogni anno a settembre avevamo un rito da

compiere, mio nonno ed io. Iniziavamo a prepararlo con giorni d’anticipo, tenevamo tutto pronto aspettando il momento adatto, non so nemmeno come facessimo a sapere che il momento era arrivato, so che la sera prima mio nonno mi diceva di prepararmi e la mattina seguente veniva a prendermi che fuori era ancora buio e andavamo sulla collina di fronte a quella del villaggio per essere i primi a vedere il tramonto dell’estate. Questa valle è piena di un ciclamino rosso che si trova dappertutto, nei prati, nei campi, nei boschi, perfino nei giardini di casa, migliaia e migliaia di piante di ciclamino, quando a settembre arriva il tempo della fioritura dal giorno alla notte le colline cambiano colore tingendosi di porpora e quando c’è vento a guardarle da lontano sembrano leggere come nuvole. Due settimane dopo le piante sfioriscono ed è autunno: il tramonto dell’estate dura poco, come un tramonto vero, ma è struggente come sanno essere a volte le cose brevi. Arrivavamo all’alba, aprivamo lo zaino con le provviste per la colazione e aspettavamo che il sole ci mostrasse il miracolo; dalla collina vedevamo la valle e il villaggio e il fossato, mio nonno diceva sempre che era il posto più bello che avesse mai visto. Io sapevo che in vita sua non ne aveva mai visto nessun altro ma non ne ridevo, mi sembrava di capire che cosa voleva dire.

Il fossato in realtà non lo aveva costruito Dio ma mio

nonno e quelli come lui, che avevano barattato gli attrezzi da contadino per una tuta azzurra da operai portata con orgoglio, forse perché sapevano quanto gli era costato il cambio. Nati nell’unica valle tra le montagne che separano il nord dal sud: al centro della valle due colline, sulla collina più alta il villaggio, e nel cerchio tra le montagne e le colline un fiume che disegnava volte incerte, animale sperso in cerca di un mare inavvertibile e lontano.

Il villaggio era punto d’incontro di mercanti, i mercanti vi

stabilirono uffici, con gli uffici arrivarono i soldi anche se ad arricchirsi davvero furono in pochi, gli altri si godevano le

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briciole e per consolarsi dicevano di star meglio di prima. Per mio nonno il miglioramento fu questo: da giovane per far colazione doveva uscire nei campi col sale in tasca, cogliere un pomodoro, insaporirlo e prenderlo a morsi, invece adesso poteva permettersi di restare in casa, tostare il pane avanzato dal giorno prima e tuffarlo unto di burro nella tazza del caffelatte. Gli dissero che quello era il progresso e di goderselo.

Ma con l’arrivo dei soldi iniziarono i furti. S’incolpavano

quelli dei villaggi vicini, gelosi del progresso, si diceva che venissero a rubare di notte strisciando come fanno i serpenti. La maggioranza degli abitanti non disponeva di grandi proprietà ma quelli che si erano arricchiti gridarono che l’intero villaggio era in pericolo, e siccome è più veloce la paura del pensiero fu approvato un piano per proteggerlo. In realtà quelli che stavano ai posti di comando il piano lo avevano in mente da tempo ma per farla sembrare una decisione scientifica lo fecero firmare da due ingegneri idraulici e un mezzo battaglione di periti ed esperti. Visto che il fiume sembrava non decidersi a uscire dalla valle lo avrebbero aiutato a rimanerci, trasformandolo con un sistema di chiuse in un lago dal fondo tanto irregolare che solo i suoi progettisti ne avrebbero conosciute le rotte navigabili; il lago avrebbe circondato la collina facendone isola e la tranquillità sarebbe tornata nel villaggio. A tutti i contadini che per far posto al lago avrebbero perso il proprio campo fu promesso un impiego in cantiere, il pane da millenni tappa le bocche e tutti i dubbi furono messi a tacere. Per finire i lavori ci vollero anni e a pagare fu tutto il villaggio anche se chi gestiva i lavori riprendeva con una mano moltiplicato per cento quello che aveva dato con l’altra. Il fossato – come il lago venne battezzato dal popolo nel villaggio – lo aveva fatto mio nonno, non Dio, e per questo gli sembrava tanto bello: perché dentro ci vedeva la sua vita.

Io sono diventato un ingegnere idraulico ma mio nonno non l’ha mai saputo. Un giorno il suo cervello decise di dare una bella rimescolata alle carte e dal mazzo tirò fuori un mondo tutto suo, a volte simile al mondo reale e a volte no, un mondo in cui sua figlia era tornata bambina e di conseguenza io non potevo esistere, o meglio non potevo esistere ancora. Così

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smise di chiamarmi pipi e iniziò a guardarmi inarcando ogni volta le sopracciglia e chiedendomi: chi sei? però poi mi lasciava stare al suo fianco e m’insegnava col dito le piante del giardino. Non si sapeva più stringere la cintola, i pantaloni gli scivolavano giù poco a poco lasciandolo in lunghe mutande di lana. Io allora lo aiutavo a ricomporsi invidiando la sua totale indifferenza alla vergogna. Morì in questo mondo tutto suo, in cui era lui che dettava le regole di ogni cosa, e senza mostrare rimpianti: morì, se così si può dire, con leggerezza. Peccato, perché dicono che io sia un buon ingegnere idraulico e certamente gli sarebbe piaciuto sapere che lavoro al fossato, questo fossato così bello, la linea della vita della mano di Dio.

Quando iniziarono le prime anomalie e le barche

cominciarono a incagliarsi in punti in cui erano sempre passate senza problemi il Direttore mi convocò nel suo ufficio. Aprii la porta e mi trovai di fronte il Presidente, che iniziò a parlare come se io fossi lì solo per prendere appunti: disse che il fossato non aveva nessun problema e di conseguenza nessuno doveva preoccuparsi, al massimo un lavoro di manutenzione, non certo un’emergenza. Per il bene di tutti era importante soprattutto evitare allarmi e non entrare in dettagli perché la gente non intende d’ingegneria e quando ascolta cose che non capisce tende a spaventarsi senza ragione. Il fossato avrebbe protetto il villaggio ancora per molte generazioni, mi disse stringendomi la mano con l’aria di star già pensando ad altro. Il Direttore mi comunicò che avevo tre mesi di tempo per presentare le mie osservazioni in forma strettamente riservata.

Mi accorsi subito che l’acqua si stava ribellando.

Approfittava delle caratteristiche del terreno per scavarsi l’uscita, forse sentiva il richiamo del mare, un’urgenza. Capii che non sarebbe stato possibile continuare a ingannarla, che dovevamo lasciarla andare. Presto il fossato sarebbe scomparso, potevamo solo prepararci.

Allo scadere dei tre mesi presentai la mia relazione

confidenziale al Direttore. La settimana successiva era previsto un incontro pubblico e avrei dovuto io stesso illustrarne i risultati: la gente crede più ai tecnici che ai politici, soprattutto se non sa che i politici hanno comunque scritto il copione.

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Sapevo che il lago era l’assicurazione sulla vita del Presidente: lo offriva ai benestanti a protezione dei loro affari e ai poveri a consolazione delle loro miserie, muro d’acqua oltre il quale qualcuno stava peggio di loro. Però io avevo preso la mia decisione, non potevo tradire la gente del villaggio: avrei detto la verità e lo misi per scritto. Il lago presto sarebbe sparito, non era più tempo di usarlo come merce di scambio per ottenere favori. Perciò mi aspettavo di dover affrontare giorni complicati e invece quelli che seguirono furono i giorni più tranquilli della mia vita: nessuno mi chiamò.

In compenso ricevetti un invito per una festa. L’invito era

firmato dal Presidente, la festa si teneva nella sua residenza la sera prima dell’incontro in cui avrei dovuto commentare la mia relazione davanti al villaggio. Pensai di non accettarlo perché mi sembrava di cattivo gusto presentarmi a casa di un uomo contro il quale il giorno dopo avrei emesso una sentenza di morte. Ma il Presidente mi aveva invitato conoscendo la sentenza e mi convinsi che se avesse voluto eliminarmi non lo avrebbe certamente fatto a casa sua, che al massimo avrebbe approfittato dell’occasione per minacciarmi. Fossi stato pescatore avrei saputo che dietro ogni invito c’è una rete ben nascosta.

La residenza del Presidente era molto più bella di quello

che mi aspettassi, dato che in giro si diceva che fosse sprovvisto di buon gusto: ogni angolo della casa era arredato con un’eleganza tanto ricercata da sembrare casuale, evidentemente poteva permettersi buoni consiglieri. Mi guardai intorno, gli invitati non erano all’altezza della casa che li ospitava: potevano comprare abiti eleganti ma non l’eleganza con cui avrebbero dovuto indossarli. Era l’inizio dell’estate e la porzione di parco che dava sulla residenza era illuminata. Il Presidente mi dette la mano con un sorriso e mi disse di godermi la serata.

La vidi mentre stavo parlando con un vecchio compagno

d’università. Apparve sulla veranda vestita di bianco, pensai che era una donna che non aveva bisogno di comprarsi l’eleganza. Aveva un modo speciale di sorridere, quasi orientale, un sorriso che mi parve un fiume di seta.

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Incrociammo lo sguardo per un momento. Il mio vecchio compagno d’università si accorse che non lo stavo più ascoltando e trovò subito il modo di vendicarsi: “Un uomo fortunato, il Presidente”, mi disse sorridendo.

Mi avvicinò durante il ballo. Suonavano un tango, mi

chiese di ballare. Il tango è invito e avviso: t’invita ad arrenderti all’amore e ti avverte che lo perderai. Pensai al tramonto dell’estate, tutto intorno a me divenne color porpora.

Come forse altri uomini avevo una donna dei sogni ed ero

certo che non la avrei mai incontrata. Pensavo che quella donna esistesse solo nella mia mente, o che ci fossimo conosciuti in un’altra vita in cui dovevamo esserci amati molto: non mi sarei mai aspettato di incontrarla nel mio villaggio. Quando iniziammo a ballare riconobbi l’odore della sua pelle. Per un po’ non parlammo, poi mi chiese se credevo ai sogni. Stavo per risponderle che era lì che l’avevo incontrata ma mi sembrò una frase da romanzo rosa, restai in silenzio. Lei mi disse che aveva dei sogni e che li nascondeva in ogni angolo di quella residenza aspettando che qualcuno li riconoscesse in un colore, in un oggetto lasciato su un tavolo. Disse che i sogni sono il nostro vero sangue, che ci corrono dentro e ci tengono vivi anche se non arrivi mai a vederli, e che sono delicati; che ci sono sogni condivisi tra molti, ad esempio le città, e sogni condivisi in due, ad esempio l’amore, per quello i gitani quando dichiarano il loro amore si scambiano il sangue dei polsi, perché così scambiano anche i loro sogni. Disse che distruggere i sogni è come strappare via il sangue dal corpo delle persone, e distruggere i sogni di un villaggio è come strappargli l’anima. Ero cosciente che quella donna stava entrando nel giardino delle mie convinzioni e che non ne aveva nessun diritto, ma lo faceva portando in braccio sogni e sangue e seta e la lasciai entrare. Anche tuo nonno aveva un sogno, mi disse, non distruggerlo. Mi chiese se la capivo. Non risposi. Allora mi disse che non c’era bisogno di rispondere, ma che se fossi stato capace di rispettare i sogni ne avremmo potuto scambiare uno insieme, mescolare il nostro sangue. Il tango era alle ultime note. Mi disse di aspettarla al confine del parco. Ci amammo sull’erba, fu lei che mi prese, respirava piano, come per trattenere il piacere. Quando si accorse che io non

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potevo più trattenere il mio appoggiò le dita sulle mie labbra come a ricordarmi di non gridare il suo nome. Forse le dita le dissero che stavo piangendo: sapevo che un attimo dopo l’avrei perduta, il tango mi aveva avvertito.

Alla presentazione pubblica della mia ricerca dissi che il

fossato non correva nessun pericolo e avrebbe continuato a proteggerci ancora per moltissimi anni. Mio nonno sarebbe stato contento di sapere che non aveva regalato la sua vita per niente. Al Direttore dissi di affidare ad altri i lavori di riassetto che si fosse ritenuto opportuno mettere in opera. Si, mi disse, capisco, ha bisogno di riposo, ha fatto molto per noi, ma in fondo ce lo aspettavamo, sapevamo di poter contare su di lei.

Adesso sono qui e guardo il fossato, spalle al villaggio, mi

siedo sempre così quando vengo qua da solo, anche se adesso non sono solo, c’è mio nonno seduto accanto a me. Ha una tuta da lavoro e le mani sporche di morca, tra le dita tiene una sigaretta e anche lui guarda il fossato o forse la linea dell’orizzonte che lo tiene separato dal cielo. Guarda come brilla, pipi, mi dice. Poi tira la sigaretta, si alza in piedi, comincia a correre, apre le braccia e si getta lungo il pendio della collina, alzandosi lentamente da terra e volando via verso il fossato, la tuta azzurra che si confonde con il cielo. Sono contento che mi abbia riconosciuto, adesso si ricorda chi sono. E sono contento che abbia imparato a volare. Aspettami nonno, gli dico, lasciami dare un’ultima occhiata al fossato, poi vengo a volare con te.

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“Le cose migliori dell’amore accadono per caso, si capiscono dopo.”

Erri De Luca, Il contrario di uno

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A mare Pensa che strano: leggo la tua lettera d’amore e mi viene

in mente un momento della mia vita in cui l’amore non c’era ancora. L’apparente mancanza di logica nella relazione causa - effetto lì per lì mi disturba, poi ci rifletto meglio e mi dico: è naturale, l’eccesso porta al suo contrario (lo confesso: mi piace elaborare teorie, davanti a un nuovo evento provo il desiderio di portare alla luce la legge naturale che lo regola, solo allora me ne posso andare via tranquillo. Qui interviene una legge naturale, io che ci posso fare? Uno va via leggero. Lo diceva anche Brecht: preoccupati solo dove non interviene una legge naturale). Secondo questa mia teoria dell’eccesso se l’amore è il mare allora la tua lettera è stata un’onda anomala che mi ha centrato in pieno mentre stavo esplorando l’orizzonte dalla coffa della mia barca, gettandomi in acqua senza pietà; e per salvarmi ho dovuto cercare in mezzo all’oceano amniotico dei miei ricordi un’isola su cui fare naufragio.

