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Relazione divisa in tre parti: 1^ parte: incipit "Un bacio appassionato " film di Ken Loach 2^ parte: l’Io definizione del tema e differente campo che origina i due poli. 3 problemi: A le definizioni sono "la" o "una delle tante"? Ma comunque occorre darne una per iniziare la discussione: "disposizione d'animo positiva...." B acquisizione di un bene o soddisfacimento interiore? Analisi dell’io, di “ciò che siamo” C accettare o accogliere se stessi? amare se stessi, “amor fati” Spinoza/Nietzsche come due modelli di riferimento; ma ne esistono altri,cfr. Epicuro sulla felicità 3^ parte: io/altro concetto di relazione (qui nasce idea bene comune – società/stato); concetti alternativi sospetto/fiducia ; esempi: Hobbes, mondo latino (limes/limen); problema: singolo o comunità; singolo e comunità La scelta dipende dai modelli di riferimento: a) se la legge esista al di sopra del soggetto, b) se sia ricavata dal rapporto con gli altri, c) se non abbia nessun valore (tre tipi di stato e quindi tre tipi di bene comune) Riferimenti alla storia della filosofia (Platone, Aristotele, Roscellino) e interferenze tra felicità privata e bene comune Conclusione: quale la migliore soluzione? Considerazioni sui diritti del singolo e sui diritti della società, ma si apre un altro capitolo sui diritti etici/morali/civili.
FELICITÀ PRIVATA E BENE COMUNE: POSSIBILE CONCILIAZIONE?
Treviglio 8 marzo 2012
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Un bacio appassionato
Giorni fa avevo già predisposto la relazione di questa sera, ma mi sono imba=uto in un film, Un bacio appassionato di Ken Loach. Alla fine della visone mi sono trovato a rifle=ere sul tema di questa sera per cui lo uFlizzo come premessa. La storia è semplice:
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Un bacio appassionato di Ken Loach
Casim, nato a Glasgow, figlio di pakistani, lavora come disc jockey in un club. La sua famiglia ha già programmato per lui il matrimonio con una cugina
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ma Casim si innamora di Roisin, irlandese, insegnante di musica della sorella minore.
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I problemi nascono in quanto Roisin è separata
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e l'IsFtuto ca=olico dove lei insegna pretende una condo=a moralmente irreprensibile.
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Dall'altra però c’è il bel senFmento d'amore sbocciato tra un musulmano ed una
occidentale
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però un preconce=o sociale si introme=e: il bene della comunità prevede che siano i genitori a determinare il
matrimonio dei figli.
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Non vi dico come si conclude, ma la riflessione va fa=a su ciò che significa bene comune e come questo possa
evitare di sovrapporsi alla felicità privata.
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• Ma andiamo con ordine e affrontiamo il tema partendo da ciò che ci viene richiesto dalla mentalità occidentale nella quale siamo tutti immersi; infatti ogni volta che ci accingiamo a riflettere o a discettare su qualche cosa, immediatamente desideriamo definire l'oggetto del contendere. Questa peculiare caratteristica appartiene propriamente al nostro mondo che ha come matrice la filosofia greca dalla quale deriva il concetto "definizione”.
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Definiamo i due termini
Per Socrate ogni enunciazione prevedeva la determinazione verbale associata però ad un referente mentale che fungeva da conce=o. Proprio il conce=o determinava il contenuto di ciò di cui si parlava.
Definiamo i termini!!!!!
Siamo figli della razionalità greca.
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• Ora, parlare di felicità e di bene comune, cercando la definizione delle due nozioni, non è cosa semplice perché non si tratta di oggetti fisici, di una sedia, di un tavolo, di una penna, ma si sta soppesando un quid che ha come ambito da una parte, nel caso della felicità, il campo emotivo, dall'altra, nel caso di bene comune, il campo della politica se non più propriamente dell'etica o della morale
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nel caso della felicità, occorre entrare nella sfera delle emozioni per chiarirne il significato.
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il bene comune non possiamo cercarlo tra le emozioni, ma nel campo della poliFca, se non più propriamente
dell'eFca o della morale.
