regola pastorale di san gregorio magno, pontefice romano, a

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REGOLA PASTORALE DI SAN GREGORIO MAGNO, PONTEFICE ROMANO, A GIOVANNI VESCOVO DELLA CITTÀ DI RAVENNA Gregorio al reverendissimo e santissimo Giovanni, fratello nell’episcopato Carissimo fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto. La materia trattata in questo libro si divide in quattro parti, per accostare l’animo del lettore con ordinate argomentazioni, come i passi successivi di un cammino. Infatti occorre che chiunque sia chiamato al più alto grado del governo pastorale — quando gli eventi storici lo richiedono — valuti seriamente come vi giunge; e se vi giunge legittimamente consideri qual è la sua vita; e se la sua vita è buona, qual è il suo insegnamento; e se il suo insegnamento è corretto, egli deve essere quotidianamente consapevole, con ogni possibile considerazione, della propria debolezza; e così non avvenga che o la sua umiltà lo sottragga dall’accedere alla dignità o la sua condotta di vita contrasti con essa; la sua dottrina si allontani da una buona condotta di vita o la presunzione gli faccia esaltare la propria dottrina. Quindi innanzitutto sia il timore a moderare il desiderio; poi sia la condotta di vita a confermare un magistero che viene assunto da chi non lo cercava; quindi è necessario che quanto di bene si manifesta nel modo di vivere del Pastore si diffonda anche attraverso la sua parola. Resta infine che la considerazione della propria debolezza abbassi ai suoi occhi il valore di ogni opera buona che egli compie, affinché la gonfiezza dell’esaltazione non la cancelli agli occhi del Giudice occulto. Molti però, che sono simili a me per ignoranza, mentre non sanno misurare se stessi, bramano di insegnare ciò che non hanno imparato e tanto più giudicano leggero il peso del magistero, quanto meno sanno valutarne la grandezza. Costoro si sentano biasimati fin dal principio di questo libro e poiché, indotti e precipitosi come sono, mirano ad occupare la rocca della dottrina, siano respinti dalla temerarietà della loro precipitazione fin dalla soglia del nostro discorso.

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REGOLA PASTORALE

DI SAN GREGORIO MAGNO, PONTEFICE ROMANO, A GIOVANNI VESCOVO DELLA CITTÀ DI RAVENNA

Gregorio al reverendissimo e santissimo Giovanni,

fratello nell’episcopato

Carissimo fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto. La materia trattata in questo libro si divide in quattro parti, per accostare l’animo del lettore con ordinate argomentazioni, come i passi successivi di un cammino. Infatti occorre che chiunque sia chiamato al più alto grado del governo pastorale — quando gli eventi storici lo richiedono — valuti seriamente come vi giunge; e se vi giunge legittimamente consideri qual è la sua vita; e se la sua vita è buona, qual è il suo insegnamento; e se il suo insegnamento è corretto, egli deve essere quotidianamente consapevole, con ogni possibile considerazione, della propria debolezza; e così non avvenga che o la sua umiltà lo sottragga dall’accedere alla dignità o la sua condotta di vita contrasti con essa; la sua dottrina si allontani da una buona condotta di vita o la presunzione gli faccia esaltare la propria dottrina. Quindi innanzitutto sia il timore a moderare il desiderio; poi sia la condotta di vita a confermare un magistero che viene assunto da chi non lo cercava; quindi è necessario che quanto di bene si manifesta nel modo di vivere del Pastore si diffonda anche attraverso la sua parola. Resta infine che la considerazione della propria debolezza abbassi ai suoi occhi il valore di ogni opera buona che egli compie, affinché la gonfiezza dell’esaltazione non la cancelli agli occhi del Giudice occulto. Molti però, che sono simili a me per ignoranza, mentre non sanno misurare se stessi, bramano di insegnare ciò che non hanno imparato e tanto più giudicano leggero il peso del magistero, quanto meno sanno valutarne la grandezza. Costoro si sentano biasimati fin dal principio di questo libro e poiché, indotti e precipitosi come sono, mirano ad occupare la rocca della dottrina, siano respinti dalla temerarietà della loro precipitazione fin dalla soglia del nostro discorso.

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PARTE PRIMA

REQUISITI DEL PASTORE D’ANIME

1 — Gli ignoranti non osino accostarsi al magistero Non c’è arte che uno possa presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti. Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure le regole della vita spirituale ma non temono di professarsi medici dell’anima, mentre chi ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per medico del corpo. Ma poiché ormai per volontà di Dio ogni autorità del secolo presente si inchina con riverenza di fronte alla religione, non sono pochi coloro che dentro la Santa Chiesa aspirano alla gloria di una dignità dietro l’apparenza del governo delle anime. Aspirano a passare per maestri, bramano di superare gli altri e — come afferma la Verità — amano i primi saluti in piazza, i primi posti nelle cene, e le prime sedie nelle riunioni (cf. Mt. 23, 6-7). Essi sono tanto più incapaci di assolvere degnamente all’ufficio della cura pastorale che hanno assunto in quanto sono pervenuti al magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché nell’insegnamento perfino la lingua si confonde quando si insegna qualcosa di diverso da ciò che si è imparato. Contro costoro il Signore si lamenta per mezzo del profeta dicendo: Da sé hanno regnato, non designati da me; sono divenuti principi ed io non l’ho saputo (Os. 8, 4). Infatti, coloro che, senza il sostegno di alcuna virtù, non chiamati per vocazione divina ma accesi dalla propria cupidigia non conseguono ma rapiscono il più alto grado del governo delle anime, regnano di proprio arbitrio, non per decisione del sommo reggitore. Tuttavia, il Giudice delle coscienze mentre li eleva non li riconosce, poiché certo nel suo giudizio di condanna egli ignora coloro che pure, nella sua permissione, tollera. Perciò egli dice a certuni che vanno da lui dopo aver compiuto addirittura dei miracoli: Allontanatevi da me operatori di iniquità, non so chi siete (Lc. 13, 27). E così viene aspramente rimproverata dalla voce della Verità la ignoranza dei Pastori, quando essa dice per mezzo del profeta: Perfino i pastori non hanno saputo comprendere (Is. 56, 11). E ancora il Signore li respinge dicendo: Pur avendo in mano la legge non mi hanno conosciuto (Ger. 2, 8). Dunque, la Verità si lamenta di non essere conosciuta da costoro e dichiara di non riconoscere il primato di chi non la conosce, giacché è certo che quanti non conoscono le cose del Signore, non sono conosciuti da lui, secondo la testimonianza di Paolo che dice: Se qualcuno poi ignora sarà ignorato (1 Cor. 14, 38). Naturalmente poi, a questa ignoranza dei Pastori corrispondono spesso i demeriti dei sudditi, perché quantunque sia tutto a loro proprio carico se i Pastori non possiedono il lume della conoscenza, tuttavia per un rigoroso giudizio accade che a causa della loro ignoranza inciampino anche coloro che li seguono. Di qui la Verità stessa dice nell’Evangelo: Se un cieco presta la sua guida a un altro cieco, cadono ambedue nella fossa (Mt. 15, 14). E il salmista, non esprimendo un desiderio del suo animo, ma nell’esercizio del suo ministero profetico, dichiara: Si oscurino i loro occhi perché non vedano, e piega sempre di più il loro dorso (Sal. 68, 24). Gli occhi sono chiaramente coloro che posti innanzi a tutti al grado sommo della dignità, hanno assunto il compito di fare da guide nel cammino; e quelli che al loro seguito aderiscono ad essi sono giustamente chiamati dorsi. Dunque, se gli occhi si oscurano, il dorso si piega: così quando coloro che guidano perdono la luce della conoscenza, quelli che seguono si curvano inevitabilmente sotto il peso dei peccati.

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3 2 — Non occupino il posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo studio Ci sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con esperta cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che riescono a comprendere con l’intelligenza: subito si mettono a insegnare ciò che hanno imparato con lo studio ma non con la pratica; e combattono con i loro costumi ciò che predicano con le loro parole. Così avviene che quanto il pastore cammina per terreni scoscesi il gregge che lo segue cade nel precipizio. Perciò il Signore si lamenta per mezzo del profeta contro la spregevole scienza dei Pastori, dicendo: Mentre voi bevevate acqua limpidissima, intorbidavate l’altra con i vostri piedi e le mie pecore si nutrivano di quanto voi avevate calpestato con i vostri piedi e bevevano l’acqua che i vostri piedi avevano intorbidato (Ez. 34, 18-19). I Pastori bevono acqua limpidissima quando attingono alle acque correnti della verità con retta intelligenza, ma è come intorbidare quella stessa acqua con i propri piedi il corrompere gli studi di una meditazione santa con una cattiva condotta di vita. Sono poi pecore che bevono l’acqua intorbidata dai piedi di quelli, i sudditi che non seguono le parole che ascoltano, ma imitano solo ciò che vedono, cioè gli esempi di una vita depravata. Infatti essi hanno sete di quanto viene loro detto con le parole, ma poi sono pervertiti dalle opere e allora è come se nei loro bicchieri bevessero fango perché le sorgenti si sono inquinate. Perciò è pure scritto per mezzo del profeta: I cattivi sacerdoti sono laccio di rovina per il mio popolo (cf. Os. 5,1; 9,8). E sempre dei sacerdoti dice ancora il Signore: Sono divenuti per la casa di Israele pietra di inciampo per l’iniquità (Ez. 44, 12). In verità nessuno nuoce di più nella Chiesa di chi portando un titolo o un ordine sacro conduce una vita corrotta, giacché nessuno osa confutare un tale peccatore e la colpa si estende irresistibilmente con la forza dell’esempio quando, a causa della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene onorato. Ma pur essendo indegnissimi, fuggirebbero la responsabilità di una colpa così grave se valutassero con attento orecchio del cuore la sentenza della Verità che afferma: Chi avrà scandalizzato uno solo di questi piccoli che credono in me è meglio per lui che gli si appenda una macina d’asino al collo e lo si getti nel profondo del mare (Mt. 18, 6). Dove la macina d’asino significa quel faticoso ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che lo avessero trascinato a morte le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una pena infernale comunque più tollerabile. 3 — Il peso del governo delle anime. Bisogna disprezzare le avversità e temere la prosperità Abbiamo voluto dimostrare in breve, con quel che abbiamo detto sopra, quanto sia grave il peso del governo delle anime, perché nessuno che non sia in grado di sostenerlo osi accostarsi temerariamente ai ministeri sacri e, per la bramosia di raggiungere il luogo della massima dignità, si assuma invece la guida della perdizione. Per questo Giacomo mette piamente in guardia dicendo: Non vogliate, fratelli miei, divenire maestri in molti (Giac. 3, 1). E perciò lo stesso Mediatore fra Dio e gli uomini rifuggi dall’assumere il regno sulla terra, lui che superando la scienza e la conoscenza anche degli spiriti celesti regna nei cieli prima dei secoli. Difatti è scritto: Gesù, dunque, sapendo che sarebbero venuti per rapirlo e farlo re, fuggì di nuovo sul monte, lui solo (Gv. 6, 15). Eppure chi avrebbe potuto regnare senza colpa sugli uomini come colui che avrebbe regnato, così., sulle sue creature? Ma poiché era venuto nella carne proprio per questo, non solo per redimerci con la sua passione ma anche per ammaestrarci con la sua vita e offrirsi come esempio per quelli che lo seguivano, perciò non volle divenire re, ma si avviò spontaneamente al patibolo della croce, fuggi la gloria della somma dignità che gli veniva offerta, ricercò la pena di una morte obbrobriosa. Ciò evidentemente perché noi sue membra imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere affatto i terrori della morte, ad amare le avversità per difendere la verità, a evitare con

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4 timore la prosperità, perché questa con la gonfiezza che l’accompagna corrompe il cuore, mentre le avversità lo purificano attraverso la sofferenza. Nella prosperità l’animo si innalza, ma nell’avversità, anche se prima si fosse innalzato, si prostra. Nella prosperità l’uomo dimentica ciò che è, ma nell’avversità anche non volendolo è richiamato quasi per costrizione a ricordarsene. Nella prosperità spesso anche il bene compiuto prima si corrompe, ma nell’avversità viene cancellato ciò che di male si è commesso anche nel corso di un lungo tempo. Infatti, per lo più sotto il magistero dell’avversità il cuore è come costretto dalla disciplina, ma se poi si innalza fino al più alto grado di governo, per l’esperienza della gloria si muta ben presto fino all’esaltazione. Così Saul, che in un primo tempo era fuggito per non essere fatto re considerandosene indegno (cf. 1 Sam. 10, 22), poi come ebbe assunto la guida del regno si gonfiò, e bramoso di essere onorato davanti al popolo, per non essere rimproverato pubblicamente, rinnegò perfino colui che l’aveva unto re (cf. 1 Sam. 15, 17-30). Così David, approvato quasi in ogni sua azione dal giudizio di Dio, appena non si senti più oppresso dalla persecuzione ruppe nella superba ferita del peccato (cf. 2 Sam. 11, 3 ss.) e divenne rigido e crudele nel volere la morte di un uomo nobile, mentre era stato molle e senza forza nel desiderio dissoluto di una donna. Lui che prima aveva saputo salvare piamente i malvagi imparò poi a desiderare l’uccisione anche dei buoni con fredda determinazione (cf. 2 Sam. 11, 15). Infatti una volta pur trovandosi nelle mani il suo persecutore non volle colpirlo, ma in seguito uccise un soldato devoto, con danno, inoltre, dell’esercito che già si trovava in difficoltà. E la colpa lo avrebbe certamente strappato e portato ben lontano dal numero degli eletti, se il castigo divino non lo avesse richiamato al perdono (cf. 2 Sam. 12). 4 — L’occupazione del governo delle anime per lo più dissipa l’unità dello spirito Spesso le cure assunte col governo delle anime disperdono il cuore in diverse direzioni così che ci si ritrova incapaci di affrontare problemi singoli perché la mente confusa è divisa in molte occupazioni. Perciò un sapiente avvertito ammonisce: Figlio non applicarti a molte attività (Sir. 11, 10). E ciò per dire che la mente divisa in diverse operazioni non può raccogliersi pienamente nella considerazione esigente di ciascuna; e mentre è trascinata al di fuori da una cura prepotente, si svuota di quella unità dello spirito prodotta dall’intimo timore: diviene sollecita nella disposizione di cose esteriori, e ignara solamente di sé, sa pensare a molte cose ma non conosce se stessa. Infatti, quando si immerge più del necessario in occupazioni esterne è come se, distratta lungo un viaggio, si dimenticasse della meta cui era diretta e così, noncurante di attendere all’esame di se stessa, non considera neppure quali danni riceve da ciò e ignora l’entità del suo peccato. In effetti Ezechia non credette di peccare quando mostrò agli ospiti stranieri i depositi dei profumi (cf. 2 Re 20, 13), ma per questa azione che egli aveva stimato lecita dovette portare l’ira del Giudice nella condanna per i suoi discendenti (cf. Is. 39, 4-8). Accade spesso che molte azioni per sé lecite e tali che, quando sono compiute, riscuotono l’ammirazione dei sudditi, provochino però una esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa, quantunque non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira su di sé l’ira senza riserve del Giudice. Poiché è nell’intimo colui che giudica ed è l’intimo che è giudicato; e quando pecchiamo nel cuore ciò che compiamo in noi resta nascosto agli uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro peccato. Infatti il re di Babilonia non peccò di superbia solamente quando giunse a pronunciare parole superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta la sentenza della sua condanna quando ancora non si era esaltato con le sue parole (cf. Dan. 4, 16 ss.). Egli poi, in precedenza, aveva lavato la sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il Dio che aveva offeso, predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf. Dan. 3, 98-100); ma in seguito esaltato per l’affermazione del suo potere, compiaciuto di aver compiuto grandi cose, si antepose a tutti nel suo pensiero, e quindi si inorgoglì al punto di esclamare: Non è questa la grande Babilonia che io ho edificato come cosa del mio regno, merito della mia forza, gloria della mia maestà? (Dan. 4, 27) Furono certamente queste parole che dovettero sostenere apertamente la vendetta di quell’ira che l’intima esaltazione aveva acceso. Infatti il severo Giudice aveva veduto già da prima ciò che invisibilmente era in lui e che rimproverò poi pubblicamente con la punizione: lo trasformò in

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5 animale irrazionale, lo separò dal consorzio umano, lo associò per la sua mente sconvolta alle bestie della campagna, affinché per un giudizio evidentemente severo e tuttavia giusto, finisse col non essere più un uomo colui che si era stimato grande al di sopra degli uomini (cf. Dan. 4, 28-30). Così, proponendo questi esempi, non intendiamo disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla brama di raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino impadronirsi della massima dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si arrischino a porre il piede sul precipizio. 5 — Alcuni chiamati alla massima dignità del governo delle anime potrebbero giovare col loro esempio, ma rifiutano cercando la propria quiete Ci sono in effetti alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati per i loro grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita ascetica. Costoro sono puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che è frutto dell’astinenza, sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili nella loro paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria della giustizia. Costoro però escludono per lo più anche se stessi da questi doni che non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli altri, se quando siano chiamati alla massima dignità del governo delle anime rifiutano di accettarla. E poiché pensano al loro guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni che desiderano possedere a uso privato. Perciò infatti la Verità dice ai discepoli: Non può restare nascosta una città posta su un monte, né si accende una lampada e la si pone sotto un moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti coloro che sono in casa (Mt. 5, 15). Perciò dice a Pietro: Simone di Giovanni, mi ami? (Gv. 21, 17) E lui che subito aveva risposto che lo amava si sentì dire: Se mi ami, pasci le mie pecore (Gv. 21, 17). Se dunque la cura pastorale è testimonianza d’amore, chiunque ricco di virtù rifiuta di pascere il gregge di Dio ha in ciò stesso la prova che egli non ama il Pastore sommo. Perciò Paolo dice: Se Cristo è morto per tutti, dunque tutti sono morti, e se è morto per tutti resta che coloro che vivono non vivano pia per sé ma per colui che è morto per loro ed è risorto (2 Cor. 14, 15). Perciò ancora Mosè dice che un fratello che sopravvive al fratello morto senza figli ne sposi la moglie e generi figli a nome del fratello; e se rifiuterà di prenderla la donna gli sputi in faccia e il parente più prossimo di lei gli tolga un sandalo, e la sua abitazione sia detta casa dello scalzato (cf. Deut. 25, 5). Ora, il fratello morto è certamente colui che apparendo dopo la sua gloriosa risurrezione disse: Andate, dite ai miei fratelli (Mt. 28, 10). Egli è come morto senza figli, poiché non ha completato il numero dei suoi eletti, e allora al fratello superstite viene ordinato di ricevere la sua sposa. Poiché è certamente cosa degna che la cura della Santa Chiesa venga imposta a chi più di ogni altro è in grado di governarla. E se egli non vuole, la donna gli sputa in faccia, giacché chiunque non ha cura di giovare agli altri coi doni che ha ricevuto, la Santa Chiesa gli rimprovera anche ciò che egli fa di buono ed è come se gli gettasse saliva in faccia. Ma egli è anche colui a cui viene tolto il sandalo da un piede così che la sua casa sia detta dello scalzato, poiché è scritto: Calzati i piedi per prepararsi al annunciare l’Evangelo della pace (Ef. 6, 15). Dunque proteggiamo ambedue i piedi coi sandali se ci prendiamo cura degli altri come di noi stessi; ma è come se perdesse con vergogna il sandalo da un piede colui che pensando alla propria utilità trascura quella del prossimo. Così, come abbiamo detto, ci sono alcuni ricchi di grandi doni i quali ardono dal desiderio della sola contemplazione e rifiutano di assoggettarsi all’utilità del prossimo attraverso il servizio della predicazione, perché amano la quiete appartata e aspirano alla meditazione in solitudine. Se si dovesse giudicarli con rigore sotto questo aspetto, essi sono responsabili nei confronti di tante anime, quante sono quelle cui avrebbero potuto giovare venendo a stare fra gli uomini. In effetti con quale pensiero colui che avrebbe potuto brillare nella sua dedizione a vantaggio del prossimo prepone il proprio ritiro alla utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito del Sommo Padre, per giovare a molti, è uscito dal seno del Padre (cf. Gv. 1, 18; 8, 42; ecc.) per venire fra gente come noi?

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6 6 — Coloro che fuggono il peso del governo delle anime per umiltà sono veramente umili quando non resistono al decreto divino Ci sono poi alcuni che rifiutano solo per umiltà, per non essere cioè preferiti a coloro ai quali si stimano inferiori. La loro umiltà, se si circonda anche delle altre virtù, è certamente vera agli occhi di Dio, perché essa non si ostina a respingere ciò cui le viene ordinato di sottomettersi come cosa utile. Non è veramente umile cioè colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza. Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione ed è già prevenuto con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli viene imposta la massima dignità del governo delle anime, egli deve rifuggire da essa col cuore, ma pur contro voglia deve obbedire. 7 — Si dà spesso il caso che alcuni aspirino lodevolmente all’ufficio della predicazione, e altri lodevolmente vi si lascino attirare costretti Sebbene non di rado ci sia chi lodevolmente aspira all’ufficio della predicazione, c’è anche chi lodevolmente vi si lascia attirare se è costretto. Possiamo renderci conto facilmente di ciò se pensiamo all’opposto atteggiamento di due profeti: uno si offrì spontaneamente per essere mandato a predicare, l’altro pieno di timore si rifiutò. Isaia infatti si offri di propria iniziativa al Signore che chiedeva chi mandare, dicendo: Eccomi, manda me (Is. 6, 8). Geremia invece è mandato e tuttavia resiste umilmente per non esserlo, dicendo: Ah, ah, ah, Signore Dio, ecco non so parlare perché sono un ragazzo (Ger. 1, 6). Ecco, usci fuori una parola diversa dall’uno e dall’altro, ma essa non sgorgò da una diversa sorgente d’amore, giacché due sono i precetti della carità, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Isaia bramando di giovare al prossimo con la vita attiva aspira all’ufficio della predicazione; mentre Geremia desiderando di aderire sinceramente all’amore del Creatore attraverso la contemplazione oppone che egli non deve essere mandato a predicare. Pertanto l’uno aspirò lodevolmente a ciò di cui l’altro lodevolmente ebbe terrore: questo non voleva guastare, parlando, i frutti di una tacita contemplazione, quello non volle sentire, tacendo, i danni di un’attività nutrita solo di desiderio. Tuttavia bisogna penetrare sottilmente l’animo di ambedue e capire che chi rifiutò non resistette fino all’ultimo; e colui che volle essere mandato, prima si vide purificato dal carbone acceso dell’altare (cf. Is. 6, 6-7) a significare che nessuno osi accostarsi ai ministeri sacri senza essere stato purificato, o anche che colui che la grazia celeste ha scelto non contraddica superbamente sotto il pretesto dell’umiltà. Dunque, poiché è molto difficile che una persona qualsiasi possa riconoscere di essere stata purificata, è più che sicuro declinare l’ufficio della predicazione; tuttavia, come s’è detto, non bisogna insistere con ostinazione nel rifiutarlo quando si riconosce che è volontà celeste l’assumerlo. Si tratta di due disposizioni dell’animo a cui Mosè aderì mirabilmente poiché, dovendo essere guida di una moltitudine tanto grande, non volle ma obbedì (cf. Es. 3, 10 – 4, 18). Forse sarebbe stato superbo se avesse assunto la guida di una popolazione numerosissima senza trepidazione, e sarebbe ancora risultato superbo se avesse rifiutato di obbedire all’ordine del Creatore. Così, in ambedue i casi, egli fu insieme umile e soggetto, poiché misurando se stesso non volle essere capo del popolo e tuttavia acconsenti fidando sulle forze di colui che glielo ordinava. Da questo esempio si rendano conto certe persone irriflessive, di quanto è grande la loro colpa, se per il proprio desiderio non temono di essere preposti ad altri, quando — pur dietro l’ordine di Dio — uomini santi temettero di assumere la guida del popolo. Mosè trepida dietro l’invito del Signore, e un inetto qualunque anela ad un ufficio d’onore. Così, chi è spinto a cadere con forza sotto i propri pesi offre volentieri le sue spalle per caricarsi di quelli altrui: non ha la forza di sopportare il peso di cui è già carico e aumenta quel che porta.

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7 8 — Alcuni bramano il potere e si appropriano di una affermazione dell’Apostolo ai fini della propria concupiscenza Per lo più coloro che bramano il potere si appropriano della parola con cui l’Apostolo dice: Se qualcuno desidera l’episcopato desidera un buon ufficio (1 Tim. 3, 1), e l’adoperano ai fini della propria concupiscenza. Egli tuttavia pur lodando il desiderio volge subito in motivo di timore ciò che ha lodato, perché immediatamente aggiunge: Occorre però che il vescovo sia irreprensibile (1 Tim. 3, 2); e continuando poi a enumerare le virtù necessarie, chiarisce in che cosa consiste questa irreprensibilità. Incoraggia quanto al desiderio, ma incute timore col precetto come se dicesse apertamente: Lodo ciò che voi cercate, ma prima imparate bene che cos’è che cercate, perché se trascurate di misurare voi stessi, la vostra consapevolezza non appaia tanto più disonorevole, in quanto ha fretta di mostrarsi a tutti rivestita della dignità episcopale. Così, colui che fu grande maestro del ministero pastorale, da un lato spinge i suoi ascoltatori e incoraggia, dall’altro li trattiene col timore, per difenderli dalla superbia, con la descrizione della perfetta irreprensibilità, e per disporli alla vita che li attende lodando l’ufficio da loro richiesto. È da notare però che egli parlava così in un tempo in cui chiunque fosse a capo del popolo veniva condotto per primo ai supplizi del martirio. Allora sì era cosa lodevole aspirare all’episcopato, quando si sapeva con certezza che attraverso di esso si sarebbe giunti alle più gravi torture. Anche per questo il ministero dell’episcopato viene definito con l’espressione buon ufficio, quando è detto: Se qualcuno desidera l’episcopato, desidera un buon ufficio (1 Tim. 3, 1). Pertanto, colui che cerca l’episcopato per la gloria di quell’onore e non per il buon ufficio di questo ministero, testimonia da sé, per se stesso, che non è l’episcopato ciò a cui egli aspira. In effetti, non solo egli non ama affatto l’ufficio sacro, ma non sa neppure che cosa sia, lui che anelando alla massima dignità del governo pastorale, nei pensieri nascosti della sua mente si pasce della sottomissione altrui, gode della lode rivolta a sé, esalta il suo cuore al pensiero dell’onore, esulta per l’abbondanza dei beni affluenti da ogni parte. Così si cerca il guadagno del mondo, proprio sotto l’apparenza di quella dignità attraverso la quale i guadagni del mondo si sarebbero dovuti distruggere. E quando la mente medita di impadronirsi del sommo grado dell’umiltà avendo di mira la propria esaltazione, muta e deforma nell’intimo ciò a cui aspira esteriormente. 9 — La mente di coloro che vogliono dominare spesso si lusinga con il finto proposito di compiere opere buone Ma per lo più coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in animo anche il proposito di qualche opera buona, e quantunque nella loro aspirazione a quel magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la considerazione superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non di rado il pensiero mente a se stesso riguardo a sé e si immagina — quanto al bene operare — di amare ciò che di fatto non ama, e — quanto alla gloria del mondo — di non amare ciò che ama. E bramando il potere del primato, mentre lo cerca diviene timoroso verso di esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti, finché è proteso ad esso, trepida di non arrivarci, ma una volta arrivato, immediatamente giudica che quanto ha ottenuto gli fosse dovuto di pieno diritto. E quando incomincia a godere mondanamente del primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva meditato di compiere con spirito religioso. Perciò è necessario che quando l’immaginazione va oltre i limiti di ciò che è praticamente realizzabile, subito l’attenzione della mente sia richiamata alle opere compiute in precedenza, perché ciascuno valuti quanto è stato capace di compiere da suddito e così si renda immediatamente conto se può, come prelato, compiere le opere buone che si è proposto. Perché colui che stando all’ultimo posto non ha cessato di insuperbire non è per nulla in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più alto. Non sa fuggire la lode che gli viene ampiamente tributata, colui che ha imparato a bramarla quando ne era privo. Né può vincere la cupidigia colui che si dispone a

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8 provvedere a molti, mentre prima per sé solo non gli bastavano i propri beni. Pertanto ciascuno scopra se stesso dall’esame della sua vita passata perché nella sua brama di potere l’immaginazione non lo illuda. Del resto, per lo più al posto di governo si perde perfino l’uso del bene operare che si osservava in una vita tranquilla, giacché sul mare calmo anche un inesperto sa guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate tempestose anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è il culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la navicella del cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta incessantemente qua e là fino ad infrangersi per gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire, come contro degli scogli. E così tra questi frangenti, quale via occorre seguire e quale linea tenere se non questa: che chi è ricco di virtù venga costretto ad accedere al governo delle anime, e chi è privo di virtù sia costretto a non accostarvisi? Se il primo resiste in modo assoluto, veda di non dover essere giudicato come colui che ha nascosto il denaro ricevuto dopo averlo avvolto in un fazzoletto (cf. Lc. 19, 20). Perché avvolgere il denaro nel fazzoletto significa nascondere i doni ricevuti, nell’ozio di una molle rilassatezza. D’altra parte, chi brama il governo delle anime badi che attraverso l’esempio di un agire perverso non si trovi ad essere di inciampo per coloro che vogliono entrare nel Regno; alla maniera dei farisei, i quali — secondo la parola del Maestro — non ci entrano loro né permettono che ci entrino gli altri (cf. Mt. 23, 13). Costui deve poi anche considerare che, quando il presule eletto assume la cura del popolo, è come un medico che si accosta ad un malato. Dunque, se nel suo agire sono ancora vive le passioni, con quale presunzione si affretta a medicare chi è stato percosso, colui che porta la propria ferita sul volto? 10 — Come deve essere chi si accosta al governo delle anime Pertanto, in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui (Is. 58, 9). Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di rovina per i sudditi.

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9 11 — Com’è colui che non deve accostarsi al ministero Ciascuno dunque misuri saggiamente se stesso, perché non osi assumere la funzione di governo a sua condanna se in lui regna ancora il vizio; e non aspiri a divenire intercessore per le colpe degli altri colui in cui permane la depravazione del suo peccato. Perciò viene detto a Mosè dalla voce celeste: Parla ad Aronne: chiunque appartenente a famiglie della tua discendenza avrà un difetto, non offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo (Lev. 21, 17). Poi prosegue immediatamente: Se sarà cieco, zoppo, col naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con una frattura a un piede o a una mano, sia gobbo o cisposo, con albugine nell’occhio, la scabbia, l’erpete nel corpo, l’ernia (Lev. 21, 18). È cieco chi non conosce la luce della contemplazione celeste, e avvolto dalle tenebre della vita presente, incapace di guardare con amore alla luce che deve venire, non sa dove dirigere i passi del suo operare. Perciò è detto nella profezia di Anna: Custodirà i passi dei suoi santi, e gli empi taceranno nelle tenebre (1 Sam. 2, 9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove deve dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi perfettamente sulla via della vita, che pure vede; e ciò perché i passi del suo operare non seguono efficacemente gli sforzi del suo desiderio, là dove esso mira, cioè a una condizione virtuosa a cui non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita. Perciò infatti Paolo dice: Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per i vostri passi, perché qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia guarito (cf. Ebr. 12, 12-13). Ha il naso piccolo colui che non è adatto a osservare la misura della discrezione. In effetti, col naso distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli, dunque è giusto rappresentare col naso la discrezione con la quale scegliamo le virtù e riproviamo i peccati. È perciò che si dice, in lode della sposa: Il tuo naso è come torre sul Libano (Cant. 7, 4), poiché è evidentemente con la discrezione che la Santa Chiesa scorge quali tentazioni procedono da singole cause e, come chi osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che stanno per sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo poco intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe analisi ricercate in cui poi falliscono per l’eccessiva sottigliezza. Perciò è detto anche: o col naso grande e storto. Questo infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del discernimento che, per essere cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il retto procedere della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata colui che non sa percorrere in alcun modo la via di Dio ed è completamente escluso dalle buone opere, perché non ne partecipa neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del tutto estraneo ad esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini terrene fa abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto, ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più bassi. E se qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni della patria celeste, gravato com’è dal peso di una consuetudine perversa, non volge ad essi gli occhi del cuore, poiché colui che è tenuto curvo a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è capace di drizzare verso l’alto la sua meditazione. È di costoro che il salmista dice: Sono incurvato e umiliato in ogni tempo (Sal. 37, 7). Anche la Verità in persona rimprovera la loro colpa, dicendo: Il seme caduto fra le spine sono coloro che dopo avere udito la parola, se ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc. 8, 14). Il cisposo è colui il cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza della verità, e tuttavia le sue azioni carnali lo oscurano. In effetti, negli occhi cisposi le pupille sono sane, ma le palpebre, malate per la continua secrezione di umore si gonfiano, e per la frequenza di questo deflusso si indeboliscono così che anche la acutezza della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui sensibilità resta ferita da una vita dedita ad attività carnali: la sottigliezza d’ingegno consentirebbe loro di scorgere ciò che è retto, ma essi sono oscurati dalla pratica di un agire depravato. Così è cisposo colui a cui la natura ha fatto acuta la sensibilità ma il suo comportamento corrotto la confonde. Ben vien detto loro, per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i tuoi occhi per vedere (Ap. 3, 18). Allora ungiamoci gli occhi col collirio per vedere e aiutiamo con la medicina di un buon operare l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo splendore della vera luce. Ha l’albugine nell’occhio colui al quale l’accecamento, prodotto dalla sua presunzione di sapienza e di giustizia, non permette di vedere la luce della verità. Infatti, se la pupilla dell’occhio è nera, vede, ma se porta

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10 una macchia bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che, se l’uomo nella sua meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge all’esperienza della chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la candida lucentezza della sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla conoscenza della luce divina; e tanto meno riesce a penetrare la chiarezza della vera luce, quanto più per la sua presunzione si esalta ai propri occhi. Come è detto di certuni: Dicendo di essere sapienti sono divenuti stolti (Rom. 1, 22). È poi affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una incessante richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se l’ardore delle viscere affiorasse sulla pelle, e con essa giustamente si designa la lussuria poiché se la tentazione del cuore si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un ardore intimo che prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente copre il corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel pensiero, domina poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di come togliere il prurito dalla pelle quando diceva: Non vi colga alcuna tentazione se non umana (1 Cor. 10, 13); come a dire: è certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma è demoniaco, nella lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da essa mettendola in opera. Similmente è come chi ha l’erpete nel corpo chiunque ha l’animo devastato dall’avidità, che se non è contenuta nelle piccole cose è inevitabile che si espanda oltre misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo indolore e, senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce deturpando il decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità, mentre dà quasi l’impressione di procurare piacere a colui che ne è preso, di fatto gli piaga l’anima e mentre gli rappresenta al pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo accende alla discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché promette, all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti dalla colpa stessa. Ma il decoro deturpato delle membra significa che la bellezza delle altre virtù è corrotta a causa dell’avidità, e come l’erpete devasta tutto il corpo, così l’avidità distrugge l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento di Paolo che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali (cf. 1 Tim. 6, 10). E il malato di ernia è chi non pratica il vizio e tuttavia ne ha la mente gravata dal pensiero continuo e smodato; e se di fatto non è trascinato fino all’atto del peccato, tuttavia il suo animo gode del piacere della lussuria senza alcuno stimolo a resistergli. Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia quando l’umore viscerale scende nelle parti virili che si gonfiano in modo certo molesto e indecoroso. Pertanto, con malato d’ernia, si intende colui che trascorrendo alla lascivia con ogni suo pensiero, porta nel cuore un peso vergognoso, e quantunque non esprima nell’atto questa depravazione, non riesce però a strapparsene con la mente; e non è capace di innalzarsi decisamente alla pratica delle buone opere perché è gravato di nascosto da questo peso turpe. Perciò, a chiunque sia gravato di qualcuno di questi vizi è proibito offrire pani al Signore, perché non possa in alcun modo sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda dei propri. Dunque, poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può accostarsi degnamente al magistero pastorale, e come lo debba temere chi ne è indegno, ora intendiamo mostrare in che modo, colui che vi sia pervenuto in modo degno, debba vivere in esso.

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PARTE SECONDA

LA VITA DEL PASTORE 1 — Come si deve mostrare nell’esercizio del governo delle anime colui che vi sia giunto legittimamente Il comportamento del presule deve essere di tanto superiore a quello del popolo, quanto la vita del pastore differisce, ordinariamente, da quella del gregge. Infatti è opportuno che egli si dia cura di misurare con sollecitudine quale necessità lo costringa ad una rigorosa rettitudine, perché è per lui che il popolo è chiamato gregge. Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero, esemplare nell’agire, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia vicino a ciascuno con la sua compassione e sia, più di tutti, dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una trattazione più estesa queste qualità che abbiamo ristrette brevemente nell’enunciazione. 2 — La guida delle anime sia pura nel pensiero La guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per mezzo del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (Is. 52, 12). Infatti portano i vasi del Signore coloro che si assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca, legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. 28, 15), affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di aggiungere che in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi; infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è anche appropriato il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al Signore, sempre (Es. 28, 30). Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca l’ardore della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre umilia l’animo di chi governa lo

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12 purifica, perché la presunzione spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. Tutte queste tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada del consenso. 3 — La guida delle anime sia sempre esemplare nel suo agire La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è detto per mezzo del profeta: Sali su un monte eccelso, tu che evangelizzi Sion (Is. 40, 9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti. Per questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto (cf. Es. 29, 22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al conforto della dolcezza interiore. E per questo la parola divina ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf. Es. 29, 5), perché egli sia sempre difeso dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. 2 Cor. 6, 7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere. Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es. 28, 8), per dimostrare di quante virtù debba risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote, soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una intelligenza sapiente. Ad esso si aggiunge il violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio dell’intelligenza della verità. All’oro e al violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale (1 Pt. 2, 9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio (Gv. 1, 12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono stati

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13 molto onorati i tuoi amici, o Dio, quanto è stato rafforzato il loro principato (Sal. 138, 17). Poiché è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. Pertanto, colui che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. Resta ancora però, senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza. Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale perché la castità è portata al candore perfetto della purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo omerale. 4 — La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile con la sua parola La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. 10, 13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo. Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is. 56, 10). Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez. 13, 5). Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lam. 2, 14). È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora. Perciò Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i contraddittori (Tit. 1, 9). Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca, perché è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7). Perciò per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is. 58, 1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò

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14 che lo Spirito Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti. Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. È scritto infatti: Perché si oda il suono quando entra e quando esce dal santuario in cospetto del Signore, e non muoia (Es. 28, 35). Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se da lui non si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice occulto se cammina senza il suono della predicazione. Inoltre, quei campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza del profeta che dice: I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia (Sal. 131, 9). Pertanto, i campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita. Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò infatti la Verità dice: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rom. 12, 3). Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Es. 28, 34). E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede? Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità della fede. Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per cui è ben detto per mezzo di Mosè: L’uomo che soffre di flusso di seme, sarà immondo (Lev. 15, 2). Di fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel pensiero che gli terrà dietro nella mente degli ascoltatori, poiché la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente genera il pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18). Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi è soggetto a una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe potuto generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il seme, non al fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola, insisti opportunamente, importunamente (2 Tim. 4, 1-2); prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno. 5 — La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e

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15 insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto. Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.), e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie al marito (1 Cor. 7, 2). E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1 Cor. 7, 5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non brucio? (2 Cor. 11, 29). E perciò ancora dice: Con i Giudei sono divenuto come Giudeo (1 Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio; se siamo sobri è per voi (2 Cor. 5, 13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12): a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure, quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza, ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme. Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re 7, 23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere la museruola al bue che trebbia (1 Cor. 9, 9)? Di essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che li attende nella segreta retribuzione

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16 del severo Giudice. Tuttavia quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione altrui. 6 — La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene; e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga in nulla ai buoni, e quando la colpa dei malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato. In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si consideri uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti, come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib. 21, cap. 10), è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura ma, variando l’ordine dei meriti, la colpa pospone gli uni agli altri. Però, anche la diversità che procede dal peccato è regolata dalla disposizione divina affinché, siccome non ogni uomo è in grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che presiedono, in se stessi non debbono considerare il potere del proprio grado ma l’eguaglianza secondo natura; non godano dunque di governare sugli uomini ma di giovare loro. I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e quando il Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra, subito aggiunse: E terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gen. 9, 1). Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo terrore e tremore sugli animali della terra, viene senz’altro proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. L’uomo è stato preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide delle anime incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché coloro che non hanno paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una paura umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per sé da coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero animali e non uomini, perché è per quella parte di loro con cui si comportano da bestie che i sudditi debbono giacere persino prostrati dalla paura. Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo più sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da tutto ciò che gli viene elargito dal basso. Così, circondato all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale quale è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i meriti della propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo di un potere datogli in sorte. Si giudica più sapiente di tutti coloro dei quali si vede più potente. Nella stima che ha di se stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare agli altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione di una,

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17 uguale natura. E così diviene simile a colui di cui è scritto: Vede ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25), a colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e disprezzando la comune vita degli angeli dice: Porrò la mia dimora presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf. Is. 14, 13-14). Pertanto egli scoprì dentro di sé, per mirabile giudizio divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era innalzato al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente Saul, dopo avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di superbia per l’altezza del suo potere; per l’umiltà fu scelto ma fu riprovato per la superbia, secondo la testimonianza del Signore che dice: Non ti costituii forse capo tra le tribù di Israele quando eri piccolo ai tuoi occhi? (1 Sam. 15, 17). Prima si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi, sostenuto dalla sua potenza mondana, non si vedeva più piccolo. Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché aveva un potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come — mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia perché è grande il numero di coloro che gli sono soggetti e, adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si corrompe effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la regge bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta anche quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere le tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale agli altri e insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della punizione. E se consideriamo l’esempio del primo Pastore, possiamo riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa discrezione. Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui gli disse: Alzati, non farlo, sono un uomo anch’io (Atti, 10, 26). Quando però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf. Atti, 5, 5), mostrò subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente sugli altri. Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la somma autorità nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle riconoscere di fronte a fratelli buoni e attivi nel bene, per un onore che gli veniva tributato con trasporto. E in questo caso, la santità delle opere meritò di essere accolta in una comunione tra uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò l’esercizio del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel bene quando diceva: Non facciamo da padroni della vostra fede, ma siamo cooperatori della vostra gioia (2 Cor. 1, 23). E aggiunge subito: infatti voi state saldi nella fede (ibid.), come per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo da padroni sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede; infatti noi siamo uguali a voi in ciò in cui riconosciamo che restate fermi. Ed era come non considerarsi preposto ai fratelli quando diceva: Siamo divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi (1 Tess. 2, 7); e ancora: E noi vostri servi per Cristo (2 Cor. 4, 5). Ma quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si ricordò di essere maestro, dicendo: Che cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (1 Cor. 4, 21). Colui che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi piuttosto che sui fratelli; ma quando i superiori correggono i sudditi peccatori è necessario che in virtù del loro potere attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui sono tenuti di conservare la disciplina. Tuttavia, per conservare l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi fratelli che vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le medesime persone che correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti per mezzo nostro col rigore della disciplina, mentre in ciò che noi stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da una parola di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i sudditi davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite qui le loro colpe. Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e la disciplina nelle opere. Ma detto questo, bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo non restino

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18 vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé. Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di sobria spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono temere dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della loro umiltà. Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del superiore non venga rapito dal compiacimento del suo potere fino all’esaltazione, un sapiente ha giustamente detto: Ti hanno stabilito guida, non ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Sir. 32, 1). Perciò anche Pietro dice: Non come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma fatti a forma del gregge (1 Pt. 5, 3). Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti meriti della virtù dice: Sapete che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere su di loro. Non così sarà tra voi, ma chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e chi vorrà essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo non è venuto a essere servito ma a servire (Mt. 20, 25). Di qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato per il potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire; e incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli ubriachi; verrà il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt. 24, 48 ss.). Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col pretesto della disciplina muta il ministero del governo in esercizio di dominio. E tuttavia spesso si pecca gravemente se nei confronti dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza che la disciplina. Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire i figli peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna presso il severo Giudice (cf. 1 Sam. 4, 17-18); e perciò egli si sente dire dalla parola divina: Hai onorato i tuoi figli pia di me (1 Sam. 2, 29). E Dio rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non avete fasciato ciò che si era fratturato, non avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez. 34, 4). Si riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine pastorale si richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto nella colpa. E la fasciatura stringe la frattura quando la disciplina reprime la colpa, affinché la piaga non degeneri fino alla morte se non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la frattura si fa più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà. Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. Infatti, come abbiamo già detto nei Libri Morali (Moralia, lib. 20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. Ed è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del Samaritano (cf. Lc. 10, 34) e gli vengono somministrati vino e olio nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli sperimenti la pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che lenisce. È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si purifica il putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la guarigione. Così, bisogna mescolare la dolcezza con la severità; bisogna fare come un giusto contemperamento dell’una e dell’altra affinché i sudditi non restino esasperati da troppa asprezza e neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la manna (cf. Ebr. 9, 4); cioè, se nell’anima della buona guida

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19 spirituale, insieme alla scienza della Sacra Scrittura c’è la verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza. Perciò dice David: La tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Sal. 22, 4), perché la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che risparmia ma non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova il cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira. 7 — La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore, affinché, dedito alle attività esterne non venga meno alla vita spirituale oppure occupato solo in essa manchi di rendere quel che deve al prossimo nell’attività esterna. Accade spesso infatti che alcuni, dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime, si dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi secolari, e l’essere presenti a questi li fa esultare di gioia, e anche quando sono assenti anelano ad essi, giorno e notte, nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando poi, forse per una interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa quiete li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere oppressi dall’attività e considerano una fatica non faticare in occupazioni terrestri. Così accade che, mentre godono di essere incalzati da inquietudini mondane, ignorano i beni interiori che avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui sicuramente anche la vita dei sudditi intorpidisce poiché, mentre essi aspirano al progresso spirituale, inciampano contro l’esempio del superiore come contro un ostacolo che si trova lungo il cammino. Infatti quando la testa è malata anche le membra perdono vigore, e nella ricerca del nemico non serve che l’esercito segua con prestezza se la stessa guida del cammino perde la strada. Nessuna esortazione innalza gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo efficace contro le loro colpe, poiché sebbene colui che è preposto alle anime eserciti l’ufficio di giudice terreno, la cura del Pastore non è rivolta alla custodia del gregge e i sudditi non possono cogliere la luce della verità perché, quando interessi terreni occupano i sensi del Pastore, la polvere spinta dal vento della tentazione acceca gli occhi della Chiesa. Perciò il Redentore del genere umano, volendoci trattenere dalla ingordigia del ventre, dopo aver detto: Fate attenzione che i vostri cuori non siano gravati dalla gozzoviglia e dall’ubriachezza, subito aggiunse: o nelle preoccupazioni di questa vita; e poi ancora introduce il timore proseguendo con forza: che non vi sopravvenga improvviso quel giorno (Lc. 21, 34). E di quale venuta si tratti lo manifesta dicendo: Verrà infatti come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35). Quindi ancora dice: Nessuno può servire a due padroni (Lc. 16, 13). Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col mondo dichiarando o piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno che militi per Dio si immischi in affari secolari per potere piacere a colui che l’ha arruolato (2 Tim. 2, 4). Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere liberi da altri interessi e mostra loro come provvedere quando si tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se avrete delle liti riguardo a interessi secolari stabilite come giudici persone da niente nella Chiesa (1 Cor. 6, 4), perché all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esterne. Perciò Mosè, che parla con Dio (cf. Es. 18, 17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero, perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del popolo, e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo a dirimere le liti, per potere lui stesso più liberamente conoscere i misteri spirituali e insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino Infatti, tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun dubbio è il capo

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20 che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano in grado di percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel procedere del viaggio, quando il corpo si incurva e il capo si piega verso terra. Ma con quale disposizione interiore colui che è preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se lui stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E come il popolo così sarà il sacerdote (Os. 4, 9). E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica un ufficio spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che vengono ancora designati dai loro interessi carnali. Vedendo questo, il profeta Geremia piange, con grande dolore ispirato dalla sua carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio dicendo: Come si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le pietre del santuario sono state disperse in capo a tutte le piazze (Lam. 4, 1). Che cosa si intende infatti con oro, che è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della santità? Che cosa si esprime con splendida lucentezza se non la riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti? Che cosa significano le pietre del santuario, se non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col nome di piazze, se non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la larghezza è detta platos ed è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la Verità in persona dice: Larga e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt. 7, 13). L’oro pertanto annerisce quando una vita che deve essere santa si contamina con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta quando diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia, lascia il costume di una vita santa per immischiarsi in attività terrestri, la riverenza che egli ispirava, divenuta oggetto di disgusto, impallidisce agli occhi degli uomini come la vivezza di un colore alterato. E anche le pietre del santuario vengono sparse nelle piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa avrebbero dovuto attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari mondani. In effetti, le pietre del santuario erano fatte per comparire nell’interno del Santo dei Santi sulla veste del sommo sacerdote; ma quando i ministri della religione non sanno esigere, coi meriti della loro condotta di vita, l’onore dovuto dai sudditi al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono ornamento del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri, sono tutti presi dagli affari terreni. E occorre notare che non dice che sono sparsi nelle piazze, ma in capo alle piazze, poiché mentre si occupano delle cose del mondo aspirano ad apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene attribuito alla santità. Del resto possiamo anche intendere senza difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime con cui il santuario era stato costruito; in questo caso quelle pietre giacciono in capo alle piazze quando gli uomini insigniti degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di affari mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel servizio delle cose sante. Così, gli affari mondani si devono assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai ricercare con passione, per evitare che esse, gravando l’animo di chi le predilige, lo trascinino avvinto al proprio peso, dalle regioni celesti giù nel profondo. Ma si dà anche il caso che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della parola germina facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non gli danneggi. Così, i Pastori siano ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi, purché in questo non tralascino di provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con sollecitudine dicendo: Scongiuro gli anziani che sono tra voi, io

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21 anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in futuro, pascete il gregge di Dio che è tra voi. Ed egli stesso spiega a questo punto quale pascolo intenda, se del cuore o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo non per costrizione ma spontaneamente, secondo Dio, non per turpe guadagno ma volontariamente (1 Pt. 5, 1). E certo, con queste parole, previene piamente i Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei sudditi, non uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi non ha cura dei suoi, soprattutto dei familiari, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1 Tim. 5, 8). E così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile attenzione che mentre si trattano affari esterni non se ne venga sommersi, privati dell’intimo fervore; poiché spesso, come abbiamo già detto, le guide delle anime piegano improvvisamente il loro cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda l’amore nel loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. Pertanto, la cura che pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali dei sudditi deve essere necessariamente contenuta entro certi limiti. Perciò si dice bene in Ezechiele: I sacerdoti non si radano il capo, né si tacciano crescere i capelli, ma li accorcino tagliandoli (Ez. 44, 20). Infatti sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che presiedono ai fedeli per offrire loro una guida sacra. I capelli del capo sono i pensieri della mente volti a cure esteriori e finché nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno. Dunque, poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto delle sollecitudini esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad esse con eccessiva passione, giustamente si proibisce ai sacerdoti di radersi il capo e di farsi crescere i capelli, affinché non taglino radicalmente da sé i pensieri che riguardano la vita materiale dei sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino i capelli tagliandoli, evidentemente nel senso che se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. Pertanto, quando la vita materiale viene protetta attraverso la pratica di una previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle, ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi. 8 — La guida delle anime, col suo zelo, non abbia di mira il favore degli uomini; e tuttavia sia attento a ciò che ad essi deve piacere. Oltre a ciò, è pure necessario che la guida delle anime esplichi una vigile cura perché non la spinga la bramosia di piacere agli uomini, e quando si dedica assiduamente ad approfondire le realtà interiori o distribuisce provvidamente i beni esteriori, non cerchi di più l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle sue buone azioni sembra, estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo renda estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui che, attraverso le opere giuste che compie, brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; ed è così reo di pensiero adultero, come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando l’amor proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina a una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore. Il suo spirito è portato alla mollezza dall’amor proprio quando, pur vedendo i sudditi peccare, non trova opportuno castigarli per non indebolire il loro amore verso di lui, e non di rado accarezza con le adulazioni quegli errori dei sudditi che avrebbe dovuto rimproverare. Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per teste di ogni età, per rapire anime (Ez. 13, 18). Porre cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con blanda adulazione le anime che vengono meno alla propria rettitudine e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come accogliere su un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace, quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si offrono le mollezze del favore,

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22 così che chi non è colpito da alcuna aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le guide delle anime che amano sé stesse, senza alcun dubbio offrono di queste cose a coloro che temono gli possano nuocere nella loro ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con l’asprezza di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del loro potere. La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per mezzo del profeta: Voi comandavate su di loro con austerità e con prepotenza (Ez. 34, 4). Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si ergono contro i sudditi con tracotanza e non guardano a quello che hanno dovere di fare ma a ciò per cui hanno la forza; senza alcun timore del giudizio che seguirà, si gloriano sfrontatamente del loro potere temporale purché possano compiere con ogni licenza anche cose illecite e nessuno dei sudditi li contraddica. Pertanto, colui che desidera vivere perversamente, e che gli altri tuttavia ne tacciano, testimonia contro se stesso di desiderare che si ami lui più della verità, che non vuole venga difesa contro di lui. E non esiste certamente nessuno che viva in questo modo e, almeno entro un certo ambito, non pecchi. Vuole invece che si ami la verità più di lui, chi non vuol essere risparmiato da nessuno ai danni della verità. Perciò infatti Pietro riceve volentieri il rimprovero di Paolo (cf. Gal. 2, 11 ss.); perciò David ascoltò umilmente la correzione di un suddito (cf. 2 Sam. 11, 7 ss.); poiché le buone guide di anime non sanno amare se stessi di un amore particolare e considerano un umile ossequio, da parte dei sudditi, una parola ispirata da una libera purezza d’animo. Ma è soprattutto necessario che la cura del governo delle anime sia temperata da tanta sapiente moderazione che i sudditi possano esprimere con libera parola quanto hanno rettamente avvertito, anche se poi questa libertà non deve essere tale da erompere in superbia; perché non accada che se si concede ai sudditi una eccessiva libertà di parola, essi abbiano poi a perdere l’umiltà della vita. Bisogna pure sapere che è opportuno che le buone guide delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per attirare il prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della stima che esse ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per fare dell’amore di cui sono oggetto come una via attraverso la quale introdurre all’amore del Creatore i cuori di coloro che ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto dica la verità, sia ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato. Dunque, chi presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato come chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a colui che per via del suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce bene Paolo quando ci manifesta gli aspetti nascosti della sua dedizione, dicendo: Come anch’io piaccio a tutti in ogni cosa (1 Cor. 10, 33). E tuttavia dice di nuovo altrove: Se piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo (Gal. 1, 10). Dunque, Paolo piace e non piace perché, nel suo desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che agli uomini piaccia la verità attraverso di lui. 9 — La guida delle anime deve essere attenta nella consapevolezza che non di rado i vizi si travestono da virtù La guida delle anime deve anche sapere che non di rado i vizi si travestono da virtù Infatti spesso l’avarizia si nasconde sotto il nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza discrezione è considerata pietà, e un’ira sfrenata zelo virtuoso; spesso un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la lentezza dell’agire per prudenza deliberata. Perciò è necessario che la guida delle anime discerna con vigile cura virtù da vizi, perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore ed egli si compiaccia di apparire parco nella sua amministrazione; oppure si vanti, magari con l’aria di commiserare la propria liberalità, quando c’è stato qualche sperpero per la sua prodigalità; o trascini all’eterno supplizio i sudditi rimettendo il peccato che avrebbe dovuto colpire; o colpendo con crudeltà il peccato, pecchi egli stesso più gravemente; o, tratti con leggerezza, con una fretta troppo anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare correttamente e con ponderazione o, differendo il compimento di una buona azione, ne converta in peggio il risultato.

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23 10 — Quale debba essere la discrezione della guida delle anime nel correggere e nel dissimulare; nello zelo e nella mansuetudine Bisogna pure sapere che occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei sudditi ma che pur dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli. Talvolta, colpe manifeste bisognerà tollerarle per un certo tempo, talvolta invece, quando sono nascoste, esaminarle diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza; talvolta al contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo detto, bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di conoscerle, affinché il peccatore sapendo di essere noto come tale, e di essere tuttavia sopportato, arrossisca di aumentare quelle colpe che vede tollerate in silenzio nei suoi confronti, e fattosi giudice di se stesso si punisca, lui che la clemente pazienza della sua guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con questa dissimulazione il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del profeta: Hai mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor tuo; perché io tacevo quasi come uno che non vede (Is. 57, 11). Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in quanto tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere taciuto. Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un certo tempo; finché cioè l’opportunità della situazione non sia tale da consigliare un’aperta correzione. Infatti le ferite operate troppo presto si infiammano maggiormente, e se i medicamenti non vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro che non rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve cercare tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio sotto il peso di quelle colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò dice bene il salmista: Sul mio dorso hanno fabbricato i peccatori (Sal. 128, 3). Poiché è sul dorso che portiamo i pesi, egli si lamenta che sul suo dorso i peccatori hanno fabbricato, come se dicesse apertamente: Porto addosso come un peso coloro che non posso correggere. Alcune colpe invece, che sono nascoste, vanno esaminate diligentemente perché, se se ne manifestano alcuni segni, la guida delle anime possa scoprire tutto ciò che si nasconde, chiuso, nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della correzione, possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe maggiori. Perciò giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio dell’uomo, fora la parete. E subito il profeta prosegue: E quando ebbi forato la parete mi apparve una porta. E mi disse: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono qui. Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete (Ez. 8, 8-10). È chiaro che Ezechiele rappresenta le persone dei superiori, e la parete la durezza dei sudditi. E che cosa significa forare la parete se non aprire la durezza del cuore con penetranti indagini? Quando ebbe forato la parete apparve una porta, perché quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente indagini o alle sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla quale si vedono tutte le profondità dei pensieri in colui che viene ammonito. Per cui è ben detto ciò che segue quel punto: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono. Ed è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando oltre certi segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei sudditi in modo che gli risultino chiari tutti i loro pensieri illeciti. E quindi prosegue: Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e animali abominevoli. Nei rettili sono indicati i pensieri del tutto terreni, negli animali i pensieri già un poco sollevati da terra ma ancora alla ricerca di un compenso terreno. Infatti i rettili aderiscono alla terra con tutto il corpo, mentre gli animali con gran parte del corpo sono sospesi da terra e tuttavia continuano a essere inclinati verso di essa per l’appetito della gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando nella mente si rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni. E ci sono pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni, sia pure giusti e onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di guadagni e onori temporali: per sé, in effetti, sono già quasi elevati da terra ma si sottomettono ancora alle realtà più basse per la loro ambizione che è paragonabile a un desiderio di gola. Perciò ancora prosegue giustamente: E tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete. In effetti è scritto: E l’avarizia, che è schiavitù agli idoli (Col. 3, 5). Dunque è giusto che dopo gli animali si descrivano gli idoli, poiché sebbene alcuni si drizzino già da terra per l’agire onesto, tuttavia per la loro disonesta ambizione si riadagiano per

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24 terra. Ed è ben detto: Erano dipinti, perché, quando gli aspetti delle cose esterne vengono assorbiti interiormente, viene come dipinto nel cuore quello che si pensa e si delibera sulla base di quelle false immagini. Pertanto, occorre sottolineare che prima c’è il foro nella parete, quindi si vede la porta e infine viene manifestata la occulta abominazione. Ciò evidentemente perché in ciascuno si danno prima i segni esterni del peccato, quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e infine si spalanca ogni male che si nasconde nell’intimo. Alcuni peccati però vanno ripresi con dolcezza; infatti, quando non si pecca per malizia ma solo per ignoranza o per debolezza, è assolutamente necessario che la stessa correzione del peccato sia temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa carne mortale, soggiacciamo alla debolezza della nostra natura corrotta, così ciascuno deve apprendere da se stesso come si debba essere misericordiosi nei confronti della debolezza altrui affinché, se si lascia trasportare a pronunciare parole di rimprovero troppo accese contro la debolezza del prossimo, non gli accada di apparire uno che si è dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente: Se qualcuno sarà colto in qualche peccato, voi che siete spirituali istruite questo tale in spirito di mansuetudine, considerando te stesso perché anche tu non sia tentato (Gal. 6, 1); come se dicesse apertamente: Quando vedi qualcosa di spiacevole dovuto alla debolezza altrui, pensa a ciò che sei; perché nello zelo del rimprovero lo spirito si moderi, se teme anche per se stesso ciò che rimprovera ad altri. Altri peccati invece si devono rimproverare con forza, affinché chi ha commesso la colpa e non ne conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che lo rimprovera. E se qualcuno è portato a considerare con leggerezza il male commesso, lo tema molto, al contrario, per la severità di chi glielo rimprovera aspramente. Ed è certamente dovere della guida delle anime mostrare con la predicazione la gloria della patria celeste, manifestare quanto son grandi le tentazioni dell’antico nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e correggere con zelo grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere tollerati con leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo di tutte le colpe se il suo sdegno non si accende contro quelle. Perciò è ben detto in Ezechiele: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme. E subito prosegue: E disporrai l’assedio contro di essa, edificherai le opere di difesa, costruirai un terrapieno, e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti. E subito per sua protezione gli viene suggerito: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro fra te e la città (Ez. 4, 1-3). E di chi è figura il profeta Ezechiele se non dei maestri? Giacché gli vien detto: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme. E in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a sé il cuore di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono davanti a sé quel mattone evidentemente nel senso di custodirlo con tutta la tensione dello spirito. E ricevono l’ordine di disegnare su di esso la città di Gerusalemme, perché predicando a cuori di terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia la visione della pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria della patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni dell’astuto nemico che vi fanno irruzione, si prosegue opportunamente: Disporrai l’assedio contro di essa e edificherai le opere di difesa. E i santi predicatori indubbiamente dispongono un assedio intorno al mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste quanto essa sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili dei vizi. Infatti quando si mostra in qual modo ciascun peccato insidia coloro che avanzano [nel cammino spirituale] è come se dalla voce del predicatore si disponesse un assedio intorno alla città di Gerusalemme. Ma poiché non solo devono risultare chiari gli assalti dei vizi ma anche come ci fortifichi la custodia delle virtù, giustamente si prosegue: Edificherai le opere di difesa. Queste difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali virtù si oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo più crescono le guerre della tentazione, si aggiunge giustamente ancora: E costruirai un terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti. Infatti costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità della tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme, quando predice le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto nemico, alla onesta intenzione degli ascoltatori. E pone arieti intorno, quando fa conoscere gli aculei delle tentazioni, che ci circondano da ogni parte in questa vita e sono capaci di perforare il muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime riesca a suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli

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25 non arde di uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si procura assoluzione in eterno; perciò, in quel luogo, ancora giustamente si prosegue: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra te e la città. Con teglia si intende l’ardore dello spirito, e con ferro la forza del rimprovero. Che cosa infatti fa ardere e tormenta il maestro con più acutezza che lo zelo di Dio? E Paolo, che bruciava per l’ardore di questa teglia diceva: Chi è infermo e io non sono infermo? Chi è scandalizzato e io non brucio? (2 Cor. 11,29) E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è custodito in eterno da una forte custodia, per non dovere essere condannato per la negligenza, è detto giustamente: La porrai come muro di ferro fra te e la città. Infatti, la teglia di ferro è posta come muro di ferro fra il profeta e la città, nel senso che, quando le guide delle anime manifestano un forte zelo, questo stesso zelo essi lo conservano come forte difesa fra sé e gli ascoltatori, affinché se saranno troppo indulgenti nella correzione non siano poi abbandonati alla vendetta [divina]. Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo del maestro si esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo più accade che, quando si corregge la colpa di sudditi con grande impeto, la lingua del maestro è trascinata ad eccedere nelle parole; e, quando il rimprovero è acceso oltre misura, il cuore dei peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è necessario che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla penitenza dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di fronte alla Verità, anche per ciò in cui pecca per eccessivo zelo. A ciò corrisponde, in figura, il precetto del Signore che per mezzo di Mosè dice: Se uno andrà con un suo amico nel bosco, semplicemente a tagliar legna, e gli sfuggirà di mano il manico della scure, e il ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli fuggirà in una delle città sopraddette e vivrà; perché non accada che il parente prossimo di colui di cui è stato sparso il sangue, spinto dal dolore, lo insegua, lo prenda e colpisca la sua vita (Deut. 19, 5-6). Dunque, noi andiamo nel bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a ricercare i peccati dei sudditi, e tagliamo semplicemente legna quando recidiamo, con disposizione d’animo pietosa, i vizi dei peccatori. Ma quando il rimprovero si trascina fino a divenire più aspro del necessario, è allora che la scure sfugge di mano; e quando le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade dal manico, per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo parole ingiuriose, spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità. Infatti l’animo di colui che subisce la correzione immediatamente precipita nell’odio se questo rimprovero va oltre i limiti. Ma è necessario che, chi colpisce incautamente la legna e uccide il prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse; perché colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto la speranza la fede e la carità nell’unità del sacramento non è considerato reo dell’omicidio commesso. E il parente prossimo dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà; perché quando verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua colpa col castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto il suo perdono. 11 — Quando la guida delle anime debba essere dedita alla meditazione della legge sacra Ma tutto ciò si compie debitamente dalla guida delle anime se, animato dallo spirito del timore e dell’amore, ogni giorno con diligenza, medita i precetti della Parola sacra, affinché le parole della divina ammonizione ricostruiscano in lui la forza della sollecitudine e della previdente attenzione verso la vita celeste, che viene distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli uomini. E chi, attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto alla vita dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si rinnova a un amore incessante della patria spirituale. Infatti, nel parlare con gli uomini il cuore si disperde, e constatando con certezza che, spinto dal tumulto delle occupazioni esteriori, decade dalla sua condizione, deve avere una cura incessante di rialzarsi attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò Paolo ammonisce il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino alla mia venuta attendi alla lettura (1 Tim. 4, 13). Perciò David dice: Come amo la tua legge, Signore, tutto il giorno è la mia meditazione (Sal. 118, 97). Perciò il Signore dà ordine a Mosè a proposito del trasporto dell’arca, dicendo: Farai quattro anelli d’oro che porrai ai quattro

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26 angoli dell’arca, e farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le infilerai negli anelli ai lati dell’arca così che sia portata con quelle, che saranno sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai estratte (Es. 25, 12 ss.). Che cosa è rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina poi che ad essa vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò senza dubbio significa che essa, per il fatto che si estende dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è annunciata cinta dei quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di legno di acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non imputridisce, i quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri, annuncino l’unità della Santa Chiesa portando l’arca come inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca con le stanghe significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle rozze menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro discorsi predicano agli altri devono risplendere anche loro per la luminosità della vita. E giustamente, riferendosi a loro si aggiunge: Le quali saranno sempre dentro gli anelli e non saranno mai estratte da essi, perché evidentemente è necessario che chi veglia all’ufficio della predicazione non cessi dall’amoroso studio della lettura sacra. E l’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli è in vista dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò significa che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi riguardo a un qualche contenuto spirituale, è veramente vergognoso se egli si mette a cercare la risposta proprio quando deve risolvere una questione. Ma le stanghe sono inserite negli anelli perché i maestri che meditano sempre nel loro cuore la Parola sacra alzino l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza incertezze in qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della Chiesa ammonendo gli altri Pastori: Pronti sempre a rispondere a chiunque vi chiede ragione della speranza che è in voi (1 Pt. 3, 15). Come se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai tolte dagli anelli affinché nessun indugio intralci il trasporto dell’arca.

