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RIVISTA DELLA BANCA REGIONALE EUROPEA GRUPPO UBI BANCA GIORGIO S. FRANKEL PETROLIO, DOLLARO, CAMBIAMENTI EPOCALI RICERCA IPSOS 2007 GLI ITALIANI, IL RISPARMIO, L’EUROPA. NUOVA SERIE INVERNO 2007-2008

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Page 1: RIVISTA DELLA BANCA REGIONALE EUROPEA …...n. 24 (nuova serie), anno 30 Direttore responsabile: Carlo Benigni Direzione: Via Roma, 13 - 12100 Cuneo tel. 0171/4461 fax 0171.446098

RIVISTA DELLA BANCA REGIONALE EUROPEAGRUPPO UBI BANCA

GIORGIO S. FRANKELPETROLIO, DOLLARO, CAMBIAMENTI EPOCALI

RICERCA IPSOS 2007 GLI ITALIANI, IL RISPARMIO,L’EUROPA.

NUOVA SERIE INVERNO 2007-2008

Page 2: RIVISTA DELLA BANCA REGIONALE EUROPEA …...n. 24 (nuova serie), anno 30 Direttore responsabile: Carlo Benigni Direzione: Via Roma, 13 - 12100 Cuneo tel. 0171/4461 fax 0171.446098

INDICE QUESTO NUMERO

1 EDITORIALE2 PETROLIO, DOLLARO E ALTRI CAMBIAMENTI EPOCALI GIORGIO S. FRANKEL 8 SE KEYNES TORNASSE OGGI, SAREBBE KEYNESIANO? KEYNES VISTO DA ALAIN MINC CARLO BENIGNI 11 QUADRANTE FUTURO. IL NUOVO SITO DELL’ECONOMIA GLOBALE12 GLI ITALIANI, IL RISPARMIO E L’EUROPA I RISULTATI DELLA RICERCA IPSOS 200720 L’ARTE DEL COLLEZIONARE: LA RACCOLTA MARIO SCAGLIA AL POLDI PEZZOLI ANNALISA ZANNI

30 I MONUMENTI SACRI NELLA STORIA DI PAVIA ERNESTO MAGGI40 “QUEL CIELO DI LOMBARDIA” PAESAGGI DELL’OTTOCENTO E NOVECENTO NEI MUSEI CIVICI DI PAVIA SUSANNA ZATTI44 IL MONVISO NELLA CARTOGRAFIA PAOLO CARONI50 BARBARESCO: UN MONDO A PORTATA DI MANO PIETRO GIOVANNINI56 C’ERA UNA VOLTA LA LANGA DONATO BOSCA62 MIELE DEL ROERO PAOLA GULA66 LOU TRABALAN EST ARRIVÉ PIERO DADONE72 CULTURA IN GALLERIA MASSIMILIANO FINAZZER FLORY74 NATIVITÀ E PRESEPI NELL’ARTE E NELLA TRADIZIONE A MILANO E IN LOMBARDIA ROBERTA CORDANI, GIANFRANCO RAVASI, CLAUDIO SALSI82 TECNICA E SENTIMENTO L’ANIMA DELLA PUBBLICITÀ MARIO CERA, ANTONIO SACCHI 88 IL GRANDE GIOLITTI PER LA GRANDE ITALIA NUOVE FONTI PER LA STORIA DELL’ITALIA CONTEMPORANEA ALDO A.MOLA91 STEFANIA BELMONDO, UNA VITA PER LO SPORT PULITO INTERVISTA A CURA DI LORENZO TANACETO92 TEMPO DI GRANDE VOLLEY. LA BRE BANCA LANNUTTI AI VERTICI DELLA CLASSIFICA DEL CAMPIONATO DI SERIE A1 DANIELA GROPPI94 NOTIZIE

Questo numero di Rassegna si apre con uno sguardo ai futuri scenari dell’economia globale. L’autunno 2007 è stato dominato dalla caduta del dollaro rispetto all’euro e dalla rapida ascesa del prezzo del petrolio. Giorgio S. Frankel analizza i grandi cambiamenti della geografia economica, che comportano un vasto trasferimento di potere a livello mondiale e potrebbero preludere a cambiamenti epocali.Un’interessante rivisitazione del pensiero e della biografia di John M.Keynes è proposta da Alain Minc, intellettuale e uomo di impresa, esponente della classe dirigente francese espressa dalle “Grandes Ecoles”, “border line” tra politica ed economia. Se Keynes tornasse, oggi, sarebbe keynesiano? Anche quest’anno la IPSOS ha svolto per conto dell’ACRI una ricerca sulla propensione degli italiani al risparmio, integrata con un ampliamento al tema “Cinquant’anni di Europa unita: regole e vantaggi per i risparmiatori”. Ne emerge un quadro di pessimismo quasi rassegnato; sono in aumento le famiglie che si dichiarano in difficoltà e si riduce la quota di quanti riescono a risparmiare. Un’ampia maggioranza continua a sentirsi europeista, è favorevole ad una Costituzione europea e ritiene che nel futuro sarà sempre più un vantaggio essere nell’euro.La Banca Regionale Europea è main sponsor della mostra “La raccolta Mario Scaglia - Dipinti e sculture, medaglie e placchette da Pisanello a Ceruti”, in corso a Milano, al Museo Poldi Pezzoli; la presenta ai lettori Annalisa Zanni, direttore del Museo.Molto spazio è dedicato alle Langhe, luogo di memoria, di bellezza e di enogastronomia di eccellenza. Protagonisti dei due servizi sono il Barbaresco, raccontato da Pietro Giovannini, ed i paesaggi e le persone nelle fotografie di Aldo Agnelli, che nella sua opera interpreta meglio di chiunque altro il modo in cui Beppe Fenoglio sentiva le sue colline e la sua gente. Alla contigua terra del Roero è dedicato il servizio di Paola Gula sul miele.Come di consueto, Rassegna è attenta alla vicina Costa Azzurra, dove la Banca Regionale Europea è presente con due agenzie. L’inaugurazione del nuovo tram, a Nizza, ha segnato una svolta nei trasporti e nella qualità della vita della città: Pietro Dadone ne spiega il come e il perché. Sul versante dello sport, la squadra di volley Bre Banca Lannutti ha concluso il 2007 ai vertici della classifica del campionato di serie A1: un ottimo auspicio per la Champions League e per i play-off.Ai lettori sinceri auguri per un 2008 ricco di successo.

Rivista della Banca Regionale European. 24 (nuova serie), anno 30

Direttore responsabile:Carlo Benigni

Direzione:Via Roma, 13 - 12100 Cuneo tel. 0171/4461fax [email protected]

Autorizzazione del Tribunale di Cuneo n. 2/78del 14-3-1978

Spedizione in abbonamento postale comma 34 art. 2 Legge 549/95Filiale di Cuneo

Associato all’USPI Associazione Stampa Periodica Italiana

Graficadi Gianni Parlacino

Fotolito StampaTipolitoEuropa - Cuneo

Questo numero è stato chiuso in tipografia Il 27 dicembre 2007

In copertina, dall’alto in senso orario:Panorama invernale di Langa, Rodello;Pavia, interno della Chiesa di San Michele; Nizza, l’inaugurazione del nuovo tram;Evaristo Baschenis, ragazzo con canestra di pane e dolciumi.

Servizi fotografici di Bruno Garavoglia(le foto del servizio sul Barbaresco sono di John Anthony Rizzo; quelle di “C’era una volta la Langa” sono di Aldo Agnelli)

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FIDUCIA NEL FUTURO

Il 2007 si è concluso con una forte accelerazione dei processi di cambiamento strutturale dello scenario finanziario internazionale. Il ruolo degli Stati Uniti si va ridimensionando; si profilano nuovi assetti multipolari, sul piano dell’economia e della politica; la Cina registra una crescita a due cifre e moltiplica gli investimenti sul mercato americano, anche in settori strategici quali le banche; la Russia, grazie alle risorse petrolifere, torna a pensare da grande potenza. L’euro, mai come oggi rivalutato rispetto al dollaro, si propone di fatto come seconda (o prima?) moneta di riserva internazionale; altre aree monetarie potrebbero realizzarsi nel medio periodo, e ciò determinerebbe un profondo riassetto degli equilibri in atto dalla fine della seconda guerra mondiale. La globalizzazione comporterà la prevalenza del mercato sulla democrazia? Il nuovo assetto multipolare sarà portatore di stabilità o di conflitto? Quali i prezzi da pagare, ora che emergono i problemi determinati dal processo di finanziarizzazione dell’economia, in atto da anni? Saprà l’Europa parlare con una sola voce e acquisire un peso politico proporzionale alla forza della sua moneta? E ancora: quale sarà il ruolo dell’Italia nel contesto dei cambiamenti epocali prossimi venturi?

Ultimamente si sono diffuse sensazioni improntate al pessimismo, spesso confortate dalla realtà dei fatti: la frammentazione della politica, l’antica abitudine a far prevalere l’interesse individuale e di categoria rispetto a quello generale, il rifiuto sostanziale della meritocrazia. Malgrado tutto il Paese, così ricco di eccellenze e potenzialità, possiede le risorse necessarie per evitare un declino strutturale: potrà farcela, se i diversi attori sapranno superare l’ orizzonte ristretto della quotidianità, confrontandosi su visioni di avvenire.La Banca Regionale Europea, che conclude un anno di buon lavoro, nella nuova grande realtà del Gruppo UBI, guarda al futuro con fiducia e con rinnovato impegno in quello scenario competitivo e di eccellenza che continua ad essere e sarà il nord-ovest italiano.

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Lo scorso ottobre, Jim Rogers, uno dei più celebri “guru” della finanza internazionale, a suo tempo partner del leggendario George Soros, ha annunciato di voler liquidare i suoi averi in dollari per spostarsi sullo yuan cinese e altre monete tra cui lo yen giapponese. Poco dopo, anche Gisele Bundchen ha detto che lascerà la moneta americana. La 26enne Bundschen non è un “guru” della finanza ma una “top model” brasiliana, decisamente assai più bella Jim Rogers. È anche una delle “top model” più pagate al mondo. Nel 2007 ha guadagnato più di 30 milioni di dollari, e ha deciso che in futuro si farà pagare solo in euro. La notizia ha fatto scalpore. Ne hanno parlato anche i giornali finanziari. Poi, per la verità, la Bundchen avrebbe smentito. Il mondo sta davvero cambiando rapidamente. Sempre nel 2007, in luglio, la Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) è salita al primo posto nella graduatoria mondiale per capitalizzazione di borsa superando, sia pure di poco, il colosso bancario americano Citigroup. Verso fine anno, la Cina ha conquistato un altro record mondiale con la compagnia PetroChina. Nel frattempo, negli Stati Uniti, Citigroup si è trovata in gravi difficoltà per la crisi dei mutui ipotecari “subprime” ed è stata soccorsa da un tempestivo intervento di Abu Dhabi, il ricco emirato petrolifero del Golfo Persico, che ha deciso di acquistare il 4,9 per cento della banca americana per 7,5 miliardi di dollari in contanti. L’operazione, piuttosto complessa, sarà gestita dall’Abu Dhabi Investment Authority (ADIA), il più grande “fondo sovrano” del mondo, controllato dalla famiglia reale di Abu Dhabi. L’ADIA diventerà così il più importante azionista di Citigroup. Prima del suo arrivo, il “numero uno” di Citigroup, con una quota del 2,9 %, era il principe saudita Walid bin Talal al-Saud, un altro “guru” dell’alta finanza. L’autunno 2007 è stato in gran parte dominato, sulla scena politica ed economica globale, dalla continua caduta del dollaro rispetto a quasi tutte le altre monete, in particolare l’euro, e dalla contemporanea, rapida ascesa dei prezzi del petrolio verso la “soglia” quasi astronomica dei 100 dollari al barile. Una doppia crisi molto pericolosa. Per il vero, il mondo è già passato attraverso situazioni analoghe, con la storica crisi del dollaro del 1971 e gli shock petroliferi di quegli anni. Oggi, tuttavia, c’è un nuovo fattore di fondo: i grandi cambiamenti della geografia economica mondiale, che comportano anche

PETROLIO, DOLLARO E ALTRI CAMBIAMENTI EPOCALI

L’autunno è stato caratterizzato, sulla scena politica ed economica globale, dalla continua caduta del dollaro rispetto a quasi tutte le altre monete, in particolare l’euro, e dalla contempo-ranea, rapida ascesa dei prezzi del petrolio, verso la soglia quasi astronomica dei 100 dollari al barile. Una doppia crisi molto pericolosa. Vi sono segnali anticipatori di imminenti svolte storiche e si delinea, a breve termine, la possibilità di cambiamenti davvero epocali. Uno di questi potrebbe essere un’ulteriore, grave crisi del dollaro, con un drastico ridimensionamento del suo ruolo di “moneta internazionale”; un evento meno traumatico, la fine dell’impiego del dollaro nelle transazioni petrolifere e la sua sostituzione con un “paniere” di monete. È in atto un vasto trasferimento di potere a livello globale, nel contesto di una nuova, emergente multipolarità politica e finanziaria: l’Asia ha spostato il baricentro economico del mondo.

grandi cambiamenti geopolitici e strategici. In altre parole, è in corso un vasto trasferimento di potere a livello globale. Quanto vasto, è difficile dirlo. Così come è difficile dire se l’indebolimento del dollaro è una crisi come altre del passato e più o meno passeggera, oppure se è l’indizio di un vero declino storico, sia della moneta sia della potenza globale degli Stati Uniti. Comunque, le nuove, emergenti situazioni geoeconomiche e geopolitiche comportano la possibilità, a breve termine, di cambiamenti davvero epocali. E i segnali anticipatori di imminenti svolte storiche (peraltro ancora ipotetiche) sembrano sempre più frequenti. Uno di questi possibili eventi epocali potrebbe essere un’ulteriore, grave crisi del dollaro con conseguente, drastico ridimensionamento del suo ruolo di “moneta internazionale”, e una successiva riforma del sistema monetario mondiale. Un evento meno traumatico, ma comunque di portata storica, potrebbe essere la fine dell’impiego del dollaro nelle transazioni petrolifere, e la sua sostituzione con un “paniere” di monete che, da una parte, darebbe maggiori garanzie di stabilità e, dall’altra, rifletterebbe in modo più realistico l’odierna geoeconomia del petrolio, con la crescente entità delle importazioni asiatiche.

LE DUE CRISI: SCENDE IL DOLLARO, SALE IL PETROLIOTorniamo, per ora, alle due “crisi” che hanno lasciato attonito il mondo per buona parte dell’autunno quando il dollaro scendeva verso i 70 centesimi di euro e il petrolio saliva verso i 100 dollari. Esse hanno origini non connesse tra loro. Nel caso del dollaro, il problema chiave è dato dagli enormi deficit dei conti con l’estero, cui si aggiungono il crescente costo della guerra in Afghanistan ed in Irak, e le “bolle” che periodicamente colpiscono l’economia americana, come la recente crisi dei mutui ipotecari “subprime”. Nel caso del petrolio, i problemi chiave sono la crescita, apparentemente senza freni, della domanda, mentre la capacità produttiva non cresce in modo adeguato, e il sistema petrolifero globale, dalla ricerca di nuovi giacimenti alla distribuzione e stoccaggio dei prodotti raffinati, soffre di numerose rigidità, e in particolare di margini di capacità operativa troppo ristretti. Tuttavia, le due “crisi” sono poi strettamente intrecciate. Ad esempio, una quota degli aumenti dei prezzi del petrolio (espressi in

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dollari) riflette, a sua volta, la perdita di valore della moneta americana. D’altra parte, il deprez-zamento del dollaro pone gravi problemi ai paesi esportatori di petrolio. Il dollaro è la “petro-moneta” per eccellenza, cioè la divisa impiegata nelle transazioni petrolifere internazionali: i prezzi del greggio sono quotati in dollari, i contratti sono in dollari e le forniture sono quasi sempre pagate in dollari. Così, in cambio del loro greggio, i paesi esportatori incassano dollari, ma una quota crescente delle loro importazioni di beni e servizi proviene dall’Unione Europea, dal Giappone, dalla Cina, dalla Corea del Sud o da altri paesi asiatici, e quindi vengono pagate, rispettivamente, in euro, in yen, in yuan, in won e altre monete, tra cui, per quanto riguarda l’Europa, anche la sterlina e il franco svizzero. In breve, se il valore del dollaro scende, diminui-sce anche il potere d’acquisto degli esportatori di petrolio quando devono importare beni e servizi da paesi la cui moneta si sia apprezzata rispetto al dollaro. L’indebolimento del dollaro è stato, probabilmente, uno dei temi principali all’ordine del giorno del summit dei Capi di Stato dell’OPEC, il “cartello” storico dei paesi esportatori di petrolio, che si è tenuto a Riyadh, in Arabia Sau-dita il 17 e 18 novembre (1). Per il vero, i lavori si sono svolti a porte chiuse, ma sono stati fatti trapelare alcuni dettagli. All’inizio del summit, il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, ha avvertito che, nel caso di un attacco militare degli Stati Uniti all’Iran per la questione nucleare, il prezzo del greggio potrebbe salire subito a 150 o anche 200 dollari. Chavez e il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, da tempo alleati, avrebbero sostenuto la necessità, per i paesi OPEC, di ridurre, o annullare il ruolo del dollaro nelle loro riserve valutarie e nel commercio del petrolio. “L’impero del dollaro deve finire!” ha detto Chavez parlando ai giornalisti. Il dollaro, egli ha aggiunto, è in caduta libera, senza paracadute, e l’euro è una opzione migliore. Altrettanto tranchant l’iraniano Ahmadinejad in una conferenza stampa dopo la conclusione del summit: “[Gli americani] si prendono il nostro petrolio e ci danno in cambio un pezzo di carta che non vale niente […] Tutti [i Capi di Stato] presenti [al summit] si sono mostrati interessati a cambiare le loro riserve valutarie usando una valuta credibile. Alcuni hanno detto che i paesi produttori [di petrolio] dovrebbero scegliere una moneta forte diversa dal dollaro da impiegare nel commercio del petrolio”.

Durante i lavori a porte chiuse, contro le tesi di Chavez e di Ahmadinejad, e a favore del mantenimento del dollaro come “petro-moneta”, si sarebbero pronunciati re Abdallah dell’Arabia Saudita e i leader di altri paesi filo-americani. Il ministro degli Esteri saudita, principe Saud el-Feisal, avrebbe avvertito che il problema

del dollaro e del suo indebolimento è così grave che solo a parlarne ad alta voce si rischia di provocare un’ulteriore caduta del suo valore. Il principe Saud aveva ragione. Pochi giorni prima, infatti, era bastata una breve dichiarazione di un dirigente cinese, Cheng Siwei, perché il dollaro scendesse ancora. Cheng, vice presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, avrebbe semplicemente detto, secondo il Quotidiano del Popolo: “Noi cinesi preferiamo le monete forti piuttosto che quelle deboli, e ci regoleremo di conseguenza”. Poiché le riserve valutarie della Cina ammontano, in valore, a circa 1.400 miliardi di dollari, e sono in gran parte denominate in dollari (circa il 70-75 %, secondo alcune fonti; ma l’effettiva composizione delle riserve cinesi è un segreto), è comprensibile che i mercati si facciano prendere dalla paura al minimo cenno di possibile “diversificazione” delle riserve cinesi. L’Arabia Saudita è in una situazione analoga a quella della Cina: ha ingenti riserve (ma minori di quelle cinesi), in gran parte in dollari, e come la Cina investe una quota notevole dei suoi surplus finanziari acquistando titoli del Tesoro degli Stati Uniti. Dunque, entrambe, per vari motivi, sostengono il dollaro e il suo ruolo quale moneta internazionale. E ogni volta che il dollaro scende, entrambe vedono scendere il valore effettivo delle rispettive riserve valutarie. Inoltre, poiché il riyal saudita è ancorato al dollaro, il deprezzamento di quest’ultimo si traduce, per l’Arabia Saudita, in un rincaro di buona parte delle importazioni e quindi in pressioni inflazio-nistiche. Tuttavia, l’Arabia Saudita ha complessi legami strategici con gli Stati Uniti. In virtù di questi legami (e della “sicurezza” fornita dagli Stati Uniti), a partire dall’inizio degli anni settanta l’Arabia Saudita ha sempre sostenuto, in ambito OPEC, che il dollaro deve restare la “petro-moneta” per eccellenza. Il documento finale del summit dell’OPEC non fa alcun cenno alla questione del dollaro. Tuttavia, vi si dice che i paesi OPEC hanno incaricato i rispettivi ministri del Petrolio di studiare, coi colleghi delle Finanze, i modi per migliorare la cooperazione finanziaria tra i paesi membri, comprese le proposte avanzate da alcuni partecipanti nelle loro dichiarazioni al summit. La frase è davvero molto sibillina, ma può voler dire, sia pure in modo criptico, che il problema del dollaro sta entrando nella agenda dell’OPEC. Il ministro del petrolio iraniano, Gholam Hussein Nozari, l’ha confermato all’agenzia Dow Jones: “Abbiamo deciso di costituire un comitato di ministri del Petrolio e delle Finanze dei paesi OPEC per studiare l’impatto del dollaro sul prezzo del petrolio”. Secondo altre fonti, i ministri delle Finanze dovevano discutere la questione del dollaro prima della riunione ordinaria dei ministri del Petrolio dell’OPEC fissata per il 5 dicembre ad Abu Dhabi.

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All’inizio di dicembre, poco prima della conferenza OPEC di Abu Dhabi, altri importanti eventi di rilevanza globale si sono intrecciati, nel Medio Oriente e altrove nel mondo. Il 1° dicembre si è tenuta, a Doha, capitale del Qatar, la 79a conferenza dell’OAPEC, l’Organiz-zazione dei paesi arabi esportatori di petrolio (2). Sempre a Doha, il 3-4 dicembre, si è tenuto il 28º summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo, formato da sei paesi arabi del Golfo Persico, che per la verità essi chiamano Golfo Arabico (3). Un summit molto importante, in parte focalizzato (come aveva già in precedenza annunciato il Segretario generale del CCG, Abdulrahman bin Hamad al-Attiyah) sui problemi della sicurezza della regione e al quale, proprio per questo motivo, è stato invitato anche il presidente iraniano Mah-moud Ahmadinejad. Si tratta di un’iniziativa senza precedenti che sottolinea le preoccupazioni dei paesi arabi del Golfo per i programmi nucleari di Teheran, e soprattutto per i rischi di operazioni militari americane (e israeliane) contro l’Iran che potrebbero destabilizzare l’intera regione. Secondo alcuni scenari, ad un attacco americano, l’Iran potrebbe replicare lanciando missili balistici del tipo Scud contro impianti petroliferi in Arabia Saudita, nel Kuwait e in altri paesi arabi, oppure minacciando la navigazione nel Golfo e attraverso lo stretto di Hormuz. Ciò provocherebbe una crisi petrolifera mondiale di proporzioni inaudite. L’invito di Ahmadinejad al summit del CCG a Doha dimostra, però, che i paesi arabi del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, sono in gran parte orientati ad una politica di distensione e coesistenza con l’Iran. Un’altra importante questione in programma al summit CCG a Doha è stata la cooperazione economica e monetaria tra i paesi membri. I sei paesi del CCG sono impegnati a dare vita ad un mercato comune. L’altro, ambizioso progetto è di realizzare un’unione monetaria. La scadenza resta fissata per il 2010, ma è probabile che ci sarà un rinvio, perché alcuni partner (ad esempio, l’Oman) rischiano di dover rinunciare. Al summit di Doha, i sei del CCG hanno però evitato di affrontare, almeno pubblicamente, il problema del dollaro e questioni connesse, per esempio: la rivalutazione delle loro monete, tutte (tranne il dinaro del Kuwait) ancorate al dollaro. Il Kuwait si è disancorato dalla moneta americana nel maggio 2007, e negli altri paesi del Golfo vi sono forti istanze per fare altrettanto e adottare un “paniere” monetario. La decisione potrebbe essere politicamente difficile, e inoltre potrebbe contribuire ad un ulteriore indebolimento del dollaro. Inoltre, i paesi del CCG dovrebbero muoversi in sintonia se vogliono davvero creare una moneta unica. Intanto, il 2 dicembre, le elezioni legislative in Russia sono state un trionfo per il partito del presidente Vladimir Putin, a pochi mesi dalle presidenziali, mentre in Venezuela

il presidente Chavez ha clamorosamente perso il referendum costituzionale. La vittoria di Putin e il ridimensionamento di Chavez avranno importanti implicazioni per la politica globale, e in particolare per le manovre geoeconomiche e geopolitiche connesse al petrolio. Infine, il 1º dicembre, due significativi eventi riguardanti la Cina. A Riyadh si è tenuto il secondo seminario del “Dialogo culturale arabo-cinese”. La notizia, di per sé, non è forse molto importante ma va vista nel contesto di un costante, progressivo avvicinamento del Medio Oriente arabo all’Asia, in particolare India e Cina. Anche qui sta maturando, sul piano della geopolitica, un cambiamento epocale. La folta delegazione cinese al seminario “culturale” di Riyadh era guidata dall’ex ministro degli Esteri Yang Fuchang. Quello stesso 1º dicembre si è tenuto, a Pechino, il primo incontro del “dialogo economico ad alto livello” tra Cina e Giappone. I due giganti dell’Asia, per quanto politicamente rivali (e divisi anche per alcune contese territoriali nel Mar Cinese Orientale), hanno rapporti economici sempre più stretti. Per la Cina, il Giappone è il terzo partner commerciale (al primo posto vi è l’Unione Europea, seguita dagli Stati Uniti) e la seconda più importante fonte di investimenti diretti dall’estero. Per il Giappone, invece, la Cina è decisamente il maggior partner commerciale. La Cina è anche uno dei mercati in cui l’export giapponese cresce più rapidamente. Tuttavia, il Giappone ha diminuito gli investimenti in Cina perché Pechino ostacola l’acquisto di imprese cinesi. Anche qui, il processo in corso, può essere di portata storica. Il Giappone del dopo-guerra è sempre stato visto come un elemento integrante del mondo occidentale, sul piano economico come su quello politico-strategico, e in particolare come un partner molto stretto degli Stati Uniti. Lo è certamente ancora, ma sembra anche che stia progressivamente orientando i suoi interessi in direzione dell’Asia e in particolare della Cina.

Sempre in tema di grandi cambiamenti a livello globale, poco tempo fa, proprio mentre il mondo seguiva, affascinato e impaurito, la corsa del petrolio verso i 100 dollari, la più importante compagnia petrolifera cinese, PetroChina, al suo primo giorno di quotazione alla borsa di Shanghai, riscosse un tale successo da diventare il “numero uno” mondiale in termini di capita-lizzazione di borsa. A più di mille miliardi di dollari (!), la capitalizzazione di PetroChina era il doppio di quella del mastodonte americano del petrolio ExxonMobil. Tuttavia, bisogna subito dire che PetroChina non è ai primi posti nella graduatoria mondiale quanto a fatturato. Questi primati in termini di capitalizzazione di borsa, come anche quello già citato, della Industrial and Commercial Bank of China (ICBC), vanno presi con cautela, tenendo presente che

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le borse cinesi tendono, a volte, ad eccessi di ottimismo. Nondimeno, sono assai significativi.Poco dopo l’exploit di PetroChina, è stata la volta del Brasile, dove il presidente Lula da Silva ha annunciato che la compagnia petrolifera nazionale Petrobras, una delle più avanzate del mondo per le prospezioni in acque profonde, ha scoperto un giacimento gigante sottomarino al largo di Rio de Janeiro. A livello mondiale è la seconda più grande scoperta degli ultimi 20 anni, e quando entrerà in produzione (fra alcuni anni), farà del Brasile un esportatore di medie dimensioni. Non a caso il presidente Lula, che ha subito accennato ad un possibile, futuro ingresso del Brasile nell’OPEC, ha reso nota la scoperta il giorno stesso in cui doveva partire per il summit tra Spagna e America Latina, a Santiago del Cile. Infine, in quegli stessi giorni, a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, la Emirates Airline, ha annunciato l’acquisto di 70 aerei passeggeri A350 (e opzioni per altri 50) nel quadro di un ordine colossale di aerei Airbus e Boeing che vale in tutto sui 35 miliardi di dollari - un vero record. La Emirates, che iniziò nel 1985 con due soli aerei, è oggi, per dimensioni, tra le prime dieci compagnie aeree del mondo. Queste brevi cronache da Shanghai, Brasilia e Dubai, testimoniano i profondi cambiamenti in corso nella geoeconomia globale, e in particolare nella geopolitica del petrolio, con la crescente importanza globale della Cina (che sta per diventare la terza economia del mondo, e peraltro è già al secondo posto dopo gli USA se il PIL viene calcolato in parità di potere d’acquisto), il ruolo assunto dalle compagnie petrolifere nazionali (come, per l’appunto, Petrobras e PetroChina) in un settore un tempo dominato dalle grandi compagnie multinazionali, o ancora l’emergere di nuovi centri di attività economica e finanziaria, come Dubai e altri Emirati del Golfo, o Kuala Lumpur, in Malaysia, tutti connessi al potere petrolifero.