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• Dunque, per definire che cosa sia "felicità" occorrerebbe lanciare lo sguardo sul versante delle emozioni, così come accade quando si parla di amore, odio, stima, ecc... tutti contenuti della passione più che della mente raziocinante. Non sto dicendo che non si possa poi ragionare sulla felicità, sto solo dicendo che essa appartiene in quanto origine all'animo umano, al campo delle eccitazioni, degli slanci, degli impulsi, dei desideri.
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l’origine della felicità va cercata nell'animo umano
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• E per definire poi il secondo termine, cioè bene comune, andando al di là delle tante vicissitudini storiche e dalle concrete determinazioni delle leggi positive, occorre inserirlo all'interno del diritto naturale che ci conduce nel profondo dei diritti dell'uomo in quanto essere da una parte e in quanto esistente dall'altra; dunque il bene comune, prima ancora di essere tradotto in forme politiche, trova la sua origine nel bene fondamentale di ogni uomo.
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l’origine del bene comune all'interno del diri=o naturale cioè nel profondo dei diri^ dell'uomo in quanto tale 19
proviamo a dare una prima sgrossatura al conce=o di felicità.
disposizione d'animo posi1va che un sogge6o riscontra dentro di sé nell'approccio con la realtà.
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• Ora, indugiando sulla definizione dei due termini, un problema si innesta, se cioè tali definizioni, qualsiasi esse siano, debbano considerarsi come "la" definizione, cioè l'unica in grado di presentarsi come universale, oppure non debbano essere prese come "una delle tante possibili" dichiarazioni.
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A ben guardare, questa definizione non ha un contenuto, ma appare come una semplice inclinazione alla quale ogni uomo
associa ciò che più è consono alla propria personalità
denaro
potere
godimento fisico, estetico
successo
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Si tra=a dunque di un benessere interiore, di un soddisfacimento psicologico, di un appagamento del sogge=o
che, mirando alla conquista di un bene, fa assumere a quest'ulFmo un valore di riferimento per ogni azione..
la felicità non sta solo nella meta intesa come ruolo di orientamento dell’azione,
ma sopra=u=o nel soddisfacimento interiore legato al possesso di quel bene.
… è dunque "soddisfazione per ciò che possediamo" 23
ulteriore problema (mala^a dei filosofi?!):
o piu=osto non sta nel sogge=o in quanto determinatore di quel contenuto?
il contenuto che determina la felicità sta nel bene acquisito?
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sono io a dunque determinare la mia felicità
Ma molF sono gli "io”, tanF quanF i sogge^ umani, per cui potremmo dire che esistono molteplici felicità per quanto concerne i contenuF,
ma forse una per quanto riguarda la definizione da cui eravamo parFF, cioè "felicità come disposizione d'animo posiFva che si riscontra nel nostro approccio con la realtà".
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• Il nostro discorso però è solo all'inizio perché credo che, posta questa enunciazione, occorrerebbe sondare un po' più a fondo la "disposizione d'animo positiva" che ci conduce a dire che siamo noi i gestori della nostra felicità, o della nostra infelicità, del nostro star bene o male con noi stessi. Stare bene con se stessi equivale così non solo a desiderare il bene che ci siamo proposti di conquistare, cioè
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Doppia faccia di questa felicità
"desiderare ciò che abbiamo conquistato", ecco un risvolto della felicità
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Doppia faccia di questa felicità
ma sopra=u=o "desiderare ciò che siamo". Il che non significa fermarsi ad essere per sempre così, senza crescita interiore, ma per sempre essere contenF di ciò che in quel momento siamo.
“amare ciò che siamo” ecco la finalità migliorativa della nostra felicità in crescita 28
• Ma anche questa affermazione non mi trova tranquillo in quanto, se effettivamente fossi contento di ciò che sono, probabilmente non cercherei mai di migliorare, poiché mi potrei considerare perfettamente realizzato. Forse, allora il desiderio di essere ciò che si è, non va preso alla lettera, ma occorrerebbe porre nello sfondo una luce che indicasse al soggetto una finalità migliorativa di quel sé che siamo noi in un preciso istante della nostra esistenza.
