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7 RIGENERAZIONE P er puri motivi di studio, fra qualche mi- gliaio di anni un qualche storico si interes- serà alla nostra civiltà. Frugando negli archivi (ben più che digitali, forse semplici fotoni fluttuanti nella trasparenza di una bi- blioteca a terminali neuronici), cercherà il file “inizio del Terzo millennio d.C.”. CyberGoogle, in un nanosecondo, spiattellerà milioni di documenti di un antiquato periodo stori- co; quello catalogato dagli studiosi come l’Era dell’in- coscienza. Il nostro tempo. La nostra vita. Nella armoniosa successione di documenti, al rit- mo di una sinfonia composta sul momento, il nostro storico vedrà telegiornali, cataloghi di prodotti, si- ti in primitivo html, programmi televisivi, listini di borsa, dibattiti politici, reality show, film e una gran

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Page 1: RigeneRazione - Adea edizioni · tate nel buio, dimentiche di essere fuoco esse stesse. Eppure, in ciascuno di noi, esiste l’esigenza di fer-marsi un momento. Ed è un bisogno forte:

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RigeneRazione

Per puri motivi di studio, fra qualche mi-gliaio di anni un qualche storico si interes-serà alla nostra civiltà.

Frugando negli archivi (ben più che digitali, forse semplici fotoni fluttuanti nella trasparenza di una bi-blioteca a terminali neuronici), cercherà il file “inizio del Terzo millennio d.C.”.

CyberGoogle, in un nanosecondo, spiattellerà milioni di documenti di un antiquato periodo stori-co; quello catalogato dagli studiosi come l’Era dell’in-coscienza. Il nostro tempo. La nostra vita.

Nella armoniosa successione di documenti, al rit-mo di una sinfonia composta sul momento, il nostro storico vedrà telegiornali, cataloghi di prodotti, si-ti in primitivo html, programmi televisivi, listini di borsa, dibattiti politici, reality show, film e una gran

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quantità di sport. Forse anche qualche pagina di li-bro. Quelli più di successo: fiction, horror e thriller.

Forse si chiederà perché statisticamente – e sap-piamo bene quanto gli studiosi amino la statisti-ca – la quantità di partite di calcio, bisticci in diret-ta, urla, enfasi e sospiri, travalichi così di gran lun-ga la preoccupazione per un pianeta – la casa di tut-ti – che sta morendo; l’orrore per le stragi, i genocidi, le guerre inutili; la sperequazione tra chi ha troppo e chi nulla; il saccheggio indiscriminato delle risorse...

Troverà saccate di cinismo, ipocrisia, avidità, sete di potere. E tanta, tanta superficialità.

Alla fine, forse, scriverà un saggio, destinato agli scaffali eterici della rete planetaria neuronica, alla vo-ce “I secoli bui”.

Tutto questo perché – come sempre accade agli stori-ci – non potrà parlare con qualche individuo del no-stro tempo. Non potrà sentirne i malesseri, l’impo-tenza, il dispiacere.

Non gli sarà possibile intervistare i giovani e a-scoltare i loro ideali, i loro progetti; né tanto meno i vecchi, raccogliendo il rammarico di non aver saputo trasformare il loro tempo.

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Non troverà gli atti di coraggio quotidiano, le a-spirazioni, le attese e i gesti di altruismo. Né potrà leggere lettere d’amore, in genere poco conservate negli archivi notarili.

Il nostro storico – esimio professore di Storia del Terzo Millennio – non troverà insomma, tra i do-cumenti, che poche tracce di quell’umanità più ve-ra che, in ogni tempo, ha percorso la vita chiedendo-si il perché.

L’essere umano è una creatura piuttosto stabile. An-che se forse la civiltà l’ha progressivamente in de-bolito,1 l’uomo d’oggi è sostanzialmente simile ai suoi antenati. Venuto al mondo con la curiosità di scopri-

1. È notizia di questi giorni che l’uomo moderno sia meno intelligente dei suoi antenati. Gerald Crabtree, genetista dell’università di Stanford, sostiene che l’uomo di duemila anni fa aveva più acume rispetto a quello di oggi. «Allora – scrive in un articolo lo scienziato – il castigo per la stupidi-tà era veramente grande e quindi l’evoluzione selezionava solamente i soggetti più intelligenti: Se un cacciatore-rac-coglitore non riusciva a risolvere il problema di come tro-vare cibo moriva, e con lui tutta la sua progenie; oggi inve-ce un manager di Wall Street che fa un errore riceve un co-spicuo bonus e diventa un maschio più attrattivo. Chiara-mente la selezione naturale non è più così estrema...».