PARLANO I FATTI. È IN ATTO UN PROCESSO DI TRASFERIMENTO DI POTERE A LIVELLO MONDIALEPrima della guerra in Iraq, il petrolio era intorno ai 25-30 dollari al barile. Nei continui rincari sino ai 100 dollari di oggi hanno giocato molti fattori, tra cui: l’improvviso aumento della domanda globale, i numerosi “colli di bottiglia” e le rigidità dell’industria petrolifera globale, gli eventi politici (sanzioni, scioperi, instabilità, sabotaggi, guerre) che hanno colpito la produ-zione di alcuni paesi, gravi fenomeni atmosferici (come l’uragano Katrina), il timore di nuovi rischi politici, la speculazione finanziaria, e infine la caduta del dollaro. Quanto al greggio a 100 dollari, ci siamo già passati, e più di un quarto di secolo fa, nel 1980, ai tempi del secondo shock petrolifero. Il greggio

era salito a 40 dollari e minacciava di andare fino a 50 e oltre, dove 40-50 dollari di allora equivalgono, tenuto conto dell’inflazione, a 90-100 dollari di oggi. Una caratteristica della crisi petrolifera dei nostri giorni è di essere contestuale ad una grave crisi del dollaro, per di più in un momento di debolezza economica e politica degli Stati Uniti, impegnati nella guerra in Afghanistan e in Iraq. Ma, anche in questo caso, il mondo ha già avuto un’esperienza del tutto analoga, quasi quarant’anni fa, all’inizio degli anni Settanta. Il primo shock petrolifero, che esplose in pieno nel 1973, in coincidenza con la guerra arabo-israeliana del Kippur, iniziò in realtà già nel 1970 ed era in buona parte connesso alle crescenti difficoltà del dollaro, sfociate poi nella “crisi” del 15 agosto 1971, quanto il presidente Richard M. Nixon annunciò la fine della convertibilità in oro dei dollari detenuti come riserva dalle banche centrali degli altri paesi. Fu un vero terremoto che scosse l’intero sistema monetario internazionale. A quell’epoca, gli Stati Uniti erano impegnati in una dura guerra nel Vietnam e stavano per perderla. Negli anni Settanta, i paesi dell’OPEC discussero a lungo su come proteggere i redditi petroliferi dal deprezzamento del dollaro, oltre che dalla inflazione occidentale. A quell’epoca, però, non c’erano soluzioni alternative molto pratiche. Inoltre, l’Arabia Saudita, per via della sua alleanza strategica con gli Stati Uniti, non voleva abbandonare il dollaro. Del resto, non c’erano forse monete che potessero sostituire il dollaro. La sterlina, pur avendo ancora un ruolo signifi-cativo come moneta internazionale, era fragile e sulla via del tramonto. Per quanto riguarda, invece, il marco e lo yen, erano proprio i rispettivi governi, in Germania e in Giappone, a non volere, per comprensibili motivi storici, che assumessero un importante ruolo internazionale. Il petrolio, poi, era un business occidentale. L’Unione Sovietica e i paesi comunisti, Cina compresa, erano un mondo a parte. I mercati del petrolio erano gli Stati Uniti, l’Europa occidentale e il Giappone. Tutto il sistema petrolifero era domi-nato dalle grandi compagnie occidentali, anche se poi, dopo lo shock del 1973, i paesi OPEC nazionalizzarono le loro risorse. Quel mondo, ormai, non c’è più, o quasi. Ne rimangono alcune vestigia (ad esempio, il dollaro come “petro-moneta”) che però potrebbero essere presto spazzate via dallo shock del petrolio a 100 dollari e del dollaro in caduta. Le grandi multinazionali del petrolio (le cosiddette “sette sorelle”, che ormai non sono più sette, più alcune altre), che un tempo avevano il 90 per cento delle riserve mondiali di petrolio (esclusi dal conto i paesi comunisti), oggi ne hanno solo intorno al 10 per cento, mentre il resto è in mano ad una miriade di compagnie nazionali dei paesi esportatori, come StatoilHydro (Norvegia), Saudi

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Aramco (Arabia Saudita), PdVSA (Venezuela), Petronas (Malaysia), Pemex (Messico), Gazprom e le altre compagnie russe, la già citata Petrobras, e molte altre. Alcune di queste compagnie hanno ottimi livelli tecnologici e operano anche in paesi terzi. Assai importante anche il fenomeno delle compagnie nazionali di Cina, India e di altri paesi importatori, tra cui Italia, Spagna, Giappone e Corea del Sud, tutte impegnate nelle ricerca e produzione di greggio in varie parti del mondo. Secondo alcuni osservatori, le grandi compagnie multinazionali, che dominavano incontrastate il mondo del petrolio, potrebbero trovare crescenti difficoltà a competere con compagnie nazionali agguerrite e sostenute dai rispettivi governi. Ma è anche possibile che le grandi compagnie possano collaborare con le compagnie nazionali fornendo assistenza e servizi tecnologici ad alto livello. Intanto, sta cambiando radicalmente la geografia economica e strategica del petrolio. I paesi esportatori sono oggi assai più forti che negli anni Settanta e Ottanta, hanno imparato a tradurre la ricchezza petrolifera in potenza economica e politica, e sono assai più sicuri di sé nella condotta della politica estera. La Russia, uscita quasi distrutta dalla guerra fredda e dalla rovinosa caduta del comunismo, aspira con Vladimir Putin a tornare al rango di grande potenza in quanto nuovo gigante globale del petrolio e del gas naturale. Il Venezuela di Hugo Chavez conduce una politica “assertiva” e dinamica, in America Latina e a livello globale, e tiene testa all’egemonia americana nella regione. Anche con Chavez al potere, il Venezuela sarebbe assai più cauto nella sua politica estera senza il boom degli introiti petroliferi.La geo-economia e strategia del petrolio è cambiata anche quanto a mercati di consumo. Un tempo se si diceva “consumi asiatici” si pen-sava al Giappone, peraltro legato agli Stati Uniti economicamente e strategicamente. Oggi, invece, si intende proprio l’Asia, e soprattutto la Cina e l’India, le due emergenti super-potenze economiche globali, oltre alla Corea del Sud e altri. Ciò comporta già ora nuovi, progressivi “assestamenti” politico-economici. Il 60-70 per cento dell’export petrolifero del Medio Oriente va in Asia e nel Pacifico. E i paesi mediorientali sono sempre più interessati a nuovi rapporti economici e finanziari (e in futuro anche strategici) con la Cina e altre potenze asiatiche. L’altro grande cambiamento sulla scena globale riguarda gli Stati Uniti e in particolare la situazione critica dell’economia, oberata dal passivo dei conti con l’estero (bilancia delle partite correnti), dal deficit federale, dall’indebitamento delle famiglie, dal costo della guerra in Iraq ed in Afghanistan, dal degrado delle infrastrutture pubbliche, dai crescenti divari economico-sociali, da una sorta di de-industrializzazione dovuta al trasferimento in Asia di molte attività produttive,

e dalle ricorrenti “bolle” in questo o quel comparto (come quella dei mutui immobiliari). Così, il dollaro è sempre più debole, anche se è in parte sostenuto dalla Cina e dall’Arabia Saudita e da altri paesi minori, che investono parte dei loro enormi surplus finanziari in titoli americani, soprattutto Buoni del Tesoro. Ma fino a quando lo faranno? I paesi con forte surplus sono ora orientati a impiegare i loro soldi in modo più redditizio, e in altre zone del mondo, soprattutto in Asia, Africa e Medio Oriente, operando tramite i rispettivi “fondi sovrani” (che ormai gestiscono patrimoni per un totale stimato, all’inizio del 2007, a 2.500 miliardi di dollari) anziché limitarsi a comperare Buoni del Tesoro o depositare i propri surplus in banche americane o britanniche. Operazioni come quella già vista dell’acquisto del 5 per cento di Citigroup da parte dell’Abu Dhabi Investment Authority stanno ormai diventando quasi di ordinaria amministrazione. L’ADIA ha recentemente investito in un’industria americana hi-tech, l’Advanced Micro Devices, produttrice di micro-chips, ed ha acquisito una quota del Carlyle Group. Un “fondo sovrano” del Dubai, il Dubai International Capital, ha partecipazioni, tra l’altro, nella banca inglese HSBC Holdings Plc, nella Daimler AG, nella Deutsche Bank (2,2 per cento), nel colosso aerospaziale civile e militare europeo EADS (3,12%) di cui fa parte Airbus, e nell’hedge fund americano Och-Ziff Capital Management Group (9,9 per cento). Recentemente ha acquisito una quota «sostanziale» (ma non specificata) di Sony. Il principe saudita Walid bin Talal al-Saud, con un patrimonio di 29,5 miliardi di dollari, oltre ad essere un grande azionista di Citigroup, ha partecipazioni in News Corporation, Procter & Gamble, Hewlett-Packard, PepsiCo, Time Warner e Walt Disney. Walid è un personaggio molto interessante, un esponente di rilievo dei membri riformisti della famiglia reale saudita. Nella prima metà degli anni Cinquanta, suo padre, principe Talal, faceva parte di un piccolo gruppo di giovani principi rivoluzionari e repubblicani affascinati dal nazionalismo arabo del leader egiziano Gamal Abdel Nasser. Talal e alcuni altri principi fuggirono a Cairo per un breve periodo per poi tornare a Riyadh dopo essere stati “perdonati”. Oggi, Walid, potrebbe essere nella lista dei possibili, futuri candidati al trono dei Saud. Altrettanto dinamici i cinesi nella ricerca di partecipazioni strategiche. La CITIC Securities Co. ha concluso un accordo di partecipazioni incrociate con la Bearn Sterns Co., una delle principali “security firm” americane, trovatasi in gravi difficoltà a causa della crisi “subprime”. Grazie all’accordo, la Bern Sterns riceve una salutare iniezione di liquidità mentre la CITIC ottiene un importante accesso a Wall Street. La China Development Bank, statale, ha acquisito

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il 3 per cento della banca britannica Barclays Plc, diventandone l’azionista con la quota maggiore, mentre la Minsheng Banking Corp., settima banca cinese per capitalizzazione di borsa, ha annunciato, nel 2007, l’intenzione di acquistare il 9,9 per cento di UCBH Holdings, con la possibilità di portare in futuro la sua quota al 20 per cento. Infine, tra le operazione più significative vi è l’acquisto, da parte della Industrial and Commercial Bank of China di una quota del 20 per cento (per 5,5 miliardi di dollari in contanti) della banca sudafricana Standard Bank Group Ltd, che dà agli operatori cinesi importanti accessi ai mercati africani e medio-rientali - due regioni in cui la Cina ha crescenti interessi economici, petroliferi e strategici.

UN NUOVO PANIERE POTREBBE SOSTITUIRE IL DOLLARO COME PETROMONETANegli anni Settanta e Ottanta l’economia americana non aveva veri rivali, nonostante la crescita del Giappone e dell’Europa, e il dollaro non aveva reali alternative come “moneta internazionale”. Oggi non è più così. L’Asia ha spostato il baricentro economico del mondo. E se ancora non c’è una singola moneta capace di detronizzare il dollaro come moneta interna-zionale, l’euro ha un crescente ruolo in tal senso e, in più, c’è la maggiore importanza, in futuro, di monete quali lo yuan, lo yen, il rublo ed il won (Corea). Il presidente russo Vladimir Putin ha già detto di voler promuovere il rublo come moneta internazionale. Inoltre, bisogna tener conto della crescente cooperazione monetaria in Asia e della possibile creazione di una Unità di conto asiatica (analoga all’Ecu, da cui è poi nato l’euro) e, ancora, del progetto di una moneta unica per i paesi arabi del Golfo, e infine di analoghi progetti di futura unione economica e monetaria in America Latina. Le implicazioni per il petrolio sono che presto potrebbe diventare realistica l’idea di sostituire il dollaro, come “petro-moneta”, con un “paniere” composto da dollari, euro, yen, yuan, won, rubli, ed eventual-mente altre monete, che meglio rifletterebbe la realtà dell’import-export del petrolio e, per di più, darebbe maggiori garanzie di stabilità. Questa transizione potrebbe richiedere tempi non brevi, non solo per le sue difficoltà oggettive ma anche perché nelle questioni monetarie vi è, di solito, un fattore di “inerzia” a favore del sistema in vigore. Tuttavia, nel caso della “petro-moneta” l’attuale sistema potrebbe rivelarsi poco inerziale, per così dire, se (come sembra verosimile) la maggior parte degli utenti, sia esportatori sia importatori di greggio, avrà interesse a ridimensionare il ruolo del dollaro, tanto più che esistono gli strumenti monetari per farlo. Del resto, tenuto conto dei nuovi centri economici globali del mondo del petrolio, delle nuove realtà monetarie,

e del fatto che economie come l’Unione Europea, la Cina e altre asiatiche sono anche grandi esportatori verso i paesi fornitori di petrolio, l’attuale impiego quasi esclusivo del dollaro come “petro-moneta” può ormai apparire un vero e proprio anacronismo. Se la debolezza del dollaro si dimostrerà una crisi non episodica ma strutturale, l’economia mondiale farà un crescente uso di euro, yen, yuan e altre monete per sostituire progressivamente il dollaro non solo come “petro-moneta” ma anche come moneta internazionale soprattutto nella sua funzione di riserva di valore. Se ci sarà davvero una “fuga dal dollaro”, sarà una svolta davvero epocale che cambierà il mondo del petrolio ma anche l’economia globale, con importanti impli-cazioni per il potere globale degli Stati Uniti. Nel frattempo, la debolezza del dollaro, e il suo ruolo quale “moneta internazionale”, potrebbero alimentare nuovi scontri di potenze a livello globale. L’anno scorso, ad esempio, gli Stati Uniti ventilarono la possibilità di imporre sanzioni economiche alla Cina per obbligarla a rivalutare lo yuan. La Cina fece capire che, in risposta ad eventuali sanzioni americane, essa avrebbe potuto procedere alla vendita dei suoi bond del Tesoro americano e provocare, in tal modo, il crollo del dollaro. La Cina sottolineò anche che stava attivamente sostenendo il ruolo del dollaro come “moneta internazionale”. Ecco cosa disse, a tal proposito, l’economista He Fan, dell’Accademia cinese delle scienze sociali: “La Cina ha accumulato una grande quantità di dollari americani. Questa somma di dollari, di cui una quota notevole è formata da bond del Tesoro degli Stati Uniti, contribuisce in misura notevole a mantenere il dollaro nella sua posizione di moneta di riserva. La Russia, la Svizzera e molti altri paesi hanno invece ridotto le loro riserve di dollari». Con queste poche parole, la Cina si qualifica come una nuova super-potenza globale, non militare ma economico-finanziaria, di cui la super-potenza americana dovrà tenere sempre più conto.Per concludere con una notizia leggera ma pur sempre appropriata in tema di ascesa della Cina, il 2 dicembre 2007, la 23enne Zhang Zilin, Miss Cina, è stata eletta Miss Mondo.

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“Perché Keynes? Per deferenza nei confronti della sua opera? Per riconoscenza nei confronti di un keynesismo che ha plasmato l’ultimo mezzo secolo, inventando senza saperlo l’economia sociale di mercato? Per riflesso anglofilo? Forse, ma soprattutto per la convinzione che l’uomo Keynes è ancora più grande della sua opera”.Alain Minc ha dedicato un recente saggio al più noto economista inglese del secolo scorso, affascinato dalla sua personalità contraddittoria e dal rigore della sua dottrina. In Keynes, Minc vede una permanente alchimia dei contrari: l’obiettore di coscienza che segue il suo paese in guerra; il marginale che si inserisce nel cuore dell’establishment; il grande borghese elitario che diventa il prediletto delle sinistre del mondo intero; lo speculatore che diffida dei mercati; l’esteta che si consacra alle discipline più austere; l’intellettuale che si rivela uomo di stato; il consigliere che si immagina uomo d’azione. A giudizio di Minc, “vi sono molti Keynes, che tuttavia ne costituiscono uno solo. Egli era, per riprendere l’espressione che usa nei confronti di Freud, “una specie di diavolo”. Questo essere avrebbe potuto essere lacerato: la sua complessità, al contrario, dà forma alla sua unità. Keynes controlla con mano ferma i fili della sua strana personalità. Condurre una vita plurale è, in fondo, la soluzione dei pessimisti, degli scettici e degli agnostici: poiché non esiste che una vita, ed è breve, tanto vale averne di più contemporaneamente. Anche sotto questo punto di vista, Keynes è nostro maestro”.Gli anni decisivi della formazione del giovane Keynes furono quelli di Bloomsbury, una sorta di Saint-Germain-des-Près londinese ante litteram, luogo di libertà e di incontro di élites intellettuali. Il futuro economista ebbe una stretta consuetudine con Virgilia Woolf, Thoby Stephen, Clive Bell (sarebbe stata una Bloomsbury di tempi successivi ad esprimere la filiazione marxista delle grandi spie sovietiche, Blunt e Burgess). Bloomsbury fu un maggio ‘68 ante litteram, con una coscienza sociale che non deve nulla al pesante armamentario marxista.

“Il suo spirito” - nota Minc - “somiglia più ad una prefigurazione dell’”E’ vietato vietare” dei sessantottini, con un culto sfrenato dell’indivi-dualismo e della giovinezza. A differenza dal ’68, Bloomsbury esprime un’aspirazione libertaria di essenza aristocratica e non democratica. Keynes sarà sempre fedele a tale visione: il progresso dell’umanità non deriva affatto dal movimento delle masse, ma dalla ispirazione illuminata di alcuni esseri superiori”. Bloomsbury rappresenta, per Keynes, molto più del momento in cui ha vissuto con maggiore intensità le sue vite plurali; segna la formazione della sua visione delle esigenze dell’intelligenza e del sapere. “Né convinzioni a priori, né sapere dogmatico, né conoscenza specializzata, ma un’apertura più larga possibile su tutte le forme di pensiero, un gusto smodato per le andate-ritorno tra il concreto e l’astratto, una pratica permanente di frequentazioni di altri territori intellettuali”.

SE KEYNES TORNASSE OGGI, SAREBBE KEYNESIANO?KEYNES VISTO DA ALAIN MINC

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Alain Minc, tra i più noti saggisti e uomini di finanzae di impresa francesi, propone una biografia non convenzionale del più grande economista inglese del secolo scorso.Ne rivisita la vita e l’opera nel contesto dell’epoca e alla luce delle interpretazioni successive. E delle troppe appropriazioni indebite da parte dei fautori della spesa pubblica facile...

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Alain Minc accompagna il lettore nella descrizione del percorso personale e scientifico dell’economista e del contesto in cui si sono collocate le sue opere più importanti, tra le quali “Le conseguenze economiche della pace” e la “Teoria generale”, i cui assunti sono dati in questa sede per noti. La ragione che rende davvero interessante questo libro sta nella analisi delle diverse, successive letture delle teorie keynesiane, e soprattutto delle improprie schematizzazioni ed appropriazioni indebite avvenute in sede politica.Quando e come il mondo è diventato keynesiano? “Non certo per iniziativa dell’establishment britannico”, osserva Minc. The Economist temeva, nel 1951, il suo potere di attrazione nei confronti degli “antiliberali” e degli “irrespon-sabili”; il Financial Times vedeva nella Teoria generale “una scusante teorica per la stravaganza socialista” e il Guardian si compiaceva nel ricordare che il paradosso della carriera di Keynes stava nel fatto che egli era la rappresentazione dell’uomo di destra ma che un concorso di circostanze lo aveva trasferito nel campo della sinistra intellettuale in cui era stato educato. A giudizio dell’autore, “non è in Inghilterra che il mito di Keynes è emerso: attribuirgli la pater-nità del modello economico britannico lo avrebbe messo in croce, tanto quest’ultimo si è identificato, per trent’anni, nel declino. È altrove che si è realizzata una strana alchi-mia tra le Trente Glorieuses (i trent’anni di grande espansione dell’economia francese, dopo la seconda guerra mondiale, ndr), l’affermazio-ne dello Stato-provvidenza, la politica di redi-stribuzione e ciò che è stato chiamato, a torto, “keynesismo”. Maynard sarebbe stato il primo ad attribuire l’espansione del dopoguerra alla crescita della produttività e non ad una politica della domanda definita per ridurre la disoccu-pazione. Così come non è il padre dello Stato-provvidenza: lo dimostra il suo atteggiamento, inusualmente passivo, in occasione del rapporto Beveridge. Quanto alla redistribuzione e all’egualitarismo trionfanti negli anni cinquantae sessanta, sono lontani mille miglia dalle preoccupazioni espresse, a suo tempo, dall’esteta di Cambridge”.Qual è, dunque, il punto di svolta che, date le premesse, ha assicurato a Keynes un’incredibile posterità? La risposta di Alain Minc si richiama alla necessità di inventarsi un’alternativa a Marx in cui si è trovata, in Europa, la sinistra social-democratica, a fronte della pressione comunista. “Si è creata una vulgata keynesiana, a fronte

del vademecum marxista. Facendo corpo unico con la democrazia politica, rispettosa in gran parte delle regole del mercato, essa è servita da cauzione per l’interventismo pubblico, di cui i socialdemocratici restavano i fautori. Spesa pubblica faceva rima con Keynes; così politica fiscale; politica sociale altrettanto; svalutazione idem; e naturalmente, politica di bassi tassi di interesse. In tal modo l’autore della Teoria generale è diventato la cauzione intellettuale dei rilanci nei quali si è identificata la sinistra non comunista. Lui che considerava i canoni dell’ortodossia di bilancio, almeno per le spese correnti, con lo stesso rispetto di un Poincaré; lui che non ha mai predicato il lassi-smo monetario in tutte le circostanze, lui che ha sempre considerato la svalutazione come uno strumento utile ma da maneggiare con la massima cura; lui che stabiliva una sottile distinzione tra gli investimenti efficaci e lo spreco, è diventato un alibi per i politici di sinistra finanziariamente più irresponsabili”.

Negli Stati Uniti, Keynes è stato progressiva-mente assimilato al new-deal, e si è ritrovato inserito nell’eredità democratica. Una scuola keynesiana si sviluppò nella prestigiosa università di Harward, dove si venne a creare un grande movimento intellettuale. I suoi esponenti più eminenti, i Galbraith e i Samuelson, salirono al potere con Kennedy, e il keynesismo trasse a suo modo profitto dal mito JFK. “Ma se il keynesismo si fosse soltanto identificato in una scuola economica americana”-osserva Minc- “Keynes non sarebbe diventato un simbolo, una referenza ideologica: non sarebbe stato che un Milton Fredman di centro-sinistra”.Riprendiamo la domanda iniziale: se Keynes tornasse oggi, sarebbe keynesiano? Senza dubbio, secondo Minc, la fossilizzazione del suo pensiero gli sarebbe insopportabile. “Quest’uomo non ha cessato di ricercare le soluzioni, di cambiare di punti di vista, di alternare le angolazioni, di lanciare delle idee, di abbandonarle, di riprenderle, di contraddirsi, di cercare, di cercare instancabilmente. Oggi farebbe la stessa cosa: non si proporrebbe di applicare all’attuale mondo globalizzato le ricette tratte da una Teoria generale scritta per rispondere alla depressione degli anni Trenta. Sicuramente sottoporrebbe i suoi precetti alla verifica della realtà, e senza dubbio molti di essi resisterebbero all’esame”.

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Nei tempi recenti, secondo Minc, non si è visto nulla di più keynesiano della politica di bilancio di Gordon Brown o della politica monetaria di Alan Greespan, con la sua sensibilità per le ragioni della crescita; ma entrambi si sono richiamati al keynesismo sulla base di un approccio empirico e non dogmatico. Allo stesso modo i migliori esperti macroeconomici sono keynesiani senza osare proclamarsi tali, e al contrario i peggiori gestori si richiamano a Keynes, salvo comprometterlo. “Il suo credo”- conclude Alain Minc- “non era “io non cerco, io trovo” di Einstein, ma “io non cerco di avere ragione. Io spero di compiere progressi”. Meravigliosa umiltà di uno spirito per altri versi così arrogante! Ma anche coscienza acuta dei limiti di una disciplina che non è, come la fisica, una “scienza dura” e che si assimila ad uno strano miscuglio di “scienza molle”, di empirismo, di credenze, di profezie che si autorealizzano, di incertezze e di incognite. E’ perché l’economia è una realtà fluida ed eva-nescente che non esistono economisti di genio. Keynes lo sapeva certamente, egli che ha saputo inventarsi una vita suscettibile di andare al di là dei limiti ristretti di questa disciplina. Diven-tare un personaggio più grande della propria opera non è una piccola ambizione. Sapeva, il 21 aprile 1946, che vi sarebbe ammirevolmente riuscito?”

ALAIN MINC

È operativo da alcuni mesi il portale del Centro Einaudi di Torino, “Quadrante Futuro- appunti per capire il mondo”. L’obiettivo del progetto è semplice e ambizioso: consentire un clic sull’economia globale e fornire ai navigatori Internet una rotta panoramica costantemente aggiornata che passa per quattro grandi “isole” (o punti cardinali del quadrante), denominate Terra, Paesi, Settori e Congiuntura. Dall’inquinamento a Internet, dalla popolazione alla finanza, la prima “isola”, Terra, segue una serie di fenomeni naturali ed economico-sociali che toccano l’intero pianeta: spunti e stimoli per una visione d’insieme. La seconda “isola”, Paesi, rivolge uno sguardo complessivo alle realtà economiche dei principali paesi della terra: inflazione, risultati elettorali, disoccupa-zione e quant’altro può servire per una rapida sintesi. La terza, Settori, segue il commercio mondiale, che ha reso indipendenti e posto in concorrenza le principali attività economiche: consente di esplorare la realtà concreta della economia globale. La quarta “isola”, Congiuntura, affronta domande importanti. La crescita mondiale tiene? Ci sono pericoli di inflazione? Com’è la salute del dollaro e dell’euro? La Cina sta cambiando politica? Un tentativo di inquadrare questi ed altri problemi sul tappeto.Nel sito sono presentate numerose schede, in parte ricavate dai dati di organizzazioni internazionali, in parte frutto di elaborazioni originali. Le schede sono collegate tra loro da link ipertestuali, che permettono di perso-nalizzare il viaggio, quasi tavole di un grande e flessibile atlante, non solo economico, di un mondo divenuto globale. Ciascuna scheda consiste in un testo agile e breve, da cui partire per accedere immediatamente a grafici, immagini elaborazioni che illustrano un determinato argomento. Il materiale grafico è tratto da documenti e studi provenienti da ogni parte del mondo e da organismi internazionali; per il resto, si tratta di elaborazioni originali prodotte dal Centro Einaudi.