• Posta così la questione, mi viene da dire che la felicità di essere ciò che siamo non sia la condizione finale del soggetto, ma quella transitoria che porta a dire che la felicità non è mai compiuta, ma è "felicità in crescita".
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• Alcuni potrebbero intendere questo riconoscimento del sé come una "accettazione", ma questo termine ha assunto nel corso della storia linguistica una connotazione piuttosto negativa che non sarebbe propriamente da associare alla felicità; forse il verbo accettare potrebbe essere sostituito con uno più positivo, come "accogliere", situazione che manifesta uno stato di contentezza, ad esempio quando accogliamo un amico a casa nostra. Accogliere significa esibire il proprio volto favorevole, legato ad un'affettività benevola, quasi fosse un atto di amore quello che stiamo per compiere. Accettare invece è simile ad accontentarsi, mentre accogliere rievoca in noi l'atteggiamento di chi sente in sé la contentezza dell'atto che sta producendo.
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“amare ciò che siamo” Due filosofi, Spinoza e Nietzsche interpretano diversamente l’affermazione “amare ciò che siamo”.
Il primo come amor Dei intellectualis, cioè acce=are con l’intelle=o l’amore di Dio che ci ha fa^ così come siamo.
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“amare ciò che siamo”
Nietzsche invece interpreta “amare ciò che siamo” come amor fa1 che non va trado=o le=eralmente come “amore del desFno”, ma come accogliere con disponibilità d’animo favorevole tu=o ciò che accade.
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Specchio concavo Specchio piano Specchio convesso
La realtà vera, dunque, qual è?
Due posizioni, quelle di Spinoza e Nietzsche, nate da due modelli di razionalità. Ogni affermazione dipende dal modello di riferimento cui noi tendiamo.
Per chiarire ciò con un esempio visivo, immaginiamo di trovarci di fronte ad uno specchio e di considerare la realtà così come ci appare, presumendola reale.
Che cosa accade?
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I modelli di razionalità
La stessa cosa avviene quando dalla felicità privata si passa a parlare del bene comune: ogni asserzione dipende dal modello di riferimento che si prende a riferimento.
E che cosa significa allora per noi “Amare le cose perché si ama l'io che siamo noi?” Possiamo trasferire questo amore fuori di noi? Possiamo "accogliere l’altro“ e come possiamo farlo senza perdere la nostra felicità?
L'amor Dei intellectualis diceva Spinoza "si configura come un impulso a intessere tra eguali l'orditura di una democraFca società civile, la quale, a differenza di ciò che è lo stato di natura, cosFtuisce un’organica unità consensuale di uomini e di ceF che, in quanto razionali, amano il loro prossimo come se stessi e difendono il diri=o altrui come il proprio“ (Giuseppe Turco Liveri nel suo Nietzsche e Spinoza, p.184) .
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• E qui potremmo riprendere quanto scrivevo in un articolo sulla Regola Aurea4, ma ogni asserzione, per quanto questa possa rappresentare uno stimolo per accoglierla ed assumerla come propria, nasce da un modello di riferimento che sta a monte della stessa affermazione.
• Sono convinto infatti che le soluzioni fin qui date dalle società storiche o dalle scuole filosofiche siano il frutto di un'applicazione di modelli di riferimento che si insinuano nei soggetti per far loro dare una soluzione che sembri definitiva.
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“Modelli di riferimento”, dicevo Pensiamo ad esempio all'epoca della Grecia classica quando alcune scuole, epicurea e stoica, più che di ricerca della felicità parlavano di liberazione dall’infelicità; in questo caso sarebbe più un “togliersi da…” (dai dolori, dalla volontà di vivere) che “ricerca di…” che si può definire in molF modi, come a-‐tarassia (assenza di turbamento), a-‐prassia (assenza di azione), a-‐ponia (assenza di dolore), a-‐paFa (assenza di emozione), a-‐diaforia (indifferenza verso i beni che non sono né virtù né vizio), ‘assenza di’ dunque e non ‘ricerca di’, un ‘togliersi da’ più che un ‘immergersi in’.