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re tutto della vita, si è a poco a poco adeguato a sche-mi e abitudini che tutti gli altri intorno, ed egli stesso, definiscono come “realtà”.

E come tale – lui per primo – la vive, limitando la conoscenza del “nuovo” a un semplice accumulo di dati che chiama “esperienza” e “cultura”.

In questo modo, l’individuo si convince che la vi-ta sia una faticosa incombenza che, a fronte di im-pegni e responsabilità continue, lascia solo qualche margine di rilassamento; un po’ di tempo libero da “riempire” con tutto l’intrattenimento superficiale che gli viene offerto con dovizia.

Così, ecco i programmi televisivi “prime time” (i più seguiti, perché trasmessi dopo cena, prima di crollare nel sonno), i week end e le occasioni del-la domenica (e quanta gente la passa ai centri com-merciali!), le sospirate ferie estive e quel sogno della “pensione”, quando finalmente ci sarà il tempo per fare solo ciò che piace...

Una gran parte del consumo che ci viene pro-posto è orientato all’“evasione”, formando così, per contrapposizione, l’idea che il resto della vita costi-tuisca una vera prigione, una gabbia dalla quale dob-biamo appena possibile evadere per respirare un po’.

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Naturalmente la reclusione sta proprio nel non poter concepire il vivere come un continuum, limita-ti come siamo nel concepire costantemente un dua-lismo in tutto: lavorare è “male”, la vacanza è “bene”, la fatica “negativa, il relax “positivo”. L’uno esclude l’altro, come se non si potesse provar piacere lavoran-do e imparare, osservare, crescere in qualunque mo-mento la nostra esistenza ci mette a disposizione.

Tuttavia, c’è molto di più...La realtà è che l’essere umano vive un’inquietu-

dine più profonda, che non lo lascia mai soddisfat-to compiutamente. Senza scomodare il leopardiano “Sabato del villaggio”, possiamo concordare che an-che nel momento più sfrenato di evasione rimanga un retrogusto amaro, la sensazione di non riuscire a godere appieno il momento. Equivocando, cerchia-mo allora di pigiare sull’acceleratore, cercando emo-zioni sempre più forti, convinti di poter raggiungere qualcosa.

Ma cosa? Cos’è quel punto – quel piacere com-piuto e totale in se stesso – che non riusciamo mai a toccare (o che forse abbiamo colto raramente, pro-prio quando non ce lo aspettavamo neppure)?

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Ma la vera domanda è: cosa cerchiamo? L’emozione? L’oblio? La perdita di controllo? La

scarica adrenalinica? La spensieratezza? La tranquilli-tà? Il relax? ...La pace?

Se così fosse, questi elementi dovrebbero costitui-re una soluzione definitiva e stabile, e milioni di in-dividui sarebbero appagati da una notte in discoteca, una lancio col paracadute, una notte d’amore, una nuotata nel mare di luglio, una camminata in una valle alpina o una giornata di wellness in una Spa.

Ma queste cose finiscono, raggiungono un apice e decadono. Funzionano quindi parzialmente. E nel-la misura in cui ce le possiamo permettere.2

Perché allora l’essere umano tende costantemente a qualcosa che non raggiunge mai, bruciando espe-rienze che non lo soddisfano definitivamente e che lo spingono nuovamente a cercare ancora più avanti?

2. È piuttosto interessante la circostanza per cui alcuni noti miliardari (popstar internazionali, celebri attori e facoltosi finanzieri) abbiano tempo fa acquistato ciascuno un’intera isola tropicale da una agenzia specializzata. Tutti, indistin-tamente, dopo pochi mesi se ne sono disfatti. Con spiega-zioni diverse, ma con la costante che non avevano trovato il paradiso perfetto e appagante che cercavano.

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Intendiamoci: stiamo parlando di una spinta esi-stenziale di cui gran parte degli individui non è co-sciente, e che comunque ciascuno sperimenta e in-terpreta secondo parametri del tutto personali, lega-ti alla propria sensibilità, alla formazione ricevuta e – persino – allo stadio evolutivo del proprio essere.

Sta di fatto che, alla fine, esaurite le esperienze specifiche, ognuno vive a suo modo un’insoddisfa-zione di fondo a cui non sa dare un nome e che cer-ca di placare cercando altri “oggetti” ancora – emo-zioni, esperienze, persone, idee, progetti, sogni – nel-la speranza di soddisfare questa sete che pare inestin-guibile.