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“Molto testo, poche immagini: questa tradizio-nale impostazione dei manuali e dei giornali si è invertita, in gran parte a causa di Internet” - osserva il prof. Mario Deaglio, del Centro Einaudi. “Con poco testo (non più di un paio di videate di computer) e molte immagini (da raggiungere con un “clic” dal testo compu-terizzato) si ottiene spesso una comprensione più rapida, anche se non altrettanto profonda, di moltissimi argomenti. E proprio il “clic” del computer permette accostamenti logici immediati, anche se spesso necessariamente superficiali, che semplicemente non erano alla portata delle precedenti generazioni. Non è un caso che in tutti i bollettini di informazioni economiche lo spazio riservato ai grafici stia soppiantando quello riservato alle tabelle numeriche; e che molte discipline si stiano organizzando attraverso “portali” che consentono una visione unitaria, dalla quale partire per “esplorazioni” in ogni direzione, senza il percorso obbligato di una pagina dopo l’altra.Attraverso il sito e le sue quattro isole tematiche si potrà acquistare familiarità con i problemi di un singolo settore o paese o per una pano-ramica generale del mondo del XXI secolo, passando dalla salute al clima, dai problemi del Sud Africa alle realizzazioni della Svizzera, e magari gettare uno sguardo sull’importanza economica del gioco del calcio. “Quadrante Futuro” permette un primo passo verso nozioni più sofisticate (utile a chi deve decidere se deve studiare economia all’Università) e consente di muoversi verso la comprensione del “senso” degli avvenimenti. Si gioca su un crinale sul quale si congiungono l’evoluzione economica del mondo, le tecniche dell’apprendimento e quelle della comunicazione, tre aspetti della realtà attuale in rapidissimo movimento. Per questo intersecarsi di orizzonti rappresenta un esperimento e un’avventura culturale”.

Il sito “Quadrante Futuro” è un’iniziativa congiunta del Centro Einaudi e di Ersel.

www.quadrantefuturo.it

IL CENTRO EINAUDI LANCIA “QUADRANTE FUTURO”UN NUOVO PORTALE INTERNET, PER ORIENTARSI NEL MONDO GLOBALE

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Nell’autunno del 2006 si coglievano segnali, seppur deboli, che parevano indicare, almeno in una parte del Paese, la percezione di una piccola svolta: un ottimismo in crescita. La debole svolta ottimista del 2006 è svanita, e non se ne trovano tracce. I dati di quest’anno riportano il calendario ai giorni del 2004 e 2005, quando stava prendendo piede un pessimismo rassegnato, con poche speranze in un rapido cambio di condizioni. Il pessimismo investe sia la valutazione sulla propria posizione personale sia quella nazionale; è inoltre rafforzato dalle nubi che sembrano apparire sull’orizzonte internazionale. Agli intervistati il Paese non pareattrezzato a fare fronte a questa emergenza. Qualche speranza viene riposta nell’Europa, anche se rispetto ad essa le aspettative sono più tenui che nel passato. Analizzando nel dettaglio i dati, emerge che riguardo la situazione economica personale gli Italiani soddisfatti sono il 51%, in regresso di 3 punti percentuali rispetto ai soddisfatti dell’anno scorso e molto lontani dalla quota di soddisfatti del 2001 (65%), anche se superiori al minimo storico del 2005 (49%). Se il numero di coloro che dichiarano che il proprio tenore di vita è peggiorato (19%, dato costante) e quello di coloro che lo reputano migliorato (10%, -1 punto percentuale rispetto al 2006) sono sostanzial-mente analoghi a quelli del 2005 e del 2006, aumentano le famiglie che faticano a mantenere il proprio tenore di vita (46%, +4 punti percentuali sul 2006) a fronte di una riduzione di quelle che riescono a mantenerlo senza particolari problemi (sono il 25%, -3 punti percentuali sul 2006). Nell’arco di un anno quindi, persone che conducevano la propria vita con tranquillità si sono trovate a fronteggiare una situazione che le preoccupa. Questo segnale di preoccupazione è rafforzato anche dalla diminuzione del numero di persone che risultano ottimiste riguardo a un migliora-mento complessivo nei prossimi tre anni. Se i pessimisti l’anno scorso erano il 36% quest’anno sono il 46%, a scapito degli ottimisti che decrescono di 8 punti percentuali (sono il 34% contro il 46% del 2006). E i dati Isae sul clima di fiducia non fanno che confermare questi riscontri.

Analizzando nel dettaglio i vari parametri presi in esame, risulta che in merito al miglioramento della propria situazione personale gli ottimisti prevalgono ancora sui pessimisti (il 29% pensa che migliorerà, il 22% che peggiorerà, il 46% che rimarrà stabile, il 4% non sa), ma il saldo (delta) a favore degli ottimisti rispetto ai pessimisti decresce: era di 14 punti percentuali nel 2006, oggi è di soli 7 punti (nel 2005 era di 11 punti percentuali). Analogamente si ridimensiona il saldo a favore degli ottimisti rispetto al futuro dell’economia europea: il 31% pensa che ci sarà un miglioramento e il 24% un peggioramento, dunque il saldo è di 7 punti percentuali a favore degli ottimisti, ma nel 2006 era di 19 punti percentuali. Il 32% si attende una situazione più o meno uguale a oggi e il 13% non sa.Le aree veramente critiche sono, però, le attese sull’Italia e sull’economia internazionale.Circa la situazione internazionale c’è stato un rovesciamento rispetto allo scorso anno: se infattinel 2006 il saldo tra pessimisti e ottimisti era a favore di questi ultimi per ben 11 punti percentuali, nel 2007 il saldo è a favore dei pessimisti per 5 punti percentuali.

LEI QUANTO È SODDISFATTO DELLA SUA SITUAZIONE ECONOMICA?

GLI ITALIANI, IL RISPARMIO E L’EUROPA I RISULTATI DELLA RICERCA IPSOS 2007

Ogni anno, dal 2001, su incarico dell’ACRI, l’Ipsos svolge una ricerca sull’atteggiamento e la propensione degli italiani verso il risparmio. L’edizione 2007 ha ampliato l’area di indagine alla percezione del tema dell’Europa (“Cinquant’anni di Europa unita: regole e vantaggi per i risparmiatori”).Dalla ricerca emerge un pessimismo quasi rassegnato, alimentato anche dai timori per l’economia internazionale. Sono in aumento le famiglie che si dichiarano in difficoltà, si riduce la quota di coloro che riescono a risparmiare; il 27% delle famiglie è in saldo negativo. Un’ampia maggioranza (60%) continua a sentirsi europeista, riconosce il ruolo positivo avuto negli ultimi cinquant’anni dall’Unione Europea nello sviluppo e nella crescita economica e civile della Italia ed è favorevole ad una Costituzione europea. Il 57% ritiene, contro il 37%, che nel futuro essere nell’euro sarà un vero vantaggio.

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Questi sono il 26% degli intervistati contro il 21% di ottimisti. Il 34% pensa che la situazione in futuro rimarrà più o meno uguale, il 19% non sa. Riguardo alle prospettive per l’economia italiana i pessimisti sono il 52% degli intervistati, il 17% si attende invece un miglioramento, il 24% nessun sostanziale cambiamento, il 6% non sa. Il saldo fra ottimisti e pessimisti è a favore di questi ultimi per 35 punti percentuali (lo era anche nel 2006 per 13 punti percentuali). Rispetto al 2006 scende in modo non trascurabile il numero di coloro che riescono a risparmiare (33%, -4 punti percentuali) mentre aumenta il numero di coloro che non riescono ad accumulare risparmio (39%

RIGUARDO AL TENORE DI VITA DELLA SUA FAMIGLIA, NEGLI ULTIMI 2-3 ANNI LEI DIREBBE CHE...

SE PENSA AI PROSSIMI 3 ANNI, LEI PENSA CHE LA SUA SITUAZIONE ECONOMICA/LA SITUAZIONE ECONOMICA ITALIANA/EUROPEA/MONDIALE...

IL FUTURO DELL’ECONOMIA: INDICATORI DI OTTIMISMO/PESSIMISMO

del totale, 2 Italiani su 5) perché consumano tutto il reddito; aumenta anche il numero di coloro che sono in “saldo negativo”, ossia che devono ricorrere a prestiti o utilizzano il risparmio accumulato. Dal 2001 a oggi le famiglie in “saldo negativo” sono quasi costantemente cresciute del 2% all’anno, con la conseguenza che negli ultimi sette anni sono più che raddoppiate (dal 13% del 2001 al 27% dell’ottobre 2007: più di un quarto degli intervistati). È in calo anche la percentuale di coloro che pensano di riuscire a risparmiare di più nel corso dei prossimi dodici mesi (dal 19% del 2006 al 15% del 2007).Combinando l’andamento del risparmio nell’ultimo anno e le previsioni per quello futuro, si delineano - come in passato - sei gruppi di tendenza rispetto al risparmio:

Famiglie con trend di risparmio positivo - hanno risparmiato nell’ultimo anno e lo faranno di più o nella stessa misura anche nei prossimi dodici mesi: sono il 18%, 3 punti percentuali in meno rispetto al 2006;

IL CLIMA DI FIDUCIA DEI CONSUMATORI ITALIANIINCHIESTA MENSILE ISAE

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Famiglie con risparmio in risalita - hanno speso tutto senza fare ricorso a risparmi/debiti, ma neiprossimi dodici mesi pensano di risparmiare di più: sono il 5%, in lieve diminuzione (6% nel 2006);

Famiglie che galleggiano - hanno speso tutto senza fare ricorso a risparmi/debiti e pensano che lo stesso avverrà nel prossimo anno o hanno fatto ricorso a risparmi/debiti ma pensano di risparmiare di più nei prossimi dodici mesi: sono il 21%, 1 punto percentuale in più;

Famiglie col risparmio in discesa - sono riuscite a risparmiare, ma risparmieranno meno nei prossimi dodici mesi: sono il 13%, 1 punto percentuale in meno rispetto allo scorso anno;

Famiglie in crisi moderata di risparmio - hanno consumato tutto il reddito e nei prossimi dodici mesi pensano di risparmiare meno: sono il 15%, 2 punti percentuali in più sul 2006;

Famiglie in crisi grave - hanno fatto ricorso a risparmi accumulati e debiti (famiglie in “saldo negativo”) e pensano che la situazione del prossimo anno sarà identica o si aggraverà: raggiungono quest’anno il 23%, 4 punti percentuali in più.Dall’analisi dei gruppi si nota che il 38% delle famiglie è in una situazione di difficoltà. Le famiglie in trend positivo risultano più presenti nelle grandi città, quelle in risalita nei centri medi. Tra le famiglie con trend positivo e in risalita si nota un’importante presenza di imprenditori, dirigenti, professionisti; mentre tra le famiglie “in discesa” è più elevata la concentrazione di commercianti ed artigiani. Gli impiegati sono abbastanza presenti sia tra le famiglie con trend positivo sia in risalita, mentre è alta la concentra-zione di operai nelle famiglie “in crisi moderata”. L’effetto di questa situazione porta ad un numero sempre crescente di persone che non vivono tranquille se non mettono da parte dei risparmi: erano il 26% nel 2001, il 34% nel 2004, il 43% oggi. Si riducono sia coloro che risparmiano ma senza grandi rinunce (dal 60% del 2001 al 45% del 2007) sia coloro che preferiscono godersi la vita senza risparmiare (il 14% nel 2003, il 9% oggi). Insomma, l’incertezza e le difficoltà economiche si riverberano sull’atteggiamento riguardo il risparmio: si riduce sempre di più la quota di coloro che riescono a risparmiare, e nel contempo cresce il numero di quelli che non riescono a vivere tranquilli se non mettono da parte qualche risparmio.

I dati mostrano come la situazione di pessimismo porti ad “agognare” il risparmio, anche se spesso gli intervistati dichiarano che non rimangono loro sufficienti risorse da destinarvi. Rispetto all’impiego che se ne fa si conferma una costante

NEL CORSO DEI PROSSIMI 12 MESI LEI/LA SUA FAMIGLIA PENSA DI RIUSCIRE A RISPARMIARE DI PIÙ O DI MENO RISPETTO A QUEST’ANNO?NO?

NEGLI ULTIMI 12 MESI LEI/LA SUA FAMIGLIA È RIUSCITO/A A RISPARMIARE PARTE DEL REDDITO GUADAGNATO?

IN GENERALE, LEI INVESTE ALMENO UNA PARTE DEI SUOI RISPARMI, OPPURE LI MANTIENE LIQUIDI, SUL CONTO CORRENTE?

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E OGGI, ALLA LUCE DELL’ATTUALE SITUAZIONE ECONOMICA, IN QUALE DI QUESTI MODI È MEGLIO INVESTIRE I PROPRI RISPARMI? INVESTIRE I PROPRI RISPARMI?

RISPETTO ALLA SITUAZIONE DI OGGI, SECONDO LEI, NEI PROSSIMI 5 ANNI...

SECONDO LEI, IN ITALIA IL RISPARMIO È TUTELATO DA REGOLE, LEGGI E CONTROLLI EFFICACI? USI UNA SCALA DA 1 A 10 DOVE 1 VUOLE DIRE PER NULLA EFFICACI E 10 DEL TUTTO EFFICACI

propensione alla liquidità, che caratterizza quasi 2 Italiani su 3. Emerge una riduzione di attrattività dell’investimento nel mattone (dal 70% al 55%) a vantaggio di quelli che fra gli strumenti finanziari sono considerati i più sicuri - quali titoli di stato, certificati di deposito, obbligazioni e libretti di risparmio - preferiti dal 25% del campione rispetto al 13% del 2006.Nel compiere le loro scelte di investimento il 38% degli Italiani sembra essere attratto dalla solidità dell’investimento, intesa soprattutto come solidità di reputazione del soggetto che lo propone; mentre il 27% concentra la propria attenzione su una valutazione della rischiosità del singolo investimento. Solo il 18% dichiara di considerare come elemento principale di valutazione la redditività, e solamente il 3% compie le proprie scelte tenendo presente lo sviluppo dell’Italia.

C’è comunque una bassissima fiducia nel sistema di leggi, regole e controlli in Italia: per il 69% sono del tutto inefficaci; ancor più preoccupante è la visione prospettica: il 52% ritiene che la situa-zione andrà sempre peggio (questo dato è in aumento negli ultimi tre anni). Solo il 26% è fiducioso nel futuro (comunque in calo di 11 punti percentuali sul 2006): in particolare maggiormente fiduciose sono le persone che hanno azioni e fondi (33%) e, soprattutto, coloro che hanno fiducia nell’Unione Europea (46%). La bassa fiducia complessiva può spiegare la scarsa propensione a trasferire il Tfr dall’azienda adun fondo. Rispetto alla recente legge c’è un buon livello di informazione (il 62% dei cittadini si ritiene informato, percentuale che raggiunge il 97% tra i dipendenti del settore privato), anche se tale informazione non ha indotto atteggiamenti differenti rispetto al 2005 circa la destinazione ottimale del Tfr. Il 55% dei dipendenti privati del campione continua a ritenere che la soluzione ideale sia lasciarlo in azienda (dato pressoché analogo al 58% espresso dal totale della popolazione italiana), il 38% ritiene preferibile assegnarlo ad un fondo, la quota restante non si pronuncia.

L’EUROPEISMO E L’EURO Per quanto riguarda l’Europa un’ampia maggio-ranza continua a sentirsi europeista, anche se la crescita del pessimismo influenza la storica propensione degli Italiani verso la Ue (gli euro-peisti oggi sono il 60% contro il 67% del 2006). Coloro che dichiarano una minore fiducia nella Unione Europea sono il 29% nel 2007 contro il 26% del 2006. Uno degli elementi di maggiore disagio è l’Euro: oltre 3 Italiani su 4 se ne dichiarano insoddisfatti, dato in crescita rispetto al già elevato 71% del 2004, ed estremamente lontano dalle indicazioni preintroduzione, quando circa 2/3 degli Italiani si dichiaravano favorevoli. In particolare si registra la percezione che l’avvento dell’euro abbia più favorito l’uscita di capitali verso investimenti esteri che non il flusso contrario. Inoltre, pur se è considerato vero il fatto che oggi sia più facile e sicuro investire all’estero, gli Italiani non hanno la sensazione che la moneta unica abbia favorito il dinamismo e la competitività del “Sistema Italia”, né le assunzioni da parte delle imprese. È inoltre forte

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IN GENERALE LEI HA FIDUCIA OPPURE NO NELL’UNIONE EUROPEA?

NELL’ULTIMO ANNO LA SUA FIDUCIA NELL’UNIONE EUROPEA È...

LEI QUANTO SI RITIENE SODDISFATTO SULL’INTRODUZIONE DELL’EURO?

la sensazione che i risparmi abbiano perso valore. L’ottica cambia in maniera sostanziale quando gli Italiani pensano al futuro: ritengono che in una prospettiva molto ampia, quale quella di vent’anni, per l’Italia sarà un vero vantaggio essere nell’euro (57%) piuttosto che uno svantaggio (35%); inoltre sono positive anche le aspettative rispetto al contributo che l’Europa potrà dare alle leggi e a strumenti più efficaci nella tutela del risparmio, che risulta un problema molto sentito dagli Italiani. L’insoddisfazione riguarda perciò fondamentalmente l’oggi e la situazione attuale, che sembra presentare costi eccessivi rispetto ai vantaggi percepiti.

Il sentimento europeista pare meno in auge rispetto ad alcuni anni fa, peraltro gli Italiani riconoscono il ruolo positivo avuto dall’Unione Europea nello sviluppo e nella crescita sia economica sia civile dell’Italia. Dovendo dare un giudizio cinquant’anni dopo i trattati di Roma - ricordati dal 46% degli intervistati - il 60% degli Italiani dà un giudizio positivo, contro il 18% che ne dà un giudizio negativo e il rimanente 22% che non si pronuncia né in un senso né in un altro. Scendendo nel dettaglio, emergono elementi ambivalenti delle sensazioni degli Italiani sull’Europa. Essi ritengono che spesso i costi di “aggiustamento” richiesti dall’Unione Europea siano stati eccessivi (per il 64% dei rispondenti) rispetto ai benefici specifici che ne sono derivati, o che si ipotizzano per il futuro. Inoltre rispet-to all’allargamento pare essersi ridimensionato l’ideale di un’Europa più ampia, a causa dei problemi di coordinamento percepiti dal 60% dei rispondenti. Rispetto all’introduzione di regole europee nei diversi mercati, gli Italiani dividono il proprio giudizio: la maggior parte (il 49%) le giudica positivamente, poiché hanno consentito uno sviluppo comune ed equilibrato degli stati membri; per il 42% hanno invece limitato troppo la libertà dei singoli stati. È importante sottolineare che in genere le regole imposte dall’Unione Europea sono ritenute equilibrate o troppo blande; solo una minoranza le giudica troppo rigide.

Senza l’Europa oggi l’Italia sarebbe peggiore per il 54% degli Italiani; più o meno la stessa per il 26%; migliore solo per il 19%. Più nel dettaglio, senza l’Europa il nostro Paese sarebbe soprattutto più arretrato (68% contro il 25% di opinione contraria), meno importante sulla scena internazionale (65% contro il 25%) con meno giustizia sociale (55% contro il 29%), più povero (53% contro il 32%), meno libero (53% contro il 37%). In sostanza gli Italiani riconoscono alla Europa un ruolo positivo nella crescita del Paese:

come si è detto essi hanno aspettative più positive circa lo sviluppo della economia europea che non per quella italiana o internazionale, e si attendano un incremento degli strumenti a tutela del risparmio proprio dall’Europa. In questo contesto gli Italiani non si accontentano di una unione economica e monetaria: emerge nei più la richiesta di una costituzione europea (55% vs 36%).Che il sistema bancario sia in movimento è percepito da quasi 7 Italiani su 10: per i più (40%) la spinta a questi cambiamenti è dovuta alla concorrenza estera, facilitata dall’introduzione dell’Euro; per il 31% alle istituzioni italiane (18%) o europee (13%); per il 22% all’autonoma iniziativa delle banche. Buona parte del campione

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SECONDO LEI CON L’INTRODUZIONE DELL’EURO,I NOSTRI RISPARMI HANNO...

INTRODUZIONE DELL’EUROLe leggerò ora una serie di conseguenze legate all’introduzione dell’Euro sulla vita di tutti. Mi dica quanto è d’accordo con ciascuna affermazione su una scala da 1 a 10, dove 1 significa per niente d’accordo e 10 significa completamente d’accordo

SECONDO LEI NEL PROSSIMO FUTURO L’EUROPA CONTRIBUIRÀ IN MANIERA POSITIVA O NEGATIVA RISPETTO ALLA TUTELA DEL RISPARMIO, ED ALLE REGOLE, LEGGI E CONTROLLI CHE LA DETERMINANO?

(74%) sa che negli ultimi anni molte banche europee hanno ampliato le proprie attività in Italia e che di converso le banche italiane sono diventate soggetti attivi all’estero. Questo quadro trova gli Italiani favorevoli: per il 61% aumenta le opportunità, mentre solo per il 28% induce un aumento dei rischi; i maggiormente informati risultano ancora più favorevoli a tale apertura (73%). Si pensa che le banche straniere siano interessate all’Italia perché il nostro mercato è arretrato, e secondariamente perché è forte la propensione al risparmio. Per i più (47%) le banche estere opereranno come le banche italiane, raccogliendo denaro e finanziando im-prese e cittadini; solo il 31% percepisce il rischio di un “drenaggio” di risparmi da dirottare su investimenti esteri, mentre l’8% ritiene che la presenza delle banche estere consentirà di incrementare i finanziamenti agli Italiani.

La debole svolta ottimista registrata nel 2006 è svanita e aleggia un pessimismo quasi rassegnato, alimentato anche da timori per l’andamento della economia internazionale. Alla maggioranza degli intervistati il Paese non pare attrezzato per far fronte a questa emergenza; mentre qualche speranza rimane riguardo all’Europa, pur se rispetto ad essa le aspettative sono meno elevate che nel passato. Sono in aumento le famiglie che si dichiarano in difficoltà: in un anno diversepersone che conducevano tranquillamente la propria vita si sono trovate a fronteggiare una situazione che, se non è proprio crisi, le preoccupa. L’incertezza e le difficoltà economiche si river-berano sull’atteggiamento riguardo il risparmio: si riduce sempre di più la quota di coloro che riescono a risparmiare (sono il 33%, -4 punti percentuali) e nel contempo cresce il numero di quelli che non riescono a vivere tranquilli se non mettono da parte qualche cosa (sono il 43%, erano il 26% nel 2001). Inoltre dal 2001 a oggi sono cresciute del 2% all’anno le famiglie in “saldo negativo”, ossia coloro che ricorrono a prestiti o ai risparmi accumulati, con la conse-guenza che nei sette anni intercorsi sono più che raddoppiate fino a raggiungere quota 27%. Si conferma una costante propensione alla liquidità, che caratterizza quasi 2 Italiani su 3: questa propensione è legata alla bassa fiducia attuale e prospettica di molti Italiani circa le leggi e i regolamenti in materia di tuteladel risparmio. Quest’anno si registra inoltre una riduzione di attrattività dell’investimento nel mattone (quelli che lo preferiscono sono scesi in dodici mesi dal 70% al 55%) a vantaggio di quelli che fra gli strumenti finanziari sono considerati i più sicuri, quali i titoli di stato, i certificati

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Si sono da poco celebrati i 50 anni dei trattati di Roma, che hanno visto l’inizio del processo di integrazione europea. Lo sapeva?

SECONDO LEI, SE NON CI FOSSE STATO QUESTO PERCORSO DI 50 ANNI DI INTEGRAZIONE EUROPEA, L’ITALIA OGGI SAREBBE…

di deposito, le obbligazioni e i libretti di risparmio. Questa situazione potrebbe essere il combinato dell’aumento dei costi delle case, dei crescenti tassi di interesse e, in modo indiretto, della “crisi” dei mutui americani, con l’implicita paura, in alcuni, di sgonfiamento della “bolla immobiliare”. Per quanto riguarda l’Europa un’ampia maggio-ranza continua a sentirsieuropeista, anche se la crescita del pessimismo influenza la storica propensione degli Italiani verso la Ue (gli euro-peisti oggi sono il 60% contro il 67% del 2006). Gli Italiani riconoscono il ruolo positivo avuto negli ultimi cinquant’anni dall’Unione Europea nello sviluppo e nella crescita sia economica sia civile dell’Italia, e sono favorevoli ad una Costituzione Europea. Emergono però valutazioni contrastanti: da un lato essi ritengono che oggi senza l’Europa l’Italia sarebbe peggiore, più arretrata, meno importante, con meno giustizia sociale, più povera, meno libera, in sintesi un posto peggiore dove vivere, dall’altro a molti rimane la sensazione che i costi di aggiustamento

siano eccessivi, gli allargamenti non ben ponderati, e che l’euro sia ancora oggi più un peso che un volano per l’economia personale e nazionale. Peraltro, proiettando in avanti lo sguardo, la loro opinione è decisamente positiva: la percentuale di coloro che ritengono che nel futuro sarà un vero vantaggio essere nell’euro supera molto largamente la percentuale di quelli che ipotizzano ne possa invece derivare uno svantaggio (il 57% contro il 35%).

SINTESILa debole svolta ottimista registrata nel 2006 è svanita e aleggia un pessimismo quasi rassegnato, alimentato anche da timori per l’andamento della economia internazionale. Alla maggioranza degli intervistati il Paese non pare attrezzato per far fronte a questa emergenza; mentre qualche speranza rimane riguardo all’Europa, pur se rispetto ad essa le aspettative sono meno elevate che nel passato. Sono in aumento le famiglie che si dichiarano in difficoltà: in un anno diverse persone

In alcuni casi, come ai tempi dei trattati di Maastricht e recentemente riguardo il disavanzo pubblico, le scelte economiche che ha imposto l’Europa hanno determinato importanti costi per l’Italia e per gli Italiani .A suo avviso ritiene che questi costi siano stati.

In tutti questi anni l’Europa ha definito regole riguardo la gestione di molti aspetti dell’economia, dall’agricoltura, all’energia, alla produzione industriale, alle finanza pubbliche.Nel complesso giudica queste regole..

Lei ritiene che ad oggi l’Europa dovrebbe avere una costituzione comune e condivisa, oppure che sia già più che sufficiente l’unione economica e monetaria?

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SECONDO LEI, QUAL È STATA LA SPINTA PRINCIPALE CHE HA CONDOTTO IL SISTEMA A CAMBIARE?

(se conoscono) Secondo Lei l’ingresso in Italia di banche europee, per il cittadino…

NEGLI ULTIMI 5 ANNI, LEI DIREBBE CHE IL SISTEMA BANCARIO ITALIANO:

Negli ultimi tempi si è assistito all’ingresso di banche europee in italia, e banche italiane che operano in altri paesi d’europa. Ha sentito parlare di questa evoluzione?

che conducevano tranquillamente la propria vita si sono trovate a fronteggiare una situazione che, se non è proprio crisi, le preoccupa. L’incertezzae le difficoltà economiche si riverberano sull’atteggiamento riguardo il risparmio: si riduce sempre di più la quota di coloro che riescono a risparmiare (sono il 33%, -4 punti percentuali) e nel contempo cresce il numero di quelli che nonriescono a vivere tranquilli se non mettono da parte qualche cosa (sono il 43%, erano il 26% nel 2001). Inoltre dal 2001 a oggi sono cresciute del 2% all’anno le famiglie in “saldo negativo”, ossia coloro che ricorrono a prestiti o ai risparmi accumulati, con la conseguenza che nei sette anni intercorsi sono più che raddoppiate fino a raggiungere quota 27%. Si conferma una costante propensione alla liquidità, che caratterizza quasi2 Italiani su 3: questa propensione è legata alla bassa fiducia attuale e prospettica di molti Italiani circa le leggi e i regolamenti in materia di tuteladel risparmio. Quest’anno si registra inoltre una riduzione di attrattività dell’investimento nel mattone (quelli che lo preferiscono sono scesi in dodici mesi dal 70% al 55%) a vantaggio di quelli che fra gli strumenti finanziari sono considerati i più sicuri, quali i titoli di stato, i certificati di deposito, le obbligazioni e i libretti di risparmio. Questa situazione potrebbe essere il combinato

dell’aumento dei costi delle case, dei crescenti tassi di interesse e, in modo indiretto, della “crisi” dei mutui americani, con l’implicita paura, in alcuni, di sgonfiamento della “bolla immobiliare”.Per quanto riguarda l’Europa un’ampia maggioranza continua a sentirsi europeista, anche se la crescita del pessimismo influenza la storica propensione degli Italiani verso la Ue (gli europeisti oggi sono il 60% contro il 67% del 2006). Gli Italiani riconoscono il ruolo positivo avuto negli ultimi cinquant’anni dall’Unione Europea nello sviluppo e nella crescita sia economica sia civile dell’Italia, e sono favorevoli ad una Costituzione Europea.Emergono però valutazioni contrastanti: da un lato essi ritengono che oggi senza l’Europa l’Italia sarebbe peggiore, più arretrata, meno importante, con meno giustizia sociale, più povera, meno libera, in sintesi un posto peggioredove vivere, dall’altro a molti rimane la sensazione che i costi di aggiustamento siano eccessivi, gli allargamenti non ben ponderati, e che l’euro sia ancora oggi più un peso che un volano per l’economia personale e nazionale. Peraltro, proiettando in avanti lo sguardo, la loro opinione è decisamente positiva: la percentuale di coloro che ritengono che nel futuro sarà un vero vantaggio essere nell’euro supera molto largamente la percentuale di quelli che ipotizzano ne possa invece derivare uno svantaggio (il 57% contro il 35%).