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PARTE TERZA

COME DEVE INSEGNARE E AMMONIRE I SUDDITI UNA GUIDA DELLE ANIME

CHE HA BUONA CONDOTTA DI VITA Prologo Poiché abbiamo indicato come deve essere il Pastore, ora intendiamo dimostrare quale debba essere il suo insegnamento. Infatti, come insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo di venerabile memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così accade non di rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne uccidono altri o che un leggero fischio che acquieta i cavalli eccita i cagnolini; e una medicina che fa passare una malattia ne aggrava un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti uccide i bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non decadere dal suo proprio genere che è di servire alla comune edificazione. Infatti che cosa sono le menti degli ascoltatori se non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi col canto? E le corde danno un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un unico plettro ma con vibrazioni diverse. Perciò il maestro per edificare tutti nell’unica virtù della carità deve toccare il cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso genere di esortazione. 1 — Nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande diversità di modi Infatti deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne. Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i poveri e per i ricchi; per gli allegri e per i tristi; per i sudditi e per i prelati; per i servi e per i padroni; per i sapienti di questo mondo e per gli incolti; per gli sfrontati e per i timidi; i presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i pazienti; i benevoli e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i malati; coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono; i taciturni e i chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i mansueti e gli iracondi; gli umili e gli orgogliosi; gli ostinati e gli incostanti; i golosi e i temperanti; quelli che distribuiscono per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto per rapire quelli degli altri; quelli che né rapiscono i beni altrui né elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i pacifici; i seminatori di discordia e gli operatori di pace; coloro che non intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro che, invece, le intendono certo rettamente ma non ne parlano umilmente; coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo; quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa; quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale; quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli che non l’hanno; quelli che piangono peccati di opere, e quelli che piangono peccati di pensiero; quelli che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono; quelli che addirittura lodano le azioni illecite che compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano; quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e quelli che restano prigionieri della colpa con deliberazione; quelli che commettono frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che si custodiscono dai piccoli ma talvolta’affondano nei più gravi; quelli che

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28 non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che dopo averlo incominciato non lo portano a termine; coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per certe loro azioni pubbliche. Ma non ci sarebbe alcuna utilità a passare in rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni se non esponessimo anche, con la maggiore brevità possibile, i modi dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse. Dunque deve essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole. Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i secondi a un agire migliore. Poiché è scritto: Non sgridare un anziano ma pregalo come un padre (1 Tim. 5, 1). 2 — Come bisogna ammonire i poveri e i ricchi Diverso è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo offrire il sollievo della consolazione di fronte alla tribolazione, agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al povero, il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché non sarai confuso. E non molto tempo dopo dice con dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (Is. 48, 10). E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel crogiolo della povertà (Is. 54, 4. 11). Paolo, al contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare nelle loro incerte ricchezze (1 Tim. 6, 17); dove occorre notare che il maestro dell’umiltà non dice: prega ma ordina, perché quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si deve onore all’orgoglio. Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone viene loro tanto più giustamente comandato quanto più esse si gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà che passano. Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a voi, ricchi, che avete la vostra consolazione (Lc. 6, 24). Poiché infatti essi ignorano in che cosa consistono le gioie eterne e si consolano con la ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire consolazione a coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri, che si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre insinuare il timore; affinché i poveri apprendano che possiedono ricchezze che non vedono e i ricchi sappiano che non possono conservare le ricchezze che vedono. Spesso tuttavia la qualità dei costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco è umile e il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore deve adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli è stata imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza accarezzi l’umiltà dei ricchi in quanto neppure la ricchezza che inorgoglisce li esalta. Tuttavia non di rado anche il ricco superbo deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso dure ferite si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene loro incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania. Infatti bisogna penetrare senza negligenza il significato più profondo di ciò che accadeva quando lo spirito avverso invadeva Saul, e David calmava la sua follia con la cetra (cf. 1 Sam. 16, 23); giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio dei potenti? E a che cosa attraverso David se non all’umile vita dei santi? Dunque, quando Saul è afferrato dallo spirito immondo, la sua follia è moderata dal canto di David perché quando il sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio, è opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla pacatezza del nostro parlare come dal dolce suono della cetra. Ma talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo, occorre prima metterli alla prova usando delle similitudini come se si trattasse di affare che non riguarda loro; e quando avranno proferito una giusta sentenza come rivolta a un altro, allora con i modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa della loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non si erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso giudizio che questi calpesta il suo collo superbo — ed esso non provi a difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza pronunciata

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29 con la sua stessa bocca. Perciò, infatti, il profeta Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2 Sam. 12, 1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza e solamente dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E così l’uomo santo considerando insieme il peccatore e il re, secondo un mirabile procedimento, prima legò il re temerario attraverso la confessione quindi lo troncò con l’accusa; per un poco celò chi veramente cercava ma colpi improvvisamente colui che teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con minore efficacia se fin dal principio del discorso avesse voluto colpire apertamente la colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un malato, vedeva che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della pazienza del malato; pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e trattolo improvvisamente lo conficcò nella ferita, perché il malato lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse rifiutato di sentirlo se l’avesse veduto in precedenza. 3 — Come bisogna ammonire gli allegri e i tristi Diverso è il modo di ammonire gli allegri e i tristi. Agli allegri evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno. Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono temere; i tristi ascoltino le gioie del premio che già possono pregustare. Ai primi, infatti, è detto: Guai a voi che ora ridete, poiché piangerete (Lc. 6, 25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del medesimo maestro: Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la vostra gioia (Gv. 16, 22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna certamente far conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi temperamenti sono più proclivi: infatti le persone allegre sono facili alla lussuria, le tristi all’ira. Perciò è necessario che ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a causa del suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale pensa di essere libero. 4 — Come bisogna ammonire i sudditi e i prelati Diverso è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi. Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli , obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i prelati c’è il precetto: E voi, padri, non provocate all’ira i vostri figli (Col. 3, 20-21). I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati. I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi. Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente. I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati. Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Prov. 6, 6);

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30 ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio, ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov. 6, 1). Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole. Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre (Prov. 6, 3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui presiede. Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre. Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. E le palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia. Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito. Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18): quegli animali celesti che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf. Ap. 6, 6). Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. I sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori. Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1 Sam. 24, 4 ss.). Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la loro imperfezione. E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro. Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore,

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31 per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1 Sam. 24, 6). Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto rimproverarle. Se però qualche volta la lingua si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha preposta. Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosè, quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore (Es. 16, 8). 5 — Come bisogna ammonire i servi e i padroni Diverso è il modo di ammonire i servi e i padroni. I servi, bisogna ammonirli a considerare sempre in se stessi l’umiltà della loro condizione; i padroni, a non dimenticare la propria natura per la quale sono creati uguali ai loro servi. I servi bisogna ammonirli a non disprezzare i loro padroni per non offendere Dio insuperbendo e contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna ammonire anche i padroni che, a loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo al suo dono se non riconoscono uguali a sé, per la comune natura, coloro che, per la loro condizione, tengono sottomessi. I servi bisogna ammonirli a sapere di essere servi dei loro padroni; i padroni bisogna ammonirli a riconoscere di essere conservi dei loro servi. Agli uni infatti è detto: Servi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne (Col. 3, 22). E ancora: Coloro che sono sotto il giogo della servita giudichino i loro padroni degni di ogni onore (1 Tim. 6, 1); ma agli altri è detto: E voi, padroni, fate lo stesso con loro rinunciando a minacciarli, sapendo che il padrone vostro e loro è nei cieli (Ef. 6, 2). 6 — Come bisogna ammonire sapienti e incolti Diverso è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I sapienti, bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno; gli incolti invece, a desiderare di sapere ciò che non sanno. Negli uni la prima cosa da distruggere è il fatto che essi si giudicano sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che si conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a ricevere quell’edificio. Coi sapienti bisogna affaticarsi perché divengano più sapientemente stolti: abbandonino la sapienza stolta ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. 1 Cor. 1, 25); agli incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai primi è detto: Se qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi stolto per essere sapiente (1 Cor. 3, 18); e agli altri è detto: Non molti sapienti secondo la carne (1 Cor. 1, 26). E ancora: Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti (1 Cor. 1, 27). Per lo più ci vogliono ragionamenti per convertire i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio gli esempi. A quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni; per questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui degne di lode. Perciò il grande maestro, debitore verso i sapienti e verso gli insipienti (Rom. 1, 14), insegnando agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro del compimento dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con l’argomento: Quanto è antiquato e vecchio è presso alla morte (Ebr. 8, 13). Ma poi, rendendosi conto che alcuni si potevano trascinare solamente con la forza degli esempi, aggiunse nella medesima lettera: I santi sperimentarono schemi e battiture e inoltre catene e carcere, furono lapidati, segati, sottoposti a dure prove, uccisi di spada (Ebr. 11, 36-37). E ancora: Ricordatevi dei vostri superiori che vi hanno parlato la Parola di Dio e, considerando quale fu il termine della loro esistenza, imitatene la fede (Ebr. 13, 7). E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e gli altri li persuadeva ad elevarsi a una vita superiore attraverso una dolce imitazione. 7 — Come bisogna ammonire gli sfrontati e i timidi

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32 Diverso è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti, nulla vale a trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro rimprovero, mentre gli altri per lo più si dispongono al meglio con una esortazione moderata. Quelli non si accorgono di fare il male se non ricevono rimproveri da più parti; a convertire i timidi, per lo più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un miglior risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre rimproverare. Perciò il Signore, rimproverando apertamente il popolo sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte è divenuta come quella di una donna prostituta: non hai voluto arrossire (Ger. 3, 3). E di nuovo conforta colei che si vergogna, dicendo: Ti dimenticherai della vergogna della tua adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua vedovanza, perché sarà tuo Signore colui che ti ha fatta (Is. 54, 4-5). E Paolo sgrida apertamente anche i Galati che peccavano con sfrontatezza, dicendo: O Galati insensati, chi vi ha affascinato? (Gal. 3, 1) E ancora: Siete così stolti che dopo avere incominciato con lo spirito finite con la carne? (Gal. 3, 3). Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con compassione, dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente sono rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10). E così, col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più dolci copriva la negligenza degli altri. 8 — Come bisogna ammonire i presuntuosi e i pusillanimi Diverso è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti, sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri; questi invece, troppo consci della propria debolezza, per lo più si lasciano andare alla disperazione. I primi hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri giudicano affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e disperano. Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi, deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio. È allora infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono conto per nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più manifesta scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in grado di difendersi riconoscano che non sostengono rettamente ciò che difendono. Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo (cf. 1 Cor. 1, 12), tirò fuori quel peccato di incesto che era stato commesso presso di loro e restava impunito, dicendo: Si sente dire che si dà una fornicazione tra di voi, e una tale fornicazione quale non è ammissibile neppure fra i gentili, e cioè che uno abbia come sua la moglie di suo padre. E voi vi siete gonfiati e non avete fatto piuttosto lutto, perché fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una tale azione (1 Cor. 5, 1-2). Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra presunzione dite di essere di questo e di quello, voi che mostrate di non essere di nessuno per questa negligenza con cui vi siete sciolti da ogni legame? Al contrario, riconduciamo al bene i pusillanimi in modo più appropriato se ci informiamo indirettamente di qualche loro buona azione e, lodandola, li confortiamo nello stesso momento in cui li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché la lode ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più utile con loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di bene; e se hanno compiuto qualche cosa di irregolare non glielo rimproveriamo come una colpa già commessa, ma ci limitiamo a distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla, affinché la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo, mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione riguardosa. Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi fermi nella predicazione ricevuta erano turbati da un senso di paura

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33 come per una prossima fine del mondo, prima loda quanto scorge in loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la loro debolezza. Dice infatti: Dobbiamo ringraziare sempre Dio per voi, fratelli, come è degno, perché la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la carità vicendevole; così che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese di Dio, per la vostra pazienza e la vostra fede (2 Tess. 1, 3-4). E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue dicendo: Vi preghiamo tuttavia, fratelli, per la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro riunirci in Lui, che non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro sentire né spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata scritta da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente (2 Tess. 2, 1). Così, da vero maestro, fece in modo che prima si sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e quindi si sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché la lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza turbamento la ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene sapesse che essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa, quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non si turbassero. E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano credere che il loro maestro avesse addirittura ignorato questo aspetto in loro, temessero però sia di meritare il rimprovero sia di essere in ciò conosciuti da lui. 9 — Come si devono ammonire gli impazienti e i pazienti Diverso è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli impazienti bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura precipiteranno in molte azioni inique contro la loro stessa intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo dove non desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto, provoca turbamenti, di cui poi egli si duole quando ne prende coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro che non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò che forse avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso impulso distruggono tutto ciò che forse avevano costruito con lunga e provvida fatica. Per il vizio dell’impazienza si perde perfino la virtù, poiché è scritto: La carità è paziente (1 Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è carità. Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La scienza dell’uomo si apprende attraverso la pazienza (Prov. 19, 11); per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si dimostra paziente. E neppure può compiere con verità il bene a parole, se nella vita non sa sopportare in pace i difetti altrui. Inoltre, per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria con l’ostentazione. Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante (Qo. 7, 9); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male. Pertanto, poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto di bene che si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il precetto che sull’altare di Dio si faccia una cavità perché si conservino gli olocausti che vi stanno sopra (cf. Ez. 43, 13). Infatti se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel sacrificio sarebbero dispersi dal vento. Ma che cosa dobbiamo intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che pone su di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la pazienza dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le avversità e lo mostra come adagiato nel fondo di una fossa? Si faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento non disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento dell’impazienza, anche ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto che quella medesima cavità,

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34 secondo quanto è descritto, sia di un solo cubito; poiché è naturale che se non si abbandona la pazienza si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo dice: Portate a vicenda i vostri pesi, e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). Poiché la legge di Cristo è la carità dell’unità che compiono solamente coloro i quali, anche quando portano grave peso, non trascendono. Ascoltino gli impazienti ciò che sta scritto: È meglio un paziente che un uomo forte, e chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città (Prov. 16, 32). Vale meno infatti una vittoria contro delle città, giacché ciò che in questo caso si sottomette è qualcosa di esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza, poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si sottomette se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro di sé. Ascoltino gli impazienti ciò che la Verità dice ai suoi eletti: Nella vostra pazienza possederete le vostre anime (Lc. 21, 19). Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che lo spirito possiede l’anima e l’anima possiede il corpo; ma all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il corpo se essa non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il Signore, insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha insegnato che la pazienza è custode della nostra condizione naturale. Perciò possiamo conoscere quanto sia grande la colpa dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il possesso di ciò che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice Salomone: Lo stolto sfoga tutto il suo animo, il sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov. 29, 11). Per l’impulso dell’impazienza avviene che tutto l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo serba per l’avvenire. Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi subito, poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi, tuttavia non ignora che tutto riceverà la giusta vendetta nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna ammonire i pazienti a non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la colpa di questo dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma peccato di fronte all’esame divino, non divenga tanto peggiore proprio in quanto davanti agli uomini pretende di passare per virtù. Dunque bisogna dire ai pazienti che si studino di amare coloro che sono costretti a sopportare, perché se la pazienza non è accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti nella peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La carità è paziente, aggiunge subito: La carità è benigna (1 Cor. 13, 4), volendo mostrare chiaramente che essa non cessa di amare con benignità coloro che sopporta con pazienza. Perciò il medesimo egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con le parole: Ogni asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi (Ef. 4, 31), come dopo averli già tutti ben disposti esteriormente, si rivolge al loro intimo e aggiunge: con ogni malizia; poiché, evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e l’ingiuria se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e invano si incide al di fuori dei rami il male se esso si conserva nell’intimo della radice, pronto a riaffiorare moltiplicato. Perciò la Verità stessa dice: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano (Lc. 6, 27-28). Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende davanti ai suoi occhi sull’altare delle buone opere. Perciò dice ancora ad alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché vedi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio? (Mt. 7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti il soffio della tentazione agita il filo di paglia, ma la malizia consumata porta la trave quasi senza scosse. E giustamente in quel passo si prosegue: Ipocrita, getta via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per gettare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt. 7, 5), come se dicesse all’anima malvagia che si rode interiormente e all’esterno invece si mostra santa per la pazienza: prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi rimprovera agli altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i peccati altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito di simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti che, proprio nel momento in cui o sopportano avversità o ricevono ingiurie, non si sentano spinte da nessun risentimento e mostrino così una pazienza tale che permette loro di conservare anche l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di tempo, richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto

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35 sopportare, accendono in sé il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per vendicarsi; e con questa intima ritrattazione mutano in malizia la mansuetudine che avevano conservato nella pazienza. Allora il maestro li soccorre ben presto se gli manifesta la causa di questo mutamento. Infatti l’astuto avversario muove guerra contro due tipi di persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo, l’altro lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria, resta poi vinto da colui che porta tranquillamente l’offesa ricevuta. Pertanto, vincitore del primo che è riuscito a soggiogare agitando il suo animo, si erge con tutta la sua potenza contro l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca; ma poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in cui riceveva l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il tempo adatto per trarlo in inganno. Infatti ha perduto nel pubblico combattimento e arde di esercitare nascostamente le sue insidie. Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del vincitore e gli richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite delle ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la vittoria, arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle offese, si duole di non averle ricambiate e cerca, se si offra l’occasione, di renderne di peggiori. A chi dunque sono simili costoro se non a quelli che per la loro forza riescono vincitori in campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a coloro che una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita, ma li uccide una leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le persone pazienti a fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché il nemico battuto in aperto combattimento non mediti di insidiare le mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia che riprende a serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di lui. 10 — Come si devono ammonire i benevoli e gli invidiosi Diverso è il modo di ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i benevoli a gioire dei beni altrui così da desiderare di farli propri. Lodino con vero amore le azioni del prossimo così da moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta della vita presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza premio quanto pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e, allora, non debbano guardare afflitti alle palme di coloro davanti alle cui fatiche, ora, persistono in ozio. Poiché pecchiamo gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma non traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo ciò che amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se non si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la loro lode, a loro piace la santità delle virtù come agli stolti spettatori piace la vanità delle arti ludiche. Costoro infatti esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che lodano. Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole, tuttavia evitano di piacere allo stesso modo. Bisogna dire ai benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo rientrino nel proprio cuore e non si vantino di azioni altrui; non lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, pöiché tanto più gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna ammonire gli invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono meno per il successo degli altri e si struggono per la gioia altrui. Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro

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36 corrispondenza reciproca diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui avviene che il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua che sta in bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il ventre sostiene l’attività delle mani e le mani lavorano per il ventre. Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che riceviamo ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire. E così è troppo vergognoso non imitare ciò che siamo. È certamente nostro ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui. E così bisogna dire agli invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia, sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui è scritto: Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (Sap. 2, 24). Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò all’uomo appena creato, ed essendosi perduto lui volle accrescere la sua perdizione perdendo ancora altri. Bisogna ammonire gli invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità di opere. Se infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito [a Dio] del fratello, non sarebbe giunto a spegnere la sua vita. Perciò è scritto: E il Signore riguardò ad Abele e ai suoi doni; ma non riguardò a Caino e ai suoi doni. E Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto (Gen. 4, 4). E così, l’invidia per il sacrificio fu il germe del fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava fosse migliore di lui, affinché non fosse più in alcun modo. Bisogna dire agli invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé. Perciò è scritto: La sanità del cuore è vita della carne, l’invidia è putredine delle ossa (Prov. 14, 30). Che cosa si intende per carne se non le azioni molli e deboli, e per ossa se non quelle forti? Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo, per la peste dell’invidia. Pertanto è ben detto: La sanità del cuore è vita della carne, perché se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire esterno talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce. E si aggiunge correttamente: L’invidia è putredine delle ossa, perché per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute anche quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di certe cose anche forti. 11 — Come si devono ammonire i semplici e gli insinceri Diverso è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri. I semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso, ma bisogna ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il falso nuoce sempre a chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce ascoltare la verità. Perciò il Signore, temperando il suo discorso col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da dirvi ma ora non potete portarle (Gv. 16, 12). Pertanto bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre all’utilità allo stesso modo che sempre utilmente evitano l’inganno. Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene della semplicità quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che viene dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della prudenza. Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male (Rom. 16, 19). Perciò la Verità stessa ammonisce i suoi eletti dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe (Mt. 10, 16). Perché evidentemente nel cuore degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba deve temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio della prudenza né, per la semplicità, divengano torpidi nell’uso dell’intelligenza. Al contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia grave colpa la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono. Infatti, per il timore di essere scoperti cercano sempre giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li rendono paurosi. Ma niente è più

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37 sicuro della purezza, a propria difesa; niente più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e perciò è scritto: La fatica delle loro labbra li ricoprirà (Sal. 139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa, allora ricoprirà perché opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira fuori d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si dice in Geremia: Hanno insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger. 9, 5), come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici della verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le loro forze per morire. Infatti, non di rado, se sono colti in fallo, mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che spesso colui che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro riguardo. Perciò all’anima che pecca e si giustifica si dice, per mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella Giudea: Là ebbe la sua tana il riccio (Is. 34, 15). Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente impura che si difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto intero il corpo e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si raccoglie tutto in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si mostrava tutto intero. Così certamente sono le anime insincere quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni. Infatti si vede il capo del riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del riccio perché si conoscono le tracce del peccato commesso. E tuttavia, con l’addurre subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere neppure dato inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in mano di chi lo tiene. Il quale improvvisamente non si ritrova più tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto, tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto intero lo ignora. Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo malizioso nelle tenebre della giustificazione. Ascoltino gli insinceri ciò che è scritto: Chi cammina nella semplicità, cammina con fiducia (Prov. 10.9); poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una grande sicurezza. Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del sapiente: Lo Spirito Santo fugge una dottrina di falsità (Sap. 1, 5). Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della Scrittura: La sua conversazione è coi semplici (Prov. 3, 32). Infatti il conversare di Dio è il rivelare i suoi misteri ai cuori degli uomini attraverso l’illuminazione della sua presenza. Pertanto si dice che conversa coi semplici perché col raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano gli altri con l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come fossero più astuti di loro; e poiché non considerano la severità della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente del proprio danno. Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno del Signore, grande e terribile, giorno d’ira quel giorno, giorno di tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di turbine, giorno di suono di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli elevati (cf. Sof. 1, 15-16; Gioe. 2, 2). Infatti, che cosa si intende per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità? E che cosa è indicato con angoli elevati (poiché negli angoli c’è sempre una doppia parete) se non i cuori insinceri? I quali mentre fuggono la semplicità della verità, per la stessa perversità della loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è peggio, per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il giorno del Signore, pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira dell’ultimo giudizio distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese contro la verità, e scioglierà le pieghe della loro doppiezza. Allora infatti cadranno le città fortificate perché saranno condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio. Allora crolleranno gli angoli elevati

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38 perché i cuori che si edificano, attraverso l’astuzia della falsità, saranno atterrati dalla sentenza di giustizia. 12 — Come si devono ammonire i sani e i malati Diverso è il modo di ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a esercitare la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito perché, se piegano ad un uso malizioso la grazia della buona salute che hanno ricevuto, proprio per questo dono non diventino peggiori e meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più ora essi non temono di usare male dei più larghi beni di Dio. Bisogna ammonire i sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora è il tempo gradito, ecco ora il tempo della salvezza (2 Cor. 6, 2). Bisogna ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio quando possono, può accadere che non lo possano quando lo vorranno troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la Sapienza abbandona coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi ho chiamato e avete detto di no; ho teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri; anch’io riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che temevate (Prov. 1, 24 ss.). E ancora: Allora mi invocheranno e non ascolterò; si leveranno la mattina e non mi troveranno (Prov. 1, 28). Pertanto, quando si disprezzala salute del corpo ricevuta per operare il bene, ci si rende conto di quale grande dono fosse, quando la si è perduta; e alla fine si cerca senza frutto ciò che, concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto. Perciò è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non consegnare ad altri il tuo onore e i tuoi anni al crudele, perché non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui, e negli ultimi giorni tu pianga, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov. 5, 9 ss.). Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste? E qual è il nostro onore se non l’essere creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore, nonostante che siamo fatti di corpo e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo apostata, il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e, ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E così, consegna il suo onore agli stranieri colui che, fatto a immagine e somiglianza di Dio, amministra il tempo della sua vita coi piaceri che sono propri degli spiriti maligni. Consegna i suoi anni al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto, secondo la volontà dell’avversario signore del male. E qui bene si aggiunge: Perché non si riempiano gli stranieri della tua forza, e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui. Infatti chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la sapienza della mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con le sue forze, ma certamente — praticando sia la lussuria sia la superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il numero dei perduti — moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le azioni degli spiriti immondi. E poi opportunamente si aggiunge: E tu pianga, negli ultimi giorni, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo. Spesso, infatti, la salute del corpo che si è ricevuta viene dissipata coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad uscire, si ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che si è goduta a lungo, male. E allora si lamentano gli uomini di non aver voluto servire Dio, quando ormai non possono più servire, per rimediare ai danni della propria negligenza. Per cui altrove è detto: Quando li uccideva, allora lo cercavano (Sal. 77, 34). Al contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi tanto più figli di Dio quanto più li castigano i colpi della correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le sofferenze. Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo dell’angelo: Io rimprovero e castigo quelli che amo (Ap. 3, 19). Perciò ancora è scritto: Figlio mio, non trascurare la correzione del Signore, non stancarti di essere rimproverato da lui. Poiché Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio che accoglie (Ebr. 12, 5-6). Perciò il salmista dice: Molte sono le tribolazioni dei giusti, ma da tutte li ha liberati il Signore (Sal. 33, 20). Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se sarò giusto non leverò la testa, sazio di tribolazione e di miseria (Giob. 10,

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39 15). Bisogna dire ai malati che, se credono che sia loro la patria celeste, è necessario che patiscano fatiche in questa come in terra straniera. È per questo infatti che, per essere poste senza rumore di martelli nella costruzione del tempio del Signore, le pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro, nel tempio di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto ciò che in noi è superfluo ora, lo tagli via la battitura, e allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola concordia della carità. Bisogna ammonire i malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono castigati i figli carnali, e solamente in vista di eredità terrene. E perché allora ci è pesante la pena della correzione divina, per la quale si riceve una eredità che non andrà mai perduta e si evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti dice Paolo: Del resto, noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e rispettavamo; non obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo? Quelli invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua santificazione (Ebr. 12, 9-10). Bisogna ammonire i malati a considerare quanta salute del cuore sia la sofferenza del corpo, la quale richiama la mente alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della propria debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò è rettamente rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse voluto seguire obbediente la voce di Dio) proprio in quell’essere ritardato nel suo cammino. Infatti Balaam vuole giungere alla mèta che si è prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo desiderio (cf. Num. 22, 23 ss.). In effetti, l’asina trattenuta dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito, mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così la carne [sofferente] trattiene l’ansietà dello spirito di colui che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo un cammino, finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone. Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette la correzione della sua follia: un muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del profeta (2 Pt. 2, 15). E avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento muto, quando una mente esaltata, si ricorda per l’afflizione della carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto custodire. Ma Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché, andando per maledire, mutò le parole ma non la mente. Bisogna ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza del corpo, che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si sarebbero potuti compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge ferite di penitenza all’animo colpito. Perciò è scritto: Il livido della ferita porta via il male, e così le piaghe nei recessi del ventre (Prov. 20, 30). Infatti il livido della ferita porta via il male perché il dolore delle percosse scioglie i pensieri e le azioni inique. Con la parola ventre si suole intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la mente meditando scioglie le preoccupazioni. E che la mente sia detta ventre, lo insegna il proverbio: Lo spirito dell’uomo è lampada del Signore, che scruta tutti i recessi del ventre (Prov. 20, 27); come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa, essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare pensieri cattivi e non sapeva pensare. Pertanto, il livido della ferita porta via il male e così pure le piaghe nei recessi del ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore nell’intimo per ciò che abbiamo fatto. Quindi avviene che più abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la malizia del cattivo operare. Bisogna ammonire gli ammalati a conservare la virtù della pazienza, a considerare incessantemente quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che aveva creato. Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e degli schemi, lui che rapisce ogni giorno le anime dei prigionieri dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi degli insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non ritrasse la faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua intercessione ci libera dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio le battiture; lui che ci assegna eterni onori tra i cori degli angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle punture dei peccati, non rifiutò di

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40 sottoporre il capo alle spine; lui che ci inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella sua sete; lui — che pure essendo uguale al Padre per la divinità, lo adorò per noi — adorato per irrisione, tacque; lui che prepara la vita ai morti, essendo lui stesso la vita, giunse fino a morire. Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti castighi di Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che, sano di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che visse in questo mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo senza castigo? 13 — Come si devono ammonire coloro che temono i castighi e coloro che li disprezzano Diverso è il modo di ammonire coloro che temono i castighi, e perciò conducono una vita innocente, e coloro tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono. A coloro che temono i castighi bisogna dire che né desiderino come gran cosa i beni temporali dei quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano come intollerabili i mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo spesso essi colpiscono anche i buoni. Bisogna ammonirli, se desiderano veramente essere privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non restino però in questo timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità crescano fino alla grazia dell’amore, poiché sta scritto: La carità perfetta caccia il timore (1 Gv. 4, 18). Ed è ancora scritto: Non avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore, ma spirito di adozione a figli nel quale gridiamo: Abbà, Padre (Rom. 8, 15). Perciò il medesimo maestro dice ancora: Dove è lo Spirito del Signore, là c’è la libertà (2 Cor. 3, 17). Dunque, se è il terrore della pena che trattiene dal commettere il male, non è certo la libertà di spirito a possedere l’animo di colui che è atterrito. Infatti, se non temesse la pena non c’è dubbio che commetterebbe la colpa. E così il cuore, legato dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della libertà, poiché il bene si deve amare per se stesso e non sono le pene che devono spingere a compierlo. Infatti, chi fa il bene perché teme il male dei castighi, vorrebbe solo che non esistesse ciò che teme per potere osare di compiere ciò che è lecito. Da cui risulta più chiaramente che si perde l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca di desiderio davanti ai suoi occhi. Al contrario, coloro che neppure i castighi trattengono dall’iniquità, vanno colpiti con rimprovero tanto più aspro quanto maggiore è l’insensibilità del loro indurimento. Spesso infatti occorre respingerli, pur senza disprezzo, e lasciare che la disperazione incuta il terrore e quindi subito l’ammonizione li riporti alla speranza. Così, bisogna pronunciare severamente contro di loro le sentenze divine, perché siano richiamati alla coscienza di sé dalla considerazione del supplizio eterno. Ascoltino che si è compiuto contro di loro ciò che sta scritto: Se pestassi lo stolto nel mortaio come grani d’orzo sotto i colpi del pestello, non verrebbe tolta da lui la sua stoltezza (Prov. 27, 22). Contro costoro il profeta si volge con lamenti al Signore, dicendo: Li hai stritolati ed hanno rifiutato di accogliere la correzione (Ger. 5, 3). Ed è ciò che dice il Signore: Ho ucciso e distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti dalle loro vie (Ger. 15, 7). E poi di nuovo dice: Il popolo non è ritornato a colui che lo percuote (Is. 9, 13). Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta dicendo: Abbiamo curato Babilonia ma non è guarita (Ger. 51, 9). Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole della correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di ritornare al retto cammino della salvezza. Perciò il Signore rimprovera il popolo di Israele prigioniero e tuttavia non convertito dalla sua iniquità, dicendo: La casa di Israele si è mutata per me in scoria: tutti costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace (Ez. 22, 18). Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento, ma mi sono riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella tribolazione si sono buttati nei vizi e non nella virtù. Rame, perché quando lo si percuote dà suono più ampio degli altri metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve rompe nel suono della mormorazione risulta rame dentro la fornace. Lo stagno, invece, trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi nella tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa stagno nella fornace. Chi insidia alla vita del prossimo si serve del ferro, e così è ferro nella fornace chi, pure nella tribolazione, non perde la malizia di nuocere. E c’è anche il piombo che è il più

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41 pesante degli altri metalli; e nella fornace si rivela piombo colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato che, anche posto nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri terreni. Perciò ancora è scritto: Con molta fatica si sudò e non usci da essa tutta la sua ruggine, neppure col fuoco (Ez. 24, 12). Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci dalla ruggine dei vizi, che è in noi; ma non perdiamo la ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci asteniamo dal vizio. Perciò il profeta dice ancora: Invano li ha fusi il fonditore: le loro malizie non si sono consumate (Ger. 6, 29). Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a non correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una dolce ammonizione, perché non di rado sono le parole miti e le carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non si lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati, che una forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono risanati da acqua tiepida; e alcune ferite che non possono curarsi incidendo, guariscono con impacchi di olio. Così il duro diamante che non resta minimamente scalfito dal ferro, diviene molle nel leggero sangue di capri. 14 — Come bisogna ammonire i taciturni e i chiacchieroni Diverso è il modo di ammonire coloro che tacciono troppo e coloro che sono sempre pronti a parlare molto. Bisogna suggerire a coloro che parlano troppo poco che, mentre vogliono fuggire — in modo poco avvertito — certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi peggiori. Spesso infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in cuore un eccessivo peso di parole, e così, tanto più i pensieri ribollono nella mente quanto più li costringe la custodia forzata di un silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto più ampiamente quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a chi potrebbe riprenderli. Perciò spesso la mente monta in superbia e disprezza come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la bocca del suo corpo, non si rende conto di quanto si apre ai vizi col suo insuperbire. Infatti comprime la lingua e innalza il pensiero e mentre non considera affatto la sua malizia, dentro di sé accusa tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in segreto. Perciò bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di fuori, ma anche come si debbano disporre interiormente così da temere di più l’occulto giudizio divino in seguito ai loro pensieri che il rimprovero del prossimo in seguito ai loro discorsi. Infatti è scritto: Figlio mio, fa’ attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia prudenza per custodire i pensieri (Prov. 5, 1). Poiché niente in noi è più instabile del cuore, che si allontana da noi ogni qual volta è trascinato via sull’onda dei cattivi pensieri. Perciò infatti il salmista dice: Il mio cuore mi ha abbandonato (Sal. 39, 13). E perciò, ritornando in se stesso dice: Il tuo servo ha trovato il suo cuore per pregarti (2 Sam. 7, 27). Pertanto, il cuore solito a disperdersi, si ritrova quando il pensiero è frenato dalla vigilanza. Spesso poi, quando coloro che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in un dolore tanto più aspro quanto meno parlano del dolore che devono sopportare; perché se dicessero tranquillamente la sofferenza che è stata loro inflitta, il dolore uscirebbe dalla coscienza. Infatti le ferite chiuse fanno soffrire di più e quando il pus che infiamma dentro viene espulso, il dolore si apre alla guarigione. Pertanto, coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che non è bene aumentare la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano, per il fatto di trattenersi dal parlare. Bisogna ammonirli a non tacere al prossimo, se lo amano come se stessi, ciò di cui giustamente lo rimproverano, giacché con la medicina della parola si concorre alla salute di ambedue: si frena dalla cattiva azione colui che la compie (cf. Lev. 19, 17), e con l’apertura della ferita si allevia la fiamma del dolore di colui che la sostiene. Infatti, coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e poi trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite, sottraessero ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di morte in quanto non hanno voluto curare l’infezione come avrebbero potuto. Dunque, bisogna frenare la lingua con discrezione e non legarla indissolubilmente, poiché sta scritto: Il sapiente tacerà fino al tempo opportuno (Sir. 20, 7); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità, tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si adopera per l’utilità. E ancora sta scritto: C’è un tempo per tacere e un

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42 tempo per parlare (Qo. 3, 7). Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei momenti diversi, perché la lingua non scorra inutilmente sulle parole quando dovrebbe invece trattenersi; o non si trattenga pigramente quando potrebbe utilmente parlare. Ciò che ben considera il salmista dicendo: Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e una porta intorno alle mie labbra (Sal. 140, 3). Infatti non chiede che gli sia posta una parete davanti alla bocca, ma una porta che, evidentemente, si apre e si chiude; perciò anche noi dobbiamo imparare con prudenza il momento opportuno perché la voce apra la bocca con discrezione, e ancora il momento opportuno perché il silenzio la chiuda. Al contrario, bisogna ammonire coloro che sono sempre pronti a parlare molto, che siano pronti a rendersi conto di quanto vengon meno alla loro rettitudine col diffondersi in tante parole. Giacché la mente umana è come l’acqua, che quando è trattenuta si raccoglie verso l’alto poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata andare viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi. Infatti, ogni volta che la mente si dissipa in vane parole fuori dalla censura del proprio silenzio, è condotta fuori di sé come per tanti rivoletti. Perciò non è più capace di rientrare in se stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa nelle molte parole si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e si scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna protezione la circonda e la custodisce. Perciò è scritto: Come una città aperta e senza giro di mura, così è l’uomo che non può trattenere il suo animo quando parla (Prov. 25, 28); giacché la città della mente non possiede il muro del silenzio ed è aperta alle frecce del nemico, e quando si butta fuori di se stessa attraverso le parole, si mostra tutta all’avversario. Ed egli la espugna senza fatica tanto più in quanto anche lei stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo continuo parlare. Ma per lo più, poiché la mente negligente è spinta a cadere per gradi, se trascuriamo di guardarci dalle parole oziose, giungiamo a quelle dannose; così che, prima si gode a parlare degli altri, poi si morde la vita di coloro di cui si parla, con la detrazione, e infine la lingua rompe fino alle aperte offese. E di qui si seminano le provocazioni, nascono le risse, si accendono le fiamme dell’odio, si estingue la pace dei cuori. Perciò, bene è detto per mezzo di Salomone: Chi lascia andare l’acqua, dà principio alle contese (Prov. 17, 14). Lasciare andare l’acqua significa abbandonare la lingua allo sproloquio. Al contrario, è detto ancora in senso buono: Le parole che procedono dalla bocca dell’uomo sono acque profonde (Prov. 18, 4). Pertanto, chi lascia andare l’acqua dà principio alle contese perché chi non frena la lingua dissipa la concordia. E perciò in senso inverso è detto: Chi impone silenzio allo stolto, mitiga le ire (Prov. 26, 10). Che poi colui il quale è dedito alle chiacchiere non possa mantenere la rettitudine della giustizia, lo attesta il profeta che dice: L’uomo linguacciuto non va diritto sulla terra (Sal. 139, 12). Perciò, pure Salomone dice ancora: Nel molto parlare non mancherà il peccato (Prov. 10, 19). Perciò Isaia dice: Il silenzio è coltivazione della giustizia (Is. 32, 17), significando chiaramente che la giustizia dell’animo resta desolata se non la risparmia il parlare smodato. Perciò Giacomo dice: Se qualcuno pensa di essere religioso e non tiene a freno la sua lingua ma seduce il suo cuore, la sua religione è vana (Giac. 1, 26). Perciò dice ancora: Ognuno sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare (Giac. 1, 19). E di nuovo, definendo la potenza della lingua, dice: È un male irrefrenabile, piena di veleno mortifero (Giac. 3, 8). Perciò la Verità stessa ci ammonisce dicendo: Di ogni parola oziosa che avranno detto, gli uomini dovranno rendere conto il giorno del giudizio (Mt. 12, 36). Ed è oziosa ogni parola che non sia giustificata da una ragionevole necessità o dall’intenzione di una pia utilità. Se dunque si esige il rendiconto di una parola oziosa, pensiamo quale pena attenda il molto parlare in cui si pecca anche con parole che arrecano danno. 15 — Come si devono ammonire i pigri e i precipitosi Diverso è il modo di ammonire i pigri e i precipitosi. I primi bisogna persuaderli a non perdere quei beni di cui differiscono l’adempimento; gli altri invece bisogna ammonirli che, col prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo di fare certe opere buone, rischiano di mutarne i meriti. E così bisogna inculcare nei pigri che ciò che speso non vogliamo fare al momento opportuno mentre lo possiamo, poco dopo, quando lo vorremmo, non ne siamo più in grado; poiché la stessa pigrizia

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43 della mente, se non viene accesa e stimolata da un ardore appropriato, viene uccisa del tutto, quanto al desiderio delle buone opere, da un torpore sotterraneo e crescente. Perciò è detto apertamente per mezzo di Salomone: La pigrizia fa venire sonno (Prov. 19, 15). Il pigro infatti, nella rettitudine del suo sentire, si può dire che veglia, nonostante il torpore del suo non far nulla; ma si dice che la pigrizia fa venire sonno, perché, se si cessa dalla pratica del bene operare a poco a poco si perde anche la vigilanza del retto sentire. Perciò giustamente prosegue: E l’anima indolente soffrirà la fame (Prov. 19, 15). Infatti, poiché non si dirige verso l’alto col suo sforzo, con la trascuratezza di sé, si espande verso il basso, nei suoi desideri; e non essendo costretta dal vigore di interessi elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così che quanto più trascura di legarsi alla disciplina tanto più si dissipa, affamata, nei desideri dei piaceri. Perciò ancora dal medesimo Salomone è scritto: Ogni ozioso vive nei desideri (cf. Prov. 21, 26). Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando uno spirito immondo è uscito da una casa questa è pura, ma se quando quello ritorna essa è vuota, viene poi occupata da spiriti tanto più numerosi (cf. Mt. 12, 44). Spesso il pigro, mentre trascura di fare le cose necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme infondatamente; e trovata la scusa con cui giustificare il suo timore, pretende di dimostrare che il suo dormire in ozio non è ingiustificato. A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il pigro non ha voluto arare per il freddo; dunque in estate andrà a mendicare, e non gliene daranno (Prov. 20, 4). Il pigro non ara per il freddo quando, costretto dal sonno della pigrizia, trascura di fare le opere buone che deve; non ara per il freddo quando tralascia di fare cose importanti per timore di piccoli mali in contrario. Ed è ben detto: In estate andrà a mendicare e non gliene daranno, infatti chi ora non fatica nelle buone opere, quando il sole del giudizio apparirà più bruciante, in quella estate, mendicherà senza ricevere nulla perché invano andrà a questuare all’ingresso del Regno. E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice giustamente a costui: Chi bada al vento non semina; e chi considera le nubi non miete (Qo. 11, 4). Che cosa si esprime col vento se non la tentazione degli spiriti maligni? E che cosa con le nubi, che sono mosse dal vento, se non le ostilità di uomini iniqui? Evidentemente, le nubi sono spinte dai venti perché gli uomini iniqui sono eccitati dal soffio degli spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non semina, e chi considera le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione degli spiriti maligni e chi teme la persecuzione di uomini iniqui né semina il grano delle buone opere né taglia i covoni della santa retribuzione. Al contrario, i precipitosi che prevengono il tempo delle buone azioni, ne pervertono il merito e spesso cadono nel male perché non hanno alcun discernimento del bene. Essi non indagano quale sia il momento giusto di compiere qualcosa, ma per lo più se ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con l’accorgersi che così non avrebbero dovuto farla. Ad essi, come a chi ascolta, viene detto da Salomone: Figlio, non fare nulla senza consiglio, e dopo che l’hai fatto non ti pentirai (Sir. 32, 24). E ancora: Le tue palpebre precedano i tuoi passi (Prov. 4, 25). Le palpebre precedono i passi quando retti consigli prevengono il nostro agire. Chi infatti trascura di considerare in precedenza ciò che prevede di fare, drizza i suoi passi, chiude gli occhi e giunge al termine del suo cammino, ma non si fa precedere dalle sue stesse previsioni e perciò cade a terra più rapidamente, perché non fa attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a dove deve mettere il piede dell’opera. 16 — Come si devono ammonire i mansueti e gli iracondi Diverso è il modo di ammonire i mansueti e gli iracondi. Spesso infatti, quando i mansueti hanno qualche responsabilità di guida, soffrono di una certa lentezza di decisione unita alla loro mitezza; e per lo più, per via di una pacatezza eccessivamente rilassata, addolciscono oltre il necessario il vigore della severità. Al contrario, gli iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più si lasciano travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente, tanto più turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la tranquillità e la pace. Quando il furore li spinge a trascendere inconsideratamente, ignorano ciò che fanno nell’impeto dell’ira e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da se stessi. Spesso però, ciò che è più grave, giudicano lo stimolo della propria ira zelo di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù, senza timore si accumula colpa su colpa.

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44 Infatti, spesso, i mansueti intorpidiscono per la noia della rilassatezza; e gli iracondi peccano per zelo di rettitudine. Pertanto, per i primi, si tratta di un vizio che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli altri invece, il proprio vizio appare come virtù ardente. Dunque, bisogna ammonire quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a ciò che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi ciò che hanno: i mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi bandiscano l’agitazione. Bisogna ammonire i mansueti che si studino di avere spirito di emulazione per la giustizia; e gli iracondi ad aggiungere la mansuetudine a questo medesimo spirito che essi credono di possedere. Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è mostrato come colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie, mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco dello zelo. Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che, tranquillo della sua mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo, né colui che ancora per l’ardore dello zelo, perde la virtù della mansuetudine. Ma forse ci spieghiamo meglio se portiamo come esempio il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti di non diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione. Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta e rimprovera con ogni pazienza e dottrina (2 Tim. 4, 2); ammonisce anche Tito dicendo: Di’ queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità (Tit. 2, 15). A che cosa si deve che egli applichi tanto sapientemente la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più mansueto di Tito e quello un poco più fervido di Timoteo? Perciò infiamma quello, con l’amore dello zelo e modera questo, con la dolcezza della pazienza: aggiunge ciò che manca all’uno e toglie ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di stimolare il primo e di frenare il secondo, e come grande agricoltore della Chiesa che ha ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede crescere più del normale li pota affinché non accada che, o non crescendo non portino frutto o crescendo eccessivamente perdano quello che hanno già dato. Ma è molto diversa l’ira che accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che turba un cuore agitato e senza pretesto di giustizia. Nel primo caso, infatti, essa si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro invece si accende sempre indebitamente. Perciò bisogna sapere che gli impazienti differiscono dagli iracondi in ciò, che quelli non sopportano ciò che viene loro imposto da altri; questi invece sono loro a provocare ciò che gli altri devono sopportare. Infatti gli iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si ritirano, provocano occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese. Costoro tuttavia si correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione della loro ira, perché in quel momento ignorano ciò che viene detto loro, ma ritornati in sé, accolgono tanto più liberamente le parole di esortazione quanto più arrossiscono di essere stati sopportati in pace. Giacché, qualunque cosa giusta si dica a una mente ebbra di furore, le parrà sempre sbagliata. Perciò anche, a Nabal ubriaco, Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che, altrettanto lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino (cf. 1 Sam. 25, 37); e perciò egli poté conoscere il male che aveva compiuto e che non gli fu detto quando era ubriaco. Quando però gli iracondi assalgono gli altri in modo che essi non possano in alcuna maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con aperto rimprovero ma usando verso di loro il riguardo di un certo cauto rispetto. Cosa che si intende meglio con l’esempio di Abner. Di lui, quando Asael lo inseguiva con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner parlò ad Asael dicendo: Ritirati, non inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra. Ma quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi. Allora Abner lo colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e lo trafisse e mori (2 Sam. 2, 22-23). E di chi è figura Asael se non di coloro che quando il furore li coglie con violenza, li trascina a precipizio? Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto dell’ira in quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner — che nella nostra lingua significa lucerna del padre — fugge; perché la lingua dei maestri, che indica la luce celeste di Dio, quando vede la mente di qualcuno portata per i precipizi del furore, e trascura di restituire le frecce delle sue parole contro l’irato, è come chi non vuol ferire il suo persecutore. Ma quando gli iracondi non si acquietano con alcun ragionamento e, come Asael non cessano di perseguitare e comportarsi da pazzi, è necessario che coloro i quali cercano di trattenere i furiosi, non si erigano anch’essi con furore, ma mostrino tutta la possibile tranquillità; facciano cioè qualche sottile osservazione che colpisca indirettamente l’animo di colui che infuria. Perciò anche

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45 Abner, quando ristette contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò con la lancia diritta ma rovesciata; poiché percuotere con la punta corrisponde ad affrontare d’impeto con un aperto rimprovero; invece, ferire con la parte posteriore della lancia vale toccare tranquillamente il furioso con qualche argomento e vincerlo quasi risparmiandolo. Asael tuttavia cadde subito perché le menti eccitate, mentre sentono che si ha riguardo per loro, toccate con tranquillità nell’intimo dalla ragionevolezza delle risposte, cadono improvvisamente da quello stato di esaltazione a cui si erano innalzati. Così, coloro che sotto un leggero colpo piombano dall’impeto del loro ardore, sono come chi muore quasi senza ricevere ferita di spada. 17 — Come si devono ammonire gli umili e gli orgogliosi Diverso è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna suggerire quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella speranza; gli altri bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria temporale che essi, pur tenendola stretta, non possiedono. Ascoltino gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino gli umili, dalla maestra voce della Verità: Chi si umilia sarà esaltato (Lc. 18, 14); ascoltino gli orgogliosi: Chi si esalta sarà umiliato (Lc. 18, 14). Ascoltino gli umili: L’umiltà precede la gloria (Prov. 15, 33); ascoltino gli orgogliosi: Lo spirito si esalta prima della rovina (Prov. 16, 18). Ascoltino gli umili: A chi volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie parole? (Is. 66, 2); ascoltino gli orgogliosi: Perché insuperbisce la terra e la cenere? (Sir. 10, 9). Ascoltino gli umili: Dio volge lo sguardo alle cose umili (Sal. 137, 6); ascoltino gli orgogliosi: e conosce da lontano le alte (Sal. 137, 6). Ascoltino gli umili: Poiché il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire (Mt. 20, 28); ascoltino gli orgogliosi: poiché la superbia è l’inizio di ogni peccato (Sir. 10, 15). Ascoltino gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò se stesso fatto obbediente fino alla morte (Fil. 2, 8); ascoltino gli orgogliosi ciò che è scritto del loro capo: Egli è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25). Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata argomento della nostra redenzione. Infatti il nostro nemico, creatura come tutte, volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur rimanendo grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra tutte. Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo apostata. Perciò, che cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al di sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza più eccelsa? C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve valutare con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del proprio orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi; e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine. Dunque, la colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della giustizia l’esercizio della superbia, e i secondi, quando si applicano a sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi. Bisogna però considerare che spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo le correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire almeno quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere quanto c’è in loro di male che a noi dispiace, quando cioè è stato fatto precedere il ricordo delle loro cose

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46 buone e che ci piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto placato. Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le frustate; e a un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza del miele perché ciò che deve giovare alla salute non debba essere gustato proprio col sapore di un’aspra amarezza; e invece, mentre il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore mortifero viene espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché con l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le correzioni che odiano. Ma spesso possiamo persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi, se facciamo passare il loro progresso piuttosto come pin vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per loro stessi. Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosè che aveva Dio come guida e attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria, volendo allontanare il suo parente Hobab dalla consuetudine pagana e sottometterlo alla signoria di Dio onnipotente, [lo pregò dicendo]: Noi partiamo per il luogo che il Signore ci darà; vieni con noi affinché ti facciamo del bene perché il Signore ha promesso dei beni a Israele. Ma poiché quello gli rispose: Non verrò con te ma ritornerò alla terra dove sono nato, aggiunse subito: Non ci abbandonare, perché tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo porre l’accampamento e sarai nostra guida (Num. 10, 29 ss.). Certo l’ignoranza riguardo al viaggio non angustiava l’animo di Mosè, lui che la conoscenza della divinità aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma evidentemente, da uomo avveduto, che stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui che precede chi lo esorta, di fatto obbediva alle sue parole. 18 — Come si devono ammonire gli ostinati e gli incostanti Diverso è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi bisogna dire che essi si stimano più di quello che sono e perciò non acconsentono ai consigli altrui; i secondi bisogna convincerli che poiché si disprezzano e non hanno alcuna considerazione di sé, i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro giudizio a seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si stimassero migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque l’attenzione del proprio animo a ciò che sono, il vento dell’instabilità non li trascinerebbe per tanta diversità di posizioni. A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non siate prudenti presso voi stessi (Rom. 12, 6). Al contrario, questi si sentono dire: Non facciamoci portare in giro da ogni vento di dottrina (Ef. 4, 14). Di quelli, per mezzo di Salomone è detto: Mangeranno il frutto della loro via e si sazieranno dei loro consigli (Prov. 1, 31). Di questi, ancora lo stesso scrive: Il cuore degli stolti sarà mutevole (Prov. 15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel bene operare. Ma il cuore degli stolti è mutevole perché mostrandosi vario nell’instabilità, non rimane mai ciò che è stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano altri da se stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto più riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più asciughiamo la fonte stessa della loro amarezza. E in effetti, l’ostinazione è generata dalla superbia, l’incostanza dalla leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a riconoscere l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di lasciarsi vincere dai giusti consigli di altri, interiormente non siano tenuti prigionieri dalla superbia. Bisogna ammonirli a considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre una sola volontà col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra volontà, dice: Non cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv. 5, 30). Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio, dicendo: Io non

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47 posso fare nulla da me stesso, ma come ascolto giudico (Gv. 5, 30). Dunque, con quale coscienza l’uomo disdegna di sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di Dio, e dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza, afferma di non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti essi inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima strappano dal cuore la radice della leggerezza, perché si costruisce un edificio stabile quando si provvede prima un luogo solido in cui porre le fondamenta. Pertanto, se prima non si provvede a togliere la leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando dice: Ho forse usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me ci siano il si e il no? (2 Cor. 1, 17). Come se dicesse apertamente: Non sono mosso dal vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della leggerezza. 19 — Come si devono ammonire gli intemperanti nel cibo e i parchi Diverso è il modo di ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il vizio è accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza dell’operare e dalla lussuria; agli altri si unisce spesso l’impazienza e spesso anche la superbia. Infatti, se la loquacità smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a bagnare la punta del suo dito nell’acqua, per dare sollievo alla mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma (Lc. 16, 24). Con queste parole, certamente si mostra che banchettando ogni giorno, aveva peccato più frequentemente con la lingua, egli che pur ardendo tutto cercava refrigerio soprattutto per essa. E ancora l’autorità della Sacra Scrittura attesta che la leggerezza dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il popolo si sedette per mangiare e bere, e si alzò per divertirsi (Es. 32, 6). E spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria, perché quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli stimoli della libidine. Perciò all’astuto nemico, che apri la sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la strinse poi col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul petto e sul ventre (cf. Gen. 3, 14), come se gli venisse detto apertamente: dominerai suoi cuori umani coi pensieri cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga dietro ai golosi, lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi distrusse le mura di Gerusalemme (cf. 2 Re, 25, 10. LXX). Infatti il principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere. Le mura di Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso il desiderio della pace celeste. Pertanto il principe dei cuochi abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si distende per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla lussuria. Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non direbbe: Sforzatevi di unire la virtù alla vostra fede, e alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per aggiungere subito oculatamente: e alla temperanza la pazienza (2 Pt. 1, 5). Ammoni cioè i temperanti ad avere quella pazienza che sapeva mancare loro. E ancora: se la colpa della superbia non trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non avrebbe detto affatto: Chi non mangia non giudichi chi mangia (Rom. 14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza, aggiunse: Tutte cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro religiosità umiltà e austerità del corpo, ma non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col. 2, 23). In ciò va notato che nella sua argomentazione, il predicatore egregio accosta alla scrupolosità un certo aspetto di umiltà, poiché quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza, si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si insuperbisce gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno due volte la settimana (Lc. 18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre sono dediti al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della lussuria, e vedano con quanta forza,

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48 attraverso il mangiare, li insidiano la loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre servono con la mollezza il ventre non si trovino crudelmente stretti nei lacci dei vizi. Infatti, tanto più ci si allontana dal secondo genitore quanto più, col tendere la mano ad uso smodato del cibo, si ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario, bisogna ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi ancora peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito erompa nell’impazienza. Poiché la vittoria sulla carne non costituisce più una virtù, se lo spirito si lascia vincere dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo corrompe, e il bene della astinenza si perde quanto meno si custodisce dai vizi spirituali. Perciò giustamente è detto per mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni si manifestano le vostre volontà (cf. Is. 58, 3 - LXX). E poco dopo: Voi digiunate nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf. Is. 58, 4). La volontà si riferisce alla gioia e il pugno all’ira. Invano dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il cuore, abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi. E ancora, bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa presso il Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa ci sia gran merito, il cuore non si esalti nell’orgoglio. Perciò infatti è detto per mezzo del profeta: È forse questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane a chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi (Is. 58, 5.7). In ciò dunque bisogna considerare come viene stimata piccola la virtù dell’astinenza, che non si raccomanda se non per la presenza di altre virtù. Perciò Gioele dice: Santificate il digiuno (Gioe. 1, 14). Infatti, santificare il digiuno significa mostrare a Dio una astinenza del corpo resa degna per l’aggiunta di altre virtù. Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che essi offrono un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna sapientemente ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del profeta, dicendo: Quando digiunavate e piangevate, il quinto e il settimo mese, per questi settant’anni, forse facevate un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non avete mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac. 7, 5 s.). Infatti non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si distribuisce ai bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre in altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia decadere gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della carne non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i golosi dalla bocca della Verità: Badate a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questo mondo (Lc. 21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35). E i temperanti ascoltino: Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo (Mt. 15, 11). Ascoltino i golosi: Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma Dio distruggerà questi e quello (1 Cor. 6, 13). E ancora: Non in gozzoviglie e ubriachezze (Rom. 13, 13). E ancora: Il cibo non ci raccomanda a Dio (1 Cor. 8, 8). Ascoltino i temperanti: Perché tutto è puro per i puri; ma per i corrotti e gli infedeli niente è puro (Tit. 1, 15). Ascoltino i golosi: Loro dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro vergogna (Fil. 3, 19). Ascoltino i temperanti: Alcuni si allontaneranno dalla fede (1 Tim. 4, 1); e poco dopo: Alcuni proibiscono di sposarsi, vogliono che ci si astenga dai cibi, che Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e da coloro che hanno conosciuto la verità (1 Tim. 4, 3). Ascoltino i golosi: È bene non mangiare carne e non bere vino, né ciò, per cui il tuo fratello si scandalizza (Rom. 14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi un poco di vino per via dello stomaco e delle tue frequenti debolezze (1 Tim. 5, 23). Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare disordinatamente i cibi della carne e gli altri non osino condannare ciò che essi non desiderano e tuttavia è stato creato da Dio.

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49 20 — Come si devono ammonire coloro che distribuiscono i propri beni e coloro che rapiscono quelli altrui Diverso è il modo di ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con misericordia, e coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri. I primi infatti bisogna ammonirli a non innalzarsi con pensiero superbo su coloro a cui elargiscono i beni terreni, e non si stimino migliori perché vedono gli altri sostenuti coi loro mezzi. Infatti il padrone di una casa terrena, nel distribuire i ruoli e i servizi dei servi, stabilisce questi a governare e quelli a essere governati dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il necessario ai secondi, e a questi di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli. E tuttavia spesso coloro che governano, dispiacciono al padrone di casa, e restano invece nella sua grazia coloro che sono governati. Coloro che sono dispensatori si trovano a meritare la sua ira; gli altri, che sottostanno alla distribuzione fatta dai primi, restano senza ricevere danno. Dunque, bisogna ammonire coloro che già dispensano con misericordia ciò che possiedono, a riconoscersi come posti dal Padrone celeste a dispensare aiuti temporali, e a offrirli tanto più umilmente quanto più capiscono che quel che dispensano è roba altrui. E quando considerano di essere stati costituiti nel servizio di coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la superbia non esalti il loro animo, ma lo trattenga invece il timore. Perciò è necessario che badino con grande cura a non distribuire in modo indegno i beni che gli sono stati affidati, e a darne così a chi non devono darne, o a non darne affatto a chi devono qualcosa; a dare molto a chi devono dar poco, o a darne poco a chi devono dar molto; a disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò che distribuiscono o a tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo colpevole. Non si insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il desiderio di una lode passeggera non estingua lo splendore del donare. L’offerta del dono non sia accompagnata da una opprimente tristezza, ma neppure l’animo di chi offre si rallegri più del conveniente; e quando avranno compiuto tutto per bene, non attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in una volta, quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire a sé la virtù della propria liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Se qualcuno esercita un ufficio, lo faccia secondo la capacità che Dio gli comunica (1 Pt. 4, 11). Per non gioire smodatamente delle proprie beneficenze, ascoltino ciò che è scritto: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc. 17, 10). E perché la tristezza non guasti la liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Dio ama chi dà con gioia (2 Cor. 9, 7). Affinché non cerchino una lode passeggera in cambio del dono, ascoltino ciò che è scritto: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt. 6, 3), cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la gloria della vita presente, e il desiderio della lode non tocchi un’azione giusta. Affinché non cerchino il contraccambio della grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto: Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini ricchi, perché non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il compenso; invece, quando fai un pranzo, invita i poveri, i malati, gli zoppi, i ciechi; e sarai beato perché loro non hanno da restituirti (Lc. 14, 12 ss.). E affinché non si tardi a dare ciò che va dato in fretta, ascoltino ciò che è scritto: Non dire al tuo amico: Va’ e ritorna e domani ti darò, quando puoi dare subito (Prov. 3, 28). Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino inutilmente ciò che possiedono, ascoltino ciò che è scritto: Sudi, l’elemosina nella tua mano1. E perché non diano poco là dove è necessario molto, ascoltino ciò che è scritto: Chi semina con parsimonia, mieterà pure con parsimonia (2 Cor. 9, 6). Affinché, dove basta poco non offrano molto, e poi loro stessi, non potendo in alcun modo sopportare l’indigenza, erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi, ma perché nell’uguaglianza, la vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, e la loro abbondanza venga a supplire la vostra indigenza (2 Cor. 8, 13-14). Infatti, quando l’animo di chi dà non sa sopportare l’indigenza, se si priva di molto cerca un’occasione di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna predisporre l’animo alla pazienza e solo allora distribuire molto o anche tutto, perché non vada perduta la

1 Uno dei detti del Signore di cui si ignora la fonte. Si ritrova in sant’Agostino (Enarr. in Ps. 102, 12; e in Ps. 146, 17) e in altri autori medievali.