(Un tempo per inventarsi una teoria c’era bisogno di

dimostrare un sacco di teoremi, oggi invece basta tenersi pronti due esempi azzeccati. Funziona, lo giuro, ed io gli esempi azzeccati per la mia teoria dell’eccesso ce li ho. Ad esempio dico: guarda le favole, più sono piene di eventi strabilianti e più ti fanno dormire. Oppure dico: guarda le preghiere, quasi tutte nate da un peccato di troppo – per di più è vero anche il contrario, a volte troppe preghiere conducono al peccato, come con il telepredicatore americano che riversava sopra dio tonnellate di preghiere affinché proteggesse l’unione matrimoniale eterosessuale e poi con i soldi delle collette ci pagava l’amante gay. E infine l’esempio su cui cadono anche gli ultimi scettici, la televisione. Mi basta dire: pensa alla tele, più canali ci danno più rincoglioniamo a guardarla, dimmi tu se la teoria dell’eccesso non è vera. Tutti ridono, mi danno ragione e intanto tengono il telecomando ben nascosto dietro le spalle).

Ti ricordi quello che dicono, che il battito d’ali di una

farfalla a New York può provocare un tifone a Pechino? La tua

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lettera d’amore era una farfalla dalle ali di carta il cui battito quasi inavvertibile è bastato a provocare l’onda anomala che mi ha portato fuori rotta. Quando inizia un naufragio? Quando l’onda ti sorprende o quando da un soffio di vento nasce l’onda che ti sorprenderà? Oppure ancora prima, quando tiri su le vele della tua barca e prendi il mare? Avviso ai naviganti: entro in una stanza piena di gente dove ci sei solo tu, bella in piedi là in fondo, quasi appoggiata contro la parete, con la tua tristezza nascosta male dietro il sorriso e le mani nascoste meglio dietro la schiena. Il faro avverte della presenza di bassi fondali, il capitano è ottimista, la navigazione procede. Usciamo insieme da quella stanza per entrare in un bar pieno di gente dove sia finalmente possibile sentirci soli. Affiorano scogli, navigazione a vista, il cuore del capitano batte veloce. Conosci il gestore, gli chiedi un tavolo tranquillo sapendo che è la richiesta e non il tavolo a creare intimità. In quel bar parliamo, ci guardiamo, ci sfioriamo le mani (“il primo contatto” lo chiami tu provocando un brivido che distrae il capitano, forse per quel tuo tono di voce morbido e un po’ roco da poche ore di sonno e molta nicotina, forse per la promessa implicita di altri contatti a venire, forse per entrambe le cose) e ci illudiamo di essere i primi a giocare un gioco che invece è un gioco antico, più antico degli uomini. Il capitano perde il controllo della nave, o meglio, il capitano lascia che la nave vada dove vuole. Intanto fuma la sua pipa carica di tabacco aromatico, si sente personaggio di una storia, scruta l’orizzonte lontano senza vedere gli scogli che già affiorano sotto la prua. E il giorno dopo basta che una lettera d’amore batta lievemente le sue ali di carta per liberare l’onda anomala che lo tira giù dal ponte e lo sbatte su un’isola su cui si risveglia bambino.

(Io poi alla teoria dell’eccesso ci credo davvero, anche

perché vedo gente ricca che sbava davanti al baccalà e gente povera che s’indebita al venticinque percento l’anno per andare in vacanza a Ibiza, e da buon fedele uso questa teoria per mio personale tornaconto. Ad esempio quando sono in un posto dove non voglio essere chiudo gli occhi, invoco la teoria dell’eccesso e aspetto: dopo poco riapro gli occhi e mi ritrovo su una spiaggia deserta. Naturalmente il mio corpo è ancora lì ma la mia mente è sulla spiaggia e nel complesso sto meglio. La spiaggia è sempre la stessa, quella del Gombo, tu non la

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conosci ma so che ti piacerebbe perché è stretta tra due fiumi e il mare, il mare sembra una testa che le si appoggia sul grembo e i fiumi due braccia che la accarezzano e la avvolgono, insomma è una spiaggia femmina che accoglie e si lascia prendere, la sentiresti sorella. Poi è silenziosa, grigia, piena di resti portati dal mare, una spiaggia da film di Marco Ferreri; a vederla ti ricorderebbe le sere in cui pensi che la vita è come un grande luna-park con tutte le luci spente, lo so che ti succede perché succede anche a me, a volte la vita sembra davvero un luna-park fuori stagione: e per questo la sentiresti complice oltre che sorella).

Esco dal gorgo provocato dal battito di ali della tua

lettera d’amore. Sono un bambino di otto anni con un mangiadischi rosso e i 45 giri del disco per l’estate, Acqua azzurra acqua chiara, Sognando California e Tema, dei Giganti (“Un giorno qualcuno/ ti chiederà: cosa pensi dell’amor?.../..credo che l’amor/ sia la più bella cosa che/ ti può capitar/ ma quel che credo è poi verità?...”, sarebbe una canzone perfetta per fare da colonna sonora a questa lettera, peccato che tu non abbia idea di chi siano i Giganti, e d’altronde dubito anche che tu abbia mai posseduto un mangiadischi). È estate e sono in vacanza (allora si diceva: “in villeggiatura”) al Tonfano, tra Viareggio e Forte dei Marmi, estremi geografici chic e perciò buoni al massimo per una passeggiata e un gelato di una Versilia che in mezzo a questi due estremi diventa invece accessibile a una famiglia che sta bene senza essere ricca; al Tonfano si sta quindici giorni in affitto, mia madre mio fratello mia cugina e io, mio padre viene su da Pisa per il fine settimana e per ferragosto; la sera mia cugina va a ballare, a volte andiamo al cinema all’aperto. Nel fine settimana mentre noi dormiamo forse mio padre e mia madre fanno l’amore. Però questo non si sa, perché a un certo punto qualcuno o qualcosa ha piantato proprio in mezzo a loro un lungo chiodo arrugginito di quelli che un tempo si usavano per i portali delle chiese, con la testa grossa e il corpo quadrato, chiodi fatti per restare conficcati cent’anni; e da allora questo lungo chiodo arrugginito li ha tenuti separati anche quando erano uno accanto all’altro. Poi la morte ha tirato via il chiodo ma ormai era troppo tardi; quell’estate non

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so se il chiodo c’era già o no. Magari dormono insieme ma per via del chiodo non fanno l’amore.

(A volte al Gombo ci vado anche in sogno. È un sogno

ricorrente, esco dalla foce dell’Arno su un transatlantico enorme e dall’orizzonte in lontananza mi vengono incontro onde ancora più enormi; la spiaggia del Gombo è l’ultimo segno familiare che vedo prima di entrare in mare aperto, la guardo allontanarsi mentre mi chiedo se il transatlantico e io con lui ce la faremo a resistere alle onde. Però il sogno s’interrompe sempre prima che le onde arrivino, non saprò mai la risposta. E al Gombo sempre in sogno ci ho incontrato mio padre. Indossava vecchi vestiti ancora eleganti ma consumati e mi diceva che viveva lì sulla spiaggia con i suoi amici, tutta gente che a un certo punto della vita si era incagliata in certi vicoli senza uscita, una comunità di naufraghi di terra. E da quando so che ci vive mio padre il Gombo mi piace ancora di più).

Al Tonfano passo le vacanze giocando partite

immaginarie contro l’Anderlecht o il Benfica in cui io sono Gigi Riva e segno cinque gol nel primo tempo e altri sei nel secondo; gli spalti mi acclamano ma io trovo tempo di dedicarmi anche alla scienza, colleziono insetti. Li cerco in giardino e li infilo in una busta di plastica trasparente piena di alcol per ucciderli senza rovinarli, così nella collezione fanno bella figura. Inoltre in quell’estate in cui per un motivo che mi sfugge tutti vogliono fare l’amore e non la guerra io credo di essere innamorato di una ragazzina di tredici anni che vive in Via Piave 13 a Livorno. Un giorno lo confesso a mia cugina che ha intorno a diciott’anni e un rapporto ormonale con i sentimenti certamente più evoluto del mio; lei mi guarda con un sorriso ironico e mi dice: il tuo non è amore, lo capirai quando sarai grande. Lì mi rendo conto che l’amore è una roba complicata. E come se non bastasse subisco un sopruso ogni giorno: ogni benedetto dopopranzo mia madre m’infila nel letto a castello, tira giù l’avvolgibile della finestra, mi dice ora dormi e poi se ne va in giardino a fumare Muratti Ambassador, leggere riviste femminili e ascoltare Awanagana su Radio Montecarlo. Ora, se uno mi dice ora dormi io per punto preso tengo gli occhi aperti. Però in quella camera entra una linea di

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luce da una fessura dell’avvolgibile, dentro questa linea di luce fluttua un pulviscolo magico che per qualche motivo non se ne cade giù e da una pineta vicina arriva il canto ovattato e ipnotico delle cicale, canto e pulviscolo mi ammaliano, gli occhi si chiudono lentamente incuranti dell’orgoglio mentre nel sacco di plastica accanto al letto i miei insetti agitano in aria sempre più lentamente le zampette e anche loro si addormentano con me, a pancia in su, entrando nel niente avvolti da effluvi alcolici.

Perché la tua lettera d’amore mi ha trasportato su quel

letto a castello? Forse perché era fatta di parole serene come la penombra di quella camera, dolci come quel canto di cicale, leggere come quel pulviscolo che non cadeva mai giù. O forse perché hai usato un verbo bellissimo e allo stesso tempo infantile: hai scritto che abbiamo amoreggiato, che è un po’ come dire che abbiamo giocato all’amore come due bambini. Amare è verbo riservato agli dei, amoreggiare invece è verbo adatto a esseri come noi che commettono errori e sono irrimediabilmente impermanenti; il verbo amare non conosce limiti di tempo, amoreggiare invece è il verbo dell’attimo, l’onda che accarezza la battigia, il bicchiere di vino che scivola sulla fatica del giorno. Amare è verbo di veglia che non ammette distrazioni, mentre amoreggiare è verbo che t’invita a chiudere gli occhi, che ti sussurra di non preoccuparti perché la vita fuori continua e comunque un giorno finisce senza che tu ci possa fare nulla, per cui vale la pena dormirci sopra. E qui su questo letto a castello guardo questo bambino di otto anni sdraiato accanto a me, nella penombra, che tiene la tua lettera d’amore tra le mani; e questo bambino a sua volta mi guarda, per niente sorpreso dalla mia presenza, e mi dice: “nella mia vita, come mia cugina mi ha appena informato, non c’è ancora amore; nella tua a quanto sembra ce n’è anche troppo. Applichiamo la teoria dell’eccesso, chiudiamo gli occhi. Tanto sappiamo tutti e due dove andare”.

Quando riapro gli occhi siamo seduti sulla spiaggia del

Gombo, questo bambino ed io, e mi chiedo se per caso non dovrei dirgli che io sono lui. Ma immagino che mi farebbe troppe domande, e comunque ho l’impressione che non ci sia bisogno di parlare. Lui tiene ancora tra le mani la tua lettera e fa quello che fanno i bambini quando vogliono scoprire come

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sono fatte le cose: la rompe. Io lo guardo in silenzio senza disturbarlo. Con le piccole dita strappa minuscoli quadratini di carta, in ciascuno dei quali resta solo una lettera, per esempio una r, una o oppure una s, e io penso che con tutte quelle vocali e consonanti si potrebbero scrivere centinaia di altre lettere d’amore ma che nessuna sarebbe uguale alla tua. La tua lettera d’amore, adesso che non esiste più, resterà mia per sempre.

Il bambino tiene i suoi quadratini di carta tra le mani a

coppa perché non se ne volino via, come se sapesse che quella lettera in realtà è una farfalla e la tenesse tra le mani con delicatezza per non sciuparle le ali. Si alza in piedi, cammina verso il mare, entra in acqua fino alle ginocchia; l’acqua fa un rumore quieto contro le sue gambe, un rumore che sembra un saluto, diverso dagli altri rumori del mondo. Allora il bambino apre le mani e la farfalla vola via; centinaia di quadratini di carta si appoggiano sull’acqua come se fosse un cuscino, e l’acqua li culla come se fosse una madre.

Il bambino ritorna a sedersi accanto a me. Chiudiamo di

nuovo gli occhi. Passa molto tempo, non saprei dire quanto. Quando riapro gli occhi il bambino non c’è più. Immagino

che sia tornato nel suo letto a castello e che la vita abbia ripreso a scivolargli addosso; so che un giorno lo rivedrò di nuovo, che sarà un attimo prima di morire e che forse in quell’attimo ci sorrideremo e staremo in pace. Sulla superficie dell’acqua non si vede più nessun quadratino di carta. Forse il mare con tutte quelle vocali e consonanti starà scrivendo una sua lettera d’amore. Mi piacerebbe leggerla, ma chi sa dove sarò quando il mare avrà finito di scriverla.

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“Tu devi trovare quello che io non ho mai avuto il coraggio di andare a cercare”, mi disse, “quello che tutti dovremmo aver il coraggio di cercare.” “Cosa?” domandai. Mi rispose: “La tua Katmandu” Kurt Vonnegut, Il grande tiratore

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Ricordi di ricordi Ho ritrovato ora la tua lettera nascosta tra le pagine di un

libro, scusami se ti rispondo così tardi. Prima di aprirla l’ho perfino accarezzata con le dita che a volte sanno leggere meglio degli occhi, poi l’ho tirata fuori dalla busta e ti confesso che mi sono commosso a rivedere la tua calligrafia, la emme maiuscola fatta come due grandi u unite con una stanghetta in basso come quella della q; e mi sono ricordato del giorno in cui me la desti nella cucina di Via del Galloro, dell’odore di caffè del dopopranzo che c’era nell’aria, di Luciano che seguiva il volo delle mosche fuori dalla finestra con occhi precisi da radar della contraerea (non ho nemmeno mai avuto tempo di chiederti perché lo avevi chiamato Luciano quel gatto, magari credevo di avere cose più importanti da fare) e di te seduto a fumare aspettando che finissi di leggere. Mi era piaciuta e avevo voglia di abbracciarti, rimandai a un’altra occasione. Da giovani si crede sempre di avere un’altra occasione, si tira il tempo.