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Il tempio del collezionismo privato milanese, creato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli, modello esemplare per le case-museo dei più importanti collezionisti europei e statunitensi a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento, ospita nelle proprie sale per la prima volta una raccolta creata da un appassionato imprenditore negli ultimi quarant’anni del XX secolo. “L’arte del collezionare” inaugura quindi un percorso che il Museo intende proseguire anche negli anni futuri, alternando accanto alla propria attività di ricerca ed esposizione intorno ad opere delle proprie collezioni, un altro filone di indagine.Affine all’identità del Museo, il tema del colle-zionismo è stato dal Poldi Pezzoli declinato negli ultimi anni in modi diversi: le rassegne dedicate alle opere del Museo Jacquemart-André di Parigi nel 2002-2003, dei Principi del Liechtenstein nel 2006 (entrambe di grande successo, realizzate grazie al contributo di Banca Regionale Europea), della famiglia dei Principi Borromeo Arese nel 2006-2007 hanno raccontato vicende collezioni-stiche “storicizzate” che, nel corso dei numerosi passaggi generazionali, si sono arricchite o andate perdute e poi successivamente ricomposte, anche attraverso la loro musealizzazione ed esposizione al pubblico. Sempre nel 2007, l’esposizione nella Sala del collezionista di un gruppo dei dipinti ottocenteschi scelti da Gian Giacomo Poldi Pezzoli ha indagato invece il rapporto tra il nobile milanese e la pittura contemporanea, in particolare i suoi rapporti con l’amatissima Accademia di Brera. Il percorso nel collezionismo contemporaneo di opere antiche è apparso per un verso più arduo; ma alla fine i criteri di scelta individuati dalla Direzione artistica e dal Consiglio della Fondazione sono lo specchio delle scelte operate da Gian Giacomo Poldi Pezzoli, che ne vengono così riflettute ed esaltate. La passione per l’arte eper la bellezza, la ricerca della qualità e della rappresentazione dell’eccellenza dei grandi artisti e delle manifatture del passato e l’impegno etico e civile verso il patrimonio artistico collettivo sono gli elementi che hanno ispirato le scelte di Poldi Pezzoli e che oggi guidano questo nuovo corso espositivo della casa-museo. Un progetto che si traduce nell’esposizione di raccolte rivelatrici di un modello “virtuoso” di collezionismo, realizzate da coloro che accanto alla qualità delle opere hanno scelto l’impegno e il sostegno verso i beni culturali, la loro conservazione e la loro valorizzazione.

L’ARTE DEL COLLEZIONARE: LA RACCOLTA MARIO SCAGLIA AL POLDI PEZZOLI

È in corso a Milano, presso il Museo Poldi Pezzoli, nell’ambito del ciclo “L’arte del collezionare”, la mostra “La raccolta di Mario Scaglia. Dipinti e sculture, medaglie e placchette da Pisanello a Ceruti”. La mostra è organizzata con il sostegno della Banca Regionale Europea.

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Il primo e quindi sicuramente il più “coraggioso” è stato Mario Scaglia che con grande generosità e determinazione ha scelto di “esporre un pezzo della propria anima” al giudizio del pubblico, nelle sale del Museo Poldi Pezzoli. Tra le varie ragioni che questo tenace imprenditore bergamasco sottolinea essere state alla base della sua decisione, molto forte continua ad essere il desiderio di creare nei giovani amore e passione per le opere d’arte antica, anche quelle meno note e quindi meno costose, che “tutti” si possono permettere. Così è stato per lui, che ha iniziato in modo sommesso, intrapren-dendo un cammino ricco di soddisfazioni guidate da una conoscenza materiale profonda delle opere e da una biblioteca vastissima e sempre aggiornata. I primi contatti con le opere d’arte non sono avvenuti tra le mura domestiche, per tradizione familiare. Una certa attitudine per la pittura se l’era scoperta da piccolo, sotto la guida di una maestra di disegno. Ma l’amore per la bellezza lo aveva spinto verso ben altri talenti, che si erano espressi nel passato…

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Giovanni BattistaMoroni,(Albino, Bergamo-circa 1520- Bergamo 1579)Ritratto di prelato1557

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La passione vera era nata inizialmente grazie all’incontro con il padre di un compagno di scuola, che era restauratore, aveva il suo atélier in via Nirone e diventò la prima persona di riferimento, quella con la quale andare alle mostre e cominciare a imparare a osservare un’opera e la sua matericità.Fondamentali compagni di questo suo percorso sono stati e continuano ad essere i restauratori e i musei di tutto il mondo. La sua frequentazione dei musei è sempre stata aggiornatissima, grazie anche alla sua attività imprenditoriale, che lo porta ovunque nel mondo. La sua collezione non è rimasta immutata nel tempo. Rari sono infatti gli oggetti acquistati nei primi anni Sessanta ancora oggi presenti nella sua raccolta: un Gaspare Diziani acquistato nel 1963 e pochi altri. Con il crescere della collezione cresceva infatti parallelamente la sua conoscenza e apprezzamento delle opere che, a un certo punto, non gli “corrispondevano” più e venivano quindi vendute e sostituite. Il nostro collezionista-imprenditore ha sempre dichiarato di non aver mai speso cifre enormi per i suoi acquisti di opere d’arte. Questo è accaduto solo in rarissimi casi, quando un oggetto davvero importante poteva rappresentare una “vetta di qualità” all’interno delle sue raccolte, come per una placchetta del Riccio, per il cui possesso Mario Scaglia ha combattuto con i più grandi collezionisti e i maggiori musei europei. L’opera più a lungo desiderata è stata senz’altro il Ritratto di prelato di Giovanni Battista Moroni (fig.1), inseguita per quindici anni e giunta finalmente, soltanto di recente, nella collezione con sua grandissima soddisfazione.

LA FAMIGLIALa famiglia di Mario Scaglia ha origini bergamasche e si era stabilita a Brembilla alla fine del Settecento. Nel 1881 Martino Scaglia, trasferitosi a Milano, fondava una fabbrica di anime di bottoni, rocchetti, spole e pulegge, utensili impiegati soprattutto nel settore manifatturiero, in grande espansione in quel periodo a Milano e in Lombardia. In quello stesso anno a Milano veniva organizzata una grande Esposizione industriale che vide la presenza di ben 750.000 visitatori; il 25 aprile 1881, in coincidenza con l’Esposizione industriale, il Museo Poldi Pezzoli apriva le porte del suo palazzo al pubblico godimento… L’impegno della famiglia Scaglia nell’amministrazione pubblica è proceduto di pari passo con la propria attività imprenditoriale e ne rivela l’alto senso civico. Anche Mario Scaglia l’ha manifestato, sia rivestendo la carica di Sindaco di Brembilla sia impegnandosi a favore dell’arric-chimento e della valorizzazione del patrimonio artistico bergamasco, in qualità di Presidente della Accademia Carrara dal 1982 al 1993 e di Presidente dell’Associazione per la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea (GAMEC) di Bergamo dal 1999. Attento e generoso interprete della missione di queste istituzioni, ha sempre cercato di incre-mentarne le collezioni permanenti, oltre che di sviluppare una politica di promozione degli istituti, nello spirito di servizio civico e civile, di appartenenza e identificazione istituzionale e non solo di gratificazione personale.

IL GUSTO COLLEZIONISTICOLa raccolta di Mario Scaglia si è costituita nel corso degli ultimi quattro decenni, attraverso acquisizioni sempre guidate dal criterio della qualità e dagli stimoli di una vivacissima curiosità (che egli definisce “da dilettante”, ovvero guidata dal piacere,dal diletto appunto), e costituisce un episodio singolare nel contesto dell’attuale collezionismo di arte antica in Italia. Numerose sono le ragioni di questa originalità: la grande varietà di generi, di tipologie e perfino di materiali della raccolta, caratterizzata da scelte “di nicchia”, sofisticate e mai convenzionali, che rispecchiano fedelmente i profondi interessi e l’acuta competenza del suo proprietario. Accanto infatti ad un’esemplare rassegna di dipinti di “antichi maestri”, all’interno della quale spiccano alcuni capolavori degli

esponenti del naturalismo lombardo, da Moroni a Ceruti, Mario Scaglia si è infatti dedicato, nel corso della sua avventura di collezionista, anche a campi della produzione artistica decisamente meno ricercati dal mercato antiqua-riale, specialmente italiano, raccogliendo nel tempo, ad esempio, un prestigioso nucleo di medaglie rinascimentali

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sempre guidate dalstimoli di una vivacdefinisce “da dilettadal diletto appuntosingolare nel contedi arte antica in Itadi questa originalitdi tipologie e perfincaratterizzata da sce mai convenzionali profondi interessiproprietario. Accanrassegna di dipinti della quale spiccan

In alto a sinistra: Evaristo Baschenis,(Bergamo, 1617-1677) Natura morta con strumenti musicali, cassetta, mappamondo e mela1650-1660 circa

In basso a sinistra:Giovan Angeloe Tiburzio Del Maino(documentati a Pavia dal 1496 al 1536)Adorazione dei Magi1520-1525 circa

A fianco:Scuola romanadel XVII secoloSacra famiglia1650 circa

Sotto: Moderno (Galeazzo Mondella)(Verona, 1467-Roma, 1528)Ercole e il leone nemeo1490-1495

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Su una lastra di marmo bianco campeggia una splendida epigrafe (“IUSTITIA ECCLESIAM SERVAVI,/ ET INIMICOS PACAVI/ M. D. LVII.”) che sembra voler indicare, anche se non del tutto chiaramente, che il personaggio avesse custodito e preservato nella giustizia la Chiesa intesa come istituzione, e pacificato i suoi nemici .Il tipo di berretta in panno nero, detta anche “berretta clericale” o “berretta quadra”, nel Cinquecento era caratteristica degli ecclesiastici, anche se alcune categorie di laici, in particolare i dottori in legge e in medicina e i rettori universi-tari, avevano a quanto pare il diritto di indossarla. L’opera è datata 1557, e probabilmente è stata realizzata per il convento di Sant’Anna di Albino. Federico Zeri, che nel 1976 la pubblicò per la prima volta, sottolinea come questa immagine di anziano uomo di chiesa rappresenti emblematicamente “l’intima preoccupazione di prelati, responsabili di un grado gerarchico sentito come missione…;…un clero gravato di un nuovo senso di responsabilità…”. In effetti si tratta di uno dei capolavori della ritrattistica moroniana, per l’accurata descrizione dei dettagli, come le rughe, le pieghe della pelle e i peli della barba, e per l’intensità dell’indagine psicologica condotta dall’artista sul volto del

e barocche (da Pisanello e Matteo de’ Pasti, fino al milanese Vismara) e componendo, soprattutto, una delle più significative raccolte di placchette rinascimentali, in bronzo e in argento, oggi conservata in mani private. Il suo percorso di collezionista di queste opere è piuttosto curioso: la lunga frequentazione della bottega dell’antiquario Franco Steffanoni a Bergamo, mentre cercava medaglie, lo aveva avvicinato al mondo delle placchette, di cui Steffanoni era abile collezionista. La conoscenza di queste opere lo fece innamorare e, alla morte dell’antiquario, Mario Scaglia offrì alla sua famiglia di acquistare l’intera collezione, ben seicento pezzi , che ha nel tempo continuato ad arricchire con altri importanti esemplari, giungendo ora a possedere circa un migliaio di opere. È un vero piacere ascoltarlo mentre egli motiva il suo amore per questo genere di opere: “le placchette non danno mai assue-fazione, le riscopri ogni volta, anche toccandole; ti consentono una visione ravvicinata, raccolta e necessariamente solitaria; anche se si tratta di oggetti risultanti da un’operazione di duplicazione, essi ti consegnano sempre il grande artista, non la replica di bottega”. Da sottolineare infine che è intenzione di questo generoso collezionista di donare il nucleo più prestigioso di questa sua raccolta, la più amata, ad un Museo, in tempi e con modalità che per ora egli desidera non anticipare. A queste importanti testimonianze dell’arte del metallo si affiancano nella sua raccolta i numerosi ritratti di piccolo formato, per lo più su rame o su tavola, e il gruppo di rari paesaggi di primo Seicento, che arricchiscono il versante pittorico della collezione, a conferma del carattere eclettico e quasi imprevedibile della raccolta dell’impren-ditore milanese, all’interno della quale risulta comunque possibile individuare dei caratteri unificanti. La sua volontà appare dunque quella di seguire dei filoni ben precisi della produzione artistica accompagnata da un lato dalla predilezione per il manufatto insolito e prezioso, di squisita fattura, dall’altro dall’attenzione per l’arte lombarda, e in particolare, per quella esplicitamente legata alla sua tradizione naturalistica.

LE OPERENella raccolta di dipinti presentati al Poldi Pezzoli, tutti di altissima qualità, meritano una segnalazione particolare quattro di essi. Il suntuoso, severo Ritratto di prelato di Giovan Battista Moroni (Albino, Bergamo, circa 1520 - Bergamo, 1579) e le due nature morte di Baschenis sono senz’altro rappresentative dell’altissima qualità della raccolta. Nel dipinto di Moroni (fig.1) il personaggio, raffigurato a mezzo busto di profilo, sullo sfondo di una parete grigia animata dal riflettersi della luce, dimostra circa una settantina d’anni; indossa una sopravveste nera da cui affiora il colletto increspato della camicia e ha il capo coperto da una berretta di panno nero a quattro angoli.

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Dall’alto: Antonio di Puccio Pisano, detto Pisanello (Pisa?, circa 1385- Roma 1455)Medaglia con il ritratto di Giovanni VIII Paleologo (1392-1448), imperatore di Bisanzio 1438-1439 circa

Matteo di Maestro Andrea de’ Pasti(Verona, attivo dal 1441 al 1467/1468)Medaglia con il ritratto di Isotta degli Atti da Rimini1449-1450

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misterioso prelato raffigurato. La splendida epigrafe, incisa sul marmo con elegantissime lettere capitali romane, conferisce al dipinto ulteriore fascino e ben si accosta alle analoghe iscrizioni contenute nelle medaglie e placchette collezionate da Mario Scaglia. Il San Gerolamo penitente (fig. 6) di Andrea Previtali (Brembate Sopra, Bergamo, circa 1470/ 1480 - Bergamo, 1528), eseguito intorno al 1517, in atto di percuotersi il petto dinnanzi al Crocefisso, è rappresentato in una landa solitaria, sul ciglio di una strada sassosa con un arco di rocce che la separa da un centro abitato. L’artista ha soppresso ogni aspetto aneddotico e ha immerso il santo nella natura, priva di animali (tranne il simbolico leone), con la sola altra presenza del Cristo crocefisso innalzato su una croce esile e altissima da cui germogliano nuovi ramoscelli. Così Previtali dà immediatezza visiva al concetto simbolico della forza rigeneratrice del sacrificio di Cristo e della morte che dona la vita. Come osserva Emanuela Daffra, “l’esecuzione minuziosa dell’opera, condotta

per via di puro colore, che alterna stesure sottilis-sime ad altre più corpose, invita a una osservazione attenta e ravvicinata, che permette di apprezzare l’importanza che l’artista attribuisce alla luce intesa come restituzione della profondità spaziale”. Esemplarmente rappresentato nella raccolta Scaglia è Evaristo Baschenis (Bergamo, 1617-1677), il più famoso tra i “pittori della realtà” in Lombardia. Nella Natura morta con strumenti musicali, cassetta, mappamondo e mela (1650-1660) (fig.2), l’attento studio prospettico degli elementi si accompagna a una razionale organizzazione della composizione: il liuto e l’archetto in primo piano, la mandola, il violoncello, la cassetta e il mappamondo misurano lo spazio come corpi geometrici e si dispongono a ventaglio secondo un ordine armonioso. L’armonia degli accordi cromatici sui toni delle terre si avvale di un sapiente gioco luministico, di chiara ascendenza caravaggesca, basato sugli effetti di luci e ombre provocati dal fascio di luce intensa che filtra in un ambiente volutamente oscurato.

A sinistra: Giuseppe Vismara(Milano, 1633-1703)Medaglia con il ritratto di Cesare Paganipost 1686

Sopra: Andrea Previtali (Brembate Sopra, Bergamo, circa 1470/1480-Bergamo 1528)San Gerolamo penitente1517 circa

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Le nature morte a soggetto musicale di Evaristo Baschenis sono basate “sulla regolata organizzazione compositiva di invenzioni iconografiche, in cui la rigorosa rappresentazione tridimensionale degli strumenti diventa un esercizio di esibito virtuosismo”. L’artista si dimostra sempre profondo conoscitore delle essenze lignee, evocate con la sua tavolozza tutta accordata sugli ocra, e restituisce nelle sue tele questa esperienza artigianale con l’abilità di un intarsiatore, di un liutaio, di un ebanista. Il Ragazzo con canestra di pane e dolciumi (fig.9), realizzato dall’artista negli stessi anni, emerge dalla penombra della parete di fondo con un profilo nitido e luminoso che, guardando negli occhi lo spettatore, sostiene saldamente con le due mani una cesta di vimini colma di pane e di dolciumi. Il taglio a mezzo busto del ritratto guida indiretta-mente a concentrare lo sguardo sulla canestra, di chiara derivazione caravaggesca. Questo “doppio ritratto”, che va considerato tale per la dignità restituita dal pittore al brano di natura morta, è un capolavoro di equilibrio compositivo e cromatico. La luce, grande protagonista del dipinto, entra dall’alto a sinistra ed investe il volto e l’abito del ragazzo con un fascio intenso e radente. La grande naturalezza con la quale il pittore restituisce la scena, che si svolge con la semplicità e la verità di un brano di vita quotidiana, è solo apparente, come si osserva ad esempio nel sapiente evidenziare con velature e piccoli tocchi di colore bianco i residui di zucchero e di farina sui dolciumi e sul pane, nel “sistemare” nella canestra il maggior numero di prelibatezze.

La prestigiosa raccolta delle placchette accoglie i nomi di numerosi artisti di grande importanza (Il Moderno - forse Galeazzo Mondella - e Andrea Briosco detto il Riccio) che si sono cimentati in quest’arte: perché in effetti le placchette, nate intorno al 1440 per il desiderio di riprodurre intagli e rilievi delle gemme antiche, erano una presenza irrinunciabile nelle raccolte principesche. Realizzate in metallo - quasi sempre in bronzo, in certi casi dorato - costituivano un repertorio iconografico per artisti, artigiani ed eruditi; servivano inoltre come immagine sacra portatile per il devoto. Usate anche per decorare cofanetti, impugnature di spade o golette di preziose armature, insieme alle medaglie le placchette vennero apprezzate a pieno titolo come opere d’arte e riscoperte dai collezionisti a partire dal primo Ottocento. Infatti il termine placchetta, dal francese plaquette, fu coniato in Francia nel 1878. Del Moderno (Verona, 1476 - Roma, 1528) la splendida Continenza di Scipione (fig.8), eseguita tra il 1500-

1503, la cui iconografia è stata solo recentemente individuata dallo studioso Francesco Rossi. Il tema era assai popolare in ambiente umanistico, ma il fatto che la placchetta sia stata frequentemente utilizzata come pomo di spada (e da questa finalizzazione deriva il profilo singolare e anomalo) fa ritenere che esso sia stato scelto come exemplum delle Virtù (Forza e Clemenza) tipiche del condottiero. Non a caso essa era in pendant con una placchetta di forma analoga raffigurante una Vittoria, rappresentata insieme a un leone di San Marco: probabilmente la committenza di entrambe le placchette era veneziana. Venere castiga Amore (fig.7) del Riccio (Trento, circa 1470 – Padova, 1532), realizzata tra il 1520-1525, è la rappresentazione di un soggetto tipicamente idillico e assai frequente nella cultura ellenistica, che venne ripreso nel Rinascimento italiano con un’intonazione vagamente simbolica ed etica, come versione scherzosa del motivo della Virtù che fustiga il Vizio, di cui la placchetta riprende esattamente lo schema compositivo. In questo senso la piccola opera del Riccio si inquadra perfettamente nell’ambito della sua produzione bronzistica, che spesso era dedicata a una interpretazione in chiave “moderna”, talvolta forzata e un po’ grottesca, dei temi classici.

Le medaglie invece erano ispirate alle monete antiche ma, a differenza di esse, non avevano valore di scambio, ma un fine commemorativo e celebravano personaggi illustri (regnanti e cortigiani, condottieri e uomini di stato, eruditi e artisti). Erano spesso utilizzate come doni diplomatici tra le corti italiane ed europee e rappresentavano un eccellente strumento per diffondere la propria immagine; oppure ricordavano un evento, un luogo particolari. Quest’ultimo è il caso del Ritratto di Giovanni VIII Paleologo (fig.4), realizzato da Pisanello (Pisa?, circa 1385 - Roma, 1455) tra il 1438-1439, e considerato la prima medaglia del Rinascimento. Si tratta infatti di un’eccezionale opera comme- morativa del Concilio organizzato per favorire la riunificazione delle due chiese - la greca e la latina - convocato da papa Eugenio IV alla fine del 1437 a Ferrara. L’imperatore giunse in città nel marzo 1438, soggiornandovi per tutto il resto dell’anno, ma spesso tenendosi lontano dalle sedute ufficiali del Concilio

A destra: Andrea Briosco, detto il Riccio(Trento, circa 1470-Padova, 1532)Venere castiga Amore1520-1525

Sotto: Moderno (Galeazzo Mondella)(Verona, 1467-Roma, 1528)Continenza di Scipione1500-1503

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per dedicarsi alla caccia, sua passione prediletta. Nei primi giorni del 1439 il papa, a causa del pericoloso diffondersi d’una epidemia di peste, decretò il trasferimento a Firenze del Concilio, che si concluse con la ratifica dell’Unione e la successi-va partenza dell’imperatore per Costantinopoli nell’ agosto 1439. Per la data di esecuzione dell’opera elemento importante è il cavallo dalle marcate caratteristiche orientali che compare sul rovescio, che l’imperatore acquistò dai rappresentati della delegazione russa, giunta a Ferrara solo alla fine dell’agosto 1438. Tra gli altri esemplari presentati nella mostra spicca una delle medaglie-ritratto più affascinanti di tutto il Quattrocento, il capolavoro di Matteo de’ Pasti (Verona, attivo dal 1441 al 1467/1468), che raffigura la gentildonna Isotta degli Atti (fig.5), figlia di un mercante riminese, che suscitò l’irrefrenabile passione amorosa di Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore della città. Il 1446, data che compare sulla medaglia, fu un anno memorabile per Sigismondo, durante il quale consolidò definitivamente il proprio potere politico, pose la prima pietra del suo nuovo castello e conquistò Isotta come amante.

Evaristo Baschenis,(Bergamo, 1617-1677) Ragazzo con canestra di pane e dolciumi1650-1660 circa

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In realtà le medaglie con il ritratto di Isotta sono state effettivamente realizzate soltanto dopo il 1 giugno del 1449, data di morte della seconda moglie del Malatesta, Polissena Sforza. Anche se non si sa con precisione quando Sigismondo sposò Isotta, risulta che nella prima metà degli anni cinquanta il signore di Rimini volle rendere manifesta la propria relazione sentimentale attraverso un’attenta strategia celebrativa della bellezza e delle virtù della sua nuova sposa, di cui le medaglie costituiscono una parte importantissima. Alla straordinaria sensibilità e delicatezza del ritratto sul diritto, non disgiunte però da un senso di fermezza e di aristocratico distacco, fa riscontro il monumentale elefante sul rovescio: un emblema malatestiano per eccellenza, considerato un simbolo della forza regale e della fama che conferisce l’immortalità. Un cenno infine su un’importante altorilievo ligneo in legno di pero presente nella raccolta dell’imprenditore bergamasco: si tratta della Adorazione dei Magi (fig.3) di Giovan Angelo e Tiburzio Del Maino (documentati a Pavia

dal 1496 al 1536), la cui esecuzione può essere situata tra il 1520 e il 1525. Probabilmente appartenente in origine a una tavola dipinta da altare, costituisce un esempio di rilevante qualità e importanza dell’adesione dei fratelli Del Maino al linguaggio figurativo del celebre scultore lombardo Agostino Busti detto il Bambaia (1483-1548). Alcuni studi ipotizzano che la realizzazione della opera possa essere stata suddivisa tra i due fratelli. La parte destra, con le figure dinamiche dei cavalli e dei cavalieri, sarebbe stata eseguita da Giovan Angelo, mentre il gruppo sacro, carat-terizzato da pose più compassate e da panneggi regolari, dal fratello Tiburzio. Le diversità fra le varie parti del rilievo, come ipotizza Andrea Di Lorenzo, sono probabilmente dovute alle differenti sculture in marmo di Bambaia utilizzate come modello e non alle preferenze stilistiche dei due intagliatori. L’Adorazione dei magi presenta molteplici affinità con lo Sposalizio della Vergine, rilievo in legno policromo realizzato dagli stessi autori e conservato al Poldi Pezzoli, donato dalla Associazione Amici del Museo Poldi Pezzoli nel 1963. Numerosi, infatti, i punti di contatto tra le due opere: la fattura dei panneggi, le fisionomie dei personaggi nonché il dinamismo delle posture.La mostra che il Poldi Pezzoli dedica alla raccolta Scaglia fino al 30 marzo 2008, selezionata e curata da Andrea Di Lorenzo e Francesco Frangi e realizzata grazie all’indispensabile e fedele sostegno di Banca Regionale Europea, alla quale si è affiancato l’Assessorato alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia, vuole esemplificare una storia virtuosa di passione e insieme di generoso impegno per la valorizza-zione del nostro patrimonio artistico, il cui modello irraggiungibile è stato rappresentato da Gian Giacomo Poldi Pezzoli.

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In alto a sinistra:Pittore lombardo(attivo nel secondo-terzo decennio del Seicento) Ritratto di gentiluo-mo con cappello1620 circa

A sinistra:Evaristo Baschenis,(Bergamo, 1617-1677) Cucina con la piuma1655-1665 circa

Sopra:Giacomo Ceruti(Milano, 1698-1767) Ritratto di ecclesiastico (“il pretino”)1740-1745 circa

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Sopra:S. Michele Maggiore, interno con matronei;a sinistra:facciata principale,a destra: balaustra altare maggiore sovrastante la cripta

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Pavia è una città difficile, da sempre, ad iniziare dalla sua storia. Quando il Turista osserva il Rathaus di Ulm, scopre sulla facciata la pianta di Pavia; quando visita Hildesheim, trova sotto la mensa dell’altare maggiore del Dom l’Epiphanius-schrein, altissimo esempio di oreficeria del XII secolo, che racchiude i resti mortali di S. Epifanio, vescovo di Pavia del V sec.; se accede all’abside della cattedrale di S. Vito, in Praga, nota un affresco raffigurante l’imperatore Carlo, mentre a Pavia riceve dal Vescovo reliquie di santi. Insomma, l’Europa è ricca di riferimenti storici a questa antica città lombarda. Perché? Se il Turista vorrà seguirmi, lo comprenderà.Pavia è sorta sul terrazzo naturale, degradante verso la valle del Ticino e del Po, quasi alla confluenza tra i due fiumi, su terre splendide per armonia di paesaggi e ricchezze naturali.Data le sue origini nella notte dei tempi e una tradizione storica, riletta su testi di Polibio, Livio e Plinio, afferma che fu fondata dalla tribù dei Levi e dei Marici, antichi abitanti della regione.