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“Modelli di riferimento”, dicevo
Nasce il tetrafarmaco di Epicuro …
1. liberare gli uomini dal Fmore degli dèi,
2. dal Fmore della morte,
3. la facile raggiungibilità del piacere, 4. la provvisorietà e la brevità del dolore.
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La fuga dall’infelicità anche oggi?
Anche oggi sembra ripetersi questa enclave legata all’individualisFca chiusura in se stessi. Che si sFa percorrendo la strada di una fuga dal mondo dove vasta eco hanno le filosofie orientali?
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• Forse il deterioramento dei messaggi religiosi, un po’ troppo dogmatici e al contempo ricattatori, del tipo “se non fai questo, pecchi e quindi meriti l’inferno”, hanno prodotto nel contesto antropologico odierno, molto più critico di quanto non lo fosse nel passato, la crisi dei valori costituitisi nel tempo, aprendo un vuoto nelle coscienze, scopertesi spogliate. Ed è per questo che, nella ricerca di risposte rassicuranti, molte persone inseguono certezze perdute sostituendole con altre, provenienti da tradizioni diverse. Ma anche questa scelta dimostra la debolezza della psiche umana che va alla ricerca di un differente fideismo, col rischio di scivolare nel fanatismo.
La fuga dall’infelicità anche oggi? Il mondo orientale, rivalutato dall’uomo occidentale, viene così le=o con altri occhi, diversi da come dovrebbe essere vissuto, per cui alcuni principi, come ad esempio lo yoga o la meditazione trascendentale si trasformano in pure tecniche, più vicine al farmaco che regala serenità che non a quella che dovrebbe essere una filosofia di vita
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• Questa fuga verso un mondo sconosciuto, e perciò attraente, sembra nascere dal rifiuto dei codici egemonici che molte istituzioni predeterminano, non esclusa la stessa Chiesa la quale fin dal Medioevo ha imposto dei principi universali nei rapporti tra i soggetti. Forse, però, ciò che si rifiuta non è tanto l'universalità dei principi, che comunque comparirebbe anche solo se il soggetto pensasse a sé come fondamento assoluto dei rapporti umani, ma il loro contenuto e quindi la dipendenza da una cultura che si dichiara egemone in quanto si proclama detentrice della verità rivelata; e ciò accade anche all'interno degli stati totalitari dove è preminente l'interesse dello Stato sulla ricerca di felicità del soggetto singolo. Il soggetto odierno dunque rifiuta la forma di dominio, non la possibilità di convivenza con dei principi generali o universali che dir si voglia, anche se i due termini non sono dei sinonimi.
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Bene comune si o^ene me=endosi in relazione con l’altro
Molto spesso, sopra=u=o nella società odierna, l’altro si presenta all'io come un estraneo, addiri=ura un diverso, quando non anche un nemico per cui, associandolo ai tra^ dell'opposto, l’altro diventa pietra d'inciampo nella ricerca di un bene comune.
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La relazione stato di natura
l’altro da sé
2. ad un certo punto scopre l’altro da sé e allora decide che questo altro da sé lo limita e…
3. ne nasce una guerra, la guerra di uno contro l’altro che poi diventa bellum omnium contra omnes.
1. L’io, nello stato di natura si riteneva possessore di tu=o ciò che esisteva, era padrone assoluto di ogni cosa
Hobbes
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Il sospe=o e il limite
È la nozione "sospe=o" quella che spesso divide. Il sospe=o che l'altro sia una minaccia per l'io, un limite; e in questo c'è tu=a la fragilità psicologica dell'animo umano.
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Ma il sospetto si può trasformare in minaccia per cui l'altro, vissuto come il massimo della negatività, va tolto di mezzo; il delirio dell'essere umano, pervaso da questa negatività totale, ben sappiamo a quali conseguenze ha portato, ad esempio, guardando alla storia del popolo ebraico nella Germania hitleriana.