Nella tua lettera mi dicevi che ti eri svegliato, eri andato

ad annaffiare le piante in terrazza con la mise che piaceva tanto a mamma (pantaloni del pigiama, canottiera, barba da fare, capelli arruffati) e che parlando con le piante ti eri accorto che a noi da piccoli non avevi mai raccontato storie per farci addormentare la sera. Dicevi che forse era perché non avevi mai capito chi sono i buoni e chi sono i cattivi, distinzione che apparentemente conta nelle storie per bambini, e che oltretutto i cattivi che avevi incontrato tu erano sempre belli e ben vestiti mentre invece nelle storie per bambini i cattivi devono essere brutti e avere i denti gialli. E pensare che avevi passato la vita a raccontare storie a tutti, tanto per rimettere le cose un po’ in ordine, per farle sembrare come dovrebbero essere; “per cambiarle no, non credo che sia possibile, il primo che c’ha provato – le chiamava parabole - l’hanno attaccato a una croce e duemila anni dopo c’è ancora gente che va a messa solo per controllare che non si sia mosso da dove sta”, dicevi; eppure a noi no. Però volevi rifarti, raccontarci un’ultima storia. Lasciarci

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il ricordo di un ricordo, dicevi, perché era una storia che avevi ascoltato da ragazzo, quando a Pisa c’erano ancora gli americani che venivano a comprare il vino in bottega e ti lasciavano di mancia due Pall Mall.

A quel tempo i clienti abituali arrivavano in bottega a

mezzogiorno col pentolino del mangiare fatto in casa, compravano il quartino e si sedevano a desinare a un tavolo in cui ci fosse posto; e se uno di loro doveva andare in bagno prima di alzarsi da tavola sputava nel piatto perché nessuno dei commensali se ne servisse in sua assenza. Altri tempi, dicevi, c’era tanta fame, non che ora non ce ne sia ma è la fame degli altri, disturba meno. Poi col favore del vino nascevano discussioni a voce alta che spesso diventavano litigi perché uno era per Bartali e un altro per Coppi, uno era rosso e l’altro nero - si trovano sempre buone scuse per inventarsi dei nemici, quello mica è cambiato. Allora il bisnonno Annibale dal suo trono riservato in un angolo della bottega batteva un gran colpo di bastone sul tavolo e immediatamente tornava il silenzio. Dicevi che quel bastone pieno di nodi ti metteva paura e che Annibale non era da meno con la sua gran testa pelata e i baffi e la cintura da mangiafuoco che a stento conteneva la pancia stretta dentro una camicia dalle maniche eternamente rimboccate. E che per via del bastone o dell’aspetto nessuno si azzardava mai a contraddirlo: nemmeno i fascisti, quando a Porta Nuova misero al bando Cafiero per anarchico intimando a tutti di non dargli lavoro e lui per dispetto lo assunse immediatamente, trovarono il coraggio di provarci. Sosteneva di aver viaggiato molto, cosa di cui non c’erano prove, ma pure quello nessuno osava metterlo in dubbio anche perché le storie di viaggio le raccontava bene, riempiendole di dettagli e particolari; e poi quelli erano tempi in cui la gente moriva senza essersi mai mossa dal proprio quartiere e di cosa succedeva fuori ne sapeva ben poco. Quella che ci stavi per raccontare era una storia che Annibale si teneva per le occasioni speciali e che sciorinava giurando e spergiurando che non era inventata, che tutto era davvero successo a Bangalore durante una sua supposta e – diciamolo adesso che ormai né lui né il suo bastone possono più nuocere – improbabile navigazione lungo le coste di Malabar.

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Annibale sosteneva di aver frequentato una taverna del porto di Bangalore in cui i contadini della zona si fermavano a sostare dopo aver caricato le loro merci sulle navi da trasporto; una notte ne notò uno che stava in disparte perduto nei suoi pensieri e lo invitò al suo tavolo. Per ringraziarlo dell’invito il contadino volle raccontargli la storia di un ragazzo del suo villaggio, poche capanne seminascoste tra una foresta e un fiume a due giorni di cammino da lì. Il ragazzo si chiamava Vea, era sveglio, forte e benvoluto ma senza che se ne capisse il perché aveva improvvisamente iniziato a isolarsi da tutti. Un giorno una donna che andava a lavare i panni al fiume lo aveva trovato seduto sulla riva a guardare la corrente. “Che fai qui Vea, parli con i pesci?” gli aveva chiesto lei; e il ragazzo, quasi senza voltarsi, le aveva risposto con un’altra domanda: “Dove va il fiume?”. “All’oceano, lontano da qui”, gli aveva detto la donna. E lui: “Si, ma il fiume è fatto di tante gocce d’acqua, e non tutte arrivano all’oceano, lì ce n’è una che si è fermata su una pietra, la vedi? brilla per un attimo al sole ma già evapora e all’oceano non ci arriverà mai”. Poi si era richiuso in se stesso come se quella cosa della goccia meritasse attenzione assoluta.

Col tempo il suo isolamento era cresciuto, tanto che un

giorno il capo del villaggio decise di chiamarlo per capirne le ragioni. Glielo chiese con delicatezza, come sapendo di entrare in un territorio intimo, personale: la delicatezza con cui si varcano le soglie di un tempio. Temendo di dire una sciocchezza Vea rispose guardandosi i piedi: “Credo che ognuno di noi abbia un destino e ho bisogno di conoscere il mio. Mi chiedo ogni giorno se nella mia vita incontrerò la felicità oppure no e per vivere in pace devo trovare una risposta, qualunque essa sia”. Il capo del villaggio non rise di lui, anzi gli comunicò con uno sguardo che lo capiva; poi gli disse che sulla montagna oltre la foresta viveva un vecchio saggio a cui tutti attribuivano la capacità di leggere il futuro: Vea poteva provare a raggiungerlo e forse incontrare la sua risposta, oppure restare nel villaggio e aspettare che fosse il tempo a dargliela. Aggiunse che il cammino per la montagna era incerto e pericoloso e che si sarebbe preoccupato per lui qualunque decisione avesse preso. Vea rispose che sarebbe partito per la montagna il mattino seguente.

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Partì all’alba, quando ancora tutti dormivano - salvo il

capo del villaggio, la cui capanna era illuminata. Il cammino per la montagna si rivelò ancora più difficile del previsto e a fargli compagnia durante il percorso fu un senso di solitudine mai provato prima. Vea arrivò sulla cima della montagna stanco, affamato e ferito. Il vecchio saggio lo fece sedere, gli offrì dell’acqua e gli chiese che ci facesse lassù. “Voglio sapere se sarò felice o no nella mia vita, e mi hanno detto che forse tu puoi aiutarmi”, rispose Vea. Il vecchio lo guardò a lungo in silenzio, poi gli disse: “non posso darti adesso la risposta che cerchi. Devi tornare dopo la prossima luna piena, solo allora potrò risponderti”. Vea ridiscese al villaggio affrontando di nuovo tutti i pericoli del percorso e dopo la successiva notte di luna piena ripartì per la montagna solo per sentirsi dare dal vecchio la stessa risposta. Molte volte Vea salì sulla montagna, molte volte il vecchio gli chiese di tornare dopo la seguente luna piena. Ogni volta, discendendo a mani vuote verso il villaggio, Vea pensava: “È inutile, non posso farcela, questo è stato l’ultimo viaggio”, ma poi la luna piena o forse una voce sconosciuta che gli veniva da dentro lo chiamavano e partiva di nuovo. Finché un giorno il vecchio saggio lo accolse sulla cima della montagna con un sorriso. Vea era confuso: non lo aveva mai visto sorridere prima e gliene chiese ragione con gli occhi. “È perché adesso posso dirti che tu avrai una vita felice, Vea”, gli spiegò il vecchio. “Non te lo avrei potuto dire la prima volta né la seconda, ma dopo aver visto che per trovare quello che cerchi sei pronto ad affrontare difficoltà, pericoli e delusioni e nonostante quelli a riprovare ogni volta, adesso si che posso dirtelo. Perché la vera felicità, Vea, sta nell’avere il coraggio di cercarla”.

Il contadino disse che Vea passò quella notte sulla

montagna a guardare le stelle, e che in seguito avrebbe raccontato di non averne mai più viste così tante. Poi tornò al villaggio, conobbe l’amore e alla morte del vecchio capo ne prese il posto. Vea era stato un capo saggio, disse il contadino, e aveva contribuito a rendere il villaggio prospero e felice; ma anche per lui era arrivato il momento di chiudere il ciclo: era morto quello stesso giorno. E il contadino doveva rimettersi in cammino, presto ci sarebbe stata una festa nel villaggio per

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ringraziare gli dei di aver concesso loro un buon capo e per propiziare l’arrivo di un nuovo capo altrettanto saggio e lui non poteva mancare. “Il cammino è lungo – disse – ma ognuno ha il suo da compiere. Che il tuo sia felice come quello di Vea”, augurò ad Annibale prima di andarsene.

Dicevi che ora avevamo la nostra storia, e che forse

avremmo potuto immaginarci che fossi stato tu stesso a raccontarcela di sera, quando eravamo ancora bambini. “Così vi lascerò un altro ricordo: quello della voce di babbo che vi toglie la paura del buio”. Per quello che ti riguardava non avresti saputo dire se la tua vita era stata felice o no, “però ho sempre sentito che la felicità esisteva da qualche parte, diciamo che ne ho sentito il calore, a volte da lontano come quando guardi un tramonto, a volte da vicino come quando tieni un gatto addormentato sulle ginocchia che poi si alza e se ne va a giocare con le mosche lasciandoti solo con i tuoi pensieri; e questo mi è bastato”.

Ti rispondo adesso, in ritardo, si vede che credevo di

avere cose più importanti da fare. La paura del buio, e tu sai di che buio ti parlo, quella non passa mai; però la tua voce la sento e quando ho paura mi acquieta. Quanto alla felicità, chissà sia troppo presto per dire qualcosa. Però so che verrà un mattino di aprile - con un cielo che non si sa perché aprile è un mese incerto, forse un mattino di pioggia - in cui prima di andarmene darò un ultimo sguardo fuori dalla finestra alla montagna laggiù in lontananza, e solo allora saprò se sono riuscito a scalarla tante volte quanto era necessario. Magari quel giorno ci rivediamo e ti dirò di più.

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Quando compri un uccello, guarda se ci sono i denti o se non ci sono. Se ci sono i denti, non è un uccello. Daniil Charms, Disastri

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Lucciole, lanterne

Ti ricordi del giorno in cui me ne andai di casa con in testa tutte quelle illusioni, che ci fosse un posto per me da qualche parte nel mondo, che qualcosa o qualcuno là fuori mi aspettasse, le illusioni di quando siamo giovani e facciamo rumore e non crediamo possibile che a nessuno importi di noi? Ci sono due tipi di viaggiatori: quelli che partono senza bagaglio, tornano carichi di cose trovate lungo la strada e si sentono più ricchi; e quelli che invece partono carichi, lungo la strada perdono tutto e al ritorno si sentono solo un po’ più leggeri e un po’ meno stupidi. Io forse mi ricordo del giorno della mia partenza per via del bagaglio ingombrante ma è passato tanto tempo, chissà se tu ti ricordi. Per prima passai a salutare mamma, che da giorni si era fatta più silenziosa del solito, tutta impegnata a far notare che stava in un angolo per non dare fastidio. Era in cucina, armeggiava col mestolo e sembrava che più che il sugo volesse rimescolare gli ingredienti della vita, rimetterli al posto in cui avrebbe voluto che stessero: però gli ingredienti della vita hanno una loro ricetta segreta e non si lasciano certo rivoltare dai nostri mestoli. Aveva gli occhi arrossati. Mi disse: mi raccomando stai attento, mangia e copriti bene, che non senti mai freddo. Poi mi dette un regalo. Era il medaglione d’oro di nonna, quello del giorno in cui era stata chiesta in sposa; nonna lo aveva lasciato a lei, lei lo lasciava a me. L’amore è la cosa più importante nella vita - mi disse mentre lisciava il medaglione col pollice come a togliere polvere - prima o poi ce ne andiamo tutti ma il nostro amore in qualche modo resta: porta questo al collo, ti aiuterà a incontrare il tuo. Poi andai da babbo, che stava seduto in poltrona col gatto sulle ginocchia. Col tempo le pieghe agli angoli della bocca gli si erano andate incurvando verso il basso come sotto un peso segreto però gli occhi avevano conservato una luce infantile e sorridevano ancora a dispetto di tutto, perché neanche a lui il sugo della vita era riuscito bene ma continuava

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a mangiarlo cercando ogni volta di trovarci dentro una punta di buono. Allargò le braccia come per dire: scusa se non mi alzo ma come vedi c’è qui Luciano che dorme, poi aggiunse: in gamba cicio, e occhio perché lì fuori c’è un sacco di gente che ti vuol far del male, tu portati dietro questo e tienilo sempre in vista, se sarai fortunato ti basterà a non doverlo mai usare. Era un ricordo di guerra, un coltello fatto con i resti di una scheggia di bomba che anni prima qualcuno a corto di soldi aveva lasciato in bottega per pagare il conto del vino. E fu proprio al vino che pensai quando alla fine ti venni a salutare nella camera che abbiamo diviso da quando eravamo bambini: al vino che racchiude i sapori della terra in cui sono cresciute le vigne, per quello i grandi sommeliers non solo ti dicono il vino ma anche la zona, ne riconoscono i sentori. Succede lo stesso anche agli uomini, crescere insieme vuol dire portarsi dietro gli stessi ricordi come se fossero sentori di fondo: la luce gialla di un tinello, gli alberi della piazza in cui giocavi da bambino, le pietre di una chiesa nella cui penombra silenziosa hai confessato peccati innocenti, l’odore di plastica dei sedili di una centoventotto; poi magari t’infilano in due bottiglie diverse e ognuna segue un suo percorso ma quei sentori restano e te li porti sempre dietro, e forse è proprio questo esser fratelli. Mi augurasti buona fortuna e mi dicesti che per te l’amicizia è la cosa più importante nella vita perché ti tiene caldo anche quando nevica, che due fratelli sono amici che hanno ragioni speciali per volersi bene. E senza aggiungere altro mi regalasti il tuo maglione preferito perché mi desse il calore dell’amicizia e del non sapersi soli al mondo. Poi presi la strada o lei prese me, non so, non sai mai dire se sei tu a decidere il cammino o se è il cammino a decidere chi sei. Quanto al mio posto nel mondo, con gli anni iniziai ad accorgermi che ogni posto è buono quando sei in pace con te stesso e nessun posto è buono quando hai ancora cammino da fare; ed io ho sempre sentito che mi restava cammino. Forse perché sono un topo e il topo non vuole esser messo in gabbia, o forse perché avevo ancora cose da fare. Vissi vite diverse in posti diversi ma ogni volta la strada tornava a chiamarmi ed io tornavo viandante. Così fino a ieri.