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I MONUMENTI SACRI NELLA STORIA DI PAVIA

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La conquista di Roma verso la fine del III sec. a.C., ne fece con la “lex pompeia” dell’89 a.C. un “municipium”. Così il luogo diventa sempre più importante ed è prescelto come soggiorno da vari personaggi del mondo romano e come “castrum” fortificato, conosciuto con il nome del fiume Ticinum. Probabilmente l’importanza strategica ed economica della città aumenta con l’apertura ai traffici delle vie consolari, in specie della via Emilia dal 187 a.C. Così è collegata con i maggiori centri della regione padana: Torino, Vercelli, Piacenza, Lodi, Milano e grazie alla via Postumia anche all’Oltrepò e alle diverse vie del “sale” che attraversavano l’appennino,da Bobbio alla Liguria. La cresciuta importanza la rende presidio di comunicazioni e traffici internazionali con la Spagna, con la Francia e con la Britannia attraverso il Moncenisio e il S. Bernardo. Da questi itinerari, più tardi, si sviluppano la così detta via Francigena (francisca) e i diversi tracciati delle “vie romee”; alcune pietre miliari rinvenute attestano i percorsi delle “strata pubblica peregrinorum” per mercanti, soldati, ambasciatori e, più tardi, pellegrini.Secondo la vita di S. Martino di Tours, in città nel IV sec. è già presente una stabile comunità

cristiana: dopo l’editto di Milano (313), ma prima degli ultimi decenni del V secolo, si edificarono i primi monumenti sacri, tra cui le chiese dei SS. Gervasio e Protasio (battistero per gli uomini e probabile prima cattedrale), S. Giovanni Domnarum (battistero per le donne su un “calidarium” romano), S. Nazaro o Invenzio.Anche la “forma urbis”è ben definita, come desume Flavio Fagnani negli studi pubblicati dal “Bollettino della Società pavese di Storia Patria” del 1959. Circondata da una formidabile cerchia di mura ed estesa su un reticolo di 80 isolati

di forma quadrata, veniva considerata un punto cruciale nel sistema di difesa della valle del Po. Prima e dopo la caduta di Roma, Ticinum fu teatro di eventi politico-militari di notevole importanza. Il Santo Vescovo Ennodio attesta che la città fu messa a sacco da Odoacre. Più in là fu conquistata da Teodorico; nel 560 resistette ai Longobardi ma fu conquistata poi da Alboino nel 572; si arrese nel 754 a Pipino il Breve e fu espugnata da Carlo Magno in 10 mesi di assedio, nel 773. Il tracciato del “cardo” (attuale Strada Nuova) e del “decumano” (attuali Corso Cavour e Corso Mazzini) attestano, con la cerchia muraria, una estensione appena inferiore a Milano, ma uguale o superiore a Torino, Bologna, Rimini, Como, Aosta. Inoltre i Goti e i Longobardi scelgono questa città come capitale del Regno, ampliandola, abbellendola e fortificandola.

Sotto, a sinistra:S. Michele Maggiore, crocifisso di Teodote (sec. X-XI)a destra:facciata laterale e campanile in basso:facciata laterale, particolare della porta regia

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Dall’alto:S. Michele Maggiore, presbiterio e mosaico pavimentale (sec. XII);cripta e particolare del monumento in suffragio del Beato Martino Salimbene (1491)

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cardinale e poi Papa Pio II, già studente alla Università di Pavia, volle qui la convocazione di un Concilio generale nel 1423, data dalla quale i canonici della Cattedrale vestono ornati di ermellino. Il grande Vescovo e concittadino Ippolito de Rossi partecipò al Concilio di Trento e fu tra i primissimi ad istituire il seminario per la formazione dei sacerdoti (1564). Le feroci razzie degli Ungari non risparmiarono la Felix Papia, poichè nel 924 furono bruciate e distrutte ben 43 chiese, ma la città rinacque e dal suo Studium uscirono nel X secolo grandi figure del diritto, come Liutprando da Cremona, Stefano da Novara, Lanfranco da Pavia. In quel tempo un “liber papiensis” offriva le migliori sintesi delle scuole pavesi sull’insegnamento del diritto.

Ormai denominata Papia, si impreziosisce di un Palatium (reggia), voluto da Teodorico e citato da Ennodio; esso risulta da documenti dell’età di Berengario I e degli Ottoni come opera grandiosa e apprezzabile, collocata in un’area vicina a Porta Palacense. Per questi sviluppi, Papia fu chiamata “Urbs Regia”, Roma secunda, Felix Papia, luogo atto ad incoronare Re e Imperatori nelle sue Basiliche. Città di governo, già nel 534 in Borgo Calvenzano fu giustiziato Severino Boezio. Nei due secoli di dominazione longobarda si costruiscono palazzi e chiese, fioriscono gli studi giuridici e filosofici e si impone la presenza cattolica al punto che il Vescovo Damiano trasferisce la sua sede dalla zona di San Gervasio, esterna alle mura, in un luogo più prossimo al centro, presso S. Stefano e S. Maria del Popolo. Paolo Diacono attesta anche la costruzione della chiesa-monastero del SS. Salvatore e di S. Giovanni Battista. La conquista franca avvia in città un nuovo periodo di espansione. Vengono costruite le famose basiliche di S. Maria alle Pertiche e di S. Pietro in Ciel d’oro, dove Liutprando dispone di accogliere e venerare le spoglie di S. Agostino, provenienti dalla Sardegna. Tra le figure politiche più significative dell’epoca, i Berengari, Enrico II, Arduino d’Ivrea, Federico Barbarossa, scelgono di essere incoronati nella Basilica di S. Michele. Testimonianze attestano che la vita pavese in quei secoli era splendida: vi viveva la Corte, venivano convocate le ordinarie assemblee del Regno. Lotario vi istutuisce l’antico Studium nell’825, avvio di ciò che più tardi sarà Università; fioriscono nuovi palazzi, monasteri e ospedali.Anche una “regia zecca” attesta l’importanza di Pavia: essa opera dalla metà del VI secolo sino alla definitiva chiusura (1464), decretata da Francesco Sforza in favore della nuova capitale Milano.

È il periodo aureo, in cui si moltiplicano le “curie generalizie” delle principali Chiese e monasteri dell’Italia settentrionale e della Francia. Ad esempio, Cluny apre il monastero di S. Maiolo (oggi Archivio di Stato), dove risiedono i rappre-sentanti permanenti dell’Ordine presso la Corte. I Vescovi delle Diocesi vicine (Milano, Lodi, Cremona, Bergamo, Tortona, Genova e Reggio) e gli Abati dei monasteri di S. Ambrogio, Bobbio, Nonantola,…vi mantenevano le proprie dele-gazioni permanenti. Ecco spiegato l’eccezionale numero di chiese, conventi, edifici sacri poi incamerati dal potere civile e utilizzati per diverse altre finalità (S. Marino, S. Tommaso, S. Nicolò, Santa Tecla, S. Felice,…). L’importanza religiosa della Urbs Regia è attestata anche da numerose convocazioni di Concili locali, regionali e addirittura ecumenici. Enea Silvio Piccolomini,

In alto a destra:S. Pietro in Ciel d’Oro, altare maggiore con Arca di S. Agostino (maestri campionesi, 1362)

Sotto:S. Maria del Carmine, affreschi dell’ingresso laterale (già cappella della comunità degli “ultra montani”)

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Sopra:S. Pietro in Ciel d’Oro, cripta e urna con le spoglie di S. Boezio;a sinistra: facciata principale

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La vita sociale ed economica riprende con vigore: con il passaggio al nuovo millenio si sviluppano le associazioni di artigiani che prendono i nomi di navicellari, piscatores, aurilevatores, monetari, saponari,… e le loro rappresentanze ufficiali siedno ormai nella “camera regis”. Degna di nota è la rivolta del 1024; morto Enrico II, i Pavesi si ribellano al dominio straniero, cacciano i legati imperiali e bruciano il Palatium, ma da qui la posizione egemonica di Pavia inizia a decadere. La vicinanza di Milano si fa minacciosa e si scatenano lotte anche con altre città; non sono poche le battaglie fluviali con chi impedisce i traffici con Venezia, ma Pavia rimane nell’area di influenza imperiale. Federico Barbarossa si sente al sicuro tra le sue mura e in cambio di un giuramento di fedeltà (1164) riconosce la piena autonomia alla città e al suo territorio. Enrico VI riconferma il placet imperiale e nel 1191 elenca le terre del principato che comprendono anche la valle del Trebbia (Bobbio) e parte del Tortonese (Pontecurone, Pozzolo, Novi). Grazie all’apporto dovuto alla “presenza imperiale”, vennero riedi-ficate le grandi chiese: S. Michele, S. Giovanni Battista, S. Teodoro, S. Stefano, S. Maria del Popolo, S. Pietro in Ciel d’Oro, S. Lazzaro, S. Primo e S. Maria in Bethlem.

È la stagione in cui anche dai palazzi gentilizi fioriscono le molte torri, esaltanti prestigio e ricchezza; in quest’epoca si sposano cotto e arenaria dell’Oltrepò nel creare l’inconfondibile stile del romanico di Pavia. La città, di circa 20 mila anime, cade però via via in mano al potere di grandi famiglie: Bottigella, Mezzabarba, Medici, Strada, Cristiani, più tardi Langosco e Beccaria, che ne ottennero il governo nel 1315.I poteri aristocratici suscitano molte resistenze popolari: fra Iacopo Bussolaro, nel 1359, anima una rivolta antiviscontea. La città si consegna a Galeazzo II nel 1359, ma persa l’autonomia politico-amministrativa, non vien meno la sua importanza. I Visconti vi stabiliscono una corte, costruendovi il Castello (1365), fondano nel 1361 l’Università, avviano la costruzione di un Mausoleo, capolavoro di notevole interesse: la Certosa (1396). Anche Francesco Petrarca ricorda alcune visite a Pavia. Agli inizi del Quattrocento la città conta non più di 16 mila abitanti e l’Università è frequentata da 600-700 studenti; i lavori della Certosa

A destra:S. Giovanni Domnarum, cripta di età carolingia

Sotto:SS. Primo e Feliciano, facciata principale (sec. XII)

Sopra e a destra:S. Teodoro Vescovo, affreschi di B. Lanzani raffiguranti la Battaglia di Pavia (1525)

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continuano e si iniziano le costruzioni delle chiese di S. Maria in Canepanova e dell’oratorio nel monastero della Pusterla, ora seminario diocesano. La raffigurazione della città cinquecentesca viene offerta da Bernardino Lanzani con due affreschi che si riferiscono alla battaglia di Pavia (1525) e che sono visibili nella Basilica di S. Teodoro. Il Ducato di Milano ha due sedi universitarie: Pavia e Bologna. La goliardia è vivace e molti sono i ricchi stranieri detti “ultra montani”, presenti soprattutto a Pavia, dove con lombardi, veneziani, genovesi, parmensi, novaresi, piacentini compiono studi umanistici, medici e di diritto. Gli “ultra montani” sono una vera e propria comunità organizzata, con un convitto e una cappella propria (l’attuale ingresso laterale in S. Maria del Carmine). Nel 1527, la città è messa al sacco e dal 1535 si insedia il governo spagnolo di Carlo V.

Il periodo della controriforma è notevolmente arricchito dall’opera di due eminenti Vescovi: Ippolito de Rossi e S. Alessandro Sauli che promuovono l’istruzione del clero e rinnovano monasteri e chiese. Si porta a compimento la torre civica in piazza del Duomo, rovinata il 17 marzo 1989; Carlo Borromeo fonda l’omonimo collegio (1561) e Pio V il Collegio Ghislieri (1567).Agli ordini religiosi già presenti in città (Carmelitani e Cappuccini) si aggiungono ora i Barnabiti, i Somaschi e i Gesuiti. Superata la peste del 1576 e del 1630 e le gravi difficoltà economico-politiche di guerre e assedi, la città passa con i suoi territori alla dominazione austriaca. Sotto il regno di Maria Teresa e di Giuseppe II, rinasce come capitale imperiale del Sud per suscitare ammirazione nei regni vicini. Soprattutto l’Università si sviluppa in grandiosi edifici, musei e laboratori di ricerca. Sono chiamati docenti di prestigio, come Rezia, Scarpa, Spallanzani, Mascheroni, Tamburini, Volta e, più tardi, Romagnosi, Foscolo, Monti. Pavia torna ad essere rappresentativa anche per il Seminario Generale della Lombardia per la formazione del clero. Gli eventi successivi a queste date non condizionano l’arte sacra della città se non per usi e abusi diversi: infatti le “incamerazioni” di Giuseppe II e di Napoleone cambiano la destinazione di molti edifici; la disistima abbatte diversi monumenti preziosi, come il S. Giovanni in Borgo e, più tardi, anche i resti delle cattedrali romaniche di S. Stefano e S. Maria del Popolo, per lasciar maggior spazio al completamento del Duomo.

Ora il Turista può già rispondere a molte domande, ma per meglio capire può arrivare in città da Sud. Incontra il quartiere suburbano chiamato “Borgo” e accanto all’antico ospizio di S. Antonio, la chiesa

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romanica di S. Maria in Bethlem (XII sec.); in essa è degna di nota la “Madonna della Stella”, statua lignea del XIII-XIV sec. di probabile fattura bizantina la cui presenza è legata ad una bella e antica leggenda riguardante le comuni-cazioni fluviali tra Pavia e Venezia. A pavimento, è visibile e visitabile il basamento perimetrale della precedente chiesa di età longobarda. Varcato il ricostruito Ponte Coperto (1951), non senza aver osservato le pile dei precedenti ponti romano e romanico che emergono dalle acque del Ticino, il Turista raggiunge il S. Michele Maggiore per ammirarne le facciate, i famosi capitelli, il labirinto in mosaico sul presbiterio sopraelevato, l’armoniosa cripta e l’argenteo crocifisso di “Teodote” (sec. X-XI). Proseguendo per Strada Nuova, giunge in Piazza del Duomo, alla terza cupola d’Italia, costruzione studiata anche dal Bramante e iniziata nel XV sec. Questa, da tempo in restauro, sarà completamente riaperta e visitabile dal 2009. Ma prima di abban-donare il Duomo, è possibile visitare le restaurate cripte delle basiliche romaniche sottostanti.Ripartito per piazza del Carmine il Turista ammira al tramonto la splendida facciata in cotto della omonima chiesa e, visitato il magnifico monu-mento gotico-lombardo, per via Roma giunge al palazzo centrale dell’Università, i cui cortili teresiani pongono in comunicazione con C.so Cairoli dove è visibile la grande e composita facciata gotica del S. Francesco. Gli enormi spazi interni del monumento, ben contornati da archi e giri di volta su grandi piloni, ricordano le folle che qui accorrevano ad ascoltare i “fratres” nelle catechesi popolari dell’epoca. Da qui è facilmente raggiungibile S. Maria in Canepanova e, attraverso piazza Castello, S. Pietro in Ciel d’Oro. Dante ricorda questa chiesa e le sue sepolture recitando: “lo corpo ond’ella (anima di Severino Boezio) fu cacciata giace giuso in Cieldauro, ed essa da martiro e da essilio venne a questa pace” (Divina Commedia, Paradiso X). Stupenda è l’arca marmorea che contiene l’urna con le ossa di S. Agostino, attribuita alla fattura dei maestri campionesi, del 1362. In centro, è possibile visitare la cripta del S. Giovanni Domnarum che risale probabilmente alla ricostruzione voluta dal Vescovo Rinaldo dopo un incendio che la devastò durante l’invasione degli Ungari. È facile ora arrivare alla chiesa dei SS. Gervasio e Protasio e poi raggiungere S. Teodoro, la più armonica e completa basilica romanica tra le “gemelle” del XII sec.; eccezionali documenti di pittura impreziosiscono i resti di uno splendido mosaico del IV secolo rinvenuto sotto l’attuale pavimento. Il Turista, uscito dalle mura, raggiunge il monastero benedettino del SS. Salvatore con l’omonima basilica, detta di S. Mauro: fondata da

re Ariperto (653-662), devastata dal sacco degli Ungari, fu riedificata da Adelaide di Borgogna, moglie di Ottone I e ospitò, dopo la distruzione del Palatium, la nuova residenza degli imperatori (fra i quali Barbarossa). L’attuale chiesa risale alla seconda metà del XV secolo, ad impianto gotico, con le volte e le cappelle laterali comple-tamente e pregevolmente affrescate in epoche successive; nella cappella di S. Martino si ammira una bella veduta antica di Pavia. Il nostro Turista può raggiungere ora la suggestiva piazzetta-sagrato della chiesa di S. Lanfranco; quanto resta dell’antico monastero vallombrosano (1090) fu luogo di ritiro di Lanfranco Beccari, vescovo pavese in urto con il potere civile e qui sepolto. L’affresco a parete nella navata unica, che mostra l’assassinio di Tommaso Becket e la figura di S. Tommaso benedicente, sembra richiamare un parallelo tra la vita del Beccari e l’evento occorso al Vescovo assassinato da Enrico II nella cattedrale di Canterburry.

Ora è possibile ripensare ad Ulm, Hildesheim e Praga per rispondere alle iniziali domande. E chi volesse avere ottime argomentazioni per visitare la città potrà leggere “Viaggio in Pavia” dell’indimenticabile Cesare Angelini, sacerdote, letterato, rettore del Collegio Borromeo, per “gustarsi” una insuperata presentazione.

A destra dall’alto:Certosa di Pavia, facciata principale (1396)

Pavia, fiume Ticino e Ponte Vecchio (ricostruito nel 1951)

Sotto:Duomo, facciata principale e cupola (progetto del Bramante, sec. XV)

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Si è inaugurata mercoledì 19 dicembre, presso il Castello Visconteo di Pavia, la mostra “Quel cielo di Lombardia… Paesaggi dell’Ottocento e Novecento nei Musei Civici di Pavia”.La mostra – che segue la grande esposizione del 2004-2005, “Paesaggi. Pretesti dell’anima”, e che contribuisce a dare continuità all’appro-fondimento sul tema portato avanti attraverso i due Festival del Paesaggio organizzati a Pavia nel 2006 e 2007 - presenta un nucleo di circa 50 dipinti non inclusi nel consueto percorso espositivo nei Musei Civici. L’intento è quello di valorizzare le ricche collezioni dei Musei di Pavia, approfondirne lo studio e consentirne la conoscenza anche ad un pubblico più vasto di quello degli studiosi, mostrando il carattere originale della pittura lombarda tra Otto e Novecento.

Le prestigiose scuole lombarde infatti - tra cui spiccano l’Accademia Carrara di Bergamo, la Civica Scuola di Pittura di Pavia, l’Accademia di Brera di Milano - si dimostrano il contesto ideale in cui sviluppare una pittura di paesaggio caratterizzata da una cifra stilistica diversa rispetto a quella macchiaiola, ma anche piemontese e napoletana, che negli stessi anni si andavano affermando, facendo da contrappunto al paesaggismo francese della Scuola di Barbizon prima e degli Impressionisti poi.Ecco allora che la pittura di paesaggio lombarda diventa lo strumento ideale attraverso cui compilare un eccezionale catalogo dei luoghi più belli del paesaggio della nostra Regione e documentare le trasformazioni in atto, ponendosi anche in concorrenza con la fotografia, che progressivamente si imponeva come mezzo di osservazione e documentazione del vero. Sul finire dell’Ottocento poi il paesaggio si trasforma in teatro delle emozioni, dando spazio anche alla forza evocativa della pittura simbolista, in cui realtà e immaginazione concorrono all’espressività pittorica dei sentimenti.

“QUEL CIELO DI LOMBARDIA”PAESAGGI DELL’OTTOCENTO E NOVECENTO NEI MUSEI CIVICI DI PAVIA

Il percorso della pittura lombarda dal neoclassicismo e primo romanticismo al realismo e al simbolismo, nella mostra in corso a Pavia, al Castello Visconteo, con il sostegno della Banca Regionale Europea.

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A sinistra, dall’alto:L. Delleani, CampagnaE. Rossi, Paesaggio boschivo (manifesto)

Dall’alto:P. Carena, LancaG. Kienerk, Ultimi raggi

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Le opere selezionate, che seguono anche un criterio di valorizzazione e promozione della cultura del territorio, consentono così di tracciare un percorso della pittura lombarda dal neoclassicismo e primo romanticismo – con il paesaggio ancora relegato allo sfondo della narrazione – al realismo, che ha portato alla affermazione di un genere ormai autonomo, fino al simbolismo, a cavallo tra ’800 e ‘900,

e al recupero Novecentista della tradizione figurativa. Tra i quadri prescelti figurano opere di Pietro Michis, Costantino Rosa, Teodolinda Migliara, Gaetano Fasanotti, Ezechiele Acerbi, Giorgio Kienerk, Francesco Trecourt, Oreste Albertini, Erminio Rossi, Pompeo Mariani, affiancati da Beppe Ciardi, Vittore Grubicy, Giovanni Carnovali detto il Piccio, Lorenzo Delleani, Francesco Fidanza, Pietro Ronzoni, Carlo Fornara, Riccardo Viriglio.

Sopra:G. Fasanotti, Paesaggio alpinoG. Pellizza (?), Veduta di volpedo

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A fianco:R. Borgognoni, Strada pavese

In basso, a sinistra:O. Albertini, Tramonto sul generoso

Sotto:R. Rossi, Acque morte del ticino

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Tra le novità editoriali dello scaffale dedicato alla montagna, la fine del 2007 ha portato in libreria un volume di grande formato, realizzato dalla Priuli & Verlucca e intitolato “Le grandi Alpi nella cartografia 1482-1885”: al suo interno, la montagna più rappresentativa del Cuneese e del Piemonte, il Monviso, ha una parte di rilievo. Si tratta di un’opera enciclopedica suddivisa in due libri (il primo risale al 2005), che guarda alle Alpi attraverso le particolari “lenti” della cartografia realizzata nel corso della storia. Un ingente lavoro di mappatura

e rilievo con cui l’uomo durante i secoli ha cercato di rappresentare le montagne, per conoscerle e attraversarle, sfruttando passi e valli in modo da agevolare i rapporti tra i due lati della catena alpina. Le illustrazioni a colori delle carte topografiche offrono, tanto all’appassionato di montagna quanto a chi studia la storia, uno spaccato tanto inusuale quanto interessante.

IL MONVISO NELLA CARTOGRAFIA

Un’opera enciclopedica ripercorre la storia della cartografia alpina. Ecco come le carte geografiche hanno descritto, nel corso dei secoli, la montagnapiù rappresentativa del Piemonte.

Francesco Berlinghieri,Gallia novella dalla Geographia, 1482

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Se il primo volume centrava la sua attenzione sulla cartografia in generale, ripercorrendola nel tempo e focalizzandosi su alcuni periodi storici ben precisi (e cioè, tra le altre, la cartografia alpina prima delle carte a stampa, la cartografia alpina a stampa, la cartografia alpina in Svizzera e poi via via fino alla cartografia alpina in Inghilterra), per il secondo gli autori Laura e Giorgio Aliprandi hanno voluto dedicarsi ai principali gruppi montuosi delle Alpi occidentali. E accanto alle montagne “mitiche” della Valle d’Aosta, come il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Gran Paradiso, il Cervino e il settore dei colli del Piccolo e del Gran San Bernardo, il volume destina ampio spazio anche al cuneese Monviso, il “Re di Pietra”. Il motivo di questa scelta viene esplicitato dagli autori stessi: “Per il Monviso, l’elemento cartografico caratteristico è il “Buco di Viso”, primo traforo delle Alpi, terminato nel 1480 ad opera di maestranze piemontesi e francesi, voluto per facilitare il trasporto del sale dal Delfinato al Marchesato di Saluzzo, evitando gli onerosi pedaggi dei Savoia. Questa galleria è rappresentata nell’antica cartografia sia francese sia piemontese con immagini suggestive che ne fanno un unicum nella storia cartografica delle Alpi”.

Tra le carte riportate nel volume, alcune sono davvero curiose: per esempio, nel “Mappamondo di Frà Mauro”, risalente alla metà del ‘400, l’Italia è rappresentata capovolta rispetto a come si usa oggi, cioè orientata sud-nord. Il Monviso è citato, anche se la carta comprende un territorio molto vasto. Più di dettaglio e leggermente più recente è la carta “Gallia Novella” di Francesco Berlinghieri. Indica sei colli, e tra questi anche il “Vesulo Mo”, toponimo con cui però ci si riferisce non tanto al Monviso quanto al vicino Colle delle Traversette. Sulle carte successive, spesso realizzate con la tecnica dei “mucchietti di talpa”, il Monviso viene sovente rappresentato, il che costituisce una particolarità: infatti, fino al ‘700 molto raramente i cartografi hanno rivolto la loro attenzione alle montagne, e quasi sempre si sono concentrati sui valichi.

Ma il Monviso, chiamato anticamente “Vesulus” proprio perché facilmente visibile e riconoscibi-le da un gran numero di località, eviden-temente costituiva un’eccezione.

Sopra: Mappamondo Borgiano, 1430

A sinistra: Giacomo Antonio Biga,Tavola di topografia delineata da Giacomo Antonio Biga di Savigliano per intelligenza della Relatione di Monviso e dell’Origine del fiume Po..., 1627

A sinistra dall’alto:mappamondo di Fra’ Mauro, 1457-1459

Jean Joliveto,Nouvelle description des Gaules,(particolare)1578

Sotto: ritratto di ValerianoCastiglione efrontespizio del suo testostampato a Cuneonel 1627

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Di carta in carta il volume ci porta quindi a scoprire come è cambiata la cartografia nei secoli. Si vede così come il dettaglio sia andato aumentando sempre più e abbia portato già nel 1700 a carte di notevole interesse e di ottimo livello, tanto più se si considera che allora erano ancora da venire le tecniche odierne di rilievo topografico che utilizzano fotografie, satelliti, strumenti elettronici. Si arriva infine alle carte del Regno di Sardegna, risalenti alla fine dell’Ottocento: mappe ricche di particolari e precise, moderne, fedeli rappresentazioni del terreno, senz’altro ottimali per lo scopo per cui sono state realizzate. Ma anche più povere per quanto riguarda la carica evocativa che le più antiche indubbiamente portavano con sé.