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50 mercede della liberalità prestata; e la mormorazione che inoltre si aggiungerebbe non faccia perire più gravemente l’anima per il fatto che non si riesce a sopportare in pace l’improvviso bisogno. Affinché non avvenga che non diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche poco, bisogna dare, ascoltino ciò che è scritto: Da’ a chiunque ti chiede (Lc. 6, 30). Ma affinché non diano, anche poco, a chi non debbono assolutamente nulla, ascoltino ciò che è scritto: Da’ al buono e non accogliere il peccatore: fa’ il bene all’umile e non dare all’empio (Sir. 12, 5-6). E ancora: Poni il tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto, e non mangiarne né berne insieme con i peccatori (Tob. 4, 18). Infatti offre ai peccatori il suo pane e il suo vino colui che dà sussidi agli iniqui perché sono iniqui; perciò anche parecchi ricchi di questo mondo, mentre i poveri di Cristo sono afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità gli istrioni. Chi invece dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché è peccatore ma perché è uomo, evidentemente non mantiene un peccatore ma un povero giusto, poiché in lui non ama la colpa ma la. natura. Bisogna ammonire coloro che già distribuiscono i propri beni con misericordia, ad attendere con gran cura, mentre le elemosine redimono i peccati commessi, a non commetterne degli altri; e non stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter peccare impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i peccati. Infatti l’anima vale più del cibo e il corpo più del vestito (Mt. 6, 25); chi allora dà cibo o vestito ai poveri, ma si macchia con l’iniquità dell’anima o del corpo, ha offerto ciò che vale di meno alla giustizia e ciò che vale di più al peccato; infatti, a Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al contrario, bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il Signore venendo al giudizio. Infatti dice: Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero pellegrino e non mi avete accolto, nudo e non mi avete coperto, infermo e in carcere e non mi avete visitato (Mt. 25, 42-43). E ad essi, subito prima dice: Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli (Mt. 25, 41). Ecco, quelli non ascoltano affatto questa sentenza perché abbiano commesso rapine e ogni genere di violenze, ma tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna geenna. Da ciò bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro che rapiscono i beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto grande coloro che semplicemente conservano troppo gelosamente i propri. Valutino con quale peccato li avvince il bene rapito se quello che non è stato semplicemente partecipato sottopone a una tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia inferta, se è degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà. Quando si propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è scritto: Guai a colui che moltiplica i beni non propri: fino a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab. 2, 6). Per un avaro, cioè, accumulare il peso di denso fango significa accumulare guadagni terrestri col peso del peccato. Quando bramano di dilatare sempre più l’ampiezza della loro abitazione, ascoltino ciò che è scritto: Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del paese. Forse abitate solo voi in mezzo alla terra? (Is. 5, 8). Come se dicesse apertamente: Fin dove volete estendervi, voi che, in questo mondo che è di tutti, non potete avere altri partecipi della vostra fortuna? In effetti voi opprimete i vostri vicini, ma trovate sempre contro chi farvi valere per estendervi. Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò che è scritto: L’avaro non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non trarrà frutto da esse (Qo. 5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle bene senza amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze insieme, ascoltino ciò che è scritto: Chi ha fretta di arricchirsi non sarà senza colpa (Prov. 28, 20); infatti è certo, che chi aspira ad aumentare le sue ricchezze, trascura di evitare il peccato e, catturato come un uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni terreni, non si accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando desiderano guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e ignorano i danni che dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò che è scritto: L’eredità per la quale ci si affretta in principio, alla fine non avrà benedizione (Prov. 20, 21). Cioè, da questa vita noi traiamo inizio per giungere a ottenere benedizione alla fine; pertanto, chi ha fretta di ereditare in principio, taglia via da sé la sorte della benedizione alla fine. Poiché, mentre per il peccato di avarizia bramano di moltiplicare qui i loro beni, là resteranno diseredati del patrimonio eterno. Quando o ambiscono a molti beni o possono raggiungere tutto quanto hanno ambito,

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51 ascoltino ciò che è scritto: Che cosa giova all’uomo se guadagna tutto il mondo ma reca danno alla sua anima? (Mt. 16, 26). È come se la Verità dicesse apertamente: Che cosa giova all’uomo raccogliere tutto quello che esiste fuori di lui, se danna questa sola cosa che è lui stesso? Tuttavia spesso si corregge più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci, se nelle parole di chi li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita presente; se si richiama la memoria di coloro che a lungo hanno cercato di arricchire in questa vita e tuttavia non poterono restare a lungo a godere delle ricchezze ottenute, poiché la morte improvvisa, di colpo e tutto in una volta, ha portato via tutto ciò che, non di colpo né tutto in una volta, la loro iniquità aveva messo insieme; ed essi non solamente lasciarono qui le ricchezze rubate, ma condussero con sé, al giudizio, le accuse di rapina. Ascoltino dunque gli esempi offerti da costoro, che senza dubbio loro stessi condannano a parole, affinché quando queste parole di condanna rientrano nel loro cuore, arrossiscano almeno di imitare coloro che giudicano. 21 — Come bisogna ammonire coloro che non bramano i beni altrui, ma si tengono i propri e coloro che pur distribuendo i propri, rapiscono tuttavia quelli degli altri Diverso è il modo di ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri; e coloro che distribuiscono i beni che hanno e tuttavia non desistono di rapire quelli altrui. Bisogna ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri, a sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è comune a tutti gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a tutti allo stesso modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti coloro che rivendicano ad uso privato il dono comune di Dio; i quali, quando non distribuiscono ciò che hanno ricevuto, operano in qualche modo l’assassinio del prossimo; perché quasi ogni giorno ne uccidono tanti, quanti sono i poveri che muoiono mentre essi nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro. Infatti, quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo piuttosto a un debito di giustizia più che compiere opere di misericordia. Perciò la Verità stessa parlando di nome non bisogna ostentare la misericordia, dice: Badate di non fare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt. 6, 1). E a ciò si accorda pure il salmista che dice: Disperse, diede ai poveri, la sua giustizia rimane in eterno (Sal. 111, 9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia, poiché è certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune Signore, chiunque ne riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche Salomone dice: Chi è giusto darà e non cesserà (Prov. 21, 26). Bisogna anche ammonirli a stare molto attenti che l’agricoltore esigente si lamenta contro il fico che non dà frutto perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico, cioè, tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari conserva inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico occupa senza frutto il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra della pigrizia un luogo che un altro sarebbe stato in grado di sfruttare col sole delle buone opere. Costoro tuttavia spesso sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e non cerchiamo la roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa di misericordia, tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così perché evidentemente chiudono l’orecchio del cuore alle parole celesti; infatti neppure il ricco dell’Evangelo, che vestiva di porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno (cf. Lc. 16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è dimostrato che egli aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo accolse la geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito, ma perché si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato. Bisogna ammonire questi avari a rendersi conto che la prima offesa la fanno a Dio, poiché a colui che dà loro tutto, essi non rendono alcun sacrificio di misericordia. Perciò il salmista dice: Non darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del riscatto della sua anima (Sal. 48, 8-9). Infatti dare il prezzo del riscatto è rendere una buona opera alla grazia che ci previene. Perciò Giovanni esclama: La scure è ormai alla radice dell’albero. Ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Lc. 3, 9). Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure vicina e a rigettare il torpore di una improvvida sicurezza, affinché, mentre trascurano di portare il frutto di buone opere, non vengano tagliati via del tutto

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52 dalla presente vita, come da una rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire coloro che distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così divenire peggiori sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti, distribuendo senza discrezione i propri beni, non solo, come abbiamo già detto, cadono nella mormorazione dell’impazienza, ma poi, costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che cosa c’è dunque di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia nasce dalla liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo seme nella virtù? Così bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere conservare con raziocinio i propri beni e quindi a non ambire a quelli degli altri; se infatti la colpa non viene bruciata alla radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina dell’avarizia, diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie l’occasione di rubare, se in precedenza si stabiliscono con chiarezza i limiti del diritto di possedere. Allora solo, coloro che sono stati così ammoniti, ascoltino in che modo devono distribuire, secondo misericordia, ciò che possiedono; cioè, quando avranno imparato a non mescolare il bene della misericordia con la malizia del furto, giacché essi ricercano poi, con la violenza, ciò che hanno elargito con la misericordia. Ma altra cosa è fare misericordia per i peccati e altra peccare per fare misericordia; che, fra l’altro, non si può nemmeno più chiamare misericordia, poiché non può dare dolce frutto l’albero che diviene amaro per il veleno di una radice pestifera. È perciò, infatti, che per mezzo del profeta il Signore rimprovera gli stessi sacrifici dicendo: Io, il Signore, che ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio (Is. 61, 8). Perciò ancora disse: Abominevoli sono i sacrifici degli empi, che vengono offerti dal delitto (Prov. 21, 27). Poiché essi spesso sottraggono anche ai poveri ciò che offrono a Dio. Ma con quanto biasimo li rifiuti, il Signore lo dimostra dicendo, per mezzo di un sapiente: Chi offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno che immola un figlio alla vista di suo padre (Sir. 34, 24). Infatti, che cosa può esserci di pila insopportabile che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si manifesta così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia spesso pesano quel che danno, ma omettono di considerare quel che rubano. Contano quel che danno come fosse una paga, ma rifiutano di pesare attentamente le colpe. Ascoltino pertanto ciò che è scritto: Chi ha raccolto le paghe le ha messe in un sacchetto bucato (Ag. 1, 6), poiché si vede, quando si mette il denaro in un sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si perde. Pertanto, coloro che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano quanto rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché certamente le accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si affidano; ma senza guardare le perdono. 22 — Come bisogna ammonire i litigiosi e i pacifici Diverso è il modo di ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi bisogna ammonirli a sapere con assoluta certezza che, per quanto grandi siano le virtù di cui abbondano, non di meno non possono diventare spirituali, se trascurano di restare uniti al prossimo nella concordia. Poiché è scritto: Frutto, poi, dello spirito è carità, gioia, pace (Gal. 5, 22). Dunque, chi non ha cura di conservare la pace, rifiuta di portare il frutto dello spirito. Perciò Paolo dice: Dal momento che ci sono fra voi gelosie e contese, non siete carnali? (1 Cor. 3, 3). Perciò di nuovo dice pure: Cercate la pace con tutti e una vita santa senza la quale nessuno vedrà Dio (Ebr. 12, 14). Perciò ancora ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità dello spirito: nel vincolo della pace: un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza della vostra chiamata (Ef. 4, 3-4). Dunque, non si giunge all’unica speranza della chiamata se non si corre verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso ci sono alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto più insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della concordia; come sarebbe uno che soggioga la propria carne più degli altri, frenando la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro a cui è superiore nell’astinenza. Ma chi separa l’astinenza dalla concordia, consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo col timpano e il coro (Sal. 150, 4). Infatti il timpano suona per la percussione di una pelle secca, invece nel coro le voci concordano tutte insieme; e così chi affligge il corpo ma abbandona la concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda col

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53 coro. Spesso, poi, una maggiore scienza, mentre innalza certuni, li divide dalla comunione con gli altri, e in un certo senso, quanto più sanno, tanto più diventano incapaci della virtù della concordia. Dunque, costoro ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). La sapienza, cioè, non è un dono di virtù, ma causa di condanna. Infatti, quanto più uno è sapiente, tanto più gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza possibilità di scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe potuto evitare il peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo di Giacomo: Che se avete zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore, non gloriatevi e non dite menzogne contro la verità. Questa non è sapienza che scende dall’alto, ma è sapienza terrena, animale, diabolica. Invece, la sapienza che è dall’alto, innanzitutto è pudica, quindi pacifica (Giac. 3, 14-15.17). Pudica, cioè, perché è casta nell’intendere, e pacifica perché non si separa affatto con l’esaltazione dalla comunione col prossimo. Bisogna ammonire i litigiosi a conoscere che non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio, per tutto il tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è scritto: Se mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia là il tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi vieni a offrire il tuo dono (Mt. 5, 23-24). Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la offerta che viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che viene così indicata. Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati per il bene compiuto in seguito, consideriamo quanto sia grande il peccato della discordia, che se non viene distrutto radicalmente non permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i litigiosi, se distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi del cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più bassi; come gli uccelli di una stessa specie, volando tutti insieme non si lasciano, gli uni con gli altri; e come gli animali, che pure sono senza intelligenza, pascolano a gruppi. Poiché, se guardiamo con attenzione, la natura irrazionale nell’accordo con se stessa indica quanto sia grande il peccato che la natura razionale commette con la discordia; poiché questa, con l’applicazione della ragione, ha perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale. Bisogna, al contrario, ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la pace che possiedono, così da non aspirare a raggiungere quella eterna. Spesso infatti la tranquillità esteriore tenta più gravemente l’attenzione degli animi così che quanto meno moleste sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto meno amabili divengono quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le presenti, tanto meno si ricercano le eterne. Per cui, la Verità stessa, distinguendo la pace terrena da quella celeste e volendo eccitare i discepoli, dalla pace presente a quella eterna, dice: Lascio a voi la pace, vi do la mia pace (Gv. 14, 27). Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella durevole. Se dunque il cuore si fissa in quella pace che è stata lasciata, non perviene mai a quella che deve essere data. Pertanto bisogna conservare la pace presente in modo da amarla e insieme disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche ammonire i pacifici, a non rinunciare a rimproverare i cattivi costumi degli uomini, per un eccessivo desiderio di assicurarsi una pace umana, così che, consentendo ai peccatori, non si distacchino dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno gli improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza interiore. Che cos’è infatti una pace passeggera se non un’impronta della pace eterna? Che cosa ci può essere di più stolto che amare delle impronte sulla polvere e non amare la persona che ve le ha impresse? Perciò David, stringendosi tutto alla alleanza della pace interiore, afferma di non conservare la concordia coi malvagi dicendo: Non odio forse, Dio, quelli che ti odiano, e non mi struggo sopra i tuoi nemici? Li odio di un odio perfetto, sono divenuti miei nemici (Sal. 138, 21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio perfetto significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno; perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna dunque considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi, se ci si acquieta nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un profeta così grande offre come un sacrificio a Dio il fatto di avere eccitato contro di sé, per Dio, l’inimicizia degli empi. Perciò si dice che la tribù di Levi, impugnate le spade, percorrendo tutto l’accampamento, poiché non volle risparmiare i peccatori che meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf. Es. 32, 27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di uomini peccatori, colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira placò l’ira del Signore (cf. Num. 25, 9). Perciò la Verità stessa dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono

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54 venuto a portare la pace ma la spada (Mt. 10, 34). Infatti, quando incautamente stringiamo amicizia coi malvagi, ci leghiamo alle loro colpe. Perciò Giosafat che è esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita passata, quasi in punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re Achab; a lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai portato aiuto all’empio e ti sei unito, per l’amicizia, con coloro che odiano il Signore; perciò meriteresti l’ira del Signore, ma in te sono state trovate opere buone perché hai tolto i boschi sacri dalla terra di Giuda (2 Cr. 19, 2-3). Quanto più la nostra vita concorda per l’amicizia coi perversi tanto phi, solo per questo, essa si distingue ormai da colui che è sommamente giusto. Bisogna ammonire i pacifici di non temere di turbare la propria pace temporale, se ricorrono a parole di correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare interiormente con intatto amore la medesima pace che esteriormente si turba per la voce alzata nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato ambedue quando dice: Con coloro che odiano la pace ero pacifico, quando parlavo con loro mi facevano guerra senza motivo (Sal. 119, 7). Ecco, quando parlava gli facevano guerra; e tuttavia anche così era pacifico, perché né cessava di rimproverare coloro che infuriavano né tralasciava di amare coloro che rimproverava. Perciò anche Paolo dice: Se è possibile, per quanto sta in voi, abbiate pace con tutti gli uomini (Rom. 12, 18). Volendo esortare i discepoli ad avere pace con tutti, premise: Se è possibile, e aggiunse: per quanto sta in voi. Poiché era difficile che potessero essere in pace con tutti se avessero dovuto rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro rimprovero, la pace esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è necessario che essa si conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò dice giustamente: per quanto sta in voi, come se dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se essa viene cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata tuttavia integra nel cuore di voi che rimproverate. Perciò lo stesso, di nuovo, ammonisce i discepoli dicendo: Se qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo con questa lettera, notatelo, e non mescolatevi con lui, affinché resti confuso (2 Tess. 3, 14). E subito aggiunge: E non consideratelo come nemico ma correggetelo come un fratello (2 Tess. 3, 15); come se dicesse: Sciogliete la pace esterna con lui, ma quella interiore riguardo a lui custoditela nel fondo del cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il cuore del peccatore in modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la pace che non avrete rinnegato. 23 — Come si devono ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace Diverso è il modo di ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace. I primi bisogna ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci, poiché è dell’angelo apostata che sta scritto, quando fu seminata la zizzania tra il buon seme: Un nemico ha fatto questo (Mt. 13, 28). E di un suo membro è anche detto, per mezzo di Salomone: L’apostata, uomo inutile, avanza con volto maligno, fa cenno con gli occhi, stropiccia col piede, parla col dito, con cuore malvagio concepisce il male, e in ogni tempo semina discordie (Prov. 6, 12). Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare seminatore di discordie, perché, se per la perversione del cuore non fosse caduto prima, interiormente, dal cospetto del Creatore — allo stesso modo dell’angelo insuperbito — non sarebbe poi uscito a seminare discordie all’esterno, lui che bene viene descritto come chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col piede. Poiché è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato comportamento esterno delle membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio dell’animo si abbandona, al di fuori, a movimenti scomposti, e con la mobilità esteriore indica come nessuna radice lo tenga saldo interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che è scritto: Beati gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt. 5, 9), e traggano da ciò, inversamente, la conclusione che, se saranno chiamati figli di Dio coloro che operano la pace, sono senza dubbio figli di Satana coloro che la turbano. Ma tutti coloro che, a causa della discordia, si separano dalla pianta verde dell’amore, inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di buone opere nelle loro azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non nascono dall’unità della carità. Perciò considerino, i seminatori di discordie, in quanti molteplici modi peccano, loro che, nel commettere una sola azione malvagia, di fatto sradicano dai cuori umani tutte insieme le virtù. Ma poiché nulla

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55 è più prezioso per Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile dal diavolo che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando discordie uccide l’amore del prossimo, serve come familiare al nemico di Dio perché, sottraendo ai cuori feriti la virtù, per la cui perdita egli cadde, taglia ad essi la via dell’ascesi spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli operatori di pace a non trarre con leggerezza il peso di un’azione così importante, quando non conoscano le persone tra cui debbono stabilire la pace. Infatti, come è molto dannoso che non ci sia pace tra i buoni, cos’ è dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la malizia dei malvagi li unisce nella pace, certo la loro forza si accresce di cattive azioni, perché quanto più concordano nel male tanto più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni. Perciò infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato, cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato Giobbe: Le membra della sua carne congiunte fra loro (Giob. 41, 14). Perciò dei suoi satelliti si dice, sotto l’immagine delle squame: Una si congiunge all’altra e neppure un soffio passa fra di esse (Giob. 41, 7). Poiché i seguaci di quello, quanto meno sono divisi tra di loro dall’ostilità, frutto della discordia, tanto più gravemente si uniscono per la strage dei buoni. Dunque, colui che unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze all’iniquità, poiché perseguitando i buoni unanimemente, li affliggono ancor peggio. Perciò l’egregio predicatore, prigioniero per la grave persecuzione di Farisei e Sadducei, vedendoli pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di loro, quando gridò dicendo: Fratelli, io sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla speranza nella risurrezione dei morti (Atti, 23, 6). E poiché i Sadducei negavano la risurrezione dei morti e la speranza in essa, mentre i Farisei ci credevano, secondo i precetti della parola divina, si creò una divisione nell’unanimità dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da quella turba che prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna ammonire coloro che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere innanzitutto nei cuori dei malvagi l’amore della pace interiore, perché poi la pace esteriore possa giovare a loro, così che il riceverla, mentre il loro cuore è intento alla esperienza della pace intima, valga a non trascinarli al male; e mentre guardano avanti, verso la pace celeste non si servano in alcun modo di quella terrena per divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che non sono capaci di nuocere ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra costoro occorre stabilire la pace terrena anche prima che essi siano in grado di conoscere quella celeste, affinché coloro che la malizia della propria empietà esaspera contro l’amore di Dio, divengano mansueti almeno per l’amore del prossimo; e passino, come partendo da ciò che è vicino, a qualcosa di migliore, cioè ascendano a quella pace del Creatore che è loro lontana. 24 — Come si devono ammonire gli ignoranti nella dottrina sacra e i dotti che però non sono umili Diverso è il modo di ammonire coloro che non intendono rettamente le parole della legge sacra e coloro che certo le intendono rettamente ma non ne parlano umilmente. I primi vanno ammoniti a considerare che essi mutano, per sé, un sanissimo bicchiere di vino in un bicchiere di veleno, e con un ferro da chirurgo, si feriscono con una ferita mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è sano, mentre avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a considerare come la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta nella notte della vita presente (cf. Sal. 118, 105), ma se essi non intendono rettamente le sue parole è come se quelle si oscurassero perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un errore intenzionale a trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li avesse gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli altri, rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore comprensione, e per estorcere, all’autorità dell’opinione del volgo, il nome di scienza per il proprio insegnamento, si danno un gran daffare a demolire le rette interpretazioni di altri e a rafforzare i propri errori. Perciò giustamente si dice per mezzo del profeta: Sventrarono le donne incinte in Galaad per allargare i loro territori (Am. 1, 13). Infatti con Galaad si intende il «cumulo della testimonianza», e poiché tutta insieme, la congregazione della Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri], serve alla testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si intenda la Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che è vero riguardo a Dio. Per donne incinte si intendono le anime

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56 che in virtù dell’amore divino, concepiscono la comprensione della Parola e giungono al compimento del tempo sono pronte a partorire, con la manifestazione delle opere, quella comprensione che avevano concepita. E dilatare il proprio territorio significa estendere la fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte in Galaad per allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli eretici uccidono, con una predicazione perversa, i cuori dei fedeli che già avevano concepito una qualche comprensione della verità, e diffondono la fama di una loro scienza. Con la spada dell’errore squarciano i cuori dei piccoli, già gravidi della concezione della Parola, e creano, per il proprio errore, la opinione di dottrina. Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché non errino col pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una gloria vana. Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di conseguenza i rami della dottrina depravata inaridiscono. Bisogna ammonirli anche che, col generare errori e discordie, non mutino in sacrificio a Satana proprio quella legge di Dio data precisamente per impedire sacrifici a Satana. Perciò attraverso il profeta il Signore si lamenta dicendo: Ho dato loro frumento, vino e olio, e per loro ho moltiplicato argento e oro che hanno usato per Baal (Os. 2, 8). Dunque, riceviamo frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la copertura della lettera, attraverso il midollo dello spirito, cogliamo l’intimo della legge. Il Signore poi ci offre il suo vino quando ci inebria con l’alta predicazione della sua Scrittura. E ci dà pure il suo olio quando, con precetti più aperti, dispone con dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento, quando ci amministra parole piene della luce della verità. E ci arricchisce pure d’oro quando irraggia il nostro cuore con la percezione del sommo fulgore. Tutte queste cose gli eretici le offrono a Baal, poiché, con la comprensione corrotta, pervertono ogni cosa nei cuori dei loro ascoltatori. E col frumento di Dio, col vino e l’olio e ugualmente l’argento e l’oro, immolano un sacrificio a Satana, poiché piegano parole di pace all’errore che genera discordia. Perciò bisogna ammonirli a considerare che quando, con animo perverso, creano discordia, per giusto giudizio di Dio, sono loro stessi a morire uccisi da parole di vita. Al contrario, bisogna ammonire coloro che intendono, certo rettamente, le parole della legge, ma non ne parlano umilmente, ad esaminare se stessi alla luce dei discorsi sacri, prima di proporli agli altri, perché non accada che nel perseguire le azioni altrui, trascurino se stessi; e mentre intendono rettamente ogni cosa della Sacra Scrittura non tralascino di fare attenzione solamente a ciò che in essa si dice contro coloro che si esaltano. Poiché è disonesto e ignorante, il medico che desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui egli stesso soffre. Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di Dio, bisogna certamente ammonirli — quando si applicano a medicare i malati — a esaminare anzitutto il veleno della peste che portano addosso, affinché mentre curano gli altri non muoiano loro. Bisogna ammonirli a considerare che lo spirito con cui parlano non contrasti con la santità della Parola, e non accada che nella loro predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino dunque ciò che è scritto: Se uno parla, siano come discorsi di Dio (1 Pt. 4,11). Pertanto perché coloro che pronunciano parole che non sono loro proprie, se ne vantano come se fossero loro? Ascoltino ciò che sta scritto: Parliamo come da Dio, di fronte a Dio, in Cristo (2 Cor. 2, 17). Infatti parla da Dio, di fronte a Dio, colui che capisce di avere ricevuto da Dio la parola della predicazione e cerca, con essa, di piacere a Dio e non agli uomini. Ascoltino ciò che è scritto: È abominazione del Signore ogni arrogante (Prov. 16, 5). Poiché, evidentemente, mentre cerca la propria gloria nella parola di Dio, usurpa il diritto di colui che la dà, e non teme di posporre alla lode di sé colui dal quale ha ricevuto proprio ciò che viene lodato. Ascoltino ciò che viene detto al predicatore per mezzo di Salomone: Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che sgorga dal tuo pozzo; le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze. Abbile tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te (Prov. 5, 15-17). Dunque, il predicatore beve acqua dalla sua cisterna, quando rientrando nel suo cuore ascolta, lui per primo, ciò che dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se viene irrigato dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze (Prov. 5, 16); poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando faccia rifluire sugli altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di fuori significa infondere esteriormente agli altri la forza della predicazione. Dividere poi le acque nelle piazze corrisponde a dispensare il divino discorso ad un grande numero di ascoltatori a seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la parola di Dio si diffonde e giunge a

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57 conoscenza di molti, si insinua il desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi le acque sulle piazze, giustamente si soggiunge: abbila tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama cioè stranieri gli spiriti maligni dei quali, per mezzo del profeta si dice, con la voce di un uomo nella tentazione: Stranieri sono insorti contro di me e dei forti hanno cercato la mia vita (Sal. 53, 5). Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e tuttavia abbile tu solo; come se dicesse apertamente: È necessario che tu serva esteriormente la predicazione in modo da non unirti, attraverso l’esaltazione, agli spiriti iniqui e da non ammettere, nel ministero della parola divina, i tuoi nemici coane tuoi partecipi. Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e tuttavia la possediamo da soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la predicazione e tuttavia non aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini attraverso di essa. 25 — Come bisogna ammonire coloro che rifiutano l’ufficio della predicazione per eccessiva umiltà e coloro che se ne impadroniscono con fretta precipitosa Diverso è il modo di ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare degnamente, temono di farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che potrebbero predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna ammonirli, a dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel che essi trascurano affatto in cose di maggior conto. Se infatti essi nascondessero, a dei prossimi bisognosi, del denaro in loro possesso, ne faciliterebbero senz’altro la rovina. Vedano allora con quale colpa si legano, dal momento che, sottraendo a dei fratelli peccatori la parola della predicazione, nascondono medicine di vita ad anime che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza nascosta e tesoro non visto, quale utilità in ambedue? (Sir. 20, 32). Se la fame sfinisse la popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento, sarebbero senza dubbio autori di morte. Considerino dunque con che pena meritano di essere colpiti loro, che, mentre le anime muoiono di fame della Parola, non distribuiscono il pane della grazia ricevuta. Perciò bene è detto per mezzo di Salomone: Chi nasconde il grano sarà maledetto tra i popoli (Prov. 11, 26); poiché nascondere il grano significa trattenere presso di sé le parole della predicazione santa. Una tale persona viene maledetta tra i popoli perché per la ‘sola colpa del silenzio, viene condannata in proporzione a quella che sarà la pena di molti, che avrebbe potuto correggere. Se ci fosse chi conosce bene l’arte medica e vedesse una ferita da incidere e tuttavia ricusasse di farlo, peccherebbe certamente come responsabile della morte del fratello solo per pigrizia. Vedano dunque quanto sia grande la colpa in cui si avvolgono, coloro che mentre riconoscono le ferite dei cuori trascurano di curarle col taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per mezzo del profeta: Maledetto chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Ger. 48, 10), poiché tener lontano la spada dal sangue corrisponde a trattenere la parola della predicazione dall’uccidere la vita carnale. E di questa spada di nuovo è detto: E la mia spada mangerà le carni (Deut. 32, 42). Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola della predicazione, ascoltino con terrore le divine. sentenze pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di condanna (cf. Mt. 25, 24 ss.). Ascoltino come Paolo tanto più si considerò puro del sangue dei suoi prossimi, quanto più non li risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo davanti a voi, oggi, che sono puro del sangue di tutti: infatti non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni consigliò di Dio (Atti, 20, 26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce angelica, quando è detto: Chi ascolta dica: Vieni (Ap. 22, 17); certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore chiami altri e trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché non trovi le porte chiuse, nonostante sia stato invitato, se si avvicina a mani vuote a colui che lo chiama. Ascoltino Isaia, il quale, poiché aveva taciuto dal ministero della parola, illuminato dalla luce celeste, con grande voce di pentimento, rimprovera se stesso dicendo: Guai a me, perché ho taciuto (Is. 5, 5). Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè che sarà moltiplicata la scienza della predicazione in colui che avendola già ottenuta non si trattiene da essa per il vizio della indolenza. Dice infatti: L’anima che benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure

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58 inebriato (Prov. 11, 25). Infatti, chi benedice esteriormente predicando, accoglie la pinguedine della crescita interiore; e mentre non cessa di inebriare l’animo degli ascoltatori col vino della Parola, cresce a sua volta inebriato dalla bevanda del dono così moltiplicato. Ascoltino ciò che David offri in dono a Dio, poiché non nascose la grazia della predicazione che aveva ricevuto, dicendo: Ecco, non terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu lo sai: non ho nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la tua verità e la tua salvezza ho proclamato (Sal. 39, 10-11). Ascoltino ciò che si dice nel colloquio dello sposo con la sposa: Tu che abiti nei giardini, gli amici [ti] ascoltano; fammi udire la tua voce (Cant. 8, 13). È la Chiesa che abita nei giardini, e conserva le pianticelle ben coltivate delle virtù per un rigoglio interiore. E gli amici che ascoltano la sua voce sono gli eletti e coloro che desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo sposo desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua predicazione attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come Mosè, vedendo che Dio era adirato col popolo e ordinando di dare il via alla vendetta, con la spada, dichiarò che erano dalla parte di Dio coloro che senza esitazione avrebbero colpito il delitto dei peccatori, dicendo: Se uno è del Signore, si unisca a me; ponga ogni uomo la spada sulla sua coscia: andate e tornate da porta a porta attraversando l’accampamento nel mezzo e ciascuno uccida il fratello e l’amico e il suo prossimo (Es. 32, 27). Porre la spada sulla coscia è anteporre l’amore della predicazione ai piaceri della carne, poiché, quando uno desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia cura di sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta all’altra è passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché da essi entra la morte per l’anima. Attraversare il campo nel mezzo significa vivere nella Chiesa con tanto disinteresse che colui il quale rimprovera le colpe dei peccatori non si deve piegare a favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo forte uccida il fratello, l’amico e il suo prossimo. Cioè, uccide il fratello, l’amico, il prossimo, colui che quando scopre qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada del rimprovero neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è detto appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore divino a colpire i vizi, negano certamente di essere di Dio coloro che rifiutano di rimproverare, in quanto possono, la vita di uomini carnali. Al contrario, coloro ai quali, o una imperfezione naturale o l’età proibisce l’ufficio della predicazione e tuttavia vi sono spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non tagliarsi la via di un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro irruenza, il peso di un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che avrebbero potuto compiere, prima o poi ma al tempo giusto, coll’impadronirsi, fuori tempo, di ciò di cui non sono capaci; e quindi di non mostrare di avere giustamente perduto questa scienza della predicazione, perché si sono sforzati a ostentarla impropriamente. Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli degli uccelli vogliono volare prima di avere tutte le penne, dal luogo che abbandonano, nella brama di salire in alto, precipitano nel profondo. Bisogna ammonirli a considerare che, se si pone il peso di una travatura sopra strutture recenti e non ancora consolidate, non si fabbrica una abitazione ma un crollo. Bisogna ammonirli a considerare che se le donne partorissero i figli concepiti prima che fossero pienamente formati, non riempirebbero le case, ma le tombe. È perciò, infatti, che la Verità stessa, che pure avrebbe potuto dare subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un esempio a quelli che sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la presunzione di predicare quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere pienamente istruito i discepoli sulla virtù della predicazione, aggiunse immediatamente: Voi però rimanete nella città finché siate rivestiti della virtù dall’alto (Lc. 24, 49). Dunque noi restiamo in città se ci chiudiamo nel chiostro del nostro animo per non andare vagando coi discorsi all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi per istruire anche gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente della virtù divina. Perciò è detto per mezzo di un sapiente: Giovane, parla solo se ti è proprio necessario, e se sei interrogato due volte, allora incomincia a parlare (Sir. 32, 10). È perciò che il medesimo nostro Redentore, pur essendo creatore e sempre, nella manifestazione della sua potenza, dottore degli angeli, nei cieli; in terra, non volle essere maestro degli uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per infondere nei precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli stesso che non avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una vita perfetta se non dopo avere compiuto l’età; poiché sta scritto: Quando ebbe dodici anni, il bambino Gesù rimase a Gerusalemme (Lc. 2, 42), e poco dopo si aggiunge di lui, il quale era stato ricercato dai genitori: Lo

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59 trovarono nel Tempio che sedeva in mezzo ai dottori, li ascoltava e interrogava (Lc. 2, 46). Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla di Gesù dodicenne che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene trovato a interrogare, non a insegnare. Con questi esempi, evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno, che non ne abbia la forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue domande, volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità aveva dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma quando per mezzo di Paolo si dice al discepolo: Ordina queste cose e insegna; nessuno disprezzi la tua adolescenza (1 Tim. 4, 11-12), dobbiamo intendere che, nel discorso sacro, talvolta la giovinezza è chiamata adolescenza. E ciò si dimostra subito citando ad esempio le parole di Salomone: Gioisci giovane, nella tua adolescenza (Qo. 11, 9). Infatti se non avesse inteso l’una e l’altra come una cosa sola, non avrebbe chiamato giovane colui che ammoniva nella sua adolescenza. 26 — Come bisogna ammonire coloro a cui tutto, e coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà Diverso è il modo di ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in tutto quanto desiderano, e coloro che, pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa. Infatti, i primi bisogna ammonirli a non trascurare di cercare colui che dà, dal momento che hanno tutto quanto basta al loro desiderio; e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono loro date, così da amare il cammino verso la patria, invece che la patria stessa; a non mutare gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al raggiungimento della meta e, dilettati dalla luce notturna della luna, a non rifuggire dalla vista luminosa del sole. Così, bisogna ammonirli a non credere che tutti quanti i beni che conseguono in questo mondo siano il premio di quel che hanno meritato, e non, invece, sollievo dalla sventura; levino la mente contro i favori del mondo, per non soccombere in essi col cuore tutto preso dal loro diletto. Infatti, chiunque nella considerazione del suo cuore non reprime la prosperità di cui gode con l’amore di una migliore vita, rende i vantaggi di una vita che passa occasione di una morte perpetua. È perciò infatti che coloro i quali si rallegrano dei successi di questo mondo vengono rimproverati, in persona degli Idumei che si lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è detto: Si presero la mia terra in eredità con gioia, con tutto il cuore, con tutta l’anima (Ez. 36, 5). E da queste parole si può considerare che non è solamente perché godono, ma è perché godono con tutto il cuore e con tutta l’anima che vengono colpiti con un severo rimprovero. Perciò dice Salomone: Il rifiuto dei piccoli li ucciderà e la prosperità degli stolti li perderà (Prov. 1, 32). Perciò Paolo ammonisce dicendo: Chi compra come se non possedesse, chi usa di questo mondo come se non ne usasse (1 Cor. 7, 30). Ciò, per dire che quanto abbiamo in abbondanza deve servirci esteriormente così da non distoglierci l’animo dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono un aiuto, finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto dell’intimo stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice, di beni passeggeri, noi che ora ci vediamo infelici, lontano da quelli eterni. È perciò infatti che la Chiesa dice, con la voce degli eletti: La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia (Cant. 2, 6). Dio ha posto la sua sinistra, cioè la prosperità della vita presente, sotto il capo, e la preme la tensione verso l’amore sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia poiché la Chiesa nella offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna beatitudine. Perciò ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza di giorni nella sua destra, e nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Prov. 3, 16). E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria che egli pone nella mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua destra mi fa salvo (Sal. 107, 7). Infatti non dice mano, ma destra, evidentemente per indicare, dicendo destra, che era la salvezza eterna che egli cercava. Perciò ancora è scritto: La tua destra Signore ha infranto i nemici (Es. 15, 6. LXX); infatti i nemici di Dio, quantunque nella sua sinistra si avvantaggino, dalla destra sono infranti, poiché per lo pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento della felicità eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della prosperità in questo mondo, a considerare accortamente che la prosperità di questa vita talvolta è data proprio per incitare ad una vita migliore e altra volta invece per una più piena dannazione eterna. È perciò

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60 infatti che viene promessa al popolo israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia incitato alle speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe creduto alle promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse ricevuto, da colui che le aveva fatte, qualcosa anche al presente. Dunque, per dare una più solida certezza alla [sua] fede nei beni eterni, non è solo con la speranza che lo si attira a quei beni, ma è pure coi beni temporali che lo si conduce a sperare. E ciò è chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede ad essi i territori delle genti e possedettero il frutto delle fatiche di quei popoli, perché custodissero i suoi decreti e ricercassero la sua legge (Sal. 104, 44). Ma quando l’anima dell’uomo non corrisponde con le buone opere a Dio, che è largo verso di essa, proprio a causa di quei beni che si crede le siano alimento alla pietà, essa viene più giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice ancora per mezzo del salmista: Li hai abbattuti mentre si consolavano (Sal. 72, 18). Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio con opere di giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in questa vita e si lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere, ciò per cui esteriormente hanno successo è la causa della loro caduta spirituale. Ed è perciò che al ricco tormentato nell’inferno si dice: Hai ricevuto beni nella tua vita (Lc. 16, 25). Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio per questo, cioè per ricevere più pienamente il male nell’altra; poiché qui non si è convertito neppure per mezzo di quei beni. Al contrario, coloro che pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, bisogna ammonirli ad apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia il Creatore, che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si lascino andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di guarigione, il medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma chi si crede possa guarire, si proibiscono molte cose di cui egli sente voglia. Inoltre, non diamo soldi in mano ai bambini, ai quali pure riserviamo tutto intero il patrimonio in quanto ne sono eredi. Perciò dunque, gioiscano della speranza della eredità eterna, coloro che sono umiliati dall’avversità della vita temporale, perché, se la dispensazione divina non li riguardasse come fatti per la salvezza eterna, non li frenerebbe sotto il governo della disciplina. Pertanto bisogna ammonire coloro che, accesi dal desiderio di beni temporali, durano la fatica di una pesante fortuna avversa, a considerare con premura che spesso anche i giusti, quando la potenza mondana li esalta, sono afferrati come in un laccio dalla colpa. Così, come abbiamo già detto nella prima parte di quest’opera (I, par. 3), David amato da Dio fu più giusto nel periodo del suo servizio che quando giunse al regno. Infatti, da servo, per amore della giustizia, ebbe timore di colpire l’avversario che aveva nelle mani (cf. 1 Sam. 24, 18); da re, invece, indotto dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata frode (cf. 2 Sam. 11, 7). Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze, potere e gloria se queste cose furono dannose perfino a colui che le ebbe senza averle cercate? Chi, in mezzo ad esse, potrà salvarsi senza correre la fatica di un grande pericolo, se colui che era stato preparato ad esse dalla scelta di Dio rimase turbato dalla colpa che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli a considerare come non si ricorda che Salomone — il quale viene descritto come chi cadde nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4 ss.) — avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di cadere, ma dopo che gli fu concessa la sapienza, lasciò andare completamente il suo cuore, che nessuna tribolazione, neppure la più piccola, aveva custodito con la sua disciplina. 27 — Come si devono ammonire i coniugati e i celibi Diverso è il modo di ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i primi, quando pensano vicendevolmente l’uno all’altro, a studiarsi di piacere al coniuge in modo da non dispiacere al Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non tralasciare di aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni presenti così da temere tuttavia, con viva attenzione, i mali eterni; e piangano i mali presenti in modo dà fissare però, con intatta consolazione, la loro speranza nei beni eterni, dal momento che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui aspirano resta; né i mali del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza dei beni eterni lo conforta; né i beni della vita presente lo ingannino, poiché lo rattrista il timore dei

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61 mali del giudizio futuro. E così, l’animo degli sposi cristiani è insieme debole e fedele, tale che non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni temporali, e tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e quantunque per ora giaccia nel piacere della carne, si rinvigorisce con l’alimento della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa delle cose del mondo, spera in quelle di Dio come frutto della meta raggiunta; e non si consegni interamente a ciò che fa per non cadere del tutto da ciò che avrebbe dovuto sperare con forza. Paolo esprime bene e brevemente ciò, dicendo: Chi ha moglie sia come se non l’avesse; e chi piange come se non piangesse; e chi gode come se non godesse (1 Cor. 7, 29-30). Poiché ha moglie come se non l’avesse, colui che con lei usa della consolazione della carne, in modo che mai, tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla rettitudine della migliore intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se non l’avesse, colui che, vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera per necessità la cura della carne, ma lo spirito attende con tutto il desiderio le gioie eterne. Piangere non piangendo è piangere le avversità esteriori sapendo tuttavia godere della consolazione della speranza eterna. E, ancora, godere non godendo è innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi mai di temere le realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo aggiunge pure: Passa, infatti, la figura di questo mondo (1 Cor. 7, 31). Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente il mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere; vanamente fissate il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre fugge colui stesso che amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare a vicenda, con pazienza, ciò in cui talvolta l’uno dispiace all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda. Infatti è scritto: Portate a vicenda i vostri pesi e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). E la legge di Cristo è la carità; poiché per essa egli ci ha donato largamente i suoi beni e con mitezza ha portato i nostri mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi imitatori quando offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo con spirito di pietà i mali del nostro prossimo. Bisogna ammonirli pure a badare, ciascuno di essi, non tanto a ciò che l’uno deve sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro deve sopportare di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa portare, porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere. Bisogna ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo scopo di avere figli, e quando, servendo ad una unione sfrenata, mutano il momento della propagazione in pratica del piacere, considerino che, anche se ciò non avviene al di fuori dell’unione matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi oltrepassano i diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti orazioni, cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia la bellezza dell’atto coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo, esperto di medicina celeste, non ammaestrò tanto i sani, quanto mostrò i rimedi ai malati dicendo: Quanto a ciò che mi avete scritto: È bene per l’uomo non toccare donna; ma per rimedio alla fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna abbia il proprio marito (1 Cor. 7, 1-2). Ma se mise avanti il timore della fornicazione, certo non stabili il precetto per quelli che stanno saldi in piedi, bensì mostrò un letto a coloro che cadono perché non rovinassero in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il marito dia alla moglie ciò che le deve e così la moglie al marito (1 Cor. 7, 3); ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma questo lo dico per indulgenza, non per comando (1 Cor. 7, 6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più presto è condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di illecito in sé, ma piuttosto non si contiene, in un ambito di moderazione, ciò che di per sé è lecito. Ed è ciò che Lot esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in fiamme e tuttavia, trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. 19, 30). Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti della carne, e l’altezza dei monti è la purezza delle persone continenti. Ora, sono certamente come chi sta sul monte perfino coloro che, pur aderendo all’unione carnale, tuttavia non si abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori di quell’atto compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul monte significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci sono molti che rinunciano ai peccati della carne e tuttavia, posti nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i diritti del suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse subito sui monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita degna di condanna, l’altezza della continenza coniugale non è però ancora raggiunta in tutta la sua perfezione. Ma c’è nel mezzo la città di Segor, per salvare il debole

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62 che fugge, poiché naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa dell’incontinenza, fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per condiscendenza. È come se trovassero una piccola città che li difende dal fuoco, poiché una tale vita coniugale non è certo mirabile per la virtù e tuttavia è sicura dal castigo. Perciò il medesimo Lot dice all’angelo: C’è qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi salverò in essa. Non è forse modesta, e la mia anima vivrà in essa? (Gen. 19, 20). Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura per la salvezza, poiché la vita coniugale non è separata di molto dal mondo e tuttavia non è estranea alla gioia della salvezza. I coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro vita come in una piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo dell’angelo: Ecco, ho ascoltato le tue preghiere anche in questo: non distruggerò la città in favore della quale hai parlato (Gen. 19, 21); poiché è chiaro che non è condannata quella vita matrimoniale in cui i coniugi si rivolgono a Dio con la supplica, riguardo alla quale anche Paolo ammonisce dicendo: Non privatevi l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo stabilito, per essere liberi per la preghiera (1 Cor. 7, 5). Al contrario, coloro che non sono legati nel matrimonio bisogna ammonirli a servire tanto pin rettamente i comandamenti divini quanto meno li inclina alle cure del mondo il giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso lecito del matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della preoccupazione terrena, ma l’ultimo giorno li trovi tanto più pronti quanto più leggeri; e poiché, liberi come sono, possono compiere opere tanto più meritorie, non le trascurino così da meritare, per questo, supplizi tanto più gravi. Ascoltino l’Apostolo, il quale, volendo formare alcuni alla grazia del celibato, non disprezzò il matrimonio, ma respinse le cure mondane che nascono da esso dicendo: Ciò lo dico per vostra utilità, non per gettarvi un laccio; ma per indicarvi ciò che è onesto e offre la possibilità di servire Dio senza impedimento (1 Cor. 7, 35). Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni terrene, e perciò il maestro delle genti volle persuadere i suoi ascoltatori a cose migliori perché non si legassero alla preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è sottoposto al matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi. Bisogna ammonire i celibi a non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti, quando Paolo inserì il vizio della fornicazione fra tanti peccati esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né i fornicatori né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né gli omosessuali né i ladri né gli avari né gli ubriachi né i maldicenti né i rapaci possiederanno il regno di Dio (1 Cor. 6, 9-10). E ancora: I fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio (Ebr. 13, 4). Pertanto se sopportano le. tempeste delle tentazioni con pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a cercare il porto del matrimonio, infatti è scritto: È meglio sposarsi che ardere (1 Cor. 7, 9). Non è colpa se si sposano, purché in precedenza non si siano impegnati con voti a uno stato di vita più perfetto. Infatti, chi si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene minore che prima gli sarebbe stato lecito. Perciò è scritto: Nessuno che mette la mano all’aratro e si volta a guardare indietro è adatto al regno dei cieli (Lc. 9, 62). Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega sui minimi. 28 — Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei peccati della carne e quelli che non l’hanno Diverso è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e quelli che ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna ammonirli a temere il mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi con orrore dai pericoli della loro perdizione che già conoscono; ed essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere commesso il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così, all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (Ger. 3, 3). Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a riparare almeno quelli infranti. È assolutamente necessario, per loro, considerare quanti sono quelli che, in un così grande numero di fedeli, si custodiscono illibati e convertono gli altri dall’errore. Come pensano di

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63 difendersi costoro se, mentre altri restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure dopo avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se, mentre molti conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono neppure se stessi al Signore che li attende? Bisogna ammonirli a considerare i peccati passati e ad evitare i futuri. Perciò, il Signore, per mezzo del profeta, ricorda alle menti corrotte in questo mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse, affinché arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno fornicato in Egitto, hanno fornicato nella loro adolescenza; là fu compresso il loro petto e furono violati i loro seni verginali (Ez. 23, 3). In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà del cuore dell’uomo soggiace al turpe desiderio di questo mondo. In Egitto vengono violati i seni verginali, quando i sensi naturali ancora integri in se stessi, restano viziati dalla corruzione della concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno esperienza di peccati della carne a guardare con vigile cura, con, quanta benevolenza Dio ci allarghi il seno della sua pietà, quando dopo il peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per mezzo del profeta: Se un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene prenderà un altro marito, forse egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata quella donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia ritorna a me, dice il Signore (Ger. 3, 1). Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è proposta come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta ritorniamo, non viene offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo renderci conto di quanto sia grande la iniquità con cui pecchiamo se non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui ci risparmia con tanta pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta quando si dice all’uomo che si è ribellato: E i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue orecchie udranno la parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is. 30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano, quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo libero arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare. Ma l’uomo voltò le spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo disprezzò i suoi ordini. E tuttavia il Signore non l’abbandonò nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli ad esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne mortale. Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté essere detto al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è necessario sentirlo in particolare dei singoli. Infatti, quando uno conosce i precetti della volontà di Dio, prima di commettere il peccato è come se ascoltasse le parole del suo ammonimento standogli di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene dell’innocenza, l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già voltato le spalle al suo volto. E tuttavia ancora, standogli dietro le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole persuaderlo, anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci ammonisce se, almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci invita. Se non vogliamo temere la giustizia, dobbiamo arrossire della pietà di chi ci chiama perché è tanto più grave l’iniquità con cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli non disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a temere con tanta maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto stanno. Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in cui sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui l’insidiatore li assale. Egli con tanto maggior ardore suole rialzarsi, quanta più è la forza da cui si vede vinto; e tanto più si indigna d’essere vinto, in quanto vede combattergli contro gli integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli a non cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si attinge eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero. Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei sabati, che hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e alle figlie (Is. 56, 4-5). Sono eunuchi coloro che, trattenuti i moti della carne, tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale sia il posto che essi hanno presso il Padre, è manifesto,

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64 poiché nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono preferiti anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di Giovanni: Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap. 14, 4). E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non quei centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto all’Agnello è godere con lui in eterno, sopra tutti i fedeli, anche dell’incorruzione della carne. E che tuttavia gli altri eletti possano sentire il cantico, pur non potendo pronunciarlo, è perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di quelli, quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa integrità: Non tutti comprendono questa parola (Mt. 19, 11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e avvertendo che difficilmente è compresa, fa intendere a chi ascolta con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata. Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e tuttavia a non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché, scegliendo la verginità e posponendosi agli altri, non abbandonino ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle persone continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore in corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto per mezzo del profeta: Arrossisci, Sidone, dice il mare (Is. 23, 4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con quella di chi vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è come se Sidone fosse indotta alla vergogna dalla voce del mare. Giacché spesso molti che, dopo aver commesso peccati della carne, ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore nelle buone opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo, vedendo di avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente sufficiente, quanto a loro, l’innocenza della propria vita e non infiammano il loro spirito con alcuno stimolo che ne ecciti il fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a Dio una vita ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del Giudice: Le saranno rimessi i molti peccati perché ha molto amato (Lc. 7, 47); e: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc. 15, 7). E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se pensiamo a come giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi apprezziamo di più una terra che arata — dopo essere stata coperta di spine — produce ricchi frutti, di quella che non ha mai avuto spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe sterile. Bisogna ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli altri per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano quanto siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore, poiché, nell’esame del giusto Giudice, la qualità delle azioni muta i meriti dello stato di vita. Chi infatti — per trarre esempi dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme il carbonchio è più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui quello è inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla bellezza dell’aspetto, e questo, che per lo stato naturale è più prezioso, viene oscurato dalla qualità del colore. Così dunque fra gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono peggiori: altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi, vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa; mentre quelli diminuiscono il merito della condizione superiore, perché non le corrispondono con i costumi. 29 — Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di opere e coloro che piangono peccati solo di pensiero Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro che piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare con un pianto perfetto i peccati compiuti, per non essere maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa, ma diminuire col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci ha dato da bere lacrime in misura (Sal. 79, 6), per dire,

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65 cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo pentimento, beva tante lacrime di compunzione, quanto ricorda di essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna ammonirli a ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non debbano più essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando pregava dicendo: Distogli i tuoi occhi dai miei peccati (Sal. 50, 11), poco sopra aveva detto: Il mio delitto mi sta sempre davanti (Sal. 50, 5); come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché io stesso non cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del profeta, il Signore dice: E non mi ricorderò dei tuoi peccati, ma tu ricordateli (Is. 43, 25-26. LXX). Bisogna ammonirli a considerare i peccati uno per uno, e mentre per ciascuno piangono la sozzura del loro errore, con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati della Giudea: Il mio occhio ha fatto scendere acque divise (Lam. 3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli occhi corsi d’acqua divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua parte di lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico momento per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata più acutamente ora dall’uno ora dall’altro, commovendosi per ciascuno singolarmente, essa si purifica di tutti insieme. Bisogna ammonirli a confidare con certezza nella misericordia che chiedono, per non morire sotto la forza di una eccessiva afflizione. Poiché infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli occhi dei peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto sottrarre al suo giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi, prevenendoli con la sua misericordia. Perciò infatti è scritto: Preveniamo il volto del Signore con la confessione (Sal. 94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se ci giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1 Cor. 11, 31). E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella fiducia che viene dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una incauta sicurezza. Spesso, infatti, l’astuto avversario, quando vede l’animo, che egli insidia col peccato, afflitto per la propria rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera sicurezza. Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina. È scritto: Dina usci per vedere le donne di quella regione; ma quando la vide Sichem, figlio di Emor eveo, principe di quel paese, si innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità e la sua anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua tristezza (Gen. 34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione straniera, ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio amore e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori della sua condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem, principe del paese, la viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da occupazioni esterne, la corrompe; e la sua anima si uni con lei, poiché la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata in sé dalla colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato commesso, allora il corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e le sicurezze vane, per sottrarla alla utile tristezza; perciò giustamente si aggiunge: e alleviò con le carezze la sua tristezza. Ora, infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che quanto ha fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le promette che ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare penitenza, affinché l’anima condotta attraverso questi inganni tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché, ora, nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia, allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode perfino nei peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare accuratamente tra le pieghe misteriose dell’animo, se hanno peccato solamente col piacere o anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato e trae piacere dalla malizia della carne, e tuttavia contrasta con la ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del pensiero, ciò che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non resisterle affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il piacere lo spinge; e così che, se si offre la possibilità esteriore, è pronto a consumare gli intimi desideri, attuandoli coi fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce la giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga esteriormente il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto con l’opera del consenso. Nel progenitore abbiamo imparato che sono tre i modi con cui perfezioniamo la malizia di ogni colpa: la suggestione, il piacere, il consenso. La prima si compie attraverso il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo spirito. Infatti, l’insidiatore suggerisce il male,

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66 la carne si sottopone al piacere e, all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne, si sottomise al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il peccato dalla suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo col consenso. Pertanto, bisogna ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare con cura l’entità della loro caduta nel peccato, affinché la misura del loro pianto corrisponda alla rovina interiore che essi avvertono in se stessi e valga a risollevarli, e non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi pensieri che meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro, non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché spesso Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del cuore, in quanto non permette che essi sfocino nelle opere; e il male solamente pensato è più rapidamente sciolto, poiché non si lega così strettamente all’effetto dell’opera. Perciò è detto bene per mezzo del salmista: Dissi: confesserò contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso l’empietà (Sal. 31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto l’empietà del cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di pensiero. E mentre dice: Dissi: confesserò, e subito aggiunse: E tu hai rimesso, mostra quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette di chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era pervenuta all’atto, la penitenza non dovesse giungere al grado del supplizio, ma l’afflizione del pensiero lavasse il cuore che solo la malizia del pensiero aveva macchiato. 30 — Come bisogna ammonire coloro che non si astengono dai peccati che piangono, e coloro che si astengono da quelli commessi ma non li piangono Diverso è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono. Infatti, bisogna ammonire i primi a sapere considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro che si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime per poter ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è scritto: Il cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel fango (2 Pt. 2, 22). Il cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo che gli opprimeva lo stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si era alleggerito, si appesantisce di nuovo. E coloro che piangono i peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia con cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo, ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata. E la scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata, ritorna più sporca di prima. E chi piange i peccati, e tuttavia non rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore, poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché, mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ottenuta con esso], davanti agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle lacrime. Perciò ancora è scritto: Non dire due volte una parola nella preghiera (Sir. 7, 15); infatti, dire due volte una parola nella preghiera corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è necessario tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di Isaia: Lavatevi, siate puri (Is. 1, 16); infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il pianto, trascura di conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si lavano e tuttavia non sono puri, coloro che non cessano di piangere i peccati commessi, ma continuano a commettere azioni degne di pianto. Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che cosa serve che si sia lavato? (Sir. 34, 30). Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si purifica col pianto dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro, colui che dopo le lacrime ripete la colpa. Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, a riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli che si presentano di fronte a certi uomini e li blandiscono mostrando grande sottomissione, ma allontanandosi procurano loro inimicizie e danni con effetti atroci. Che cosa significa infatti piangere la colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della propria devozione? E che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il peccato, se non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato? Così attesta Giacomo che dice: Chi vuole essere amico di questo secolo, si costituisce nemico di Dio

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67 (Giac. 4, 4). Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, a considerare attentamente che per lo più tanto inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la giustizia, quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno. Avviene cioè che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore, corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia, perfino mentre continuano a compiere il male; e costoro — quando vengono tentati dal male cui per altro non consentono — quanto più la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà, puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla giustizia. Balaam, infatti, guardando agli attendamenti dei giusti dice: Muoia la mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a quelli di costoro (Num. 23, 10); ma quando si fu allontanato il tempo della compunzione, offrì il suo consiglio contro la vita di coloro ai quali aveva chiesto di divenire simile anche nella morte. E quando trovò un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito dimenticò tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf. Ap. 2, 14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle genti, Paolo, dice: Vedo un’altra legge, nelle mie membra, lottare contro la legge dello spirito e condurmi prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra (Rom. 7, 23). Egli certamente viene tentato, proprio per essere più fortemente consolidato nel bene dalla consapevolezza della propria infermità. Com’è dunque che quello è portato alla compunzione e tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come apertamente si manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi né il male non consumato non condanna i buoni? Al contrario, bisogna ammonire coloro che si staccano dal peccato e però non lo piangono, a non stimare perdonate quelle colpe che essi non purificano col pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire. Infatti, uno scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto in precedenza solo per il fatto di non aggiungervi altri scritti. Né è sufficiente che uno che proferisce ingiurie taccia, per dare soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole di umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia. Né un debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma lo è se scioglie quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo nei confronti di Dio, non diamo soddisfazione solamente se cessiamo di peccare, ma non facciano seguire anche le lacrime, di contro a quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in questa vita non ci fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla nostra sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla nostra anima; con quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che per le colpe che ha commesso è testimone a se stesso di non essere innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce delle nostre sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal diletto dei piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere caduti lasciandoci andare ad azioni illecite, ci rialziamo trattenendoci anche da quelle lecite; e il cuore che era stato invaso da una gioia insana, arda di una tristezza salutare: esso, che l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato dall’abiezione di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho detto agli iniqui: non agite iniquamente, e ai peccatori: non alzate la testa (Sal. 74, 5). E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza per la cognizione della propria iniquità. Perciò di nuovo è detto: Un cuore contrito e umiliato Dio non disprezza (Sal. 50, 19). Infatti, chi piange i peccati ma non se ne distacca, spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo; chi poi ha già lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi foste tutte queste cose, ma siete stati lavati, ma siete stati santificati (1 Cor. 6, 11); perché, cioè, una vita più corretta santifica coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende puri. Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate penitenza: ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 38). Volendo parlare del Battesimo, premette il pianto della penitenza, affinché, prima, versassero su di sé l’acqua della propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la penitenza al sacramento che principalmente estingue i peccati?

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69 31 — Come bisogna ammonire coloro che lodano le azioni illecite di cui sono consapevoli; e coloro che, pur condannandole, tuttavia non se ne guardano Diverso è il modo di ammonire coloro che addirittura lodano le azioni illecite che compiono; e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano. Bisogna ammonire i primi, infatti, a considerare che spesso peccano più con le parole che con le opere. Infatti, con le opere compiono il male solo per se stessi; ma con la bocca offrono il male a tante persone quante sono le menti di coloro che ascoltano e che essi istruiscono con la lode dell’iniquità. Bisogna ammonirli a temere almeno di seminare quei mali che essi trascurano di sradicare. Bisogna ammonirli ad accontentarsi della loro personale perdizione. E ancora — se non temono di essere malvagi —, bisogna ammonirli ad arrossire almeno di mostrarsi ciò che sono. Spesso, infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla, perché se l’animo arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere, avviene talvolta che arrossisca di essere ciò che evita di apparire. Ma quando il peccatore si fa notare con impudenza, quanto più liberamente compie qualsiasi mala azione, tanto più la considera anche lecita, e quanto più la giudica lecita senza dubbio affonda in essa maggiormente. Perciò è scritto: Hanno reso pubblico il loro peccato, come Sodoma, e non l’hanno nascosto (Is. 3, 9). Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato, avrebbe peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del timore, essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la colpa. Perciò di nuovo è scritto: Il grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato (Gen. 18, 20); poiché il peccato è detto voce quando è azione colpevole, ma è detto anche grido quando è commesso in libertà. Al contrario, bisogna ammonire coloro che accusano le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare prudentemente che cosa diranno a propria scusa di fronte al severo giudizio di Dio, essi che, secondo il loro stesso giudizio, sono inescusabili riguardo alle loro colpe. Così, che altro sono costoro, se non accusatori di se stessi? Parlano contro le colpe, e con le loro opere trascinano se stessi come rei. Bisogna ammonirli a vedere che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio che la loro mente è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non cerca di vincerlo. Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina perché riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre dell’agire depravato. Infatti, poiché trascurano la scienza ricevuta in aiuto, la voltano in testimonianza contro di sé; e con quella luce di intelligenza, che certo avevano ricevuto per poter cancellare i peccati, aumentano il castigo. La loro malizia, cioè, quando opera quel male che pur discerne e giudica, degusta già qui il giudizio futuro poiché, mentre si conserva colpevole per il castigo eterno, neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso esame; e tanto più gravi tormenti dovrà ricevere là, quanto più, qui, non abbandona il male anche quando essa stessa lo condanna. Perciò, infatti, la Verità dice: Il servo, che conosceva la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo la sua volontà, riceverà molte percosse (Lc. 12, 47). Perciò dice il salmista: Discendano vivi nell’inferno (Sal. 54, 16). Perché vivi sanno e sentono le cose che si compiono intorno a loro, i morti invece non possono sentire nulla. Così scenderebbero morti nell’inferno se commettessero il male senza conoscerlo, ma quando conoscono il male, e ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di iniquità, viventi, miseri e consapevoli. 32 — Come bisogna ammonire coloro che peccano per impulso e coloro che peccano deliberatamente Diverso è il modo di ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e coloro che restano prigionieri della colpa con deliberazione. Bisogna ammonire i primi a badare a se stessi, dovendo affrontare quotidianamente la guerra della vita presente, e a proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore che non è in grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande terrore dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un combattimento tanto oscuro si trincerino negli accampamenti del cuore, con una attenzione continua. Infatti, se il cuore è abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle ferite, poiché l’astuto nemico colpisce il

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70 petto tanto più liberamente, quanto più lo sorprende nudo della corazza della previdenza. Bisogna ammonire coloro che restano vinti da una improvvisa concupiscenza a distogliersi dalla eccessiva cura delle cose terrene, poiché mentre si coinvolgono smodatamente in realtà transitorie, ignorano da quali dardi di colpe restano trafitti. Perciò, la voce di chi è colpito mentre dorme viene anche espressa per mezzo di Salomone, il quale dice: Mi colpirono, ma non sentii dolore; mi trascinarono e non me ne accorsi. Quando veglierò e ritroverò ancora il vino? (Prov. 23, 35). La mente che dorme dimentica della sua sollecitudine viene colpita e non sente dolore, perché, come non vede i mali incombenti, così non riconosce neppure quelli che ha commesso; viene trascinata e non se ne accorge, perché è condotta attraverso le seduzioni dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi. Essa, in verità, desidera vegliare per ritrovare ancora il vino, perché quantunque sia oppressa dal terrore del sonno, via dalla custodia di se stessa, si sforza tuttavia di vegliare per le cure del secolo, per essere sempre ebbra dai piaceri; e mentre dorme, rispetto a ciò per cui avrebbe dovuto prudentemente vegliare, desidera di essere sveglia per altre cose per le quali avrebbe potuto lodevolmente dormire. Perciò più sopra, sta scritto: E sarai come chi dorme in mezzo al mare e come un pilota assopito che ha lasciato il timone (Prov. 23, 34). Infatti dorme in mezzo al mare, colui che, posto nelle tentazioni di questo mondo, trascura di prevedere i moti erompenti dei vizi, come cumuli di onde sovrastanti; ed è come un pilota che perde il timone, la mente che perde la tensione sollecita a governare la nave del corpo. Poiché è perdere il timone in mare il non mantenere una attenzione previdente, tra le tempeste di questo secolo. Infatti, se il pilota stringe con attenta cura il timone, ora dirige la nave contro i flutti ora taglia obliquamente l’impeto dei venti. Così, quando la mente governa l’anima con vigilanza, ora calpesta e vince alcune passioni ora, con previdenza, ne aggira altre, e così., con fatica sottomette quelle presenti, e con la previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri. Perciò ancora si dice, dei forti combattenti, della patria celeste: La spada di ognuno è sulla coscia per via dei timori notturni (Cant. 3, 8). Si pone la spada sulla coscia, quando con la punta della santa predicazione si doma la malvagia suggestione della carne. Con la notte, poi, si esprime la cecità della nostra debolezza, poiché di notte non si vede nulla di ciò che può sovrastare ostilmente. E la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori notturni, poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le tentazioni che non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione del combattimento. Perciò, ancora, si dice della sposa: Il tuo naso come torre che è nel Libano (Cant. 7, 4); infatti, ciò che non vediamo con gli occhi spesso lo prevediamo dall’odore. Col naso, poi, distinguiamo anche gli odori buoni dai cattivi. Dunque, che cosa si designa con naso della Chiesa, se non la previdente discrezione dei santi? E il naso è anche detto simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza discreta dei santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni prima che vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa. Infatti, le lotte future che vengono previste, quando si sono fatte presenti hanno minor forza, poiché quando uno si fa sempre più preparato contro i colpi, il nemico che si crede inatteso viene reso impotente proprio perché è stato previsto. Al contrario, bisogna ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere il male deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più severo, così che li colpisce una sentenza tanto più dura, quanto più strettamente li legano alla colpa i vincoli della deliberazione. Forse laverebbero più in fretta i loro peccati col pentimento, se vi fossero caduti solamente per precipitazione; infatti il peccato indurito dal consiglio è anche più duro da assolvere, e se la mente non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non perirebbe cadendo nella colpa deliberata. Dunque, coloro che cadono per la precipitazione e coloro che periscono per la deliberazione differiscono in ciò, che questi ultimi, quando peccando cadono dalla condizione di giustizia, per lo più cadono insieme anche nel laccio della disperazione. Perciò, per mezzo del profeta, il Signore rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto quelli dovuti a una passione coltivata, dicendo: Che non erompa come fuoco il mio sdegno e si accenda, e non ci sia chi lo spegne, per la malizia delle vostre passioni. Quindi, una seconda volta irato, dice: Vi visiterò secondo il frutto delle vostre passioni (Ger. 4, 4; 23, 2). Dunque, i peccati commessi con deliberazione differiscono dagli altri, perché il Signore non persegue tanto il fatto del peccato, quanto la premeditazione del peccato; giacché, nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per negligenza; ma nella premeditazione, si

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71 pecca sempre per intenzione maliziosa. Al contrario, bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo beato: Non siede nella cattedra di pestilenza (Sal. 1, 1). Cattedra suole essere il seggio del giudice o del presidente, e sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e tuttavia commetterlo con deliberazione. È come chi siede su una cattedra di consiglio perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto grande da tentare di compiere il male perfino attraverso il consiglio. E come coloro che, sostenuti dall’autorità della cattedra, sono superiori alle folle che li assistono, così i peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di coloro che rovinano per precipitazione. Pertanto bisogna ammonire chi si lega alla colpa anche con la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale sarà la vendetta con cui, prima o poi, dovranno essere colpiti, loro che ora si fanno non compagni ma principi dei peccatori. 33 — Come bisogna ammonire coloro che cadono in peccati minimi ma frequenti, e coloro che guardandosi dai minimi restano talvolta sommersi da quelli gravi Diverso è il modo di ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur minimi, e coloro che si custodiscono dai piccoli, ma talvolta affondano nei gravi. Bisogna ammonire coloro che cadono frequentemente in colpe sia pur piccole, a non considerare quali, ma quanti peccati, commettono. Infatti, se quando pesano le loro azioni disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano. Poiché sono profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le gocce di pioggia che li riempiono; e la sentina che cresce nascostamente produce lo stesso effetto di una tempesta che infuria palesemente. E sono piccolissime le ferite che si aprono nelle membra per la scabbia, ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole, si estende, uccide la vita del corpo come una grave ferita inflitta nel petto. Perciò è scritto: Chi disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno (Sir. 19, 1). Infatti, chi trascura di piangere e di evitare i peccati minimi cade dalla condizione di giustizia, non di colpo, ma, poco alla volta, tutto. Bisogna ammonire coloro che frequentemente cadono in cose minime, a considerare con cura che spesso si pecca più rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande. Poiché, la più grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più rapidamente viene emendata: mentre la minore, che è valutata nulla, ha effetti tanto peggiori, quanto più tranquillamente continua a essere praticata. Per cui avviene spesso che il cuore avvezzo a peccati leggeri non ha in orrore neppure quelli gravi e, nutrito dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e tanto disdegna di temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha imparato a peccare senza timore. Al contrario, bisogna ammonire coloro che si guardano dalle colpe piccole, ma talvolta sprofondano nelle gravi, ad aprire gli occhi su se stessi con sollecitudine, giacché, mentre il loro cuore si esalta perché si custodisce dalle piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso baratro della loro esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e, mentre al di fuori dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di vanagloria, finiscono con l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi, l’animo che, dentro, è stato vinto dalla malattia della superbia. Pertanto bisogna ammonire coloro che si custodiscono dai peccati piccoli ma talvolta sprofondano nei gravi, a non cadere, interiormente, là dove, esteriormente, stimano di stare in piedi; e, nella retribuzione del Giudice severo, l’esaltazione non divenga una via di minore giustizia, che trascini alla fossa della colpa più grave. Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente, attribuiscono alle proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente abbandonati, si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro stare in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino il cuore che beni minimi esaltano. Bisogna ammonirli a considerare che, con colpe più gravi si caricano di una grossa responsabilità, e tuttavia spesso nelle piccole buone azioni che custodiscono, peccano più rovinosamente perché, con le prime compiono cose inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la loro iniquità. Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i peccati maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono piccole buone azioni davanti agli uomini, è santità simulata. Perciò infatti si dice dei Farisei: Filtrano il moscerino e inghiottiscono il cammello (Mt. 23, 24); come se dicesse