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Ieri la strada passava accanto a un bosco tanto simile a quello di San Rossore - lo stesso odore di resina e di muschio, lo stesso terreno soffice che aiuta il passo – da farmi tornare in mente le mattine d’inverno in cui scappavo da scuola e ci andavo con Patrizia, per vedere gli allenamenti dei cavalli da corsa; e ho deciso di attraversarlo, per nostalgia. Camminavo pensando alla nebbia densa e fredda da cui gli animali sbucavano fuori esalando nuvole di vapore per rituffarcisi dentro, curvare, sparire; e anche a quell’altra nebbia, sempre densa ma calda, dell’amore e a un ragazzino che ci si tuffava dentro portandosi dietro una signora troppo più grande di lui. Insomma pensavo ai fatti miei e già stavo nel profondo del bosco quando all’improvviso mi trovo davanti una donna legata a un albero, con un bavaglio alla bocca e due occhi impauriti che mi guardano da sopra il bavaglio. Mi avvicino dicendole di non preoccuparsi, che non voglio farle del male, e intanto tiro fuori il coltello di babbo. Vedo i suoi occhi dilatarsi, penso che tema il coltello, le giro intorno e taglio le corde; allora lei si toglie il bavaglio e mi grida “stai attento!”, mi volto e in lontananza vedo arrivare degli uomini armati; un attimo dopo sento il rumore di un colpo e un’esplosione sul petto. Mi ritrovo sdraiato per terra col terriccio sul viso e penso di essere morto, però mi tocco sul petto, mi guardo le mani e non c’è sangue; mi tocco ancora sul petto e sento tra le dita metallo ritorto: il medaglione di nonna che aveva parato il colpo. Mi sollevo di scatto, prendo per mano la donna, scappiamo. Non so cosa ti succede dentro quando hai paura di morire, ti afferri alla vita con i denti e corri come non credevi di poter correre e non senti stanchezza, solo il cuore che batte impazzito e il sangue che chiede ossigeno: chissà che a volte non sia la paura di morire ad aiutarci a restare vivi. Ci siamo fermati soltanto quando siamo stati sicuri che non ci seguivano più, a riprendere fiato nascosti dietro dei cespugli ai margini del bosco, Siamo rimasti per un po’ in silenzio senza guardarci, poi le ho fatto domande mentre lei continuava a guardare un niente lontano, tremando. Ho pensato che avesse freddo, le ho appoggiato il tuo maglione sulle spalle e mi sono allontanato di qualche passo. Aveva occhi tristi ed io per una ragione che non so voglia di sfiorarle le guance con le dita. Stavo pensando di nuovo alle nebbie dell’amore e a com’è facile perdercisi dentro anche se non sei più un ragazzo quando lei mi chiama, mi

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chiede di avvicinarmi. Le siedo accanto; lei mi guarda negli occhi in silenzio, poi mi abbraccia. Ricambio l’abbraccio, le passo le dita sul viso. Lei si appoggia la manica del tuo maglione sul naso, mi dice che porta il mio odore, che è un odore buono, un odore che acquieta. Dopo mi appoggia il mento sull’incavo del collo e respira profondo.

Non so come andrà a finire, non si sa mai nell’amore. A

volte sembra che sia il destino a farti innamorare, una congiura dell’intero universo cui tu che sei una piccola cosa non puoi certo sottrarti. Però l’amore è come un figlio: ti nasce dentro, fa parte di te ma poi prende la sua strada e a volte ti scappa tra le mani. Quanto al sugo della vita, ogni tanto ti viene buono e non sai nemmeno perché. Gli ingredienti si ribellano ai mestoli e si mescolano come vogliono loro: avevo un medaglione che doveva farmi incontrare l’amore e invece mi ha salvato la vita; un coltello che doveva aiutarmi a difendermi e invece mi ha permesso di dare libertà; e un maglione che doveva ricordarmi dell’amicizia e invece mi ha fatto incontrare l’amore. Niente è mai quello che crediamo, davvero prendiamo lucciole per lanterne. Però a volte sono le lucciole a indicarci la strada, le lanterne a farcela perdere. Intanto spero che tu abbia incontrato la tua e ti abbraccio da lontano fratello mio, vino del mio stesso vigneto.

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Era stata una bella sera in un ristorante francese. C’era anche Mieko, sorridente, dolcissima, con il suo profilo gentile. C’era Fumiko, c’era anche Issey Miyake. Ci siamo salutati sul marciapiede. Eravamo contenti. Molto contenti. Non avevamo presagi, non sapevamo che ci saremmo lasciati per viaggi diversi. Quello di Shiro, un viaggio lunghissimo nel mondo grigio di polvere, il mio viaggio in un vuoto nuovo, profondo, continuo, dove ormai si riesce a spiegare ben poco. Ettore Sottsass, Per Shiro

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Sulla curva di San Martino

La carriera son tre giri di piazza, trecentotrentanove metri un giro, poco più di un minuto: tutto il resto è il prima e il dopo. La mossa la da chi viene di rincorsa e cerca il varco, gli altri nove stanno in fila al canape e lo aspettano a orecchie dritte. Si percorre il semicerchio davanti a fonte Gaia, poi la curva di San Martino a novantacinque gradi in discesa, poi di nuovo un breve rettilineo e la curva del Casato appena meno acuta e in leggera salita. Si contano i giri dando nerbate al cavallo e alle monte d’accanto mentre la gente urla eccitata, a volte un cavallo cade e si spezza una gamba, si abbatte dopo, la carriera non si ferma. Si ferma solo all’arrivo, nove perdono e uno vince. A vincere è il cavallo anche se arriva scosso, non chi gli sta sopra; come nella vita, che il corpo ti porta al traguardo anche se tu che ci stai sopra gli tiri le briglie e quello invece niente, va dritto dove vuole andare, qualcuno direbbe: verso il suo destino. Nel 1581 a montare in quella bolgia di sudore e polvere e angoli di muro che ti si tirano contro fu una donna, una ragazzina di quattordici anni che sapeva reggere il cavallo e non aveva paura, Virginia Tacci, la dicevano la villanella Virginia. I suoi concittadini maschi di allora, incerti tra sdegno e ammirazione, scrivevano: “Ha cominciato questa giovinetta a esercitarsi nel corso: e l'altro giorno, perché il cavallo sboccato dando a traverso saltò certe travi non senza manifesto pericolo di rompersi il collo ella non si smarrì punto, né fece segno di cadere, ma con molta arte e destrezza lo corresse e ritenne. A tale che a molti diede meraviglia e da credere qualcosa della Cuccagna, poiché le donne cominciano a fare li esercizi degli uomini". Quattrocentoventisette anni dopo c’è ancora gente che non trova normale che le donne facciano li esercizi degli uomini: belle menti a prova di secoli. A fine ottocento il Tabarre ne vinse undici incluso un cappotto, Provenzano e Assunta nello stesso anno. Il 16 agosto del 1894 cadde alla curva di San Martino dopo una

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mossa falsa e perse conoscenza; i contradaioli dell’Istrice lo rimisero in sella a braccia, la mossa dopo fu buona, fu primo fin dall’inizio e vinse. Il giorno dopo aveva dolori, andò all’ospedale e i medici non riuscirono a capacitarsi: aveva vinto con una gamba rotta. Di lui non ci sono immagini perché rifiutava di farsi fotografare; il resto dell’anno lavorava da cavallaro nella tenuta di Collesalvetti, morì povero. Anche da qui ogni tanto passa gente che ha una forza dentro, fa la sua parte e poi se ne va in silenzio. La piazza è quella di una città lontana, mal collegata finché non asfaltarono a bitume una striscia di Chianti facendone superstrada, e forse per questo rimasta antica; è grande come un abbraccio e piena di armonie segrete, memoria di pietra di tempi in cui la vita aveva ancora un centro; ha pianta come due mani unite ad accogliere, aspetta gente, la invita a sedersi per terra. Anche tu eri seduta per terra, sull’angolo della curva di San Martino, e scrivevi appoggiata di schiena a un colonnino di marmo. Era settembre ed io ero seduto davanti a te con in mano una busta di carta gialla piena di frutta e ti guardavo non solo perché eri bella ma anche perché scrivevi. Ho un cuore a cui piace chi suona, canta o scrive e non gliene ho mai chiesto la ragione, ammesso che ce ne sia una; lo lascio fare, che vada dove vuole andare. Mi avvicinai per chiederti che cosa stessi scrivendo, mi rispondesti parole che non capivo, di inglese sapevo niente, però parlammo e non so come. Venivi dalla California che per me era solo una vecchia canzone, un sogno immaginato. Ti dissi che la sera in città c’era un concerto, suonavano gli America, buffa coincidenza, tu americana volevi venire con me? Ci andavo con una mia amica ma potevi venire, sarei stato contento. Mi dicesti di sì, mi mostrasti dove mi avresti aspettato e sull’orologio con le dita m’insegnasti l’ora, erano dita sottili e mi chiesi se le avrei più riviste; quella domanda mi fece compagnia per tutto il pomeriggio. C’eri, ad aspettarmi. La mia amica forse non ne fu contenta: un tempo c’eravamo amati, restavano gelosie. Gli America concessero il bis e suonarono California Dreaming, la vecchia canzone del sogno: forse per coincidenza.

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La mia amica aveva un marito che l’aspettava, dopo il concerto se ne andò; noi invece volevamo restare insieme, sapevamo che le coincidenze sono dei irascibili e richiedono celebrazioni. Non avevamo soldi, dovetti chiedere aiuto a un’altra amica che si presentò poco più tardi con cinquantamila lire, benedetta l’amicizia e benedetta anche l’energia che nasce da un contatto, come dice Lorenzo; finalmente ci abbracciammo, la stanza della pensione s’illuminò. Nuda, ti chiesi se avessimo dovuto prendere precauzioni e non per l’aids, questo maledetto serpente di cui allora non si sapeva ancora niente; mi dicesti di no, e mi volesti spiegare; avevi un piccolo dizionario italiano-inglese, lo sfogliasti lentamente, le tue dita sottili questa volta m’insegnavano la parola cancer, tumore dell’utero, ti avevano operata e non potevi avere figli. Mi dicesti che tua zia aveva avuto lo stesso tumore, tre operazioni, tanto dolore e alla fine era morta. Tu ne avevi fatta una e poi eri partita a vedere il mondo, un’altra non l’avresti accettata. Pensai che era come puntare tutto sul rosso: rien va plus, vinci tu o vince il nero. Me lo dicevi a voce bassa, ci venne da piangere. Facemmo l’amore tutta la notte, avevi orgasmi che venivano da lontano, che ti crescevano nel respiro. Mi parlasti di un tuo amore finito male, un cantante con cui avevi vissuto a Nashville; e dei funghi peyote, che io volevo provare: mi promettesti che ti saresti fatta mandare una torta da qualche amico di Tijuana, con i funghi nascosti dentro. Pensai a Tijuana, alle sue linee di confine oscure, ai fuochi che la illuminano di notte, un altro sogno immaginato; poi i fuochi si spensero, la notte finì. Presi a venirti a trovare a Firenze. Lavoravi al Cafè des Artistes dove in un angolo tenevano un vecchio proiettore d’epoca che azionavano ogni tanto tra mille precauzioni. Alla fine del turno attraversavamo il Ponte alla Carraia tenendoci per mano, ci fermavamo a metà per guardare i lungarni illuminati, i passanti, l’acqua del fiume che scorreva malvolentieri verso le concerie di Santa Croce. Era inverno, il freddo era una buona scusa per camminare abbracciati. Quando cominciò ad avvicinarsi il Natale la città si fece ancor più tenera e delicata, le pietre antiche dei muri sembravano aver ritrovato un quieto splendore sotto le luci soffuse delle decorazioni; oggi non la riconosceresti più, con tutti quei fast-

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food al posto delle vecchie botteghe. Sotto la tua finestra pendeva un cordone di luci colorate che di notte rischiarava la camera, la riempiva di un’iridescenza appena percepibile rendendola stanza di fiaba; quella luce tenue ci teneva compagnia, accarezzava i nostri contorni mentre facevamo l’amore. A volte restavamo a guardare quelle luci di molti colori col naso contro il vetro come due bambini; gli occhi sanno quando guardano qualcosa che non dura, lo sentono affine. Poi una mattina pochi giorni prima di Natale prendemmo insieme il treno per Pisa. Io tornavo a casa e tu da lì proseguivi verso nord per andare a sciare, avevi un amico americano che era istruttore a Salice d’Ulzo, ti aveva prenotato una pensione. Sul treno a metà strada mi dicesti: ieri notte io a te (e facesti un gesto circolare della mano sul tuo addome mentre puntavi con gli occhi il mio: sdraiata alle mie spalle mi avevi accarezzato sperando che mi svegliassi, perché avevi voglia di fare l’amore) ma tu (unisti le due mani come in preghiera ma in orizzontale, e ci appoggiasti sopra la guancia: io avevo continuato a dormire) allora prossima volta (e mi mostrasti dito indice e medio ben dritti verso l’alto con le altre dita ripiegate sotto, come il segno di vittoria, ma qui con significato numerico: la prossima volta due, per recuperare). Arrivammo a Pisa, ci demmo un ultimo bacio, aspettai sotto il finestrino che il treno si ponesse in marcia e ti portasse via. Venne il nuovo anno e tu non mi chiamavi. Ti cercai al Cafè des Artistes, mi dissero che non eri ancora rientrata. A fine gennaio ricevetti una tua cartolina, portava timbro di Hampstead, Londra. Dicevi che ti eri sentita male, comunicare negli ospedali italiani ti era difficile, per quello avevi dovuto volare in Inghilterra. Stavi meglio, presto saresti tornata. Ho avuto io i miei capelli tagliato molto corti, aggiungevi. Guardai a lungo la cartolina, la tua calligrafia, quelle due vocali: “io” un po’ fuori posto; appena due vocali per definire chi sei, le cose che hai visto, che hai fatto o non fatto, i sorrisi, il dolore, due vocali così facili da cancellare che basta un colpo di vento. Non ritornasti più. Da allora ho fatto un altro giro di carriera, poco più di un minuto durato venticinque anni. Ogni volta che chiudo gli occhi sogno di cadere o di volare, mai che sogni di andare in linea

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retta o di restare qui dove sono, in mezzo a questa bolgia di polvere e sudore di cui ancora non capisco bene lo scopo. La piazza è sempre piena di gente e forse anche gli dei delle coincidenze continuano a frequentarla, altri s’incontrano, s’innamorano e si perdono come successe a noi, come succedeva ai tempi del Tabarre e prima ancora ai tempi della villanella Virginia. Faccio carriera guardando queste facce sconosciute, cercando di immaginarmi le loro storie; passo davanti al colonnino di marmo su cui appoggiasti la schiena in quel giorno di settembre, da lì alzo gli occhi e vedo lo spigolo di muro della curva di San Martino, è la curva dove si cade più spesso, lo sapevi? quel muro che ti si è tirato contro al primo giro, quando ancora ci sarebbe stata carriera da fare, il perché non si sa: a volte basta perdere un appoggio, un tratto di tufo battuto male, gli dei delle coincidenze sono dei irascibili, già si è detto, stanno seduti sul palco come antichi imperatori romani ed esigono spettacolo. Ogni tanto mi pare di sentirti parlare sottovoce, come facevi allora, e mi viene da voltarmi per cercare i tuoi occhi che però non incontro. Allora ti presto i miei, ti dico guarda, guarda il cielo com’è azzurro oggi. Ma ho da fare ancora un altro giro, ammesso che qualche spigolo di muro non mi si tiri contro prima del traguardo, e allora riprendo la carriera mentre intorno tutti urlano eccitati. Chissà cos’hanno da urlare, urlare, urlare.