Sopra dall’alto: Giacomo Gastaldi,Pedemontana regio cum Genuensium territorio..., 1595

“Le grandi Alpi nella cartografia 1482-1825”,

Veduta dell’approccio al Buco di Viso, dal monte Meidassa

Giovanni Antonio Magini, Riviera di Genova da Ponente, 1620

In alto a destra: Carta Topografica degli stati di Terraferma di S.M. il Re di Sardegna, 1816-1830

A destra: William Mathews, Monte Viso & Surrounding District, 1862

Sopra: Giovanni Antonio Magini, Riviera di Genova da Ponente, 1620

Veduta dell’approccio al Buco di Viso, dal monte Meidassa

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La vera Porta delle Langhe, la prima Collina di Benvenuto per il turista che arriva ad Alba è senz’altro il profilo inconfondibile del paese di Barbaresco con la sua Torre. La Torre lo aspetta lassù a strapiombo sul Tanaro, il fiume che delle Langhe è al tempo confine e custode. Infatti andare “d’la da Tane” ha significato per tantissimo tempo uscire dal proprio piccolo mondo per andare verso l’ignoto: per contrade estranee dove si parlava un dialetto diverso (ma allora il Piemontese era l’unica lingua conosciuta!), la gente era differente e i vini lontani dalle abitudini di casa… Il fiume per i langhetti era un po’ ciò che Canelli era per quelli di Santo Stefano: una porta sul mondo, come l’ha fissata Cesare Pavese ne “La luna e i falò”. Del resto l’isolamento delle Langhe era inevitabile: fino al dopoguerra c’erano solo il ponte di Alba e quello di Asti, quasi nessuno sapeva nuotare e passare il fiume era possibile solo in pieno inverno quando spesso ghiacciava (oggi non succede più…). Ma ecco che proprio a Barbaresco c’era l’unica alternativa ai ponti: un porto! Un vero porto con un traghetto a fune… Forse la vocazione a diventare il biglietto da visita delle Langhe iniziò proprio lì o forse è solo una geografia fortunata che ha regalato a questo basso sperone di argille e calcari la prima naturale via di accesso all’interminabile schiera di colline che si vanno a perdere nell’Appennino Ligure. Inoltre questa posizione ha portato in dono anche un microclima unico e un terreno inconfondibile, fatti apposta per un grande vitigno come il Nebbiolo. Molto prima che Domizio Cavazza (il padre del Barbaresco, di cui parleremo più avanti) decidesse di valorizzarne le inconfondibili prerogative, in tutti i mercati di uve - da Alba a Dogliani - si sapeva che i nebbioli di Barbaresco avrebbero dato ai vini un profumo e una longevità particolari. Ed in pieno ottocento per primi lo sapevano i barolisti che da queste colline comperavano le uve per ingentilire i loro austeri vini. E poi col tempo ne hanno preso coscienza i contadini locali; infatti qui non troverete la nobiltà agraria della Toscana e nemmeno la no-biltà di corte della Langa del Barolo… Neive per esempio è soprannominato “’l pais dij Sgnuret” (in Langa “sgnuròt”) ovvero paese di signorotti, non di grandi nobili. Barbaresco poi era il paese più povero di tutta la già poverissima Langa! Infatti non avendo terreno in piano, non aveva quasi grano, ma solo colline e colline a sbriciolarsi nella rocca sul fiume.

BARBARESCO: UN MONDO A PORTATA DI MANO

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Verdure e cereali popolavano al massimo gli interfilari o - per i più fortunati - si piantavano in quei pochi appezzamenti che giacevano lungo al Tanaro, alla sinistra del fiume, dove il paese di Barbaresco aveva ed ha un foglio di mappa del suo territorio. E intanto schiere di uomini ben più numerose si incamminavano per contratti da stagionali verso la Francia prima e poi (dopo i fatti di Aigues Mortes) verso Genova e i piroscafi diretti in Sud America …e così Bianco, Vacca, Rocca, Rivella, Varaldo divennero cognomi popolari a Montevideo come a Buenos Aires. Intanto però un professore emiliano aveva scommesso sul riscatto di questo primo (o estremo?) lembo di collina contando proprio su quelle uve così speciali.È il 1894, sul trono d’Italia c’è Umberto I, Crispi ha appena ripreso il governo al primo Giolitti, siamo già ben invischiati nella guerra d’Africa, ad agosto del ’93 oltre 100 italiani (quasi tutti piemontesi) sono stati linciati ad Aigues Mortes in tumulti di piazza, l’Italia è parte della Triplice (con Austria e Germania), Luigi Pirandello ha appena pubblicato il suo primo libro di novelle, da poco il Regno ha una Banca Nazionale e in Piemonte e Liguria si sta diffondendo un nuovo gioco inglese, il soccer che noi ribattezziamo subito calcio (il primo campionato fu un quadrangolare del 1898, vinto dal Genoa)… Nel 1894 nascono le Cantine Sociali di Barbaresco per iniziativa del primo Direttore della Regia Scuola Enologica di Alba, l’emiliano Domizio Cavazza. La sede viene posta nel Castello del paese, di proprietà appunto di Cavazza.Oggi nelle storiche cantine del Castello ci sono i vini di un altro protagonista della storia di questo vino: quello che sicuramente prima e meglio di ogni altro ha realizzato il sogno di Domizio Cavazza, ovvero dare un valore aggiunto a questo uve e una dignità propria al vino, riscattando così anche il paese e la sua gente.

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Stiamo parlando ovviamente di Angelo Gaja, sicuramente il migliore nome dell’enologia italiana, il primo ambasciatore dei vini del Bel Paese ma anche un accanito langhetto, attaccato al proprio paese e al suo vino come nessun altro. E così, tra Cavazza e Gaja ci sono i cento anni della storia del Barbaresco, un cerchio che racchiude tante piccole storie, tante cantine e tanti protagonisti ma soprattutto tante grandissime annate: ricordate, celebrate ma anche molto bevute. Conservate al buio e al fresco degli infernot come nelle più moderne costruzioni climatizzate, estratte per qualche occasione speciale, per un compleanno o per una laurea, ma anche per una ribòta con gli amici, ecco sfilare annate mitiche come il ’31, il ’47, il ‘58 e poi il ’61 e il ’64 fino ad arrivare al ’71 (forse la più grande annata del Barbaresco) e quindi ’82 e ’89, ’90 i millesimi del riscatto dopo la crisi del metanolo e giù giù fino agli anni recenti, al “filotto” di sei annate stellate (1996-2001).Oggi il territorio del Barbaresco guarda sereno al futuro con in cantina tre grandi vendemmie per i prossimi anni e un 2004 che sta facendo faville. Attorno, nelle colline e nelle decine di frazione sono sorti agriturismo a 4 stelle, alberghi di charme, ristoranti stellati (sono ben quattro le stelle: un vero record!), wine-bar dinamici tra cui sfilano auto di tutti i paesi, pulmini e ciclisti e persino folti gruppi di trekker di collina! Accanto alle novità però restano sempre le vecchie trattorie di un tempo, solide e inamovibili, che più di tutte racchiudono l’anima del Piemonte. E poi ci sono le cantine: quelle storiche come Bruno Giacosa, Gigi Bianco, Pio Cesare, Prunotto e via via quelle arrivate negli ultimi quarant’anni: Moccagatta, Bruno Rocca, Pellissero, Cigliuti, Fiorenzo Nada, Marchesi di Grésy, Cantina del Glicine, Sottimano, Albino Rocca…nomi che fanno ormai il giro del mondo, presenti nelle carte dei migliori ristoranti, degli alberghi esclusivi, delle enoteche più fornite. La conca di Tre Stelle si apre sull’anfiteatro naturale della Martinenga, con sopra Asili e Rabajà, tutto pettinato di viti curate come bonsai… sicuramente il paesaggio più fotografato delle Langhe! A Treiso la vista spazia a 360 gradi abbracciando in un unico sguardo l’Alta Langa, il Barolo, Alba, la piana del Tanaro, la rocca di Santa Vittoria, tutto il Roero fino a Govone e poi Asti e le mille onde del Monferrato, e di nuovo Neive, Mango e Neviglie: uno spettacolo di vigneti che racchiude in un colpo d’occhio tutte le colline del vino!

Intorno a questo piccolo paese di 650 anime, che ha dato il nome a uno dei tre più grandi rossi d’Italia (ovvero Barolo e Brunello, per chi ignorasse gli altri due) e oggi ormai ad un mito mondiale con fans in ogni angolo del pianeta, ecco intorno c’è un territorio di produzione di appena tre comuni e una frazione di Alba. Con Neive, Treiso e San Rocco Seno d’Elvio, la superficie vitata del Barbaresco Docg è di soli 695 ettari per una produzione di appena 3.500.000 all’anno, ma i produttori sono ben 185, di cui 115 iscritti alla Enoteca Regionale del Barbaresco, che da 21 anni promuove e valorizza questo vino nella piccola confraternita di San Donato proprio accanto al Municipio. Questo significa che dietro al mondo del Barbaresco, dietro al Consorzio di Tutela, dietro ai Sindaci e all’Enoteca ci sono 185 aziende, medie, piccole e piccolissime che si muovono tutte insieme, che viaggiano e si promuovono, che lottano continuamente per migliorarsi, che si confrontano ogni vendemmia col più impre-vedibile, aristocratico ed indomabile dei vitigni, il Nebbiolo appunto, ormai stabilmente collocato sul podio mondiale in ex-aequo col Pinot Nero da tutti gli opinion maker e i giornalisti specializzati. Nebbiolo quindi, un vitigno autoctono del Piemonte, che il resto del mondo ci invidia; un vitigno che rende solo su queste colline (e in Valtellina e pochi altri siti), regalandoci sensazioni e sfumature straordinarie che cambiano col profilo delle colline. Un’uva che si vendemmia per ultima, quando l’autunno ha già cambiato colore alle piante e il freddo del mattino si fa sentire perché il cerchio delle montagne è già imbiancato; quando la nebbia sale lenta dal fiume e avvolge come una veste i filari e nei paesi c’è l’odore di caldarroste e di tartufo. Una vendemmia che occorre saper aspettare, esattamente come il vino che resta due

anni a riposare in botti di rovere prima di affinarsi ancora sei mesi in bottiglia. Un’attesa continua quindi che rende ancora più piacevole la degustazione, con la consapevolezza che vini del genere nel mondo si contano sulla punta delle dita di una mano.L’anno che si sta chiudendo ha visto una serie di successi e di iniziative che hanno avuto per protagonista il Barbaresco e il suo territorio.

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Si è iniziato con il bel libro “Barbaresco Terroir” per i 20 anni dell’Enoteca Regionale, per i testi di Aldo Vacca e le foto di John Anthony Rizzo (fotografo americano, oggi trapiantato stabilmente a Neive, qualcosa vorrà pur dire?!). Quindi due eventi che hanno riguardato Romano Levi, il grappaiolo-angelico, il libro “Levi e la Donna Selvatica” (con dotte elucubrazioni di Gigi Sugliano) e la grande mostra che un’istituzione culturale come Palazzo Bricherasio gli ha dedicato a Torino. Poi un’intensa attività internazionale dell’Enoteca Regionale che, dopo il successo di Barbaresco a Tavola (complice un’annata fantastica come il 2004), ha portato la stessa formula (grazie alla collaborazione con l’Ente Turismo Alba Bra Langhe Roero) in Germania a Francoforte, in Danimarca a Copenaghen, e meno di un mese fa in due eventi top a Vienna: la mostra della Collezione Borromeo nel Museo Liechtenstein, con un parterre di prim’ordine, e la fiera Luxury please, un concentrato delle ricchezze e delle eccellenze del pianeta dove non poteva certo mancare il Barbaresco! Senza dimenticare l’apertura della Bottega del Vino di Treiso, che affianca quindi quella di Neive in una rete di strutture promozionali e di degustazione che non ha paragoni in Piemonte, e soprattutto l’evento settembrino di “Piacere Barbaresco” a Neive: una full-immersion di tre giorni dedicata ai giornalisti, agli addetti ai lavori e agli appassionati che, pur alla prima edizione, ha avuto un successo senza precedenti. Sul fronte legislativo poi ecco il nuovo Disciplinare di produzione che inserisce (primo in Italia) le Menzioni Geografiche Aggiuntive, ovvero la mappatura di tutte le grandi vigne della zona docg, regolamentando nomi e toponimi. Questo traguardo ha generato un ritrovato interesse per i crus (ovvero quei particolari vigneti che per esposizione, terreno e microclima hanno caratteristiche di eccellenza) da cui è partito un Tour tra i grandi crus del Barbaresco, in bilico tra didattica ed escursione che ha superato ogni aspettativa: gli appassionati e i giornalisti (a cui era stato proposto in anteprima) hanno voluto davvero camminare la vigna, come ha sempre sostenuto Luigi Veronelli, e chissà che da lassù Gino non abbia applaudito.Ultima novità poi la presenza di un mese (quello di dicembre) dedicato tutto al Barbaresco nel grande shop di Eataly a Torino, in corrispondenza con le festività natalizie. Per cui, per tutti voi, per tutti noi… a Natale, regala Barbaresco!

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Per un anno - il 2007 - che finisce, ce n’è subito uno nuovo che prende il via. Il 2008 si annuncia con l’ennesima sfida, l’ennesima scommessa per il Barbaresco e la sua Enoteca Regionale.Prima di tutto, bisogna confermare i risultati lusinghieri del 2007: un fatturato che annuncia il superamento del 2006 di un buon 20% ed il numero dei visitatori annuali - tutti arrivi alla spicciolata - che si appresta ad oltrepassare le 40 mila unità. Il progetti per il 2008 sono numerosi: dodici mesi di attività pretendono una serie ininterrotta di appuntamenti, di richiami assidui rivolti a quegli appassionati dei grandi vini che qui trovano gli spazi e gli stimoli più desiderati. Proprio per questo, il primo impegno che l’Enoteca assume per il 2008 è continuare ad essere quel “punto di riferimento” per gli amici che arriveranno a Barbaresco e nella zona del Barbaresco. Tante volte sono amici che tornano, in altri casi sono persone che vi giungono per la prima volta ed anche per questo è importante che il primo saluto lo ricevano nel modo più adeguato, con un sorriso ed un elegante calice di rosso Barbaresco.

Negli ultimi mesi del 2007, l’Enoteca Regionale del Barbaresco ha scaldato i motori, ha affinato i suoi ambienti, ha incrementato le sue attrazioni. Prima di tutto è la vetrina ed il banco di assaggio di oltre 150 Barbaresco di 115 produttori, poi è lo spazio di presentazione di libri sul vino e sul ter-ritorio e di parecchi strumenti di corredo del vino stesso. Poi, negli ultimi tempi, ha dato attenzione anche all’olio extravergine di oliva, con alcune proposte di qualità che giungono da varie regioni italiane. Vite ed ulivo hanno sempre camminato insieme sui vari territori. Oggi di nuovo anche in Piemonte. Allora, perché non accompagnare grandi vini anche con grandi oli? Torneranno,

nel 2008, i grandi appuntamenti promozionali, gastronomici, culturali e turistici che hanno caratterizzato l’anno che sta per concludersi. Ma con qualche proposta in più.I primi mesi saranno dedicati alla cultura ed alla conoscenza del Barbaresco, del suo territorio e dei suoi produttori. Questo fino ad aprile, con piccoli momenti di formazione, promozionati di volta in volta dalla Enoteca. Ma nel frattempo si prepareranno le manifestazioni dei mesi successivi. A maggio, la grande kermesse di “Il Barbaresco 2005 a Tavola”, a giugno l’abbuffata di “Olio delle mie brame”, a luglio “Barbaresco Classica”, momenti di musica e di vino in combinazione. Agosto farà riscoprire la voglia di guardare il cielo con l’iniziativa dedicata all’Asteroide chiamato Barbaresco. Poi, settembre, Di nuovo mese cruciale, perché si ripeterà

“Piacere, Barbaresco!”, alla seconda edizione, più ampia, più bella e più impegnativa che mai. Ottobre riporterà i “Week-End del Barbaresco”, sicuramente a metà del mese, ma forse anche in altri fine settimana del mese. Poi, novembre. Vino e tartufo consentiranno un grande tuffo nella qualità, nella piacevolezza e nel prestigio con uno speciale “Barbaresco a Tavola” dedicato a tartufo e Barbaresco di grandi annate passate. Dicembre riporterà il regalo di Natale con la manifestazione “Natale è qui. Regala Barbaresco!!!”: confezioni semplici, poco sfavillanti, poco stellate, ma contenenti grandi Barbaresco. Un modo concreto per regalare sostanza ed accantonare la forma. L’impegno è grande, continuo. L’obiettivo uno solo: valorizzare il Barbaresco ed il suo territorio e, per loro tramite, le decine e decine di viticoltori che su queste colline lavorano con la stessa intensità e la stessa coerenza tutti i giorni dell’anno, per costruire un futuro concreto per le generazioni che verranno.

UN ANNO DI ATTIVITÀ E DI IMPEGNI

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C’era una volta ad Alba il negozio fotografico della famiglia Agnelli, in via Vittorio Emanuele, la via maestra che unisce piazza Savona alla piazza principale, cuore e polmone della città, austera e solenne, giustamente orgogliosa del suo Duomo e del palazzo municipale dove gli amministratori si avvicendano per governare la res pubhica. C’era, ma io non lo sapevo e venendo ad Alba per frequentare le scuole superiori tenevo gli occhi bassi, proprio come Agostino, il personaggio fenogliano del racconto “La malora”. Tenevo gli occhi bassi e arrossivo, pieno di insicurezze e genato da un complesso di inferiorità che molte persone di origine contadina all’epoca si portavano dietro quando venivano a contatto con gente di altro rango e condizione. Studiavo come hanno sempre studiato i “secchioni”, per il bisogno di emancipazione che la riuscita negli studi mi indicava come obiettivo di rivalsa o arvangia. Studiavo in collegio e tenevo un profilo basso, timoroso del confronto con altri compagni di scuole allora superbe, come la scuola enologica, che sovrastavano noi secchioni di profilo leopardiano per prestanza fisica e prepotenza del carattere. La città la vivevo come capitava agli studenti segregati in collegi amministrati da congregazioni religiose, sentendone parlare dai compagni di scuola che appartenevano a famiglie di media borghesia, che alternavano lo studio alle feste, ai balli, ai corteggiamenti. E la città, indaffarata come sempre lo sono i centri in rapida crescita ed espansione, offriva a noi forestieri e agli studenti timorati del Civico Convitto poche occasioni di distrazione. Semplicemente ci ignorava. Ma era, a dirla tutta fino in fondo, un’indifferenza reciproca, ricambiata. Io, ad esempio, non sapevo nulla di Fenoglio, morto da pochi anni, nulla di don Natale Bussi, nulla di Piero Masera, nulla di Pinot Gallizio, per tacere di Guido Sacerdote e di altri personaggi che ho conosciuto da adulto, quando anche la timidezza aveva allentato le briglie. Per certe misteriose ragioni di casta, di censo e di disagio represso provavo nei confronti degli albesi “ricchi” sentimenti di ostilità trattenuta, addome-sticata, da non manifestare per timore di ritorsioni.

C’ERA UNA VOLTA LA LANGA

I luoghi letterari e le parole di Beppe Fenoglionelle fotografie di Aldo Agnelli

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Poi un giorno in via Maestra vidi per la prima volta alcune fotografie che Aldo Agnelli aveva fatto ingrandire e che aveva nesso in vetrina. Erano immagini di contadini al lavoro, ritratti mentre falciavano il fieno o lo caricavano sul carro, immagini di norcini di paese che io conoscevo, di donne al rocchetto, di processioni e sagre patronali, soprattutto di paesaggi a me noti o molto simili a quelli del mio piccolo nido di collina. Fu una specie di improvvisa rivelazione. C’era dunque in città qualcuno che conosceva casolari, strade, saliscendi, belvedere e strapiombi del mondo arcaico dal quale io volevo allontanarmi alla chetichella, c’era qualcuno che ne dava testimonianza, con un gesto d’amore e di cortesia che mi faceva sorpresa.

Credo sia stato anche grazie alle fotografie di Aldo Agnelli esposte nella speciale vetrinetta di via Maestra che ho cominciato a cambiare opinione sul mondo nel quale ero nato e dal quale volevo andare via. Non lo avevo mai visto con il filtro della poesia e del sogno, sradicato dalla sua materialità, messo in cornice in quella maniera, con quel pudore, con quel rispetto. In quegli anni, mentre nelle città avvampava la ribellione degli studenti sull’onda del maggio parigino, proteste e contestazioni che ho ritrova-to a Torino al primo anno di università e dalle

quali stavo alla larga, per quella esagerata propensione alla prudenza che i miei genitori, aggrappati ai valori della loro marginalità, mi avevano inculcato, ho cominciato a prendere coscienza che le campagne del mio Piemonte non erano terre irredente, perdute e perdenti come avevo immaginato. Erano terre ricche di storia e di tradizioni, forgiate nel ferro della fatica e del sacrificio, sacrificate agli ideali di una patria distante e matrigna, calpestate nei secoli da troppi eserciti invasori. Il percorso di questa consapevolezza si è irrobustito anche grazie alle fotografie di Aldo Agnelli, si è nutrito della parole di Beppe Fenoglio, mi ha insegnato ad alzare gli occhi verso il cielo, a tenere diritta la testa.

San Benedetto Belbo. Beppe Fenoglio

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Oggi il negozio fotografico della famiglia Agnelli in via Maestra non c’è più. Viviamo l’epoca della fotografia digitale, dei prodotti muitimediali, delle immagini elaborate da sofisticati programmi che ritoccano e modificano, alterando i contenuti. La fotografia non è più arte democratica come quando al Alba lavoravano gli Agnelli. Grazie alla tecnologia digitale le immagini si sono moltiplicate a dismisura - miliardi di immagini ogni settimana vanno ad accumularsi nelle memorie di macchine e computer - e guardare una fotografia è diventato troppe cose insieme che poco hanno a che fare con le immagini che Aldo Agnelli ci lascia in eredità con questo suo libro. Un libro che è, in realtà, un testamento laico di trasmissione della sua memoria di uomo e di artista, contenente le opere originali e irripetibili di un autore che ha sempre avuto la piena consapevolezza di “essere fotografo” e per il quale fotografare non era affatto un semplice evento accidentale. Fotografava con l’intenzione esplicita di fare delle belle fotografie per raggiungere un risultato estetico visibile e riconoscibile. Le immagini che ha realizzato sono il prolungamento di uno sguardo educato e nascono da un’intenzione precisa a cui dobbiamo oggi rendere merito. Sono, a mio avviso, piccoli “altari” domestici che racchiudono preziosi ricordi, innocenti segreti e gli atti dell’ufficialità burocratica che ha legittimato le istanze di progresso delle nostre famiglie contadine. Attraverso queste sue fotografie Aldo Agnelli ha saputo imprimere con forza il segno di una precisa identità territoriale. Sfonda il muro dello straordinario proprio perché ci aiuta ad osservare il mondo contadino del Novecento così com’era veramente nelle sua quotidianità, con una intenzione di rappresentazione in “positivo” molto evidente, uno sguardo empatico e intensissimo, una dichiarazione d’amore e di fedeltà appena sussurrata che lo ha legato al suo impegno culturale per tutta la vita. Non a caso con l’amico Beppe Fenoglio è stato anche indovino, capace di svelare la sua grandezza di scrittore prima che fosse manifesta e riconosciuta.

Immortalandolo nelle centinaia di momenti di vita che insieme a pochi altri hanno condiviso, Aldo ha avvertito per primo la straordinaria ed irripetibile, breve e feconda, stagione creativa dei solitario combattente che si approssimava allo “scontro finale” con un nemico incombente e quasi invisibile, inesorabile e strisciante, che avrebbe concluso per sempre il suo slancio ineguagliabile in quello che Pavese ha chiamato il mestiere di scrivere. Guardare oggi le fotografie di Aldo Agnelli vuoi dire abbandonarsi alla trama di cieli, di venti, di luoghi, di gente, boschi, casolari, crinali, acque, sentieri e strade dove Aldo ha camminato, commuovendosi ogni volta, come se dalle manifestazioni della natura, dalla vita palpitante degli uomini, degli animali, della terra e dell’aria, si potessero leggere le impronte lievi di un destino uguale per tutti, reso imperscrutabile dalla calma apparente delle colline. Le colline, più ancora di Alba, confermano ai nostri occhi la simbiosi artistica che si è cementata negli anni tra le fotografie di Aldo e le parole di Beppe Fenoglio.

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Sopra: San Benedetto Belbo, 1961

A sinistra: Sinio, sfida alla pantalera, 1958

A destra: il fiume Tanaro

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“C’era una volta la Langa”

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Non solo la “langa porca che ti piglia la pelle a montarla prima che a lavorarla”. Non solo l’acqua verde del fiume “dove a sentir contare, tanti della nostra razza langhetta si sono gettati a finirla”. Non solo il “deserto, tacito e necro-polico”, segnato da “due basse file di sprangate catapecchie di alta collina”. Le immagini di Aldo non ritraggono solamente “boschi neri” e “sfuggenti prati”. Ci ritroviamo anche le Langhe descritte da Fenoglio come sogno e speranza: “una mezza dozzina di giornate, non di più, ma tutte a solatio, da tenere mezze a grano e mezze a viti. Con una riva di legna e anche un pratolino da mantenerci due pecore e una mula... su di quelle collinette chiare sopra Alba, dove la neve ha appena toccato e già se ne va”.

Una Langa filtrata da una luce più azzurra, lontana da quella “stregata solitudine dell’alta collina” che di tanto in tanto partoriva masche, paure e tragedie. Penso che Aldo, al pari dell’amico scrittore Beppe, abbia ricevuto in gioventù “una chiamata straordinaria”, per spazzare via col suo lavoro “la grande ignoranza” che un tempo affliggeva le colline della malora, consegnandoci con i suoi libri fotografici immagini di colline paradigmatiche, ieri povere e oggi arricchite, legate al passato e proiettate verso il futuro, un unicum di contraddizioni, osservate con occhi a volte dolenti, altre volte ironici, non certo con la supponenza e la superbia di chi tiene “la testa tanto in su da non sapere mai se in terra” è asciutto o bagnato.

In alto a destra:Bossolasco, 1960

Sopra: Rodello, 1949

A sinistra: la valle dei gelsi

A destra: località Monte Marino, frazione di Manera a Benevello,1961

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Quasi la metà dell’apicoltura e della produzione di miele della provincia di Cuneo proviene dal Roero dove hanno sede una ventina di aziende del settore, tra cui almeno dieci sono di dimensioni ragguardevoli. Un dato interessante per una provincia dove l’apicoltura ricopre il ruolo, nella maggior parte dei casi, di attività hobbistica e le aziende che vi si dedicano sono soprattutto a conduzione famigliare. Andando a ricercarne la ragione si scopre che è stato pro-prio il miele a impedire che molti roerini emi-grassero in America all’inizio del ‘900. Il Roero era, già allora, un’enclave naturalistica a sé stante in cui le proprietà erano molto frazionate e diversificate. Per questo motivo l’economia storica ha condotto verso un tipo di sviluppo differente da tutto il resto della provincia. Prima di inizio secolo l’apicoltura qui era pressoché sconosciuta: era patrimonio dei nobili che, avendo la possibilità di viaggiare, e anche dietro l’impulso dei Savoia, importarono in Piemonte le tecniche all’avanguardia utilizzate in Europa. Fino ad allora, infatti, l’apicoltura non era ritenuta un’attività economica, tanto che le api erano solitamente uccise per consentire la raccolta del miele. Dai nobili l’interesse si trasferì alla borghesia e da questa la appresero i sacerdoti che ne furono i veri divulgatori tra la popolazione. Un grande impulso arrivò anche dalle linee guida tracciate dalla Diocesi di Alba, condotta per quarant’anni da Monsignor Re, convinto assertore della cooperazione e da queste indicazioni due sacerdoti di Canale d’Alba, don Sandri e don Panera, incominciano a interessarsi all’argomento.

In un Roero alfabetizzato solo al 10% sono davvero loro a fare la differenza: entrano in contatto con don Angeleri a Torino che aveva già percorso questa strada e incominciano a insegnare le tecniche di questa coltura alla popolazione che velocemente la apprende e la trasforma in un’attività economica che, se non arricchisce, sicuramente combatte la miseria tanto da evitare l’emigrazione così diffusa nelle altre zone della provincia. Il Roero si presta dal punto di vista naturalistico: ci sono molti boschi e il clima è particolarmente adatto, ma le competenze dei roerini del miele non si fermano

IL MIELE DEL ROERO

Metà della produzione di miele, in provincia di Cuneo, proviene dalle colline del Roero, ricche di boschi e dall’ambiente naturalistico idoneo all’apicoltura.Una storia cominciata alla fine dell’800, che vede oggi operare nel settore una ventina di aziende, con ottime prospettive di sviluppo.

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qui e al 1938 si data la prima “transumanza”, ossia il trasporto delle api in luoghi con una vegetazione particolare in modo che possano produrre mieli con la raccolta da specie botaniche diverse da quelle roerine. Il pioniere fu Giuseppe Bordone, detto Minòt, il cui vero merito, però, è stata la disponibilità all’insegnamento quando le novità di quest’arte erano per lo più segreti gelosamente custoditi.