Il sospe=o e il limite
I laFni avevano due modi di intendere la nozione di limite: limes come steccato, barriera posta al confine, forFficazione contro gli invasori
limes
o limen come fronFera che conteneva in sé il significato di apertura guardata a vista limen 44
Limes
• Romolo e Remo. • Solco che divide • Barriera invalicabile • Civis romanus sum (so’ de RRRoma!) • Cinta muraria • Fortezza • la storia ci è maestra?????????????? • ALTRO=NEMICO
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• Ponte
Il che significa accoglienza
• Valico • Passo
Limen
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Il bene comune Il bene comune, che nasce dall'acce=azione del pluralismo, può esistere solo nel caso in cui l'io decida di rinunciare non alla propria felicità, ma alla propria immagine totalizzante e quindi al “sospe=o” acce=ando la "relazione" come codice di riferimento per una convivenza comune.
Perché tu^ siamo fronde dello stesso albero
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• Se non si instaura un atteggiamento di fiducia può accadere che il conflitto diventi reciproco; occorre dunque la "consegna incondizionata" dell'io nelle mani dell'altro, senza però perdere la propria identità, garanzia di felicità privata.
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3. come straniero con cui relazionarsi a=raverso legami di riconoscimento che non escludano né l’idenFtà dell’io né quella dell’altro, cioè che non appia^scano le differenze, anzi che le valorizzino
l’estraneo: varie opzioni
1. come sogge=o da assimilare alla propria idenFtà
2. come altro che va lasciato nella sua indifferente estraneità
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Posta la relazione, la felicità privata da una parte e il bene comune dall'altra, intersecandosi, fanno nascere la domanda sui diri^ irrinunciabili di ogni essere umano. QuesF diri^ da una parte fungono da freno per la comunità (nei confronF del singolo) e dall'altra da spinta verso una nuova forma di felicità (che da privata possa diventare pubblica).
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Ma prima di evidenziarli, consideriamo una fondamentale disFnzione:
Nel corso della storia il bene comune è stato interpretato ed a=uato secondo diversi modelli di stato considerato buono o ca^vo,
così come ci ricorda Ambrogio Lorenze^ negli affreschi del Palazzo pubblico di Siena.
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Singolo o comunità? Per definire quali modelli di razionalità sorreggano ogni opzione di stato occorre capire se è preminente:
a) il bene e la felicità del singolo
b) il bene e la felicità pubblica
oppure
sovrapposta a quella privata decisa dai legiferatori 52
Ecco la necessità di determinare se…
La legge esista prima del singolo
Il singolo ricavi le leggi dalla realtà che lo circonda
la legge sia solo una convenzione
inventata; un puro nome
il diba^to coinvolge sia il piano gnoseologico sia quello ontologico
legge
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Ora, posto che con la mia relazione non intendo costituire una politica sana per conciliare felicità privata e bene comune, ma solo problematizzare la situazione, convinto che ogni soluzione, come ogni risposta, chiuda il dibattito, invece di tenerlo aperto, vorrei porre problematicamente in rapporto le due nozioni all'interno dei modelli di riferimento per vedere a quali risvolti esse portino.
Facciamoci aiutare da una vecchia questione filosofica
Verità
Due scuole di pensiero
Platone
la verità è prima delle cose, prima del mondo, prima dell’uomo; è allora una verità ante rem
Aristotele
estrapolare dal dato la sua essenza a partire dal mondo della realtà contingente, attraverso delle operazioni di astrazione; è allora una verità in re
Atene 427-347 a.C. Stagira 384-Calcide 322 a.C.
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i due “modelli di verità” non possono coesistere
Platone con il dito rivolto verso l’alto indica che la realtà empirica non è la vera realtà e che occorre alzare lo sguardo al cielo per scorgerla
Aristotele, con il palmo aperto verso terra, starebbe ad indicare che la realtà occorre cercarla qui tra di noi, senza andare verso un mondo fa=o solo di idee
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Dal dipinto di Raffaello “La scuola di Atene”
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per Platone la realtà ideale conFene in sé tu=o ed è assumendo lei che possiamo vivere secondo delle leggi universali che garanFscono il bene comune
per Aristotele la realtà è qui e basta saper astrarre dalle cose i vari universali che cosFtuirebbero i fondamenF del vivere comune
realismo assoluto concettualismo
nominalismo
Verità
C‘e una terza posizione
flatus vocis
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Analizziamo ora i tre modelli
E vediamo a quali conseguenze portano, considerandoli all’interno della nostra analisi su felicità privata e bene comune.