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En fin, mientras eso ocurre, le escribo para saludarlo. Espero que los tiempos mejoren para quienes lo necesitan y merecen, es decir, los olvidados de todo el mundo. Vale. Salud y que el caso más importante (el de la lucha por ser mejores) encuentre solución en donde debe, es decir, en el corazón. Lettera del Subcomandante Insurgente Marcos a Manuel Vázquez Montalbán, dicembre 1997 (da “Y Dios entró en La Habana”, Manuel Vázquez Montalbán 1998) Sin embargo, el Estado se equivoca a veces. Cuando una de esas equivocaciones se produce, se nota una disminución del entusiasmo colectivo por efectos de una disminución cuantitativa de cada uno de los elementos que la forman, y el trabajo se paraliza hasta quedar reducido a magnitudes insignificantes; es el instante de rectificar. Ernesto Che Guevara, El socialismo y el hombre en Cuba Stato, ho cercato di amarti. Volevo esserti utile sul serio ma sentivo che sparivo del tutto se, come cane al bastone, io ti ubbidivo. Evgenij Evtusenko, Come io con fede nello stato

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La revolución, desde el cielo

Ci sono amori che sono navi che affondano e che dovresti abbandonare per salvarti, però non puoi: l’isola è un amore di quelli. È una balena spiaggiata che invece di tornare verso il mare aperto resta lì a morire lentamente, tra le braccia di un richiamo malinconico e segreto. Quando una balena si spiaggia andiamo tutti a guardarla, a insegnarle la giusta direzione puntando col dito come Colombo davanti al mare a Barcellona perché a dare consigli agli altri siamo bravi, meno a partire per primi seguendo il cuore proprio come fece Colombo che per quello si merita una statua, non per aver scoperto per caso qualcosa che esisteva già ed era d’altri. Però le balene sono testarde, se hanno deciso di morire lì non c’è verso di fargli cambiare idea, e allora dopo un po’ ci stanchiamo e torniamo a casa a occuparci dei nostri naufragi personali: tutti meno quelli che credono nei sogni, nei finali felici e insperati. Invece quando a spiaggiarsi è un amore a guardarlo morire si resta solo in due con un buco nero dentro che la mattina uno si sveglia e gli dispiace di essere vivo, di dover mettere un piede per terra per andare non si sa dove e perché.

Il motivo per cui una balena decide di andare a morire su

una spiaggia non si sa. E nemmeno perché, in un giorno che sembra uguale a tutti gli altri, una mano smette di essere una carezza, due labbra un bacio, due occhi l’entrata di un giardino segreto.

La guardo da quassù, quest’isola balena spiaggiata, e

sembra una virgola sottile, una falce di luna. Intorno a lei un oceano viscoso, nero che pare petrolio, la fa prigioniera e le sale lentamente alla gola. Mi viene da chiedermi se le balene sognano, da invocare per lei questa grazia di chi è prigioniero, anche solo di se stesso. Per lei, falce di luna opaca, che ancora splende ma di una luce che sembra arrivare da troppo lontano: come quella delle stelle, che con tanto cielo da fare a volte arriva in ritardo, portando notizie di cose che già non esistono più.

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Eppure, l’ho già detto, si può essere più utili da morti che

da vivi: anche gli antichi greci non esistono più ma continuano a parlarci da lontano. A dirci che la vita è tragedia e commedia, che gli dei sono irascibili e viziosi (loro fatti a nostra immagine e somiglianza, non certo il pretenzioso contrario), che la bellezza dei sogni sta scolpita nella pietra. Il loro sogno più bello fu l’uovo di marmo che appoggiarono sulla terra di Delfi dicendo: questo è il centro del mondo. La vita è qui e ora, affermava quell’uovo, sottraendo al cielo un privilegio. Furono puniti da dei fin troppo umani, perciò gelosi: proprio loro che ne erano i creatori. Eppure da allora siamo in tanti a girare con un uovo di marmo nelle tasche. Anch’io avevo il mio, il mio sogno di pietra, e decisi di appoggiarlo sull’isola. Avevo le mie buone ragioni per farlo: un’isola non è mai per caso.

Avevo studiato il mappamondo, fragile sfera di cristallo

percorsa da infinite linee invisibili. Quella più vicina al cielo passava per l’isola, per quello ci andai, perché al cielo volevo arrivare: ne avevo abbastanza di gente che ti costringe ad abbassare lo sguardo per farti dimenticare che esiste. E al cielo arrivammo, tenendo il popolo per mano come se fosse un bambino perché la strada era nuova: ma una volta cresciuto dimenticammo di lasciargli la mano. E anche il nostro sogno fu punito, da dei corporativi che ruppero la sfera di cristallo del mondo in mille pezzi e su ognuno dei pezzi stamparono un marchio da adorare. Forse è per quello che le balene si spiaggiano, perché nei mille pezzi del mondo non c’è più spazio per loro. Al massimo per branchi di sardine: una mano invisibile sparge mangime luccicante, il branco lo vede, cambia direzione, ogni sardina lotta per le briciole; poi, quando è tempo, incontra la sua rete.

Allora io chiudo gli occhi e invoco di nuovo la benedizione

di un sogno: di altre mille uova di pietra lasciate su ogni pezzo del mondo dalle mani di chi non vuol essere sardina. Poi li riapro e guardo l’isola, come fanno gli uomini quando di notte cercano la propria stella nel cielo e poi restano a guardarla, convinti che non sia solo un riflesso di luce che arriva da troppo lontano.

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El mar, la tierra, el cielo, el fuego, el viento, el mundo permanente en que vivimos, los astros remotísimos que casi nos suplican, que casi a veces son una mano que acaricia los ojos.

Vicente Aleixandre, La destrucción o el amor

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L’ultima lettera di DC

Poi la terra finisce e ti devi fermare. D’altra parte prima o

poi uno si deve fermare comunque e io di terra ne ho fatta e non ne tengo rimpianto. Casomai rimpiango di essermi fidato di quello scrittore. Non che non fosse bravo, che bravo era e per quello lo scelsi: conosceva la guerra, le avventure, i viaggi, sapevo che avrebbe capito. Per notti intere ad Algeri gli raccontai la mia storia, gli detti carne da libro fin troppo fumante, tanto calda da calentar la cabeza ai troppi ingenui di cui è pieno il mondo. Perciò mi tradì, e me lo dovevo aspettare. Lo pigliarono con le mani nel sacco e denaro non suo nelle tasche, la galera di allora abituava all’inchino (anche quella di oggi, chissà) così da dietro le sbarre cambiò il finale alla storia, ne fece un inchino ai potenti, quelli che se ti tengono amico in galera non torni (neanche oggi, chissà): ecco qua il vecchio pazzo, convinto che la terra sia piena di gente malvagia, quando invece si sa che ognuno fa solo il dovuto, che per quello è pagato; ci siamo fatti due belle risate ma ora è tempo di portarlo all’ospizio, e che il mondo riprenda a girare secondo le regole sue, che sono quelle di sempre.

E bravo scrittore. Se ti avessi davanti...

Quattrocento anni che giro la terra, altro che ospizio. Quattrocento anni in sella a questo cavallo senza nome (e se lo avesse avuto non sarebbe stato certo quello scelto dal bravo scrittore per toglierci via dignità con una sola parola), cavallo che prende colpi e va avanti lo stesso perché sa che il suo cavaliere condivide la medesima sorte. Quattrocento anni a far terra insieme e ora la terra è finita e inizia il mare: sto seduto su un sasso a guardarlo. Lo avevo già visto una volta, a Barcellona: cullava enormi cavalli di legno che portavano verso terre lontane. Pensai che non avrei mai potuto vederle, e allora me le inventai. Il mare si alzò in verticale, divenne uno specchio, e quelle terre lontane mi apparvero come un riflesso di quelle che avevo alle spalle. Uguali e contrarie, come ogni riflesso: in quello che vedevo allo specchio era l’amore la

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regola, l’eccezione era l’odio. Provai desiderio di una terra così: quando saremo in molti a volerla, allora il libro avrà il suo finale. Per ora sto qui, seduto su un sasso, e guardo un mare diverso da quello di Barcellona: perché è un mare del nord, che va a settentrione. Se ogni mare è un incontro, andando per i mari del nord incontri solo te stesso: forse perciò sono qui, non è a caso. Anche questo mare è uno specchio, ma sono io che mi ci vedo riflesso. Io, che strana parola: solo un mucchio di pietre che ho accumulato come se la vita fosse costruire se stessi prima che un’onda più forte cancelli il lavoro, rimescoli i sassi; ogni pietra un pensiero, un sentiero seguito per caso, una battaglia perduta. Per anni ho aspettato curioso di vedere che forma prendesse; e oggi davanti a questo freddo silenzio di specchio finalmente la posso vedere: sono un arco allungato, un ponte gettato sul mare. Ancora le ultime pietre per toccare la terra di là, per essere fino in fondo me stesso e poi, finalmente, me ne potrò andare. E quelli che non cercano ponti, che ridano pure di me. Che ridano di un vecchio pazzo che vede giganti cattivi in mulini innocenti, che producono solo farina. Bianca come l’assegno che permette loro di comprare sogni decisi da altri; bianca come il certificato di esistenza, altrimenti dubbiosa; bianca come la polvere della farmacia che protegge dai mali di dentro; bianca come le mura della caserma che protegge dai mali di fuori. E bianca come la nuvola soave e impalpabile che li avvolge quando la sera si siedono davanti a una scatola cui chiedono di esser distratti. Li vedo, da qui, sulle strade che affiancano il mare, incolonnati dentro macchine di molti colori (a chi si fida del bianco si concedono divagazioni): smanettano tergicristalli e clacson per scacciare la pioggia, quelli in fila davanti e ogni altro fastidio. E se per un momento li assale il dubbio di non esser felici, accendono la radio e il bianco li avvolge di nuovo. Che ridano, e che buon pro gli faccia: qui ci sarà sempre terra per chi si accontenta del bianco e non gli importa del resto. È per quelli che sanno che le pentole d’oro stanno ai piedi degli arcobaleni che continuerò a metter pietre: perché un giorno il ponte sia pronto e le possano andare a cercare.

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La foto di quel giovane uomo del Vietnam con la faccia tesa, con il torso largo e nudo e le mani legate dietro la schiena e il cartellino come i pacchi postali, condotto con una corda alla fucilazione e accompagnato dal figlio bambino che piange a bocca aperta, la mano nella mano del padre, quella foto l’ho attaccata davanti al tavolo, casomai me ne dimenticassi e non me ne dimentico. Mi sento vecchio e molto stanco, un po’ mi vergogno, un po’ vorrei andarmene in un posto da solo a respirare, dove la gente sia meno sicura di sé, dove non faccia rumore camminare (per questo Ginsberg si mette le scarpe da tennis?), un po’ mi piacerebbe spogliarmi nudo, sdraiarmi per terra, coprirmi di un lenzuolo e dire adesso basta, adesso andate tutti a quel paese. Questo avrei voglia di fare e non parlare di bellezza. Finché quella foto resterà lì davanti al tavolo, sarà difficile ricordarsi della bellezza… Ettore Sottsass, Come proteggere la bellezza dalla polvere e dai piranha

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Per Francesco, in rima Nascosto in casa tengo un grande armadio ricolmo di parole raccattate dalla strada, dai libri, dalla radio, parole di seconda mano, usate. In molti casi ne sei tu l’autore: piccole storie ignobili, regali da leggenda del santo bevitore, empirici rimedi contro i mali che ti attaccan di spalle nella vita senza che tu ne sappia bene il come e neppure il perché: una partita persa contro un nemico senza nome. Ci tengo alla rinfusa il tuo recapito (Via Paolo Fabbri, se ancora vivi là), l’avvelenata declamata a scapito del quieto vivere e la moralità, l’addio al ’99 in cui mi chiami simile e amico, e provi indignazione per la volgarità, nero tsunami che monta sommergendo la nazione (dato che condivido il sentimento per tanto vuoto, e tanto rumoroso simile a te davvero io mi sento; amico forse è troppo pretenzioso). Ci tengo anche i ritratti che hai tracciato di gente nota e anonimi passanti cercandone il profilo meno usato, le cicatrici, i tratti contrastanti;

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e tra questi, confesso, ce n’è uno che ogni volta mi provoca emozione: quello del Che, di cui quasi nessuno ormai vive seguendo la lezione (certo molti la foto sua di Korda la portano su camicette e borse ma tra loro chi è che si ricorda di portarla nel cuore, anche se forse non avrebbe lo stesso effetto-moda?). Poi ci tengo la notte, l’osteria, la chitarra (il pianoforte a coda non c’entrerebbe), e la compagnia degli amici, il tempo dolce e intenso speso a parlar di nuvole, canzoni e varia umanità (anche se penso che in fondo siamo solo dei coglioni pronti ad analizzare a tutto tondo numeri e fatti, casi e situazioni quando invece per cambiare il mondo è nel cuore che stanno le ragioni). Ma dentro alle tue storie, alle poesie e alle parole che ti sei inventato trovo cose che sento pure mie: rabbia, ironia e il gusto un po’ dannato per il pensiero, questo antico vizio ormai in disuso (come van le cose!) perché tutti si prendono lo sfizio di regalarlo in buste monodose e formato usa-e-getta, cosicché se il giorno dopo cambia la tendenza puoi cestinare il vecchio demodé senza troppi problemi di coscienza