A raccontare questi fatti è Claudio Cauda, noto produttore, ma soprattutto “storico del miele” che nel 1997 ha scoperto due “ciabot” la cui struttura risale a fine ‘800 e che venivano utilizzati per un allevamento “razionale” delle api. Queste costruzioni rurali molto diffuse nella campagna roerina e oggi oggetto di valorizzazione come esempi di architettura rurale, venivano solitamente utilizzati come ricovero di attrezzi o di persone. In questo caso i muri del ciabot erano concepiti come arnie fisse: un caso unico che ha stimolato ricerche e studi finalizzati a valorizzare il miele e la sua storia in quanto fortemente radicata nel Roero. Questo è stato lo stimolo per una promozione del territorio operata in nome del miele che dopo più di un secolo continua a essere una produzione d’ec-cellenza. Ogni anno, nella seconda metà di maggio si svolge Amèl’amel, ossia “Amare il Miele”, una mostra mercato di mieli italiani e dal mondo, ma soprattutto è stata tracciata la Strada del Miele, una valorizzazione territoriale turistica che parte da Bra e arriva fino a Cisterna

d’Asti, attraversando soprattutto i bor-ghi di sommità meno noti. Una strada segnalata da pannelli a tema miele e che ha una piccola deviazione a Sommariva Bosco dove ha sede una fornitissima Mieloteca all’interno della pasticceria di Tonino Strumia: è una selezione di mieli provenienti da tutta Italia e dal mondo. Strumia è uno dei primi sponsor delle Strade del Miele ed è per questo motivo che il pannello posto a Sommariva, quasi dedicato a lui, tratta dei mieli di tutta Italia. In pochi anni il Roero sta diventando un importante polo nazionale del settore grazie anche alla collaborazione con Aspromiele con il quale si organizzano corsi ed eventi gastronomici. Questa unione vuole condurre alla formazione di una nuova associazione che possa coordinare la tutela e la valorizzazione del miele a livello nazionale e la sua nascita è stata sancita nei mesi scorsi a Bra, proprio all’inizio della Strada del Miele.

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Quattro avevano detto e quattro sono stati gli anni di durata del cantiere per la costruzione della linea 1 del ripristinato tramway a Nizza. Una puntualità utile a lenire il ricordo dei disagi provocati a nizzardi e turisti dalla città messa a soqquadro in pieno centro. E ora che dal 24 novembre le modernissime “rames” dell’Alstom corrono regolarmente tra Las Planas e Pont Michel, anche i più scettici sembrano conquistati alla nuova dimensione del capoluogo della Côte d’Azur. Perché di questo si tratta: un nuovo modo di vivere la città, per certi versi un ritorno all’antico, una rivincita del vecchio mezzo di locomozione, cinquant’anni dopo essere stato rottamato come anticaglia dalle magnifiche sorti progressive delle quattro ruote individuali. L’ultimo week end di novembre è stata una festa collettiva. Per due giorni ognuno poteva andare su e giù con il tram senza pagare il biglietto, i più anziani alla ricerca di scampoli della propria gioventù, i giovani per vedere l’effetto che fa viaggiare su un mezzo conosciuto solo nelle foto d’epoca, di cui persisteva il nomignolo “lou trambalan”, subito trasferito alle nuove avveniristiche carrozze. La prima delle quali alle undici di quel sabato si è presentata alla folla assiepata in place Masséna sotto un cielo che minacciava pioggia, frantumando il maxi-schermo di carta con la gigantografia della motrice “124” nell’ultimo viaggio del 10 gennaio 1953. Una specie di “Dov’eravamo rimasti?”, pronunciato dall’antica vettura reduce da un’operazione di lifting. La folla, sommersa da una cascata di coriandoli azzurri e argentati, applaudiva al passaggio silente di quella sagoma di tgv che non sferraglia per nulla, così silenzioso da far dire scherzosamente al sindaco che forse è pericoloso per i passanti, perchè non lo sentono arrivare. Monsieur le maire Jacques Peyrat lo diceva scendendo dal tram con le altre autorità, tra cui Alberto Valmaggia, sindaco di Cuneo città gemellata, per avviarsi al palco in centro piazza, dove ha pronunciato un appassionato discorso inaugurale, rivendicando la giustezza della scelta compiuta dall’Amministrazione comunale e dalla Communauté d’Agglomération CAPA e ringraziando i nizzardi per la pazienza dimostrata nel sopportare i disagi provocati dai cantieri.

LOU TRAMBALAN EST ARRIVÉ

Il 24 novembre Nizza è entrata in una nuova era del trasporto urbano. Il tram, dalla tecnologia di avanguardia, segna un diverso modo di vivere la città e ne ha già cambiato il volto. Grande festa di popolo all’inaugurazione e tanti progetti per il futuro.

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Una scelta, quella del ripristino della tramvia, condivisa da tutte le forze politiche cittadine, regionali e nazionali, come confermavano i discorsi del presidente del Conseil Général des Alpes Maritimes e membro del governo Christian Estrosi e del vicepresidente del Consiglio regionale PACA, il socialista Patrick Allemand. Peraltro tutti e due candidati, in competizione tra loro e con Peyrat, alla carica di sindaco di Nizza nelle elezioni del marzo prossimo. Dallo stesso microfono parlava anche un rappresentante dei 250 “traminots”, i tramvieri: autisti, controllori, manutentori e impiegati che fanno funzionare il sistema. Affinchè proprio nessuno si sentisse escluso dall’intendere quanto veniva detto, un’interprete sul palco traduceva ogni cosa nella lingua dei segni per audiolesi. Lodevole iniziativa piuttosto rara sul suolo italico, dove vengono “tradotti” a quel modo solo alcuni brevi telegiornali. Durante le orazioni una voce isolata dalla folla, più di testimonianza che di contesta-zione, ha invocato “Garibaldi!”. Uno strascico delle polemiche di una parte della comunità dei vecchi nizzardi di origine italiana, che mesi addietro contestavano lo spostamento di alcuni metri della statua di Garibaldi nella piazza omonima. Trasloco necessario per far passare il tram, in una piazza rimessa a nuovo evitando l’antiestetico reticolo di fili elettrici per fornire corrente ai motori. Soluzione adottata anche a place Masséna, brevi tratti nei quali le motrici vengono alimentate dagli accumulatori installati a bordo che si caricano in itinere. Ma lo spostamento del monumento al nizzardo eroe dei due mondi è stato effettuato con cura e anche buona parte dei contestatori l’hanno accettato. Come gli altri residenti affacciati sul percorso, che, seppur mugugnando un po’, hanno sopportato i disagi di un megacantiere con 1300 tra operai e impiegati, che ha dipanato 50 km di cavi ad alta e bassa tensione, 65.000 km di filo di rame per il telefono, sostituito 30 km di fili coassiali e 20 km di fibre ottiche, spostato 6 km di tubature del gas e 27 km di tubi dell’acqua.Non appena risorto, Lou Trambalan è già celebrato in una canzone, composta in patois nizzardo provenzale da Albert Tosan e cantata durante la cerimonia inaugurale dal coro “Les Voix de Nice”, con la storica banda musicale dei “Sapeurs Pompiers”: “Tre an que Nissa sembl’à ren, coum’una vila en cavamen … Ancuei es fach, es nivelat, lou trambalan, coum’un tavan, s’en ven plan plan, zounzounéant, prouvà au moun-de afarat, que me lou tram, sian toui sauvat…” (“Tre anni che Nizza non somiglia a niente, se non a una città perforata … Oggi è finita, tutto s’è appianato. Il tramway, come un insetto, avanza lentamente ronzando, provando al mondo indaf-farato che con il tram noi siamo tutti salvi …”).

Coro e banda chiudevano la cerimonia intonando l’inno “Vivà, vivà, Nissà la bela”, cantata da tutti, sul palco e in piazza. E, mentre gli invitati si avviavano tra due ali di folla a salire sul tram per il viaggio inaugurale di ritorno, risuonava la corale maestosità del “Va’ pensiero”, un omaggio alle origini italiane della città e, nel contempo, un tocco di spirito europeo, simbolicamente affidato alle note immortali di Giuseppe Verdi, che in Italia di questi tempi associamo alla réclame dei kinder cantata da Zucchero. Il tempo di arrivare al ricevimento allestito a Las Planas, poi le vetture cominciavano a circolare nei due sensi, prese d’assalto da una folla disciplinata, multicolore com’è ormai la popolazione nizzarda, ansiosa di assaporare la novità. Facilissimo salire in carrozza: il predellino è all’altezza del trottoir, come nelle ferrovie inglesi e in metropolitana. A tal fine, le rotaie, che scorrono anch’esse radenti il suolo,

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alle fermate sono incassate di due spanne, per poi “risalire” subito dopo. Così che il sedime su cui corrono le vetture (si fa per dire, dato che la velocità è di appena 18 kmh, cinque in più di quella del vecchio trambalan) non è protetto da barriere e può essere tranquillamente percorso dai pedoni. In particolare nelle “zones piétonnes” come Place Masséna, si nota una perfetta integrazione e osmosi tra i diversi mezzi di locomozione consentiti in loco: piedi, bici, roller e tram, da far percepire quest’ultimo “naturale” come lo sono o sono divenuti gli altri tre. Il panorama della piazza centrale corrisponde alle immagini simulate sui grandi tabelloni illustrativi esposti a lavori in corso. In genere non è mai così. La realtà smentisce ogni volta gli idilliaci disegni degli architetti, mostrati per convincerci a comprare un appartamento: molto accattivanti, soprattutto nella rappresentazione dell’ambiente, con alberi verdi o addirittura

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fioriti, poco traffico anche se l’alloggio s’affaccia su una strada a grande scorrimento, silhouette di gente in salute che va e viene ben agghindata, coppie a braccetto, tranquille e serene. Invece, per numerosi tratti del percorso del tram nizzardo, la nuova realtà non si discosta troppo dalla fantasia progettuale e in place Masséna pare di vivere in una cartolina di fine Ottocento. Come già accennato, l’estrema silenziosità delle vetture, che annunciano molto flebilmente ai pedoni il loro passaggio, potrebbe rappresentare un pericolo. Ma l’esperienza ormai pluriennale di Grenoble, Strasburgo, Bordeaux e altre città francesi ed europee che hanno adottato lo stesso sistema, dimostra che sono molto rari gli incidenti e, viceversa, significativi i vantaggi derivanti dal minore inquinamento acustico.

Per salire sul tram bisogna munirsi del biglietto nei punti vendita o alle macchinette automatiche posizionate a ogni fermata. Un biglietto di corsa semplice, valido 74 minuti per viaggiare anche sui bus urbani, costa 1,30 euro. Ma vi sono varie possibilità di risparmiare, come l’abbonamento a dieci viaggi per 10 euro, il pass valido un giorno intero per 4 euro, quello di sette giorni per 15 euro. C’è poi il biglietto di andata e ritorno da 2,60 euro acquistabile nei tre “Parcazur”, che dà diritto anche a posteggiare gratis il proprio automezzo. Il maggiore di quei parking, da 750 posti auto, si trova al capolinea “Las Planas”, gli altri due, in funzione dal 2008, al capolinea opposto “Pont Michel” (260 posti) e alla fermata “Saint Jean d’Angély” (150). Dove si parcheggia, si acquista il biglietto aller-retour, si usano tram e autobus per girare in città e, al ritorno, esibendo il ticket si esce dal parking senza pagare più nulla.Le vetture circolano 21 ore su 24. Le prime partono da Las Planas alle 4,25 e da Pont Michel alle 5,10, alla sera le ultime lasciano Las Planas alle 0,45 e Pont Michel alle 1,26. Impiegano in media un quarto d’ora a raggiungere Place Masséna dal capolinea nord e poi un altro quarto d’ora per arrivare al capolinea orientale. Nelle ore di punta i 20 convogli a disposizione, climatizzati e capaci di trasportare fino a 200 passeggeri (54 seduti), transitano davanti a ogni fermata ogni quattro minuti, normalmente ogni otto. Per una ricognizione turistica del percorso tramviario è consigliabile effettuare almeno due viaggi, uno diurno e l’altro notturno, per poter ammirare appieno le opere d’arte, spesso luminose, dislocate sul percorso e realizzate da 15 artisti internazionali coinvolti nel progetto “L’Art dans la Ville avec le Tramway Nice Côte d’Azur”. Al capolinea Las Planas, quand’è buio, si può ammirare il “Disque solaire” di Ange Leccia.

Il parcheggio annesso, che funge anche da deposito delle “rames”, è dotato di una gran terrazza dalla quale si ammira il panorama cittadino fino al mare. E’ molto comodo da raggiungere uscendo al casello autostradale Nice Nord e, parcheggiata l’auto, si sale sul tram. Prima fermata a “Comte de Falicon”, zona nella quale le autovetture possono ancora circolare ma su dei percosi obbligati: una corsia per salire e una per scendere. Il resto del sedime stradale è lasciato ai pedoni e agli spazi verdi, la cui superficie è aumentata lungo tutto il percorso, con a dimora un numero di piante molto superiore rispetto a quelle esistenti prima. Naturalmente ora appaiono ancora piccole e avviluppate nelle “protesi” utili a tenerle in piedi, ma nel giro d’un paio d’anni cambieranno il volto di numerose avenues. Alla fermata n.3, “Le Ray”, la piazza Fontaine du Temple, completamente rimessa a nuovo, al mattino accoglie il tradizionale mercato e dal pomeriggio è riservata ai pedoni. Alla successiva, “Gorbella”, i binari si separano momentaneamente: quello discendente corre lungo rue Puget, quello ascendente lungo la rue du Soleil, ambedue contornate da suggestivi filari di aranci e melangoli. Si ricongiungono alla fermata successiva, “Valrose Université”, dove comincia la prima vera isola pedonale che prosegue poi fino a place Général De Gaulle. Volto nuovo anche per la square Doyen Lépine, ora un magnifico spazio verde frequentato dagli studenti delle facoltà, con l’arredo urbano in anelli dialluminio e perle di vetro, opera di Jean-Michel Othoniel. Da Valrose si prosegue lungo la storica avénue Borriglione, rinata dopo le tribolazioni inflitte dal cantiere: si può scendere alla fermata omonima, la n.6. Alla successiva, “Liberation”, ci si imbarca per transitare sull’avenue Malausséna, con il tradizionale mercato che ora si sviluppa su spazi attrezzati appositamente e, fino alla rue Vernier, i pedoni la fanno da padroni. Intanto, man mano che ci si avvicina al centro, le pensiline e le rames sono sempre più affollate di viaggiatori, non solo nelle ore di punta. L’ottava fermata, “Gare Thiers”, è in corrispondenza della stazione ferroviaria e la notte si può ammirare la colorazione “blue klein” ideata da Gunda Förster per il ponte sullo chemin de fer (un altro simile si vede dalla route de Turin). E così il tram entra nell’arteria principale, avenue Jean Médecin, riemersa come una farfalla dal bozzolo dei cantieri che l’avviluppava. In quella che ormai era diventata un’arteria molto trafficata, le auto sono ora costrette a percorrere lentamente una corsia per senso di marcia, con pedoni, ciclisti, pattinatori e, naturalmente il tram, in posizione dominante.

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Anche i palazzi si stanno ristrutturando e rinnovano il colore. I residenti hanno scelto di mettere a dimora essenze di tiglio argentato sui marciapiedi in basalto. E nel tratto che sfocia in place Masséna, la rue diventa “toute-piéton”, come quella grande piazza simbolo della città, attraversata soltanto più da due nastri di scorri-mento veicolare in direzione della Proménade. Il nuovo look di Masséna è quello che meglio interpreta il cambiamento di stile che si intende imprimere alla città. Le rames scorrono al centro, tra i pedoni che passeggiano sulla nuova pavimentazione a rombi bianchi e neri e sotto le vecchie e nuove essenze arboree distribuite a volontà. I lampioni si alternano alle sette sculture aeree colorate di Jaume Plensa “Conversation à Nice”: allegoria del dialogo tra i sette continenti. In prossimità della fontana, il tram svolta a sinistra, avviandosi all’undicesima fermata, “Opera vieille-ville”, la più vicina al mare. Siamo ormai in piena Vieux Nice e la fermata “Cathédrale”, poco lontano dalla Porte Fausse rivisitata dalla scultore Sarkis, rappresenta anche la “corréspondence” con la stazione degli autobus. Poco lontano la fermata “Garibaldi” dove la piazza è quasi irriconoscibile, così ripulita e senza traffico, con la statua dell’Eroe come ideale ponte tra le sue due prime patrie, cui la sua generosità ne aggiunse infinite altre, di qua e di là dell’Atlantico.

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Cultura in Galleria non è solo il titolo di una rassegna in cui si presentano libri, novità editoriali, prevalentemente di saggistica, con i migliori autori di filosofia e letteratura. Cultura in Galleria è certamente anche questo programma, in larga parte di successo e ormai al settimo anno. Ma non è solo questo. Perché rappresenta una presenza più alta: la nostra aspettativa di sapere. Inevitabilmente insoddisfatta. Ma anche inevitabilmente attesa.Cultura in Galleria è un omaggio alla lettura che individua nel libro il luogo della produzionedella metafora. È perciò una rassegna che assegna alla parola scritta e orale il potere di trasportare un contenuto da una parte all’altra. Dalla memoria all’immaginazione.

Garibaldi guarda il tram andare su e giù per l’avénue de la République, tornata quasi come ai suoi tempi: senza macchine e con le facciate colorate dei palazzi liberate dalla patina di grigiofumo. La fermata al centro della avénue de la République si chiama “Acropolis”, dalla quale si prosegue per la quindicesima, “Palais des Expositions”, con le palme e gli aceri della place de l’Armée du Rhin. Seguono poi route de Turin, la fermata “Vauban” e la diciassettesima, “Saint-Jean d’Angely”, detta la “mail des universités”, dove fra non molto aprirà uno dei tre “Parcazur” convenzionati. Da “Saint Roch” il tram scorre su un tappeto verde di 5.000 mq, che in boulevard Virgile Barel ben contrasta con i colori delle pitture monumentali che Michael Craig Martin ha tracciato sulle facciate dei palazzi. La fermata Sain-Charles è al centro di una vasta area di 50 ettari fitta di club sportivi e scuole. Quindi si giunge al capolinea, la fermata n.21, “Pont Michel”, a due passi dall’ospedale “Pasteur”. Almeno una volta è bene arrivarci di notte, per ammirare le tre palme opalescenti giganti create da Jacques Vieille. La “ligne 1” si ferma qui, ma “ce n’est pas qu’un debut” ed è in progetto di farla proseguire fino a La Trinité. Però, non prima del 2025. Ora, dice il sindaco, “la città ha bisogno di respirare per un paio d’anni”, poi apriranno i cantieri della “ligne2”: dieci chilometri per andare, paralle-lamente alla Proménade des Anglais, dal centro cittadino all’aeroporto “Côte d’Azur”. Opera che si vorrebbe ultimare nel 2015. Quando, a un passeggero del volo F329 per New York, in arrivo con il tram dalla stazione ferroviaria, parrà di decollare con il suo trambalan.

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CULTURA IN GALLERIA

Cultura in Galleria è una rassegna in cui, la domenica mattina, a Milano, presso la libreria Rizzoli, in Galleria Vittorio Emanuele, si presentano libri e novità editoriali, con i migliori autori di filosofia e letteratura. Ma non è solo questo, perché rappresenta una presenza più alta: la nostra aspettativa di sapere. Una sorta di “messa laica” in cui si annuncia la possibilità di proteggersi da un tempo troppo spesso grigio e banale.Cultura in Galleria si svolge con il sostegno della Banca Regionale Europea.

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E il potere della cultura in questa rassegna diviene la capacità di compiere perfino il viaggio opposto: dall’immaginazione alla memoria.Del resto, Cultura in Galleria non è - come si è già detto - solo un titolo ma è anche un titolo. D’onore. Perché tutela e promuove il valore e l’immagine della Galleria Vittorio Emanuele di Milano attraverso l’impegno della partecipazione a eventi tra di loro concatenati. Eventi che si offrono in un luogo simbolico in cui raccogliersi in un giorno non qualsiasi, regolarmente, tradizionalmente, la domenica, intorno a una sorta di “messa laica” in cui si annuncia la possibilità di proteggersi da un tempo troppo spesso banale, grigio, non privo del rischio di omologazione di interessi e valori facili. Troppo facili. La presentazione dei libri, infatti, mette in gioco ben altro. Non si tratta della semplice novità editoriale di questo o quello autore di successo. La posta in palio è il senso dell’ascolto, di un’attenzione attenta a fruire la cultura come scommessa, come sfida lanciata alla propria coscienza. I lettori sotto questo profilo divengono quanto auspicato da Joseph Conrad quando afferma che un libro è scritto a metà dall’autore e l’altra metà dal lettore. Perché, per continuare il gioco dei rimandi e dei richiami, attraverso le citazioni sempre ci sovvengono le parole di Jorge Luis Borges: “Chiuso un libro il testo continua a crescere e si ramifica presso la coscienza del lettore. Questa vita è la vera vita del libro”.Questa vita è anche la vita del lettore. Non di meno Cultura in Galleria si pone come progetto teso a stabilire una relazione tra i testi e i contesti in cui essi sono sorti. Perché ogni libro ha pagine visibili e pagine invisibili. Sono quelle che seguono parallele il nostro destino e raccontano di noi come protagonisti inconsapevoli di una letteratura intesa come incessante oltrepassamento della realtà in nome e per conto dei sogni. Dove la parola diviene gesto sonoro, la letteratura appare come ascolto altro, spazio notturno in cui si odono il canto di uccelli scomparsi. Forse mai esistiti, eppure non per questo meno meravigliosi. Perché la letteratura ci insegna che là nel mondo vi è dell’altro e ci trasmette questo insegnamento attraverso un movimento esotico per il quale con le parole possiamo dire cose segrete che neppure esse stesse sanno di custodire.

Come ha scritto Samuel Beckett: “È tutta una questione di voci. Quello che accade sono delle parole”. E ogni domenica mattina per chiunque accede in Galleria, nella storica libreria Rizzoli, vi è uno spazio in cui si può scavare qualcosa che vada oltre alla superficie del mero presente per cogliere un canale di comunicazione con un tempo altro. Per mettere in luce ciò che è in ombra della parola: la poesia.Eppure questa parola-poesia non appartiene solo alla letteratura perché in Cultura in Galleria i codici sono aboliti e così, di conseguenza, i generi e i confini. È la filosofia, il suo approccio, in realtà il filo d’oro che annoda i libri che si presentano intorno all’albero del sapere alla ricerca di una tensione che scuota la natura (dell’uomo) al fine di avvicinarla alla cultura come capacità di gioire della propria inquietudine, di scoprire una storia etica sullo sfondo della propria irrequietezza.Cultura in Galleria è dunque a suo modo un tentativo estetico: l’arte di recensire libri dispiegando il potente effetto dell’evento che sempre si nasconde tra le pieghe delle parole. Recensire significa in questa prospettiva recensire. Censire di nuovo, controllare, verificare, di più: riconoscere e autorizzare che qualcuno e qualcosa c’è, che esiste per conto di un nome. Perché il libro è il migliore amico dell’uomo.Così recensire vuol dire allargare e approfondire ciò che è contenuto nell’atto stesso della recensione: il paradosso della lettura. Perché noi non leggiamo con gli occhi, ma con le orecchie. Non è l’organo della vista (esteriore), bensì quello dell’udito (interiore) che ci fa “sentire” una voce dentro di noi che appare del tutto simile alla nostra e che, tuttavia, racconta qualcosa di inaudito. E di indicibile. Recensire un libro significa quindi ruotare intorno al rapporto tra l’io che scrive e l’io che legge fornendo loro un testo visivo in cui vince chi dei due ascolta meglio l’altro, si piega verso una buona infinità.Comprensibile ora l’aforisma di Elias Canetti. Ispira trasversalmente tutta la rassegna: “Solo uno stolto lettore può pensare che un libro letto venti anni prima abbia ancora al suo interno le stesse cose”.

Quando leggere è sfogliare esperienze.

Storia del pensiero occidentale. Euclide

Abitare la distanza

Rovesciare il Sessantotto

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A sinistra: Vincenzo De Barberis, Natività, 1534

A destra: Ancona dei Magi, particolare del sogno dei Magi, 1347

Sul coperchio di un sarcofago romano che risale al IV secolo, nella basilica milanese di Sant’ Ambrogio, è scolpita la figura di un bambino in fasce, posto con semplicità fra un bue e un asino. È una delle più antiche rappresentazioni della Natività. La scena, tra le più importanti, misteriose e coinvolgenti della Cristianità, così essenziale nei Vangeli e in opere tardo-antiche, si svilupperà e si manifesterà con pienezza figurativa nella storia dell’arte dei secoli successivi. In chiese e musei, a Milano e in Lombardia,

NATIVITÀ E PRESEPINELL’ARTE E NELLA TRADIZIONEA MILANO E IN LOMBARDIA

possiamo trovare un prezioso repertorio di affreschi, dipinti, sculture, bassorilievi e altri capolavori in cui risaltano, per una speciale bellezza, i valori simbolici ed espressivi di episodi della Natività come l’Adorazione del Bambino, l’Adorazione dei pastori e l’Adorazione dei Magi. In questo libro si vuole offrire un ricco itinerario di riflessioni che possano entrare in diretto contatto con la sequenza delle immagini: dai marmi romani, agli splendori del Rinascimento, alle opere dei maestri del Seicento e del Settecento. Ogni immagine è stata scelta per la sua storia e perchè riesce a comunicare, con una particolare intensità, le emozioni che questo tema suscita. E la luce della scena della Natività, nei suoi valori universali di gioia e di speranza, che emoziona e traspare, a livelli differenti, da tutte le opere. Studi, ricerche, note di approfondimento sono raccolti e suddivisi nel volume in quattro capitoli: dopo alcune riflessioni introduttive, si apre una breve storia dell’immagine del presepe nelle sue vicende lombarde, seguita da un’accurata e approfondita ricerca - frutto della collaborazione di molti studiosi - dedicata alla Natività nella storia dell’arte lombarda (dal tardo-antico all’Ottocento); infine, nell’ultimo capitolo, una rassegna di presepi-natività contemporanei, tra artisti, artigiani, presepisti e collezionisti, a Milano o in Lombardia. Dall’arte alle tradizioni.

Con il presepe, il tema della Natività entra nella dimensione domestica e si trasforma in una consuetudine familiare. Sembra tornare dalla memoria come l’affermazione di un’infanzia senza età e sempre viva, che si ripresenta e si rinnova ogni anno. Un’infanzia i cui lunghi inverni sono rischiarati e riscaldati da una giornata completamente diversa, che regala la possibilità

di realizzare lo spettacolo di una storia lontana nel tempo. Infatti, una volta l’anno l’allestimento del presepe fa tornare bambini anche gli adulti, nel costruire, spesso proprio con e per i ragazzi, il paesaggio umano del Natale. Le statuine, gli animali, gli sfondi campestri, gli angeli e la cometa tra le stelle diventano elementi di una rap-presentazione universale di amore, di stupore, di pace e di serenità, di doni portati con generosità verso il futuro.

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Sopra: presepe bergamasco in terracotta smaltata, XVIII secolo

A sinistra: Francesco Londonio, statuine di presepe, XVIII secolo

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“Quella notte si è stesa sul mondo come milioni di altre notti, eppure ha diviso per sempre il tempo in prima e dopo Cristo”. Questa considerazione di un racconto natalizio di Piero Chiara, scrittore di forte impronta lombarda, potrebbe essere una solenne epigrafe sul portale d’ingresso di questo libro, che è simile a una galleria di immagini e di rappresentazioni. Sì, quella notte che è, tra l’altro, di difficile determinazione cronologica, non ha solo creato il calendario prevalente oggi nel mondo, ma è stata anche una sorta di arsenale iconografico a cui sono ricorsi nei secoli gli artisti di tutto l’Occidente.