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Stato come decretatore del bene comune
Platone prediligeva la realtà del mondo soprannaturale (iperuranio)
nel quale erano inserite le idealità che governavano il mondo per cui solo chi sa leggere nell’iperuranio può governare; dunque allo Stato spe=a la decisione intorno al bene comune.
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Stato come decretatore del bene comune Posto che l'universale esiste ancor prima dell'esistenza dell'uomo, ogni singolo deve so=ome=ersi alle leggi universali in quanto verità rivelate; è da qui, anche se non solo da qui, che nasce la preminenza dello Stato che porta necessariamente ad un egemonismo, che può trasformarsi in totalitarismo
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Aristotele Per Aristotele la verità delle cose si trova nel mondo dove risiede l’uomo e non nel sopramondo. Occorre saper guardare dentro alle cose per trovare la verità.
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Aristotele
Allora il bene comune potrebbe essere ritrovato a parFre dai singoli per salire
verso la cosFtuzione di una società nella quale i singoli non perderebbero le loro felicità, anzi godrebbero di una felicità pubblica che però, necessariamente, dovrebbe fare i conF con quella privata.
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in questo caso non sarebbe più la forma di governo
Monarchia,
ad essere preminente sui sogge^, ma … il bene dei sogge^
Aristocrazia,
Polira
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Aristotele
il bene dei sogge^ determinerebbe, all'interno di qualsiasi forma di governo, l'a=eggiamento che lo stato dovrebbe avere nei confronF
e della comunità
dei singoli
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Terza posizione: nominalismo
Per Roscellino da Compiegne (1050/1120) l’universale non risiedeva né nel sopramondo, né nel mondo reale, ma era solo una convenzione degli uomini nel definire le cose le quali erano un flatus vocis, un semplice soffio della voce senza nessun senso.
Anche Guglielmo d’Ockham (1280-‐1349) definiva gli universali come conce^ della nostra mente, espressi a=raverso un nome
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Terza posizione: nominalismo Scegliendo, la terza forma, quella che la verità è un semplice flatus vocis, un soffio della voce senza nessun senso, allora credo che scivoleremmo nell'anarchismo dove diri^ e doveri, invece di amalgamarsi, si scontrerebbero in quanto preminente sarebbe la felicità del singolo.
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Poniamo in quesFone il conce=o “bene comune” a=raverso i tre modelli
Platone Aristotele
Roscellino
Bene comune
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Esiste nel sopramondo
come idea
Ante rem
la posizione di Platone, ante rem, l’universale esiste prima delle realtà del mondo, per cui il singolo è solo la copia dell’universale
Tre modelli di razionalità
potremmo definire quesF tre modi con le tre forme laFne:
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Deriva dalla astrazione
In re
Tre modelli di razionalità
la posizione di Aristotele, in re, l’universale esiste nella cosa, per cui è dalle singole cose che si o^ene l’universale, a=raverso l’astrazione
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. la posizione di Roscellino o di Ockham potremmo chiamarla post rem, l’universale è solo un nome, un fiato della voce e nulla più.
È una convenzione
Post rem
Tre modelli di razionalità
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Deriva dalla astrazione
In re
È una convenzione
Post rem
Esiste di per sé come
idea
Ante rem
Bene comune
Tre modelli di razionalità che spiegano il bene comune
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• Che cosa significhi questo mio riferimento alle tre forme di verità è presto detto se pensiamo che accettando la prima (ante rem) saremmo costretti ad asserire che il bene comune è preminente sulla felicità del singolo; infatti, posto che l'universale esiste ancor prima dell'esistenza dell'uomo, dovremmo presupporre che l'idea sovrasta ogni singolo il quale deve sottomettersi alle leggi universali, comprese quelle delle chiese monoteiste che impongono le proprie verità rivelate; è da qui, anche se non solo da qui, che nasce la preminenza dello Stato come origine del bene comune, di quello stato che porta necessariamente ad un egemonismo che può trasformarsi in totalitarismo.