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e indossarne uno pronto all’occasione (questo succede ovunque, anche qui in Spagna ma in Italia si fa alla perfezione: ci dican che pensar, “purché se magna”: paese sperso, messo nelle mani di Mastella, Casini, Calderoli Cuffaro, Bondi, Miccichè e Schifani: dolce vita di furbi e di mariuoli). Ma lasciami tornare alle canzoni, al vino, al fumo, a cose ben più serie di questa ridda di lacchè e buffoni con Vespa ad officiarne le miserie per dirti che m’incanta la pazienza con cui incastri le frasi e con cui arrivi a comporle a mosaico, con sapienza da artigiano di verbi e sostantivi che dipinge le cose dal di dentro - come certe bottiglie fatte in Cina - senza illudersi mai d’essere al centro del mondo, senza mettersi in vetrina. E se mi metto a ripensare a ieri ho tuoi ricordi: come quella volta che vidi, tra salsicce sui bracieri, (festa dell’unità..) per ben avvolta in un eskimo da iconografia la tua figura (che ben alto sei, non notarti è un fatto di miopia) in una notte del settantasei e volevo parlarti, ma di cosa non saprei dire, forse di emozioni - argomento d’urgenza assai dubbiosa, per cui evitai di romperti i coglioni;

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mi limitai a guardarti, dio pagano del vino, delle nuvole, del liuto, un fratello d’america lontano; ed io per te un perfetto sconosciuto. Poi un disco tuo ascoltato in autostrada (la musica diventa il tuo cammino, di notte è ancor più facile che accada) piangendo più contento di un bambino; e un trentatre comprato un dì a Firenze con un’amica cui volevo bene; sottobraccio in stazione, alle partenze, con la voglia di lei lungo le vene vedevo la tua faccia sopra il disco che mi strizzava l’occhio di nascosto trasformando il vinile in un gran visco sotto il quale baciarla ad ogni costo. E infine, e lo dico con pudore, quella canzone dell’amica andata via troppo presto, e per quel dolore senza risposte mai dimenticata che ho dedicato spesso ad altra gente andata presto, che tutti ne abbiamo, lasciando sedie vuote nella mente ad aspettarli, se non fosse invano. L’armadio sta ben chiuso, che son anni di coltivi transgenici ed impianti di dna e temo molto i danni che queste tue parole ed i tuoi canti potrebbero soffrire andando in giro a mescolarsi con il chiacchierio truccato come chiodi di fachiro che va di moda oggi, nuovo dio

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dell’apparenza con le sue vestali, convinte che ci siano state date le consonanti insieme alle vocali per esser dette e non certo pensate (per questo se da noi non c’è lavoro la colpa non è mica dell’impresa che paga meno in Cina, ma del moro che arriva qui dal sud con la pretesa d’incontrare una sua opportunità: deve restar nella terra natía e cazzi suoi se intanto se ne va all’inferno per fame o malattia; sempre per questo si esporta libertà laddove c’è petrolio e con urgenza, ma in tutta calma, dove c’è povertà, prediligiamo la non ingerenza) Così, caro Francesco, mi dispiace le tue parole non le lascio uscire da questo armadio: parlano di pace, del necessario sforzo di capire chi siano gli altri, e chi sia tu stesso prima di giudicare o dar lezioni e ne ho bisogno, soprattutto adesso che il mondo parla solo coi cannoni. Difficile trovar l’ispirazione per scrivere canzoni mentre fuori ci si serve di Dio e la religione per conquistar potere e non i cuori ma tu scrivi, che c’è parecchia gente che aspetta rime cotte a fuoco lento: le tue parole, nell’armadio-mente son come semi liberi nel vento.

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El color rojo del vino nos recuerda el carmin de los besos robados. Compartimos confidencias, amores y secretos. Todos tenemos algo que contar. Entre risas y fragos, intento descifrarles el mensaje oculto de la botella que nos conecta con ese tesoro encarnado que saboreamos y que nos confunde con el beso de aquellos labios. Alguien habla de encuentros fortuitos a la orilla de la playa con mujeres de ojos verdes. Brindamos y sigo interpretando el mapa oculto de este vino que nos evoca lugares lejanos, tabacos africanos, flores blancas del sur francés, especias de Estambul, agua de rosas de Irán. Rosas, ese era el olor de su perfume; el perfume de aquellos ojos verdes. Pedro Martínez Fernandez, El a, e, i, o, u del vino

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In vino veritas

Querido Pedro,

naríz de oro di Cehegín venuto su a forza di far caffè ai

vecchi che già sono svegli alle sei di mattina e poi la sera a catar vino con loro e imparare i segreti e studiare senza mai fumar sigarette o mettersi un profumo per non inquinare le mucose, e per entrambe le cose non ti invidio; ti scrivo perché ho una storia da raccontarti, forse ti divertirà anche se non credo che riuscirà a sorprenderti visto che tu del vino e dei suoi poteri magici sai tutto, e parecchie cose sai anche di com’è buffa a volte la gente, anzi di come siamo buffi tutti a volte per dire la verità – e questa è una storia in cui la verità gioca un suo ruolo, per quanto possa sembrare strano visto che di solito ognuno si inventa la sua - e forse anche per questo è una storia che mi piace. Oltretutto poi tu di questa storia sei parte dato che del vino che la riguarda abbiamo avuto occasione di parlare più volte, e quindi mi sembra proprio necessario che tu la conosca.

Come puoi immaginarti nelle enoteche come la mia

entrano di solito tre tipi di persone: quelle che non sanno niente di vino, quelle che credono di saperne qualcosa e ogni tanto dei tipi solitari che guardano gli scaffali zitti zitti e quasi sembra che stiano pensando ad altro, poi vengono alla cassa con una bottiglia in mano ed è sempre un gran vino, pagano e se ne vanno - e li seguono le mie benedizioni: ce ne fossero di tipi così, che sanno e non gli importa, che sanno e non sentono la necessità di dimostrarlo a tutti. Il protagonista di questa storia fa parte della prima categoria. Entrò in bottega un pomeriggio, avrà avuto un quarant’anni, ben vestito, con orologio di marca al polso e i capelli tirati al phon, insomma t’immagini il tipo; guardò un po’ in giro e poi mi chiamò con occhi in cerca di complicità – e tu sai che la complicità nel vino è essenziale, e che su quello io sono sempre disponibile con i clienti. Mi disse che aveva invitato a cena una donna, la prima cena insieme, giovane e bella mi disse, l’intonazione e lo sguardo non

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lasciavano dubbi su quale fosse l’obiettivo finale della serata, fatti suoi ma insomma alla fine in queste cose siamo tutti uguali, cucino io mi disse – questo deponeva a suo favore - e mi spiegò cosa prevedeva di preparare. Poi mi chiese un consiglio: “mi ci vuole un vino che sia adatto all’occasione, un vino che non sia complicato, facile da capire, un vino ruffiano, che sciolga, mi sono spiegato no?”. E come no? E ti ricordi che avevamo parlato di questi piemontesi che hanno comprato un vigneto qui in Toscana, proprio a Terricciola qui vicino; e poi il nome mi sembrava adatto all’occasione, un po’ d’ironia non fa mai male soprattutto se la gente non si accorge che la stai usando, allora gli dico di prendersi una bottiglia di Nero di Casanova del 2004 – ricco senza essere complesso, con quei tannini dolci che lasciano voglia nel palato; e gli raccomando di terminare la serata con un moscato della stessa casa abbinato a due dolcetti di Salsa: a volte uno pensa che per essere eleganti bisogna andare sul secco ma in realtà le ambizioni vanno dichiarate e un vino dolce carbonico con del cioccolato ben lavorato è una signora dichiarazione, non si scappa, dopo il bacio è d’obbligo. Gli spiego che anche la dolcezza può essere elegante, soprattutto se non ti lascia le dita appiccicose di miele. Lui accetta entrambi i suggerimenti, paga e se ne va.

La settimana dopo ritorna ed era come se fossimo amici

da sempre – per lo meno da come si comportava lui, evidentemente il suggerimento aveva funzionato a dovere; infatti mi prende sotto braccio e mi dice che la serata è stata fantastica, tutto bene, tutto molto bene, il molto credo volesse dire che il rapporto era stato completo; e adesso c’era da preparare una nuova cena. “E qui viene il difficile – mi dice con l’aria di chi crede che di difficile non ci sia niente al mondo – perché sai – già mi dava del tu, come se a cena avesse invitato anche me – adesso ci vuole qualcosa che scateni la passione, che metta in corpo una bella energia calda, bisogna fare un passo in più, che mi suggerisci stavolta?”. Energia calda, proprio un bel tipo, comunque gli suggerisco un Hermitage francese di buona annata, qui l’aroma è già più complesso, pieno, rotondo e vengon fuori morbidezza, seduzione e potenza; e poi anche qui ci ho messo un po’ d’ironia perché sai che dicono che il nome dell’Hermitage viene da un eremo fatto costruire nella valle del Rodano da un cavaliere di ritorno dalle

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crociate e questo signore mi sembrava proprio un cavaliere con la lancia in resta, con una donna nel mirino dell’alabarda e una gran voglia di affondarle quest’alabarda nel cuore o più probabilmente da qualche altra parte.

La settimana successiva entra di nuovo e questa volta

più che un amico sembrava un fratello – poco manca che mi abbracci davanti a tutti, si vede che l’alabarda era andata dove doveva andare, che era affondata in un oceano di energia calda. Mi rivela alcuni dettagli anatomici della sua ormai conquistata damigella, tu mi conosci e sai che queste cose m’infastidiscono, i cavalieri mi piacciono però quelli veri e ormai non ne esistono quasi più; oltretutto poi il sesso raccontato perde incanto e faccio fatica a capire la ragione per cui uno deve sentire il bisogno di informare il prossimo che la sua donna ha due (come se il numero fosse opzionale) tette durissime; comunque sai come si dice, il cliente ha sempre ragione, per cui gli sorrido lo stesso. Ma questo cavaliere con più alabarda che cervello voleva di più, cercava l’affondo finale: un vino che allentasse anche le ultime remore, le ultime – ammesso che ce ne fossero ancora – inibizioni; voleva un vino che costringesse questa donna a dire la verità fino in fondo, dimenticando l’orgoglio e le autodifese, ad ammettere che lui era il miglior amante che avesse mai avuto, che da lui e solo da lui si sarebbe lasciata fare tutto quello che voleva. Il caso si faceva difficile, non trovi? No, lo so che non trovi, tu che con il vino hai sempre la risposta pronta, che lo conosci come il sangue che ti scorre nelle vene; ma io ci ho dovuto pensare, anche perché a questo punto non sapevo, come dire, da che parte stare. Alla fine lo prendo sottobraccio e lo porto sotto una bottiglia di Gewuzrtraminer alsaziano di quelli buoni, buoni, buoni… sai di cosa parlo, tu diresti: sobran las palabras. E lui se ne va stringendoselo sotto braccio come se fosse un tesoro segreto.

...Pedro, hijo de puta, vedo che stai già ridendo, forse a

questo punto t’immagini il finale, tu che sai di vino e di gente... Stamattina il cavaliere dalla lunga alabarda (o corta,

questo non si sa) parcheggia l’auto in doppia fila ed entra in bottega come una furia; però più che di un cavaliere aveva

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l’aria di un donchisciotte appena messo a terra da un mulino a vento. Senza salutare mi chiede (la buona notizia è che torna a darmi del lei) se non potevo avvertirlo di quello che gli stavo vendendo. Ora dico io, capiterà mai a uno che vende pistole di vedersi entrare un cliente in armeria dicendo: “me lo poteva dire che questo coso spara”; ma qui in bottega se ne vedono proprio di tutti i colori, ormai manca solo che qualcuno mi venga a chiedere un rimborso perché la bottiglia, evidentemente difettosa, al togliere il tappo ha perduto il suo contenuto; ma me lo aspetto da un giorno all’altro. Comunque mi pare di aver capito che il Gewuzrtraminer la notte precedente aveva fatto effetto più sul nostro cavaliere che sulla sua donzella, costringendolo a un’inconsueta sincerità personale: così nel momento meno indicato gli era sfuggito detto di essere sposato, informazione di cui lei apparentemente non era in possesso e che dubito abbia gradito. Magari nemmeno per l’informazione in sé, immagino io, è che a nessuno piace sentirsi prendere per i fondelli, soprattutto in amore. Forse messi davanti all’amore uomini e donne sono davvero diversi, come dice Vincenzo che essendo medico di queste faccende certamente capisce più di noi; mi pare che l’uomo l’amore lo immagini come un bersaglio a cerchi concentrici dove nel cerchio piccolo del centro sta scritto “sesso” e tutto il resto è contorno per arrivarci; le donne invece lo vedono come un gran puzzle in cui il pezzo su cui sta scritto sesso può essere anche il più importante e centrale ma deve incastrarsi bene con tutti gli altri. Forse è anche vero che le donne hanno meno paura di noi di dire la verità, ma a questo chi intende di vino potrebbe rispondere che certe verità non sono per tutti i palati, vanno sapute scoprire, vanno conquistate. Al cliente, al quale detto per inciso mentre succedeva tutto questo un vigile urbano stava anche ponendo una multa - cosa della quale dato il mio alto senso di civismo non ho provveduto ad allertarlo - ho ricordato che il detto “in vino veritas” lo conoscono anche i bambini e una ragione ci sarà. Certo tu ed io lo sappiamo, c’è vino e vino, c’è verità e verità, però la vita Pedro, come sarà la vita?, si arriva davvero a fare cose impensate: per la prima volta in vita mia – potrai mai perdonarmi? – stamattina ho suggerito a un cliente di andarsene a bere una camomilla.

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And now I know that we must lift the sail And catch the winds of destiny Wherever they drive the boat. To put meaning in one’s life may end in madness But life without meaning is the torture Of restlessness and vague desire - It is a boat longing for the sea and yet afraid Edgard Lee Masters, Spoon River Anthology (George Gray)

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Jazz Cafè

Ma tu non lo vedi che sto sempre in un angolo con la faccia di uno che è arrivato da fuori, una faccia che dice: “non chiedetemi niente, non sono di qui”, proprio a me chiedi la strada? Guarda che c’è tanta gente più pratica di me, gente che sa fare famiglia e soldi e una posizione nella vita, gente che sa fare un sacco di cose, perché non chiedi a uno di loro? Però tu mi sorridi e dici che no, che io ti aiuto sempre molto. Se clicco due volte il tuo viso riempie lo schermo e vedo bene i tuoi occhi, limpidi come un torrente di montagna. Ogni giorno vedo tanti occhi falsi come scenari di cartone, guardando i tuoi mi viene da crederti. O forse meglio: mi conviene crederti e pensare che servo a qualcosa.