Il fatto è che, il più delle volte senza sapere di far-lo, l’es sere umano cerca se stesso. Non il personaggio che ha scelto di interpretare, non la costruzione di una personalità adeguata al tempo e al luogo, e nean-che quella somma di opinioni, pregiudizi e convin-zioni che ha faticosamente raccolto per sentirsi uni-co e accettato. Egli cerca l’autenticità con cui è venu-to al mondo, quella curiosità genuina e così specia-le che appartiene solo a lui e che ha fornito la spin-ta per immergersi in tutte le esperienze che ha fatto.

Un cane che si morde la coda: nasciamo con una

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specificità conquistata in un tempo che non ricor-diamo e subito, per ritrovarci, ci gettiamo a cerca-re qualcosa all’esterno che, confondendo il soggetto con l’oggetto, ci allontana sempre più da noi. E que-sta “distanza” ci spinge ancor di più a cercare qualco-sa che, se non reso consapevole e diretto verso l’au-tentica ricerca di noi stessi, ci allontana ancora di più, rendendoci insoddisfatti e tormentati dalla sete.

Non è una dannazione, né un gioco perverso per prendersi beffe ai nostri danni, ma l’unico modo che abbiamo per imparare davvero e sviluppare una comprensione che sia realizzata, cioè davvero fatta nostra e non semplicemente ragionata.

Realizzarci – trovare noi stessi – è il nostro sco-po ultimo e l’intero senso della vita, in ultima analisi, corrisponde proprio a questo.

Volenti o nolenti, consapevoli o meno, in sostanza tutto quello che facciamo è mosso dalla ricerca del-la nostra vera natura. Attraverso le esperienze, inse-guiamo un filo sottile che, tramite il piacere, ci rivela a sprazzi parti di noi stessi.

Il difficile è riconoscere l’autenticità, spogliata dalle identificazioni, dalle balle che ci raccontiamo,

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dalle idee che abbiamo del mondo e di noi; levigate, sofisticate, cullate negli anni fino a mascherare la ve-rità, sostituendosi ad essa.

Cerchiamo noi stessi e, nello stesso tempo, sem-bra che da noi fuggiamo a gambe levate. Ma quell’im-mersione nell’esperienza, quelle identificazioni effi-mere che scoppieranno alla fine come bolle di sapo-ne, ci faranno arrivare – negli anni, nei secoli, nei millenni – all’unico punto cui tendiamo. Quello da cui proveniamo, intoccato, puro, luminoso.

Questa volta consapevolmente, dopo aver attra-versato tutto.

E finalmente potendo amare tutto.

All’interno di questo processo che, nel suo insieme, non siamo in grado di determinare, quello che ab-biamo, qui, in questo momento, è la nostra vita. La nostra occasione. La nostra possibilità.

Certo, viviamo un’epoca difficile: a fronte di una spropositata abbondanza di risorse, paradossalmente la distanza dell’uomo da se stesso non è mai stata co-sì critica come ora e la disarmonia, in tutti i suoi a-spetti, ha raggiunto livelli di guardia.

Mangiamo male e per lo più alimenti trasforma-

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ti industrialmente; cavalchiamo ritmi anomali, scam-biando la notte per il giorno e riempiendo ogni mi-nimo spazio di rumore, frenesia, ansie, preoccupa-zioni; non facciamo movimento e abusiamo di au-to, ascensori, macchine che si sostituiscono al lavoro; ci imbottiamo di pillole chimiche per spegnere quel-le lampadine di allarme (i sintomi) che ci avvertono che stiamo tirando troppo la corda.

Soprattutto, non ci concediamo un momento di sosta, correndo forsennatamente verso qualcosa che non sappiamo neppure noi descrivere, fuggendo il vuoto e il silenzio come fosse tempo perso.

Cerchiamo al di fuori, fuggendo da noi stessi, co-me scintille emanate da un falò che sprizzano spaven-tate nel buio, dimentiche di essere fuoco esse stesse.

Eppure, in ciascuno di noi, esiste l’esigenza di fer-marsi un momento. Ed è un bisogno forte: se guar-diamo bene, possiamo notarlo.

Forse non ne siamo del tutto coscienti, perché si manifesta come un malessere e, soffocato dal dove-re e dalla frenesia, non prende forma precisa. Ma, in tutti noi, esiste forte il desiderio di arrestare la corsa.