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72 apertamente: lasciate da parte i peccati piccoli e divorate quelli grandi. È perciò che ancora si sentono rimproverare dalla bocca della Verità: Pagate la decima della menta, dell’aneto, e del cimino e trascurate ciò che è più importante nella legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà (Mt. 23, 23). E occorre ascoltare con attenzione, perché quando parla delle decime più piccole, ricorda intenzionalmente, fra le erbe, le ultime ma profumate; certo per mostrare che i simulatori, quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano di spandere l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino di compiere i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a giudizio umano, spandono profumo in lungo e in largo. 34 — Come bisogna ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene, e coloro che dopo averlo incominciato non lo portano a termine Diverso è il modo di ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene e coloro che, dopo averlo incominciato, non lo portano a termine. Quanto ai primi, non bisogna far loro presente, innanzitutto, ciò che devono sanamente amare, ma distruggere ciò a cui si applicano maliziosamente. Infatti, non vanno dietro a ciò di cui sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non comprendono quanto sia nocivo quello che hanno sperimentato; giacché non desidera di essere rialzato, colui che ignora perfino di essere caduto; e colui che non sente il dolore della ferita, non ricerca il rimedio per sanarla. Dunque, bisogna prima mostrare quanto sia vano ciò che amano, e poi con molta cautela bisogna insinuare quanto sia utile quello che tralasciano. Vedano, prima, che quel che amano è da fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno conto che è amabile ciò che fuggono. Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non hanno esperienza, se riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato su ciò che conoscono per esperienza. Allora, dunque, imparano con pieno desiderio a cercare le cose vere e buone, quando cioè abbiano compreso con giudizio sicuro di essere stati vanamente attaccati a cose false. Ascoltino quindi, che il piacere dei beni presenti è destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro causa permarrà per una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro, contro voglia, ciò che piace; e, allora, ciò che procura dolore, sarà loro riservato come supplizio, ancora contro voglia. E così abbiano un salutare terrore delle medesime cose da cui traggono un piacere che li danna, affinché l’animo, che resta colpito alla vista dei danni profondi della sua propria rovina e si accorge di essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi passi e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò che disprezzava. Perciò viene detto a Geremia, mandato a predicare: Ecco, oggi ti ho costituito sopra le genti e sopra i regni, perché tu sradichi e distrugga, disperda e dissipi, ed edifichi e pianti (Ger. 1, 10); perché, se prima non avesse distrutto ciò che era perverso, non avrebbe potuto edificare utilmente ciò che era retto; se non avesse sradicato dai cuori dei suoi ascoltatori le spine di un amore vano, è certo che, invano, avrebbe piantato in loro le parole della santa predicazione. Perciò Pietro, prima abbatte per poi costruire, quando non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che ormai avrebbero dovuto fare, ma li rimproverava di ciò che avevano fatto, dicendo: Gesù Nazareno, uomo approvato da Dio tra voi, per i miracoli, i prodigi, i segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso lui, come voi sapete: quest’uomo, consegnato per un disegno prestabilito dalla prescienza di Dio, lo avete ucciso inchiodandolo per mano di empi, ma Dio lo ha risuscitato, avendo sciolto le doglie dell’inferno (Atti, 2, 22-24). Disse così, evidentemente, affinché, abbattuti dalla consapevolezza della propria crudeltà, con quanta maggior tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero. E quindi, subito rispondono: Che cosa dobbiamo fare, allora, fratelli? E ad essi viene detto: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 37-38). Essi non avrebbero certamente fatto alcun conto di queste parole di edificazione, se prima non avessero trovato la salutare rovina della loro propria distruzione. Perciò Paolo, quando risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì ciò che avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male. Infatti, quando prostrato chiedeva: Chi sei, Signore? Gli fu subito risposto: Io sono Gesù Nazareno che tu perseguiti. E alla sua seconda immediata richiesta: Signore, che cosa ordini che faccia? Viene aggiunto subito: Alzati ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu

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73 faccia (Atti, 9, 24 ss.; 22, 8 ss.). Ecco, il Signore, parlando dal cielo, rimprovera le azioni del suo persecutore e tuttavia non mostra immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare. Ecco, ormai tutto l’edificio del suo orgoglio era crollato e, divenuto umile dopo la sua rovina, cercava di essere riedificato. Ma la superbia viene distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione vengono ancora trattenute, evidentemente perché il crudele persecutore giaccia a lungo abbattuto, e poi, tanto più solidamente risorga nel bene, quanto più, prima, era caduto, rovesciato fin dalle fondamenta, dal primitivo errore. Pertanto, coloro che non hanno ancora incominciato a compiere alcun bene devono, prima, essere rovesciati dalla loro rigida perversità, dalla mano della correzione; per essere, poi, rialzati alla condizione di chi agisce rettamente. Poiché è come quando tagliamo un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di un edificio: esso non viene impiegato immediatamente nella costruzione, perché prima si secchi il suo umore nocivo; e quanto più questo si asciuga nel suo interno, tanto più solidamente può essere sollevato in alto. Al contrario, bisogna ammonire coloro che non portano a termine il bene iniziato, a considerare con molta attenzione che, col non adempiere quanto si sono proposti, strappano via anche ciò a cui avevano dato inizio. Se, infatti, ciò che sembra di dover fare non cresce per una sollecita applicazione, diminuisce anche ciò che era stato ben compiuto. Poiché, in questo mondo, la vita umana è come una nave che sale contro la corrente di un fiume: non le è permesso di stare ferma in un luogo, perché scivola di nuovo verso il basso, se non si sforza di salire verso l’alto. Dunque, se la forte mano di chi opera non conduce a perfezione il bene intrapreso, la stessa interruzione dell’operare lotta contro quanto è già stato compiuto. Ed è ciò che è detto per mezzo di Salomone: Chi è molle e trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa il proprio lavoro (Prov. 18, 9). Poiché è chiaro che, chi non esegue rigorosamente quanto ha iniziato di buono, la trascuratezza della sua negligenza è come la mano di un distruttore. Perciò l’angelo dice alla Chiesa di Sardi: Sii vigilante e consolida le altre cose che stavano per morire, infatti non trovo complete le tue opere davanti al mio Dio (Ap. 3, 2). Dunque, poiché le sue opere non erano state trovate complete davanti a Dio, prediceva che sarebbero morte anche quelle altre che erano state compiute. Infatti, se ciò che in noi è morto non si riaccende a vita, si estingue anche ciò che, in un certo senso, si conserva ancora vivo. Bisogna ammonirli a considerare che avrebbe potuto essere più tollerabile non intraprendere la via del giusto, piuttosto che tornare indietro dopo averla intrapresa; infatti, se non si voltassero a guardare indietro, non languirebbero nel torpore, dopo l’attività iniziata. Ascoltino dunque ciò che è scritto: Sarebbe stato meglio non conoscere la via della giustizia che voltarsi indietro dopo averla conosciuta (2 Pt. 2, 21). Ascoltino ciò che è scritto: Magari fossi freddo o caldo; ma poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò a vomitarti dalla mia bocca (Ap. 3, 15-16). Caldo è chi intraprende attivamente il bene e lo porta a termine; freddo è chi non incomincia neppure ciò che dovrebbe terminare. E come dal freddo, attraverso la tiepidezza, si passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si ritorna al freddo. Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della incredulità ma non supera la tiepidezza e non aumenta il suo calore così da ardere; mentre permane nella nociva tiepidezza, senza più nessuna speranza di quel calore, non fa altro che tornare freddo. Ma, come prima di diventare tiepido l’essere freddo conservava la speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato freddo, è senza speranza. Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la fiducia nella conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido, si è sottratto anche quella speranza che poté avere da peccatore. Si richiede, dunque, che uno sia o caldo o freddo, per non essere vomitato essendo tiepido, affinché, se non è ancora convertito, lasci una speranza di conversione riguardo a sé o, se è già convertito, sia sempre più ardente nella pratica della virtù; e non sia vomitato come tiepido per essere ritornato a causa della sua inerzia, dal calore che si era proposto, al freddo dannoso. 35 — Come bisogna ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene apertamente; e quelli che agiscono viceversa Diverso è il modo di ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e coloro che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi pubblicamente male di loro per

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74 certe loro azioni pubbliche. Infatti, bisogna ammonire i primi a valutare la rapidità con cui i giudizi umani volano via, e come, invece, restano stabili quelli divini. Bisogna ammonirli a tenere gli occhi della mente fissi al termine delle cose, poiché l’attestazione delle lodi umane passa, e la sentenza divina, che penetra ciò che è nascosto, si rafforza fino alla retribuzione eterna. Pertanto, mentre pongono i loro peccati davanti al giudizio divino, e le loro azioni giuste davanti agli occhi degli uomini, il bene che compiono pubblicamente resta senza testimone, ma non senza testimone eterno rimane ciò che di male essi compiono di nascosto. Così, nascondendo agli uomini le proprie colpe, e manifestando le virtù, mentre nascondono ciò per cui avrebbero dovuto essere puniti; di fatto lo svelano; e svelando ciò per cui avrebbero potuto essere premiati, di fatto lo nascondono. Giustamente la Verità li chiama sepolcri imbiancati, belli all’esterno ma pieni di ossa di morti (cf. Mt. 23, 27), perché occultano all’interno i mali dei vizi, ma con la dimostrazione di certe azioni blandiscono la vista degli uomini, con la sola apparenza esteriore della giustizia. Pertanto, bisogna ammonirli a non disprezzare le azioni rette che compiono, ma ad attribuire ad esse un più grande merito; infatti, condannano gravemente ciò che fanno di buono, coloro che stimano un compenso sufficiente per esso il favore umano, giacché, quando per una azione retta si cerca una lode passeggera, si vende a poco prezzo una cosa degna di un compenso eterno. Ed è di un tale prezzo che la Verità dice: In verità vi dico, hanno ricevuto la loro mercede (Mt. 6, 2). Bisogna ammonirli a considerare che mentre si mostrano malvagi nelle azioni nascoste e tuttavia offrono di sé pubblicamente esempi di buone opere, indicano che bisogna seguire ciò che essi fuggono, gridano che è amabile ciò che essi odiano e, da ultimo, vivono agli occhi degli altri, ma a se stessi muoiono. Al contrario, bisogna ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia per qualche loro azione pubblica permettono che si pensi male di loro, a non uccidere in sé altri, con l’esempio di una cattiva stima, mentre vivificano sé stessi, con la potenza di un retto agire; a non amare il prossimo meno che sé stessi, e a non versare veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione del loro esempio, mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo caso, non giovano alla vita del prossimo; e nell’altro la gravano molto; applicandosi, cioè, [da un lato] ad agire rettamente di nascosto, e [dall’altro] a seminare, per certe loro azioni, una cattiva opinione di sé come esempio per gli altri. Infatti, chi è già in grado di mettersi sotto i piedi la brama della lode, opera a danno dell’edificazione se nasconde il bene che compie; e colui che non mostra l’azione che deve essere imitata è come se, dopo aver gettato il seme che deve germinare ne strappasse le radici. Perciò infatti, la Verità disse, nell’Evangelo: Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Mt. 5, 16). Dove pure è pronunciata quell’altra sentenza che sembra comandare tutto il contrario dicendo: Guardate di non compiere la vostra giustizia di fronte agli uomini per essere visti da loro (Mt. 6, 1). Che cosa significa allora che il nostro operare deve essere compiuto in modo da non essere visto, e tuttavia, secondo il precetto, deve essere visto, se non che tutto ciò che facciamo deve essere nascosto perché non siamo noi a riceverne lode, e deve essere manifestato perché accresciamo così la lode del Padre celeste? Infatti, quando il Signore ci proibiva di compiere la nostra giustizia davanti agli uomini, subito aggiunse: Per essere visti da loro. E quando comandava che le nostre opere buone dovevano essere viste dagli uomini, subito aggiunse: Affinché glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, alla fine delle sentenze mostrò in che senso non devono essere viste e in che senso devono esserlo, affinché il cuore di chi la compie non cerchi che la sua opera sia veduta, per causa sua, e tuttavia non la nasconda, a gloria del Padre celeste. Perciò accade che per lo più un’opera buona possa essere nascosta anche se avviene pubblicamente e, ancora, sia come pubblica pur compiendosi di nascosto. Infatti, chi, in un’azione compiuta in pubblico, non cerca la propria gloria ma quella del Padre celeste, nasconde ciò che ha fatto, poiché ha considerato come testimone solo colui a cui si è preoccupato di piacere. E colui che nel suo segreto brama di essere scoperto e lodato nella sua opera buona, anche se nessuno ha veduto ciò che egli ha compiuto, egli ha tuttavia fatto ciò davanti agli uomini, poiché ha condotto con sé, nella sua buona opera, tanti testimoni quante sono le lodi umane che ha ricercato nel suo cuore. E quando una cattiva stima, che ha valore anche se non nasconde un peccato, non viene cancellata dalla mente di chi la considera, per l’esempio che essa rappresenta è come una colpa offerta all’imitazione di tutti quelli che vi prestano fede. Perciò spesso accade che coloro i quali, con negligenza, permettono che

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75 si pensi male di loro, non compiono per se stessi alcuna iniquità e tuttavia, attraverso tutti coloro che li avranno imitati, peccano ripetutamente. Perciò, a coloro che mangiano cibi immondi senza contaminarsi, quanto a sé, ma scandalizzano i deboli con questo modo di cibarsi, inducendoli in tentazione, Paolo dice: Guardate che la vostra libertà non diventi inciampo per i deboli (1 Cor. 8, 9). E ancora: E per la tua coscienza perirà il fratello debole per il quale Cristo è morto. E così, peccando contro i fratelli e colpendo la loro debole coscienza, peccate contro Cristo (1 Cor. 8, 11-12). Perciò Mosè, dopo aver detto: Non dirai male di un sordo, aggiunse: Né porrai un inciampo davanti a un cieco (Lev. 19, 14). Dire male di un sordo equivale a criticare un assente che non può ascoltare; e porre un inciampo davanti a un cieco corrisponde ad agire con discernimento e tuttavia offrire occasione di scandalo a chi non ha la luce della discrezione. 36 — Dell’esortazione che bisogna prestare a molti, tale da aiutare le virtù dei singoli, così che per essa non aumentino i vizi contrari a quelle virtù Queste sono le avvertenze che il Pastore d’anime deve osservare nella diversità della predicazione, per contrapporre con sollecitudine medicine adatte alle ferite dei singoli. Ma se è di grande impegno il servire alle situazioni individuali, nell’esortazione dei singoli, se è molto faticoso istruire ciascuno, in quanto lo può direttamente riguardare, con la dovuta considerazione, tuttavia è di gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo e con il medesimo discorso, nei. confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti a passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte da adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme da non contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo tracciato, ma come una spada a due tagli, incidendo i tumori dei pensieri carnali da parti opposte, così che si predichi l’umiltà ai superbi in modo che però ai timidi non aumenti il timore; ai timidi si infonda sicurezza, in modo che però non cresca la sfrenatezza dei superbi. Si predichi agli oziosi e ai torpidi la sollecitudine del bene operare in modo che però non si accresca la licenza di una attività smodata negli inquieti. Si ponga una misura agli inquieti in modo che però il torpore degli oziosi non si senta sicuro. Si spenga l’ira degli impazienti in modo che però, ai remissivi e ai tranquilli non aumenti la negligenza. I tranquilli siano eccitati allo zelo, in modo che però non si aggiunga fuoco agli iracondi. Si infonda spirito di larghezza nel dare agli avari in modo che però non si allentino i freni della liberalità smodata ai prodighi; e si predichi ai prodighi la parsimonia in modo che però negli avari non aumenti la custodia dei beni destinati a perire. Si lodi il matrimonio agli incontinenti, in modo che però coloro che già sono continenti non siano richiamati alla lussuria. Ai continenti poi si lodi la verginità del corpo in modo che però i coniugi non siano indotti a disprezzare la fecondità della carne. Bisogna predicare i beni in modo che d’altro canto non ne traggano giovamento i mali. Bisogna lodare i beni più alti in modo che non restino disprezzati i minori; e bisogna alimentare i minori perché se si pensa che siano per sé sufficienti, non si sia trattenuti dall’aspirare ai sommi. 37 — Dell’esortazione che si deve a una persona soggetta a passioni contrarie È certo grave fatica per un predicatore essere attento, in un discorso rivolto a pin persone, ai moti nascosti dei singoli e alle loro cause e, come avviene negli esercizi in palestra, destreggiarsi nell’arte di volgersi in diverse direzioni; tuttavia egli si sottopone a una fatica molto maggiore quando è costretto a predicare a una sola persona soggetta a vizi opposti. Spesso infatti si dà il caso di qualcuno di carattere gaio che poi di colpo si deprime terribilmente per il sopraggiungere di una improvvisa tristezza. Il predicatore deve allora fare si che venga tolta la tristezza improvvisa ma in modo che non cresca la gaiezza prodotta dal temperamento; e sia frenata la gaiezza del temperamento in modo che però non aumenti la tristezza che viene all’improvviso. Uno è gravato da una abituale smodata precipitazione, però, ogni tanto, la forza di una improvvisa paura lo trattiene da qualcosa ché bisogna eseguire con fretta. Un altro è gravato da una abituale smisurata

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76 paura, però ogni tanto è spinto da una precipitazione temeraria in qualcosa che desidera. E allora, nel primo, bisogna reprimere la paura sorta improvvisamente in modo che però non aumenti la precipitazione coltivata a lungo; e nel secondo bisogna reprimere la precipitazione improvvisa, in modo che però non si rafforzi la paura dovuta al temperamento. Quale meraviglia che i medici delle anime abbiano tanta cura di queste cose, se coloro che non curano i cuori ma i corpi si regolano con una discrezione cos’ sapiente? Spesso infatti una terribile malattia opprime un debole corpo e ad essa si deve venire in aiuto con rimedi vigorosi, ma tuttavia il corpo debole non sostiene il rimedio forte; allora il medico deve studiare in che modo togliere la malattia sopravvenuta senza aumentare la sottostante debolezza del corpo, perché insieme con la malattia non venga meno la vita. Perciò mette insieme il rimedio con tanta discrezione da ovviare alla malattia e nello stesso tempo aiutare il malato. Dunque, se la medicina del corpo, applicata in modo unitario, può agire in sensi opposti (la medicina infatti è veramente tale quando con essa si rimedia alla malattia sopravvenuta e si viene in aiuto anche al temperamento che vi è sottoposto), perché la medicina dell’animo applicata da una sola e medesima predicazione non dovrebbe essere in grado di ovviare a malattie morali di diverso ordine, essa che è tanto più sottilmente praticata, in quanto si tratta di condizioni spirituali? 38 — Talvolta occorre lasciare sopravvivere vizi più leggeri per togliere i più gravi Ma poiché spesso irrompe una malattia dovuta al concorrere di due vizi, dei quali forse uno preme in modo più grave dell’altro, più leggero; è senza subbio più giusto venire in fretta in aiuto contro quel vizio per cui si corre rapidamente alla morte. E se per evitare una morte prossima, non si può contenere questo, senza che cresca il coesistente vizio contrario, occorre che il predicatore tolleri che attraverso la sua esortazione, questo ultimo, per un artificioso accomodamento, subisca una crescita, pur di poter trattenere l’altro dalla vicina morte. Ciò che egli opera non aumenta la malattia del suo ferito, cui egli applica il rimedio, ma gli conserva la vita finché trovi il momento adatto per ricercare la sua salvezza. Spesso avviene che qualcuno, per non sapersi affatto trattenere dall’ingordigia dei cibi, viene assalito dagli stimoli della lussuria che ormai sta per vincerlo ed egli, atterrito dal timore di soccombere in questa lotta, mentre si sforza di contenersi con l’astinenza, è travagliato dalla tentazione della vanagloria. In questa situazione non è possibile che si estingua un vizio senza che se ne alimenti un altro. Dunque, quale peste occorre combattere con più ardore se non quella che preme con maggiore pericolo? Allora bisogna tollerare che, provvisoriamente, in chi esercita la virtù dell’astinenza cresca un po’ di orgoglio purché egli viva, piuttosto che lo uccida del tutto la lussuria generata dall’ingordigia. Perciò Paolo, considerando il suo debole ascoltatore esposto all’alternativa, o di un agire ancora perverso o di compiacersi per il compenso della lode degli uomini, per il suo agire retto, dice: Vuoi non temere l’autorità? Fa’ il bene e riceverai lode da essa (Rom. 13, 3). Infatti, né il bene va fatto per non dovere temere chi ha il potere in questo mondo né per ricever con esso la gloria di una lode passeggera. Ma considerando che un cuore debole non può giungere a tanta fortezza da voler sfuggire insieme al male e alla lode, il gran dottore, nella sua ammonizione, mentre gli toglie una cosa gli concede l’altra; infatti, concedendogli ciò che è più leggero, gli tolse il più grave, in modo che non essendo in grado di abbandonare tutto in una sola volta, l’animo veniva lasciato alla consuetudine di un certo suo vizio per essere liberato senza fatica da un certo altro. 39 — Non bisogna assolutamente predicare cose troppo alte alle menti deboli Occorre che il predicatore non attiri l’animo del suo ascoltatore al di là delle sue forze, affinché la corda della mente non si spezzi mentre viene tesa, per cosa dire, oltre il suo potere. Infatti, quando sono molti ad ascoltare, i discorsi troppo elevati si devono contenere e riservare solo per pochi. Perciò la Verità in persona dice: Chi credi che sia il dispensatore fedele e prudente che il padrone ha stabilito sulla sua famiglia perché dia a ciascuno a suo tempo la misura di grano? (Lc. 12, 42).

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77 E la misura di grano esprime lo stile del discorso perché non accada che si dia a un cuore angusto qualcosa che esso non può contenere e questo si versi al di fuori. Perciò Paolo dice: Non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma come a carnali. Come a bambini in Cristo, vi ho dato da bere latte e non cibo solido (1 Cor. 3, 1). Perciò Mosè, uscendo dall’intimità con Dio, vela, davanti al popolo, il volto ancora raggiante (cf. Es. 34, 31); certo perché, alle turbe, esso non parla dei misteri della luce interiore. Perciò, attraverso di lui, viene prescritto dalla parola divina che se qualcuno ha scavato una cisterna e ha trascurato di ricoprirla, deve pagare il prezzo di un bue o di un asino che vi sia caduto dentro (cf. Es. 21, 33-34). Poiché, se i rozzi cuori dei suoi ascoltatori non possono contenere le acque correnti della profonda dottrina cui egli è pervenuto, è considerato reo meritevole di pena qualora, per le sue parole, una mente, sia pura sia impura, resta presa nello scandalo. Perciò viene detto al beato Giobbe: Chi ha dato l’intelligenza al gallo? (Giob. 38, 36). Infatti, il predicatore santo che grida in questo tempo oscuro è come il gallo che canta nella notte, quando dice: È ormai ora di sorgere dal sonno (Rom. 13, 11); e ancora: Vegliate, giusti, e non peccate (1 Cor. 15, 34). Ma il gallo è solito emettere un alto canto nelle ore più profonde della notte, e invece, quando l’ora del mattino è più vicina, produce suoni più tenui e leggeri, poiché chi predica opportunamente grida in modo chiaro ai cuori ancora ottenebrati e non fa alcun accenno ai misteri nascosti, affinché siano in grado di ascoltare discorsi più sottili sulle cose celesti quando si avvicinano alla luce della verità. 40 — La predicazione nelle opere e nelle parole Ma ritorniamo soprattutto con ardore di carità a quanto abbiamo già detto sopra, che cioè ogni predicatore si faccia sentire più con i fatti che con le parole, e imprima le sue orme per chi lo segue, attraverso una buona vita, piuttosto che mostrare con le parole la mèta verso cui essi devono camminare. Poiché anche questo gallo, che il Signore prende come esempio nelle sue parole, per indicare il tipo del buon predicatore, quando già si prepara a cantare, prima scuote le ali e percuotendosi da solo si fa più sveglio; chiaramente perché è necessario che coloro, i quali si accingono alla santa predicazione, siano prima vigilanti e dediti al bene operare, perché non pretendano di scuotere gli altri con le parole, mentre in se stessi dormono nell’inerzia: scuotano se stessi, prima, con azioni elevate, e solo allora rendano gli altri solleciti del ben vivere; prima colpiscano sé con le ali della meditazione e con attento esame colgano ciò che in loro giace nell’inutile torpore e lo correggano con severa riprensione; e solo allora regolino con le parole la vita degli altri. Prima abbiano cura di punire i propri peccati con pianto e poi denuncino ciò che è degno di punizione negli altri; e prima di fare risuonare parole di esortazione, gridino con le opere tutto ciò che hanno intenzione di dire.

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PARTE QUARTA

COME IL PREDICATORE, COMPIUTA OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,

DEVE RITORNARE IN SE STESSO, PERCHÉ LA VITA O LA PREDICAZIONE

NON LO ESALTI Ma poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi convenienti, l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la gioia nascosta di questa dimostrazione di sé, è necessaria una grande cura perché esso si lasci ferire dai morsi del timore e non accada che colui il quale, curando le loro ferite, richiama gli altri alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della salvezza sua propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada, mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della virtù fu occasione di perdizione per alcuni, perché per la confidenza nelle proprie forze acquistano una disordinata sicurezza, così che poi, per negligenza, in modo imprevisto muoiono. Infatti, quando la virtù resiste ai vizi, per un certo piacere di essa, l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi sicura nella confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore, l’astuto seduttore le enumera tutte le sue buone opere e la esalta nel pensiero orgoglioso di essere superiore agli altri. Quindi, agli occhi del giusto Giudice, il ricordo della virtù diviene una fossa per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto, mentre si innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà. Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto pia sei bella, scendi e dormi con gli incirconcisi (Ez. 32, 9); come se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la bellezza della virtù, dalla tua stessa bellezza sei spinta a cadere. Perciò, l’anima che insuperbisce per la virtù, viene riprovata — personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri perfetta nella mia bellezza, che io avevo posto su di te, dice il Signore; ma fidando nella tua bellezza, hai fornicato nel tuo nome (Ez. 16, 14-15). Giacché l’animo si esalta, per la fiducia nella propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù, si gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa medesima fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi stessi pensieri illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la corrompono, seducendola attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è detto: Hai fornicato nel tuo nome, perché quando il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca subito una lode personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che ha ricevuto per servire all’annuncio di colui che gliel’ha donato; desidera dilatare la gloria della sua fama; fa di tutto per apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto fornica in suo nome, colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo spirito corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha consegnato alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano al nemico (Sal. 77, 61). Giacché la virtù è consegnata alla prigionia e la bellezza in mano all’avversario, quando l’antico nemico domina un cuore illuso dall’esaltazione per una buona opera; e tuttavia questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca completamente, tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando, dopo essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore. Perciò David ancora dice: lo dissi nel mio benessere: Non sarò scosso in eterno (Sal. 29, 7). Ma poiché si gonfiò nella confidenza nella propria virtù, poco dopo aggiunge che cosa dovette sopportare: Hai distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal. 29, 8); come se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra le mie virtù, ma abbandonato, ho riconosciuto quanto è grande la mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal. 118, 106). Ma poiché non era in potere della sua forza rimanere fermo nella custodia che aveva giurato, subito scopri la propria debolezza, per cui immediatamente si buttò nella preghiera dicendo: Sono stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi vita secondo la tua parola (Sal. 118, 107). Poiché spesso la guida celeste prima di fare progredire coi doni richiama alla mente il ricordo della debolezza, perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò il profeta Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti, viene chiamato prima figlio dell’uomo, come se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo: perché tu

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79 non innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di essere uomo; e mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato sollecitamente a te stesso dal freno della tua debolezza. Perciò è necessario che quando l’abbondanza delle virtù ci lusinga, l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si costringa a voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della debolezza, il cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso l’autore dell’umiltà. Poiché spesso Dio onnipotente, quantunque in gran parte renda perfette le menti delle guide delle anime, tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette, affinché, quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è in loro di grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo contro difetti minimi; ma poiché non sono capaci di vincere questi ultimi resti di imperfezione, non osino insuperbire per i loro atti eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto dalla necessità di accusare me stesso e tutto attento a mostrare quale debba essere il Pastore, ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora sbattuto dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico, sostienimi con la tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso mi fa affondare, sollevami con la mano dei tuoi meriti.

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SANCTI GREGORII I MAGNI, ROMANI PONTIFICIS,

REGULAE PASTORALIS LIBER, AD JOANNEM EPISCOPUM CIVITATIS RAVENNAE

PRIMA PARS

Reverentissimo et sanctissimo fratri Joanni coepiscopo, Gregorius. Pastoralis curae me pondera fugere delitescendo voluisse, benigna, frater carissime, atque humili intentione reprehendis; quae ne quibusdam levia esse videantur, praesentis libri stylo exprimo de eorum gravedine omne quod penso, ut et haec qui vacat, incaute non expetat; et qui incaute expetiit, adeptum se esse pertimescat. Quadripartita vero disputatione liber iste distinguitur, ut ad lectoris sui animum ordinatis allegationibus quasi quibusdam pastibus gradiatur. Nam cum rerum necessitas exposcit, pensandum valde est ad culmen quisque regiminis qualiter veniat; atque ad hoc rite perveniens, qualiter vivat; et bene vivens, qualiter doceat; et recte docens, infirmitatem suam quotidie quanta consideratione cognoscat, ne aut humilitas accessum fugiat, aut perventioni vita contradicat; aut vitam doctrina destituat; aut doctrinam praesumptio extollat. Prius ergo appetitum timor temperet: post autem magisterium quod a non quaerente suscipitur, vita commendet; ac deinde necesse est ut pastoris bonum quod vivendo ostenditur, etiam loquendo propagetur. Ad extremum vero superest ut perfecta quaeque opera consideratio propriae infirmitatis deprimat, ne haec ante occulti arbitrii oculos tumor elationis exstinguat. Sed quia sunt plerique mihi imperitia similes, qui dum metiri se nesciunt, quae non didicerint docere concupiscunt; qui pondus magisterii tanto levius aestimant, quanto vim magnitudinis illius ignorant; ab ipso libri hujus reprehendantur exordio; ut quia indocti ac praecipites doctrinae arcem tenere appetunt, a praecipitationis suae ausibus in ipsa locutionis nostrae janua repellantur.

CAPUT PRIMUM Ne venire imperiti ad magisterium audeant. Nulla ars doceri praesumitur, nisi intenta prius meditatione discatur. Ab imperitis ergo pastorale magisterium qua temeritate suscipitur, quando ars est artium regimen animarum. Quis autem cogitationum vulnera occultiora esse nesciat vulneribus viscerum? Et tamen saepe qui nequaquam spiritalia praecepta cognoverunt, cordis se medicos profiteri non metuunt: dum qui pigmentorum vim nesciunt, videri medici carnis erubescunt. Sed quia auctore Deo ad religionis reverentiam omne jam praesentis saeculi culmen inclinatur, sunt nonnulli qui intra sanctam Ecclesiam per speciem regiminis gloriam affectant honoris; videri doctores appetunt, transcendere caeteros concupiscunt, atque attestante Veritate, primas salutationes in foro, primos in coenis recubitus, primas in conventibus cathedras quaerunt (Matth. XXIII, 6, 7); qui susceptum curae pastoralis officium ministrare digne tanto magis nequeunt, quanto ad humilitatis magisterium ex sola elatione pervenerunt. Ipsa quippe in magisterio lingua confunditur, quando aliud discitur, et aliud docetur. Quos contra Dominus per prophetam queritur, dicens: Ipsi regnaverunt, et non ex me; principes exstiterunt, et ego ignoravi (Osee VIII, 4). Ex se namque, et non ex arbitrio summi Rectoris regnant, qui nullis fulti virtutibus nequaquam divinitus vocati, sed sua cupidine accensi, culmen regiminis rapiunt potius quam assequuntur. Quos tamen internus judex et provehit, et nescit, quia quos permittendo tolerat, profecto per judicium reprobationis ignorat. Unde ad se quibusdam et post miracula venientibus dicit: Recedite a me operarii iniquitatis, nescio qui estis (Luc. XIII, 27). Pastorum imperitia voce Veritatis increpatur, cum per Prophetam dicitur: Ipsi pastores ignoraverunt

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81 intelligentiam (Isai. LVI, 11). Quos rursum Dominus detestatur, dicens: Et tenentes legem nescierunt me (Jer. II, 8). Et nesciri ergo se ab eis Veritas queritur, et nescire se principatum nescientium protestatur, quia profecto hi qui ea quae sunt Domini nesciunt, a Domino nesciuntur, Paulo attestante qui ait: Si quis autem ignorat, ignorabitur (I Cor. XIV, 38). Quae nimirum Pastorum saepe imperitia meritis congruit subjectorum, quia quamvis lumen scientiae sua culpa exigente non habeant, districto tamen judicio agitur, ut per eorum ignorantiam hi etiam qui sequuntur offendant. Hinc namque in Evangelio per semetipsam Veritas dicit: Si caecus caeco ducatum praebeat, ambo in foveam cadunt (Matth. XV, 14). Hinc Psalmista non optantis animo, sed prophetantis ministerio denuntiat, dicens: Obscurentur oculi eorum ne videant, et dorsum illorum semper incurva (Psal. LXVIII, 24). Oculi quippe sunt, qui in ipsa honoris summi facie positi, providendi itineris officium susceperunt: quibus hi nimirum qui subsequenter inhaerent; dorsa nominantur. Obscuratis ergo oculis dorsum flectitur, quia cum lumen scientiae perdunt qui praeeunt, profecto ad portanda peccatorum curvantur onera qui sequuntur.

CAPUT II

Ne locum regiminis subeant, qui vivendo non perficiunt quae meditando didicerunt. Et sunt nonnulli qui solerti cura spiritalia praecepta perscrutantur, sed quae intelligendo penetrant, vivendo conculcant; repente docent quae non opere, sed meditatione didicerunt; et quod verbis praedicant, moribus impugnant. Unde fit ut cum Pastor per abrupta graditur, ad praecipitium grex sequatur. Hinc namque per prophetam Dominus contra contemptibilem Pastorum scientiam queritur, dicens: Cum ipsi limpidissimam aquam biberetis, reliquam pedibus vestris turbabatis; et oves meae quae conculcata pedibus vestris fuerant, pascebantur; et quae pedes vestri turbaverant, haec bibebant (Ezech. XXXIV, 18, 19). Aquam quippe limpidissimam Pastores bibunt, cum fluenta veritatis recte intelligentes hauriunt. Sed eamdem aquam pedibus perturbare, est sanctae meditationis studia male vivendo corrumpere. Aquam scilicet eorum turbatam pedibus oves bibunt, cum subjecti quique non sectantur verba quae audiunt, sed sola quae conspiciunt exempla pravitatis imitantur. Qui cum dicta sitiunt, quia per opera pervertuntur, quasi corruptis fontibus in potibus lutum sumunt. Hinc quoque scriptum est per prophetam: Laqueus ruinae populi mei, sacerdotes mali (Osee. V, 1; IX, 8). Hinc rursum de sacerdotibus Dominus per prophetam dicit: Facti sunt domui Israel in offendiculum iniquitatis. Nemo quippe amplius in Ecclesia nocet, quam qui perverse agens, nomen vel ordinem sanctitatis habet. Delinquentem namque hunc redarguere nullus praesumit; et in exemplum culpa vehementer extenditur, quando pro reverentia ordinis peccator honoratur. Indigni autem quique tanti reatus pondera fugerent, si veritatis sententiam sollicita cordis aure pensarent, quae ait: Qui scandalizaverit unum de pusillis istis qui in me credunt, expedit ei ut suspendatur mola asinaria in collo ejus, et demergatur in profundum maris (Matth. XVIII, 6). Per molam quippe asinariam, secularis vitae circuitus ac labor exprimitur, et per profundum maris extrema damnatio designatur. Qui ergo ad sanctitatis speciem deductus, vel verbo caeteros destruit, vel exemplo; melius profecto fuerat, ut hunc ad mortem sub exteriori habitu terrena acta constringerent, quam sacra officia in culpa caeteris imitabilem demonstrarent, quia nimirum si solus caderet, utcumque hunc tolerabilior inferni poena cruciaret.

CAPUT III De pondere regiminis; et quod adversa quaeque despicienda sunt, et prospera formidanda. Haec itaque breviter diximus, ut quantum sit pondus regiminis monstraremus, ne temerare sacra regimina quisquis his impar est audeat, et per concupiscentiam culminis, ducatum suscipiat perditionis. Hinc enim pie Jacobus prohibet, dicens: Nolite plures magistri fieri, fratres mei (Jac. III,

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82 1). Hinc ipse Dei hominumque Mediator regnum percipere vitavit in terris, qui supernorum quoque spirituum scientiam sensumque transcendens, ante saecula regnat in coelis. Scriptum quippe est: Jesus ergo cum cognovisset quia venturi essent ut raperent eum, et facerent eum regem, fugit iterum in montem ipse solus (Joan. VI, 15). Quis enim principari hominibus tam sine culpa potuisset, quam is qui hos nimirum regeret, quos ipse creaverat? Sed quia idcirco in carne venerat, ut non solum nos per passionem redimeret, verum etiam per conversationem doceret, exemplum se sequentibus praebens, rex fieri noluit, ad crucis vero patibulum sponte convenit; oblatam gloriam culminis fugit, poenam probrosae mortis appetiit; ut membra ejus videlicet discerent favores mundi fugere, terrores minime timere, pro veritate adversa diligere, prospera formidando declinare, quia et ista saepe per tumorem cor inquinant, et illa per dolorem purgant. In istis se animus erigit, in illis autem etiamsi quando se erexerit, sternit. In istis sese homo obliviscitur, in illis vero ad sui memoriam nolens etiam coactusque revocatur. In istis saepe et anteacta bona depereunt, in illis autem longi quoque temporis admissa terguntur. Nam plerumque adversitatis magisterio sub disciplina cor premitur: quod si ad regiminis culmen eruperit, in elationem protinus usu gloriae permutatur. Sic Saul, qui indignum se prius considerans fugerat, mox ut regni gubernacula suscepit, intumuit (I Reg. X, 22; XV, 17, 30); honorari namque coram populo cupiens, dum reprehendi publice noluit, ipsum qui in regnum se unxerat, scidit (Act. XIII, 22). Sic David auctoris judicio pene in cunctis actibus placens, mox ut pressurae pondere caruit, in tumorem vulneris erupit (II Reg. XI, 3, seq.), factusque est in morte viri crudeliter rigidus, qui in appetitu feminae fuit enerviter fluxus; et qui malis ante noverat pie parcere, in bonorum quoque necem post didicit sine obstaculo retractationis anhelare (Ibid., 15). Prius quippe ferire deprehensum persecutorem noluit, et post cum damno desudantis exercitus etiam devotum militem exstinxit. Quem profecto ab electorum numero culpa longius raperet, nisi hunc ad veniam flagella revocassent.

CAPUT IV Quod plerumque occupatio regiminis soliditatem dissipet mentis. Saepe suscepta cura regiminis cor per diversa diverberat, et impar quisque invenitur ad singula, dum confusa mente dividitur ad multa. Unde quidam sapiens provide prohibet, dicens: Fili, ne in multis sint actus tui (Eccli. XI, 10), quia videlicet nequaquam plene in uniuscujusque operis ratione colligitur, dum mens per diversa partitur. Cumque foras per insolentem curam trahitur, a timoris intimi soliditate vacuatur: fit in exteriorum dispositione sollicita, et sui solummodo ignara, scit multa cogitare, se nesciens. Nam cum plus quam necesse est se exterioribus implicat, quasi occupata in itinere obliviscitur quo tendebat; ita ut ab studio suae inquisitionis aliena, ne ipsa quidem quae patitur damna consideret, et per quanta delinquat ignoret. Neque enim peccare se Ezechias credidit (IV Reg. XX, 13), cum venientibus ad se alienigenis aromatum cellas ostendit; sed in damnationem secuturae prolis ex eo iram judicis pertulit, quod se facere licenter aestimavit (Isai. XXXIX, 4). Saepe dum multa suppetunt, dumque agi possunt, quae subjecti quia acta sunt admirentur, in cogitatione se animus elevat, et plene in se iram judicis provocat, quamvis per iniqua foras opera non erumpat. Intus quippe est qui judicat, intus quod judicatur. Cum ergo in corde delinquimus, latet homines quod apud nos agimus, sed tamen ipso judice teste peccamus. Neque enim rex Babyloniae tunc reus de elatione exstitit (Dan. IV, 16, seq.), cum ad elationis verba pervenit; quippe qui ore prophetico et ante cum ab elatione tacuit, sententiam reprobationis audivit. Culpam namque perpetratae superbiae jam ante deterserat, qui omnipotentem Deum quem se offendisse reperit, cunctis sub se gentibus praedicavit. Sed post haec successu suae potestatis elevatus, dum magna se fecisse gauderet, cunctis prius in cogitatione se praetulit, et post adhuc tumidus dixit: Nonne haec est Babylon magna, quam ego aedificavi in domum regni, et in robore fortitudinis meae, et in gloria decoris mei? (Ibid., IV, 27.) Quae videlicet vox illius irae vindictam aperte pertulit, quam occulta elatio accendit. Nam districtus judex prius invisibiliter vidit quod postea publice feriendo reprehendit. Unde et in irrationale animal hunc vertit, ab humana societate

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83 separavit, agri bestiis mutata mente conjunxit, ut districto videlicet justoque judicio homo quoque esse perderet, qui magnum se ultra homines aestimasset. Haec itaque proferentes, non potestatem reprehendimus, sed ab appetitu illius cordis infirmitatem munimus, ne imperfecti quique culmen arripere regiminis audeant, et qui in planis stantes titubant, in praecipiti pedem ponant.

CAPUT V De his qui in regiminis culmine prodesse exemplo virtutum possunt, sed quietem propriam sectando refugiunt. Nam sunt nonnulli, qui eximia virtutum dona percipiunt, et pro exercitatione caeterorum magnis muneribus exaltantur, qui studio castitatis mundi, abstinentiae robore validi, doctrinae dapibus referti, patientiae longanimitate humiles, auctoritatis fortitudine erecti, pietatis gratia benigni, justitiae severitate districti sunt. Qui nimirum culmen regiminum si vocati suscipere renuunt, ipsa sibi plerumque dona adimunt, quae non pro se tantummodo, sed etiam pro aliis acceperunt. Cumque sua et non aliorum lucra cogitant, ipsis se, quae privata habere appetunt, bonis privant. Hinc namque ad discipulos Veritas dicit: Non potest civitas abscondi super montem posita; neque accendunt lucernam, et ponunt eam sub modio, sed super candelabrum, ut luceat omnibus qui in domo sunt (Matth. V, 15). Hinc Petro ait: Simon Joannis, amas me? (Joan. XV, 16, 17.) Qui cum se amare protinus respondisset, audivit: Si diligis me, pasce oves meas. Si ergo dilectionis est testimonium cura pastionis, quisquis virtutibus pollens gregem Dei renuit pascere, pastorem summum convincitur non amare. Hinc Paulus dicit: Si Christus pro omnibus mortuus est, ergo omnes mortui sunt. Et si pro omnibus mortuus est, superest ut qui vivunt, jam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est, et resurrexit (II Cor. V, 15). Hinc Moyses ait (Deuteron. XXV, 5), ut uxorem fratris sine filiis defuncti, superstes frater accipiat, atque ad nomen fratris filios gignat: quam si accipere forte renuerit, huic in faciem mulier exspuat, unumque ei pedem propinquus discalciet, ejusque habitaculum domum discalceati vocet. Frater quippe defunctus ille est, qui post resurrectionis gloriam apparens, dixit: Ite, dicite fratribus meis (Matth. XXVIII, 10). Qui quasi sine filiis obiit, quia adhuc electorum suorum numerum non implevit. Hujus scilicet uxorem superstes frater sortiri praecipitur, quia dignum profecto est, ut cura sanctae Ecclesiae ei qui hanc bene regere praevalet imponatur. Cui nolenti in faciem mulier exspuit, quia quisquis ex muneribus quae perceperit prodesse aliis non curat, bonis quoque ejus sancta Ecclesia exprobrans, ei quasi in faciem salivam jactat. Cui ex uno pede calceamentum tollitur, ut discalceati domus vocetur. Scriptum quippe est: Calceati pedes in praeparatione Evangelii pacis (Ephes. VI, 15). Si ergo ut nostram, sic curam proximi gerimus, utrumque pedem per calceamentum munimus. Qui vero suam cogitans utilitatem, proximorum negligit, quasi unius pedis calceamentum cum dedecore amittit. Sunt itaque nonnulli qui magnis, ut diximus, muneribus ditati, dum solius contemplationis studiis inardescunt, parere utilitati proximorum in praedicatione refugiunt, secretum quietis diligunt, secessum speculationis appetunt. De quo si districte judicentur, ex tantis proculdubio rei sunt, quantis venientes ad publicum prodesse potuerunt. Qua enim mente is qui proximis profuturus enitesceret, utilitati caeterorum secretum praeponit suum, quando ipse summi Patris unigenitus, ut multis prodesset, de sinu Patris egressus est ad publicum nostrum?

CAPUT VI Quod hi qui pondus regiminis per humilitatem fugiunt, tunc vere sunt humiles, cum divinis judiciis non reluctantur. Et sunt nonnulli qui ex sola humilitate refugiunt, ne eis quibus se impares aestimant praeferantur. Quorum profecto humilitas, si caeteris quoque virtutibus cingitur, tunc ante Dei oculos vera est,

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84 cum ad respuendum hoc quod utiliter subire praecipitur pertinax non est. Neque enim vere humilis est, qui superni nutus arbitrium ut debeat praeesse intelligit, et tamen praeesse contemnit. Sed divinis dispositionibus subditus, atque a vitio obstinationis alienus, cum sibi regiminis culmen imperatur, si jam donis praeventus est, quibus et aliis prosit, et ex corde debet fugere, et invitus obedire.

CAPUT VII Quod nonnunquam praedicationis officium et nonnulli laudabiliter appetunt, et ad hoc nonnulli laudabiliter coacti pertrahuntur. Quamvis nonnunquam praedicationis officium et nonnulli laudabiliter appetunt, et ad hoc nonnulli laudabiliter coacti pertrahuntur: quod liquido cognoscimus, si duorum prophetantium facta pensamus, quorum unus ut ad praedicandum mitti debuisset sponte se praebuit, quo tamen alter pergere cum pavore recusavit. Isaias quippe Domino quaerenti quem mitteret, ultro se obtulit, dicens: Ecce ego, mitte me (Isai. VI, 8). Jeremias autem mittitur, et tamen ne mitti debeat humiliter reluctatur, dicens: A, a, a, Domine Deus, ecce nescio loqui, quia puer ego sum (Jerem. I, 6). En ab utrisque exterius diversa vox prodiit, sed non a diverso fonte dilectionis emanavit. Duo quippe sunt praecepta charitatis, Dei videlicet amor et proximi. Per activam igitur vitam prodesse proximis cupiens Isaias officium praedicationis appetit; per contemplativam vero Jeremias amori conditoris sedulo inhaerere desiderans, ne mitti ad praedicandum debeat contradicit. Quod ergo laudabiliter alter appetiit, hoc laudabiliter alter expavit: iste ne tacitae contemplationis lucra loquendo perderet, ille ne damna studiosi operis tacendo sentiret. Sed hoc in utrisque est subtiliter intuendum, quia et is qui recusavit, plene non restitit; et is qui mitti voluit, ante per altaris calculum se purgatum vidit; ne aut non purgatus adire quisque sacra ministeria audeat, aut quem superna gratia elegit, sub humilitatis specie superbe contradicat. Quia igitur valde difficile est purgatum se quemlibet posse cognoscere, praedicationis officium tutius declinatur; nec tamen declinari, ut diximus, pertinaciter debet, cum ad suscipiendum hoc superna voluntas agnoscitur. Quod Moyses utrumque miro opere explevit, qui praeesse tantae multitudini et noluit et obedivit. Superbus enim fortasse esset, si ducatum plebis innumerae sine trepidatione susciperet; et rursum superbus existeret, si auctoris imperio obedire recusaret. Utrobique ergo humilis, utrobique subjectus, et praeesse populis semetipsum metiendo noluit, et tamen de imperantis viribus praesumendo consensit. Hinc ergo, hinc quique praecipites colligant cum quanta culpa ex appetitu proprio caeteris praeferri non metuunt, si sancti viri plebium ducatum suscipere Deo etiam jubente timuerunt. Moyses suadente Domino trepidat, et infirmus quisque ut honoris onus percipiat anhelat; et qui ad casum valde urgetur ex propriis, humerum libenter opprimendus ponderibus submittit alienis; quae egit ferre non valet, et auget quod portet.

CAPUT VIII De his qui praeesse concupiscunt, et ad usum suae libidinis instrumentum Apostolici sermonis arripiunt. Plerumque vero qui praeesse concupiscunt, ad usum suae libidinis instrumentum Apostolici sermonis arripiunt, quo ait: Si quis episcopatum desiderat, bonum opus desiderat (I Tim. III, 1); qui tamen laudans desiderium, in pavorem vertit protinus quod laudavit, cum repente subjungit: Oportet autem episcopum irreprehensibilem esse (Ibid., 2). Cumque virtutum necessaria subsequenter enumerat, quae sit irreprehensibilitas ipsa manifestat. Et favet ergo ex desiderio, et terret ex praecepto, ac si aperte dicat: Laudo quod quaeritis, sed prius discite quid quaeratis; ne dum vosmetipsos metiri negligitis, tanto foedior vestra reprehensibilitas appareat, quanto et a cunctis

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85 conspici in honoris arce festinat. Magnus enim regendi artifex favoribus impellit, terroribus retrahit, ut auditores suos et descripto irreprehensibilitatis culmine restringat a superbia, et officium laudando quod quaeritur, componat ad vitam. Quamvis notandum quod illo in tempore hoc dicitur, quo quisquis plebibus praeerat, primus ad martyrii tormenta ducebatur. Tunc ergo laudabile fuit episcopatum quaerere, quando per hunc quemque dubium non erat ad supplicia graviora pervenire. Unde ipsum quoque episcopatus officium boni operis expressione definitur, cum dicitur: Si quis episcopatum desiderat, bonum opus desiderat (I Tim. III, 1). Ipse ergo sibi testis est quia episcopatum non appetit, qui non per hunc boni operis ministerium, sed honoris gloriam quaerit. Sacrum quippe officium non solum non diligit omnino, sed nescit, qui ad culmen regiminis anhelans, in occulta meditatione cogitationis caeterorum subjectione pascitur, laude propria laetatur, ad honorem cor elevat, rerum affluentium abundantia exsultat. Mundi ergo lucrum quaeritur sub ejus honoris specie quo mundi destrui lucra debuerunt. Cumque mens humilitatis culmen arripere ad elationem cogitat, quod foris appetit, intus immutat.

CAPUT IX Quod mens praeesse volentium plerumque sibi ficta bonorum operum promissione blanditur. Sed plerumque hi qui subire magisterium pastorale cupiunt, nonnulla quoque bona opera animo proponunt; et quamvis hoc elationis intentione appetant, operaturos tamen se magna pertractant; fitque ut aliud in imis intentio supprimat, aliud tractantis animo superficies cogitationis ostendat. Nam saepe sibi de se mens ipsa mentitur, et fingit se de bono opere amare quod non amat, de mundi autem gloria non amare quod amat: quae principari appetens, fit ad hoc pavida cum quaerit, audax cum pervenerit. Tendens enim, ne non perveniat trepidat; sed repente perveniens, jure sibi hoc debitum ad quod pervenerit putat. Cumque percepti principatus officio perfrui saeculariter coeperit, libenter obliviscitur quidquid religiose cogitavit. Unde necesse est ut cum cogitatio extra usum ducitur, protinus mentis oculus ad opera transacta revocetur; ac penset quisque quid subjectus egerit, et repente cognoscit si praelatus bona agere quae proposuerit possit, quia nequaquam valet in culmine humilitatem discere, qui in imis positus non desiit superbire. Nescit laudem cum suppetit fugere, qui ad hanc didicit cum deesset anhelare. Nequaquam vincere avaritiam potest, quando ad multorum sustentationem tenditur is cui sufficere propria nec soli potuerunt. Ex anteacta ergo vita se quisque inveniat, ne in appetitu se culminis imago cogitationis illudat. Quamvis plerumque in occupatione regiminis ipse quoque boni operis usus perditur, qui in tranquillitate tenebatur, quia quieto mari recte navem et imperitus dirigit; turbato autem tempestatis fluctibus, etiam peritus se nauta confundit. Quid namque est potestas culminis, nisi tempestas mentis? In qua semper cogitationum procellis navis cordis quatitur, huc illucque incessanter impellitur, ut per repentinos excessus oris et operis quasi per obviantia saxa frangatur. Inter haec itaque quid sequendum est, quid tenendum, nisi ut virtutibus pollens coactus ad regimen veniat, virtutibus vacuus nec coactus accedat? Ille si omnino renititur, caveat ne acceptam pecuniam in sudarium ligans, de ejus occultatione judicetur (Matth. XXV, 18). Pecuniam quippe in sudario ligare, est percepta dona sub otio lenti torporis abscondere. At contra, iste cum regimen appetit, attendat ne per exemplum pravi operis, Pharisaeorum more, ad ingressum regni tendentibus obstaculum fiat: qui juxta Magistri vocem (Matth. XXIII, 13) nec ipsi intrant, nec alios intrare permittunt. Cui considerandum quoque est, quia cum causam populi electus praesul suscipit, quasi ad aegrum medicus accedit. Si ergo adhuc in ejus opere passiones vivunt, qua praesumptione percussum mederi properat, qui in facie vulnus portat?

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CAPUT X Qualis quisque ad regimen venire debeat. Ille igitur, ille modis omnibus debet ad exemplum vivendi pertrahi, qui cunctis carnis passionibus moriens jam spiritaliter vivit, qui prospera mundi postposuit, qui nulla adversa pertimescit, qui sola interna desiderat. Cujus intentioni bene congruens, nec omnino per imbecillitatem corpus, nec valde per contumeliam repugnat spiritus. Qui ad aliena cupienda non ducitur, sed propria largitur. Qui per pietatis viscera citius ad ignoscendum flectitur, sed nunquam plus quam deceat ignoscens, ab arce rectitudinis inclinatur. Qui nulla illicita perpetrat, sed perpetrata ab aliis ut propria deplorat. Qui ex affectu cordis alienae infirmitati compatitur, sicque in bonis proximi sicut in suis provectibus laetatur. Qui ita se imitabilem caeteris in cunctis quae agit insinuat, ut inter eos non habeat quod saltem de transactis erubescat. Qui sic studet vivere, ut proximorum quoque corda arentia doctrinae valeat fluentis irrigare. Qui orationis usu et experimento jam didicit, quod obtinere a Domino quae poposcerit, possit, cui per effectus vocem jam quasi specialiter dicitur: Adhuc loquente te, dicam, Ecce adsum (Isai. LVIII, 9). Si enim fortasse quis veniat, ut pro se ad intercedendum nos apud potentem quempiam virum, qui sibi iratus, nobis vero est incognitus, ducat, protinus respondemus: Ad intercedendum venire non possumus, quia familiaritatis ejus notitiam non habemus. Si ergo homo apud hominem de quo minime praesumit fieri intercessor erubescit, qua mente apud Deum intercessionis locum pro populo arripit, qui familiarem se ejus gratiae esse per vitae meritum nescit? Aut ab eo quomodo aliis veniam postulat, qui utrum sibi sit placatus ignorat? Qua in re adhuc aliud est sollicitius formidandum, ne qui placare posse iram creditur, hanc ipse ex proprio reatu mereatur. Cuncti enim liquido novimus, quia cum is qui displicet ad intercedendum mittitur, irati animus ad deteriora provocatur. Qui ergo adhuc desideriis terrenis astringitur, caveat ne districti iram judicis gravius accendens, dum loco delectatur gloriae, fiat subditis auctor ruinae.

CAPUT XI Qualis quisque ad regimen venire non debeat. Solerter ergo se quisque metiatur ne locum regiminis assumere audeat, si adhuc in se vitium damnabiliter regnat, ne is quem crimen depravat proprium, intercessor fieri appetat pro culpis aliorum. Hinc etenim superna voce ad Moysen dicitur: Loquere ad Aaron: Homo de semine tuo per familias qui habuerit maculam, non offeret panes Domino Deo suo, nec accedet ad ministerium ejus (Lev. XXI, 17). Ubi et repente subjungitur: Si caecus fuerit, si claudus, si vel parvo, vel grandi et torto naso, si fracto pede, si manu, si gibbus, si lippus, si albuginem habens in oculo, si jugem scabiem, si impetiginem in corpore, vel ponderosus (Ibid., 18). Caecus quippe est, qui supernae contemplationis lumen ignorat; qui praesentis vitae tenebris pressus, dum venturam lucem nequaquam diligendo conspicit, quo gressus operis porrigat nescit. Hinc etenim prophetante Anna dicitur, Pedes sanctorum suorum servabit, et impii in tenebris conticescent (I Reg. II, 9). Claudus vero est qui quidem quo pergere debeat aspicit, sed per infirmitatem mentis, vitae viam perfecte non valet tenere quam videt, quia ad virtutis statum dum fluxa consuetudo non erigitur, quo desiderium innititur, illuc gressus operis efficaciter non sequuntur. Hinc enim Paulus dicit: Remissas manus et dissoluta genua erigite, et gressus rectos facite pedibus vestris, ut non claudicans quis erret, magis autem sanetur (Heb. XII, 12, 13). Parvo autem naso est, qui ad tenendam mensuram discretionis idoneus non est. Naso quippe odores fetoresque discernimus. Recte ergo per nasum discretio exprimitur, per quam virtutes eligimus, delicta reprobamus. Unde et in laude sponsae dicitur: Nasus tuus sicut turris quae est in Libano (Cant. VII, 4), quia nimirum sancta Ecclesia quae ex causis singulis tentamenta prodeant, per discretionem conspicit, et ventura vitiorum bella ex alto deprehendit. Sed sunt nonnulli qui dum aestimari hebetes nolunt, saepe se in quibusdam inquisitionibus plus quam necesse est exercentes, ex nimia subtilitate falluntur. Unde hic quoque

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87 subditur: Vel grandi et torto naso. Nasus enim grandis et tortus est discretionis subtilitas immoderata, quae dum plus quam decet excreverit, actionis suae rectitudinem ipsa confundit. Fracto autem pede vel manu est, qui viam Dei pergere omnino non valet, atque a bonis actibus funditur exsors vacat, quatenus haec non ut claudus saltem cum infirmitate teneat, sed ab his omnimodo alienus existat. Gibbus vero est quem terrenae sollicitudinis pondus deprimit, ne unquam ad superna respiciat, sed solis his quae in infimis calcantur intendat. Qui et si quando aliquid ex bono patriae coelestis audierit, ad hoc nimirum perversae consuetudinis pondere praegravatus, cordis faciem non attollit, quia cogitationis statum erigere non valet, quem terrenae usus sollicitudinis curvum tenet. Ex horum quippe specie Psalmista dicit: Incurvatus sum et humiliatus sum usquequaque (Psal. XXXVIII, 8, sec. LXX). Quorum culpam quoque per semetipsam Veritas reprobans, ait: Semen autem quod in spinis cecidit, hi sunt qui audierunt verbum, et a sollicitudinibus et divitiis et voluptatibus vitae euntes suffocantur, et non referunt fructum (Luc. VIII, 14). Lippus vero est, cujus quidem ingenium ad cognitionem veritatis emicat, sed tamen hoc carnalia opera obscurant. In lippis quippe oculis pupillae sanae sunt, sed humore defluente infirmatae palpebrae grossescunt; quorum, quia infusione crebro atteruntur, etiam acies pupillae vitiatur. Et sunt nonnulli quorum sensum carnalis vitae operatio sauciat, qui videre recta subtiliter per ingenium poterant, sed usu pravorum actuum caligant. Lippus itaque est, cujus sensum natura exacuit; sed conversationis pravitas confundit. Cui bene per angelum dicitur: Collyrio inunge oculos tuos ut videas (Apoc. III, 18). Collyrio quippe oculos ut videamus inungimus, cum ad cognoscendam veri luminis claritatem intellectus nostri aciem medicamine bonae operationis adjuvamus. Albuginem vero habet in oculo, qui veritatis lucem videre non sinitur, quia arrogantia sapientiae seu justitiae caecatur. Pupilla namque oculi nigra videt, albuginem tolerans nil videt, quia videlicet sensus humanae cogitationis si stultum se peccatoremque intelligit, cognitionem intimae claritatis apprehendit. Si autem candorem sibi justitiae seu sapientiae tribuit, a luce se supernae cognitionis excludit; et eo claritatem veri luminis nequaquam penetrat, quo se apud se per arrogantiam exaltat; sicut de quibusdam dicitur: Dicentes enim se esse sapientes, stulti facti sunt (Rom. I, 22). Jugem vero habet scabiem, cui carnis petulantia sine cessatione dominatur. In scabie etenim fervor viscerum ad cutem trahitur, per quam recte luxuria designatur, quia si cordis tentatio usque ad operationem prosilit, nimirum fervor intimus usque ad cutis scabiem prorumpit; et foris jam corpus sauciat, quia dum in cogitatione voluptas non reprimitur, etiam in actione dominatur. Quasi enim cutis pruriginem Paulus curabat abstergere, cum dicebat: Tentatio vos non apprehendat, nisi humana (I Cor. X, 13); ac si aperte diceret: Humanum quidem est tentationem in corde perpeti, daemoniacum vero est in tentationis certamine et in operatione superari. Impetiginem quoque habet in corpore, quisquis avaritia vastatur in mente: quae si in parvis non compescitur, nimirum sine mensura dilatatur. Impetigo quippe sine dolore corpus occupat, et absque occupati taedio excrescens membrorum decorem foedat, quia et avaritia capti animum dum quasi delectat, exulcerat; dum adipiscenda quaeque cogitationi objicit, ad inimicitias accendit, et dolorem in vulnere non facit, quia aestuanti animo ex culpa abundantiam promittit. Sed decor membrorum perditur, quia aliarum quoque virtutum per hanc pulchritudo depravatur; et quasi totum corpus exasperat, quia per universa vitia animum supplantat, Paulo attestante qui ait: Radix omnium malorum est cupiditas (I Tim. VI, 10). Ponderosus vero est, qui turpitudinem non exercet opere, sed tamen ab hac cogitatione continua sine moderamine gravatur in mente; qui nequaquam quidem usque ad opus nefarium rapitur, sed ejus animus voluptate luxuriae sine ullo repugnationis stimulo delectatur. Vitium quippe est ponderis, cum humor viscerum ad virilia labitur, quae profecto cum molestia dedecoris intumescunt. Ponderosus ergo est, qui totis cogitationibus ad lasciviam defluens, pondus turpitudinis gestat in corde; et quamvis prava non exerceat opere, ab his tamen non evellitur mente. Nec ad usum boni operis in aperto valet assurgere, quia gravat hunc in abditis pondus turpe. Quisquis ergo quolibet horum vitio subigitur, panes Domino offerre prohibetur, ne profecto diluere aliena delicta non valeat is quem adhuc propria devastant. Quia igitur paucis ad pastorale magisterium dignus qualiter veniat, atque hoc indignus qualiter pertimescat ostendimus, nunc is qui ad illud digne pervenerit, in eo qualiter vivere debeat demonstremus.

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SECUNDA PARS

DE VITA PASTORIS

CAPUT PRIMUM Is qui ad regimen ordinate pervenerit, qualem se in ipso regimine debeat exhibere. Tantum debet actionem populi actio transcendere praesulis, quantum distare solet a grege vita pastoris. Oportet namque ut metiri sollicite studeat quanta tenendae rectitudinis necessitate constringitur, sub cujus aestimatione populus grex vocatur. Sit ergo necesse est cogitatione mundus, actione praecipuus, discretus in silentio, utilis in verbo, singulis compassione proximus, prae cunctis contemplatione suspensus, bene agentibus per humilitatem socius, contra delinquentium vitia per zelum justitiae erectus, internorum curam in exteriorum occupatione non minuens, exteriorum providentiam in internorum sollicutidine non relinquens. Sed haec quae breviter enumerando perstrinximus, paulo latius replicando disseramus.

CAPUT II Ut rector cogitatione sit mundus. Rector semper cogitatione sit mundus, quatenus nulla hunc immunditia polluat, qui hoc suscepit officii, ut in alienis quoque cordibus pollutionis maculas tergat, quia necesse est ut esse munda studeat manus, quae diluere sordes curat: ne tacta quaeque deterius inquinet, si sordida insequens lutum tenet. Hinc namque per prophetam dicitur: Mundamini qui fertis vasa Domini (Isai. LII, 11). Domini etenim vasa ferunt, qui proximorum animas ad aeterna sacraria perducendas in suae conversationis fide suscipiunt. Apud semetipsos ergo quantum debeant mundari conspiciant, qui ad aeternitatis templum vasa viventia in sinu propriae sponsionis portant. Hinc divina voce praecipitur (Exod. XXVIII, 15), ut in Aaron pectore rationale judicii vittis ligantibus imprimatur, quatenus sacerdotale cor nequaquam cogitationes fluxae possideant, sed ratio sola constringat; nec indiscretum quid vel inutile cogitet, qui ad exemplum aliis constitutus, ex gravitate vitae semper debet ostendere quantam in pectore rationem portet. In quo etiam rationali vigilanter adjungitur, ut duodecim patriarcharum nomina describantur. Ascriptos etenim patres semper in pectore ferre, est antiquorum vitam sine intermissione cogitare. Nam tunc sacerdos irreprehensibiliter graditur, cum exempla patrum praecedentium indesinenter intuetur, cum Sanctorum vestigia sine cessatione considerat, et cogitationes illicitas deprimit, ne extra ordinis limitem operis pedem tendat. Quod bene etiam rationale judicii vocatur, quia debet rector subtili semper examine bona malaque discernere, et quae vel quibus, quando vel qualiter congruant, studiose cogitare; nihilque proprium quaerere, sed sua commoda propinquorum bona deputare. Unde illic scriptum est: Pones autem in rationali judicii doctrinam et veritatem, quae erunt in pectore Aaron quando ingredietur coram Domino, et gestabit judicium filiorum Israel in pectore suo in conspectu Domini semper (Ibid., 30). Sacerdoti quippe judicium filiorum Israel in pectore coram Domini conspectu gestare, est subjectorum causas pro sola interni judicis intentione discutere, ut nihil se ei humanitatis admisceat in hoc quod divina positus vice dispensat, ne correptionis studia privatus dolor exasperet. Cumque contra aliena vitia aemulator ostenditur, quae sua sunt exsequatur, ne tranquillitatem judicii aut latens invidia maculet, aut praeceps ira perturbet. Sed dum consideratur terror ejus qui super omnia praesidet, videlicet judicis intimi, non sine magno regantur timore subjecti. Qui nimirum timor dum mentem rectoris humiliat, purgat; ne hanc aut praesumptio spiritus levet, aut carnis delectatio inquinet, aut per terrenarum rerum cupidinem importunitas pulvereae cogitationis obscuret: quae tamen non pulsare rectoris animum nequeunt, sed festinare necesse est, ut repugnatione vincantur,

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90 ne vitium quod per suggestionem tentat, mollitie delectationis subigat, cumque haec ab animo tarde repellitur, mucrone consensus occidat.