• Se, invece, seguissimo l'atteggiamento di Aristotele per il quale la verità non consiste in un'idea preconcetta, ma va calibrata nel mondo nelquale ci troviamo, allora il bene comune potrebbe essere ritrovato a partire dai singoli per salire verso la costituzione di una società nella quale i singoli non perderebbero le loro felicità, ma anzi godrebbero di una felicità pubblica che però, necessariamente, dovrebbe fare i conti con quella privata; in questo caso non sarebbe più la forma di governo ad essere preminente sui soggetti, ma il bene dei soggetti determinerebbe, all'interno della forma di governo, qualunque essa sia, monarchia, aristocrazia, politìa, l'atteggiamento che lo stato dovrebbe avere.
• Scegliendo, invece la terza forma, quella che la verità è un semplice flatus vocis, un soffio della voce senza nessun senso, allora credo che scivoleremmo nell'anarchismo dove diritti e doveri, invece di amalgamarsi, si scontrerebbero.
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Non sta a me, in questa sede, decidere quale sia migliore
Si può rifiutare l'ante rem e quindi l’asserzione che la felicità privata non debba essere tenuta in considerazione di fronte al bene comune al quale spe=a il dominio sui singoli. Questa posizione è di chi egemonicamente pone la verità da costui professata come l’unica cui so=ome=ere ogni altra convinzione. Penso non solo al totalitarismo statale, ma anche a quelle isFtuzioni religiose che alla libertà di coscienza preferiscono, alla stregua di Platone, il de=ato della legge universale, rivelata così come filosoficamente era stata rivelata a Platone.
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Due parole su Platone Nell’Iperuranio sono disposte, come in una piramide, tu=e le idee (le meno importanF dal basso verso l’alto, fino alla massima:
all’idea di Bene, Bello, Buono
L’uomo, guardando alle cose, le crede vere come succede quando si è in una caverna e si vedono le immagini impresse sul fondo (un po’ come al cinema).
Il demiurgo, guardando alle idee poste nell’Iperuranio, dà forma alla realtà visibile.
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Il mito della caverna
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Solo i filosofi possono comprendere la verità
i filosofi devono governare la polis
i militari la difendono
i commercianti la mantengono
e quindi…
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arFgiani e commercianF
militari
Filosofi
Ecco lo stato che incarna la giusFzia e quindi spe=a a lui scegliere il bene per tu^
Sapienza + fortezza + temperanza = giusFzia
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Non sta a me, in questa sede, decidere quale sia migliore
Si può rifiutare il post rem, che porterebbe a sopravvalutare la felicità privata a svantaggio del bene pubblico e alcuni filosofi lo hanno proposto: William Godwin (1756-1836), ad esempio, deluso dalla Rivoluzione Francese e dalla dittatura giacobina, elaborò un ordinamento sociale fondato sull'abolizione del governo centrale e sulla costruzione di libere comunità indipendenti fondate sulla maturazione di un'etica insieme individualista e comunitaria.
Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) definì l'anarchia come “governo di ognuno da parte di se stesso, dove l'assenza di signori, di monarchi o governanti creava una società più giusta, senza autorità”. da un dipinto di Courbet, 1865 79
Non sta a me, in questa sede, decidere quale sia migliore
Si può rifiutare il post rem, che porterebbe a sopravvalutare la felicità privata a svantaggio del bene pubblico e alcuni filosofi lo hanno proposto:
Per Herbert Spencer (1820-1903), simpatizzante delle istanze georgistiche (per le quali ognuno ha il diritto di appropriarsi di ciò che crea attraverso il proprio lavoro), lo Stato con le sue leggi non deve regolare in alcun modo la società in quanto ogni iniziativa spetta soltanto all'individuo.