Crediamo di non potercelo permettere e che le e-

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sigenze esterne siano più impellenti. Ma è un abba-glio dell’ego, convinto di essere indispensabile in un mondo che invece continua tranquillamente anche senza di lui.

Di solito tendiamo a rimandare: a un momento mi gliore («no, in questo periodo non posso proprio: for-se appena passata la buriana...»), al prossimo week-end («questa domenica voglio proprio prendermela co-moda..»), alle ferie estive («non vedo l’ora di sdraiarmi su una spiaggia a far niente...») o a un ipotetico futu-ro («prima o poi me lo faccio, un bel viaggio...»), ma non riusciamo mai a fermarci davvero.

L’esigenza di ritirarsi, di trovare uno spazio e un luo-go per occuparsi di sé e del proprio interiore è un’e-sigenza prettamente umana. Lo è da sempre, anche se nella nostra società ha assunto forme superficiali e poco efficaci.

In tutte le tradizioni possiamo trovare consuetu-dini che rispondono a questa esigenza: dal ritiro spiri-tuale di impronta cristiana, alla Khalwa3 dei Sufi, dal

3. Nel Sufismo, un periodo di ritiro spirituale, tradizional-mente di 40 giorni, durante i quali il discepolo pratica e-stenuanti esercizi spirituali sotto la guida di un maestro.

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Chaturmasa 4 indù, all’Aitekaf 5 islamico, dai “tre an-ni, tre mesi, tre giorni” 6 del buddhismo tibetano al-la Sesshin dello Zen, fino alle innumerevoli forme di ritiro individuale presenti in ogni cultura e religione.

Nelle grotte e negli eremitaggi, sulle montagne e nei deserti, in ogni tempo milioni di individui si sono appartati, cercando purificazione, ascesi, comprensio-ne. Non solo mistici, ma anche guerrieri, condottie-ri, pensatori e imperatori, alla ricerca di qualcosa che sentivano essere presente all’interno di loro stessi.

Non una fuga dal mondo, ma piuttosto un “fare il punto” con l’essenziale, affrancati da tutto ciò che non serve, a tu per tu con quello che potremmo chia-mare l’essenza.

E si tratta di un’esigenza del tutto presente nell’uo-mo moderno, anche se ne ha perso le forme tradizio-nali, frastornato com’è da una vera e propria “indu-

4. Periodo di ritiro, durante la stagione delle piogge, per lo studio delle scritture, che inizia il giorno di luna piena del mese di Ashada (giugno-luglio).

5. Un periodo di ritiro in moschea, di devozione e preghiera.6. Periodo di stretta clausura in una cella, una stanzina co-

struita in un luogo appartato, per lo più aggrappata al-la roccia sopra uno strapiombo, in solitudine, passando in preghiera e meditazione tre anni, tre mesi e tre giorni.

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stria del tempo libero” che riempie ogni pausa con ancor più rumore, soffocando e mistificando un’esi-genza sacrosanta.

Lo stress che viviamo – e che è diventato una ve-ra piaga sociale – non è tanto dovuto al ritmo del la-voro, quanto proprio a quell’impossibilità di fermare tutto anche per poco, occupandoci con calma del no-stro mondo interiore, del nostro sentire, del nostro e-sistere e respirare qui ed ora.

Ogni cosa, al mondo, nasce, vive e muore. Una sta-gione succede all’altra, e tutto si rigenera, continua-mente. È banale, ma è proprio così.

Noi, invece, tendiamo a concepirci su una linea continua che tende in una direzione, dalla nascita, più o meno diretta dalla nostra volontà.

Non è così. Abbiamo bisogno di fermarci, di “ri-caricare le batterie”, di aggiustare il tiro, di chiederci ogni tanto chi siamo e cosa vogliamo. E cosa stiamo facendo e perché.

Abbiamo bisogno di rigenerarci (ri-generarci), ri-nascere a noi stessi e scoprire nuove parti di noi che, nel rumore e nell’identificazione quotidiana, restano soffocate e prive di espressione.

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Abbiamo bisogno di andare verso noi stessi e pos-siamo farlo solo concedendoci il lusso di dedicare del tempo all’ascolto e all’emersione di ciò che siamo davvero.

Ce lo dobbiamo, perché lo strumento più impor-tante che abbiamo a disposizione è proprio questa vi-ta e non possiamo a lungo sognare la pace che verrà se non sappiamo cercarla adesso.