CAPUT III

Ut rector semper sit operatione praecipuus. Sit rector operatione praecipuus, ut vitae viam subditis vivendo denuntiet, et grex qui pastoris vocem moresque sequitur, per exempla melius quam per verba gradiatur. Qui enim loci sui necessitate exigitur summa dicere, hac eadem necessitate compellitur summa monstrare. Illa namque vox libentius auditorum cor penetrat, quam dicentis vita commendat, quia quod loquendo imperat, ostendendo adjuvat ut fiat. Hinc enim per prophetam dicitur: Super montem excelsum ascende tu qui evangelizas Sion (Isai. XL, 9). Ut videlicet qui coelesti praedicatione utitur, ima jam terrenorum operum deserens, in rerum culmine stare videatur; tantoque facilius subditos ad meliora pertrahat, quanto per vitae meritum de supernis clamat. Hinc divina lege armum sacerdos in sacrificium et dextrum accipit et separatum (Exod. XXIX, 22), ut non solum sit ejus operatio utilis, sed etiam singularis; nec inter malos tantummodo quae recta sunt faciat, sed bene quoque operantes subditos, sicut honore ordinis superat, ita etiam morum virtute transcendat. Cui in esu quoque pectusculum cum armo tribuitur, ut quod de sacrificio praecipitur sumere, hoc de semetipso auctori discat immolare. Et non solum pectore quae recta sunt cogitet, sed spectatores suos ad sublimia arma operis invitet: nulla prospera praesentis vitae appetat, nulla adversa pertimescat; blandimenta mundi respecto intimo terrore despiciat, terrores autem considerato internae dulcedinis blandimento contemnat. Unde supernae quoque vocis imperio (Exod. XXIX, 5) in utroque humero sacerdos velamine superhumeralis astringitur, ut contra adversa ac prospera virtutum semper ornamento muniatur; quatenus, juxta vocem Pauli (II Cor. VI, 7), per arma justitiae a dextris sinistrisque gradiens, cum ad sola quae interiora sunt nititur, in nullo delectationis infimae latere flectatur. Non hunc prospera elevent, non adversa perturbent, non blanda usque ad voluntatem demulceant, non aspera ad desperationem premant; ut dum nullis passionibus intentionem mentis humiliat, quanta in utroque humero superhumeralis pulchritudine tegatur ostendat. Quod recte etiam superhumerale ex auro, hyacintho, purpura, bis tincto cocco, et torta fieri bysso praecipitur (Exod. XXVIII, 8), ut quanta sacerdos clarescere virtutum diversitate debeat demonstretur. In sacerdotis quippe habitu ante omnia aurum fulget, ut in eo intellectus sapientiae principaliter emicet. Cui hyacinthus, qui aereo colore resplendet adjungitur, ut per omne quod intelligendo penetrat, non ad favores infimos, sed ad amorem coelestium surgat; ne dum suis incautus laudibus capitur, ipso etiam veritatis intellectu vacuetur. Auro quoque et hyacintho purpura permiscetur; ut videlicet sacerdotale cor, cum summa quae praedicat sperat, in semetipso etiam suggestiones vitiorum reprimat, eisque velut ex regia potestate contradicat, quatenus nobilitatem semper intimae regenerationis aspiciat, et coelestis regni sibi habitum moribus defendat. De hac quippe nobilitate spiritus per Petrum dicitur: Vos autem genus electum, regale sacerdotium (I Petr. II, 9). De hac etiam potestate, quia vitia subigimus, Joannis voce roboramur, qui ait: Quotquot autem receperunt eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri (Joan. I, 12). Hanc dignitatem fortitudinis Psalmista considerat, dicens: Mihi autem nimis honorificati sunt amici tui, Deus, nimis confortatus est principatus eorum (Psal. CXXXVIII, 17). Quia nimirum sanctorum mens principaliter in summis erigitur, cum exterius perpeti abjecta cernuntur. Auro autem, hyacintho ac purpurae bis tinctus coccus adjungitur, ut ante interni judicis oculos omnia virtutum bona ex charitate decorentur; et cuncta quae coram hominibus rutilant, haec in conspectu occulti arbitri flamma intimi amoris accendat. Quae scilicet charitas, quia Deum simul ac proximum diligit, quasi ex duplici tinctura fulgescit. Qui igitur sic ad auctoris speciem anhelat, ut proximorum curam negligat, vel sic proximorum curam exsequitur, ut a divino amore torpescat, quia unum horum quodlibet negligit, in superhumeralis ornamento habere coccum his tinctum nescit. Sed cum mens ad praecepta charitatis tenditur, restat procul dubio ut per abstinentiam caro maceretur. Unde et his tincto cocco torta byssus adjungitur. De terra etenim byssus nitenti specie

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91 oritur. Et quid per byssum, nisi candens decore munditiae corporalis castitas designatur? Quae videlicet torta, pulchritudini superhumeralis innectitur; quia tunc castimonia ad perfectum munditiae candorem ducitur, cum per abstinentiam caro fatigatur. Cumque inter virtutes caeteras etiam afflictae carnis meritum proficit, quasi in diversa superhumeralis specie byssus torta candescit.

CAPUT IV Ut sit rector discretus in silentio, utilis in verbo. Sit rector discretus in silentio, utilis in verbo, ne aut tacenda proferat, aut proferenda reticescat. Nam sicut incauta locutio in errorem pertrahit, ita indiscretum silentium hos qui erudiri poterant, in errore derelinquit. Saepe namque rectores improvidi humanam amittere gratiam formidantes, loqui libere recta pertimescunt; et juxta Veritatis vocem (Joan. X, 12), nequaquam jam gregis costodiae Pastorum studio, sed mercenariorum vice deserviunt, quia veniente lupo fugiunt, dum se sub silentio abscondunt. Hinc namque eos per prophetam Dominus increpat, dicens: Canes muti non valentes latrare (Isai. LVI, 10). Hinc rursum queritur, dicens: Non ascendistis ex adverso, nec opposuistis murum pro domo Israel, ut staretis in praelio in die Domini (Ezech. XIII, 5). Ex adverso quippe ascendere, est pro defensione gregis voce libera hujus mundi potestatibus contraire. Et in die Domini in praelio stare, est pravis decertantibus ex justitiae amore resistere. Pastori enim recta timuisse dicere, quid est aliud quam tacendo terga praebuisse? qui nimirum si pro grege se objicit, murum pro domo Israel hostibus opponit. Hinc rursum delinquenti populo dicitur: Prophetae tui viderunt tibi falsa et stulta, nec aperiebant iniquitatem tuam; ut te ad poenitentiam provocarent (Thren. II, 14). Prophetae quippe in sacro eloquio nonnunquam doctores vocantur; qui dum fugitiva esse praesentia indicant, quae sunt ventura manifestant. Quos divinus sermo falsa videre redarguit, quia dum corripere culpas metuunt, incassum delinguentibus promissa securitate blandiuntur; qui iniquitatem peccantium nequaquam aperiunt, quia ab increpationis voce conticescunt. Clavis quippe apertionis est sermo correptionis, quia increpando culpam detegit, quam saepe nescit ipse etiam qui perpetravit. Hinc Paulus ait: Ut potens sit exhortari in doctrina sana, et eos qui contradicunt arguere (Tit. I, 9). Hinc per Malachiam dicitur: Labia sacerdotis custodiunt scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia angelus Domini exercituum est (Malac. II, 7). Hinc per Isaiam Dominus admonet, dicens: Clama, ne cesses, quasi tuba exalta vocem tuam (Isaiae. LVIII, 1). Praeconis quippe officium suscipit, quisquis ad sacerdotium accedit, ut ante adventum judicis qui terribiliter sequitur, ipse scilicet clamando gradiatur. Sacerdos ergo si praedicationis est nescius, quam clamoris vocem daturus est praeco mutus? Hinc est enim quod super Pastores primos in linguarum specie Spiritus sanctus insedit (Act. II, 3); quia nimirum quos repleverit, de se protinus loquentes facit. Hinc Moysi praecipitur ut tabernaculum sacerdos ingrediens, tintinnabulis ambiatur (Exod. XXVIII, 33), ut videlicet voces praedicationis habeat, ne superni spectatoris judicium ex silentio offendat. Scriptum quippe est: Ut audiatur sonitus quando ingreditur et egreditur sanctuarium in conspectu Domini, et non moriatur (Ibid., 35). Sacerdos namque ingrediens vel egrediens moritur, si de eo sonitus non auditur, quia iram contra se occulti judicis exigit, si sine praedicationis sonitu incedit. Apte autem tintinnabula vestimentis illius describuntur inserta. Vestimenta etenim sacerdotis quid aliud quam recta opera debemus accipere? Propheta attestante qui ait: Sacerdotes tui induantur justitiam (Psalm. CXXXI, 9). Vestimentis itaque illius tintinnabula inhaerent, ut vitae viam cum linguae sonitu ipsa quoque sacerdotis opera clament. Sed cum rector se ad loquendum praeparat, sub quanto cautelae studio loquatur attendat, ne si inordinate ad loquendum rapitur, erroris vulnere audientium corda feriantur, et cum fortasse sapiens videri desiderat, unitatis compagem insipienter abscidat. Hinc namque Veritas dicit: Habete sal in vobis, et pacem habete inter vos (Marc. IX, 49). Per sal quippe, verbi sapientia designatur. Qui igitur loqui sapienter nititur, magnopere metuat ne ejus eloquio audientium unitas confundatur. Hinc Paulus ait: Non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem (Rom. XII, 3). Hinc in sacerdotis veste juxta divinam vocem tintinnabulis mala punica

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92 conjunguntur (Exod. XXVIII, 34). Quid enim per mala punica, nisi fidei unitas designatur? Nam sicut in malo punico, uno exterius cortice multa interius grana muniuntur; sic innumeros sanctae Ecclesiae populos unitas fidei contegit, quos intus diversitas meritorum tenet. Ne igitur rector incautus ad loquendum proruat, hoc quod jam praemisimus, per semetipsam Veritas discipulis clamat: Habete sal in vobis, et pacem habete inter vos (Marc. IX, 49). Ac si figurate per habitum sacerdotis dicat: Mala punica tintinnabulis jungite, ut per omne quod dicitis, unitatem fidei cauta observatione teneatis. Providendum quoque est sollicita intentione rectoribus ut ab eis non solum prava nullo modo, sed ne recta quidem nimie et inordinate proferantur; quia saepe dictorum virtus perditur, cum apud corda audientium loquacitatis incauta importunitate levigatur; et auctorem suum haec eadem loquacitas inquinat, quae servire auditoribus ad usum profectus ignorat. Unde bene per Moysen dicitur: Vir qui fluxum seminis patitur, immundus erit (Levit. XV, 2). In mente quippe audientium semen secuturae cogitationis est auditae qualitas locutionis, quia dum per aurem sermo coneipitur, cogitatio in mente generatur. Unde et ab hujus mundi sapientibus praedicator egregius seminiverbius est vocatus (Act. XVII, 18). Qui ergo fluxum seminis sustinet, immundus asseritur, quia multiloquio subditus, ex eo se inquinat, quod si ordinate promeret, prolem rectae cogitationis edere in audientium corda potuisset; dumque incautus per loquacitatem diffluit, non ad usum generis, sed ad immunditiam semen effundit. Unde Paulus quoque cum discipulum de instantia praedicationis admoneret, dicens: Testificor coram Deo et Christo Jesu, qui judicaturus est vivos et mortuos, per adventum ipsius et regnum ejus, praedica verbum, insta opportune, importune (II Tim. IV, 1); dicturus importune, praemisit opportune, quia scilicet apud auditoris mentem ipsa sua vilitate se destruit, si habere importunitas opportunitatem nescit.

CAPUT V Ut sit rector singulis compassione proximus, prae cunctis contemplatione supsensus. Sit rector singulis compassione proximus, prae cunctis contemplatione suspensus, ut et per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat, et per speculationis altitudinem semetipsum quoque invisibilia appetendo transcendat, ne aut alta petens, proximorum infirma despiciat, aut infirmis proximorum congruens, appetere alta derelinquat (II Cor. XII, 3). Hinc est namque quod Paulus in paradisum ducitur, coelique tertii secreta rimatur, et tamen illa invisibilium contemplatione suspensus, ad cubile carnalium aciem mentis revocat, atque in occultis suis qualiter debeant conversari dispensat, dicens: Propter fornicationem autem unusquisque suam uxorem habeat, et unaquaeque suum virum habeat. Uxori vir debitum reddat; similiter autem et uxor viro (I Cor. VII, 2). Et paulo post (Ibid., 5): Nolite fraudare invicem, nisi forte ex consensu ad tempus, ut vacetis orationi; et iterum revertimini in idipsum, ne tentet vos Satanas. Ecce jam coelestibus secretis inseritur, et tamen per condescensionis viscera carnalium cubile perscrutatur; et quem sublevatus ad invisibilia erigit, hunc miseratus ad secreta infirmantium oculum cordis flectit. Coelum contemplatione transcendit, nec tamen stratum carnalium sollicitudine deserit, quia compage charitatis summis simul, et infimis junctus, et in semetipso virtute spiritus ad alta valenter rapitur, et pietate in aliis aequanimiter infirmatur. Hinc etenim dicit: Quis infirmatur, et ego non infirmor? quis scandalizatur, et ego non uror (II Cor., XI, 29)? Hinc rursus ait: Factus sum Judaeis tanquam Judaeus (I Cor. IX, 20). Quod videlicet exhibebat non amittendo fidem, sed extendendo pietatem, ut in se personam infidelium transfigurans, ex semetipso disceret qualiter aliis misereri debuisset, quatenus hoc illis impenderet, quod sibi ipse, si ita esset, impendi recte voluisset. Hinc iterum dicit: Sive mente excedimus, Deo; sive sobrii sumus, vobis (II Cor. V, 13); quia et semetipsum noverat contemplando transcendere, et eumdem se auditoribus condescendendo temperare. Hinc Jacob Domino desuper innitente, et uncto deorsum lapide, ascendentes ac descendentes angelos vidit (Gen. XXVIII, 12); quia scilicet praedicatores recti non solum sursum sanctum caput Ecclesiae, videlicet Dominum, contemplando appetunt, sed deorsum quoque ad membra illius miserando descendunt. Hinc Moyses crebro tabernaculum intrat et exit; et qui intus in

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93 contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur. Intus Dei arcana considerat, foris onera carnalium portat. Qui de rebus quoque dubiis semper ad tabernaculum recurrit, coram testamenti arca Dominum consulit: exemplum proculdubio rectoribus praebens, ut cum foris ambigunt quid disponant, ad mentem semper quasi ad tabernaculum redeant; et velut coram testamenti arca Dominum consulant, si de his in quibus dubitant apud semetipsos intus sacri eloquii paginas requirant. Hinc ipsa Veritas per susceptionem nostrae humanitatis nobis ostensa, in monte orationi inhaeret, miracula in urbibus exercet (Luc. VI, 12); imitationis videlicet viam bonis rectoribus sternens; ut etsi jam summa contemplando appetunt, necessitatibus tamen infirmantium compatiendo misceantur, quia tunc ad alta charitas mirabiliter surgit, cum ad ima proximorum se misericorditer attrahit; et quo benigne descendit ad infirma, valenter recurrit ad summa. Tales autem sese qui praesunt exhibeant, quibus subjecti occulta quoque sua prodere non erubescant; ut cum tentationum fluctus parvuli tolerant, ad Pastoris mentem quasi ad matris sinum recurrant; et hoc quod se inquinari pulsantis culpae sordibus praevident, exhortationis ejus solatio, ac lacrymis orationis lavent. Unde et ante fores templi ad abluendas ingredientium manus mare aeneum, id est luterem, duodecim boves portant (III Reg. VII, 23, seq.): qui quidem facie exterius eminent, sed ex posterioribus latent. Quid namque duodecim bobus, nisi universus pastorum ordo designatur? De quibus Paulo disserente lex dicit: Non obturabis os bovi trituranti (I Cor. IX, 9; ex Deuteron. XXV, 4). Quorum quidem nos aperta opera cernimus, sed apud districtum judicem quae illos posterius maneant in occulta retributione nescimus. Qui tamen cum condescensionis suae patientiam diluendis proximorum confessionibus praeparant, velut ante fores templi luterem portant; ut quisquis intrare aeternitatis januam nititur, tentationes suas menti pastoris indicet, et quasi in boum lutere cogitationis vel operis manus lavet. Et fit plerumque ut dum rectoris animus aliena tentamenta condescendendo cognoscit, auditis tentationibus etiam ipse pulsetur, quia et haec eadem per quam populi multitudo diluitur, aqua proculdubio luteris inquinatur. Nam dum sordes diluentium suscipit, quasi suae munditiae serenitatem perdit. Sed haec nequaquam pastori timenda sunt, quia Deo subtiliter cuncta pensante, tanto facilius a sua eripitur, quanto misericordius ex aliena tentatione fatigatur.

CAPUT VI Ut sit rector bene agentibus per humilitatem socius, contra delinquentium vitia per zelum justitiae erectus. Sit rector bene agentibus per humilitatem socius, contra delinquentium vitia per zelum justitiae erectus; ut et bonis in nullo se praeferat, et cum pravorum culpa exigit, potestatem protinus sui prioratus agnoscat, quatenus et honore suppresso aequalem se subditis bene viventibus deputet, et erga perversos jura rectitudinis exercere non formidet. Nam sicut in libris Moralibus dixi se me memini (Lib. XXI, Moral., cap. 10, nunc n. 22), liquet quod omnes homines natura aequales genuit, sed variante meritorum ordine alios aliis culpa postponit. Ipsa autem diversitas quae accessit ex vitio, divino judicio dispensatur; ut quia omnis homo aeque stare non valet, alter regatur ab altero. Unde cuncti qui praesunt, non in se potestatem debent ordinis, sed aequalitatem pensare conditionis; nec praeesse se hominibus gaudeant, sed prodesse. Antiqui etenim patres nostri non reges hominum, sed pastores pecorum fuisse memorantur. Et cum Noe Dominus filiisque ejus diceret: Crescite et multiplicamini, et replete terram (Gen. IX, 21), protinus adjunxit: Et terror vester ac tremor sit super cuncta animalia terrae. Quorum videlicet terror ac tremor, quia esse super animalia terrae praecipitur, profecto esse super homines prohibetur. Homo quippe brutis animalibus, non autem hominibus caeteris natura praelatus est; et idcirco ei dicitur ut ab animalibus et non ab hominibus timeatur, quia contra naturam superbire est ab aequali velle timeri. Et tamen necesse est ut rectores a subditis timeantur, quando ab eis Deum minime timeri deprehendunt; ut humana saltem formidine peccare metuant, qui divina judicia non formidant. Nequaquam namque praepositi ex hoc quaesito timore superbiunt, in quo non suam gloriam, sed subditorum justitiam quaerunt. In eo enim quod

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94 metum sibi a perverse viventibus exigunt, quasi non hominibus, sed animalibus dominantur, quia videlicet ex qua parte bestiales sunt subditi, ex ea debent etiam formidini jacere substrati. Sed plerumque rector eo ipso quo caeteris praeeminet, elatione cogitationis intumescit, et dum ad usum cuncta subjacent, dum ad votum velociter jussa complentur, dum omnes subditi, si qua bene gesta sunt, laudibus efferunt, male gestis autem nulla auctoritate contradicunt, dum plerumque laudant etiam quod reprobare debuerant, seductus ab his quae infra suppetunt, super se animus extollitur; et dum foris immenso favore circumdatur, intus veritate vacuatur, atque oblitus sui in voces se spargit alienas, talemque se credit, qualem se foris audit, non qualem intus descernere debuit. Subjectos despicit, eosque aequales sibi naturae ordine non agnoscit; et quos sorte potestatis excesserit, transcendisse se etiam vitae meritis credit. Cunctis se aestimat amplius sapere, qubius se videt amplius posse. In quodam quippe se constituit culmine apud semetipsum, et qui aequa caeteris naturae conditione constringitur, ex aequo respicere caeteros dedignatur; sicque usque ad ejus similitudinem ducitur, de quo scriptum est: Omne sublime videt, et ipse est rex super universos filios superbiae (Job XLI, 25). Qui singulare culmen appetens, et socialem angelorum vitam despiciens, ait: Ponam sedem meam ad Aquilonem, et ero similis Altissimo (Isai. XIV, 13). Miro ergo judicio intus foveam dejectionis invenit, dum foris se in culmine potestatis extollit. Apostatae quippe angelo similis efficitur, dum homo hominibus esse similis dedignatur. Sic Saul post humilitatis meritum in tumorem superbiae culmine potestatis excrevit: per humilitatem quippe praelatus est, per superbiam reprobatus, Domino attestante, qui ait: Nonne cum esses parvulus in oculis tuis, caput te constitui in tribubus Israel? (I Reg. XV, 17.) Parvulum se in suis prius oculis viderat, sed fultus temporali potentia, jam se parvulum non videbat. Caeterorum namque comparationi se praeferens, quia plus cunctis poterat, magnum se prae omnibus aestimabat. Miro autem modo cum apud se parvulus, apud Deum magnus; cum vero apud se magnus apparuit, apud Deum parvulus fuit. Plerumque ergo dum ex subjectorum affluentia animus inflatur, in fluxum superbiae ipso potentiae fastigio lenocinante corrumpitur. Quam videlicet potentiam bene regit, qui et tenere illam noverit et impugnare. Bene hanc regit, qui scit per illam super culpas erigi, et scit cum illa caeteris aequalitate componi. Humana etenim mens plerumque extollitur, etiam cum nulla potestate fulcitur; quanto magis in altum se erigit, cum se ei etiam potestas adjungit? Quam tamen potestatem recte dispensat qui sollicite noverit et sumere ex illa quod adjuvat, et expugnare quod tentat, et aequalem se cum illa caeteris cernere, et tamen se peccantibus zelo ultionis anteferre. Sed hanc discretionem plenius agnoscimus, si Pastoris primi exempla cernamus. Petrus namque auctore Deo sanctae Ecclesiae principatum tenens, a bene agente Cornelio, et sese ei humiliter prosternente, immoderatius venerari recusavit, seque illi similem recognovit, dicens: Surge, ne feceris, et ego ipse homo sum (Act. X, 26). Sed cum Ananiae et Sapphirae culpam reperit (Act. V, 5), mox quanta potentia super caeteros excrevisset ostendit. Verbo namque eorum vitam perculit, quam spiritu perscrutante, deprehendit: et summum se intra Ecclesiam contra peccata recoluit, quod honore sibi vehementer impenso coram bene agentibus fratribus non agnovit. Illic communionem aequalitatis meruit sanctitas actionis, hic zelus ultionis jus aperuit potestatis. Paulus bene agentibus fratribus praelatum se esse nesciebat, cum diceret: Non quia dominamur fidei vestrae, sed adjutores sumus gaudii vestri (II Cor. I, 23). Atque illico adjunxit: Fide enim statis. Ac si id quod protulerat aperiret, dicens: Ideo non dominamur fidei vestrae, quia fide statis; aequales enim vobis sumus in quo vos stare cognoscimus. Quasi praelatum se fratribus esse nesciebat, cum diceret: Facti sumus parvuli in medio vestrum (I Thess. II, 7). Et rursum: Nos autem servos vestros per Christum (II Cor. IV, 5). Sed cum culpam quae corrigi debuisset invenit, illico magistrum se esse recoluit, dicens, Quid vultis? In virga veniam ad vos (I Cor. IV, 21). Summus itaque locus bene regitur, cum is qui praeest, vitiis potius quam fratribus dominatur. Sed cum delinquentes subditos praepositi corrigunt, restat necesse est ut sollicite attendant, quatenus per disciplinae debitum culpas quidem jure potestatis feriant, sed per humilitatis custodiam aequales se ipsis fratribus qui corriguntur, agnoscant: quamvis plerumque etiam dignum est ut eosdem quos

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95 corrigimus, tacita nobis cogitatione praeferamus. Illorum namque per nos vitia disciplinae vigore feriuntur, in his vero quae ipsi committimus, ne verbi quidem ab aliquo invectione laceramur. Tanto ergo apud Dominum obligatiores sumus, quanto apud homines inulte peccamus. Disciplina autem nostra subditos divino judicio tanto liberiores reddit, quanto hic eorum culpas sine vindicta non deserit. Servanda itaque est et in corde humilitas, et in opere disciplina. Atque inter haec solerter intuendum est, ne dum immoderatius custoditur virtus humilitatis, solvantur jura regiminis; et dum praelatus quisque plus se quam decet dejicit, subditorum vitam stringere sub disciplinae vinculo non possit. Teneant ergo rectores exterius quod pro aliorum utilitate suscipiunt; servent interius quod de sua aestimatione pertimescunt. Sed tamen quibusdam signis decenter erumpentibus, eos apud se esse humiles etiam subjecti deprehendant, quatenus et in auctoritate eorum quod formident videant, et de humilitate quod imitentur agnoscant. Studeant igitur sine intermissione qui praesunt, ut eorum potentia quanto magna exterius cernitur, tanto apud eos interius deprimatur, ne cogitationem vincat, ne in delectationem sui animum rapiat, ne jam sub se mens eam regere non possit, cui se libidine dominandi supponit. Ne enim praesidentis animus ad elationem potestatis suae delectatione rapiatur, recte per quemdam sapientem dicitur: Ducem te constituerunt, noli extolli, sed esto in illis quasi unus ex illis (Eccli. XXXII, 1). Hinc etiam Petrus ait: Non dominantes in clero, sed forma facti gregis (I Petr. V, 3). Hinc per semetipsam Veritas ad altiora nos virtutum merita provocans, dicit: Scitis quia principes gentium dominantur eorum, et qui majores sunt, potestatem exercent in eos. Non ita erit inter vos, sed quicunque voluerit inter vos major fieri, sit vester minister; et qui voluerit inter vos primus esse, erit vester servus: sicut Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare (Matth. XX, 25, seq.). Hinc est quod servum ex suscepto regimine elatum, quae post supplicia maneant, indicat, dicens: Quod si dixerit mallus ille servus in corde suo: Moram facit Dominus meus venire, et coeperit percutere conservos suos, manducet autem et bibat cum ebriis; veniet dominus servi illius, in die qua non sperat, et hora qua ignorat, et dividet eum, partemque ejus ponet cum hypocritis (Matth. XXIV, 48 seq.). Inter hypocritas enim jure deputatur, qui ex simulatione disciplinae ministerium regiminis vertit in usum dominationis; et tamen nonnunquam gravius delinquitur si inter perversos plus aequalitas quam disciplina custoditur. Quia enim falsa pietate superatus ferire Heli delinquentes filios noluit, apud districtum judicem semetipsum cum filiis crudeli damnatione percussit (I Reg. IV, 17, 18). Hinc namque divina ei voce dicitur: Honorasti filios tuos magis quam me (Ibid., II, 29). Hinc pastores increpat per prophetam, dicens: Quod fractum est non alligastis, et quod abjectum est non reduxistis (Ezech. XXXIV, 4). Abjectus enim reducitur cum quisque in culpa lapsus, ad statum justitiae ex pastoralis sollicitudinis vigore revocatur. Fracturam vero ligamen astringit, cum culpam disciplina deprimit, ne plaga usque ad interitum defluat, si hanc districtionis severitas non coarctat. Sed saepe deterius frangitur, cum fractura incaute colligatur, ita ut gravius scissuram sentiat, si hanc immoderatius ligamenta constringant. Unde necesse est ut cum peccati vulnus in subditis corrigendo restringitur, magna se sollicitudine etiam districtio ipsa moderetur, quatenus sic jura disciplinae contra delinquentes exerceat, ut pietatis viscera non amittat. Curandam quippe est ut rectorem subditis et matrem pietas, et patrem exhibeat disciplina. Atque inter haec sollicita circumspectione providendum, ne aut districtio rigida, aut pietas sit remissa. Nam sicut in libris Moralibus jam diximus (Lib. XX Moral., n. 14, c. 8, et epist. 25, lib. I), disciplina vel misericordia multum destituitur, si una sine altera teneatur. Sed erga subditos suos inesse rectoribus debet et juste consulens misericordia, et pie saeviens disciplina. Hinc namque est quod docente Veritate (Luc. X, 34), per Samaritani studium semivivus in stabulum ducitur, et vinum atque oleum vulneribus ejus adhibetur, ut per vinum scilicet mordeantur vulnera, per oleum foveantur. Necesse quippe est ut quisquis sanandis vulneribus praeest, in vino morsum doloris adhibeat, in oleo mollitiem pietatis, quatenus per vinum mundentur putrida, per oleum foveantur sananda. Miscenda ergo est lenitas cum severitate; faciedum quoddam ex utroque temperamentum, ut neque multa asperitate exulcerentur subditi, neque nimia benignitate solvantur. Quod juxta Pauli vocem (Hebr. IX, 4) bene illa tabernaculi arca significat, in qua cum tabulis virga simul et manna est; quia cum Scripturae sacrae scientia in boni rectoris pectore, si est virga districtionis, sit et manna dulcedinis. Hinc David

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96 ait: Virga tua et baculus tuus, ipsa me consolata sunt (Psal. XXII, 4). Virga enim percutimur, baculo sustentamur. Si ergo est districtio virgae quae feriat, sit et consolatio baculi quae sustentet. Sit itaque amor, sed non emolliens; sit vigor, sed non exasperans; sit zelus, sed non immoderate saeviens; sit pietas, sed non plus quam expediat parcens; ut dum se in arce regiminis justitia clementiaque permiscet, is qui praeest corda subditorum et terrendo demulceat, et tamen ad terroris reverentiam demulcendo constringat.

CAPUT VII Ut sit rector internorum curam in exteriorum occupatione non minuens, exteriorum providentiam in internorum sollicitudine non relinquens. Sit rector internorum curam in exteriorum occupatione non minuens, exteriorum providentiam in internorum sollicitudine non relinquens; ne aut exterioribus deditus ab intimis corruat, aut solis interioribus occupatus, quae foris debet proximis non impendat. Saepe namque nonnulli velut obliti quod fratribus animarum causa praelati sunt, toto cordis adnisu saecularibus curis inserviunt: has, cum adsunt, se agere exsultant; ad has etiam cum desunt, diebus ac noctibus cogitationis turbidae aestibus anhelant. Cumque ab his, cessante forsitan opportunitate, quieti sunt, ipsa deterius sua quiete fatigantur. Voluptatem namque censent si actionibus deprimuntur, laborem deputant si in terrenis negotiis non laborant. Sicque fit, ut dum se urgeri mundanis tumultibus gaudent, interna quae alios docere debuerant ignorent. Unde subjectorum quoque proculdubio vita torpescit, quia cum proficere spiritaliter appetit, in exemplo ejus qui sibi praelatus est, quasi in obstaculo itineris offendit. Languente enim capite membra incassum vigent, et in exploratione hostium frustra exercitus velociter sequitur, si ab ipso duce itineris erratur. Nulla subditorum mentes exhortatio sublevat, eorumque culpas increpatio nulla castigat; quia dum per animarum praesulem terreni exercetur officium judicis, a gregis custodia vacat cura pastoris; et subjecti veritatis lumen apprehendere nequeunt, quia dum pastoris sensus terrena studia occupant, vento tentationis impulsus Ecclesiae oculos pulvis caecat. Quo contra recte humani generis Redemptor, cum nos a ventris voracitate compesceret, dicens: Attendite autem vobis, ut non graventur corda vestra in crapula et ebrietate (Luc. XXI, 34), illico adjunxit: Aut in curis hujus vitae. Ubi pavorem quoque protinus intente adjiciens: Ne forte, inquit, superveniat in vos repentina dies illa (Ibid.). Cujus adventus etiam qualitatem denuntiat, dicens: Tanquam laqueus enim veniet super omnes qui sedent super faciem omnis terrae (Ibid., 35). Hinc iterum dicit: Nemo potest duobus dominis servire (Luc. XVI, 13). Hinc Paulus religiosorum mentes a mundi consortio contestando, ac potius conveniendo suspendit, dicens: Nemo militans Deo implicat se negotiis saecularibus, ut ei placeat cui se probavit (II Tim. II, 4). Hinc Ecclesiae rectoribus et vacandi studia praecipit, et consulendi remedia ostendit, dicens: Saecularia igitur judicia si habueritis, contemptibiles qui sunt in Ecclesia, illos constituite ad judicandum (I Cor. VI, 14); ut ipsi videlicet dispensationibus terrenis inserviant, quos dona spiritalia non exornant. Ac si apertius dicat: Quia penetrare intima nequeunt, saltem necessaria foris operentur. Hinc Moyses, qui cum Deo loquitur (Exod. XVIII, 17, 18), Jethro alienigenae reprehensione judicatur, quod terrenis populorum negotiis stulto labore deserviat: cui et consilium mox praebetur, ut pro se alios ad jurgia dirimenda constituat, et ipse liberius ad erudiendos populos spiritalium arcana cognoscat. A subditis ergo inferiora gerenda sunt, a rectoribus summa cogitanda; ut scilicet oculum, qui praevidendis gressibus praeeminet, cura pulveris non obscuret. Caput namque subjectorum sunt cuncti qui praesunt; et ut recta pedes valeant itinera carpere, haec proculdubio caput debet ex alto providere, ne a provectus sui itinere pedes torpeant, cum curvata rectitudine corporis caput sese ad terram declinat. Qua autem mente animarum praesul honore pastorali inter caeteros utitur, si in terrenis negotiis quae reprehendere in aliis debuit, et ipse versatur? Quod videlicet ex ira justae retributionis per prophetam Dominus minatur, dicens: Et erit sicut populus, sic sacerdos (Oseae IV,

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97 9). Sacerdos quippe est ut populus, quando ea agit is qui spiritali officio fungitur, quae illi nimirum faciunt qui adhuc de studiis carnalibus judicantur. Quod cum magno scilicet dolore charitatis Jeremias propheta conspiciens, quasi sub destructione templi deplorat, dicens: Quomodo obscuratum est aurum, mutatus est color optimus, dispersi sunt lapides sanctuarii in capite omnium platearum (Thren. IV, 1)? Quid namque auro, quod metallis caeteris praeeminet, nisi excellentia sanctitatis? Quid colore optimo, nisi cunctis amabilis reverentia religionis exprimitur? Quid sanctuarii lapidibus, nisi sacrorum ordinum personae signantur? Quid platearum nomine, nisi praesentis vitae latitudo figuratur? Quia enim Graeco eloquio “πλατος” latitudo dicitur, profecto a latitudine plateae sunt vocatae. Per semetipsam vero Veritas dicit: Lata et spatiosa via est quae ducit ad perditionem (Matth. VII, 13). Aurum igitur obscuratur, cum terrenis actibus sanctitatis vita polluitur. Color optimus commutatur, cum quorumdam qui degere religiose credebantur, aestimatio anteacta minuitur. Nam cum quilibet post sanctitatis habitum terrenis se actibus inserit, quasi colore permutato ante humanos oculos ejus reverentia despecta pallescit. Sanctuarii quoque lapides in plateas disperguntur, cum causarum secularium foras lata itinera expetunt hi qui ad ornamentum Ecclesiae internis mysteriis quasi in secretis tabernaculi vacare debuerunt. Ad hoc quippe sanctuarii lapides fiebant, ut intra sancta sanctorum in vestimento summi sacerdotis apparerent. Cum vero ministri religionis a subditis honorem Redemptoris sui ex merito vitae non exigunt, sanctuarii lapides in ornamento pontificis non sunt. Qui nimirum sanctuarii lapides dispersi per plateas jacent, cum personae sacrorum ordinum voluptatum suarum latitudini deditae, terrenis negotiis inhaerent. Et notandum quod non hos dispersos in plateis, sed in capite platearum dicit; quia et cum terrena agunt, summi videri appetunt, ut et lata itinera teneant ex voluptate delectationis, et tamen in platearum sint capite ex honore sanctitatis. Nil quoque obstat si sanctuarii lapides eosdem ipsos quibus constructum sanctuarium existebat accipimus: qui dispersi in platearum capite jacent. quando sacrorum ordinum viri terrenis actibus ex desiderio inserviunt, ex quorum prius officio sanctitatis gloria stare videbatur. Saecularia itaque negotia aliquando ex compassione toleranda sunt, numquam vero ex amore requirenda; ne cum mentem diligentis aggravant, hanc suo victam pondere ad ima de coelestibus mergant. At contra, nonnulli gregis quidem curam suscipiunt, sed sic sibimet vacare ad spiritalia appetunt, ut rebus exterioribus nullatenus occupentur. Qui cum curare corporalia funditus negligunt, subditorum necessitatibus minime concurrunt. Quorum nimirum praedicatio plerumque despicitur; quia dum delinquentium facta corripiunt, sed tamen eis necessaria praesentis vitae non tribuunt, nequaquam libenter audiuntur. Egentis etenim mentem doctrinae sermo non penetrat, si hunc apud ejus animum manus misericordiae non commendat. Tunc autem verbi semen facile germinat, quando hoc in audientis pectore pietas praedicantis rigat. Unde rectorem necesse est ut interiora possit infundere, cogitatione innoxia etiam exteriora providere. Sic itaque Pastores erga interiora studia subditorum suorum ferveant, quatenus in eis exterioris quoque vitae providentiam non relinquant. Nam quasi jure, ut diximus, a percipienda praedicatione gregis animus frangitur, si cura exterioris subsidii a pastore negligatur. Unde et primus pastor sollicite admonet, dicens: Seniores qui in vobis sunt, obsecro consenior et testis Christi passionum, qui et ejus quae in futuro revelanda est, gloriae communicatur, pascite qui in vobis est gregem Dei (I Pet. V, 1). Qui hoc in loco pastionem cordis an corporis suaderet aperuit, cum protinus adjunxit: Providentes non coacte, sed spontanee secundum Deum, neque turpis lucri gratia, sed voluntarie. Quibus profecto verbis pastoribus pie praecavetur, ne dum subjectorum inopiam satiant, se mucrone ambitionis occidant, ne cum per eos carnis subsidiis reficiuntur proximi, ipsi remaneant a justitiae pane jejuni. Hanc Pastorum sollicitudinem Paulus excitat, dicens: Qui suorum, et maxime domesticorum curam non habet, fidem negavit, et est infideli deterior (I Tim. V, 8). Inter haec itaque metuendum semper est, et vigilanter intuendum, ne dum cura ab eis exterior agitur, ab interna intentione mergantur. Plerumque enim, ut praediximus, corda rectorum dum temporali sollicitudini incaute deserviunt, ab intimo amore frigescunt; et foras fusa oblivisci non metuunt, quia animarum regimina susceperunt. Sollicitudo ergo quae subditis exterius impenditur, sub certa necesse est mensura teneatur. Unde bene ad Ezechielem dicitur: Sacerdotes caput suum non radent, neque comam nutrient, sed

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98 tondentes attondeant capita sua (Ezech. XLIV, 20). Sacerdotes namque jure vocati sunt, qui ut sacrum ducatum praebeant, fidelibus praesunt. Capilli vero in capite, exteriores sunt cogitationes in mente: qui dum super cerebrum insensibiliter oriuntur, curas vitae praesentis designant; quae ex sensu negligenti, quia importune aliquando prodeunt, quasi nobis non sentientibus procedunt. Quia igitur cuncti qui praesunt, habere quidem sollicitudines exteriores debent, nec tamen eis vehementer incumbere, sacerdotes recte et caput prohibentur radere, et comam nutrire; ut cogitationes carnis de vita subditorum nec a se funditus amputent, nec rursum ad crescendum nimis relaxent. Ubi et bene dicitur: Tondentes tondeant capita sua (Ibid.); ut videlicet curae temporalis sollicitudinis et quantum necesse est prodeant, et tamen recidantur citius, ne immoderatius excrescant. Dum igitur et per administratam exteriorem providentiam corporum vita protegitur, et rursus per moderatam cordis intentionem non impeditur, capilli in capite sacerdotis et servantur ut cutem cooperiant, et resecantur ne oculos claudant.

CAPUT VIII Ne placere rector suo studio hominibus appetat, sed tamen ad quod placere debeat, intendat. Inter haec quoque necesse est ut rector solerter invigilet, ne hunc cupido placendi hominibus pulset; ne cum studiose interiora penetrat, cum provide exteriora subministrat, se magis a subditis diligi quam veritatem quaerat; ne cum, bonis actibus fultus, a mundo videtur alienus, hunc auctori reddat extraneum amor suus. Hostis namque Redemptoris est, qui per recta opera quae facit, ejus vice ab Ecclesia amari concupiscit, quia adulterinae cogitationis reus est, si placere puer sponsae oculis appetit, per quem sponsus dona transmisit. Qui nimirum amor proprius cum rectoris mentem ceperit, aliquando hanc inordinate ad mollitiem, aliquando vero ad asperitatem rapit. Ex amore etenim suo mens rectoris in mollitiem vertitur; quia cum peccantes subditos respicit, ne erga hunc eorum dilectio torpeat, corripere non praesumit; nonnunquam vero errata subditorum quae increpare debuerat, adulationibus demulcet. Unde bene per prophetam dicitur: Vae his qui consuunt pulvillos sub omni cubito manus, et faciunt cervicalia sub capite universae aetatis ad capiendas animas (Ezech. XIII, 18). Pulvillos quippe sub omni cubito manus ponere, est cadentes a sua rectitudine animas, atque in hujus mundi se delectatione reclinantes, blanda adulatione refovere. Quasi enim pulvillo cubitus, vel cervicalibus caput jacentis excipitur, cum correptionis duritia peccanti subtrahitur, eique mollities favoris adhibetur, ut in errore molliter jaceat, quem nulla asperitas contradictionis pulsat. Sed haec rectores, qui semetipsos diligunt, his procul dubio exhibent, a quibus se noceri posse in studio gloriae temporalis timent. Nam quos nil contra se valere conspiciunt, hos nimirum asperitate rigidae semper invectionis premunt, nunquam clementer admonent, sed pastoralis mansuetudinis obliti, jure dominationis terrent. Quos recte per prophetam divina vox increpat, dicens: Vos autem cum austeritate imperabatis eis et cum potentia (Ezech. XXXIV, 4). Plus enim se suo auctore diligentes, jactanter erga subditos se erigunt, nec quid agere debeant, sed quid valeant attendunt; nil de subsequenti judicio metuunt, improbe de temporali potestate gloriantur; libet ut licenter et illicita faciant, et subditorum nemo contradicat. Qui ergo et prava studet agere, et tamen ad haec vult caeteros tacere, ipse sibimet testis est, quia plus veritate se appetit diligi, quam contra se non vult defendi. Nemo quippe est qui ita vivat, ut aliquatenus non delinquat. Ille ergo se ipso amplius veritatem desiderat amari, qui sibi a nullo vult contra veritatem parci. Hinc etenim Petrus increpationem Pauli libenter accepit (Galat. II, 11); hinc David correptionem subditi humiliter audivit (II Reg. XII, 7); quia rectores boni dum privato diligere amore se nesciunt, liberae puritatis verbum a subditis obsequium humilitatis credunt. Sed inter haec necesse est ut cura regiminis tanta moderaminis arte temperetur, quatenus subditorum mens cum quaedam recte sentire potuerit, sic in vocis libertatem prodeat, ut tamen libertas in superbiam non erumpat; ne dum fortasse immoderatius linguae eis libertas conceditur, vitae ab his humilitas amittatur. Sciendum quoque est quod oporteat ut rectores boni placere hominibus appetant, sed ut suae aestimationis dulcedine proximos in affectum veritatis trahant, non ut se amari desiderent, sed

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99 ut dilectionem suam quasi quamdam viam faciant, per quam corda audientium ad amorem Conditoris introducant. Difficile quippe est, ut quamlibet recta denuntians praedicator qui non diligitur, libenter audiatur. Debet ergo qui praeest, et studere se diligi, quatenus possit audiri, et tamen amorem suum pro semetipso non quaerere, ne inveniatur ei cui servire per officium cernitur, occulta cogitationis tyrannide resultare. Quod bene Paulus insinuat, cum sui nobis studii occulta manifestat, dicens: Sicut et ego per omnia omnibus placeo (I Cor. X, 33). Qui tamen rursus dicit: Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem (Galat. I, 10). Placet ergo Paulus, et non placet, quia in eo quod placere appetit, non se, sed per se hominibus placere veritatem quaerit.

CAPUT IX Quod scire sollicite rector debet, quia plerumque vitia virtutes se esse mentiuntur. Scire etiam rector debet quod plerumque vitia virtutes se esse mentiuntur. Nam saepe sub parcimoniae nomine se tenacia palliat, contraque se effusio sub appellatione largitatis occultat. Saepe inordinata remissio pietas creditur, et effrenata ira spiritalis zeli virtus aestimatur. Saepe praecipitata actio velocitatis efficacia, atque agendi tarditas gravitatis consilium putatur. Unde necesse est ut rector animarum virtutes ac vitia vigilanti cura discernat, ne aut cor tenacia occupet, et parcum se videri in dispensationibus exsultet; aut cum effuse quid perditur, largum se quasi miserando glorietur; aut remittendo quod ferire debuit, ad aeterna supplicia subditos pertrahat; aut immaniter feriendo quod delinquitur, ipse gravius delinquat; aut hoc quod agi recte ac graviter potuit, immature praeveniens leviget; aut bonae actionis meritum differendo, ad deteriora permutet.

CAPUT X Quae esse debet rectoris discretio correptionis et dissimulationis, fervoris et mansuetudinis. Sciendum quoque est quod aliquando subjectorum vitia prudenter dissimulanda sunt, sed quia dissimulantur, indicanda; aliquando et aperte cognita, mature toleranda, aliquando vero subtiliter et occulta perscrutanda; aliquando leniter arguenda, aliquando autem vehementer increpanda. Nonnulla quippe, ut diximus, prudenter dissimulanda sunt, sed quia dissimulantur, indicanda; ut cum delinquens et deprehendi se cognoscit et perpeti, has quas in se tacite tolerari considerat, augere culpas erubescat, seque se judice puniat, quem sibi apud se rectoris patientia clementer excusat. Qua scilicet dissimulatione bene Judaeam Dominus corripit, cum per prophetam dicit: Mentita es, et mei non es recordata, neque cogitasti in corde tuo, quia ego tacens et quasi non videns (Isaiae LVII, 11). Et dissimulavit ergo culpas, et innotuit, quia et contra peccantem tacuit, et hoc ipsum tamen quia tacuerit dixit. Nonnulla autem vel aperte cognita, mature toleranda sunt, cum videlicet rerum minime opportunitas congruit, ut aperte corrigantur. Nam secta immature vulnera deterius infervescunt, et nisi cum tempore medicamenta conveniant, constat procul dubio quod medendi officium amittant. Sed cum tempus subditis ad correptionem quaeritur, sub ipso culparum pendere patientia praesulis exercetur. Unde bene per Psalmistam dicitur: Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores (Psal. CXXVIII, 3). In dorso quippe onera sustinemus. Supra dorsum igitur suum fabricasse peccatores queritur, ac si aperte dicat: Quos corrigere nequeo, quasi superimpositum onus porto. Nonnulla autem occulta subtiliter sunt perscrutanda, ut quibusdam signis erumpentibus, rector in subditorum mente omne quod clausum latet, inveniat, et interveniente correptionis articulo, ex minimis majora cognoscat. Unde recte ad Ezechielem dicitur: Fili hominis, fode parietem (Ezech. VIII, 8). Ubi mox idem propheta subjungit: Et cum fodissem parietem, apparuit ostium unum. Et dixit ad me: Ingredere, et vide abominationes pessimas, quas isti faciunt hic. Et ingressus vidi; et ecce omnis similitudo reptilium, et animalium abominatio, et universa idola domus Israel depicta

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100 erant in pariete (Ibid. 9, 10). Per Ezechielem quippe praepositorum persona signatur, per parietem duritia subditorum. Et quid est parietem fodere, nisi acutis inquisitionibus duritiam cordis aperire? Quem cum fodisset, apparuit ostium; quia cum cordis duritia vel studiosis percunctationibus, vel maturis correptionibus scinditur, quasi quaedam janua ostenditur, ex qua omnia in eo qui corripitur cogitationum interiora videantur. Unde et bene illic sequitur: Ingredere et vide abominationes pessimas, quas isti faciunt hic (Ibid.). Quasi ingreditur ut abominationes aspiciat, qui, discussis quibusdam signis exterius apparentibus, ita corda subditorum penetrat, ut cuncta ei quae illicite cogitantur innotescant. Unde et subdidit: Et ingressus vidi; et ecce omnis similitudo reptilium, et animalium abominatio (Ibid.). In reptilibus cogitationes omnino terrenae signantur, in animalibus vero jam quidem aliquantulum a terra suspensae, sed adhuc terrenae mercedis praemia requirentes. Nam reptilia toto ex corpore terrae inhaerent, animalia autem magna parte corporis a terra suspensa sunt, appetitu tamen gulae ad terram semper inclinantur. Reptilia itaque sunt intra parietem, quando cogitationes volvuntur in mente, quae a terrenis desideriis nunquam levantur. Animalia quoque sunt intra parietem, quando et si qua jam justa, si qua honesta cogitantur, appetendis tamen lucris temporalibus honoribusque deserviunt; et per semetipsa quidem jam quasi a terra suspensa sunt, sed adhuc per ambitum quasi per gulae desiderium sese ad ima submittunt. Unde et bene subditur: Et universa idola domus Israel depicta erant in pariete (Ezech. VIII, 10). Scriptum quippe est: Et avaritia, quae est idolorum servitus (Coloss. III, 5). Recte ergo post animalia, idola describuntur, quia etsi honesta actione nonnulli jam quasi a terra se erigunt, ambitione tamen inhonesta semetipsos ad terram deponunt. Bene autem dicitur, Depicta erant; quia dum exteriorum rerum intrinsecus species attrahuntur, quasi in corde depingitur quidquid fictis imaginibus deliberando, cogitatur. Notandum itaque est quia prius foramen in pariete, ac deinde ostium cernitur, et tunc demum occulta abominatio demonstratur; quia nimirum uniuscujusque peccati prius signa forinsecus, deinde janua apertae iniquitatis ostenditur, et tunc demum omne malum quod intus latet aperitur Nonnulla autem sunt leniter arguenda: nam cum non malitia, sed sola ignorantia vel infirmitate delinquitur, profecto necesse est ut magno moderamine ipsa delicti correptio temperetur. Cuncti quippe quousque in hac mortali carne subsistimus, corruptionis nostrae infirmitatibus subjacemus. Ex se ergo debet quisque colligere qualiter alienae hunc oporteat imbecillitati misereri, ne contra infirmitatem proximi si ad increpationis vocem ferventius rapitur, oblitus sui esse videatur. Unde bene Paulus admonet, dicens: Si praeoccupatus fuerit homo in aliquo delicto, vos qui spiritales estis, instruite hujusmodi in spiritu mansuetudinis, considerans teipsum, ne et tu tenteris (Galat. VI, 1). Ac si aperte dicat: Cum displicet ex aliena infirmitate quod conspicis, pensa quod es; ut in increpationis zelo se spiritus temperet, dum sibi quoque quod increpat timet. Nonnulla autem sunt vehementer increpanda, ut cum culpa ab auctore non cognoscitur, quanti sit ponderis, ab increpantis ore sentiatur. Et cum sibi quis malum quod perpetravit levigat, hoc contra se graviter ex corripientis asperitate pertimescat. Debitum quippe rectoris est supernae patriae gloriam per vocem praedicationis ostendere, quanta in hujus vitae itinere tentamenta antiqui hostis lateant aperire, et subditorum mala quae tolerari leniter non debent, cum magna zeli asperitate corrigere; ne si minus contra culpas accenditur, culparum omnium reus ipse teneatur. Unde bene ad Ezechielem dicitur: Sume tibi laterem, et pones eum coram te, et describes in eo civitatem Jerusalem (Ezech. IV, 1). Statimque subjungitur: Et ordinabis adversus eam obsidionem, et aedificabis munitiones, et comportabis aggerem, et dabis contra eam castra, et pones arietes in gyro. Eique ad munitionem suam protinus subinfertur: Et tu sume tibi sartaginem ferream, et pones eam in murum ferreum inter te et inter civitatem. Cujus enim Ezechiel propheta nisi magistrorum speciem tenet? Cui dicitur: Sume tibi laterem, et pones eum coram te, et describes in eo civitatem Jerusalem. Sancti quippe doctores sibi laterem sumunt, quando terrenum auditorum cor, ut doceant, apprehendunt. Quem scilicet laterem coram se ponunt, quia tota illud mentis intentione custodiunt.

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101 In quo et civitatem Jerusalem jubentur describere; quia praedicando terrenis cordibus curant summopere quae sit supernae pacis visio demonstrare. Sed quia incassum gloria patriae coelestis agnoscitur, nisi et quanta hic irruant hostis callidi tentamenta discantur, apte subjungitur: Et ordinabis adversus eam obsidionem, et aedificabis munitiones. Sancti quippe praedicatores obsidionem circa laterem, in quo Jerusalem civitas descripta est, ordinant, quando terrenae menti, sed jam supernam patriam requirenti, quanta eam in hujus vitae tempore vitiorum impugnet adversitas demonstrant. Nam cum unumquodque peccatum quomodo proficientibus insidietur ostenditur, quasi obsidio circa civitatem Jerusalem voce praedicatoris ordinatur. Sed quia non solum debent innotescere qualiter vitia impugnent, verum etiam quomodo custoditae nos virtutes roborent, recte subjungitur: Et aedificabis munitiones. Munitiones quippe sanctus praedicator aedificat, quando quae virtutes quibus resistant vitiis demonstrat. Et quia, crescente virtute, plerumque bella tentationis augentur, recte adhuc additur: Et comportabis aggerem, et dabis contra eam castra, et pones arietes in gyro. Aggerem namque comportat, quando praedicator quisque molem crescentis tentationis enuntiat. Et contra Jerusalem castra erigit, quando rectae intentioni audientium hostis callidi circumspectas et quasi incomprehensibiles insidias praedicit. Atque arietes in gyro ponit, cum tentationum aculeos in hac vita nos undique circumdantes, et virtutum murum perforantes innotescit. Sed cuncta haec licet subtiliter rector insinuet, nisi contra delicta singulorum aemulationis spiritu ferveat, nullam sibi in perpetuum absolutionem parat. Unde illic adhuc recte subjungitur: Et tu sume tibi sartaginem ferream, et pones eam murum ferreum inter te et inter civitatem. Per sartaginem quippe frixura mentis, per ferrum vero increpationis fortitudo signatur. Quid vero acrius doctoris mentem, quam zelus Dei frigit et excruciat? Unde Paulus hujus sartaginis urebatur frixura, cum diceret: Quis infirmatur, et ego non infirmor? quis scandalizatur, et ego non uror? (II Cor. XI, 29.) Et quia quisquis zelo Dei accenditur, ne damnari ex negligentia debeat, forti in perpetuum custodia munitur, recte dicitur: Pones eam murum ferreum inter te et civitatem. Sartago enim ferrea murus ferreus inter prophetam et civitatem ponitur; quia cum nunc fortem zelum rectores exhibent, eumdem zelum postmodum inter se et auditores suos fortem munitionem tenent; ne tunc ad vindictam destituti sint, si nunc fuerint in correptione dissoluti. Sed inter haec sciendum est quia dum ad increpationem se mens doctoris exasperat, difficile valde est ut non aliquando et ad aliquid quod dicere non debet erumpat. Et plerumque contingit ut dum culpa subditorum cum magna invectione corripitur, magistri lingua usque ad excessus verba pertrahatur. Cumque increpatio immoderate accenditur, corda delinquentium in desperatione deprimuntur. Unde necesse est ut exasperatus rector, cum subditorum mentem plus quam debuit percussisse considerat, apud se semper ad poenitentiam recurrat; ut per lamenta veniam in conspectu veritatis obtineat, ex eo etiam quod per zeli ejus studium peccat. Quod figurate Dominus per Moysen praecipit, dicens: Si quis abierit cum amico suo simpliciter in silvam ad ligna caedenda, et lignum securis fugerit manu, ferrumque lapsum de manubrio amicum ejus percusserit et occiderit, hic ad unam supradictarum urbium fugiet, et vivet; ne forte proximus ejus, cujus effusus est sanguis, doloris stimulo persequatur et apprehendat eum, et percutiat animam ejus (Deut. XIX, 4, 5). Ad silvam quippe cum amico imus, quoties ad intuenda subditorum delicta convertimur. Et simpliciter ligna succidimus, cum delinquentium vitia pia intentione resecamus. Sed securis manu fugit, cum sese increpatio plus quam necesse est in asperitatem pertrahit. Ferrumque de manubrio prosilit, cum de correptione sermo durior excedit. Et amicum percutit et occidit, quia auditorem suum prolata contumelia a spiritu dilectionis interficit. Correpti namque mens repente ad odium proruit, si hanc immoderata increpatio plus quam debuit addicit. Sed is qui incaute ligna percutit et proximum exstinguit, ad tres necesse est urbes fugiat, ut in una earum defensus vivat; quia si ad poenitentiae lamenta conversus, in unitate sacramenti sub spe et charitate absconditur, reus perpetrati homicidii non tenetur. Eumque exstincti proximus et cum invenerit non occidit; quia cum districtus judex venerit, qui sese nobis per naturae nostrae consortium junxit, ab eo proculdubio culpae reatum non expetit, quem sub ejus venia fides, spes, et charitas abscondit.

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CAPUT XI Quantum rector sacrae legis meditationibus esse debeat intentus. Sed omne hoc rite a rectore agitur, si supernae formidinis et dilectionis spiritu afflatus, studiose quotidie sacri eloquii praecepta meditetur; ut in eo vim sollicitudinis, et erga coelestem vitam providae circumspectionis, quam humanae conversationis usus indesinenter destruit, divinae admonitionis verba restaurent; et qui ad vetustatem vitae per societatem saecularium ducitur, ad amorem semper spiritalis patriae compunctionis aspiratione renovetur. Valde namque inter humana verba cor defluit; cumque indubitanter constet quod externis occupationum tumultibus impulsum a semetipso corruat, studere incessabiliter debet, ut per eruditionis studium resurgat. Hinc est enim quod praelatum gregi discipulum Paulus admonet, dicens: Dum venio attende lectioni (I Tim. IV, 13). Hinc David ait: Quomodo dilexi legem tuam, Domine, tota die meditatio mea est (Ps. CXVIII, 97). Hinc Moysi Dominus de portanda arca praecepit, dicens: Facies quatuor circulos aureos, quos pones per quatuor arcae angulos, faciesque vectes de lignis sethim, et operies auro, inducesque per circulos qui sunt in arcae lateribus, ut portetur in eis qui semper erunt in circulis, nec unquam extrahentur ab eis (Exod. XXV, 12, seq.). Quid per arcam, nisi sancta Ecclesia figuratur? Cui quatuor circuli aurei per quatuor angulos jubentur adjungi, quia in eo quod per quatuor mundi partes dilatata tenditur, procul dubio quatuor sancti Evangelii libris accincta praedicatur. Vectesque de lignis sethim fiunt, qui eisdem ad portandum circulis inseruntur; quia fortes perseverantesque doctores velut imputribilia ligna quaerendi sunt, qui instructioni sacrorum voluminum semper inhaerentes, sanctae Ecclesiae unitatem denuntient, et quasi intromissi circulis arcam portent. Vectibus quippe arcam portare, est bonis doctoribus sanctam Ecclesiam ad rudes infidelium mentes praedicando deducere. Qui auro quoque jubentur operiri, ut dum sermone aliis insonant, ipsi etiam vitae splendore fulgescant. De quibus apte subditur: Qui semper erunt in circulis, nec unquam extrahentur ab eis. Quia nimirum necesse est ut qui ad officium praedicationis excubant, a sacrae lectionis studio non recedant. Ad hoc namque vectes esse in circulis semper jubentur, ut cum portari arcam opportunitas exigit, de intromittendis vectibus portandi tarditas nulla generetur; quia videlicet cum spiritale aliquid a subditis Pastor inquiritur, ignominiosum valde est si tunc quaerat discere, cum quaestionem debet enodare. Sed circulis vectes inhaereant, ut doctores semper in suis cordibus eloquia sacra meditantes, testamenti arcam sine mora elevent, si quidquid necesse est, protinus docent. Unde bene primus pastor Ecclesiae pastores caeteros admonet, dicens: Parati semper ad satisfactionem omni poscenti vos rationem de ea quae in vobis est spe (I Petr. III, 15). Ac si aperte dicat: Ut ad portandam arcam nulla mora praepediat, vectes a circulis nunquam recedant.

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TERTIA PARS

QUALITER RECTOR BENE VIVENS DEBEAT DOCERE ET ADMONERE SUBDITOS

PROLOGUS

Quia igitur qualis esse debeat pastor ostendimus, nunc qualiter doceat demonstremus. Ut enim longe ante nos reverendae memoriae Gregorius Nazianzenus edocuit (Orat. 1), non una eademque cunctis exhortatio congruit, quia nec cunctos par morum qualitas astringit. Saepe namque aliis officiunt, quae aliis prosunt. Quia et plerumque herbae quae haec animalia nutriunt, alia occidunt; et lenis sibilus equos mitigat, catulos instigat. Et medicamentum quod hunc morbum imminuit, alteri vires jungit; et panis qui vitam fortium roborat, parvulorum necat. Pro qualitate igitur audientium formari debet sermo doctorum, ut et ad sua singulis congruat, et tamen a communis aedificationis arte nunquam recedat. Quid enim sunt intentae mentes auditorum, nisi ut ita dixerim, quaedam in cithara tensiones stratae chordarum? quas tangendi artifex, ut non sibimetipsi dissimile canticum faciat, dissimiliter pulsat. Et idcirco chordae consonam modulationem reddunt, quia uno quidem plectro, sed non uno impulsu feriuntur. Unde et doctor quisque, ut in una cunctos virtute charitatis aedificet, ex una doctrina, non una eademque exhortatione tangere corda audientium debet.

CAPUT PRIMUM

Quanta debet esse diversitas in arte praedicationis. Aliter namque admonendi sunt viri, atque aliter feminae. Aliter juvenes, aliter senes. Aliter inopes, aliter locupletes. Aliter laeti, aliter tristes. Aliter subditi, aliter praelati. Aliter servi, aliter domini. Aliter hujus mundi sapientes, aliter hebetes. Aliter impudentes, aliter verecundi. Aliter protervi, aliter pusillanimes. Aliter impatientes, aliter patientes. Aliter benevoli, aliter invidi. Aliter simplices, aliter impuri. Aliter incolumes, aliter aegri. Aliter qui flagella metuunt, et propterea innocenter vivunt; aliter qui sic in iniquitate duruerunt, ut neque per flagella corrigantur. Aliter nimis taciti, aliter multiloquio vacantes. Aliter pigri, aliter praecipites. Aliter mansueti, aliter iracundi. Aliter humiles, aliter elati. Aliter pertinaces, aliter inconstantes. Aliter gulae dediti, aliter abstinentes. Aliter qui sua misericorditer tribuunt, aliter qui aliena rapere contendunt. Aliter qui nec aliena rapiunt, nec sua largiuntur: aliter qui et ea quae habent tribuunt, et tamen aliena rapere non desistunt. Aliter discordes, aliter pacati. Aliter seminantes jurgia, aliter pacifici. Aliter qui sacrae legis verba non intelligunt recte; aliter qui recte quidem intelligunt, sed haec humiliter non loquuntur. Aliter qui cum digne praedicare valeant, prae nimia humilitate formidant; aliter quos a praedicatiore

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104 imperfectio vel aetas prohibet, et tamen praecipitatio impellit. Aliter qui in hoc quod temporaliter appetunt, prosperantur; aliter qui ea quidem quae mundi sunt concupiscunt, sed tamen adversitatis labore fatigantur. Aliter conjugiis obligati, aliter a conjugii nexibus liberi. Aliter admistionem carnis experti, aliter ignorantes. Aliter qui peccata deplorant operum, aliter qui cogitationum. Aliter qui commissa plangunt, nec tamen deserunt; aliter qui deserunt, nec tamen plangunt. Aliter qui illicita quae faciunt, etiam laudant; aliter qui accusant prava, nec tamen devitant. Aliter qui repentina concupiscentia superantur, atque aliter qui in culpa ex consilio ligantur. Aliter qui licet minima, crebro tamen illicita faciunt; aliter qui se a parvis custodiunt, sed aliquando in gravioribus demerguntur. Aliter qui bona nec inchoant, aliter qui inchoata minime consummant. Aliter qui mala occulte agunt, et bona publice; aliter qui bona quae faciunt abscondunt, et tamen quibusdam factis publice mala de se opinari permittunt. Sed quid utilitatis est, quod cuncta haec collecta numeratione transcurrimus, si non etiam admonitionis modos per singula, quanta possumus brevitate, pandamus. Aliter igitur admonendi sunt viri, atque aliter feminae, quia illis graviora, istis vero injungenda sunt leviora, ut illos magna exerceant, istas autem levia demulcendo convertant. Aliter admonendi sunt juvenes, atque aliter senes, quia illos plerumque severitas admonitionis ad profectum dirigit; istos vero ad meliora opera deprecatio blanda componit. Scriptum quippe est: Seniorem ne increpaveris, sed obsecra ut patrem (I Tim. V, 1).

CAPUT II

Quomodo admonendi sint inopes et divites. Aliter admonendi sunt inopes, atque aliter locupletes; illis namque offerre consolationis solatium contra tribulationem, istis vero inferre metum contra elationem debemus. Inopi quippe a Domino per prophetam dicitur: Noli timere, quia non confunderis (Isai. LIV, 4). Cui non longe post blandiens, dicit: Paupercula tempestate convulsa (Ibid., 11). Rursumque banc consolatur, dicens: Elegi te in camino paupertatis (Ibid., XLVIII, 10). At contra Paulus discipulo de divitibus dicit: Divitibus hujus saeculi praecipe non superbe sapere, neque sperare in incerto divitiarum suarum (I Tim. VI, 17). Ubi notandum valde est, quod humilitatis doctor memoriam divitum faciens non ait, Roga, sed Praecipe, quia etsi impendenda est pietas infirmitati, honor tamen non debetur elationi. Talibus ergo rectum quod dicitur, tanto rectius jubetur, quanto et in rebus transitoriis altitudine cogitationis intumescunt. De his in Evangelio Dominus dicit: Vae vobis divitibus, qui habetis consolationem vestram (Luc. VI, 24). Quia enim quae sunt aeterna gaudia nesciunt, ex praesentis vitae abundantia consolantur. Offerenda est ergo eis consolatio, quos caminus paupertatis excoquit; atque illis inferendus est timor, quos consolatio gloriae temporalis extollit; ut et illi discant quia divitias quas non conspiciunt possident, et isti cognoscant quia eas quas conspiciunt nequaquam tenere possunt. Plerumque tamen personarum ordinem permutat qualitas morum, ut sit dives humilis, sit pauper elatus. Unde mox praedicantis lingua cum audientis debet vita componi, ut tanto districtius in paupere elationem feriat, quanto eam nec illata paupertas inclinat; et tanto lenius humilitatem divitum mulceat, quanto eos nec abundantia quae sublevat, exaltat. Nonnunquam tamen etiam superbus dives exhortationis blandimento placandus est, quia et plerumque dura vulnera per lenia fomenta mollescunt, et furor insanorum saepe ad salutem medico blandiente reducitur; cumque eis in dulcedine condescenditur, languor insaniae mitigatur. Neque enim negligenter intuendum est, quod cum Saulem spiritus adversus invaderet, apprehensa David cithara, ejus vesaniam sedabat (I Reg. XVIII, 10). Quid enim per Saulem, nisi elatio potentum; et quid per David innuitur, nisi humilis vita sanctorum? Cum ergo Saul ab immundo spiritu arripitur,

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105 David canente, ejus vesania temperatur; quia cum sensus potentum per elationem in furorem vertitur, dignum est ut ad salutem mentis quasi dulcedine citharae, locutionis nostrae tranquillitate revocetur. Aliquando autem cum hujus saeculi potentes arguuntur, prius per quasdam similitudines velut de alieno negotio requirendi sunt; et cum rectam sententiam quasi in alterum protulerint, tunc modis congruentibus de proprio reatu feriendi sunt; ut mens temporali potentia tumida contra corripientem nequaquam se erigat, quae suo sibi judicio superbiae cervicem calcat; et in nulla sui defensione se exerceat, quam sententia proprii oris ligat. Hinc est enim quod Nathan propheta arguere regem venerat, et quasi de causa pauperis contra divitem judicium quaerebat (II Reg. XII, 4, 5, seq.); ut prius rex sententiam diceret, et reatum suum postmodum audiret, quatenus nequaquam justitiae contradiceret, quam ipse in se protulisset. Vir itaque sanctus et peccatorem considerans et regem, miro ordine audacem reum prius per confessionem ligare studuit, et postmodum per invectionem secare. Celavit paululum quem quaesivit, sed percussit repente quem tenuit. Pigrius enim fortasse incideret, si ab ipso sermonis exordio aperte culpam ferire voluisset; sed praemissa similitudine, eam quam occultabat exacuit increpationem. Ad aegrum medicus venerat, secandum vulnus videbat, sed de patientia aegri dubitabat. Abscondit igitur ferrum medicinale sub veste, quod eductum subito fixit in vulnere, ut secantem gladium sentiret aeger antequam cerneret, ne si ante cerneret, sentire recusaret.

CAPUT III Quomodo admonendi laeti et tristes. Aliter admonendi sunt laeti, atque aliter tristes. Laetis videlicet inferenda sunt tristia quae sequuntur ex supplicio; tristibus vero inferenda sunt laeta quae promittuntur ex regno. Discant laeti ex minarum asperitate quod timeant; audiant tristes praemiorum gaudia de quibus praesumant. Illis quippe dicitur: Vae vobis qui ridetis nunc, quoniam flebitis (Luc. VI, 25); isti vero eodem magistro docente audiunt: Iterum videbo vos, et gaudebit cor vestrum, et gaudium vestrum nemo tollet a vobis (Joan. XVI, 22). Nonnulli autem laeti vel tristes non rebus fiunt, sed conspersionibus existunt. Quibus profecto intimandum est quod quaedam vitia quibusdam conspersionibus juxta sunt. Habent enim laeti ex propinquo luxuriam, tristes iram. Unde necesse est ut non solum quisque consideret quod ex conspersione sustinet, sed etiam quod ex vicino deterius perurget; ne dum nequaquam pugnat contra hoc quod tolerat, ei quoque a quo se liberum aestimat, vitio succumbat.