Mi fai due domande che in realtà sono una domanda

sola, o meglio una domanda che ha due facce come i vecchi quarantacinque giri. Il lato A dice: vale la pena lasciare in sospeso tutta la tua vita in attesa di una persona che forse non potrà (o non vorrà) mai essere tua? Il lato B invece dice: e se ti accorgi che la vita che stai vivendo non ti piace più, ne puoi riscrivere il copione? Io ti ascolto e penso: chi lo sa?, mi piacerebbe saperlo anche a me; e dopo non penso più niente, mi viene giù davanti agli occhi un telone grigio e denso come quando c’è nebbia. Però di te m’importa, m’importa molto, me lo ripeto a occhi chiusi, è bello quando t’importa di qualcuno, perciò per te decido di aprire i miei appunti. Perché sono uno che prende nota, quello forse lo so fare, perfino nei giorni di nebbia (prendo nota di cose insignificanti: di due stelle che stanno sempre una accanto all’altra; di come splendono le foglie quando tira vento; di quante voci diverse ha la pioggia e forse anche Dio, e noi invece poche orecchie; e anche di certi cani di strada che si fermano al semaforo rosso e non si sa come facciano a sapere che col semaforo rosso bisogna aspettare; tutte cose che la gente pratica di solito non nota perché sapendo già come va la vita non lo ritiene necessario) e a volte nei miei appunti intravedo risposte, come se fossero la mia smorfia personale. Mentre li sfoglio mi accorgo che la tua

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domanda ha una faccia nascosta, un improbabile lato C che dice: perché tu e io spesso ci facciamo le stesse domande? Ma di quello magari parleremo un’altra volta visto che intanto ho trovato qualcosa che ci può servire. Sono appunti vecchi di anni che iniziano con un breve dialogo tra me e Frank:

- “Si, mi piace il jazz, mi piace molto”. - Cosa mi piace? John Coltrane, Eric Dolphy, Miles

Davis, perché?” Frank mi dice che anche a lui, aggiunge Chet Baker e

Stan Getz, mi informa che a Copenhagen c’è sempre qualche buon concerto di jazz, meglio che mi tenga pronto. Frank avrà sessant’anni, è alto, ha occhi azzurri che ogni tanto gli ridono come due bambini e capelli d’argento: Frank il danese, che però a uno che lo guarda distrattamente potrebbe anche sembrare della California o magari del Queensland. Solo che io non sono mai riuscito a guardarlo distrattamente fin dalla prima sera in cui me lo sono trovato accanto in un bar, mentre un gruppo di ragazzi improvvisava uno spettacolo; lui li seguiva con la faccia incantata come se avesse avuto davanti il Mago Zurlì, batteva le mani, cantava, saltava ed esclamava ad ogni pausa: “dai! è il vostro momento! la vita è corta! coraggio!” Altri in quelle circostanze e alla sua età avrebbero pensato: “se avessi vent’anni di meno ve lo farei vedere io”; invece Frank quella sera si entusiasmava a veder la vita scorrergli davanti come un fiume luminoso, anche se incidentalmente in quel momento ci stava nuotando dentro qualcun altro più giovane di lui; e da allora Frank non lo confondo con nessun californiano o australiano, anche se devo ammettere che un po’ a Crokodile Dundee ci assomiglia. Due giorni dopo Frank mi porta al Copenhagen Jazz Cafè; all’entrata ci fermiamo a salutare un suo amico e a parlare di jazz e di pianisti, in Italia ne avete parecchi buoni mi dice, gli piace D’Andrea (Stefano Bollani era appena uscito dal conservatorio, non lo poteva conoscere); ci congediamo, entriamo nella sala già piena di gente e di nuvole di fumo. Da una parte c’è il palco, dall’altra i tavolini e in mezzo lo spazio per ballare; ci sediamo a un tavolo libero, ordiniamo una birra,

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Frank ha in faccia un sorriso e dopo il primo sorso mi spiega perché. Mi dice che il suo amico è pianista, è lui che suona stasera; da ragazzi hanno frequentato la stessa scuola e a quel tempo il suo amico gli ripeteva ogni giorno: “da grande farò il pianista jazz” e Frank gli rispondeva: “tu sei matto”, e adesso ogni volta che si incontrano il suo amico gli chiede: “allora, chi aveva ragione?”. Frank pensa che a volte è bello sbagliarsi.

Ma c’è anche un altro motivo per cui Frank sorride, me lo

rivela più tardi, prima si gusta il ricordo. Da giovane ha avuto una storia d’amore con la sorella del pianista: facevano coppia a Londra negli anni sessanta, lei era bella e sempre allegra, andavano in giro per la città in Vespa, erano felici; ma poi Frank era dovuto rientrare a Copenhagen e si erano lasciati. Prima o poi tutte le storie d’amore finiscono, si sa, ma forse quello che conta è che sia valsa la pena viverle; e quella a giudicare dalla faccia di Frank aveva valso la pena. Intanto comincia la musica, la gente balla. Frank si lascia prendere, dondola sulla sedia, si batte la palma della mano sulla coscia, mugola al ritmo dei fiati; e poi si ferma di colpo. Mi giro e vedo che guarda davanti a sé verso l’altro lato della sala concentrato e impettito, sembra il marinaio di coffa. Gli chiedo con gli occhi; mi dice “lei è qui”. Resiste un minuto, è nervoso, si alza, borbotta che la deve invitare a ballare. Attraversa la sala piena di fumo, scivola tra la gente che balla, arriva al tavolo di lei, si china leggermente in avanti, lei si alza, iniziano a ballare. Do un sorso alla birra, tutto normale. È sempre tutto normale un attimo prima che succeda qualcosa di straordinario. Infatti due minuti dopo lei e Frank si fermano, smettono di ballare e si abbracciano. Restano almeno cinque minuti abbracciati, immobili in mezzo a un vortice di gente che danza intorno a loro; sembrano il punto cardinale del jazz, l’omphalos ritrovato del mondo, un centro di gravità segreto; col bicchiere a mezz’aria guardo la loro sagoma di cosa unica scontornarsi nel fumo della sala e penso che dev’essere la scena di un film, che fra poco un regista nascosto nel buio urlerà un “buona la prima!” e interromperà l’azione; però l’azione si interrompe solo quando loro due lo decidono e riprendono a ballare. Poi la musica finisce e Frank torna al tavolo.

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Gli occhi non sono i soliti occhi di Frank ma nemmeno bambini, sono qualcosa di diverso che non so. Gli chiedo cosa è successo. È successo che è andato a invitarla a ballare, e mentre ballavano le ha chiesto: sai chi sono? e lei gli ha risposto: no - non mi aveva riconosciuto mi dice, ti rendi conto? - allora lui le ha detto: sono Frank, ti ricordi di Londra? lei lo ha guardato, ha sussurrato: Frank? e si sono abbracciati. Che cos’altro restava da fare dopo più di trent’anni? Più di trent’anni senza vedersi, t’immagini? Quella sera per una strana coincidenza io avevo poco più di trent’anni e mi venne da pensare che forse il giorno in cui sono nato quei due stavano passeggiando in Sant James Park e magari si dicevano addio e da allora era trascorsa tutta la mia vita, ero stato bambino e avevo avuto paura del buio, ero stato ragazzo e avevo avuto paura degli altri, ero diventato uomo e avevo avuto paura di me e una sera mentre bevevo una birra e ascoltavo jazz per dimenticarmi di tutte le mie paure si erano incontrati di nuovo proprio davanti ai miei occhi e si erano abbracciati senza parlare. Il giorno dopo siamo in un ristorante da qualche parte nello Yutland e Frank mi chiede una sigaretta, lui che non fuma. Assapora il tabacco, forse vede lei nelle nuvole grigie. Dice che si è sposata e poi divorziata, una storia triste, gli ha detto: “non divorziare mai Frank”; fa una pausa, guarda il fumo perdersi in alto, mi ripete che lei era così bella e allegra e loro così felici a Londra, fa un’altra pausa, pensa se dirlo o non dirlo, alla fine lo dice, cosa sarebbe successo se l’avesse aspettata? come sarebbe la sua vita adesso? Però non l’ha aspettata, si è sposato con un’altra donna, ha avuto dei figli ed è contento della sua vita, ha avuto una buona vita, anche della sua famiglia è contento, non si può davvero lamentare; spegne la sigaretta eppure con gli occhi continua a seguire un filo di fumo invisibile dove forse ci stan dentro le vie parallele della vita, i treni che ci passano davanti e non prendiamo e che forse ci farebbero altri. Poi non parliamo più di lei nè di come sarebbe stata la sua vita se.

Pochi mesi più tardi lo aspetto a Milano ma mi chiama

per dirmi che non può venire, non si sente bene. Solo dopo mi rivela che ha avuto un infarto; allora penso a un abbraccio che

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apre una porta nascosta, di là dalla porta un labirinto e sotto i piedi un abisso: manca il tempo per tornare indietro, ti senti perduto, hai paura, e allora sulla superficie del cuore si apre una piccola crepa. Ma forse era solo una cosa che doveva succedere e che sarebbe successa comunque, anche se Frank non l’avesse invitata a ballare. Però quando lo rividi, più tardi, gli occhi non gli ridevano più come bambini. Ti scrivo tutto questo in una domenica di nuvole e sole, nell’aria si indovina la primavera che arriva. Seduto in un bar del Carrer de l’Arquitecte Sert di Barcellona guardo il cielo in fondo alla strada e penso a te, alle tue domande sulla vita, a Frank e alle sue, ai fili invisibili che a volte legano per nessuna ragione persone lontane. Mi sento un Ulisse di seconda classe che in quei fili invisibili vede la trama della tela che la sua vita Penelope fa e disfa ogni giorno e che su di essi cerca risposte. Le mie isole oggi sono un arcipelago di croissants, cappuccini, annunci di case in vendita e bambini in bicicletta che provo a cirumnavigare per non perder la rotta; con i fili invisibili disegno un cavallo, mi ci accoccolo dentro, aspetto che mi porti oltre le mura della vita Troia e per un momento mi dia l’illusione di averla capita. Uno di quei fili passa davanti al mio tavolino, luccica nell’aria di marzo; e lontano da qui, ai due capi opposti del filo, vedo tu e Frank: tu all’inizio del filo che guardi in avanti e cerchi la strada tenendo in braccio il tuo amore incerto come se fosse un gatto impaurito che accarezzi mentre quello ti graffia la pelle; Frank alla fine del filo che guarda indietro con la faccia di uno ha perso qualcosa, qualcosa che potrebbe essere un gatto che un tempo teneva in braccio e gli dava calore e che adesso gli manca. Il cameriere mi chiede que quiero tomar, gli chiedo un cafè solo mentre tu e Frank da lontano vi guardate negli occhi con le stesse domande nel cuore: qual è il mio cammino? mi sono perduto? sono in tempo a cambiar strada? e in mezzo a voi solo un sottile filo invisibile che chiamano vita, fatto di vuoto e silenzio. E forse è proprio il silenzio a dirci qualcosa: che alle nostre domande non troveremo risposta neanche alla fine del filo. E che forse tutto quello che importa è che quel filo ci nasca dal cuore, e che sia un filo splendente. Passa una nuvola grigia, un soffio di vento mi da freddo alla schiena. Pago il caffè, lascio la mancia, in fondo alla strada il

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cielo è più scuro. Per quest anno la primavera ci metterà ancora un pò ad arrivare.

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Più penso alle tenebre, meno so come sono e sempre più difficile diventa definirle. Si scende nelle tenebre attraverso la luce viola del corridoio dell’ospedale? O si passa attraverso barriere roventi? Ci si arriva trafitti dalle palle di mitragliatrice, com’è stato trafitto il mio amico Alberto Ruga, tenente comandante di compagnia, che cercava di tornare a casa inerme a piedi dal Montenegro? Com’è stato trafitto il mo amico Arnaldo Trezzi caporalmaggiore furiere di Intra? O ci si arriva col cuore marcito com’è arrivato il mio amico Valdacchino all’ospedale delle Molinette, invisibile quella sera nella nebbia d’autunno sul Po? O ci si arriva sbattuti come sassi contro un muro, Mario? Papà, le tenebre sono nere o bianche? Ettore Sottsass, Le ceramiche delle tenebre

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189 passi per diventare nessuno* Passo le dita tra le tue, che sono un po’ gonfie, e mi chiedo quando è stata l’ultima volta che ci siamo presi per mano. Chissà, non me ne ricordo nemmeno più. Negli ultimi tempi preferivo abbracciarti appoggiando per un momento la tempia contro la tua come se con quel breve contatto ci potessimo scambiare dei pensieri senza la fatica di parlare. Per pudore ma soprattutto perché col tempo passa la voglia di fare domande e di dare risposte; le parole aprono la finestra, guardano fuori, dicono: oggi non ho voglia di uscire, richiudono la finestra e se ne ritornano a dormire in fondo alla tua gola o anche più giù. Arriva perfino un punto in cui vorresti metterti da parte e lasciare che le cose succedano da sole e non fare nemmeno lo sforzo di raccontarle. Forse per quello si finisce per usare luoghi comuni, si parla col pilota automatico. Il che naturalmente non giustifica tutti quelli che parlano solo per luoghi comuni, né il fatto che alcuni di loro arrivino a scrivere sulla prima pagina del Corriere della Sera. Però sai che ti dico? che ci sono tanti modi di prendere una persona per mano, a volte senza che nemmeno se ne accorga, e io ho sempre sentito che mi tenevi per mano anche se forse a non accorgersene eri tu. In fondo pensavi di non essere adatto, eri un po’ come quegli adesivi che negli anni settanta andava di moda attaccare dietro le automobili, con Snoopy che camminava e sotto la scritta: non seguitemi, mi sono perso anch’io. Eppure con le parole sapevi prendermi per mano, le parole che non servono a descrivere la realtà – è impossibile – ma piuttosto a descrivere un angolo di visione e a certificare che di angoli ne esistono infiniti per cui nessuno se ne può arrogare il diritto d’esclusiva (a dispetto dei furbi che vivono bene facendo gli opinionisti professionali); e nel tuo caso anche a insegnare che a tutto si può aggiungere un tocco di fantasia, che poi è quello che rende il tuo angolo di visione diverso da quello degli altri. La notte del mio primo torneo di tennis, per esempio: si trattava di parlare di cosa significa vincere o perdere, due verbi che ti ritrovi tra le palle piuttosto

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spesso nella vita a seguire, e non è una faccenda facile a meno che uno non opti per declamare If di Kipling, sempre ammesso che se la ricordi a memoria. Tu mi dicesti: pensa ai cani bastonati e quando scendi in campo cerca di vincere per loro. Son passati quarant’anni, me lo ricordo ancora. Con una frase m’insegnasti che si può aver voglia di vincere per gli altri, che vincere per te stesso forse nemmeno serve; con quella frase mi prendesti per mano e mi portasti su una strada che continuo a percorrere, a sentire mia.