Per Max Stirner (1806-1856) spetta al singolo decidere se e quando limitare la propria libertà nel momento in cui interagisce con altri individui. L'interazione costituisce un sacrificio in termini di libertà che si può restringere solo per una maggiore utilità per sé stessi, quando non è altrimenti realizzabile.
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Non sta a me, in questa sede, decidere quale sia migliore
Si può rifiutare anche l'in re, cioè quella situazione nella quale è a parFre dai singoli che occorre decidere quali beni siano da difendere conciliandoli con quelli della comunità. E nella storia troviamo a più riprese tale forma di governo, nelle poleis greche, nella Roma repubblicana, nell’epoca Comunale italiana.
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Non sta a me, in questa sede, decidere quale sia migliore
Ma troviamo anche chi ha difeso questo principio:
Per Jeremy Bentham (1748-1832) la felicità deve esser posta nella ricerca di una convivenza che abbia come movente il piacere dell’individuo poggiato su un interesse comune e che contemporaneamente porti a rifuggire il dolore. Ogni regola va posta in vista della “maggior felicità del maggior numero possibile di persone”.
John Stuart Mill (1806-1873) Sovrano a decidere sulla gerarchia dei piaceri è l’individuo con un suo punto di vista che non esclude però quello degli altri; qualora sorgesse un conflitto tra interesse individuale e interesse generale è il dibattito pubblico a decidere.
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Problema aperto.
Non sta a me, in questa sede, decidere quale sia la soluzione migliore, però, se nel regime egemonico o totalitario, quello che nasce dal codice di riferimento dell'ante rem, il bene comune è generato dallo Stato eFco, e nella società dell'in re esso è liberamente prodo=o dalla comunità, ci sono dei pericoli in entrambi? Se il pericolo nel primo caso era rappresentato dalla spersonalizzazione del bene comune, nell'altro caso il pericolo non è più lo Stato monoliFco, ma l'eccezionale varietà centrifuga di idee e comportamenF, lo svanire del patrimonio ideale comune su cui possa fondarsi la communitas che potrebbe scivolare verso la disorganica formazione di un bene comune e quindi verso l'anarchia dove la felicità privata sarebbe fortemente egemonica a svantaggio del bene comune
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Problema aperto.
Occorrerebbe dunque determinare quali siano i diri^ del singolo alla sua felicità che lo stato, nella ricerca del bene comune, debba salvaguardare senza invadere quel territorio. Alcuni pensano a diri^ fondamentali come il diri=o alla casa, all’educazione, all’assistenza sanitaria, al lavoro, all’assistenza nella vecchiaia (pensione); però credo che quesF diri^ civili siano solo l’iceberg della felicità privata perché altri sono quelli che la determinano, non esclusi gli insopprimibili diri^ eFci (la tutela della persona, la libertà di culto, libertà di autodeterminazione, diri=o di decidere sul proprio corpo, diri=o di crescere in un ambiente prote=o dagli effe^ negaFvi) nella valorizzazione comunque delle differenze. Ma questo è un campo che richiederebbe un’altra serata da passare assieme, per cui …
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Conclusione
Questa sera non siamo giunF ad alcuna decisione, abbiamo sollevato più problemi che risposte, ma è così per la filosofia: ogni risposta chiude la ricerca, mentre le domande lasciano aperto un pertugio dove si inserisce una nuova invesFgazione e credo che sia difficile trovare: una forma assoluta di felicità privata slacciata dal bene comune e neppure si possa definire: un bene comune assoluto rispe=oso al massimo della felicità del singolo.
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Conclusione
Ogni soluzione data, purtroppo, dipende da ciò che assumiamo come codice mentale di riferimento, per cui meglio sarebbe non cercare l’assoluto, che spesso nella sua difesa realizza una crociata, ma il relaFvo che, ostacolando ogni forma di omologazione, garanFsca il pluralismo delle opinioni contro la verità unica, egemonica, totalizzante.
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Grazie per la vostra a=enzione!
hora ruit
Abbiamo ascoltato di Beethoven l’op.73 AndanFno dal Concerto n.5 l’Imperatore 87