CAPUT IV Quomodo admonendi subdili et praelati. Aliter admonendi sunt subditi, atque aliter praelati. Illos ne subjectio conterat, istos ne locus superior extollat. Illi ne minus quae jubentur impleant, isti ne plus justo jubeant quae compleantur. Illi ut humiliter subjaceant, isti ut temperanter praesint. Nam quod intelligi et figuraliter potest, illis dicitur: Filii, obedite parentibus vestris in Domino; istis vero praecipitur: Et patres, nolite ad iracundiam provocare filios vestros (Coloss. III, 20, 21). Illi discant quomodo ante occulti arbitri oculos sua interiora componant, isti quomodo etiam commissis sibi exempla bene vivendi exterius praebeant. Scire etenim praelati debent quia si perversa unquam perpetrant, tot mortibus digni sunt, quot ad subditos suos perditionis exempla transmittunt. Unde necesse est ut tanto se cautius a culpa custodiant, quanto per prava quae faciunt, non soli moriuntur sed aliorum animarum, quas pravis exemplis destruxerunt, rei sunt. Unde admonendi sunt illi; ne districtius puniantur si absoluti reperiri nequiverint saltem de se; isti ne de subditorum erratibus judicentur, etiamsi se jam de se

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106 securos inveniunt. Illi ut tanto circa se sollicitius vivant, quanto eos aliena cura non implicat; isti vero ut sic aliorum curas expleant, quatenus et suas agere non desistant, et sic in propria sollicitudine ferveant, ut a commissorum custodia minime torpescant. Illi enim sibimet vacanti dicitur: Vade ad formicam, o piger, et considera vias ejus, et disce sapientiam (Proverb. VI, 6). Iste autem terribiliter admonetur, cum dicitur: Fili mi, si spoponderis pro amico tuo, defixisti apud extraneum manum tuam, et illaqueatus es verbis oris tui, et captus propriis sermonibus (Ibid., 1). Spondere namque pro amico, est alienam animam in periculo suae conversationis accipere. Unde et apud extraneum manus defigitur, quia apud curam sollicitudinis quae ante deerat, mens ligatur. Verbis vero oris sui illaqueatus est, ac propriis sermonibus captus; quia dum commissis sibi cogitur bona dicere, ipsum prius necesse est quae dixerit custodire. Illaqueatur igitur verbis oris sui, dum ratione exigente constringitur, ne ejus vita ad aliud quam admonet relaxetur. Unde apud districtum judicem cogitur tanta in opere exsolvere, quanta eum constat aliis voce praecepisse. Ubi et bene mox exhortatio subditur, ut dicatur: Fac ergo quod dico, fili mi, et temetipsum libera, quia incidisti in manus proximi tui: discurre, festina, suscita amicum tuum; ne dederis somnum oculis tuis, nec dormitent palpebrae tuae (Prov. VI, 3). Quisquis enim ad vivendum aliis in exemplo praeponitur, non solum ut ipse vigilet, sed etiam ut amicum suscitet admonetur. Ei namque vigilare bene vivendo non sufficit, si non et illum cui praeest, a peccati torpore disjungit. Bene autem dicitur: Ne dederis somnum oculis tuis, nec dormitent palpebrae tuae (Ibid., 4). Somnum quippe oculis dare, est intentione cessante, subditorum curam omnino negligere. Palpebrae vero dormitant, cum cogitationes nostrae ea quae in subditis arguenda cognoscunt, pigredine deprimente dissimulant. Plene enim dormire est commissorum acta nec scire, nec corrigere. Non autem dormire, sed dormitare est, quae quidem reprehendenda sunt cognoscere, sed tamen propter mentis taedium dignis ea increpationibus non emendare. Dormitando vero oculus ad plenissimum somnum ducitur, quia dum plerumque qui praeest malum quod cognoscit non resecat, ad hoc quandoque negligentiae suae merito pervenit, ut quod a subjectis delinquitur, nec agnoscat. Admonendi sunt itaque qui praesunt, ut per circumspectionis studium oculos pervigiles intus et in circuitu habeant, et coeli animalia fieri contendant. (Ezech. I, 18). Ostensa quippe coeli animalia in circuitu et intus oculis plena describuntur (Apoc. IV, 6). Dignum quippe est ut cuncti qui praesunt intus atque in circuitu oculos habeant, quatenus et interno judici in semetipsis placere studeant, et exempla vitae exterius praebentes, ea etiam quae in aliis sunt corrigenda deprehendant. Admonendi sunt subditi, ne praepositorum suorum vitam temere judicent, si quid eos fortasse agere reprehensibiliter vident; ne unde mala recte redarguunt, inde per elationis impulsum in profundiora mergantur. Admonendi sunt, ne cum culpas praepositorum considerant, contra eos audaciores fiant, sed sic si qua valde sunt eorum prava, apud semetipsos dijudicent, ut tamen divino timore constricti ferre sub eis jugum reverentiae non recusent. Quod melius ostendimus, si David factum ad medium deducamus (I Reg. XXIV, 4, seq.). Saul quippe persecutor, cum ad purgandum ventrem speluncam fuisset ingressus, illic cum viris suis David inerat, qui jam tam longo tempore persecutionis ejus mala tolerabat. Cumque eum viri sui ad feriendum Saul accenderent, fregit eos responsionibus, quia manum mittere in christum Domini non deberet. Qui tamen occulte surrexit, et oram chlamydis ejus abscidit. Quid enim per Saul, nisi mali rectores; quid per David, nisi boni subditi designantur? Saul igitur ventrem purgare, est pravos praepositos conceptam in corde malitiam usque ad opera miseri odoris extendere, et cogitata apud se noxia factis exterioribus exsequendo monstrare. Quem tamen David ferire metuit, quia piae subditorum mentes ab omni se peste obtrectationis abstinentes, praepositorum vitam nullo linguae gladio percutiunt, etiam cum de imperfectione reprehendunt. Qui etsi quando pro infirmitate sese abstinere vix possunt, ut extrema quaedam atque exteriora praepositorum mala, sed tamen humiliter loquantur, quasi oram chlamidis silenter incidunt; quia videlicet dum praelatae dignitati saltem innoxie et latenter derogant, quasi regis superpositi vestem foedant, sed tamen ad semetipsos redeunt seque vehementissime vel de tenuissima verbi laceratione reprehendunt. Unde bene et illic scriptum est: Post haec David percussit cor suum, eo quod abscidisset oram chlamidis Saul (Ibid., 6). Facta quippe praepositorum oris gladio ferienda non

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107 sunt, etiam cum recte reprehendenda judicantur. Si quando vero contra eos vel in minimis lingua labitur, necesse est ut per afflictionem poenitentiae cor prematur; quatenus ad semetipsum redeat, et cum praepositae potestati deliquerit, ejus contra se judicium a quo sibi praelata est perhorrescat. Nam cum praepositis delinquimus, ejus ordinationi qui eos nobis praetulit obviamus. Unde Moyses quoque cum contra se et Aaron conqueri populum cognovisset, ait: Nos enim quid sumus? Nec contra nos est murmur vestrum, sed contra Dominum (Exod. XVI, 8).

CAPUT V Quomodo admonendi servi et domini. Aliter admonendi sunt servi, atque aliter domini. Servi scilicet, ut in se semper humilitatem conditionis aspiciant; domini vero, ut naturae suae qua aequaliter sunt cum servis conditi, memoriam non amittant. Servi admonendi sunt ne dominos despiciant, ne Deum offendant si ordinationi illius superbiendo contradicunt; domini quoque admonendi sunt, quia contra Deum de munere ejus superbiunt, si eos quos per conditionem tenent subditos, aequales sibi per naturae consortium non agnoscunt. Isti admonendi sunt ut sciant se servos esse dominorum: illi admonendi sunt ut cognoscant se conservos esse servorum. Istis namque dicitur: Servi, obedite dominis carnalibus (Coloss. III, 22). Et rursum: Quicunque sunt sub jugo servi, dominos suos omni honore dignos arbitrentur (I Tim. VI, 1); illis autem dicitur: Et vos domini eadem facite illis, remittentes minas, scientes quod et illorum et vester Dominus est in coelis (Ephes. VI, 2).

CAPUT VI Quomodo admonendi sapientes et hebetes. Aliter admonendi sunt sapientes hujus saeculi, atque aliter hebetes. Sapientes quippe admonendi sunt, ut amittant scire quae sciunt; hebetes quoque admonendi sunt, ut appetant scire quae nesciunt. In illis hoc primum destruendum est, quod se sapientes arbitrantur; in istis jam aedificandum est quidquid de superna sapientia cognoscitur, quia dum minime superbiunt, quasi ad suscipiendum aedificium corda paraverunt. Cum illis laborandum est, ut sapientius stulti fiant, stultam sapientiam deserant, et sapientem Dei stultitiam discant; istis vero praedicandum est, ut ab ea quae putatur stultitia, ad veram sapientiam vicinius transeant. Illis namque dicitur: Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc soeculo, stultus fiat, ut sit sapiens (I Cor. III, 18); istis vero dicitur: Non multi sapientes secundum carnem (Ibid., I, 22). Et rursum: Quae stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes (Ibid., 27). Illos plerumque ratiocinationis argumenta, istos nonnunquam melius exempla convertunt. Illis nimirum prodest, ut in suis allegationibus victi jaceant; istis vero aliquando sufficit ut laudabilia aliorum facta cognoscant. Unde et magister egregius, sapientibus et insipientibus debitor (Rom. I, 14), cum Hebraeorum quosdam sapientes, quosdam vero etiam tardiores admoneret, illis de completione Testamenti Veteris loquens, eorum sapientiam argumento superavit, dicens: Quod enim antiquatur et senescit, prope interitum est (Hebr. VIII, 13). Cum vero solis exemplis quosdam trahendos cerneret, in eadem Epistola adjunxit: Sancti ludibria et verbera experti, insuper et vincula et carceres, lapidati sunt, secti sunt, tentati sunt, in occisione gladii mortui sunt (Ibid., XI, 36, 37). Et rursum: Mementote praepositorum vestrorum, qui vobis locuti sunt verbum Dei, quorum intuentes exitum conversationis, imitamini fidem (Ibid., XIII, 7); quatenus et illos victrix ratio frangeret, et istos ad majora conscendere imitatio blanda suaderet.

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CAPUT VII Quomodo admonendi impudentes et verecundi. Aliter admonendi sunt impudentes, atque aliter verecundi. Illos namque ab impudentiae vitio non nisi increpatio dura compescit; istos autem plerumque ad melius exhortatio modesta componit. Illi se delinquere nesciunt, nisi etiam a pluribus increpentur; istis plerumque ad conversionem sufficit quod eis doctor mala sua saltem leniter ad memoriam reducit. Illos melius corrigit qui invehendo reprehendit; istis autem major profectus adducitur, si hoc quod in eis reprehenditur quasi ex latere tangatur. Impudentem quippe Judaeorum plebem Dominus aperte increpans, ait: Frons mulieris meretricis facta est tibi, noluisti erubescere (Jerem. III, 3). Et rursum verecundantem refovet, dicens: Confusionis adolescentiae tuae oblivisceris, et opprobrii viduitatis tuae non recordaberis, quia dominabitur tui qui fecit te (Isai. LIV, 4). Impudenter quoque delinquentes Galatas aperte Paulus increpat, dicens: O insensati Galatae, quis vos fascinavit (Galat. III, 1)? Et rursum: Sic stulti estis, ut cum spiritu coeperitis, nunc carne consummamini (Ibid. 3)? Culpas vero verecundantium quasi compatiens reprehendit, dicens: Gavisus sum in Domino vehementer, quoniam tandem aliquando refloruistis pro me sentire sicut et sentiebatis; occupati enim eratis (Philipp. IV, 10); ut et illorum culpas increpatio dura detegeret, et horum negligentiam mollior sermo velaret.

CAPUT VIII Quomodo admonendi protervi et pusillanimes. Aliter admonendi sunt protervi, atque aliter pusillanimes. Illi enim dum valde de se praesumunt, exprobrando caeteros dedignantur; isti autem dum nimis infirmitatis suae sunt conscii. plerumque in desperationem cadunt. Illi singulariter summa aestimant cuncta quae agunt, isti vehementer despecta putant esse quae faciunt, et idcirco in desperatione franguntur. Subtiliter itaque ab arguente discutienda sunt opera protervorum, ut in quo sibi placent, ostendantur quia Deo displicent. Tunc enim protervos melius corrigimus, cum ea quae bene egisse se credunt, male acta monstramus; ut unde adepta gloria creditur, inde utilis subsequatur confusio. Nonnunquam vero cum se vitium proterviae minime perpetrare cognoscunt, compendiosius ad correctionem veniunt, si alterius culpae manifestioris ex latere requisitae improperio confunduntur; ut ex eo quod defendere nequeunt, cognoscant se tenere improbe quod defendunt. Unde cum proterve Paulus Corinthios adversum se invicem videret inflatos, ut alius Pauli, alius Apollo, alius Cephae, alius Christi esse se diceret (I Cor. I, 12; III, 4), incestus culpam in medium deduxit, quae apud eos et perpetrata fuerat, et incorrecta remanebat, dicens: Auditur inter vos fornicatio, et talis fornicatio, qualis nec inter gentes, ita ut uxorem patris quis habeat. Et vos inflati estis, et non magis luctum habuistis, ut tolleretur de medio vestrum qui hoc opus fecit (I Cor. V, 1, 2). Ac si aperte dicat: Quid vos per proterviam, hujus vel illius dicitis, qui per dissolutionem negligentiae, nullius vos esse monstratis? At contra, pusillanimes aptius ad iter bene agendi reducimus, si quaedam illorum bona ex latere requiramus, ut dum in eis alia reprehendendo corripimus, alia amplectendo laudemus, quatenus eorum teneritudinem laus audita nutriat, quam culpa increpata castigat. Plerumque autem utilius apud illos proficimus, si et eorum bene gesta memoramus. Et si qua ab eis inordinate gesta sunt, non jam tanquam perpetrata corripimus, sed quasi adhuc ne perpetrari debeant prohibemus, ut et illa quae approbamus, illatus favor augeat, et contra ea quae reprehendimus magis apud pusillanimes exhortatio verecunda convalescat. Unde idem Paulus cum Thessalonicenses in accepta praedicatione perdurantes, quasi de vicino mundi termino quadam cognosceret pusillanimitate turbatos, prius in eis quae fortia prospicit laudat, et caute monendo postmodum quae infirma sunt roborat. Ait enim: Gratias agere debemus Deo semper pro vobis, fratres, ita ut dignum est, quoniam supercrescit fides vestra, et abundat charitas uniuscujusque vestrum in invicem; ita ut et nos ipsi in

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109 vobis gloriemur in ecclesiis Dei, pro patientia vestra et fide (II Thes. I, 3, 4). Qui cum blanda haec vitae eorum praeconia praemisisset, paulo post subdidit, dicens: Rogamus autem vos, fratres, per adventum Domini nostri Jesu Christi, et nostrae congregationis in ipsum, ut non cito moveamini a vestro sensu, neque terreamini, neque per spiritum, neque per sermonem, neque per epistolam tanquam per nos missam, quasi instet dies Domini (Ibid. II, 1). Egit enim verus doctor, ut prius audirent laudati quod recognoscerent, et postmodum quod exhortati sequerentur; quatenus eorum mentem ne admonitio subjuncta concuteret, laus praemissa solidaret; et qui commotos eos vicini finis suspicione cognoverat, non jam redarguebat motos, sed quasi transacta nesciens, adhuc commoveri prohibebat; ut dum de ipsa levitate motionis praedicatori suo se incognitos crederent, tanto reprehensibiles fieri, quanto et cognosci ab illo formidarent.

CAPUT IX Quomodo admonendi sint impatientes et patientes. Aliter admonendi sunt impatientes, atque aliter patientes. Dicendum namque est impatientibus quia dum refrenare spiritum negligunt, per multa etiam quae non appetunt iniquitatum abrupta rapiuntur, quia videlicet mentem impellit furor quo non trahit desiderium; et agit commota velut nesciens, unde post doleat sciens. Dicendum quoque impatientibus, quia dum motionis impulsu praecipites, quaedam velut alienati peragunt, vix mala sua postquam fuerint perpetrata cognoscunt. Qui dum perturbationi suae minime obsistunt, etiamsi qua a se tranquilla mente fuerant bene gesta confundunt, et improviso impulsu destruunt, quidquid forsitan diu labore provido construxerunt. Ipsa namque quae mater est omnium custosque virtutum, per impatientiae vitium virtus amittitur charitatis. Scriptum quippe est: Charitas patiens est (I Cor. XIII, 4). Igitur cum minime est patiens, charitas non est. Per hoc quoque impatientiae vitium ipsa virtutum nutrix doctrina dissipatur. Scriptum namque est: Doctrina viri per patientiam noscitur (Prov. XIX, 14). Tanto ergo quisque minus ostenditur doctus, quanto minus convincitur patiens. Neque enim potest veraciter bona docendo impendere, si vivendo nescit aequanimiter aliena mala tolerare. Per hoc quoque impatientiae vitium plerumque mentem arrogantiae culpa transfigit; quia dum despici in mundo hoc quisque non patitur, bona si qua sibi occulta sunt, ostentare conatur, atque sic per impatientiam usque ad arrogantiam ducitur; dumque ferre despectionem non potest, detegendo semetipsum in ostentatione gloriatur. Unde scriptum est: Melior est patiens arrogante (Eccle. VII, 9). Quia videlicet eligit patiens quaelibet mala perpeti quam per ostentationis vitium bona sua occulta cognosci. At contra eligit arrogans bona de se vel falsa jactari, ne mala possit vel minima perpeti. Quia igitur cum patientia relinquitur, etiam bona reliqua quae jam gesta sunt destruuntur, recte ad Ezechielem in altari Dei fieri fossa praecipitur, ut in ea videlicet superposita holocausta serventur (Ezech. XLIII, 13). Si enim in altari fossa non esset, omne quod in eo sacrificium reperiret, superveniens aura dispergeret. Quid vero accipimus altare Dei, nisi animam justi, quae quot bona egerit, tot super se ante ejus oculos sacrificia imponit? Quid autem est altaris fossa, nisi bonorum patientia, quae dum mentem ad adversa toleranda humiliat, quasi more foveae hanc in imo positam demonstrat? Fossa ergo in altari fiat, ne superpositum sacrificium aura dispergat: id est, electorum mens patientiam custodiat, ne commota vento impatientiae, et hoc quod bene operata est amittat. Bene autem haec eadem fossa unius cubiti esse monstratur (Ibid.); quia nimirum si patientia non deseritur, unitatis mensura servatur. Unde et Paulus ait: Invicem onera vestra portate, et sic adimplebitis legem Christi (Galat. VI, 2). Lex quippe Christi est charitas unitatis, quam soli perficiunt, qui nec cum gravantur excedunt. Audiant impatientes quod scriptum est: Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatore urbium (Prov. XVI, 32). Minor enim est victoria urbium, quia extra sunt quae subiguntur; valde autem majus est quod per patientiam vincitur, quia ipse a se animus superatur, et semetipsum sibimetipsi subjicit, quando eum patientia

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110 intra se frenare compellit. Audiant impatientes quod electis suis Veritas dicit: In patientia vestra possidebitis animas vestras (Luc. XXI, 19). Sic enim conditi mirabiliter sumus, ut ratio animam, et anima possideat corpus. Jus vero animae a corporis possessione repellitur, si non prius anima a ratione possidetur. Custodem igitur conditionis nostrae patientiam Dominus esse monstravit, qui in ipsa nos possidere nosmetipsos docuit. Quanta ergo sit impatientiae culpa cognoscimus, per quam et hoc ipsum amittimus possidere quod sumus. Audiant impatientes quod per Salomonem rursum dicitur: Totum 44 spiritum suum profert stultus, sapiens autem differt et reservat in posterum (Prov. XXIX, 11). Impatientia quippe impellente agitur ut totus foras spiritus proferatur; quem idcirco perturbatio citius ejicit, quia nulla interius disciplina sapientiae circumcludit. Sapiens autem differt et reservat in posterum. Laesus enim, in praesens se ulcisci non desiderat, quia etiam tolerans parci optat, sed tamen juste vindicari omnia extremo judicio non ignorat. At contra admonendi sunt patientes, ne in eo quod exterius portant, interius doleant, ne tantae virtutis sacrificium quod integrum foras immolant, intus malitiae peste corrumpant; et cum ab hominibus non agnoscitur, sed tamen sub divina examinatione peccatur, tanto deterior culpa doloris fiat, quanto sibi ante homines virtutis speciem vindicat. Dicendum itaque est patientibus, ut studeant diligere quos sibi necesse est tolerare; ne si patientiam dilectio non sequatur, in deteriorem culpam odii virtus ostensa vertatur. Unde Paulus cum diceret: Charitas patiens est, illico adjunxit: Benigna est (I Cor. XIII, 4); videlicet ostendens quia quos ex patientia tolerat, amare etiam ex benignitate non cessat. Unde idem doctor egregius cum patientiam discipulis suaderet, dicens: Omnis amaritudo, et ira, et indignatio, et clamor, et blasphemia tollatur a vobis (Ephes. IV, 31), quasi cunctis exterius jam bene compositis ad interiora convertitur, dum subjungit: Cum omni malitia (Ibid.); quia nimirum frustra indignatio, clamor et blasphemia ab exterioribus tollitur, si in interioribus vitiorum mater malitia dominatur; et incassum foras nequitia ex ramis inciditur, si surrectura multiplicius intus in radice servatur. Unde et per semetipsam Veritas dicit: Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos, et orate pro persequentibus et calumniantibus vos (Luc. VI, 27). Virtus itaque est coram hominibus, adversarios tolerare; sed virtus coram Deo, diligere; quia hoc solum Deus sacrificium accipit, quod ante ejus oculos in altari boni operis flamma charitatis incendit. Hinc est quod rursum quibusdam patientibus, nec tamen diligentibus dicit: Quid autem vides festucam in oculo fratris tui, et trabem in oculo tuo non vides (Matth. VII, 3; Luc. VI, 41)? Pertubatio quippe impatientiae festuca est; malitia vero in corde, trabes in oculo. Illam namque aura tentationis agitat, hanc autem consummata nequitia pene immobiliter portat. Recte vero illic subjungitur: Hypocrita, ejice primum trabem de oculo tuo, et tunc videbis ejicere festucam de oculo fratris tui (Ibid.). Ac si dicatur menti iniquae interius dolenti, et sanctam se exterius per patientiam demonstranti: Prius a te molem malitiae excute, et tunc alios de impatientiae levitate reprehende, ne dum non studes simulationem vincere, pejus tibi sit aliena prava tolerare. Evenire etiam plerumque patientibus solet ut eo quidem tempore quo vel adversa patiuntur, vel contumelias audiunt, nullo dolore pulsentur, et sic patientiam exhibeant, ut custodire etiam cordis innocentiam non omittant; sed cum post paululum haec ipsa quae pertulerint, ad memoriam revocant, igne se doloris inflammant, argumenta ultionis inquirunt, et mansuetudinem quam tolerantes habuerunt, retractantes in malitiam vertunt. Quibus citius a praedicante succurritur, si quae sit hujus permutationis causa pandatur. Callidus namque adversarius bellum contra duos movet, unum videlicet inflammans ut contumelias prior inferat, alterum provocans ut contumelias laesus reddat. Sed plerumque dum hujus jam victor est qui injuriam persuasus irrogat, ab illo vincitur qui illatam sibi aequanimiter portat. Unius ergo victor quem commovendo subjugavit, tota contra alterum virtute se erigit, eumque obsistentem fortiter et vincentem dolet; quem quia commovere in ipsa contumeliarum jaculatione non potuit, ab aperto certamine interim quiescens, et secreta suggestione cogitationem lacescens, aptum deceptionis tempus inquirit. Quia enim publico bello perdidit, ad exercendas occulte insidias exardescit. Quietis namque tempore jam ad victoris

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111 animum redit, et vel rerum damna, aut injuriarum jacula ad memoriam reducit, cunctaque quae sibi illata sunt, vehementer exaggerans, intolerabilia ostendit; tantoque mentem moerore conturbat, ut plerumque vir patiens illa se aequanimiter tolerasse post victoriam captivus erubescat, seque non reddidisse contumelias doleat, et deteriora rependere, si occasio praebeatur, quaerat. Quibus ergo isti sunt similes, nisi his qui per fortitudinem in campo victores sunt, sed per negligentiam postmodum intra urbis claustra capiuntur? Quibus sunt similes, nisi iis quos irruens gravis languor a vita non subtrahit, sed leniter veniens recidiva febris occidit? Admonendi sunt igitur patientes, ut cor post victoriam muniant, ut hostem publico bello superatum insidiari moeniis mentis intendant; ut languorem plus reserpentem timeant, ne hostis callidus eo in deceptione postmodum majori exsultatione gaudeat, quo illa dudum contra se rigida colla victorum calcat.

CAPUT X Quomodo admonendi benevoli et invidi. Aliter admonendi sunt benevoli, atque aliter invidi. Admonendi namque sunt benevoli, ut sic alienis bonis congaudeant, quatenos habere propria concupiscant. Sic proximorum facta diligendo laudent, ut ea etiam imitando multiplicent, ne si in hoc praesentis vitae stadio ad certamen alienum devoti fautores, sed pigri spectatores assistant, eo post certamen sine bravio remaneant, quo nunc in certamine non laborant; et tunc eorum palmas afflicti respiciant, in quorum nunc laboribus otiosi per durant. Valde quippe peccamus, si aliena bene gesta non diligimus. Sed nil mercedis agimus, si ea quae diligimus, in quantum possumus non imitamur. Dicendum itaque est benevolis, quia si imitari bona minime festinant quae laudantes approbant, sic eis virtutum sanctitas sicut stultis spectatoribus ludicrarum artium vanitas placet. Illi namque aurigarum et histrionum gesta favoribus efferunt, nec tamen tales esse desiderant, quales illos conspiciunt esse quos laudant. Mirantur eos placita egisse, sed tamen devitant similiter placere. Dicendum est benevolis ut cum proximorum facta conspiciunt, ad suum cor redeant, et de alienis actibus non praesumant; ne bona laudent, et agere recusent. Gravius quippe extrema ultione feriendi sunt, quibus placuit quod imitari noluerunt. Admonendi sunt invidi, ut perpendant quantae caecitatis sunt, qui alieno provectu deficiunt, aliena exsultatione contabescunt. Quantae infelicitatis sunt, qui melioratione proximi deteriores fiunt; dumque augmenta alienae prosperitatis aspiciunt, apud semetipsos anxie afflicti, cordis sui peste moriuntur. Quid istis infelicius, quos dum conspecta felicitas afficit, poena nequiores reddit? Aliorum vero bona quae habere non possunt, si diligerent, sua facerent. Sic quippe sunt universi consistentes in fide, sicut multa membra uno in corpore: quae per officium quidem diversa sunt, sed eo quo sibi vicissim congruunt, unum fiunt. Unde fit ut pes per oculum videat, et per pedes oculi gradiantur; ori auditus aurium serviat, et ad usum suum auribus oris lingua concurrat; suffragetur venter manibus, ventri operentur manus. In ipsa igitur corporis positione accipimus, quod in actione servemus. Nimis itaque turpe est non imitari quod sumus. Nostra sunt nimirum, quae etsi imitari non possumus, amamus in aliis; et amantium fiunt quaeque amantur in nobis. Hinc ergo pensent invidi, charitas quantae virtutis est, quae alieni laboris opera, nostra sine labore facit. Dicendum itaque est invidis, quia dum se a livore minime custodiunt, in antiquam versuti hostis nequitiam demerguntur. De illo namque scriptum est: Invidia autem diaboli mors intrarit in orbem terrarum (Sap. II, 24). Quia enim ipse caelum perdidit, condito hoc homini invidit, et damnationem suam perditus adhuc alios perdendo cumulavit. Admonendi sunt invidi ut cognoscant quantis lapsibus succrescentis ruinae subjaceant, quia dum livorem a corde non projiciunt, ad apertas operum nequitias devolvuntur. Nisi enim Cain invidisset acceptam fratris hostiam, minime pervenisset ad exstinguendam vitam. Unde scriptum est: Et respexit Dominus ad Abel et ad munera ejus; ad Cain vero et ad munera ejus non respexit. Iratusque est Cain vehementer, et concidit vultus ejus (Genes. IV, 4). Livor itaque sacrificii, fratricidii seminarium fuit. Nam quem meliorem se esse doluit, ne utcumque esset amputavit. Dicendum est invidis quia dum se ista intrinsecus peste consumunt,

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112 etiam quidquid in se aliud boni habere videntur interimunt. Unde scriptum est: Vita carnium sanitas cordis, putredo ossium invidia (Prov. XIV, 30). Quid enim per carnes nisi infirma quaedam ac tenera, et quid per ossa nisi fortia acta signantur? Et plerumque contingit ut quidam cum cordis innocentia in nonnullis suis actibus infirmi videantur, quidam vero jam quaedam ante humanos oculos robusta exerceant, sed tamen erga aliorum bona intus invidiae pestilentia tabescant. Bene ergo dicitur: Vita carnium sanitas cordis; quia si mentis innocentia custoditur, etiam si qua foris infirma sunt quandoque roborantur. Et recte illic subditur: Putredo ossium invidia, quia per livoris vitium ante Dei oculos pereunt etiam quae humanis oculis fortia videntur. Ossa quippe per invidiam putrescere, est quaedam etiam robusta deperire.

CAPUT XI Quomodo admonendi simplices et versipelles. Aliter admonendi sunt simplices, atque aliter impuri. Laudandi sunt simplices quod studeant numquam falsa dicere, sed admonendi sunt ut noverint nonnunquam vera reticere. Sicut enim semper dicentem falsitas laesit, ita nonnunquam quibusdam audita vera nocuerunt. Unde coram discipulis Dominus locutionem suam silentio temperans, ait: Multa habeo vobis dicere, sed nunc non potestis illa portare (Joan. XVI, 12). Admonendi sunt igitur simplices, ut sicut fallaciam semper utiliter vitant, ita veritatem semper utiliter proferant. Admonendi sunt ut simplicitatis bono prudentiam adjungant, quatenus sic securitatem de simplicitate possideant, ut circumspectionem prudentiae non amittant. Hinc namque per doctorem gentium dicitur: Volo vos sapientes esse in bono, simplices autem in malo (Rom. XVI, 19). Hinc electos suos per semetipsam Veritas admonet, dicens: Estote prudentes sicut serpentes, et simplices sicut columbae (Matth. X, 16). Quia videlicet in electorum cordibus debet et simplicitatem columbae astutia serpentis acuere, et serpentis astutiam columbae simplicitas temperare, quatenus nec seducti per prudentiam calleant, nec ab intellectus studio ex simplicitate torpescant. At contra admonendi sunt impuri, ut quam gravis sit, quem cum culpa sustinent, duplicitatis labor agnoscant. Dum enim deprehendi metuunt, semper improbas defensiones quaerunt, semper pavidis suspicionibus agitantur. Nil autem est ad defendendum puritate tutius, nil ad dicendum veritate facilius. Nam dum fallaciam suam tueri cogitur, duro cor labore fatigatur. Hinc namque scriptum est: Labor labiorum ipsorum operiet eos (Psal. CXXXIX, 10). Qui enim nunc implet, tunc operit, quia cujus nunc animum per blandam inquietudinem exerit, tunc per asperam retributionem premit. Hinc per Jeremiam dicitur: Docuerunt linguam suam loqui mendacium, ut inique agerent laboraverunt (Jerem. IX, 5). Ac si aperte diceretur: Qui amici esse veritatis sine labore poterant, ut peccent laborant; cumque vivere simpliciter renuunt, laboribus exigunt ut moriantur. Nam plerumque in culpa deprehensi, dum quales sint cognosci refugiunt, sese sub fallaciae velamine abscondunt, et hoc quod peccant, quodque jam aperte cernitur, excusare moliuntur; ita ut saepe is qui eorum culpas corripere studet, aspersae falsitatis nebulis seductus, pene amisisse se videat quod de eis jam certum tenebat. Unde recte sub Judaeae specie per prophetam contra peccantem animam excusantemque se, dicitur: Ibi habuit foveam ericius (Isai. XXXIV, 15). Ericii quippe nomine impurae mentis seseque callide defendentis duplicitas designatur; quia videlicet ericius cum apprehenditur, ejus et caput cernitur, et pedes videntur, et corpus omne conspicitur; sed mox ut apprehensus fuerit, semetipsum in sphaeram colligit, pedes introrsus subtrahit, caput abscondit, et intra tenentis manus totum simul amittitur, quod totum simul ante videbatur. Sic nimirum, sic impurae mentes sunt, cum in suis excessibus comprehenduntur. Caput enim ericii cernitur, quia quo initio ad culpam peccator accesserit videtur. Pedes ericii conspiciuntur, quia quibus vestigiis nequitia sit perpetrata cognoscitur, et tamen adductis repente excusationibus impura mens introrsus pedes colligit, quia cuncta iniquitatis suae vestigia abscondit. Caput subtrahit, quia miris defensionibus nec inchoasse se malum aliquod ostendit. Et quasi sphaera in manu tenentis remanet,

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113 quia is qui corripit, cuncta quae jam cognoverat subito amittens, involutum intra conscientiam peccatorem tenet; et qui totum jam deprehendendo viderat, tergiversatione pravae defensionis illusus totum pariter ignorat. Foveam ergo habet ericius in reprobis, quia malitiosae mentis duplicitas sese intra se colligens abscondit in tenebris defensionis. Audiant impuri quod scriptum est: Qui ambulat simpliciter, ambulat confidenter (Prov. X, 9). Fiducia quippe magnae securitatis est simplicitas actionis. Audiant quod sapientis ore dicitur: Spiritus sanctus disciplinae effugiet fictum (Sap. I, 5). Audiant quod Scriptura rursum teste perhibetur: Cum simplicibus sermocinatio ejus (Prov. III, 32). Deo enim sermocinari, est per illustrationem suae praesentiae humanis mentibus arcana revelare. Cum simplicibus igitur sermocinari dicitur; quia de supernis mysteriis illorum mentes radio suae visitationis illuminat, quos nulla umbra duplicitatis obscurat. Est autem speciale duplicium malum, quia dum perversa et duplici actione caeteros fallunt, quasi praestantius caeteris prudentes se esse gloriantur; et quia districtionem retributionis non considerant, de damnis suis miseri exsultant. Audiant autem quomodo super illos propheta Sophonias vim divinae animadversionis intendat, dicens: Ecce dies Domini venit magnus et horribilis, dies irae dies illa, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super omnes civitates munitas, et super omnes angulos excelsos (Soph. I, 14, 15). Quid enim per civitates munitas exprimitur, nisi suspectae mentes et fallaci semper defensione circumdatae, quae quoties earum culpa corripitur, veritatis ad se jacula non admittunt? Et quid per excelsos angulos (duplex quippe semper est in angulis paries) nisi impura corda signantur? quae dum veritatis simplicitatem fugiunt, ad semetipsa quodammodo duplicitatis perversitate replicantur, et, quod est deterius, apud cogitationes suas in fastu prudentiae ex ipsa se culpa impuritatis extollunt. Dies igitur Domini vindictae atque animadversionis plena super civitates munitas et super excelsos angulos venit, quia ira extremi judicii humana corda et defensionibus contra veritatem clausa destruit, et duplicitatibus involuta dissolvit. Tunc enim munitae civitates cadunt, quia mentes Deo impenetratae damnabuntur. Tunc excelsi anguli corruunt, quia corda quae se per impuritatis prudentiam erigunt, per justitiae sententiam prosternuntur.

CAPUT XII Quomodo admonendi sunt incolumes et aegri. Aliter admonendi sunt incolumes, atque aliter aegri. Admonendi sunt incolumes, ut salutem corporis exerceant ad salutem mentis; ne si acceptae incolumitatis gratiam ad usum nequitiae inclinent, dono deteriores fiant; et eo postmodum supplicia graviora mereantur, quo nunc largioribus bonis Dei male uti non metuunt. Admonendi sunt incolumes, ne opportunitatem salutis in perpetuum promerendae despiciant. Scriptum namque est: Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis (II Cor. VI, 2). Admonendi sunt ne placere Deo si cum possunt noluerint, cum voluerint sero non possint. Hinc est enim quod eos post sapientia deserit, quos prius diutius renuentes vocavit, dicens: Vocavi, et renuistis; extendi manum meam, et non fuit qui aspiceret; despexistis omne consilium meum, et increpationes meas neglexistis; ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo, cum vobis quod timebatis advenerit (Prov. I, 24, seq.). Et rursum: Tunc invocabunt me, et non exaudiam; mane consurgent, et non invenient me. Salus itaque corporis quando ad bene operandum accepta despicitur, quanti sit muneris amissa sentitur. Et infructuose ad ultimum quaeritur, quae congruo concessa tempore utiliter non habetur. Unde bene per Salomonem rursum dicitur: Ne des alienis honorem tuum, et annos tuos crudeli; ne forte impleantur extranei viribus tuis, et labores tui sint in domo aliena, et gemas in novissimis, quando consumpseris carnes et corpus tuum (Ibid. V, 9, seq.). Qui namque alieni a nobis sunt, nisi maligni spiritus, qui a coelestis sunt patriae sorte separati? Quis vero honor noster est, nisi quia in luteis corporibus conditi, ad Conditoris tamen nostri sumus imaginem et similitudinem creati? Vel quis alius crudelis est, nisi ille angelus apostata, qui et semetipsum poena mortis superbiendo perculit, et inferre

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114 mortem humano generi etiam perditus non pepercit? Honorem itaque suum alienis dat, qui ad Dei imaginem et similitudinem conditus, vitae suae tempora malignorum spirituum voluptatibus administrat. Annos etiam suos crudeli tradit, qui ad voluntatem male dominantis adversarii accepta vivendi spatia expendit. Ubi bene subditur: Ne forte impleantur extranei viribus tuis, et labores tui sint in domo aliena. Quisquis enim per acceptam valetudinem corporis, per tributam sibi sapientiam mentis, non exercendis virtutibus, sed perpetrandis vitiis elaborat, nequaquam suis viribus suam domum, sed extraneorum habitacula, id est immundorum spirituum facta multiplicat, nimirum vel luxuriando, vel superbiendo agens, ut etiam se addito, perditorum numerus crescat. Bene autem subditur: Et gemas in novissimis, quando consumpseris carnes et corpus tuum. Plerumque enim accepta salus carnis per vitia expenditur; sed cum repente subtrahitur, cum molestiis caro atteritur, cum jam egredi anima urgetur, diu male habita quasi ad bene vivendum salus amissa requiritur. Et tunc gemunt homines quod Deo servire noluerunt, quando damna negligentiae suae recuperare serviendo nequaquam possunt. Unde alias dicitur: Cum occideret eos, tunc requirebant eum (Psal. LXXVII, 34). At contra admonendi sunt aegri, ut eo se filios Dei sentiant, quo illos disciplinae flagella castigant. Nisi enim correctis haereditatem dare disponeret, erudire eos per molestias non curaret. Hinc namque ad Joannem Dominus per angelum dicit: Ego quos amo arguo et castigo (Apoc. III, 19; Prov. III, 11). Hinc rursum scriptum est: Fili mi, noli negligere disciplinam Domini, neque fatigeris cum ab eo argueris. Quem enim diligit Dominus castigat, flagellat autem omnem filium quem recipit (Hebr. XII, 5, 6). Hinc Psalmista ait: Multae tribulationes justorum, et de omnibus his liberavit eos Dominus (Psal. XXXIII, 20). Hinc quoque beatus Job in dolore exclamans, ait: Si justus fuero, non levabo caput, saturatus afflictione et miseria (Job. X, 15). Dicendum est aegris, ut si coelestem patriam, suam credunt, necessario in hac labores velut in aliena patiantur. Hinc est enim quod lapides extra tunsi sunt, ut in constructione templi Domini absque mallei sonitu ponerentur; quia videlicet nunc foris per flagella tundimur, ut intus in templum Dei postmodum sine disciplinae percussione disponamur, quatenus quidquid in nobis est superfluum, modo percussio resecet, et tunc sola nos in aedificio concordia charitatis liget. Admonendi sunt aegri, ut considerent pro percipiendis terrenis haereditatibus quam dura carnales filios disciplinae flagella castigent. Quae ergo nobis divinae correptionis poena gravis est, per quam et nunquam amittenda haereditas percipitur, et semper mansura supplicia vitantur? Hinc etenim Paulus ait: Patres quidem carnis nostrae habuimus eruditores, et reverebamur eos; non multo magis obtemperabimus patri spirituum, et vivemus? Et illi quidem in tempore paucorum dierum secundum voluntatem suam erudiebant nos; hic autem ad id quod utile est in recipiendo sanctificationem ejus (Hebr. XII, 9, 10). Admonendi sunt aegri, ut considerent quanta salus cordis sit molestia corporalis, quae ad cognitionem sui mentem revocat, et quam plerumque salus abjicit, infirmitatis memoriam reformat, ut animus qui extra se in elationem ducitur, cui sit conditioni subditus, ex percussa quam sustinet carne memoretur. Quod recte per Balaam (si tamen vocem Dei subsequi obediendo voluisset) in ipsa ejus itineris retardatione signatur (Num. XXII, 23, seq.). Balaam namque pervenire ad propositum tendit, sed ejus votum animal cui praesidet praepedit. Prohibitione quippe immorata asina angelum videt, quem humana mens non videt; quia plerumque caro per molestias tarda flagello suo menti Deum indicat, quem mens ipsa carni praesidens non videbat, ita ut anxietatem spiritus proficere in hoc mundo cupientis, velut iter tendentis impediat, donec ei invisibilem qui sibi obviat innotescat. Unde et bene per Petrum dicitur: Correptionem habuit suae vesaniae subjugale mutum, quod in hominis voce loquens prohibuit prophetae insipientiam (II Petr. II, 15). Insanus quippe homo a subjugali muto corripitur, quando elata mens humilitatis bonum quod tenere debeat ab afflicta carne memoratur. Sed hujus correptionis donum idcirco Balaam non obtinuit, quia ad maledicendum pergens, vocem, non mentem mutavit. Admonendi sunt aegri ut considerent quanti sit muneris molestia corporalis, quae et admissa peccata diluit, et ea quae admitti poterant compescit; quae sumpta ab exterioribus plagis, concussae menti poenitentiae vulnera infligit. Unde scriptum est: Livor vulneris abstergit mala, et plagae in secretioribus ventris (Prov. XX, 30). Mala

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115 enim livor vulneris abstergit, quia flagellorum dolor vel cogitatas, vel perpetratas nequitias diluit. Solet vero ventris appellatione mens accipi; quia sicut venter consumit escas, ita mens petractando excoquit curas. Quia enim venter mens dicitur, ea sententia docetur qua scriptum est: Lucerna Domini spiraculum hominis, quae investigat omnia secreta ventris (Ibid.). Ac si diceret: Divini afflatus illuminatio, cum in mentem hominis venerit, eam sibimetipsi illuminans ostendit, quae ante Spiritus sancti adventum cogitationes pravas et portare poterat, et pensare nesciebat. Livor ergo vulneris abstergit mala, et plagae in secretioribus ventris; quia cum exterius percutimur, ad peccatorum nostrorum memoriam taciti afflictique revocamur, atque ante oculos nostros cuncta quae a nobis sunt male gesta reducimus, et per hoc quod foris patimur, magis intus quod fecimus dolemus. Unde fit ut inter aperta vulnera corporis amplius nos abluat plaga secreta ventris, quia sanat nequitias pravi operis occultum vulnus doloris. Admonendi sunt aegri quatenus patientiae virtutem servent, ut incessanter quanta Redemptor noster ab his quos creaverat, pertulit mala, considerent; quod tot abjecta conviciorum probra sustinuit; quod de manu antiqui hostis captivorum animas quotidie rapiens, insultantium alapas accepit; quod aqua salutis nos diluens, a perfidorum sputis faciem non abscondit; quod advocatione sua nos ab aeternis suppliciis liberans, tacitus flagella toleravit; quod inter angelorum choros perennes nobis honores tribuens, colaphos pertulit; quod a peccatorum nos punctionibus salvans, spinis caput supponere non recusavit, quod aeterna nos dulcedine inebrians in siti sua fellis amaritudinem accepit; quod qui pro nobis Patrem, quamvis divinitate esset aequalis, adoravit, sub irrisione adoratus tacuit; quod vitam mortuis praeparans, usque ad mortem ipse vita pervenit. Cur itaque asperum creditur, ut a Deo homo toleret flagella pro malis, si tanta Deus ab hominibus pertulit mala pro bonis? Aut quis sana intelligentia de percussione sua ingratus existat, si ipse hinc sine flagello non exiit, qui hic sine peccato vixit?

CAPUT XIII Quomodo admonendi qui flagella metuunt, et qui contemnunt. Aliter admonendi sunt qui flagella metuunt, et propterea innocenter vivunt; atque aliter admonendi sunt, qui sic in iniquitate durerunt, ut neque per flagella corrigantur. Dicendum namque est flagella timentibus, ut et bona temporalia nequaquam pro magno desiderent, quae adesse etiam pravis vident; et mala praesentia nequaquam velut intolerabilia fugiant, quibus hic plerumque etiam bonos affici non ignorant. Admonendi sunt ut si malis veraciter carere desiderant, aeterna supplicia perhorrescant, neque in hoc suppliciorum timore remaneant, sed ad amoris gratiam nutrimento charitatis excrescant. Scriptum quippe est: Perfecta charitas foras mittit timorem (I Joan. IV, 18). Et rursum scriptum est: Non accepistis spiritum servitutis iterum in timore, sed spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus: Abba pater (Rom. VIII, 15). Unde idem doctor iterum dicit: Ubi spiritus Domini, ibi libertas (II Cor. III, 17). Si ergo adhuc a prava actione formidata poena prohibet, profecto formidantis animum nulla spiritus libertas tenet. Nam si poenam non metueret, culpam proculdubio perpetraret. Ignorat itaque mens gratiam libertatis, quam ligat servitus timoris. Bona enim pro semetipsis amanda sunt, et non poenis compellentibus exsequenda. Nam qui propterea bona facit, quia tormentorum mala metuit, vult non esse quod metuat, ut audenter illicita committat. Unde luce clarius constat quod coram Deo innocentia amittitur, ante cujus oculos desiderio peccatur. At contra hi, quos ab iniquitatibus nec flagella compescunt, tanto acriori invectione feriendi sunt, quanto majori insensibilitate duruerunt. Plerumque enim sine dedignatione dedignandi sunt, sine desperatione desperandi; ita duntaxat, ut et ostensa desperatio formidinem incutiat, et subjuncta admonitio ad spem reducat. Districte itaque contra illos divinae sententiae proferendae sunt, ut ad cognitionem sui considerata aeterna animadversione revocentur. Audiant enim in se impletum esse

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116 quod scriptum est: Si confuderis stultum in pila, quasi ptisanas ferienti desuper pilo, non auferetur ab eo stultitia ejus (Prov. XXVII, 22). Contra hos propheta Domino conqueritur, dicens: Attrivisti eos, et renuerunt accipere disciplinam (Jer. V, 3). Hinc est quod Dominus dicit: Interfeci et perdidi populum istum, et tamen a viis suis non sunt reversi (Isai. IX, 13). Hinc rursum ait: Populus non est reversus ad percutientem se (Jer. XV, 6). Hinc voce flagellantium propheta conqueritur, dicens: Curavimus Babylonem et non est sanata (Jer. LI, 9). Babylon quippe curatur, nec tamen ad sanitatem reducitur, quando mens in prava actione confusa, verba correptionis audit, flagella correptionis percipit, et tamen ad recta salutis itinera redire contemnit. Hinc captivo Israelitico populo, nec tamen ab iniquitate converso Dominus exprobrat, dicens: Versa est mihi domus Israel in scoriam; omnes isti aes, et stannum, et ferrum, et plumbum in medio fornacis (Ezech. XXII, 18). Ac si aperte dicat: Purgare eos per ignem tribulationis volui, et argentum illos vel aurum fieri quaesivi, sed in fornace mihi in aes, stannum, et ferrum, et plumbum versi sunt, quia non ad virtutem, sed ad vitia etiam in tribulatione proruperunt. Aes quippe dum percutitur, amplius metallis caeteris sonitum reddit. Qui igitur in percussione positus erumpit ad sonitum murmurationis, in aes versus est in medio fornacis. Stannum vero cum ex arte componitur, argenti speciem mentitur. Qui ergo simulationis vitio non caret in tribulatione, stannum factus est in fornace. Ferro autem utitur, qui vitae proximi insidiatur. Ferrum itaque in fornace est qui nocendi malitiam non amittit in tribulatione. Plumbum quoque caeteris metallis est gravius. In fornace ergo plumbum invenitur, qui sic peccati sui pondere premitur, ut etiam in tribulatione positus a terrenis desideriis non levetur. Hinc rursum scriptum est: Multo labore sudatum est, et non exivit de ea nimia rubigo ejus neque per ignem (Ezech. XXIV, 12). Ignem quippe nobis tribulationis admovet, ut in nobis vitiorum purget; sed nec per ignem rubiginem amittimus, quando et inter flagella vitio non caremus. Hinc Propheta iterum dicit: Frustra conflavit conflator; malitiae eorum non sunt consumptae (Jer. VI, 29). Sciendum vero est, quod nonnunquam cum inter flagellorum duritiam remanent incorrecti, dulci sunt admonitione mulcendi. Quos enim cruciamenta non corrigunt, nonnunquam ab iniquis actionibus lenia blandimenta compescunt; quia et plerumque aegros, quos fortis pigmentorum potio curare non valuit, ad salutem pristinam tepens aqua revocavit; et nonnulla vulnera quae curari incisione nequeunt, fomentis olei sanantur. Et durus adamas incisionem ferri minime recipit, sed leni hircorum sanguine mollescit.

CAPUT XIV

Quomodo admonendi taciturni et verbosi. Aliter admonendi sunt nimis taciti, atque aliter multiloquio vacantes. Insinuari namque nimis tacitis debet, quia dum quaedam vitia incaute fugiunt, occulte deterioribus implicantur. Nam saepe linguam quia immoderatius frenant, in corde gravius multiloquium tolerant; ut eo plus cogitationes in mente ferveant, quo illas violenta custodia indiscreti silentii angustat. Quae plerumque tanto latius diffluunt, quanto se esse securius aestimant, quia foris a reprehensoribus non videntur. Unde nonnunquam mens in superbiam extollitur, et quos loquentes audit, quasi infirmos despicit. Cumque os corporis claudit, quantum se vitiis superbiendo aperiat non agnoscit. Linguam etenim premit, mentem elevat; et cum suam nequitiam minime considerat, tanto apud se cunctos liberius, quanto et secretius accusat. Admonendi sunt igitur nimis taciti, ut scire sollicite studeant, non solum quales foris ostendere, sed etiam quales se debeant intus exhibere, ut plus ex cogitationibus occultum judicium quam ex sermonibus reprehensionem metuant proximorum. Scriptum namque est: Fili mi, attende sapientiam meam, et prudentiae meae inclina aurem tuam, ut custodias cogitationes (Prov. V, 1). Nil quippe in nobis est corde fugacius, quod a nobis toties recedit, quoties per pravas cogitationes defluit. Hinc etenim Psalmista ait: Cor meum dereliquit me (Ps. XXXIX, 13). Hinc ad semetipsum rediens, ait: Invenit servus tuus cor suum ut oraret te (II Reg. VII, 27). Cum ergo cogitatio per custodiam restringitur, cor quod fugere consuevit invenitur.

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117 Plerumque autem nimis taciti cum nonnulla injusta patiuntur, eo in acriorem dolorem prodeunt, quo ea quae sustinent non loquuntur. Nam si illatas molestias tranquille lingua diceret, a conscientia dolor emanaret. Vulnera enim clausa plus cruciant. Nam cum putredo quae interius fervet ejicitur, ad salutem dolor aperitur. Scire igitur debent, qui plus quam expedit tacent, ne inter molesta quae tolerant, dum linguam tenent, vim doloris exaggerent. Admonendi sunt enim ut si proximos sicut se diligunt, minime illis taceant unde eos juste reprehendunt. Vocis enim medicamine utrorumque saluti concurritur, dum et ab illo qui infert actio prava compescitur, et ab hoc qui sustinet doloris fervor vulnere aperto temperatur. Qui enim proximorum mala respiciunt, et tamen in silentio linguam premunt, quasi conspectis vulneribus usum medicaminis subtrahunt, et eo mortis auctores fiunt, quo virus quod poterant curare noluerunt. Lingua itaque discrete frenanda est, non insolubiliter obliganda. Scriptum namque est: Sapiens tacebit usque ad tempus (Eccli. XX, 7), ut nimirum cum opportunum considerat, postposita censura silentii, loquendo quae congruunt, in usum se utilitatis impendat. Et rursum scriptum est: Tempus tacendi, et tempus loquendi (Eccle. III, 7). Discrete quippe vicissitudinum pensanda sunt tempora, ne aut cum restringi lingua debet, per verba inutiliter defluat; aut cum loqui utiliter potest, semetipsam pigre restringat. Quod bene Psalmista considerans, dicit: Pone, Domine, custodiam ori meo, et ostium circumstantiae labiis meis (Ps. CXL, 3). Non enim poni ori suo parietem, sed ostium petit, quod videlicet aperitur et clauditur. Unde et nobis caute discendum est, quatenus os discretum et congruo tempore vox aperiat, et rursum congruo taciturnitas claudat. At contra abmonendi sunt multiloquio vacantes, ut vigilanter aspiciant a quanto rectitudinis statu depereunt, dum per multiplicia verba dilabuntur. Humana etenim mens aquae more circumclusa ad superiora colligitur, quia illud repetit unde descendit; et relaxata deperit, quia se per infima inutiliter spargit. Quot enim supervacuis verbis a silentii sui censura dissipatur, quasi tot rivis extra se ducitur. Unde et redire interius ad sui cognitionem non sufficit, quia per multiloquium sparsa, a secreto se intimae considerationis excludit. Totam vero se insidiantis hostis vulneribus detegit, quia nulla munitione custodiae circumcludit. Unde scriptum est: Sicut urbs patens et absque murorum ambitu, ita vir qui non potest in loquendo cohibere spiritum suum (Prov. XXV, 28). Quia enim murum silentii non habet, patet inimici jaculis civitas mentis; et cum se per verba extra semetipsam ejicit, apertam se adversario ostendit. Quam tanto ille sine labore superat, quanto et ipsa quae vincitur, contra semetipsam per multiloquium pugnat. Plerumque autem quia per quosdam gradus desidiosa mens in lapsum casus impellitur, dum otiosa cavere verba negligimus, ad noxia pervenimus; ut prius loqui aliena libeat, postmodum detractionibus eorum vitam de quibus loquitur mordeat, ad extremum vero usque ad apertas lingua contumelias erumpat. Hine seminantur stimuli, oriuntur rixae, accenduntur faces odiorum, pax exstinguitur cordium. Unde bene per Salomonem dicitur: Qui dimittit aquam, caput est jurgiorum (Prov. XVII, 14). Aquam quippe dimittere est linguam in fluxum eloquii relaxare. Quo contra in bona etiam parte iterum dicitur: Aqua profunda, verba ex ore viri (Ibid., XVIII, 4). Qui ergo dimittit aquam, caput est jurgiorum, quia qui linguam non refrenat, concordiam dissipat. Unde e diverso scriptum est: Qui imponit stulto silentium, iras mitigat (Ibid., XXVI. 10). Quod autem multiloquio quisque serviens, rectitudinem justitiae tenere nequaquam possit, testatur Propheta qui ait: Vir linguosus non dirigetur super terram (Ps. CXXXIX, 12). Hinc quoque Salomon iterum dicit: In multiloquio non deerit peccatum (Prov. X, 19). Hinc Isaias ait: Cultus justitiae silentium (Is. XXXII, 17), videlicet indicans quia mentis justitia desolatur quando ab immoderata locutione non parcitur. Hinc Jacobus ait: Si quis putat se religiosum esse non refrenans linguam suam, sed seducens cor suum, hujus vana est religio (Jac. I, 26). Hinc rursum ait: Sit omnis homo velox ad audiendum, tardus autem ad loquendum (Ibid., 19). Hinc iterum, linguae vim definiens, adjungit: Inquietum malum, plena veneno mortifero (Jac. II, 8). Hinc per semetipsam nos Veritas admonet, dicens: Omne verbum otiosum quod locuti fuerint homines, reddent de eo rationem in die judicii (Matth. XII, 36). Otiosum quippe verbum est, quod aut ratione justae necessitatis, aut intentione

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118 piae utilitatis caret. Si ergo de otioso sermone ratio exigitur, pensemus quae poena multiloquium maneat, in quo etiam per noxia verba peccatur.

CAPUT XV Quomodo admonendi pigri et praecipites. Aliter admonendi sunt pigri, atque aliter praecipites. Illi namque suadendi sunt, ne agenda bona, dum differunt, amittant; isti vero admonendi sunt, ne dum bonorum tempus incaute festinando praeveniunt, eorum merita immutent. Pigris itaque intimandum est quod saepe dum opportune agere quae possumus nolumus, paulo post cum volumus non valemus. Ipsa quippe mentis desidia dum congruo fervore non accenditur, a bonorum desiderio funditus, convalescente furtim torpore mactatur. Unde aperte per Salomonem dicitur: Pigredo immittit soporem (Prov. XIX, 15). Piger enim recte sentiendo quasi vigilat, quamvis nil operando torpescat; sed pigredo soporem immittere dicitur, quia paulisper etiam recte sentiendi vigilantia amittitur, dum a bene operandi studio cessatur. Ubi recte subjungitur: Et anima dissoluta esuriet (Ibid.). Nam quia se ad superiora stringendo non dirigit, neglectam se inferius per desideria expandit; et dum studiorum sublimium vigore non constringitur, cupiditatis infimae fame sauciatur; ut quo se per disciplinam ligare dissimulat, eo se esuriens per voluptatum desideria spargat. Hinc ab eodem rursus Salomone scribitur: In desideriis est omnis otiosus (Prov. XXI, 26). Hinc ipsa Veritate praedicante (Matth. XII, 44, 45), uno quidem exeunte spiritu munda domus dicitur, sed multiplicius redeunte dum vacat occupatur. Plerumque piger dum necessaria agere negligit, quaedam sibi difficilia opponit, quaedam vero incaute formidat; et dum quasi invenit quod velut juste metuat, ostendit quod in otio quasi non injuste torpescat. Cui recte per Salomonem dicitur: Propter frigus piger arare noluit; mendicabit ergo aestate, et non dabitur ei (Prov. XX, 4). Propter frigus quippe piger non arat, dum desidiae torpore constrictus, agere quae debet bona dissimulat. Propter frigus piger non arat, dum parva ex adverso mala metuit, et operari maxima praetermittit. Bene autem dicitur: Mendicabit aestate, et non dabitur ei. Qui enim nunc in bonis operibus non exsudat, cum sol judicii ferventior apparuerit, quia frustra regni aditum postulat, nil accipiens aestate mendicat. Bene huic per eumdem Salomonem rursum dicitur: Qui observat ventum, non seminat; et qui considerat nubes, numquam metit (Eccle. XI, 4). Quid enim per ventum, nisi malignorum spirituum tentatio exprimitur? Et quid per nubes quae moventur a vento, nisi adversitates pravorum hominum designantur? A ventis videlicet impelluntur nubes, quia immundorum spirituum afflatu pravi excitantur homines. Qui ergo observat ventum, non seminat; et qui considerat nubes, nunquam metit; quia quisquis tentationem malignorum spirituum, quisquis persecutionem pravorum hominum metuit, neque nunc grana boni operis seminat, neque tunc manipulos sanctae retributionis secat. At contra, praecipites dum bonorum actuum praeveniunt tempus, meritum pervertunt, et saepe in malis corruunt, dum bona minime discernunt. Qui nequaquam quae quando agant inspiciunt, sed plerumque acta quia ita non debuerunt agere cognoscunt. Quibus sub auditoris specie recte apud Salomonem dicitur: Fili, sine consilio nihil facias, et post factum non poenitebis (Eccli. XXXII, 24). Et rursum: Palbebrae tuae precedant gressus tuos (Prov. IV, 25). Palpebrae quippe gressus praecedunt, cum operationem nostram consilia recta praeveniunt. Qui enim negligit considerando praevidere quod facit, gressus tendit, oculos claudit, pergendo iter conficit, sed praevidendo sibimetipsi non antecedit, atque idcirco citius corruit, quia quo pedem operis ponere debeat, per palpebram consilii non attendit.

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CAPUT XVI Quomodo admonendi mansueti et iracundi. Aliter admonendi sunt mansueti, atque aliter iracundi. Nunnunquam enim mansueti cum praesunt, vicinum et quasi juxta positum torporem desidiae patiuntur. Et plerumque nimia resolutione lenitatis, ultra quam necesse est vigorem districtionis emolliunt. At contra iracundi cum regiminum loca percipiunt, quo impellente ira in mentis vaesaniam devolvuntur, eo etiam subditorum vitam dissipata quietis tranquillitate confundunt. Quos cum furor agit in praeceps, ignorant quidquid irati faciunt, ignorant quidquid a semetipsis patiuntur irati. Nunnunquam vero, quod est gravius, irae suae stimulum justitiae zelum putant. Et cum vitium virtus creditur, sine metu culpa cumulatur. Saepe ergo mansueti dissolutionis torpescunt taedio; saepe iracundi rectitudinis falluntur zelo. Illorum itaque virtuti vitium latenter adjungitur; his autem suum vitium quasi virtus fervens videtur. Admonendi sunt igitur illi ut fugiant quod juxta ipsos est, isti quod in ipsis est attendant; illi quod non habent discernant, isti quod habent. Amplectantur mansueti sollicitudinem, damnent iracundi perturbationem. Admonendi sunt mansueti, ut habere etiam aemulationem justitiae studeant; admonendi sunt iracundi, ut aemulationi quam se habere existimant, mansuetudinem subjungant. Idcirco namque Spiritus sanctus in columba nobis est et in igne monstratus, quia videlicet omnes quos implet, et columbae simplicitate mansuetos, et igne zeli ardentes exhibet. Nequaquam ergo sancto Spiritu plenus est, qui aut in tranquillitate mansuetudinis fervorem aemulationis deserit, aut rursum in aemulationis ardore virtutem mansuetudinis amittit. Quod fortasse melius ostendimus, si in medium Pauli magisterium proferamus, qui duobus discipulis et non diversa charitate praeditis, diversa tamen adjutoria praedicationis impendit. Timotheum namque admonens, ait: Argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina (II Tim. IV, 2). Titum quoque admonet dicens: Haec loquere, et exhortare, et argue cum omni imperio (Tit. II, 15). Quid est quod doctrinam suam tanta arte dispensat, ut in exhibenda hac, alteri imperium, atque alteri patientiam proponat, nisi quod mansuetioris spiritus Titum, et Paulo ferventioris vidit esse Timotheum? Illum per aemulationis studium inflammat, hunc per lenitatem patientiae temperat. Illi quod deest jungit, huic quod super est subtrahit. Illum stimulo impellere nititur, hunc freno moderatur. Magnus quippe susceptae Ecclesiae colonus, alios palmites ut crescere debeant rigat; alios cum plus justo crescere conspicit resecat, ne aut non crescendo non ferant fructus, aut, immoderate crescendo, quos protulerint amittant. Sed longe alia est ira quae sub aemulationis specie subripit, alia quae turbatum cor et sine justitiae praetextu confundit. Illa enim in hoc quod debet inordinate extenditur, haec autem semper in his quae non debet inflammatur. Sciendum quippe est quia in hoc ab impatientibus iracundi differunt, quod illi ab aliis illata non tolerant, isti autem etiam quae tolerentur important. Nam iracundi saepe etiam se declinantes insequuntur, rixae occasionem commovent, labore contentionis gaudent; quos tamen melius corrigimus, si in ipsa irae suae commotione declinamus. Perturbati quippe quid audiant ignorant, sed ad se reducti tanto liberius exhortationis verba recipiunt, quanto se tranquillius toleratos erubescunt. Menti autem furore ebriae, omne rectum quod dicitur, perversum videtur. Unde et Nabal ebrio culpam suam Abigail laudabiliter tacuit, quam digesto vino laudabiliter dixit (I Reg. XXV, 37). Idcirco enim malum quod fecerat, cognoscere potuit, quia hoc ebrius non audivit. Cum vero ita iracundi alios impetunt, ut declinari omnino non possint, non aperta exprobratione, sed sub quadam sunt cautela reverentiae parcendo feriendi. Quod melius ostendimus, si Abner factum ad medium deducamus. Hunc quippe cum Asael vi incautae praecipitationis impeteret, scriptum est: Locutus est Abner ad Asael, dicens: Recede, noli me persequi, ne compellar confodere te in terram. Qui audire contempsit, et noluit declinare. Percussit ergo eum Abner aversa hasta in inguine, et transfodit eum, et mortuus est (II Reg. II, 22, 23). Cujus enim Asael typum tenuit, nisi eorum, quos vehementer arripiens furor in praeceps ducit? Qui in eodem furoris impetu tanto caute declinandi sunt, quanto et insane rapiuntur. Unde et Abner, qui nostro sermone patris lucerna

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120 dicitur, fugit, quia doctorum lingua quae supernum Dei lumen indicat, cum per abrupta furoris mentem cujuspiam ferri conspicit, cumque contra irascentem dissimulat verborum jacula reddere, quasi persequentem non vult ferire. Sed cum iracundi nulla consideratione se mitigant, et quasi Asael persequi et insanire non cessant, necesse est ut hi qui furentes conantur reprimere, nequaquam se in furore erigant, sed quidquid est tranquillitatis ostendant; quaedam vero subtiliter proferant, in quibus ex obliquo furentis animum pungant. Unde et Abner cum contra persequentem substitit, non eum recta, sed aversa asta transforavit. Ex mucrone quippe percutere, est impetu apertae increpationis obviare. Aversa vero hasta persequentem ferire, est furentem tranquille ex quibusdam tangere, et quasi parcendo superare. Asael autem protinus occumbit, quia commotae mentes dum et parci sibi sentiunt, et tamen responsorum ratione in intimis sub tranquillitate tanguntur, ab eo quod et erexerant statim cadunt. Qui ergo a fervoris sui impetu sub lenitatis percussione resiliunt, quasi sine ferro moriuntur.