Anche la notte del tuo primo infarto: una frase sola. L’infarto ti prese per strada e quando sentisti il dolore al petto ti mettesti a correre perché volevi vedere se correndo ti passava, una cosa che poteva venire in mente solo a te. Arrivai in ospedale e il medico disse che ci dovevamo preparare al peggio. Dal corridoio vedevo un infermiere inserirti flebo; uscì dalla tua stanza, venne verso di me e mi disse che mi volevi parlare – non potresti entrare, mi disse, non deve fare sforzi, vai dentro un momento e poi lascialo riposare. Entrai pensando che forse sarebbe stata l’ultima volta che ti parlavo, chissà cosa volevi dirmi, qualcosa d’importante, cosa si dice quando si sta per morire? Mi guardasti serio, ti facesti promettere che avrei detto a mamma di ricordarsi di dar da mangiare al gatto e ciao, mi salutasti con la mano, nient’altro. Passai la notte in ospedale senza sapere se piangere o ridere del fatto che se tu fossi morto lì il tuo ultimo pensiero sarebbe stato per il gatto. Eppure, ripensandoci, portarsi dietro un gatto quando ti tocca passare il confine è un modo leggero di andarsene, anch’io spero di riuscire ad andarmene leggero quando toccherà a me. Poi invece fu il gatto a passare il confine prima di te e tu ne piangesti per un mese: la mattina dopo infatti stavi già meglio, andai a casa tua a riposare un poco, il gatto che da me non si era mai lasciato toccare per la prima volta mi venne incontro e cominciò a strusciarsi alle mie gambe.

Poi arrivò il secondo infarto perché la vita è un predatore

e se ti vede debole ti attacca; e tu debole lo eri, e le debolezze prima o poi si pagano. Ho ancora una vecchia foto di noi due insieme che è così ironica: eravamo al tiro a segno di un luna-park, negli anni sessanta; mi tenevi il braccio intorno alla vita, se facevi centro la macchina scattava la foto. Eri bello, elegante

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e avevi l’aria ispirata: facesti centro. E io salgo nella foto con una faccia incantata, quasi sorpresa, come se non me lo aspettassi; e infatti fu l’unica volta nella mia vita in cui ti ho visto far centro, gli altri tiri ti sono sempre usciti storti e credo te ne vergognassi un po’ eppure sai una cosa? quelli che fanno sempre centro nella vita e ne vanno tanto orgogliosi mi stanno proprio sui coglioni, è più forte di me. E tu che eri debole con i deboli sentivi vicinanza, soprattutto se erano animali, degli uomini ormai ti eri disinnamorato. Un giorno dopopranzo ti vidi metter di nascosto in tasca briciole di pane prima di uscire di casa: mamma non vuole, mi dicesti, ma c’è un piccione senza una zampa che mi aspetta fuori dalla porta ogni giorno all’ora in cui esco di casa per andare a prendere il caffè al bar e io gli do da mangiare. Non ci credevo, scesi con te: il piccione senza una zampa era lì fuori ad aspettarti.

Ti lascio la mano, che sta diventando fredda. Quando mi

hanno chiamato dall’ospedale per dirmi che stavi morendo sono corso ma sono arrivato tardi, avevi già passato il confine. Lo avresti passato comunque da solo, perché da giorni eri in coma, però mi sarebbe piaciuto parlarti all’orecchio mentre te ne andavi, dirti di non avere paura. Le dita ti rimangono ferme, gonfie dei liquidi che ti infilavano in corpo nel reparto di terapia intensiva. Scendo le scale, esco in strada, è una domenica d’agosto ma grigia, c’è odore di pioggia nell’aria. Attraverso la piazza tenendomi la torre sulla destra, via Cammeo, sull’angolo lo Scali, poi il cancello della casa in cui sei nato, accanto alla farmacia comunale che allora, nel millenovecentotrentuno, erano il magazzino e le stalle di famiglia. Li ho contati sai, sono centottantanove passi dal punto in cui sei nato al punto in cui sei morto. Centottantanove passi, una vita. Io invece credo che morirò lontano da casa, d’altronde è così tanto tempo che sono lontano da casa. Mentre attraverso Porta Nuova la vedo cambiare di colore, diventare una cartolina in bianco e nero, sarà colpa del cielo che si fa sempre più grigio. Al posto dei negozi per turisti, delle case di cambio, dei ristoranti kebab dall’altra parte della strada vedo Degno in piedi alla porta del suo vecchio negozio di alimentari, quello dove faceva i panini al salame toscano più buoni del mondo; poco più in là Sergio il pollaiolo, sull’angolo opposto Alfredo al banco del bar con la sala da biliardo piena di fumo sul retro, e Cafiero davanti a

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bottega, aspettando che tu tiri su la serranda; anche loro in bianco e nero, tornati indietro da un tempo in cui ognuno aveva un nome e la vita era una cosa di uomini e non di andamenti di borsa, tutti lì ad aspettare che tu riapra bottega per darti il bentornato con una sbicchierata.

Quando arrivo a casa piove e ho voglia di piangere, ma

poi penso che forse stai lì seduto sul tetto ridendotene di tutti e non vcrresti; allora ti dico: se sei seduto sul tetto mandami un segno, dimmi che stai bene. Entro in camera, si sente solo rumore di pioggia. Dalla finestra vedo i piccioni sul tetto davanti; a uno scroscio di pioggia più forte se ne volano via tutti meno uno. Il piccione rimasto tiene un’ala ripiegata e l’altra aperta e avanza barcollando verso il bordo del tetto, sembra che sia ferito e che soffra. Lo osservo per qualche minuto caracollare sempre più vicino alla grondaia con quell’ala che punta il cielo e sembra rotta, pare a punto di cadere giù; mi fa male guardarlo, già troppo dolore per oggi, decido che devo aiutarlo - tu eri amico dei piccioni e lo avresti fatto: dal tetto del garage si può arrivare a quello davanti. Però appena mi muovo per saltare sul tetto il piccione richiude l’ala ferita, comincia a zampettare correndo, apre le ali e vola via. Lo so, potrebbe essere solo una coincidenza, eppure sento che quello era il tuo segno, il tuo modo di dirmi: mi hai visto soffrire ma adesso sto bene, sono volato via, sono libero. Forse per questo continuo a parlarti ogni giorno ed ho meno paura. E forse è grazie a quel segno che ripenso con un sorriso all’ultima frase che mi hai detto prima che ti portassero in sala operatoria, stavolta l’ultima per davvero: non ti preoccupare, il peggio è passato. * grazie a Tiziano Terzani per tante cose, tra cui questa: vivere per diventare nessuno

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Quise mirar el mundo con tus ojos Ilusionados, nuevos, Verdes en su fondo Como la primavera. Entré en tu cuerpo lleno de esperanza Para admirar tanto prodigio desde El claro mirador de tus pupilas. Y fuiste tú la que acabaste viendo El fracaso del mundo con las mias.

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Lady Bastard Prima di chiudere vorrei spiegarti meglio questa faccenda della tristezza. Tanto ormai i clienti sono andati via tutti, devo solo passare uno straccio sui tavoli, impilare le sedie e poi restare a guardarle come se fossero le cose che ho in testa, le mie idee di alluminio che ogni tanto luccicano al sole ma su cui nessuno si viene a sedere, che hai voglia di crederti un lupo solitario se poi sei solo capace di avere idee a forma di sedia che stanno lì ad aspettare una donna, un amico, un compagno. Guarda, pulisco i tavoli veloce e ti spiego, che poi devo chiudere a chiave la porta del bar con dentro i suoi duecentosessanta metri cubi d’aria che sa sempre uguale, aria già respirata, che se aveva un sapore si è fermato nei polmoni di un altro. Perché ti ho vista irritata e mi dispiace. Non sei una persona triste, va bene, ho capito, anche se per qualche strano motivo lo pensano in molti, anzi sei una persona allegra, diciamo a dispetto di tutto visto che la vita eh, la vita non è che te ne dia tanti motivi. Che fai il doppio lavoro per pagare le spese e poi quando esci trovi una multa sul parabrezza e sei a zero di nuovo. Che l’amore non si sa dove sta, che un uomo ti chiama alle due di notte, ti dice vieni e tu vai e il giorno dopo sparisce fino alla prossima volta che alle due di notte ti suona il telefono. Che la città è un cubo di ghiaccio pieno di spigoli. Che come mai non ti va l’idea di un trio, non mi dire che sei uno di quei tipi all’antica. Che i sogni, i progetti, poi altri sogni e progetti e altri sogni e progetti. Che la famiglia, i genitori, la sfortuna. Ho capito, ho capito tutto, credimi che ho capito. Però io non ti ho detto che sei una persona triste, ho detto che nascondi tristezza in fondo agli occhi, è diverso. Credevo di averti fatto un complimento, pensa tu. Credevo, a quest’ora te lo posso confessare dato che qui non c’è più nessuno, di averti fatto una dichiarazione non dico d’amore perché abbiamo appena detto che l’amore non si sa dove sta, ma almeno di complicità, di complicità si anche se pure quella si nasconde bene. Anche qui al bar che tutti hanno fretta e si siedono e appoggiano gli occhi sul banco che sembrano due palle da biliardo d’avorio levigato con un numero al posto della pupilla e

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in alcune di quelle palle con un po’ d’immaginazione ci vedi rabbia o stanchezza o paura, in altre anche con l’immaginazione ci vedi un bel niente; tu invece negli occhi porti tristezza, ma proprio in fondo, come solo un ricordo. Che se uno non ha lo stesso ricordo nemmeno la riconosce. Io quel ricordo ce l’ho e forse volevo solo dirti: anch’io, perché cos’è la complicità se non dire anch’io sottovoce? E non parlo di sentimenti che è complicato e non ci arrivo, io sono uno che serve birre e caffè, mica sono un filosofo; no, parlo di odori, di animali che si annusano e si sentono simili – però non ti offendere se parlo di noi come animali eh, non ti offendere più che poi mi dispiace e l’aria diventa pesante e a portarne duecentosessanta metri cubi sulle spalle non ce la faccio, che poi entro nel letto e sento dolori come se avessi scaricato un camion. Che invece guarda, la tristezza è un regalo. Come faresti tu a sapere cos’è l’allegria se non conoscessi la tristezza? Per quello Dio ci regala di ogni cosa il contrario e fa poveri quelli che hanno tutto e non sanno il valore di niente. Anche il buio, lo vedi lì fuori dalla porta del bar che ci aspetta, come lo definisci tu il buio? assenza di luce, no? Ma se non conosci la luce, come lo definisci il buio? Non lo definisci, ti limiti a viverci dentro, ci stai dentro e nemmeno lo sai. E parlando del buio e di quello che uno sa o non sa vorrei chiederti una cosa, secondo te perché al buio è più facile che ti venga voglia di abbracciare qualcuno? Che a me succede sempre, soprattutto quando sono solo, per quello dico che mi succede sempre, non so a te. Forse anche quella dev’essere una cosa di quando eravamo animali e altri animali di notte ci attaccavano in silenzio, sono sicuro che un nostro lontano antenato centinaia di migliaia d’anni fa ha visto un suo fratello divorato nel buio senza aver tempo di accorgersi che la sua vita stava finendo e per ognuno di noi dentro un gene ha scritto un messaggio: al buio abbracciatevi, finché siete in tempo. Ma non pensar male eh, non sto cercando di dirti che adesso usciamo fuori insieme nel buio e poi ci abbracciamo anche se mi piacerebbe, mi piacerebbe assai sentire il tuo odore e l’aria che diventa leggera e tutto si ferma e non importa più niente. Non sentir più la paura che qualcosa ti attacchi alle spalle. Perché sai cos’e`questa cosa della tristezza? è come far parte di un branco e arriva un predatore che attacca il branco alle spalle, potrebbe toccare a chiunque ma guarda caso il

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predatore attacca proprio te, senti che ti morde la schiena, vedi il tuo sangue che sgorga e intanto il resto del branco ha ripreso a pascolare tranquillo e nessuno si cura di te. Poi il morso lascia ferite, le ferite cicatrici: qualcuno le nasconde, qualcuno le dimentica e qualcuno invece le porta negli occhi – porta negli occhi l’esperienza del dolore, questo regalo di Dio. Già ti vedo che dici: grazie ma ne farei anche a meno. Però portarlo leggeri e poi aiutarsi a dividerne il peso, chissà che non stia nascosto lì dentro l’amore? Io questo non lo so, quello che so è che se non lo condividi alla fine il dolore si accumula, come una goccia dopo l’altra dentro un bicchiere che prima o poi non basta più, allora esce fuori e invade tutto, ti ricordi di New Orleans dopo l’uragano quando si vedeva solo acqua e le case e le strade non si vedevano più? ecco, quando il dolore esce fuori non vedi più niente, solo acqua sporca, scendi dal letto e ci infili dentro i piedi, guardi fuori dalla finestra e vedi solo acqua grigia e non hai più voglia di uscire. A quel punto ci vorrebbe una macchina, a volte penso che a inventarla ci sarebbe da fare i soldi sai, l’ironia è che con quella macchina i soldi non ti servirebbero più a niente: una macchina come quelle cabine che usano nei controlli di sicurezza degli aeroporti americani, asettiche e silenziose: tu entri, si chiudono le porte e un attimo dopo ti sparano addosso un getto d’aria per controllare non so che; poi le porte si riaprono e passi di là. Solo che invece dell’aria questa macchina ti sparerebbe addosso un raggio blu, dello stesso colore di quegli apparecchi contro gli insetti che usano i ristoranti all’aperto quando acchiappano una mosca e la elettrificano, un raggio blu che fa zzz e che in un attimo e senza dolore ti trasforma in un mucchietto di cenere; poi la porta si apre e il vento ti porta via. A volte ne avrei proprio voglia di entrare in una macchina così sai?, soprattutto quando mi sento stanco. Come prima, quando ti ho vista uscire dal bar ancora indispettita con me per quella cosa della tristezza e ho pensato non andare via ma sei andata via lo stesso, e sentivo Jacques Brel cantare Ne me quitte pas nella mia testa piena di sedie vuote e ho pensato all’amore quando diventa dolore e all’acqua grigia che ti arriva al collo e ho anche pensato di scriverti lettere d’amore anonime per San Valentino e poi appenderle tutte alla porta del bar aspettando che tu un giorno ritorni. Il tuo nome non me lo hai detto ma prima che tu entrassi nel buio ho visto la scritta che

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avevi dietro il giubbotto e sulle buste delle mie lettere d’amore scriverò: per lady bastard.

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