CAPUT XVII Quomodo admonendi humiles et elati. Aliter admonendi sunt humiles, atque aliter elati. Illis insinuandum est quam sit vera excellentia quam sperando tenent; istis vero intimandum est quam sit nulla temporalis gloria, quam et amplectentes non tenent. Audiant humiles quam sint aeterna quae appetunt, quam transitoria quae contemnunt; audiant elati quam sint transitoria quae ambiunt, quam aeterna quae perdunt. Audiant humiles ex magistra voce Veritatis: Omnis qui se humiliat, exaltabitur (Luc. XVIII, 14); audiant elati: Omnis qui se exaltat, humiliabitur (Ibid.). Audiant humiles: Gloriam praecedit humilitas; audiant elati: Ante ruinam exaltatur spiritus (Prov. XV, 33; XVI, 18). Audiant humiles: Ad quem respiciam, nisi ad humilem et quietum, et trementem sermones meos (Isai. LXVI, 2)? audiant elati: Quid superbit terra et cinis (Eccli. X, 9)? Audiant humiles: Deus humilia respicit; audiant elati: Et alta a longe cognoscit (Psal. CXXXVII, 6). Audiant humiles, quia Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare (Matth. XX, 28); audiant elati, quia initium omnis peccati superbia est (Eccli. X, 15). Audiant humiles, quia Redemptor noster humiliavit semetipsum, factus obediens usque ad mortem (Philip. II, 8); audiant elati quod de eorum capite scriptum est: Ipse est rex super universos filios superbiae (Job. XLI, 25). Occasio igitur perditionis nostrae facta est superbia diaboli, et argumentum redemptionis nostrae inventa est humilitas Dei. Hostis enim noster inter omnia conditus, voluit videri supra omnia elatus: Redemptor autem noster magnus manens super omnia, fieri inter omnia dignatus est parvus. Dicatur ergo humilibus, quia dum se dejiciunt, ad Dei similitudinem ascendunt: dicatur elatis, quia dum se erigunt, in apostatae angeli imitationem cadunt. Quid itaque elatione dejectius, quae dum supra se tenditur, ab altitudine verae celsitudinis elongatur? Et quid humilitate sublimius, quae dum se in ima deprimit, auctori suo manenti super summa conjungit? Est tamen aliud quod in eis debeat caute pensari, quia saepe quidam humilitatis decipiuntur specie, quidam vero elationis suae ignoratione falluntur. Nam plerumque nonnullis qui sibi humiles videntur, is qui hominibus deferri non debet, conjunctus est timor; plerumque vero elatos comitari solet liberae vocis assertio. Et cum quaedam increpanda sunt vitia, illi reticent ex timore, et tamen tacere se aestimant ex humilitate, isti loquuntur per impatientiam elationis, et tamen se credunt loqui per libertatem rectitudinis. Illos ut perversa non increpent, sub specie humilitatis premit culpa formidinis; istos ad increpanda quae non debent, aut magis increpanda quam debent, sub imagine libertatis effrenatio impellit tumoris. Unde et elati admonendi sunt, ne plus quam decet sint liberi; et humiles admonendi sunt, ne plus quam expedit sint subjecti, ne aut illi defensionem justitiae vertant in exercitationem superbiae, aut isti cum student plus quam necesse est hominibus subjici, compellantur eorum etiam vitia venerari. Considerandum vero est quod plerumque elatos utilius corripimus, si eorum correptionibus

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121 quaedam laudum fomenta misceamus. Inferenda namque illis sunt aut alia bona quae in ipsis sunt, aut dicendum certe quae poterant esse si non sunt; et tunc demum resecanda sunt mala quae nobis displicent, cum prius ad audiendum eorum placabilem mentem fecerint praemissa bona quae placent. Nam et equos indomitos blanda prius manu tangimus, ut eos nobis plenius postmodum etiam per flagella subigamus. Et amaro pigmentorum poculo mellis dulcedo adjungitur, ne ea quae saluti profutura est, in ipso gustu aspera amaritudo sentiatur; dum vero gustus per dulcedinem fallitur, humor mortiferus per amaritudinem vacuatur. Ipsa ergo in elatis invectionis exordia, permixta sunt laude temperanda, ut dum admittunt favores quos diligunt, etiam correptiones recipiant quas oderunt. Plerumque autem persuadere elatis utilia melius possumus, si profectum eorum nobis potius quam illis profuturum dicamus, si eorum meliorationem nobis magis quam sibi impendi postulemus. Facile enim ad bonum elatio flectitur, si et aliis ejus inflexio prodesse credatur. Unde Moyses, qui regente se Deo, deserti iter aerea columna duce pergebat cum Hobab cognatum suum a gentilitatis conversatione vellet educere, et omnipotentis Dei dominio subjugare: Proficiscimur ad locum quem Dominus daturus est nobis; veni nobiscum, ut bene faciamus tibi, quia Dominus bona promisit Israeli. Cui cum respondisset ille: Non vadam tecum, sed revertar in terram meam in qua natus sum; illico adjunxit: Noli nos relinquere; tu enim nosti in quibus locis per desertum castra ponere debeamus, et eris ductor noster (Num. X, 29, seq.). Neque enim Moysi mentem ignorantia itineris angustabat, quem et ad prophetiae scientiam cognitio Divinitatis expanderat, quem columna exterius praeibat, quem de cunctis interius per conversationem cum Deo sedulam locutio familiaris instruebat. Sed videlicet vir providus elato auditori colloquens, solatium petivit ut daret; ducem requirebat in via, ut dux ei fieri potuisset ad vitam. Egit itaque ut superbus auditor voci ad meliora suadenti eo magis fieret devotus, quo putaretur necessarius; et unde se exhortatorem suum praecedere crederet, inde se sub verbis exhortantis inclinaret.

CAPUT XXIII Quomodo admonendi pertinaces et inconstantes. Aliter admonendi sunt pertinaces, atque aliter inconstantes. Illis dicendum est quod plus de se quam sunt sentiunt, et idcirco alienis consiliis non acquiescunt; istis vero intimandum est quod valde se despicientes negligunt, et ideo levitate cogitationum a suo judicio per temporum momenta flectuntur. Illis dicendum est quia nisi meliores se caeteris aestimarent, nequaquam cunctorum consilia suae deliberationi postponerent; istis dicendum est quia si hoc quod sunt, utcumque attenderent, nequaquam eos per tot varietatis latera mutabilitatis aura versaret. Illis per Paulum dicitur: Nolite prudentes esse apud vosmetipsos (Rom. XII, 16); at contra isti audiunt: Non circumferamur omni vento doctrinae (Ephes. IV, 14). De illis per Salomonen dicitur: Comedent fructus viae suae, suisque consiliis saturabuntur (Prov. I, 31); de istis autem ab eo rursus scribitur: Cor stultorum dissimile erit (Ibid., XV, 7). Cor quippe sapientum sibimetipsi semper est simile; quia dum rectis persuasionibus acquiescit, constanter se in bono opere dirigit. Cor vero stultorum dissimile est, quia dum mutabilitate se varium exhibet, numquam id quod fuerat manet. Et quia quaedam vitia sicut ex semetipsis gignunt alia, ita ex aliis oriuntur, sciendum summopere est quod tunc ea corripiendo melius tergimus, cum ab ipso amaritudinis suae fonte siccamus. Pertinacia quippe ex superbia, inconstantia vero ex levitate generatur. Admonendi igitur sunt pertinaces, ut elationem suae cogitationis agnoscant, et semetipsos vincere studeant; ne dum rectis aliorum suasionibus foris superari despiciunt, intus a superbia captivi teneantur. Admonendi sunt, ut solerter aspiciant quia Filius hominis, cui una semper cum Patre voluntas est, ut exemplum nobis frangendae nostrae voluntatis praebeat, dicit: Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me Patris (Joan. V, 30). Qui ut hujus adhuc virtutis gratiam commendaret, servaturum se hoc in extremo judicio praemisit, dicens: Ego a me ipso non

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122 possum facere quidquam, sed sicut audio, judico (Ibid.). Qua itaque conscientia dedignatur homo alienae voluntati acquiescere, quando Dei et hominis Filius, cum virtutis suae gloriam venit ostendere, testatur se non a semetipso judicare? At contra admonendi sunt inconstantes, ut mentem gravitate roborent. Tunc enim genimina in se mutabilitatis arefaciunt, cum a corde prius radicem levitatis abscidunt, quia et tunc fabrica robusta construitur, cum prius locus solidus, in quo fundamentum poni debeat, providetur. Nisi ergo ante mentis levitas caveatur, cogitationum inconstantia minime vincitur. A quibus se alienum Paulus fuisse perhibuit, cum dicit: Nunquid levitate usus sum? aut quae cogito, secundum carnem cogito, ut sit apud me, est et non (I Cor. I, 17)? Ac si aperte dicat: Idcirco mutabilitatis aura non moveor, quia levitatis vitio non succumbo.

CAPUT XIX Quomodo admonendi qui intemperantius, et qui parcius cibo utuntur. Aliter admonendi sunt gulae dediti, atque aliter abstinentes. Illos enim superfluitas locutionis, levitas operis, atque luxuria; istos vero saepe impatientiae, saepe vero superbiae culpa comitatur. Nisi enim gulae deditos immoderata loquacitas raperet, dives ille qui epulatus quotidie dicitur splendide in lingua gravius non arderet, dicens: Pater Abraham, miserere mei, et mitte Lazarum, ut intingat extremum digiti sui in aquam, ut refrigeret linguam meam, quia crucior in hac flamma (Luc. XVI, 24). Quibus profecto verbis ostenditur quia epulando quotidie crebrius in lingua peccaverat, qui totus ardens refrigerari se praecipue in lingua requirebat. Rursum quia gulae deditos levitas protinus operis sequitur, auctoritas sacra testatur, dicens: Sedit populus manducare et bibere, et surrexerunt ludere (Exod. XXXII, 6). Quos plerumque edacitas usque ad luxuriam pertrahit, quia dum satietate venter extenditur, aculei libidinis excitantur. Unde et hosti callido, qui primi hominis sensum in concupiscentia pomi aperuit, sed in peccati laqueo strinxit, divina voce dicitur: Pectore et venire repes (Gen. III, 14), ac si ei aperte diceretur: Cogitatione et ingluvie super humana corda dominaberis. Quia gulae deditos luxuria sequitur, propheta testatur, qui dum aperta narrat, occulta denuntiat, dicens: Princeps cocorum destruxit muros Jerusalem (Jer. XXXIX, 9; IV Reg. XXV, 10, sec. LXX). Princeps namque cocorum venter est, cui magna cura obsequium a cocis impenditur, ut ipse delectabiliter cibis impleatur. Muri autem Jerusalem virtutes sunt animae, ad desiderium supernae pacis elevatae. Cocorum igitur princeps muros Jerusalem dejicit; quia dum venter ingluvie extenditur, virtutes animae per luxuriam destruuntur. Quo contra nisi mentes abstinentium plerumque impatientia a sinu tranquillitatis excuteret, nequaquam Petrus cum diceret: Ministrate in fide vestra virtutem, in virtute autem scientiam, in scientia autem abstinentiam (II Petr. I, 5); protinus vigilanter adjungeret, dicens: In abstinentia autem patientiam. Deesse quippe abstinentibus patientiam praevidit, quae eis ut adesset admonuit. Rursum nisi cogitationes abstinentium nonnumquam superbiae culpa transfigeret, Paulus minime dixisset: Qui non manducat, manducantem non judicet (Rom. XIV. 3). Qui rursum ad alios loquens, dum de abstinentiae virtute gloriantium praecepta perstringeret, adjunxit: Quae sunt rationem quidem habentia sapientiae in superstitione et humilitate, et non ad parcendum corpori, non in honore aliquo ad saturitatem carnis (Coloss. II, 23). Qua in re notandum est quod in disputatione sua praedicator egregius superstitioni humilitatis speciem jungit, quia dum plus quam necesse est per abstinentiam caro atteritur, humilitas foris ostenditur, sed de hac ipsa humilitate graviter interius superbitur. Et nisi aliquando mens ex abstinentiae virtute tumesceret, nequaquam hanc velut inter magna merita Pharisaeus arrogans studiose numeraret, dicens: Jejuno bis in Sabbato (Luc. XVIII, 12). Admonendi ergo sunt gulae dediti, ne in eo quod escarum delectationi incubant, luxuriae se mucrone transfigant; et quanta sibi per esum loquacitas, quanta mentis levitas insidietur, aspiciant, ne dum ventri molliter serviunt, vitiorum laqueis crudeliter astringantur. Tanto enim longius a

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123 secundo parente receditur, quanto per immoderatum usum dum manus ad cibum tenditur, parentis primi lapsus iteratur. At contra admonendi sunt abstinentes, ut sollicite semper aspiciant, ne cum gulae vitium fugiunt, acriora his vitia quasi ex virtute generentur; ne dum carnem macerant, ad impatientiam spiritus erumpant: et nulla jam virtus sit quod caro vincitur, si spiritus ab ira superatur. Aliquando autem dum mens abstinentium ab ira se deprimit, hanc quasi peregrina veniens laetitia corrumpit, et eo abstinentiae bonum deperit, quo sese a spiritalibus vitiis minime custodit. Unde recte per prophetam dicitur: In diebus jejuniorum vestrorum inveniuntur voluntates vestrae (Isai. LVIII, 3, sec. LXX). Et paulo post: In judicia et rixas jejunatis, et percutitis pugnis (Ibid.). Incassum ergo per abstinentiam corpus atteritur, si inordinatis dimissa motibus mens vitiis dissipatur. Rursumque admonendi sunt, ut abstinentiam suam et semper sine imminutione custodiant et numquam hanc apud occultum judicem eximiae virtutis credant, ne si fortasse magni esse meriti creditur, cor in elationem sublevetur. Hinc namque per prophetam dicitur: Nunquid tale est jejunium quod elegi? Sed frange esurienti panem tuum, et egenos vagosque induc in domum tuam (Ibid., 5). Qua in re pensandum est virtus abstinentiae quam parva respicitur, quae nonnisi ex aliis virtutibus commendatur. Hinc Joel ait: Sanctificate jejunium. Jejunium quippe sanctificare, est adjunctis aliis bonis dignam Deo abstinentiam carnis ostendere. Admonendi sunt abstinentes, ut noverint quia tunc placentem Deo abstinentiam offerunt, cum ea quae sibi de alimentis subtrahunt, indigentibus largiuntur. Solerter namque audiendum est, quod per prophetam Dominus redarguit, dicens: Cum jejunaretis et plangeretis in quinto et in septimo mense per hos septuaginta annos, numquid jejunium jejunastis mihi? Et cum comedistis et bibistis, numquid non vobismetipsis comedistis, et vobismetipsis bibistis (Zach. VII, 5 seq.)? Non enimDeo, sed sibi quisque jejunat, si ea quae ventri ad tempus subtrahit, non egenis tribuit, sed ventri postmodum offerenda custodit. Itaque ne aut illos appetitus gulae a mentis statu dejiciat, aut istos afflicta caro ex elatione supplantet, audiant illi ex ore Veritatis: Attendite autem vobis, ne forte graventur corda vestra in crapula et ebrietate, et curis hujus mundi (Luc. XXI, 34). Ubi utilis quoque pavor adjungitur: Et superveniat in vos repentina dies illa. Tanquam laqueus enim superveniet in omnes, qui sedent super faciem omnis terrae (Ibidem, 35). Audiant isti: Non quod intrat in os, coinquinat hominem, sed quod procedit ex ore, coinquinat hominem (Matth. XV, 11). Audiant illi: Esca ventri, et venter escis; Deus autem et hunc et has destruet (I Cor. VI, 13). Et rursum: Non in commessationibus et ebrietatibus (Rom. XIII, 13). Et rursum: Esca nos non commendat Deo (I Cor. VIII, 8). Audiant isti, quia omnia munda mundis; coinquinatis autem et infidelibus nihil est mundum (Tit. I, 15). Audiant illi: Quorum deus venter est, et gloria in confusione ipsorum (Philip. III, 19). Audiant isti: Discedent quidam a fide (I Tim. IV, 1, 3). Et paulo post: Prohibentium nubere, abstinere a cibis, quos Deus creavit ad percipiendum cum gratiarum actione fidelibus et his qui cognoverunt veritatem. Audiant illi: Bonum est non manducare carnem, neque bibere vinum: neque in quo frater tuus scandalizatur (Rom. XIV, 21). Audiant isti: Modico vino utere propter stomachum et frequentes tuas infimitates (I. Tim. V, 23). Quatenus et illi discant cibos carnis inordinate non appetere, et isti creaturam Dei quam non appetunt, non audeant condemnare.

CAPUT XX Quomodo admonendi qui sua distribuunt, et qui rapiunt aliena. Aliter admonendi sunt qui jam sua misericorditer tribuunt, atque aliter qui adhuc et aliena rapere contendunt. Admonendi namque sunt qui jam sua misericorditer tribuunt, ne cogitatione tumida super eos se quibus terrena largiuntur, extollant; ne idcirco se meliores aestiment, quia contineri per se caeteros vident. Nam terrenae domus dominus famulorum ordines ministeriaque dispertiens, hos ut regant, illos vero statuit ut ab aliis regantur. Istos jubet ut necessaria caeteris praebeant, illos ut

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124 accepta ab aliis sumant. Et tamen plerumque offendunt qui regunt, et in patrisfamilias gratia permanent qui reguntur. Iram merentur qui dispensatores sunt, sine offensione perdurant qui ex aliena dispensatione subsistunt. Admonendi sunt igitur qui jam quae possident misericorditer tribuunt, ut a coelesti Domino dispensatores se positos subsidiorum temporalium agnoscant; et tanto humiliter praebeant, quanto et aliena esse intelligunt quae dispensant. Cumque in illorum ministerio quibus accepta largiuntur constitutos se esse considerant, nequaquam eorum mentes tumor sublevet, sed timor premat. Unde et necesse est ut sollicite perpendant ne commissa indigne distribuant; ne quaedam quibus nulla, ne nulla quibus quaedam; ne multa quibus pauca, ne pauca praebeant quibus impendere multa debuerunt; ne praecipitatione hoc quod tribuunt inutiliter spargant; ne tarditate petentes noxie crucient; ne recipiendae hic gratiae intentio subrepat; ne dationis lumen laudis transitoriae appetitio exstinguat; ne oblatum munus conjuncta tristitia obsideat; ne in bene oblato munere animus plus quam decet hilarescat, ne sibi quidquam, cum totum recte impleverint, tribuant, et simul omnia postquam peregerint perdant. Ne enim sibi virtutem suae liberalitatis deputent, audiant quod scriptum est: Si quis administrat, tanquam ex virtute quam administrat Deus (I Petr. IV. 11). Ne in benefactis immoderatius gaudeant, audiant quod scriptum est: Cum feceritis omnia quae praecepta sunt vobis, dicite: Servi inutiles sumus, quod debuimus facere, fecimus (Luc. XVII, 10). Ne largitatem tristitia corrumpat, audiant quod scriptum est: Hilarem enim datorem diligit Deus (II Cor. IX, 7). Ne ex impenso munere transitoriam laudem quaerant, audiant quod scriptum est: Nesciat sinistra tua quid faciat dextera tua (Matth. VI, 3); Id est, piae dispensationi nequaquam se gloria vitae praesentis admisceat, sed opus rectitudinis appetitio ignoret favoris. Ne impensae gratiae vicissitudinem requirant, audiant quod scriptum est: Cum facis prandium aut coenam, noli vocare amicos tuos, neque fratres tuos, neque cognatos, neque vicinos divites, ne forte et ipsi te reinvitent, et fiat tibi retributio: sed cum facis convivium, voca pauperes, debiles, claudos coecos; et beatus eris, quia non habent unde retribuere tibi (Luc. XIV, 12 seq. etc.). Ne quae praebenda sunt citius, sero praebeantur, audiant quod scriptum est: Ne dicas amico tuo: Vade et revertere, et cras dabo tibi, cum statim possis dare (Prov. III, 28). Ne sub obtentu largitatis ea quae possident inutiliter spargant, audiant quod scriptum est: Sudet eleemosyna in manu tua. Ne cum multa necesse sint, pauca largiantur, audiant quod scriptum est: Qui parce seminat, parce et metet (II Cor. IX, 6). Ne cum pauca oportet, plurima praebeant et ipsi postmodum minime inopiam tolerantes ad impatientiam erumpant, audiant quod scriptum est: Non ut aliis sit remissio, vobis autem tribulatio, sed ex aequalitate, vestra abundantia illorum inopiam suppleat, et ut illorum abundatia vestrae inopiae sit supplementum (Ibid. VIII, 13, 14). Cum enim dantis mens ferre inopiam nescit, si multa sibi subtrahit, occasionem contra se impatientiae exquirit. Prius namque praeparandus est patientiae animus, et tunc aut multa sunt aut cuncta largienda, ne dum minus aequanimiter inopia irruens fertur, et praemissae largitatis merces pereat, et adhuc mentem deterius murmuratio subsequens perdat. Ne omnino nihil eis praebeant, quibus conferre aliquid parvum debent, audiant quod scriptum est: Omni petenti te tribue (Luc. VI, 30). Ne saltem aliquid praebeant, quibus omnino conferre nil debent, audiant quod scriptum est: Da bono, et non receperis peccatorem; benefac humili, et non dederis impio (Eccli. XII, 4). Et rursum; Panem tuum et vinum super sepulturam justi constitue, et noli ex eo manducare et bibere cum peccatoribus (Tob. IV, 17). Panem enim suum et vinum peccatoribus praebet, qui iniquis subsidia pro eo quod iniqui sunt impendit. Unde et nonnulli hujus mundi divites, cum fame crucientur Christi pauperes, effusis largitatibus nutriunt histriones. Qui vero indigenti etiam peccatori panem suum, non quia peccator, sed quia homo est, tribuit; nimirum non peccatorem, sed justum pauperem nutrit, quia in illo non culpam, sed naturam diligit. Admonendi sunt etiam qui jam sua misericorditer largiuntur, ut sollicite custodire studeant, ne cum commissa peccata eleemosynis redimunt, adhuc redimenda committant; ne venalem Dei justitiam aestiment, si cum curant pro peccatis nummos tribuere, arbitrentur se posse inulte peccare. Plus est namque anima quam esca, et corpus quam vestimentum (Matth. VI, 25; Luc. XII, 23). Qui ergo escam aut vestimentum pauperibus largitur, sed tamen animae vel corporis iniquitate polluitur, quod

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125 minus est justitiae obtulit, et quod majus est, culpae; sua enim Deo dedit, et se diabolo. At contra admonendi sunt qui adhuc et aliena rapere contendunt, ut sollicite audiant quid veniens in judicium Dominus dicat. Ait namque: Esurivi, et non dedistis mihi manducare; sitivi, et non dedistis mihi bibere; hospes eram, et non collegistis me; nudus, et non operuistis me; infirmus et in carcere, et non visitastis me (Matth. XXV, 35, 36). Quibus etiam praemittit, dicens: Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum, qui paratus est diabolo et angelis ejus (Matth. XXV, 41). Ecce nequaquam audiunt, quia rapinas vel quaelibet alia violenta commiserunt, et tamen aeternis gehennae ignibus mancipantur. Hinc ergo colligendum est quanta damnatione plectendi sunt qui rapiunt aliena, si tanta animadversione feriuntur qui sua indiscrete tenuerunt. Perpendant quo eos obliget reatu res rapta, si tali subjicit poenae non tradita. Perpendant quid mereatur injustitia illata, si tanta percussione digna est pietas non impensa. Cum aliena rapere intendunt, audiant quod scriptum est: Vae ei qui multiplicat non sua; usquequo aggravat contra se densum lutum (Habac. II, 6)? Avaro quippe contra se densum lutum aggravare, est terrena lucra cum pondere peccati cumulare. Cum multiplicare large habitationis spatia cupiunt, audiant quod scriptum est: Vae qui conjungitis domum ad domum, et agrum agro copulatis, usque ad terminum loci. Nunquid habitabitis soli vos in medio terrae (Isai. V, 8)? Ac si aperte diceret: Quousque vos extenditis, qui habere in communi mundo consortes minime potestis? Conjunctos quidem premitis, sed contra quos valeatis vos extendere, semper invenitis. Cum augendis pecuniis inhiant, audiant quod scriptum est: Avarus non impletur pecunia; et qui amat divitias, non capiet fructus ex eis (Eccle. V, 9). Fructus quippe ex illis caperet, si eas bene spargere non amando voluisset. Qui vero eas diligendo retinet, hic utique sine fructu derelinquet. Cum repleri cunctis simul opibus inardescunt, audiant quod scriptum est: Qui festinat ditari, non erit innocens (Prov. XXVIII, 20); profecto enim qui augere opes ambit, vitare peccatum negligit; et more avium captus, cum escam terrenarum rerum avidus conspicit, quo stranguletur peccati laqueo non agnoscit. Cum quaelibet praesentis mundi lucra desiderant, et ea quae de futuro damna patientur, ignorant, audiant quod scriptum est: Haereditas ad quam festinatur in principio, in novissimo benedictione carebit (Prov. XX, 21). Ex hac quippe vita initium ducimus, ut ad benedictionis sortem in novissimo veniamus: qui itaque in principio haereditari festinant, sortem sibi in novissimo benedictionis amputant; quia dum per avaritiae nequitiam hic multiplicari appetunt, illic ab aeterno patrimonio exhaeredes fiunt. Cum vel plurima ambiunt, vel obtinere cuncta quae ambierint possunt, audiant quod scriptum est: Quid prodest homini si totum mundum lucretur, animae vero suae detrimentum faciat (Matth. XVI, 26)? Ac si aperte Veritas dicat: Quid prodest homini si totum quod extra se est congregat, si hoc ipsum solum quod ipse est, damnat? Plerumque autem citius raptorum avaritia corrigitur, si in verbis admonentis quam fugitiva sit praesens vita, monstretur: si eorum ad medium memoria deducatur, qui et ditari in hoc mundo diu conati sunt, et tamen in adeptis divitiis diu manere nequiverunt, quibus festina mors repente et simul abstulit quidquid eorum nequitia nec simul nec repente congregavit; qui non solum hic rapta reliquerunt, sed secum ad judicium causas rapinae detulerunt. Horum itaque exempla audiant, quos in verbis suis procul dubio et ipsi condemnant; ut cum post verba ad cor redeunt, imitari saltem quos judicant, erubescant.

CAPUT XXI Quomodo admonendi qui aliena non appetunt, sed sua retinent; et qui sua tribuentes, aliena tamen rapiunt. Aliter admonendi sunt qui nec aliena appetunt, nec sua largiuntur; atque aliter qui et ea quae habent tribuunt, et tamen aliena rapere non desistunt. Admonendi sunt qui nec aliena appetunt, nec sua largiuntur, ut sciant sollicite quod ea de qua sumpti sunt, cunctis hominibus terra communis est, et idcirco alimenta quoque omnibus communiter profert. Incassum ergo se innocentes putant, qui

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126 commune Dei munus sibi privatum vindicant; qui cum accepta non tribuunt, in proximorum nece grassantur, quia tot pene quotidie perimunt, quot morientium pauperum apud se subsidia abscondunt. Nam cum quaelibet necessaria indigentibus ministramus, sua illis reddimus, non nostra largimur; justitiae debitum potius solvimus, quam misericordiae opera implemus. Unde et ipsa Veritas cum de misericordia caute exhibenda loqueretur, ait: Attendite ne justitiam vestram faciatis coram hominibus (Matth. VI, 1). Cui quoque sententiae etiam Psalmista concinens dicit: Dispersit dedit pauperibus, justitia ejus manet in aeternum (Psal. CI, 9). Cum enim largitatem impensam pauperibus praemisisset, non hanc vocare misericordiam, sed justitiam maluit; quia quod a communi Domino tribuitur, justum profecto est, ut quicunque accipiunt, eo communiter utantur. Hinc etiam Salomon ait: Qui justus est, tribuet et non cessabit (Prov. XXI, 26). Admonendi sunt quoque ut sollicite attendant quod ficulnea quae fructum non habuit, contra hanc districtus agricola queritur, quod etiam terram occupavit. Terram quippe ficulnea sine fructu occupat, quando mens tenacium hoc quod prodesse multis poterat, inutiliter servat. Terram ficulnea sine fructu occupat, quando locum quem exercere alius per solem boni operis valuit, stultus per desidiae umbram premit. Hi autem nonnunquam dicere solent: Concessis utimur, aliena non quaerimus, et si digna misericordiae retributione non agimus, nulla tamen perversa perpetramus. Quod idcirco sentiunt, quia videlicet aurem cordis a verbis coelestibus claudunt. Admonendi sunt tenaces, ut noverint quod hanc primam injuriam faciunt Deo, quia danti sibi omnia, nullam misericordiae hostiam reddunt. Hinc enim Psalmista ait: Non dabit Deo propitiationem suam, nec pretium redemptionis animae suae (Psal. XLVIII, 8). Pretium namque redemptionis dare, est opus bonum praevenienti nos gratiae reddere. Hinc Joannes exclamat dicens: Jam securis ad radicem arboris posita est. Omnis arbor quae non facit fructum bonum, excidetur, et in ignem mittetur (Luc. III, 9). Qui ergo se innoxios, quia aliena non rapiunt aestimant, ictum securis vicinae praevideant, et torporem improvidae securitatis amittant, ne cum ferre fructum boni operis negligunt, a praesenti vita funditus quasi a viriditate radicis exsecentur. At contra admonendi sunt, qui et ea quae habent tribuunt, et aliena rapere non desistunt, ne valde munifici videri appetant, et de boni specie deteriores fiant. Hi etenim propria indiscrete tribuentes, non solum ut supra jam diximus, ad impatientiae murmurationem proruunt; sed cogente se inopia, usque ad avaritiam devolvuntur. Quid ergo eorum mente infelicius, quibus de largitate nascitur avaritia, et peccatorum seges quasi ex virtute seminatur? Prius itaque admonendi sunt ut tenere sua rationabiliter sciant, et tunc demum ut aliena non ambiant. Si enim radix culpae in ipsa effusione non exuritur, nunquam per ramos exuberans avaritiae spina siccatur. Occasio ergo rapiendi subtrahitur, si bene prius jus possidendi disponatur. Tunc vero admoniti audiant, quomodo quae habent misericorditer tribuant, quando nimirum didicerunt ut bona misericordiae per interjectam rapinae nequitiam non confundant. Violenter enim exquirunt quae misericorditer largiuntur. Sed aliud est pro peccatis misericordiam facere, aliud pro misericordia facienda peccare: quae jam nequaquam misericordia nuncupari potest, quia ad dulcem fructum non proficit quae per virus pestiferae radicis amarescit. Hinc est enim quod ipsa etiam sacrificia per prophetam Dominus reprobat, dicens: Ego Dominus diligens judicium, et odio habens rapinam in holocausto (Isai. LXI, 8). Hinc iterum dixit: Hostiae impiorum abominabiles, quae offeruntur ex scelere (Prov. XXI, 27). Qui saepe quoque et indigentibus subtrahunt quae Deo largiuntur. Sed quanta eos animadversione renuat per quemdam sapientem Dominus demonstrat, dicens: Qui offert sacrificium de substantia pauperis, quasi qui victimat filium in conspectu patris sui (Eccli. XXXIV. 24). Quid namque esse intolerabilius potest, quam mors filii ante oculos patris? Hoc itaque sacrificium quanta ira aspiciatur ostenditur, quod orbati patris dolori comparatur. Et tamen plerumque quanta tribuunt, pensant; quanta autem rapiunt, considerare dissimulant. Quasi mercedem numerant, et perpendere culpas recusant. Audiant itaque quod scriptum est: Qui mercedes congregavit, misit eas in sacculum pertusum (Aggaei. VI). In sacculo quippe pertuso videtur, quando pecunia mittitur; sed quando

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127 amittitur, non videtur. Qui ergo quanta largiuntur aspiciunt, sed quantum rapiunt non perpendunt, in pertuso sacculo mercedes mittunt, quia profecto has in spem suae fiduciae intuentes congerunt, sed non intuentes perdunt.

CAPUT XXIII Quomodo admonendi sunt discordes et pacati. Aliter admonendi sunt discordes, atque aliter pacati. Discordes namque admonendi sunt ut certissime sciant quia quantislibet virtutibus polleant, spiritales fieri nullatenus possunt, si uniri per concordiam proximis negligunt. Scriptum quippe est: Fructus autem spiritus est charitas, gaudium, pax (Gal. V, 22). Qui ergo servare pacem non curat, ferre fructum spiritus recusat. Hinc Paulus ait: Cum sit inter vos zelus et contentio, nonne carnales estis (I Cor. III, 3)? Hinc iterum quoque dicit: Pacem sequimini cum omnibus, et sanctimoniam, sine qua nemo videbit Deum (Hebr. XII, 14). Hinc rursum admonens ait: Solliciti servare unitatem spiritus in vinculo pacis: unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae (Ephes. IV, 3, 4). Ad unam ergo vocationis spem nequaquam pertingitur, si non ad eam unita cum proximis mente curratur. At saepe nonnulli quo quaedam specialiter dona percipiunt, eo superbiendo donum concordiae quod majus est, amittunt; ut si fortasse carnem prae caeteris gulae refrenatione quis edomat, concordare eis quos superat abstinendo contemnat. Sed qui abstinentiam a concordia separat, quid admoneat Psalmista perpendat; ait enim: Laudate eum in tympano et choro (Psal. CL, 4). In tympano namque sicca et percussa pellis resonat, in choro autem voces societate concordant. Quisquis itaque corpus affligit, sed concordiam deserit, Deum quidem laudat in tympano, sed non laudat in choro. Saepe vero dum quosdam major scientia erigit, a caeterorum societate disjungit, et quasi quo plus sapiunt, eo a concordiae virtute desipiscunt. Hi itaque audiant quid per semetipsam Veritas dicat: Habete sal in vobis, et pacem habete inter vos (Marc. IX, 49). Sal quippe sine pace non virtutis est donum, sed damnationis argumentum. Quo enim quisque melius sapit, eo deterius delinquit; et idcirco inexcusabiliter merebitur supplicium, quia prudenter si voluisset, potuit vitare peccatum. Quibus recte quoque per Jacobum dicitur: Quod si zelum amarum habetis, et contentiones sunt in corde vestro, nolite gloriari, et mendaces esse adversum veritatem. Non est ista sapientia desursum descendens, sed terrena, animalis, diabolica. Quae autem desursum est sapientia primum quidem pudica est, deinde pacifica (Jac. III, 14, 15, 17). Pudica videlicet, quia caste intelligit; pacifica autem, quia per elationem se minime a proximorum societate disjungit. Admonendi sunt dissidentes, ut noverint quod tandiu nullum boni operis Deo sacrificium immolant, quandiu a proximorum charitate discordant. Scriptum namque est: Si offers munus tuum ad altare, et ibi recordatus fueris quia frater tuus habet aliquid adversum te, relinque ibi munus tuum ante altare, et vade prius reconciliari fratri tuo, et tunc veniens offeres munus tuum (Matth. V, 28, 24). Ex qua scilicet praeceptione pensandum est quorum hostia repellitur, quam intolerabilis culpa monstratur. Nam cum mala cuncta bonis sequentibus diluantur, pensemus quanta sint mala discordiae, quae nisi exstincta funditus fuerint, bonum subsequi non permittunt. Admonendi sunt discordes, ut si aures a mandatis coelestibus declinant, mentis oculos ad consideranda ea quae in infimis versantur aperiant; quod saepe aves unius ejusdemque generis sese socialiter volando non deserunt, et quod gregatim animalia bruta pascuntur. Quia si solerter aspicimus, concordando sibi irrationalis natura indicat, quantum malum per discordiam rationalis natura committat, quando haec a rationis intentione perdidit, quod illa motu naturali custodit. At contra admonendi sunt pacati, ne dum plus quam necesse est, pacem quam possident amant, ad perpetuam pervenire non appetant. Plerumque enim gravius intentionem mentium rerum tranquillitas tentat; ut quo non sunt molesta quae tenent, eo minus amabilia fiant quae vocant; et quo delectant praesentia, eo non inquirantur aeterna. Unde et per semetipsam Veritas loquens, cum terrenam pacem a superna distingueret, atque ad venturam discipulos ex praesenti provocaret, ait: Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis (Joan. XIV, 27). Relinquo scilicet transitoriam, do

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128 mansuram. Si ergo in ea cor quae relicta est figitur, numquam ad illam quae danda est, pervenitur. Pax igitur praesens ita tenenda est, et ut diligi debeat et contemni; ne si immoderate diligitur, diligentis animus in culpa capiatur. Unde et admonendi sunt pacati, ne dum nimis humanam pacem desiderant, pravos hominum mores nequaquam redarguant; et consentiendo perversis, ab auctoris sui se pace disjungant; ne dum humana foras jurgia metuunt, interni foederis discissione feriantur. Quid est enim pax transitoria, nisi quoddam vestigium pacis aeternae? Quid ergo esse dementius potest, quam vestigia in pulvere impressa diligere, sed ipsum a quo impressa sunt, non amare? Hinc David dum totum se ad foedera pacis internae constringeret, testatur quod cum malis concordiam non teneret, dicens: Nonne qui te oderunt, Deus, oderam illos, et super inimicos tuos tabescebam? Perfecto odio oderam illos, inimici facti sunt mihi (Psal. CXXXVIII, 21, 22). Inimicos etenim Dei perfecto odio odisse, est et quod facti sunt diligere, et quod faciunt increpare; mores parvorum premere, vitae prodesse. Pensandum ergo est, quando ab increpatione quiescitur, quanta culpa cum pessimis pax tenetur, si propheta tantus hoc velut in hostiam Deo obtulit, quod contra se pro Domino pravorum inimicitias excitavit. Hinc est quod tribus Levi assumptis gladiis per castrorum media transiens, quia feriendis noluit peccatoribus parcere, Deo manus dicta est consecrasse (Exod., XXXII, 27, seq.). Hinc Phinees peccantium civium gratiam spernens, coeuntes cum Madianitis perculit, et iram Domini iratus placavit (Num. XXV, 9). Hinc per semetipsam Veritas dicit: Nolite arbitrari, quia venerim pacem mittere in terram. Non veni pacem mittere, sed gladium (Matth. X, 34). Malorum namque cum incaute amicitiis jungimur, culpis ligamur. Unde Josaphat, qui tot de anteacta vita praeconiis attollitur, de Achab regis amicitiis pene periturus increpatur. Cui a Domino per prophetam dicitur: Impio praebes auxilium, et his qui oderunt Dominum, amicitia jungeris; et idcirco iram quidem Domini merebaris, sed bona opera inventa sunt in te, eo quod abstuleris lucos de terra Juda (II Par. XIX, 24). Ab illo enim qui summe rectus est, eo ipso jam discrepat, quo perversorum amicitiis vita nostra concordat. Admonendi sunt pacati, ne si ad correptionis verba prosiliant, temporalem pacem sibi perturbare formident. Rursumque admonendi sunt, ut eamdem pacem dilectione integra intrinsecus teneant, quam per invectionem vocis sibi extrinsecus turbant. Quod utrumque provide se David servasse perhibet, cum dicit: Cum his qui oderunt pacem, eram pacificus, cum loquebar illis, impugnabant me gratis (Psal. CXIX, 7). Ecce et loquens impugnabatur; et tamen impugnatus, erat pacificus, quia nec insanientes cessabat reprehendere, nec reprehensos negligebat amare. Hinc etiam Paulus ait: Si fieri potest, quod ex vobis est, cum omnibus hominibus pacem habentes (Rom. XII, 18). Hortaturus enim discipulos ut pacem cum omnibus haberent, praemisit, dicens: Si fieri potest, atque subjunxit: Quod ex vobis est. Difficile quippe erat ut si male acta corriperent, habere pacem cum omnibus possent. Sed cum temporalis pax in pravorum cordibus ex nostra increpatione confunditur, inviolata necesse est ut in nostro corde servetur. Recte itaque ait: Quod ex vobis est. Ac si nimirum dicat: Quia pax ex duarum partium consensu subsistit, si ab eis qui corripiuntur expellitur, integra tamen in vestra qui corripitis mente teneatur. Unde idem rursum discipulos admonet, dicens: Si quis non obedit verbo nostro, per epistolam hunc notate: et non commisceamini cum illo, ut confundatur (II Thess. III, 14). Atque illico adjunxit: Et nolite ut inimicum existimare illum, sed corripite ut fratrem (Ibid., 15). Ac si diceret: Pacem cum eo exteriorem solvite, sed interiorem circa illum medullitus custodite; ut peccantis mentem sic vestra discordia feriat, quatenus pax a cordibus vestris nec abnegata discedat.

CAPUT XXIII Quomodo admonendi qui jurgia serunt, et pacifici. Aliter admonendi sunt seminantes jurgia, atque aliter pacifici. Admonendi namque sunt qui jurgia seminant, ut cujus sint sequaces agnoscant. De apostata quippe angelo scriptum est, cum bonae messi inserta fuisset zizania: Inimicus homo hoc fecit (Matth. XIII, 28). De cujus etiam membro per

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129 Salomonem dicitur: Homo apostata, vir inutilis, graditur ore perverso, annuit oculis, terit pede; digito loquitur, pravo corde machinatur malum, et omni tempore jurgia seminat (Prov. VI, 12). Ecce quem seminantem jurgia dicere voluit, prius apostatam nominavit: quia nisi more superbientis angeli a conspectu Conditoris prius intus aversione mentis caderet, foras postmodum usque ad seminanda jurgia non veniret. Qui recte describitur quod annuit oculis, digito loquitur, terit pede. Interior namque est custodia, quae ordinata servat exterius membra. Qui ergo statum mentis perdidit, subsequenter foras in inconstantiam motionis fluit, atque exteriori mobilitate indicat, quod nulla interius radice subsistat. Audiant jurgiorum seminatores quod scriptum est: Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (Matth. V, 9). Atque e diverso colligant, quia si filii Dei vocantur qui pacem faciunt, proculdubio Satanae sunt filii qui confundunt. Omnes autem qui per discordiam separantur a viriditate dilectionis, arefiunt. Qui etsi boni operis fructus in suis actionibus proferunt, profecto nulli sunt, quia non ex unitate charitatis oriuntur. Hinc ergo perpendant seminantes jurgia, quam multipliciter peccant: qui dum unam nequitiam perpetrant, ab humanis cordibus cunctas simul virtutes eradicant. In uno enim malo innumera peragunt, quia seminando discordiam, charitatem quae nimirum virtutum omnium mater est, exstinguunt. Quia autem nihil pretiosius est Deo virtute dilectionis, nil est desiderabilius diabolo exstinctione charitatis. Quisquis ergo seminando jurgia dilectionem proximorum perimit, hosti Dei familiarius servit, quia qua ille amissa cecidit, hanc iste vulneratis cordibus subtrahens, eis iter ascensionis abscidit. At contra admonendi sunt pacifici, ne tantae actionis pondus levigent, si inter quos fundare pacem debeant, ignorent. Nam sicut multum nocet si unitas desit bonis, ita valde est noxium si non desit malis. Si ergo perversorum nequitia in pace jungitur, profecto eorum malis actibus robur augetur; quia quo sibi in malitia congruunt, eo se robustius bonorum afflictionibus illidunt. Hinc namque est quod contra damnati illius vasis, videlicet Antichristi praedicatores, divina voce beato Job dicitur: Membra carnium ejus cohaerentia sibi (Job. XLI, 14). Hinc sub squamarum specie de ejus satellitibus perhibetur: Una uni conjungitur, et ne spiraculum quidem incedit per eas (Ibid., 7). Sequaces quippe illius quo nulla inter se discordiae adversitate divisi sunt, eo in benorum gravius nece glomerantur. Qui ergo iniquos pace sociat, iniquitati vires administrat, quia bonos deterius deprimunt, quos et unanimiter persequuntur. Unde praedicator egregins gravi Pharisaeorum Sadducaeorumque persecutione deprehensus, inter semetipsos dividere studuit, quos contra se graviter unitos vidit, cum clamavit, dicens: Viri fratres, ego Pharisaeus sum, filius Pharisaeorum, de spe et resurrectione mortuorum ego judicor (Act. XXIII, 6). Dumque Sadducaei spem resurrectionemque mortuorum esse denegarent, quam Pharisaei juxta sacri eloquii praecepta crederent, facta in persecutorum unanimitate dissensio est, et divisa turba illaesus Paulus exivit, quae hunc unita prius immaniter pressit. Admonendi itaque sunt qui faciendae pacis studiis occupantur, ut pravorum mentibus prius amorem debeant internae pacis infundere, quatenus eis postmodum valeat exterior pax prodesse; ut dum eorum cor in illius cognitione suspenditur, nequaquam ad nequitiam ex hujus perceptione rapiatur; dumque supernam provident, terrenam nullo modo ad usum suae deteriorationis inclinent. Cum vero perversi quique tales sunt, ut nocere bonis nequeant, etiamsi concupiscant, inter hos nimirum debet terrena pax construi et priusquam ab eis valeat superna cognosci; ut hi scilicet quos contra dilectionem Dei malitia suae impietatis exasperat, saltem ex proximi amore mansuescant; et quasi e vicino ad melius transeant, ut ad illam quae a se longe est, pacem Conditoris ascendant.

CAPUT XXIV Quomodo admonendi rudes in doctrina sacra, et docti, sed non humiles. Aliter admonendi sunt qui sacrae legis verba non recte intelligunt; atque aliter qui recte quidem intelligunt, sed haec humiliter non loquuntur. Admonendi enim sunt qui sacrae legis verba non recte intelligunt, ut perpendant, quia saluberrimum vini potum in veneni sibi poculum vertunt, ac per

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130 medicinale ferrum vulnere mortali se feriunt, dum per hoc in se sana perimunt, per quod salubriter abscindere sauciata debuerunt. Admonendi sunt, ut perpendant quo Scriptura sacra in nocte vitae praesentis quasi quaedam nobis lucerna sit posita, cujus nimirum verba dum non recte intelligunt, de lumine tenebrescunt. Quos videlicet ad intellectum pravum intentio perversa non raperet, nisi prius superbia inflaret. Dum enim se prae caeteris sapientes arbitrantur, sequi alios ad melius intellecta despiciunt; atque ut apud imperium vulgus scientiae sibi nomen extorqueant, student summopere et ab aliis recte intellecta destruere, et sua perversa roborare. Unde bene per prophetam dicitur: Secuerunt praegnantes Galaad ad dilatandum terminum suum (Amos I, 13). Galaad namque acervus testimonii interpretatur. Et quia cuncta simul congregatio Ecclesiae per confessionem servit testimonio veritatis, non incongrue per Galaad Ecclesia exprimitur, quae ore cunctorum fidelium, de Deo quaeque vera sunt testatur. Praegnantes autem vocantur animae, quae intellectum verbi ex divino amore concipiunt, si ad perfectum tempus veniant, conceptam intelligentiam operis ostensione pariturae. Terminum vero suum dilatare, est opinionis suae nomen extendere. Secuerunt ergo praegnantes Galaad ad dilatandum terminum suum; quia nimirum haeretici mentes fidelium quae jam aliquid de veritatis intellectu conceperant perversa praedicatione perimunt, et scientiae sibi nomen extendunt. Parvulorum corda jam de verbi conceptione gravida, erroris gladio scindunt, et quasi doctrinae sibi opinionem faciunt. Hos ergo cum conamur instruere ne perversa sentiant, admoneamus prius necesse est, ne inanem gloriam quaerant. Si enim radix elationis absciditur, consequenter rami pravae assertionis arefiunt. Admonendi sunt etiam, ne errores discordiasque generando, legem Dei quae idcirco data est ut sacrificia Satanae prohibeat, eamdem ipsam in Satanae sacrificium vertant. Unde per prophetam Dominus queritur, dicens: Dedi eis frumentum, vinum et oleum, et argentum multiplicavi eis et aurum, quae fecerunt Baal (Oseae II, 8). Frumentum quippe a Domino accipimus, quando in dictis obscurioribus subducto tegmine litterae per medullam spiritus legis interna sentimus. Vinum suum Dominus nobis praestat, cum Scripturae suae alta praedicatione nos debriat [inebriat]. Oleum quoque suum nobis tribuit, cum praeceptis apertioribus vitam nostram blanda lenitate disponit. Argentum multiplicat cum nobis luce veritatis plena eloquia subministrat. Auro quoque nos ditat, quando cor nostrum intellectu summi fulgoris irradiat. Quae cuncta haeretici Baal offerunt, quia apud auditorum suorum corda corrupte omnia intelligendo pervertunt. Et de frumento Dei, vino atque oleo, argento pariter et auro, Satanae sacrificium immolant, quia ad errorem discordiae verba pacis inclinant. Unde admonendi sunt ut perpendant, quia dum perversa mente de praeceptis pacis discordiam faciunt, justo Dei examine ipsi de verbis vitae moriuntur. At contra admonendi sunt qui recte quidem verba legis intelligunt, sed haec humiliter non loquuntur; ut in divinis sermonibus prius quam aliis eos proferant, semetipsos requirant, ne insequentes aliorum facta, se deserant; et cum recte cuncta de sacra Scriptura sentiunt, hoc solum quod per illam contra elatos dicitur, non attendant. Improbus quippe et imperitus est medicus, qui alienum mederi appetit, et ipse vulnus quod patitur nescit. Qui igitur verba Dei humiliter non loquuntur, profecto admonendi sunt, ut cum medicamina aegris apponunt, prius virus suae pestis inspiciant, ne alios medendo ipsi moriantur. Admoneri debent, ut considerent ne a virtute dicti, dicendi qualitate discordent, ne loquendo aliud, et ostendendo aliud praedicent. Audiant itaque quod scriptum est: Si quis loquitur, quasi sermones Dei (I Petr. IV, 11). Qui ergo verba quae proferunt, ex propriis non habent, cur quasi de propriis tument? Audiant quod scriptum est: Sicut ex Deo coram Deo in Christo loquimur (II Cor. II, 17). Ex Deo enim coram Deo loquitur, qui praedicationis verbum et quia a Deo accepit intelligit, et placere per illud Deo non hominibus quaerit. Audiant quod scriptum est: Abominatio Domini est omnis arrogans (Prov. XVI, 15).---Quia videlicet dum in verbo Dei gloriam propriam quaerit, jus dantis invadit; eumque laudi suae postponere nequaquam metuit, a quo hoc ipsum quod laudatur accepit. Audiant quod praedicatori per Salomonem dicitur: Bibe aquam de cisterna tua, et fluenta putei tui. Deriventur fontes tui foras, et in plateis aquas divide. Habeto eas solus, nec sint alieni participes tui (Prov. V, 15). Aquam quippe praedicator de cisterna sua bibit, cum ad cor suum rediens, prius audit ipse quod dicit. Bibit sui fluenta putei, si sui irrigatione verbi infunditur. Ubi bene subjungitur: Diriventur fontes tui foras, et in plateis aquas

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131 divide (Ibid., 18). Rectum quippe est ut ipse prius bibat, et tunc praedicando aliis influat. Fontes namque foras derivare, est exterius aliis vim praedicationis infundere. In plateis autem aquas dividere, est in magna auditorum amplitudine juxta uniuscujusque qualitatem divina eloquia dispensare. Et quia plerumque inanis gloriae appetitus subrepit dum sermo Dei ad multorum notitiam currit, postquam dictum est: In plateis aquas divide, recte subjungitur: Habeto eas solus, nec sint alieni participes tui (Ibid.). Alienos quippe malignos spiritus vocat, de quibus per Prophetam tentati hominis voce dicitur: Alieni insurrexerunt in me, et fortes quaesierunt animam meam (Ps. LIII, 5). Ait ergo: Aquas et in plateis divide, et tamen solus habe. Ac si apertius dicat: Sic necesse est ut praedicationi exterius servias, quatenus per elationem te immundis spiritibus non conjungas, ne in divini verbi ministerio hostes tuos ad te participes admittas. Aquas ergo et in plateis dividimus, et tamen soli possidemus, quando et exterius late praedicationem fundimus, et tamen per eam humanas laudes assequi minime ambimus.

CAPUT XXV Quomodo admonendi qui officium praedicationis nimia humilitate detrectant, et qui praecipiti festinatione occupant. Aliter admonendi sunt qui cum praedicare digne valeant, prae nimia humilitate formidant; atque aliter admonendi sunt quos a praedicatione imperfectio vel aetas prohibet, et tamen praecipitatio impellit. Admonendi namque sunt qui cum praedicare utiliter possunt, immoderata tamen humilitate refugiunt; ut ex minori consideratione colligant quantum in majoribus rebus derelinquant. Si enim indigentibus proximis ipsi quas haberent pecunias absconderent, adjutores proculdubio calamitatis exstitissent. Quo ergo reatu constringantur aspiciant, qui dum peccantibus fratribus verbum praedicationis subtrabunt, morientibus mentibus vitae remedia abscondunt. Unde et bene quidam sapiens dicit: Sapientia abscondita et thesaurus invisus, quae utilitas in utrisque (Eccli. XX, 32)? Si populos fames attereret, et occulta frumenta ipsi servarent, auctores proculdubio mortis existerent. Qua itaque plectendi sunt poena considerent, qui cum fame verbi animae pereant, ipsi panem perceptae gratiae non ministrant. Unde et bene per Salomonem dicitur: Qui abscondit frumenta, maledicetur in populis (Prov. XI, 26). Frumenta quippe abscondere, est praedicationis sanctae apud se verba retinere. In populis autem talis quisque maledicitur, quia in solius culpa silentii pro multorum quos corrigere potuit poena damnatur. Si medicinalis artis minime ignari secandum vulnus cernerent, et tamen secare recusarent, profecto peccatum fraternae mortis ex solo torpore committerent. Quanta ergo culpa involvantur aspiciant, qui dum cognoscunt vulnera mentium, curare ea negligunt sectione verborum. Unde et bene per prophetam dicitur: Maledictus qui prohibet gladium suum a sanguine (Jer. XLVIII, 10). Gladium quippe a sanguine prohibere, est praedicationis verbum a carnalis vitae interfectione retinere. De quo rursum gladio dicitur: Et gladius meus manducabit carnes (Deut. XXXII, 42). Hi itaque cum apud se sermonem praedicationis occultant, divinas contra se sententias terribiliter audiant, quatenus ab eorum cordibus timorem timor expellat. Audiant quod talentum qui erogare noluit, cum sententia damnationis amisit (Matth. XXV, 24, seq.). Audiant quod Paulus eo se a proximorum sanguine mundum credidit, quo feriendis eorum vitiis non pepercit, dicens: Contestor vos hodierna die, quia mundus sum a sanguine omnium: non enim subterfugi quominus annuntiarem omne consilium Dei vobis (Act. XX, 26, 27). Audiant quod voce angelica Joannes admonetur, cum dicitur: Qui audit, dicat: Veni (Apoc. XXII, 17). Ut nimirum cui se vox interna insinuat, illuc etiam clamando alios quo ipse rapitur trahat; ne clausas fores etiam vocatus inveniat, si vocanti vacuus appropinquat. Audiant quod Isaias quia a verbi ministerio tacuit, illustratus superno lumine, magna voce poenitentiae se ipse reprehendit, dicens: Vae mihi quia tacui (Isai. VI, 5). Audiant quod per Salomonem in illum praedicationis scientia multiplicari promittitur, qui in hoc quod jam obtinuit, torporis vitio non tenetur. Ait namque: Anima quae benedicit, impinguabitur; et

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132 qui inebriat, ipse quoque inebriabitur (Prov. XI, 25). Qui enim exterius praedicando benedicit, interioris augmenti pinguedinem recipit; et dum vino eloquii auditorum mentem debriare [inebriare] non desinit, potu multiplicati muneris debriatus excrescit. Audiant quod David hoc Deo in munere obtulit, quod praedicationis gratiam quam acceperat non abscondit, dicens: Ecce labia mea non prohibebo. Domine, tu cognovisti; justitiam tuam non abscondi in corde meo, veritatem tuam et salutare tuum dixi (Ps. XXXIX, 10, 11). Audiant quod sponsi colloquio ad sponsam dicitur: Quae habitas in hortis, amici auscultant; fac me audire vocem tuam (Cant. VIII, 13). Ecclesia quippe in hortis habitat, quae ad viriditatem intimam exculta plantaria virtutum servat. Cujus vocem amicos auscultare, est electos quosque verbum praedicationis illius desiderare: quam videlicet vocem sponsus audire desiderat, quia ad praedicationem ejus per electorum suorum animas anhelat. Audiant quod Moyses cum irascentem Deum populo cerneret, et assumi ad ulciscendum gladio juberet; illos a parte Dei denuntiavit existere, qui delinquentium scelera incunctanter ferirent, dicens: Si quis Domini est, jungatur mihi; ponat vir gladium super femur suum: ite et redite de porta usque ad portam per medium castrorum, et occidat unusquisque fratrem, et amicum, et proximum suum (Exod. XXXII, 27). Gladium quippe super femur ponere, est praedicationis studium voluptatibus carnis anteferre; ut cum sancta quis studet dicere, curet necesse est illicitas suggestiones edomare. De porta vero usque ad portam ire, est a vitio usque ad vitium, per quod ad mentem mors ingreditur, increpando discurrere. Per medium vero castrorum transire, est tanta aequalitate intra Ecclesiam vivere, ut qui delinquentium culpas redarguit, in nullius se debeat favorem declinare. Unde et recte subjungitur: Occidat vir fratrem, et amicum, et proximum suum. Fratrem scilicet et amicum et proximum interficit, qui cum punienda invenit, ab increpationis gladio nec eis quos per cognationem diligit parcit. Si ergo ille Dei dicitur qui ad ferienda vitia zelo divini amoris excitatur, profecto esse se Dei denegat, qui inquantum sufficit, increpare vitam carnalium recusat. At contra admonendi sunt quos a praedicationis officio vel imperfectio, vel aetas prohibet, et tamen praecipitatio impellit, ne dum tanti sibi onus officii praecipitatione arrogant, viam sibi subsequentis meliorationis abscidant; et cum arripiunt intempestive quod non valent, perdant etiam quod implere quandoque tempestive potuissent; atque scientiam, quia incongrue conantur ostendere, juste ostendantur amisisse. Admonendi sunt ut considerent quod pulli avium si ante pennarum perfectionem volare appetant, unde ire in alta cupiunt, inde in ima merguntur. Admonendi sunt ut considerent quod, structuris recentibus necdum solidatis, si tignorum pondus superponitur, non babitaculum, sed ruina fabricatur. Admonendi sunt ut considerent quod conceptas soboles feminae si priusquam plene formentur proferunt, nequaquam domos, sed tumulos replent. Hinc est enim quod ipsa Veritas, quae repente quos vellet roborare potuisset, ut exemplum sequentibus daret, ne imperfecti praedicare praesumerent, postquam plene discipulos de virtute praedicationis instruxit, illico adjunxit: Vos autem sedete in civitate quoadusque induamini virtute ex alto (Luc. XXIV, 49). In civitate quippe considemus, si intra mentium nostrarum nos claustra constringimus, ne loquendo exterius evagemur; ut cum virtute divina perfecte induimur, tunc quasi a nobismetipsis foras etiam alios instruentes exeamus. Hinc per quemdam sapientem dicitur: Adolescens loquere in causa tua vix; et si bis interrogatus fueris, habeat initium responsio tua (Eccli. XXXII, 10). Hinc est quod idem Redempter noster, cum in coelis sit conditor, et ostensione suae potentiae semper doctor angelorum, ante tricennale tempus in terra magister noluit fieri hominum; ut videlicet praecipitatis vim saluberrimi timoris infunderet, cum ipse etiam, qui labi non posset, perfectae vitae gratiam non nisi perfecta aetate praedicaret. Scriptum quippe est: Cum factus esset annorum duodecim, remansit puer Jesus in Jerusalem (Luc. II, 42). De quo a parentibus requisito, paulo post subditur: Invenerunt illum in templo sedentem in medio doctorum, audientem illos et interrogantem (Ibid., 46). Vigilanti itaque consideratione pensandum est, quod cum Jesus annorum duodecim dicitur in medio doctorum sedens, non docens, sed interrogans invenitur. Quo exemplo scilicet ostenditur ne infirmus docere quis audeat, si ille puer doceri interrogando voluit, qui per divinitatis potentiam verbum scientiae ipsis suis doctoribus ministravit. Cum vero per Paulum discipulo dicitur: Praecipe haec et doce: nemo adolescentiam tuam contemnat (I Tim. IV, 12); sciendum nobis est quia in sacro

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133 eloquio aliquando adolescentia juventus vocatur. Quod citius ostenditur, si Salomonis ad medium verba proferantur, qui ait: Laetare juvenis in adolescentia tua (Eccle. XI, 9). Si enim utraque unum esse non decerneret, quem monebat in adolescentia, juvenem non vocaret.

CAPUT XXVI Quomodo admonendi quibus omnia ex sententia succedunt, et quibus nulla. Aliter admonendi sunt qui in hoc quod temporaliter appetunt prosperantur; atque aliter qui ea quidem quae mundi sunt concupiscunt, sed tamen adversitatis labore fatigantur. Admonendi namque sunt qui in hoc quod temporaliter appetunt prosperantur, ne cum cuncta ad votum suppetunt, dantem quaerere negligant; sed in his quae dantur animum figant; ne peregrinationem pro patria diligant, ne subsidia itineris in obstacula perventionis vertant, ne nocturno lunae lumine delectati, claritatem solis videre refugiant. Admonendi itaque sunt ut quaeque in hoc mundo consequuntur, calamitatis solatia, non autem praemia retributionis credant; sed contra favores mundi mentem erigant, ne in eis ex tota cordis delectatione succumbant. Quisquis enim prosperitatem qua utitur, apud judicium cordis, melioris vitae amore non reprimit, favorem vitae transeuntis in mortis perpetuae occasionem vertit. Hinc est enim quod sub Idumaeorum specie, qui vincendos se prosperitati suae reliquerunt, in hujus mundi successibus laetantes increpantur cum dicitur: Dederunt terram meam sibi in haereditatem cum gaudio, et toto corde, et ex animo (Ezech. XXXVI, 5). Quibus verbis perpenditur, quod non solum quia gaudeant, sed quod toto corde et ex animo gaudeant, districta reprehensione feriantur. Hinc Salomon ait: Aversio parvulorum interficiet eos, et prosperitas stultorum perdet illos (Prov. I, 32). Hinc Paulus admonet dicens: Qui emunt, tamquam non possidentes, et qui utuntur hoc mundo, tanquam non utantur (I Cor. VII, 30). Ut videlicet sic nobis quae suppetunt, exterius serviant, quatenus a supernae delectationis studio animum non inflectant, ne luctum nobis internae peregrinationis temperent eaque in exsilio positis subsidium praebent; et quasi felices in transitoriis nos gaudeamus, qui ab aeternis nos interim miseros cernimus. Hinc namque est quod electorum voce dicit Ecclesia: Laeva ejus sub capite meo, et dextera illius amplexabitur me (Cant. II, 6). Sinistram Dei, prosperitatem videlicet vitae praesentis, quasi sub capite posuit, quam intentione summi amoris premit. Dextera vero Dei eam amplectitur; quia sub aeterna ejus beatitudine tota devotione continetur. Hinc rursum per Salomonem dicitur: Longitudo dierum in dextera ejus, in sinistra vero illius divitiae et gloria. (Prov. III, 16). Divitiae itaque et gloria qualiter sint habenda docuit, quae posita in sinistra memoravit. Hinc Psalmista ait: Salvum me fac dextera tua (Ps. CVII, 7). Neque enim ait manu, sed dextera; ut videlicet cum dexteram diceret, quia aeternam salutem quaereret, indicaret. Hinc rursum scriptum est: Dextera manus tua, Domine, confregit inimicos (Exod. XV, 6, sec. LXX). Hostes enim Dei etsi in sinistra ejus proficiunt, dextera franguntur quia plerumque pravos vita praesens elevat, sed adventus aeternae beatitudinis damnat. Admonendi sunt qui in hoc mundo prosperantur, ut solerter considerent quia praesentis vitae prosperitas aliquando idcirco datur ut ad meliorem vitam provocet, aliquando vero ut in aeternum plenius damnet. Hinc est enim quod plebi Israeliticae Chanaan terra promittitur, ut quandoque ad aeterna speranda provocetur. Neque enim rudis ille populus promissionibus Dei in longinquum crederet, si a promissore suo non etiam e vicino aliquid percepisset. Ut ergo ad aeternorum fidem certius roboretur, nequaquam solummodo spe ad res, sed rebus quoque ad spem trahitur. Quod liquido Psalmista testatur, dicens: Dedit eis regiones gentium, et labores populorum possederunt: ut custodiant justificationes ejus, et legem ejus requirant (Ps. CIV, 44). Sed cum largientem Deum humana mens boni operis responsione non sequitur, unde nutrita pie creditur, inde justius damnatur. Hinc enim per Psalmistam rursum dicitur: Dejecisti eos, dum allevarentur (Ps. LXXII, 18). Quia videlicet reprobi cum recta opera divinis muneribus non rependunt, cum totos se hic deserunt, et affluentibus prosperitatibus dimittunt, unde exterius proficiunt, inde ab intimis cadunt.

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134 Hinc est quod in inferno cruciato diviti dicitur: Recepisti bona in vita tua (Luc. XVI, 25). Idcirco enim bona hic recepit et malus, ut illic plenius mala reciperet, quia hic fuerat nec per bona conversus. At contra admonendi sunt, qui ea quidem quae mundi sunt concupiscunt, sed tamen adversitatis labore fatigantur, ut sollicita consideratione perpendant, Creator dispositorque cunctorum quanta super eos gratia vigilat, quos in sua desideria non relaxat. Aegro quippe quem medicus desperat, concedit ut cuncta quae concupiscit accipiat. Nam qui sanari posse creditur, a multis quae appetit prohibetur: et pueris nummos subtrahimus, quibus tota simul patrimonia haeredibus reservamus. Hinc ergo de spe aeternae haereditatis gaudium sumant, quos adversitas vitae temporalis humiliat; quia nisi salvandos in perpetuum cerneret, erudiendos sub disciplinae regimine divina dispensatio non frenaret. Admonendi itaque sunt qui in his quae temporaliter concupiscunt, adversitatis labore fatigantur, ut sollicite considerent quod plerumque etiam justos cum temporalis potentia sustollit, velut in laqueo culpa comprehendit. Nam sicut in priori hujus voluminis parte jam diximus (I parte, c. 3), David Deo amabilis rectior fuit in servitio, quam cum pervenit ad regnum (I Reg. XXIV, 18). Servus namque amore justitiae, deprehensum adversarium ferire timuit; rex autem persuasione luxuriae devotum militem etiam sub studio fraudis exstinxit (II Reg. XI, 17). Quis ergo opes, quis potestatem, quis gloriam quaerat innoxie, si et illi exstiterunt noxia, qui haec habuit non quaesita? Quis inter haec sine magni discriminis labore salvabitur, si ille in his culpa interveniente turbatus est, qui ad haec fuerat Deo eligente praeparatus? Admonendi sunt ut considerent quia Salomon qui post tantam sapientiam usque ad idololatriam cecidisse describitur, nihil in hoc mundo priusquam caderet, adversitatis habuisse memoratur; sed concessa sapientia funditus cor deseruit, quod nulla vel minima tribulationis disciplina custodivit (III Reg. XI, 4).

CAPUT XXVII Quomodo admonendi conjugati et caelibes. Aliter admonendi sunt conjugiis obligati, atque aliter a conjugii nexibus liberi. Admonendi namque sunt conjugiis obligati, ut cum vicissim quae sunt alterius cogitant, sic eorum quisque placere studeat conjugi, ut non displiceat Conditori; sic ea quae hujus mundi sunt agant, ut tamen appetere quae Dei sunt non omittant; sic de bonis praesentibus gaudeant, ut tamen sollicita intentione mala aeterna pertimescant; sic de malis temporalibus lugeant, ut tamen consolatione integra spem in bonis perennibus figant; quatenus dum in transitu cognoscunt esse quod agunt, in mansione quod appetunt; nec mala mundi cor frangant, cum spes bonorum coelestium roborat; nec bona praesentis vitae decipiant, cum suspecta subsequentis judicii mala contristant. Itaque animus Christianorum conjugum et infirmus et fidelis, qui et plene cuncta temporalia despicere non valet, et tamen aeternis se conjungere per desiderium valet; quamvis in delectatione carnis interim jaceat, supernae spei refectione convalescat. Et si habet quae mundi sunt in usu itineris, sperat quae Dei sunt in fructu perventionis; nec totum se ad hoc quod agit conferat, ne ab eo quod robuste sperare debuit funditus cadat. Quod bene ac breviter Paulus exprimit, dicens: Qui habent uxores, tanquam non habentes sint; et qui flent, tanquam non flentes; et qui gaudent, tanquam non gaudentes (I Cor. VII, 29, 30). Uxorem quippe quasi non habendo habet, qui sic per illam carnali consolatione utitur, ut tamen numquam ad prava opera a melioris intentionis rectitudine ejus amore flectatur. Uxorem quasi non habendo habet, qui transitoria esse cuncta conspiciens, curam carnis ex necessitate tolerat, sed aeterna gaudia spiritus ex desiderio exspectat. Non flendo autem flere, est sic exteriora adversa plangere, ut tamen noverit aeternae spei consolatione gaudere. Et rursum, non gaudendo gaudere, est sic de infimis animum attollere, ut tamen nunquam desinat summa formidare. Ubi apte quoque paulo post subdit: Praeterit enim figura hujus mundi (Ibid., 1). Ac si aperte diceret: Nolite constanter mundum diligere, quando et ipse non potest, quem diligitis, stare. Incassum cor quasi manentes figitis, dum fugit ipse quem amatis.

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135 Admonendi sunt conjuges, ut ea in quibus sibi aliquando displicent, et patientes invicem tolerent, et exhortantes invicem salvent. Scriptum namque est: Invicem onera vestra portate, et sic adimplebitis legem Christi (Galat. IV, 2). Lex quippe Christi charitas est; quia ex illo nobis et largiter sua bona contulit, et aequanimiter mala nostra portavit. Tunc ergo legem Christi imitando complemus, quando et nostra bona benigne conferimus, et nostrorum mala pie sustinemus. Admonendi quoque sunt, ut eorum quisque non tam quae ab altero tolerat, quam quae ab ipso tolerantur attendat. Si enim sua quae portantur considerat, ea quae ab altero sustinet, levius portat. Admonendi sunt conjuges, ut suscipiendae prolis se meminerint causa conjunctos, et cum immoderatae admistioni servientes, propagationis articulum in usum transferunt voluptatis, perpendant quod licet extra non exeant, in ipso tamen conjugio conjugii jura transcendunt. Unde necesse est ut crebris exorationibus deleant quod pulchram copulae speciem admistis voluptatibus foedant. Hinc est enim quod peritus medicinae coelestis Apostolus non tam sanos instituit, quam infirmis medicamenta monstravit, dicens: De quibus scripsistis mihi: Bonum est homini mulierem non tangere; propter fornicationem autem unusquisque suam habeat uxorem, et unaquaeque suum virum habeat (I Cor. VII, 1, seq. etc.). Qui enim fornicationis metum praemisit, profecto non stantibus praeceptum contulit; sed ne fortasse in terram ruerent, lectum cadentibus ostendit. Unde adhuc infirmantibus subdidit: Uxori vir debitum reddat, similiter et uxor viro (Ibid.). Quibus dum in magna honestate conjugii aliquid de voluptate largiretur, adjunxit: Hoc autem dico secundum indulgentiam, non secundum imperium (Ibid.). Culpa quippe esse innuitur, quod indulgeri perhibetur; sed quae tanto citius relaxetur, quanto non per hanc illicitum quid agitur, sed hoc quod est licitum, sub moderamine non tenetur. Quod bene Loth in semetipso exprimit, qui ardentem Sodomam fugit; sed tamen Segor inveniens, nequaquam mox montana conscendit (Gen. XIX, 30). Ardentem quippe Sodomam fugere, est illicita carnis incendia declinare. Altitudo vero montium, est munditia continentium. Vel certe quasi in monte sunt qui etiam carnali copulae inhaerent, sed tamen extra suscipiendae prolis admistionem debitam, nulla carnis voluptate solvuntur. In monte quippe stare est, nisi fructum propaginis in carne non quaerere. In monte stare, est carni carnaliter non adhaerere. Sed quia multi sunt qui scelera quidem carnis deserunt, nec tamen in conjugio positi usus solummedo debiti jura conservant, exiit quidem Loth Sodomam, sed tamen mox ad montana non pervenit, quia jam damnabilis vita relinquitur, sed adhuc celsitudo conjugalis continentiae subtiliter non tenetur. Est vero in medio Segor civitas, quae fugientem salvet infirmum, quia videlicet cum sibi per incontinentiam miscentur conjuges, et lapsus scelerum fugiunt, et tamen venia salvantur. Quasi parvam quippe civitatem inveniunt in qua ab ignibus defendantur, quia conjugalis haec vita non quidem in virtutibus mira est, sed tamen a suppliciis secura. Unde idem Loth ad angelum dicit: Est civitas hic juxta, ad quam possum fugere, parva; et salvabor in ea. Numquid non modica est, et vivet anima mea in ea (Genes. XIX, 20)? Juxta ergo dicitur, et tamen ad salutem tuta perhibetur, quia conjugalis vita nec a mundo longe divisa est, nec tamen a gaudio salutis aliena. Sed tunc in hac actione vitam suam conjuges quasi in parva civitate custodiunt, quando pro se assiduis deprecationibus intercedunt. Unde et recte per angelum ad eumdem Loth dicitur: Ecce etiam in hoc suscepi preces tuas, ut non subvertam urbem pro qua locutus es (Ibid. 21). Qui videlicet cum deprecatio funditur Deo nequaquam talis conjugii vita damnatur. De qua deprecatione Paulus quoque admonet, dicens: Nolite fraudare invicem, nisi forte ex consensu ad tempus, ut vacetis orationi (I Cor. VII, 5). At contra admonendi sunt qui ligati conjugiis non sunt, ut praeceptis coelestibus eo rectius serviant, quo eos ad curas mundi nequaquam jugum copulae carnalis inclinat; ut quos onus licitum conjugii non gravat, nequaquam pondus illicitum terrenae sollicitudinis premat; sed tanto eos paratiores dies ultimus, quanto et expeditiores inveniat; ne quo meliora agere vacantes possunt, sed tamen negligunt, eo supplicia deteriora mereantur. Audiant quod Apostolus cum quosdam ad caelibatus gratiam instrueret, non conjugium sprevit, sed curas mundi nascentes ex conjugio repulit, dicens: Hoc ad utilitatem vestram dico, non ut laqueum vobis injiciam; sed ad id quod honestum est, et

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136 quod facultatem praebeat sine impedimento Domino observiendi (Ibid., 35). Ex conjugiis quippe terrenae sollicitudines prodeunt; et idcirco magister gentium auditores suos ad meliora persuasit, ne sollicitudine terrena ligarentur. Quem igitur caelibem curarum saecularium impedimentum praepedit, et conjugio se nequaquam subdidit, et tamen conjugii onera non evasit. Admonendi sunt caelibes, ne sine damnationis judicio misceri se feminis vacantibus putent. Cum enim Paulus fornicationis vitium tot criminibus exsecrandis inseruit, cujus sit reatus indicavit, dicens: Neque fornicatores, neque idolis servientes, neque adulteri, neque molles, neque masculorum concubitores, neque fures, neque avari, neque ebriosi, neque maledici, neque rapaces regnum Dei possidebunt (I Cor. VI, 9, 10). Et rursum: Fornicatores autem et adulteros judicabit Deus (Hebr. XIII, 4). Admonendi itaque sunt, ut si tentationum procellas cum difficultate salutis tolerant, conjugii portum petant. Scriptum namque est: Melius est nubere, quam uri (I Cor. VII, 9). Sine culpa scilicet ad conjugium veniunt, si tamen necdum meliora voverunt. Nam quisquis bonum majus subire proposuit, bonum minus quod licuit, illicitum fecit. Scriptum quippe est: Nemo mittens manum suam ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno caelorum (Luc. IX, 62). Qui igitur fortiori studio intenderat, retro convincitur respicere, si relictis amplioribus bonis ad minima retorquetur.

CAPUT XXVIII Quomodo admonendi peccata carnis experti, et eorum expertes. Aliter admonendi sunt peccatorum carnis conscii, atque aliter ignari. Admonendi namque sunt peccata carnis experti, ut mare saltem post naufragium metuant, et perditionis suae discrimina vel cognita perhorrescant; ne qui pie post perpetrata mala servati sunt, haec improbe repetendo moriantur. Unde peccanti animae et numquam a peccato desinenti dicitur: Frons mulieris meretricis facta est tibi, noluisti erubescere (Jerem. III, 3). Admonendi itaque sunt ut studeant quatenus si accepta naturae bona integra servare noluerunt, saltem scissa resarciant. Quibus nimirum necesse est ut perpendant in tam magno fidelium numero quam multi et se illibatos custodiant, et alios ab errore convertant. Quid ergo isti dicturi sunt, si aliis in integritare stantibus, ipsi nec post damna resipiscunt. Quid dicturi sunt, si cum multi et alios secum deferunt ad regnum, hi exspectanti Domino nec semetipsos reducunt? Amonendi sunt, ut praeterita commissa considerent, et imminentia devitent. Unde sub Judaeae specie per prophetam Dominus corruptis in hoc mundo mentibus transactas ad memoriam culpas revocat, quatenus pollui in futuris erubescant, dicens: Fornicatae sunt in Aegypto, in adolescentia sua fornicatae sunt; ibi subacta sunt ubera earum, et fractae sunt mammae pubertatis earum (Ezech. XXIII, 3). In Aegypto quippe ubera subiguntur, cum turpi hujus mundi desiderio humanae mentis voluntas substernitur. In Aegypto pubertatis mammae franguntur, quando naturales sensus adhuc in semetipsis integri, pulsantis concupiscentiae corruptione vitiantur. Admonendi sunt peccata carnis experti, ut vigilanti cura conspiciant post delicta nobis ad se redeuntibus Deus quanta benevolentia sinum suae pietatis expandat, cum per prophetam dicat: Si dimiserit vir uxorem suam, et illa recedens duxerit virum alium, numquid revertetur ad eam ultra? Nunquid non polluta et contaminata erit mulier illa? Tu autem fornicata es cum amatoribus multis, tamen revertere ad me, dicit Dominus (Jerem. III, 1). Ecce de fornicante et relicta muliere argumentum justitiae proponitur, et tamen nobis post lapsum redeuntibus non justitia, sed pietas exhibetur. Ut hinc utique colligamus, si nobis delinquentibus tanta pietate parcitur, a nobis nec post delictum redeuntibus quanta improbitate peccatur; aut quae ab illo erit super improbos venia, qui non cessat vocare post culpam. Quae nimirum bene per prophetam post delictum misericordia vocationis exprimitur, cum averso homini dicitur: Et erunt oculi tui videntes praeceptorem tuum, et aures tuae audient verbum post tergum monentis (Isai. XXX, 20). Humanum quippe genus Dominus in faciem monuit, quando in paradiso condito homini atque in libero arbitrio stanti, quid facere, quidve non facere deberet, indixit. Sed homo in Dei faciem terga dedit, cum superbiens ejus jussa

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137 contempsit. Nec tamen superbientem Deus deseruit, qui ad revocandum hominem legem dedit, exhortantes angelos misit, in carne nostrae mortalitatis ipse apparuit. Ergo post tergum stans nos admonuit, qui ad recuperationem nos gratiae etiam contemptus vocavit. Quod igitur generaliter simul potuit dici de cunctis, hoc necesse est specialiter sentiri de singulis. Quasi enim coram Deo positus quisque verba monitionis ejus percipit, cum priusquam peccata perpetret, voluntatis ejus praecepta cognoscit. Adhuc enim ante faciem ejus stare, est necdum eum peccando contemnere. Cum vero derelicto bono innocentiae, iniquitatem eligens appetit, jam terga in ejus faciem mittit. Sed ecce adhuc et post tergum Deus subsequens monet, qui etiam post culpam ad se redire persuadet. Aversum revocat, commissa non respicit, revertenti sinum pietatis expandit. Vocem ergo post tergum monentis audimus, si ad invitantem nos Dominum saltem post peccata revertimur. Debemus igitur pietatem vocantis erubescere, si justitiam nolumus formidare; quia tanto graviori improbitate contemnitur, quanto et contemptus adhuc vocare non dedignatur. At contra admonendi sunt peccata carnis ignorantes, ut tanto sollicitius praecipitem ruinam metuant, quanto altius stant. Admonendi sunt, ut noverint, quia quo magis loco prominenti consistunt, eo crebrioribus sagittis insidiatoris impetuntur. Qui tanto ardentius solet erigi, quanto robustius se conspicit vinci; tantoque intolerabilius dedignatur vinci, quanto contra se videt per integra infirmae carnis castra pugnari. Admonendi sunt ut incessanter praemia suscipiant, et libenter proculdubio tentationum quas tolerant labores calcabunt. Si enim attendatur felicitas quae sine transitu attingitur, leve fit quod transeundo laboratur. Audiant quod per prophetam dicitur: Haec dicit Dominus eunuchis: Qui custodierint sabbata mea, et elegerint quae volui, et foedus meum tenuerint: dabo eis in domo mea et in muris meis locum et nomen melius a filiis et filiabus (Isa. LVI, 4, 5). Eunuchi quippe sunt, qui compressis motibus carnis, affectum in se pravi operis abscidunt. Quo autem apud Patrem loco habeantur, ostenditur; quia in domo Patris videlicet aeterna mansione etiam filiis praeferuntur. Audiant quod per Joannem dicitur: Hi sunt qui cum mulieribus non sunt coinquinati: virgines enim sunt, et sequuntur Agnum quocunque ierit (Apoc. XIV, 4). Et quod canticum cantant, quod nemo potest dicere, nisi illa centum quadraginta quatuor millia. Singulariter quippe canticum Agno cantare, est cum eo in perpetuum prae cunctis fidelibus etiam de incorruptione carnis gaudere. Quod tamen electi caeteri canticum audire possunt, licet dicere nequeant, quia per charitatem quidem in illorum celsitudine laeti sunt, quamvis ad eorum praemia non assurgant. Audiant peccatorum carnis ignari quod per semetipsam de hac integritate Veritas dicit: Non omnes capiunt verbum hoc (Matth. XIX, 11). Quod eo innotuit summum, quo denegavit omnium; et dum preadicit quia difficile capitur, audientibus innuit captum cum qua cautela teneatur. Admonendi sunt itaque peccata carnis ignorantes, ut et praeeminere virginitatem conjugio sciant, et tamen se super conjuges non extollant, quatenus dum et virginitatem praeferunt, et se postponunt; et illud non deserant quod melius esse aestimant, et se custodiant quo se inaniter non exaltant. Admonendi sunt ut considerent quod plerumque actione saecularium vita continentium confunditur, cum et illi ultra habitum assumunt opera, et isti juxta ordinem proprium non excitant corda. Unde bene per prophetam dicitur: Erubesce, Sidon, ait mare (Isai. XXIII, 4). Quasi enim per vocem maris ad verecundiam Sidon adducitur, quando per comparationem vitae saecularium atque in hoc mundo fluctuantium, ejus qui munitus et quasi stabilis cernitur, vita reprobatur. Saepe enim nonnulli ad Dominum post carnis peccata redeuntes, tanto se ardentius in bonis operibus exhibent, quanto damnabiliores se de malis vident. Et saepe quidam in carnis integritate perdurantes, cum minus se respiciunt habere quod defleant, plene sibi sufficere vitae suae innocentiam putant, atque ad fervorem spiritus nullis se ardoris stimulis inflammant. Et fit plerumque Deo gratior amore ardens vita post culpam, quam securitate torpens innocentia. Unde et voce judicis dicitur: Remittuntur ei peccata multa, quia dilexit multum (Luc. VII, 47). Et: Gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitente, magis quam super nonaginta novem justis, quibus non opus est poenitentia (Luc. XV, 10). Quod citius ex ipso usu colligimus, si nostrae mentis judicia pensemus. Plus namque terram diligimus quae post spinas exarata fructus uberes producit, quam quae nullas spinas habuit, sed tamen exculta sterilem segetem gignit. Admonendi sunt peccata carnis ignorantes, ne superioris

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138 ordinis celsitudine se caeteris praeferant, cum ab inferioribus quanta se melius agantur ignorant. In examine namque recti judicis mutat merita ordinum, qualitas actionum. Quis enim consideratis ipsis rerum imaginibus, nesciat quod in natura gemmarum carbunculus praeferatur hyacintho? Sed tamen caerulei coloris hyacinthus praefertur pallenti carbunculo; quia et illi quod naturae ordo subtrahit, species decoris adjungit; et hunc quem naturalis ordo praetulerat, coloris qualitas foedat. Sic ergo in humano genere et quidam in meliori ordine deteriores sunt, et quidam in deteriori meliores, quia et isti sortem extremi habitus bene vivendo transcendunt, et illi superioris loci meritum moribus non exsequendo diminuunt.

CAPUT XXIX Quomodo admonendi qui peccata operum lugent, et qui solum cogitationum. Aliter admonendi sunt qui peccata deplorant operum, atque aliter qui cogitationum. Admonendi quippe sunt qui peccata deplorant operum, ut consummata mala perfecta diluant lamenta, ne plus astringantur in debito perpetrati operis, et minus solvant fletibus satisfactionis. Scriptum quippe est: Potum dedit nobis in lacrymis in mensura (Psal. LXXIX, 6); ut videlicet uniuscujusque mens tantum poenitendo compunctionis suae bibat lacrymas, quantum se a Deo meminit aruisse per culpas. Admonendi sunt ut incessanter admissa ante oculos reducant, atque vivendo agant, ut a districto judice videri non debeant. Unde David cum peteret, dicens: Averte oculos tuos a peccatis meis (Psal. L, 11), paulo superius intulit: Delictum meum coram me est semper (Ibid., 5). Ac si diceret: Peccatum meum ne respicias postulo, quia hoc respicere ipse non cesso. Unde et per prophetam Dominus dicit: Et peccatorum tuorum memor non ero, tu autem memor esto (Isai. XLIII, 25, 26, sec. LXX). Admonendi sunt ut singula quaeque admissa considerent, et dum per unumquodque erroris sui inquinationem deflent, simul se ac totos lacrymis mundent. Unde bene per Jeremiam dicitur, cum Judaeae singula delicta pensarentur: Divisiones aquarum deduxit oculus meus (Thren. III, 48). Divisas quippe ex oculis aquas deducimus, quando peccatis singulis dispertitas lacrymas damus. Neque enim uno eodemque tempore aeque mens de omnibus dolet; sed dum nunc hujus, nunc illius culpae memoria acrius tangitur, simul de omnibus in singulis commota purgatur. Admonendi sunt, ut de misericordia quam postulant, praesumant, ne vi immoderatae afflictionis intereant. Neque enim pie Dominus ante delinquentium oculos flenda peccata opponeret, si per semetipsum ea districte ferire voluisset. Constat enim quod a suo judicio abscondere voluit, quos miserando praeveniens sibimetipsis judices fecit. Hinc enim scriptum est: Praeveniamus faciem Domini in confessione (Psal. XCIV, 2). Hinc per Paulum dicitur: Si nosmetipsos dijudicaremus, non utique judicaremur (I Cor. XI, 31). Rursumque admonendi sunt, ut sic de spe fiduciam, habeant, ne tamen incauta securitate torpescant. Plerumque enim hostis callidus mentem quam peccato supplantat, cum de ruina sua afflictam respicit, securitatis pestiferae blanditiis seducit. Quod figurate exprimitur, cum factum Dinae memoratur. Scriptum quippe est: Egressa est Dina ut videret mulieres regionis illius; quam cum vidisset Sichem filius Hemor Hevaei, princeps terrae illius, adamavit eam, et rapuit, et dormivit cum illa, vi opprimens virginem; et conglutinata est anima ejus cum ea, tristemque blanditiis delinivit (Genes. XXXIV, 1-3). Dina quippe ut mulieres videat extraneae regionis, egreditur, quando unaquaeque mens sua studia negligens, actiones alienas curans, extra habitum atque extra ordinem proprium vagatur. Quam Sichem princeps terrae opprimit, quia videlicet inventam in curis exterioribus diabolus corrumpit. Et conglutinata est anima ejus cum ea (Ibid.); quia unitam sibi per iniquitatem respicit. Et quia cum mens a culpa resipiscit, addicitur, atque admissum flere conatur: corruptor autem spes ac securitates vacuas ante oculos revocat, quatenus utilitatem tristitiae subtrahat, recte illic adjungitur: Tristemque blanditiis delinivit (Ibid.). Modo enim aliorum facta graviora, modo nil esse quod perpetratum est, modo misericordem Deum loquitur, modo adhuc tempus subsequens ad poenitentiam pollicetur; ut dum per haec

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139 decepta mens ducitur, ab intentione poenitentiae suspendatur; quatenus tunc bona nulla percipiat, quam nunc mala nulla contristant: et tunc plenius obruatur suppliciis, quae nunc etiam gaudet in delictis. At contra admonendi sunt qui peccata cogitationum deflent, ut sollicite considerent intra mentis arcana utrum delectatione tantummodo, an etiam consensu deliquerint. Plerumque enim tentatur cor, et ex carnis nequitia delectatur, et tamen eidem nequitiae ex ratione renititur, ut in secreto cogitationis et contristet quod libet, et libeat quod contristat. Nonnumquam vero ita mens baratro tentationis absorbetur, ut nullatenus renitatur, sed ex deliberatione sequitur hoc, unde ex delectatione pulsatur; et si facultas exterior suppetat, rerum mox effectibus interiora vota consummat. Quod videlicet si justa animadversio districti judicis respicit, non est jam cogitationis culpa, sed operis; quia etsi rerum tarditas foras peccatum distulit, intus hoc consensionis opere voluntas implevit. In primo autem parente didicimus quia tribus modis omnis culpae nequitiam perpetramus, suggestione scilicet, delectatione et consensu. Primum itaque per hostem, secundum vero per carnem, tertium per spiritum perpetratur. Insidiator enim prava suggerit, caro se delectationi subjicit, atque ad extremum spiritus victus delectatione consentit. Unde et ille serpens prava suggessit, Eva autem quasi caro se delectationi subdidit, Adam vero velut spiritus suggestione ac delectatione superatus assensit. Suggestione itaque peccatum agnoscimus, delectatione vincimur, consensu etiam ligamur. Admonendi sunt igitur qui nequitias cogitationis deflent, ut sollicite considerent in qua peccati mensura ceciderunt, quatenus juxta ruinae modum quam in semetipsis introrsus sentiunt, etiam mensura lamentationis erigantur, ne si cogitata mala minus cruciant, usque ad perpetranda opera perducant. Sed inter haec ita terrendi sunt, ut tamen minime frangantur. Saepe enim misericors Deus eo citius peccata cordis abluit, quo haec exire ad opera non permittit; et cogitata nequitia quando citius solvitur, quia effectu operis districtius non ligatur. Unde recte per Psalmistam dicitur: Dixi, pronuntiabo adversum me injustitias meas Domino, et tu remisisti impietatem cordis mei (Ps. XXXI, 3). Qui enim impietatem cordis subdidit, quia cogitationum injustitias pronuntiare vellet indicavit. Dumque ait: Dixi, pronuntiabo, atque illico adjunxit, Et tu remisisti; quam sit super haec facilis venia ostendit. Qui dum se adhuc petere promittit, hoc quod petere se promittebat, obtinuit; quatenus quia usque ad opus non venerat culpa, usque ad cruciatum non perveniret poenitentia, sed cogitata afflictio mentem tergeret, quam nimirum tantummodo cogitata iniquitas inquinasset.

CAPUT XXX

Quomodo admonendi qui a peccatis quae deflent, non abstinent; et qui cum abstineant, non deflent. Aliter admonendi sunt qui admissa plangunt, nec tamen deserunt; atque aliter qui deserunt, nec tamen plangunt. Admonendi sunt enim qui admissa plangunt, nec tamen deserunt, ut considerare sollicite sciant quia flendo inaniter se mundant, qui vivendo se nequiter inquinant, cum idcirco se lacrymis lavant, ut mundi ad sordes redeant. Hinc enim scriptum est: Canis reversus ad suum vomitum, et sus lota in volutabro luti (Prov. XXVI, 11; II Petr. II, 22). Canis quippe cum vomit, profecto cibum qui pectus deprimebat, projicit; sed cum ad vomitum revertitur, unde levigatus fuerat, rursus oneratur. Et qui admissa plangunt, profecto nequitiam, de qua male satiati fuerant, et quae mentis intima deprimebat, confitendo projiciunt, quam post confessionem dum repetunt, resumunt. Sus vero in volutabro luti cum lavatur, sordidior redditur. Et qui admissa plangit, nec tamen deserit, poenae gravioris culpae se subjicit; quia et ipsam quam flendo potuit impetrare veniam contemnit, et quasi in lutosa aqua semetipsum volvit, quia dum fletibus suis vitae munditiam subtrahit, ante Dei oculos sordidas ipsas etiam lacrymas facit. Hinc rursum scriptum est: Ne iteres verbum in oratione tua (Eccli. VII, 15). Verbum namque in oratione iterare, est post

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140 fletum committere quod rursum necesse sit flere. Hinc per Isaiam dicitur: Lavamini (Isai. I, 16), mundi estote. Post lavacrum enim mundus esse negligit, quisquis post lacrymas vitae innocentiam non custodit. Et lavantur ergo et nequaquam mundi sunt, qui commissa flere non desinunt, sed rursus flenda committunt. Hinc per quemdam sapientem dicitur: Qui baptizatur a mortuo, et iterum tangit illum, quid proficit lavatio ejus (Eccli. XXXIV, 30)? Baptizatur quippe a mortuo, qui mundatur fletibus a peccato; sed post baptisma mortuum tangit, qui culpam post lacrymas repetit. Admonendi sunt qui admissa plangunt, nec tamen deserunt, ut ante districti judicis oculos eis se esse similes agnoscant, qui venientes ad faciem quorumdam hominum, magna eis submissione blandiuntur; recedentes autem, inimicitias ac damna quae valent atrociter inferunt. Quid est enim culpam flere, nisi humilitatem Deo suae devotionis ostendere? Et quid est post fletum prava agere, nisi superbas in eum quem rogaverat, inimicitias exercere? Jacobo attestante qui ait: Quicumque voluerit amicus esse saeculi hujus, inimicus Dei constituitur (Jac. IV, 4). Admonendi sunt qui admissa plangunt, nec tamen deserunt, ut sollicite considerent quia ita plerumque mali inutiliter compunguntur ad justitiam, sicut plerumque boni innoxie tentantur ad culpam. Fit quippe mira exigentibus meritis dispositionis internae mensura, ut et illi dum de bono aliquid agunt, quod tamen non perficiunt, superbe inter ipsa quae etiam plenissime perpetrant mala confidant; et isti dum de malo tentantur, cui nequaquam consentiunt, quo per infirmitatem titubant, eo gressus cordis ad justitiam per humilitatem verius figant. Balaam quippe, justorum tabernacula respiciens, ait: Moriatur anima mea morte justorum, et fiant novissima mea horum similia (Num. XXIII, 10). Sed cum compunctionis tempus abscessit, contra eorum vitam, quibus se similem fieri etiam moriendo poposcerat, consilium praebuit; et cum occasionem de avaritia reperit, illico oblitus est quidquid sibi de innocentia optavit (Ibid., XXIV, 14). Hinc vero doctor et praedicator gentium Paulus, ait: Video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meae, et captivum me ducentem in lege peccati, quae est in membris meis (Rom. VII, 23). Qui profecto idcirco tentatur, ut in bono robustius ex ipsa infirmitatis suae cognitione solidetur. Quid est ergo quod ille compungitur, et tamen justitiae non appropinquat; iste tentatur, et tamen eum culpa non inquinat, nisi hoc quod aperte ostenditur, quod nec malos bona imperfecta adjuvant, nec bonos mala inconsummata condemnant? At contra admonendi sunt qui admissa deserunt, nec tamen plangunt; ne jam relaxatas aestiment culpas, quas etsi agendo non multiplicant, nullis tamen fletibus mundant. Neque enim scriptor, si a scriptione cessaverit, quia alia non addidit, etiam illa quae scripserat delevit; nec qui contumelias irrogat, si solummodo tacuerit, satisfecit, cum profecto necesse sit ut verba praemissae superbiae verbis subjectae humilitatis impugnet; nec debitor absolutus est quia alia non multiplicat, nisi et illa quae ligaverat solvat. Ita et cum Deo delinquimus, nequaquam satisfacimus si ab iniquitate cessamus, nisi voluptates quoque quas dileximus, e contrario appositis lamentis insequamur. Si enim nulla nos in hac vita operum culpa maculasset, nequaquam nobis hic adhuc degentibus ipsa ad securitatem innocentia nostra sufficeret, quia illicita animum multa pulsarent. Qua ergo mente securus est, qui perpetratis iniquitatibus ipse sibi testis est quia innocens non est? Neque enim Deus nostris cruciatibus pascitur, sed delictorum morbos medicamentis contrariis medetur, ut qui voluptatibus delectati discessimus, fletibus amaricati redeamus; et qui per illicita defluendo cecidimus, etiam a licitis nosmetipsos restringendo surgamus; et cor quod insana laetitia infuderat, salubris tristitia exurat; et quod vulneraverat elatio superbiae, curet abjectio humilis vitae. Hinc enim scriptum est: Dixi iniquis, Nolite inique agere; et delinquentibus, Nolite exaltare cornu (Ps. LXXIV, 5). Cornu quippe delinquentes exaltant, si nequaquam se ad poenitentiam ex cognitione suae iniquitatis humiliant. Hinc rursum dicitur: Cor contritum et humiliatum Deus non spernit (Ps. L, 19). Quisquis enim peccata plangit, nec tamen deserit, cor quidem conterit, sed humiliare contemnit. Qui vero peccata jam deserit, nec tamen plangit, jam quidem humiliat, sed tamen cor conterere recusat. Hinc Paulus ait: Et haec quidem fuistis; sed abluti estis, sed sanctificati estis (I Cor. VI, 11). Quia nimirum illos emendatior vita sanctificat, quos per poenitentiam abluens

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141 afflictio fletuum mundat. Hinc Petrus cum quosdam territos malorum suorum consideratione conspiceret, admonuit, dicens: Poenitentiam agite, et baptizetur unus quisque vestrum (Act. II, 38). Dicturus enim baptisma, praemisit poenitentiae lamenta, ut prius se aqua suae afflictionis infunderent, et postmodum sacramento baptismatis lavarent. Qua igitur mente qui transactas culpas flere negligunt, vivunt securi de venia, quando ipse summus Pastor Ecclesiae huic etiam Sacramento addendam poenitentiam credidit, quod peccata principaliter exstinguit?

CAPUT XXXI Quomodo admonendi qui illicita quorum sunt conscii laudant; et qui condemnantes, minime tamen cavent. Aliter admonendi sunt qui illicita quae faciunt etiam laudant; atque aliter qui accusant prava, nec tamen devitant. Admonendi sunt enim qui illicita quae faciunt etiam laudant, ut considerent quod plerumque plus ore quam opere delinquant. Opere namque per semetipsos solos prava perpetrant; ore autem per tot personas iniquitatem exhibent, quot audientium mentes iniqua laudantes docent. Admonendi ergo sunt, ut si eradicare mala dissimulant, saltem seminare pertimescant. Admonendi sunt, ut eis perditio privata sufficiat. Rursumque admonendi sunt, ut si mali esse non metuunt, erubescant saltem videri quod sunt. Plerumque enim culpa dum absconditur, effugatur, quia dum mens erubescit videri quod tamen esse non metuit, erubescit quandoque esse quod fugit videri. Cum vero pravus quisque impudenter innotescit, quo liberius omne facinus perpetrat, eo etiam licitum putat; et quod licitum suspicatur, in hoc proculdubio multiplicius mergitur. Unde scriptum est: Peccatum suum sicut Sodoma praedicaverunt, nec absconderunt (Isai. III, 9). Peccatum enim suum si Sodoma absconderet, adhuc sub timore peccaret. Sed funditus frena timoris amiserat, quae ad culpam nec tenebras inquirebat. Unde et rursum scriptum est: Clamor Sodomorum et Gomorrhae multiplicatus est (Gen. XVIII 20). Peccatum quippe cum voce, est culpa in actione; peccatum vero etiam cum clamore, est culpa cum libertate. At contra admonendi sunt qui accusant prava, nec tamen devitant, ut provide perpendant quid in districto Dei judicio pro sua excusatione dicturi sunt, qui de reatu suorum criminum etiam semetipsis judicibus non excusantur. Hi itaque quid aliud quam praecones sunt sui? Voces contra culpas proferunt, et semetipsos operibus reos trahunt. Admonendi sunt ut videant quia de occulta jam retributione judicii est, quod eorum mens malum quod perpetrat illuminatur ut videat, sed non conatur ut vincat; ut quo melius videt, eo deterius pereat, quia et intelligentiae lumen percipit, et actionis pravae tenebras non relinquit. Nam cum acceptam ad adjutorium scientiam negligunt, hanc contra se in testimonium vertunt; et de lumine intelligentiae augent supplicia, quod profecto acceperant ut possent delere peccata. Quorum nimirum nequitia cum malum agit quod dijudicat, venturum jam judicium hic degustat; ut cum aeternis suppliciis servatur obnoxia, suo hic interim examine non sit absoluta; tantoque illic graviora tormenta percipiat, quanto hic malum non deserit, etiam quod ipsa condemnat. Hinc enim Veritas dicit: Servus qui cognovit voluntatem Domini sui, et non praeparavit, et non fecit secundum voluntatem ejus, vapulabit multis (Luc. XII, 47). Hinc Psalmista, ait: Descendant in infernum viventes (Psal. LIV, 16). Vivi quippe quae circa illos aguntur sciunt et sentiunt, mortui autem sentire nil possunt. Mortui enim in infernum descenderent, si mala nesciendo perpetrarent. Cum vero sciunt mala, et tamen faciunt, ad iniquitatis infernum viventes miseri sentientesque descendant.

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CAPUT XXXII Quomodo admonendi qui subito motu, et qui consulto peccant. Aliter admonendi sunt qui repentina concupiscentia superantur, atque aliter qui in culpa ex consilio ligantur. Admonendi quippe sunt quos repentina concupiscentia superat, ut in bello praesentis vitae se quotidie positos attendant, et cor quod praevidere vulnera non potest, scuto solliciti timoris tegant; ut occulta insidiantis hostis jacula perhorrescant, et in tam caliginoso certamine intentione continua intra mentis castra se muniant. Nam si a circumspectionis sollicitudine cor destituitur, vulneribus aperitur, quia hostis callidus tanto liberius pectus percutit, quanto nudum a providentiae lorica deprehendit. Admonendi sunt qui repentina concupiscentia superantur, ut curare nimis terrena desuescant; quia intentionem suam dum rebus transitoriis immoderatius implicant, quibus culparum jaculis transfigantur ignorant. Unde et per Salomonem vox percussi et dormientis exprimitur, qui ait: Verberaverunt me, sed non dolui; traxerunt me, et ego non sensi. Quando evigilabo, et rursum vina reperiam (Prov. XXVIII, 35)? Mens quippe a cura suae sollicitudinis dormiens verberatur et non dolet, quia sicut imminentia mala non prospicit, sic nec quae perpetraverit agnoscit. Trahitur et nequaquam sentit, quia per illecebras vitiorum ducitur, nec tamen ad sui custodiam suscitatur. Quae quidem evigilare optat, ut rursum vina reperiat, quia quamvis somno torporis a sui custodia prematur, vigilare tamen ad saeculi curas nititur, ut semper voluptatibus debrietur [inebrietur]; et cum ad illud dormiat in quo solerter vigilare debuerat, ad aliud vigilare appetit, ad quod laudabiliter dormire potuisset. Hinc superius scriptum est: Et eris quasi dormiens in medio mari, et quasi sopitus gubernator amisso clavo (Ibid., 34). In medio enim mari dormit, qui in hujus mundi tentationibus positus, providere motus irruentium vitiorum quasi imminentes undarum cumulos negligit. Et quasi clavum gubernator amittit, quando mens, ad regendam navem corporis, studium sollicitudinis perdit. Clavum quippe in mari amittere, est intentionem providam inter procellas hujus saeculi non tenere. Si enim gubernator clavum sollicite stringit, modo in fluctibus ex adverso navem dirigit, modo ventorum impetus per obliquum findit. Ita cum mens vigilanter animam regit, modo alia superans calcat, modo alia providens declinat; ut et praesentia laborando subjiciat, et contra futura certamina prospiciendo convalescat. Hinc rursum de fortibus supernae patriae bellatoribus dicitur: Uniuscujusque ensis super femur suum, propter timores nocturnos (Cant. III, 8). Ensis enim super femur ponitur, quando acumine sanctae praedicationis prava suggestio carnis edomatur. Per noctem vero caecitas nostrae infirmitatis exprimitur, quia quidquid adversitatis in nocte imminet non videtur. Uniuscujusque ergo ensis super femur suum ponitur propter timores nocturnos, quia videlicet sancti viri dum ea quae non vident metuunt, ad intentionem certaminis parati semper assistunt. Hinc rursum sponsae dicitur: Nasus tuus sicut turris quae est in Libano (Cant. VII, 4). Rem namque quam oculis non cernimus, plerumque odore praevidemus. Per nasum quoque odores fetoresque discernimus. Quid ergo per nasum Ecclesiae, nisi sanctorum provida discretio designatur? Qui etiam turri similis quae est in Libano dicitur, quia discreta eorum providentia ita in alto sita est, ut tentationum certamina et priusquam veniant videat, et contra ea dum venerint munita subsistat. Quae enim futura praevidentur, cum praesentia fuerint, minoris virtutis fiunt; quia dum contra ictum quisque paratior redditur, hostis qui se inopinatum credidit, eo ipso quo praevisus est, enervatur. At contra admonendi sunt qui in culpa ex consilio ligantur, quatenus provida consideratione perpendant, quia dum mala ex judicio faciunt, districtius contra se judicium accendunt; ut tanto eos durior sententia feriat, quanto illos in culpa arctius vincula deliberationis ligant. Citius fortasse delicta poenitendo abluerent, si in his sola praecipitatione cecidissent. Nam tardius peccatum solvitur quod et per consilium solidatur. Nisi enim mens omni modo aeterna despiceret, in culpa ex judicio non periret. Hoc ergo praecipitatione lapsis per consilium pereuntes differunt, quod cum hi a statu justitiae peccando concidunt, plerumque simul et in laqueum desperationis cadunt. Hinc est quod per prophetam Dominus non tam praecipitationum prava, quam delictorum studia reprehendit, dicens: Ne forte egrediatur ut ignis indignatio mea, et succendatur, et non sit qui exstinguat, propter

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143 malitiam studiorum vestrorum. Hinc iterum iratus dicit: Visitabo super vos juxta fructum studiorum vestrorum (Ibid. XXIII, 2). Quia ergo peccatis aliis differunt peccata quae per consilium perpetrantur, non tam prave facta Dominus quam studia pravitatis insequitur. In factis enim saepe infirmitate, saepe negligentia, in studiis vero malitiosa semper intentione peccatur. Quo contra recte beati viri expressione per Prophetam dicitur: Et in cathedra pestilentiae non sedit (Ps. I, 1). Cathedra quippe judicis esse vel praesidentis solet. In cathedra autem pestilentiae sedere, est ex judicio prava committere: in cathedra pestilentiae sedere, est et ex ratione mala discernere, et tamen ex deliberatione perpetrare. Quasi in perversi consilii cathedra sedet, qui tanta iniquitatis elatione attollitur, ut adimplere malum etiam per consilia conetur. Et sicut assistentibus turbis praelati sunt qui cathedrae honore fulciuntur, ita delicta eorum qui praecipitatione corruunt, exquisita per studium peccata transcendunt. Admonendi ergo sunt, ut hinc colligant qui in culpa etiam se per consilium ligant, qua quandoque ultione feriendi sunt, qui nunc pravorum non socii, sed principes fiunt.

CAPUT XXXIII Quomodo admonendi qui minimis, sed crebris noxis, et qui minimas caventes gravibus aliquando immerguntur. At contra admonendi sunt qui se a parvis custodiunt, sed aliquando in gravibus demerguntur, ut sollicite seipsos deprehendant, quia dum cor eorum de custoditis minimis extollitur, ad perpetranda graviora ipso elationis suae barathro devorantur; et dum foris sibi parva subjiciunt, sed per inanem gloriam intus intumescunt, languore superbiae intrinsecus victam mentem etiam foras per mala majora prosternunt. Admonendi ergo sunt qui se a parvis custodiunt, sed aliquando in gravibus demerguntur, ne ubi se stare extrinsecus aestimant, ibi intrinsecus cadant, et juxta districti judicis retributionem elatio minoris justitiae via fiat ad foveam gravioris culpae. Qui enim vane elati, boni minimi custodiam suis viribus tribuunt, juste derelicti culpis majoribus obruuntur; et cadendo discunt non fuisse proprium quod steterunt, ut mala immensa cor reprimant, quod minima bona exaltant.

CAPUT XXXIV Quomodo admonendi qui bona nec inchoant et qui inchoata non absolvunt. Aliter admonendi sunt qui bona nec inchoant, atque aliter qui inchoata minime consummant. Qui enim bona nec inchoant, non sunt eis prius aedificanda quae salubriter diligant, sed destruenda ea in quibus semetipsos nequiter versant. Neque enim sequuntur quae inexperta audiunt, nisi prius quam perniciosa sint ea quae sibi sunt experta, deprehendant, quia nec levari appetit, qui et hoc ipsum quia cecidit nescit; et qui dolorem vulneris non sentit, salutis remedia non requirit. Prius ergo ostendenda sunt, quam sint vana quae diligunt, et tunc demum vigilanter intimanda quam sint utilia quae praetermittunt. Prius videant fugienda quae amant, et sine difficultate postmodum cognoscant amanda esse quae fugiunt. Melius enim inexperta recipiunt, si de expertis quidquid disputationis audiunt, veraciter cognoscunt. Tunc igitur pleno voto discunt vera bona quaerere, cum certo judicio deprehenderint falsa se vacue tenuisse. Audiant ergo quod bona praesentia et a delectatione citius transitura sunt, et tamen eorum causa ad ultionem sine transitu permansura; quia et nunc quod libet invitis subtrahitur, et tunc quod dolet invitis in supplicium reservatur. Itaque eisdem rebus terreantur salubriter, quibus noxie delectantur; ut dum perculsa mens alta ruinae suae damna conspiciens, sese in praecipitium pervenisse deprehendit, gressum post terga revocet, et pertimescens quae amaverat, discat diligere quae contemnebat.

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144 Hinc est enim quod Jeremiae misso ad praedicationem dicitur: Ecce constitui te hodie super gentes et super regna, ut evellas et destruas, et disperdas et dissipes, et aedifices et plantes (Jer. I, 10). Quia nisi prius perversa destrueret, aedificare utiliter recta non posset; nisi ab auditorum suorum cordibus spinas vani amoris evelleret, nimirum frustra in eis sanctae praedicationis verba plantaret. Hinc est quod Petrus prius evertit, ut postmodum construat, cum nequaquam Judaeos monebat quid jam facerent, sed de his quae fecerant, increpabat dicens: Jesum Nazarenum virum approbatum a Deo in vobis, virtutibus et prodigiis et signis quae per illum fecit Deus in medio vestri, sicut vos scitis: hunc definito consilio et praescientia Dei traditum, per manus iniquorum affigentes interemistis, quem Deus suscitavit solutis doloribus inferni (Act. II, 22-24); ut videlicet crudelitatis suae cognitione destructi, aedificationem sanctae praedicationis quanto anxie quaererent, tanto utiliter audirent. Unde et illico respondet: Quid ergo faciemus, viri fratres? Quibus mox dicitur: Agite poenitentiam, et baptizetur unusquisque vestrum (Ibid., 37, 38). Quae aedificationis verba profecto contemnerent, nisi prius salubriter ruinam suae destructionis invenissent. Hinc est quod Saulus cum super eum coelitus lux emissa resplenduit, non jam quid recte deberet facere, sed quid prave fecisset, audivit. Nam cum prostratus requireret, dicens: Quis es, Domine? Respondetur protinus: Ego sum Jesus Nazarenus, quem tu persequeris (Act. IX, 4, seq., XXII, 8, seq.). Et cum repente subjungeret: Domine, quid me jubes facere (Ibid.)? Illico adjungitur: Surgens ingredere civitatem, et ibi dicetur tibi quid te oporteat facere (Ibid.). Ecce de coelo Dominus loquens persecutoris sui facta corripuit, nec tamen illico quae essent facienda monstravit. Ecce elationis ejus fabrica jam tota corruerat, et post ruinam suam humilis aedificari requirebat, et cum superbia destruitur, aedificationis tamen verba retinentur; ut videlicet persecutor immanis diu destructus jaceret, et tanto post in bonis solidius surgeret, quanto prius funditus eversus a pristino errore cecidisset. Qui ergo nulla adhuc agere bona coeperunt, a rigiditate antea suae pravitatis, correctionis manu evertendi sunt, ut ad statum postmodum rectae operationis erigantur, quia et idcirco altum silvae lignum succidimus, ut hoc in aedificii tegmine sublevemus; sed tamen non repente in fabrica ponitur, ut nimirum prius vitiosa ejus viriditas exsiccetur, cujus quo plus in infimis humor excoquitur, eo ad summa solidius levatur At contra admonendi sunt qui inchoata bona minime consummant, ut cauta circumspectione considerent quia dum proposita non perficiunt, etiam quae fuerant coepta convellunt. Si enim quod videtur gerendum sollicita intentione non crescit, etiam quod fuerat bene gestum decrescit. In hoc quippe mundo humana anima quasi more navis est contra ictum fluminis conscendentis: uno in loco nequaquam stare permittitur, quia ad ima relabitur, nisi ad summa conetur. Si ergo inchoata bona fortis operantis manus ad perfectionem non sublevat, ipsa operandi remissio contra hoc quod operatum est, pugnat. Hinc est enim quod per Salomonem dicitur: Qui mollis et dissolutus est in opere suo, frater est sua opera dissipantis (Prov. XVIII, 9). Quia videlicet qui coepta bona districte non exsequitur, dissolutione negligentiae manum destruentis imitatur. Hinc Sardis Ecclesiae ab angelo dicitur: Esto vigilans, et confirma caetera quae moritura erant, non enim invenio opera tua plena coram Deo meo (Apoc. III, 2). Quia igitur plena coram Deo ejus opera inventa non fuerant, moritura reliqua etiam quae erant gesta praedicebat. Si enim quod mortuum in nobis est ad vitam non accenditur, hoc etiam exstinguitur, quod quasi adhuc vivum tenetur. Admonendi sunt ut perpendant quod tolerabilius esse potuisset recti viam non arripere, quam arrepta post tergum redire. Nisi enim retro aspicerent, erga coeptum studium nullo torpore languerent. Audiant ergo quod scriptum est: Melius erat eis non cognoscere viam justitiae, quam post agnitionem retrorsum converti (II Petr. II, 21). Audiant quod scriptum est: Utinam frigidus esses, aut calidus; sed quia tepidus es, et nec frigidus, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo (Apoc. III, 15). Calidus quippe est qui bona studia et arripit et consummat; frigidus vero est qui consummanda nec inchoat. Et sicut a frigore per teporem transitur ad calorem, ita a calore per teporem reditur ad frigus. Quisquis ergo amisso infidelitatis frigore vivit, sed nequaquam tepore superato excrescit ut ferveat, procul dubio calore desperato, dum noxio in tepore demoratur, agit ut frigescat. Sed sicut ante teporem frigus sub spe est, ita post frigus tepor in desperatione. Qui enim adhuc in peccatis est, conversionis fiduciam non amittit. Qui vero post conversionem tepuit, et spem quae esse potuit de

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145 peccatore subtraxit. Aut calidus ergo quisque esse, aut frigidus quaeritur, ne tepidus evomatur; ut videlicet aut necdum conversus, adhuc de se spem conversionis praebeat, aut jam conversus in virtutibus inardescat; ne evomatur tepidus, qui a calore quem proposuit torpore ad noxium frigus redit.

CAPUT XXXV Quomodo admonendi qui mala clam et bona palam faciunt; ac qui versa vice. Aliter admonendi sunt qui mala occulte agunt, et bona publice; atque aliter qui bona quae faciunt abscondunt, et tamen quibusdam factis publice mala de se opinari permittunt. Admonendi enim sunt qui mala occulte agunt, et bona publice, ut pensent humana judicia quanta velocitate evolant, divina autem quanta immobilitate perdurant. Admonendi sunt ut in fine rerum mentis oculos figant, quia et humanae laudis attestatio praeterit, et superna sententia, quae et abscondita penetrat, ad retributionem perpetuam convalescit. Dum igitur occulta mala sua divinis judiciis, recta autem sua humanis oculis anteponunt, et sine teste est bonum quod publice faciunt, et non sine aeterno teste est quod latenter delinquunt. Culpas itaque suas occultando hominibus, virtutesque pandendo, et unde puniri debeant abscondentes detegunt, et unde remunerari poterant, detegentes abscondunt. Quos recte sepulcra dealbata speciosa exterius, sed mortuorum ossibus plena Veritas vocat (Matth. XXIII, 27), quia vitiorum mala intus contegunt, humanis vero oculis quorumdam demonstratione operum, de solo foris justitiae colore blandiuntur. Admonendi itaque sunt, ne quae agunt recta despiciant, sed ea meriti melioris credant. Valde namque bona sua dijudicant, qui ad eorum mercedem sufficere humanos favores putant. Cum enim pro recto opere laus transitoria quaeritur, aeterna retributione res digna vili pretio venundatur. De quo videlicet pretio percepto Veritas dicit: Amen dico vobis, receperunt mercedem suam (Matth. VI, 2, 5). Admonendi sunt ut considerent quia dum pravos se in occultis exhibent, sed tamen exempla de se publice in bonis operibus praebent, ostendunt sequenda quae fugiunt, clamant amanda quae oderunt, vivunt postremo aliis, et sibi moriuntur. At contra admonendi sunt qui bona occulte faciunt, et tamen quibusdam factis publice de se mala opinari permittunt, ne cum bona semetipsos actionis rectae virtute vivificant, in se alios per exemplum pravae aestimationis occidant; ne minus quam se proximos diligant, et cum ipsi salubrem potum vini sorbeant, intentis in sui consideratione mentibus pestiferum veneni poculum fundant. Hi nimirum in uno proximorum vitam minus adjuvant, in altero multum gravant, dum student et recta occulte agere, et quibusdam factis, ad exemplum de se prava seminare. Quisquis enim laudis concupiscentiam calcare jam sufficit, aedificationis fraudem perpetrat, si bona quae agit, occultat; et quasi jactato semine germinandi radices subtrahit, qui opus quod imitandum est, non ostendit. Hinc namque in Evangelio Veritas dixit: Videant opera vestra bona, et glorificent Patrem vestrum qui in coelis est (Matth. V, 16). Ubi illa quoque sententia promitur, quae longe aliud praecepisse videtur, dicens: Attendite ne justitiam vestram faciatis coram hominibus, ut videamini ab eis (Matth. VI, 1). Quid est ergo quod opus nostrum et ita faciendum est ne videatur, et tamen ut debeat videri praecipitur, nisi quod ea quae agimus, et occultanda sunt, ne ipsi laudemur, et tamen ostendenda sunt, ut laudem coelestis Patris augeamus? Nam cum nos justitiam nostram coram hominibus facere Dominus prohiberet, illico adjunxit: Ut videamini ab eis. Et cum rursus videnda ab hominibus bona opera nostra praeciperet, protinus subdidit: Ut glorificent Patrem vestrum qui in coelis est (Matth. V, 16). Qualiter igitur videnda essent, vel qualiter non videnda, ex sententiarum fine monstravit, quatenus operantis mens opus suum et propter se videri non quaereret, et tamen hoc propter coelestis Patris gloriam non celaret. Unde fit plerumque ut bonum opus et in occulto sit, cum fit publice; et rursus in publico, cum agitur occulte. Qui enim in publico bono opere non suam, sed superni Patris gloriam quaerit, quod fecit abscondit; quia solum illum testem habuit, cui placere

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146 curavit. Et qui in secreto suo bono opere deprehendi ac laudari concupiscit; et nullus fortasse vidit quod exhibuit, et tamen hoc coram hominibus fecit, quia tot testes in bono opere secum duxit, quot humanas laudes in corde requisivit. Cum vero prava aestimatio, in quantum sine peccato valet, ab intuentium mente non tergitur, cunctis mala credentibus per exemplum culpa propinatur. Unde et plerumque contingit, ut qui negligenter de se mala opinari permittunt, per semetipsos quidem nulla iniqua faciant; sed tamen per eos qui se imitati fuerint, multiplicius delinquant. Hinc est quod Paulus immunda quaedam sine pollutione comedentibus, sed imperfectis tentationis scandalum sua hac comestione moventibus dicit: Videte ne forte haec licentia vestra offendiculum fiat infirmis (I Cor. VIII, 9). Et rursus: Et peribit infirmus in tua conscientia frater, propter quem Christus mortuus est. Sic autem peccantes in fratres, et percutientes conscientiam eorum infirmam, in Christum peccatis (Ibid., 11, 12). Hinc est quod Moyses cum diceret: Non maledices surdo, protinus adjunxit: Nec coram caeco pones offendiculum (Levit. XIX, 14). Surdo quippe maledicere, est absenti et non audienti derogare: coram caeco vero offendiculum ponere, est discretam quidem rem agere, sed tamen ei qui lumen discretionis non habet, scandali occasionem praebere.

CAPUT XXXVI

De exhortatione multis exhibenda, ut sic singulorum virtutes adjuvet, quatenus per hanc contraria virtutibus vitia non excrescant. Haec sunt quae praesul animarum in praedicationis diversitate custodiat, ut sollicitus congrua singulorum vulneribus medicamina opponat. Sed cum magni sit studii ut exhortandis singulis serviatur ad singula, cum valde laboriosum sit unumquemque de propriis sub dispensatione debitae considerationis instruere, longe tamen laboriosius est auditores innumeros ac diversis passionibus laborantes, uno eodemque tempore voce unius et tanta arte vox temperanda est, ut cum diversa sint auditorum vitia, et singulis inveniatur congrua, et tamen sibimetipsi non sit diversa; ut inter passiones medias uno quidem ductu transeat, sed more bicipitis gladii tumores cogitationum carnalium ex diverso latere incidat, quatenus sic superbis praedicetur humilitas, ut tamen timidis non augeatur metus, sic timidis infundatur auctoritas, ut tamen superbis non crescat effrenatio. Sic otiosis ac torpentibus praedicetur sollicitudo boni operis, ut tamen inquietis immoderatae licentia non augeatur actionis. Sic inquietis ponatur modus, ut tamen otiosis non fiat torpor securus. Sic ab impatientibus exstinguatur ira, ut tamen remissis ac lenibus non crescat negligentia. Sic lenes accendantur ad zelum, ut tamen iracundis non addatur incendium. Sic tenacibus infundatur tribuendi largitas, ut tamen prodigis effusionis frena minime laxentur. Sic prodigis praedicetur parcitas, ut tamen tenacibus periturarum rerum custodia non augeatur. Sic incontinentibus laudetur conjugium, ut tamen jam continentes non revocentur ad luxum. Sic continentibus laudetur virginitas corporis, ut tamen in conjugibus despecta non fiat fecunditas carnis. Sic praedicanda sunt bona, ne ex latere juventur et mala. Sic laudanda sunt bona summa, ne desperentur ultima. Sic nutrienda sunt ultima, ne dum sufficere creduntur, nequaquam tendatur ad summa.

CAPUT XXXVII De exhortatione quae uni adhibenda est contrariis passionibus laboranti. Et gravis quidem praedicatori labor est, in communis praedicationis voce, ad occultos singulorum motus causasque vigilare, et palaestrarum more in diversi lateris arte se vertere; multo tamen acriori labore fatigatur, quando uni e contrariis vitiis servienti praedicare compellitur. Plerumque enim quis laetae nimis conspersionis existit; sed tamen eum repente tristitia oborta immaniter deprimit. Curandum est itaque praedicatori quatenus sic tergatur tristitia quae venit ex tempore, ut non augeatur laetitia quae suppetit ex conspersione; et sic frenetur laetitia quae ex conspersione est, ut

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147 tamen non crescat tristitia quae venit ex tempore. Iste gravatur usu immoderatae praecipitationis, et aliquando tamen ab eo quod festine agendum est, eum vis praepedit subito natae formidinis. Ille gravatur usu immoderatae formidinis, et aliquando tamen in eo quod appetit, temeritate impellitur praecipitationis. Sic itaque in isto reprimatur subito oborta formido, ut tamen non excrescat enutrita diu praecipitatio. Sic in illo reprimatur repente oborta praecipitatio, ut tamen non convalescat impressa ex conspersione formido. Quid autem mirum si mentium medici ista custodiunt, dum tanta discretionis arte se temperant, qui non corda sed corpora medentur? Plerumque enim debile corpus opprimit languor immanis, cui languori scilicet obviari adjutoriis fortibus debet, sed tamen corpus debile, adjutorium forte non sustinet. Studet igitur qui medetur, quatenus sic superexistentem morbum subtrahat, ut nequaquam supposita corporis debilitas crescat, ne fortasse languor cum vita deficiat. Tanta ergo adjutorium discretione componit, ut uno eodemque tempore et languori obviet et debilitati. Si igitur medicina corporis indivise adhibita servire divisibiliter potest (tunc enim vere medicina est, quando sic per eam vitio superexistenti succurritur, ut etiam suppositae conspersioni serviatur), cur medicina mentis una eademque praedicatione apposita, morum morbis diverso ordine obviare non valeat, quae tanto subtilior agitur, quanto de invisibilibus tractatur?

CAPUT XXXVIII Quod aliquando leviora vitia relinquenda sunt, ut graviora subtrahantur. Sed quia plerumque dum duorum vitiorum languor irruit, hoc levius, illud fortasse gravius premit; ei nimirum vitio rectius sub celeritate subvenitur, per quod festine ad interitum tenditur. Et si hoc a vicina morte restringi non potest, nisi illud etiam quod existit contrarium crescat tolerandum praedicatori est, ut per exhortationem suam artificioso moderamine unum patiatur crescere, quatenus possit aliud a vicina morte retinere. Quod cum agit, non morbum exaggerat, sed vulnerati sui, cui medicamentum adhibet, vitam servat, ut exquirendae salutis congruum tempus inveniat. Saepe enim quis a ciborum se ingluvie minime temperans, jamjamque pene superantis luxuriae stimulis premitur, qui hujus pugnae metu territus, dum se per abstinentiam restringere nititur, inanis gloriae tentatione fatigatur: in quo nimirum unum vitium nullatenus extinguitur, nisi aliud nutriatur. Quae igitur pestis ardentius insequenda est, nisi quae periculosius premit? Tolerandum numquam est ut per virtutem abstinentiae interim arrogantia contra viventem crescat, ne eum per ingluviem a vita funditus luxuria exstinguat. Hinc est quod Paulus, cum infirmum auditorem suum perpenderet, aut prava adhuc velle agere, aut de actione recta humanae laudis retributione gaudere, ait: Vis non timere potestatem? bonum fac, et habebis laudem ex illa (Rom. XIII, 3). Neque enim ideo bona agenda sunt ut potestas hujus mundi nulla timeatur, aut per haec gloria transitoriae laudis sumatur. Sed cum infirmam mentem ad tantum robur ascendere non posse pensaret, ut et pravitatem vitaret simul et laudem; praedicator egregius ei, admonendo aliquid obtulit, et aliquid tulit. Concedendo enim lenia, subtraxit acriora; ut quia ad deserenda cuncta simul non assurgeret, dum in quodam suo vitio animus familiariter relinquitur, a quodam suo sine labore tolleretur.

CAPUT XXXIX Quod infirmis mentibus omnino non debent alta praedicari. Sciendum vero est praedicatori, ut auditoris sui animum ultra vires non trahat, ne, ut ita dicam, dum plus quam valet tenditur, mentis chorda rumpatur. Alta enim quaeque debent multis audientibus contegi, et vix paucis aperiri. Hinc namque per semetipsam Veritas dicit: Quis putas est fidelis dispensator et prudens, quem constituit dominus super familiam suam, ut det illis in tempore tritici mensuram (Matth. XXIV, 45; Luc. XII, 42)? Per mensuram quippe tritici exprimitur modus verbi, ne cum angusto cordi incapabile aliquid tribuitur, extra fundatur. Hinc Paulus ait: Non potui vobis loqui quasi spiritalibus, sed quasi carnalibus. Tanquam parvulis in Christo lac vobis potum dedi,

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148 non escam (I Cor. III, 1). Hinc Moyses a secreto Dei exiens, coruscantem coram populo faciem velat (Exod. XXXIV, 33), quia nimirum turbis claritatis intimae arcana non indicat. Hinc per eum divina voce praecipitur (Ibid. XXI, 33), ut is qui cisternam foderit, si operire neglexerit, corruente in ea bove vel asino, pretium reddat; quia ad alta scientiae fluenta perveniens, cum haec apud bruta audientium corda non contegit, poenae reus addicitur, si per verba ejus in scandalum, sive munda sive immunda mens capiatur. Hinc ad beatum Job dicitur? Quis dedit gallo intelligentiam (Job. XXXVIII, 36)? Praedicator etenim sanctus dum caliginoso hoc clamat in tempore, quasi gallus cantat in nocte, cum dicit: Hora est jam nos de somno surgere (Rom. XIII, 11). Et rursum: Evigilate justi, et nolite peccare (I Cor. XV, 34). Gallus autem profundioribus horis noctis altos edere cantus solet; cum vero matutinum jam tempus in proximo est, minutas ac tenues voces format, quia nimirum qui recte praedicat, obscuris adhuc cordibus aperta clamat, nil de occultis mysteriis indicat, ut tunc subtiliora quaeque de coelestibus audiant, cum luci veritatis appropinquant.

CAPUT XL De opere praedicationis et voce. Sed inter haec ad ea quae jam superius diximus, charitatis studio retorquemur, ut praedicator quisque plus actibus quam vocibus insonet, et bene vivendo vestigia sequacibus imprimat potius, quam loquendo quo gradiantur ostendat. Quia et gallus iste, quem pro exprimenda boni praedicatoris specie in locutione sua Dominus assumit, cum jam edere cantus parat, prius alas excutit, et semetipsum feriens vigilantiorem reddit, quia nimirum necesse est ut hi qui verba sanctae praedicationis movent, prius studio bonae actionis evigilent, ne in semetipsis torpentes opere, alios excitent voce; prius se per sublimia facta excutiant, et tunc ad bene vivendum alios sollicitos reddant; prius cogitationum alis semetipsos feriant; quidquid in se inutiliter torpet, sollicita investigatione deprehendant, districta animadversione corrigant; et tunc demum aliorum vitam loquendo componant; prius punire propria fletibus curent, et tunc quae aliorum punienda sunt denuntient; et antequam verba exhortationis insonent, omne quod locuturi sunt, operibus clament.

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QUARTA PARS

QUALITER PRAEDICATOR OMNIBUS RITE PERACTIS AD SEMETIPSUM REDEAT, NE HUNC VEL VITA VEL PRAEDICATIO EXTOLLAT

Sed quia saepe dum praedicatio modis congruentibus ubertim funditur, apud semetipsum de ostensione sui occulta laetitia loquentis animus sublevatur, magna cura necesse est ut timoris laceratione se mordeat, ne qui aliorum vulnera medendo ad salutem revocat, ipse per negligentiam suae salutis intumescat, ne proximos juvando se deserat, ne alios erigens cadat. Nam quibusdam saepe magnitudo virtutis occasio perditionis fuit; ut cum de confidentia virium inordinate securi sunt, per negligentiam inopinate morerentur. Virtus namque cum vitiis renititur, quadam delectatione ejus sibimetipsi animus blanditur; fitque ut bene agentis mens metum suae circumspectionis abjiciat, atque in sui confidentia secura requiescat; cui jam torpenti seductor callidus omne quod bene gessit enumerat, eamque quasi prae caeteris praepollentem in tumore cogitationis exaltat. Unde agitur, ut ante justi judicis oculos, fovea mentis sit memoria virtutis; quia reminiscendo quod gessit, dum se apud se erigit, apud humilitatis auctorem cadit. Hinc namque superbienti animae dicitur: Quo pulchrior es, descende, et dormi cum incircumcisis (Ezech. XXXII, 19). Ac si aperte diceretur: Quia ex virtutum decore te elevas, ipsa tua pulchritudine impelleris ut cadas. Hinc sub Jerusalem specie, virtute superbiens anima reprobatur, cum dicitur: Perfecta eras in decore meo, quem posueram super te, dicit Dominus; et habens fiduciam in pulchritudine tua, fornicata es in nomine tuo (Ezech. XVI, 14, 15). Fiducia quippe suae pulchritudinis animus attollitur, cum de virtutum meritis laeta apud se securitate gloriatur. Sed per hanc eamdem fiduciam ad fornicationem ducitur; quia cum interceptam mentem cogitationes suae decipiunt, hanc maligni spiritus per innumera vitia seducendo corrumpunt. Notandum vero quod dicitur: Fornicata es in nomine tuo; quia cum respectum mens superni rectoris deserit, laudem protinus privatam quaerit, et sibi arrogare incipit omne bonum, quod ut largitoris praeconio serviret accepit; opinionis suae gloriam dilatare desiderat, satagit ut mirabilis cunctis innotescat. In suo ergo nomine fornicatur, quae legalis thori connubium deserens, corruptori spiritui in laudis appetitu substernitur. Hinc David ait: Tradidit in captivitatem virtutem eorum, et pulchritudinem eorum in manus inimici (Psal. LXXVII, 61). In captivitatem etenim virtus, et pulchritudo in manus inimici traditur, cum deceptae menti antiquus hostis ex boni operis elatione dominatur: quae tamen virtutis elatio, quamvis plene non superat, utcumque tamen et electorum animum saepe tentat; sed cum sublevatus destituitur, destitutus ad formidinem revocatur. Hinc etenim David iterum ait: Ego dixi in abundantia mea, non movebor in aeternum (Psal. XXIX, 7). Sed quia de confidentia virtutis intumuit, paulo post quid pertulit adjunxit: Avertisti faciem tuam a me, et factus sum conturbatus (Ibid., 8). Ac si aperte dicat: Fortem me inter virtutes credidi, sed quantae infirmitatis sim derelictus agnovi. Hinc rursum dicit: Juravi et statui custodire judicia justitiae tuae (Ps. CXVIII, 106). Sed quia ejus virium non erat manere in custodia quam jurabat, debilitatem suam protinus turbatus invenit. Unde et ad precis opem repente se contulit, dicens: Humiliatus sum usquequaque, Domine; vivifica me secundum verbum tuum (Ibid., CVII). Nonnumquam vero superna moderatio priusquam per munera provehat, infirmitatis memoriam ad mentem revocat, ne de acceptis virtutibus intumescat. Unde Ezechiel propheta quoties ad contemplanda coelestia ducitur, prius filius hominis vocatur; ac si hunc aperte Dominus admoneat, dicens: Ne de his quae vides, in elatione cor subleves, cautus perpende quod es; ut cum summa penetras, esse te hominem recognoscas, quatenus dum ultra te raperis, ad temetipsum sollicitus infirmitatis tuae freno revoceris. Unde necesse est ut cum virtutum nobis copia blanditur, ad infirma sua mentis oculus redeat, seseque salubriter deorsum premat; nec recta quae egit, sed quae agere neglexit aspiciat; ut dum cor ex memoria infirmitatis atteritur, apud humilitatis auctorem robustius in virtute solidetur. Quia et plerumque omnipotens Deus idcirco Rectorum mentes quamvis ex magna parte perficit, imperfectas tamen ex parva aliqua parte derelinquit; ut cum miris virtutibus rutilant, imperfectionis suae taedio tabescant, et nequaquam se de magnis erigant, dum adhuc contra minima innitentes laborant; sed quia extrema non valent vincere, de praecipuis actibus non audeant superbire.

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150 Ecce, bone vir, reprehensionis meae necessitate compulsus, dum monstrare qualis esse debeat Pastor invigilo, pulchrum depinxi hominem pictor foedus; aliosque ad perfectionis littus dirigo, qui adhuc in delictorum fluctibus versor. Sed in hujus quaeso vitae naufragio orationis tuae me tabula sustine, ut quia pondus proprium deprimit, tui meriti manus me levet.