La scena della Natività con tutto il suo apparato di figure, di emozioni e di paesaggi, il confluire dei pastori stupiti che avanzano verso quella grotta e quel Bambino appena nato, l’Adorazione solenne dei Magi col loro insieme sontuoso di doni costituiscono, infatti, per l’arte un vero e proprio alfabeto colorato della vita, della fede, della fiducia, dell’avvio di una storia segnata dalla pace tra Dio e l’umanità e degli uomini tra loro. Anche la nostra regione, come tutte le altre d’Italia, ha attinto a quel caleidoscopio di scene evangeliche e le pagine che ora si aprono davanti a noi ne sono un’attestazione vivace e affascinante. Il capolavoro sta accanto alla dolce testimonianza popolare, il potente bassorilievo marmoreo di basiliche come Sant’Ambrogio e Sant’Eustorgio si accosta alla intensa rappresentazione di molte tele che ornano chiese milanesi come quelle di Sant’Antonio o di Sant’Alessandro, il tenero presepe ligneo di San Nazaro lascia spazio anche alla molteplice e originale presenza di soggetti natalizi analoghi dei musei milanesi, la miniatura s’incrocia col cesello dell’oreficeria e così via. Ecco perchè parlavamo di una galleria, al cui interno si è invitati a procedere un po’ come pellegrini stupiti, perchè l’arte, pur concedendosi tutte le libertà della fantasia e della creatività, ha sempre voluto affidare ai suoi interlocutori colti o semplici un messaggio trascendente, spirituale, esistenziale. Ne erano consapevoli già i pittori senesi del Trecento che nei loro Statuti d’arte dichiaravano: “Noi siamo manifestatori agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede”. In pratica siamo di fronte a Vangeli dell’infanzia di Gesù che, da testo storico, letterario e teologico quali essi sono, si sono trasformati in pietra, in colore, in immagini. Sono un messaggio di luce destinato a tutti, a credenti e ad agnostici, cosÌ che ognuno, come era accaduto ai Magi, segua la sua stella. Essa brilla nonostante il velo di smog che spesso offusca il cielo lombardo non più cosÌ bello, come sperimentava Manzoni. Sfavilla nonostante il moltiplicarsi sguaiato delle luci commerciali e diventa una stella polare dell’ anima che ci fa scoprire una meta e un approdo al nostro vagare. Perché, per usare una nota canzone di Bob Dylan, noi siamo sempre “with Gòd on our side”, “con Dio al nostro fianco”, espressione che è, poi, nient’altro che la traduzione del nome ebraico Emmanuele assegnato simbolicamente al piccolo Gesù nel suo Natale: “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (Matteo 1, 22-23).

UN MESSAGGIO DI LUCE IN CAPOLAVORI E DOLCI TESTIMONIANZE POPOLARI

A sinistra: statuine ottocentesche lombarde di tipo genovese

Sotto: presepe napoletano,XVIII secolo

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Nelle arti figurative il tema della Natività di Gesù e la rappresentazione del presepe propriamente detto, ossia una composizione di figure mobili ambientate in una scenografia, sono da intendersi come due espressioni complementari dell’unico bisogno di fornire consistenza visiva e tangibilità rituale al momento della prima apparizione del Salvatore. Entrambe originano dalla necessità di arricchire di dettagli narrativi le rivelazioni profetiche di Isaia e lo scarno racconto dei Vangeli dell’infanzia di Matteo (2,1-12) e di Luca (2,1-20). Per accentuarne l’aspetto di racconto figurato e sostanziare le immagini di dettagli capaci di attrarre l’attenzione affettuosa e devota, dal Medioevo si attinge anche ai drammi liturgici, ai testi dei Vangeli apocrifi, alla LeBenda Aurea di Jacopo da Varagine, alle Meditationes dello Pseudo Bonaventura e alle Revelationes di Santa Brigida di Svezia. Le figurazioni della Natività, così come quelle del presepe, possiedono inoltre una forte valenza simbolica, che è dimensione della comunicazione teologica e didattica, un linguaggio codificato ormai divenuto difficilmente accessibile alla comune capacità di percezione della sensibilità attuale. Nelle immagini della Natività l’aspetto del simbolo si conserva esplicitamente fino al Settecento, quando la rappresentazione tende a stemperarsi in toni sentimentali, fino a rarefarsi progressivamente nell’arte liturgica, soprattutto nel corso del Novecento. L’atteggiamento devozionale, ovvero l’incontro tra il culto e la spiritualità individuale, invece si conserva con maggior fortuna tutt’oggi nei riguardi del presepio, allestito in via temporanea, ma anche con solennità, nelle chiese cattoliche, giusto per il tempo dell’Avvento e fino all’Epifania. Anche il presepe domestico pare sopravvivere come usanza ancora molto diffusa e accettata con favore. La creatività degli artisti contemporanei facilmente introduce radicali variazioni sul tema abituale, liberamente interpretando il soggetto o espressamente ispirandosi a esperienze del vissuto individuale o sociale del tempo presente. Dino Buzzati non festeggiava il Natale, ma come giornalista e scrittore ne era vivamente interessato; dai suoi molti scritti d’occasione è stata tratta una suggestiva raccolta dal titolo “Il panettone non bastò”. Egli ricorda, nel 1934, di essersi imbattuto in un vecchio manualetto da presepio che raccomandava “nell’adornar la santa scena il rispetto alla dignità degli storici testi”.

NATIVITÀ E PRESEPI NELLA STORIA SACRA E NELLA FORTUNA ARTISTICA

Dall’alto: Andrea Mantegna, Adorazione dei Magi,1464 circa

Stefano da Verona,Adorazione dei Magi,datato 1435

In alto a destra: gruppo di personaggi di un grande presepe in stucco del nord Italia, XVIII secolo

A destra: Bottega degli Embriachi, formelle con scene dell’adorazione dei magi e della natività, inizio XV secolo

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Quanti oggi possono ancora dire di conoscere, non superficialmente, “il sacro racconto” della Natività? Ecco perchè abbiamo segnalato a Roberta Cordani l’ opportunità di divulgarne in modo appropriato la tradizione iconografica, recuperando, con essa, non solo la memoria delle essenziali notizie evangeliche, ma anche l’esuberante tradizione delle narrazioni di corredo. Un’occasione per accostarsi con maggiore consapevolezza all’evento del Natale, sia sotto l’aspetto della conoscenza della storia sacra, sia sotto il profilo della sua straordinaria fortuna artistica, da apprezzarsi almeno nelle testimonianze a noi più prossime. Da tale intento è sortito dunque questo volume, ricco di saggi e di immagini che documentano, con scansioni tematiche e liberi approfondimenti, l’evoluzione

della rappresentazione del Natale, a Milano e in Lombardia, dall’ epoca paleocristiana ai nostri giorni. In realtà l’insieme delle opere proposte include opportunamente, al di là dell’episodio della Natività in senso stretto, il Bambino attorniato da Maria, Giuseppe, l’asino e il bue, anche le sequenze, temporalmente distinte, dell’Adorazione dei pastori e dei Magi, ma ciò corrisponde alla tipologia della scena sacra per come normalmente la intendiamo e testimonia lo svolgersi e il progressivo arricchirsi delle composizioni, conformemente al clima teologico, devozionale e artistico di volta in volta prevalente. Si consideri infatti che il particolare favore umano e affettivo che circonda l’evento risale solo alla opera di San Francesco, attraverso l’esperienza del presepe di Greccio del 1223, in cui si attua una vera scoperta della rivelazione di Dio racchiuso nella immagine del Bambino Gesù, da cui sgorgherà un affiato di fede eccezional-mente partecipativo, destinato a trasferirsi nelle scene presepiali elaborate successivamente.

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È sorprendente, perciò, notare come nelle prime immagini conservatesi in Lombardia, del IV secolo, prevalgano annotazioni figurative marginali, di ridotte proporzioni e iconograficamente molto sintetiche. Nei sarcofagi di Sant’ Ambrogio e di San Celso, il Bambino è in fasce, con lui sono presenti solo l’asino e il bue. Nonostante l’appunto veristico delle fasce da bambino, di cui il piccolo Gesù è accuratamente avvolto secondo l’uso contemporaneo a dimostrare la vera incarnazione del Redentore, prevale qui esclusivamente il segno profetico: “Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende” (Isaia, 1, 3), in cui i Padri della Chiesa vedono il nuovo popolo di Dio come, costituito di asini e buoi inconsapevoli a cui il Salvatore ha aperto gli occhi, sicché ora lo riconoscono nella mangiatoia. L’importanza di questi animali sotto il profilo simbolico è tale da aver imposto l’esclusione dalla scena di qualsiasi altro dato figurativo.

Ammirando i dipinti, le miniature e le opere di arte applicata si riscontrano, pur nella sostanziale fedeltà agli elementi codificati, vistosi cambiamenti incentrati soprattutto sullo speciale rapporto che lega la figura di Maria a quella del Bambino. Dal tipo iconografico più antico, con la Vergine sdraiata e il Bambino giacente nella mangiatoia secondo l’uso bizantino, al modello che esalta la sua umanità come madre che tiene affettuosamente in braccio il figlio; dall’immagine di Maria in contemplazione del frutto del parto virginale secondo la visione di Santa Brigida, al gesto emblematico della Vergine che “sveli” (e insieme rivela al mondo) il piccolo Salvatore splendente di luce sovrannaturale, sollevando, con evidente trasporto emotivo, il lenzuolino che lo copre. È di estremo interesse anche il repertorio delle inserzioni aneddotiche, quasi elementi di genere tratti da fonti diverse, e la loro preferenza in funzione devozionale: il bagnetto del Neonato, o l’asciugatura davanti al fuoco del panno in cui verrà avvolto, incombenza questa affidata, secondo la fantasia dell’ artista o del committente, a una fantesca, a un angelo, o allo stesso San Giuseppe, oppure l’amorevole atto di accudimento consistente nell’ accostarsi al Bambino con un panno immacolato per coprirlo, compiuto talvolta da San Giuseppe, talora da una Santa. Non mancano neppure contaminazioni con iconografie normalmente riferite ad altri soggetti. Ne è esempio eloquente il particolare della fantesca dalla pelle scura nel celebre intaglio lombardo noto come Presepe di Tronano (firme

del XV secolo), la quale, discosta dai personaggi principali, ma ben in vista in primo piano, scalda al fuoco un panno su cui si possono ancora leggere pochi frammenti di una scritta riferibile alla Vergine Maria. Il significato dell’immagine non è chiaro: figura retorica o elemento simbolico,magari riferito alla condizione virginale di Maria secondo il concetto caro alla tradizione antica “Partus et integritas, discordes tempore long, Virginis in gremio Joedera pacis habent”? A questo riguardo non dovrebbe dunque sorprendere che una figura femminile, una levatrice, del tutto simile a quella citata e in una posizione pressoché identica, si ritrovi tra i personaggi che ornano l’imponente struttura lignea del Retablo Mayor della cattedrale di Burgos (1562-1580), ma inserita nello scomparto dedicato alla natività di Maria.

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Sopra: Natività, particolare delle Storie di Maria e di Giuseppe,1562

A sinistra: M. Fontana, Adorazione dei Magi, XIX secolo

Bottega lombarda, altarolo con Natività, 1495 circa

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“Natività e presepi nell’arte e nella tradizione, a Milano e in lombardia”,

Dall’alto: Presepe di Trognano, 1490 circa

Presepe ambientato nella tipica cascina bergamasca

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TECNICA E SENTIMENTO L’ANIMA DELLA PUBBLICITÀ

LA PUBBLICITÀ E LO SPIRITO DEL TEMPO

La pubblicità è una tra le chiavi di lettura che consentono di comprendere il senso di un’epoca e il sistema di valori di una società. La comunicazione, istituzionale e di prodotto, è oggi molto sofisticata e risponde a regole e tecnicalità precise, nella individuazione dei contenuti, del linguaggio e dei media, e tende ad essere sempre meno generica e indiffe-renziata. Parlare agli adolescenti, disabituati ormai e in gran parte alla lettura, richiede una pianificazione centrata sul web, diversa rispetto a quella rivolta alle persone oltre la mezza età, molte delle quali fruiscono passivamente della TV. In un contesto caratterizzato dall’eclisse di punti di riferimento certi, dall’insicurezza nel futuro, dal crescere delle solitudini individuali, la pubblicità assume, senza volerlo, un ruolo improprio di “maître à penser”, proponendo il consumo come principale mezzo di autorealiz-zazione, qui e subito. Al modello greco del “conosci te stesso”, si va sostituendo la tendenza a cercare nell’evasione e nell’altro da sé la soluzione ai problemi esistenziali.

La Provincia di Pavia, con il sostegno della Banca Regionale Europea, ha dedicato una mostra e un catalogo alla pubblicità pavese della prima metà del ‘900. Una rivisitazione dell’advertising dell’età preindustriale, in un affascinante viaggio nel tempo e nella suggestione dell’arte del “affiche”.

Farmacia Cagnola, Vigevano, anni ‘20

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Industrie marmellate e conserve, Voghera, anni ‘50

Confezioni Ravizza, illustratore Boccasile, Pavia, anni ‘50

Industria marmellate e conserve alimentari, illustratore Mazzale, Voghera, anni ‘20

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Ben diversa era la società rurale dell’italia della prima metà del Novecento, in cui il manifesto era il principale, se non l’unico mezzo di comunicazione pubblicitaria. Questa bella pubblicazione ha il merito di rivisitare una epoca della nostra provincia, percorrendo la strada della creatività delI”affiche”. Senso della misura, capacità di autoironia, nitidezza del segno grafico, sono il filo conduttore di una rassegna che ci racconta come eravamo, come sognavamo, quali fossero i desideri delle generazioni che ci hanno preceduto. L’intensità del tratto di Boccasile, la sua capacità di esprimere emozioni e di far passare con immediatezza il messaggio essenziale, appartiene alla storia della comunicazione del nostro Paese, ed esprime una delle culture dell’epoca, fondata su un volontarismo finito in tragedia nazionale.

L’edizione di questa raccolta è idea intelligente e singolare che la BRE è lieta di sostenere, perché contribuisce a capire quali siano i lontani precedenti della pubblicità attuale, molto più avanti nelle tecnicalità, molto più sofisticata nelle pianificazioni, ma spesso con meno anima, meno creatività, più volgarità. D’altra parte, la pubblicità esprime lo spirito del proprio tempo e anche di una certa comunità nel suo contesto territoriale e civile.

Istituto Biochimico Pavese, illustratore Kremos, Pavia, anni ‘30

FAPA Farmaceutica Pavese, Pavia, anni ‘30

Stabilimento Industriale Negri-Minoia, Pavia, anni ‘900

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L’INFANZIA DELLA PUBBLICITÀ

Si sa che la pubblicità è l’anima del commercio. Anche se oggi c’è chi sostiene che la funzione del consumo potrebbe persino prescindere dalla pubblicità; in sostanza: che i biscotti o le bevande siano buone è un accessorio, in un contesto socio culturale mondiale nel quale si acquista per voracità, per soddisfare un bisogno antropologico ormai abbondan-temente interiorizzato. Il sociologo Zygmunt Bauman parla infatti di “homo consumens”, vale a dire di un’epoca nella quale si è compiuto ormai il passaggio dalla società dei produttori alla società dei consumatori. Paradossalmente quindi non ci sarebbe più bisogno neppure di uno specifico veicolo comunicativo al servizio della merce. Detto altrimenti: “la pubblicità è diventata l’anima della pubblicità” (Rita Rutigliano).

Necchi Macchine per cucire, Pavia, anni ‘30 Pasticceria Vigoni, Pavia, anni ‘40

Pellicceria Dellera, illustratore Mapero, Pavia, anni ‘20

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Società Balma, Capoduri Colla Coccoina, Voghera, anni ‘20

Cantina Mario Calvi, illustratore Barbieri, Canneto Pavese, anni ‘50

Conserve alimentari A. Bevilacqua, Miradolo, anni ‘20Marmellate e mostarde Sigalini, illustratore Boccasile, Voghera, anni ‘40

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La riflessione che proponiamo con la piccola mostra e il catalogo che l’accompagna, non a caso intitolata “Tecnica e sentimento”, vuole essere innanzitutto un viaggio nel tempo della pubblicità prima di “Carosello” e del successivo diluvio di spot: vere e proprie meteoriti, lanciate quotidianamente, a tutte le ore, attraverso il sistema globale delle comuni-cazioni di massa. Nella prima metà del secolo scorso un mondo mercantile ancora familiare ed artigianale, nella nostra provincia (come in tante altre realtà del Paese), cominciava timidamente ad avvalersi di una forma primordiale, “infantile”, di promozione del prodotto. Sfruttando segni e disegni che traevano spunto dalla tradizione figurativa recente e contemporanea (il liberty, il futurismo), utilizzando tipologie narrativo descrittive di semplice ed immediata leggibilità, aziende locali (delle quali poi si sarebbe perso traccia o che altrimenti avrebbero saputo dare continuità alla loro attività e al loro marchio di fabbrica) invadevano, con discrezione pre-industriale, l’immaginario di consumatori alle prime armi, non ancora preda del consumismo a tutti i costi e piuttosto attenti alla qualità della merce esibita e illustrata. Figurine pubblicitarie - le chiamerei - non ancora divenute icone invasive per rappre-sentare monopoli esclusivi: cartoline” di uno scambio, per l’ultima volta, equo e solidale.

Stabilimenti Astro, illustratore Malugani, Garlasco, anni ‘40

Tappeti Staf, illustratore Maga, Mortara, anni ‘40

Formaggi Giovanni Colombo, illustratore Grisani, Pavia, anni ‘30

Vini e spumanti SVIC, Casteggio, anni ‘30

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I Verbali dei governi presieduti da Giolitti documentano il cammino dell’esecutivo verso l’assolvimento del proprio ruolo: più ampio e incisivo proprio in coincidenza con l’ampliamento della partecipazione popolare alla vita politico-amministrativa, segnata dalle riforme elettorali del 1882 e, ancor più, del 1912. Se inizialmente sono gli stessi primi ministri, Francesco Crispi e Giolitti, a sintetizzare le sedute con pochi appunti, che talora mostrano i segni della fretta e fanno trasparire la concitazione delle riunioni, dal governo Zanardelli-Giolitti (1901-1903) emerge la figura del segretario verbalizzante: il più giovane ministro in carica o il sottosegretario alla presidenza (Tancredi Galimberti, Carlo Schanzer, Francesco Saverio Nitti, Giovanni Porzio). I governi dilatano le proprie competenze con disegni di legge rispondenti alla urgenza di conferire alla Nuova Italia il volto della modernità, sull’esempio degli Stati da più tempo esistenti e meglio organizzati. Il punto di arrivo delle grandi riforme può essere individuato nell’avocazione (inattuata) al Parlamento governo del controllo della politica estera (e militare), nell’obbligo dell’istruzione (altra cosa dall’istruzione elementare obbligatoria) e nella definizione della “cittadinanza”.Tale impresa impegnò le energie di eccellenti uffici ministeriali e di una rappresentanza politica (parte elettiva parte di nomina regia) che mirò a “fare l’Italia”, a costruire lo Stato, per poi “fare gli italiani”.

La storiografia sull’Italia dall’unità a oggi segna ritardi, dovuti in parte alla crisi dell’Università quale fulcro di ricerca, parte alla tardiva perce-zione della marginalità di temi e interrogativi sui quali gli studi si sono attardati dal dopoguerra in poi. Il declino degli studi universitari quali protagonisti della storiografia divenne palese sin dalla pubblicazione della Storia d’Italia diretta da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti per la Casa Einaudi e da quella curata da Giuseppe Galasso per la Utet. Molto altro poi avvenne nella vita pubblica durante il trentennio seguente: i lunghi dibattiti sulla riforma della Costituzione, il declino e l’eclissi di tutti i partiti un tempo formanti il Comitato centrale di liberazione nazionale e presenti dall’Assemblea Costituente agli Anni Novanta dello scorso secolo, la ridotta rappresentatività dei sindacati confederali, i mutamenti profondi introdotti in Italia dalla sua inclusione nell’Unione europea e dalla immigrazione di extracomunitari (anche clandestini)... Mentre la generalità dei cittadini ha preso coscienza di tali cambiamenti, tanta parte della storiografia accademica ha continuato a occuparsi di temi arcaici. Il ritardo si è ripercosso sulla sterilità della risposta data alle sollecitazioni recentemente impresse anche da poteri istituzionali a riscoprire e a proporre figure un tempo centrali per la storiografia italiana. Il centenario di Giuseppe Mazzini è trascorso senza risultati scientificamente innovativi; lo stesso sta accadendo per il bicentenario della nascita di Garibaldi; pochissimo si è fatto per quello di Carducci (*) e ora il 60° della Carta costituzionale pone in primo luogo l’interrogativo su quale sia il testo vigente e se la Costituzione basti da sola a garantire il corretto equilibrio tra i poteri istituzionali.

In tale scenario - segnato dalla repentina eclissi dell’interesse dei giovani, anni addietro vivacissimo, per lo studio della storia contemporanea - giova tornare alle fonti per verificare se la lettura del percorso storico prevalsa per decenni fosse o meno corretta. A tale scopo ha preso corpo l’accordo tra il Centro europeo “Giovanni Giolitti” per lo studio dello Stato (Dronero) e l’Archivio Centrale dello Stato d’intesa con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e il contributo dell’Asso-

IL GRANDE GIOLITTI PER LA GRANDE ITALIA NUOVE FONTI PER LA STORIA DELL’ITALIA CONTEMPORANEA

I Governi Giolitti,1892-1921,

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ciazione di studi sul Saluzzese: la pubblicazione dei verbali dei governi presieduti da Giovanni Giolitti fra il 1892 e il 1921, l’esplorazione della preparazione delle leggi e una nuova edizione del carteggio tra Giolitti e gli uomini politici della età che da lui prese nome.

Ottant’anni dopo la fine della grande guerra e dell’acquisizione all’Italia di Trieste e l’Istria e di Trento, Bolzano (con confine al Brennero) – regioni annesse in forza del Trattato di pace di Saint-Germain, senza alcun plebiscito confermativo, a differenza di quanto era avvenuto fra il 1848 e il 1870 per tutti gli Stati italiani preunitari - torna al centro dell’attenzione anche la posizione di Giolitti e dei fautori del neutralismo condizionato all’indomani della conflagrazione europea, poi degenerata nella prima delle due guerre mondiali, l’una all’altra strettamente concatenate in un’unica nuova “guerra dei trent’anni”, le cui conseguenze oggi meglio vediamo. E torna quindi attuale riscoprire le riflessioni che affollavano la mente di Giolitti tra il 1907 e le guerre balcaniche che fra il 1912 e il 1914 prelusero alla “grande guerra”.

Lo scenario è quello del Vecchio Piemonte. Chi percorra le strade che collegano i borghi tra Pinerolo e l’altopiano di Cuneo, tra le valli saluzzesi e le Langhe fiancheggia cascine, casolari, ville ora opulente ora modeste ma sempre linde e orgogliose di un po’ di verde, alberi, siepi, fiori, un orticello... Recano i segni del lavoro. Sono il frutto di generazioni e generazioni di persone che hanno faticato risparmiando e concedendosi di anno in anno qualche po’ di conforto in più. È il mondo che Giovanni Giolitti scrutava dall’alto della Rocca di Cavour. Da quella sommità coglieva ogni volta una lezione di grande storia, poi enunciata nei grandi discorsi del 1911: al Vittoriano, in Roma, per il cinquantenario del mezzo secolo di unificazione nazionale e al Teatro Regio di Torino per la stessa occasione, ma con preminente riferimento all’“impresa di Libia”. I campi arati, i frutteti bene ordinati, le stalle, il bestiame al pascolo erano il punto di arrivo di una vicenda che risaliva alle popolazioni preromane e alla colonizzazione, alla lenta ricostruzione dopo invasioni e scorrerie, alle bonifiche avviate dagli ordini religiosi e, dopo altri secoli, vigorosamente accelerate a metà Ottocento....Nel 1915 Giolitti, il grande statista che elevò l’Italia a Paese rispettato nel mondo, fece del suo meglio per scongiurare l’intervento dell’Italia nella grande guerra: 620.000 morti, oltre un milione di feriti, lo sconquasso della guerra civile non ancora del tutto superata. Giolitti sapeva che v’è rimedio a tutto tranne che a una grande guerra. Quando venne l’ora delle grandi scelte egli rimase pressoché solo. Il governo non gli garantì l’incolumità personale contro possibili attentati di interventisti pazzoidi e prezzolati. Fu il primo fallimento dello Stato di diritto. Giolitti si ritirò a Cavour, presago del peggio, della ineluttabile crisi dei valori affermatisi tra rivoluzione francese ed età della borghesia. Quel mondo egli dichiarò al consiglio provinciale di Cuneo e poi nel discorso elettorale del 12 ottobre 1919 e ancora alla Camera e in tante lettere, era ormai definitivamente superato.Sospinta da grandi interessi, aggrumati anche nel “Corriere della Sera”, al quale collaborava il liberale ma antigiolittiano Luigi Einaudi, nell’aprile-maggio 1915 si precipitò nella fornace e ancora vi rimane. In un Paese sempre lacerato tra partiti e contrasti artificiosi, la faida tra liberali ne generò altre. Perciò si smarrì la coscienza delle priorità. Il particolare (e quindi i partiti,i sindacati, le corporazioni...) prevalse sull’uni-versale; il collettivismo ebbe la meglio sui diritti individuali.

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Quella tragica storia è documentata nei verbali, sinora inediti, dei Consigli dei ministri. Essi documentano che in pochi anni l’Italia passò da Paese agricolo a potenza industriale, da landa di miseri analfabeti a Stato scientificamente alla avanguardia, dalla fame a un minimo di benessere. Come? Grazie a ordine pubblico, forze armate e progresso nell’istruzione di ogni ordine e grado: con immediati benefici per sanità, igiene pubblica, comunicazioni, trasporti, agricoltura, poste e telegrafi,... Il governo dell’epoca operò sulla base di un principio elementare: i soldi a disposizione di Stato e amministrazioni locali arrivano dai cittadini. È quindi non solo inutile ma ridicolo che governo, province e comuni (all’epoca non c’erano le regioni, men che meno quelle a statuto speciale, che da sessant’anni han frantumato l’unità nazionale, e le province erano il 70% delle attuali) cerchino di strapparsi a vicenda quattrini che hanno una sola fonte e un unico destinatario: gli italiani.Quell’Italia era e si sentiva europea. Lo era sempre stata, del resto. La corona e il governo avevano solide relazioni con Stati di tutti i continenti, dalle Americhe a Cina e Giappone. Nell’ottobre 1909 lo zar di Russia fu ospite nel Castello di Racconigi. Il repertorio dei Cavalieri dell’Ordine della Santissima Annunziata basta da solo a tracciare l’atlante dei rapporti correnti tra Roma e i diversi sovrani degli spazi mediter-ranei e afroasiatici, dalla Persia al Siam, senza preclusioni di sorta.

Dai Verbali, come dalla corposa antologia delle relazioni di accompagnamento dei disegni di legge, emerge altresì che l’Italia di Giolitti (come già di Crispi, Zanardelli, Pelloux, Saracco e poi di Fortis e Luzzatti) era un Paese serio. Annessa la Libia il governo vi proclamò la libertà religiosa per tutti e la fece rispettare. Del resto sin dal 1890 il maggiore Pietro Toselli quando in Eritrea organizzò il villaggio di Nuova Peveragno vi fece allestire una cappella per i militari cattolici e una moschea per gl’islamici. Era l’Italia delle libertà. L’Italia dello Statuto e della piena parificazione dei cittadini a prescindere dalla confessione religiosa professata (posto che ne avessero una). Per essere liberale quell’Italia non aveva bisogno di alzare il vessillo del “laicismo”: un termine, questo, del tutto assente dal lessico di Giovanni Giolitti e del Benedetto Croce che fu ministro della Pubblica istruzione nel quinto e ultimo governo presieduto dallo statista piemontese (1920-1921).La libertà, però, non venne apprezzata da tutti. Anarchici, comunisti e rivoluzionari (c’erano già allora) perseguirono la disgregazione del giovane Stato unitario tramite l’assassinio di Umberto I, scioperi generali, occupazioni delle fabbriche,

interruzioni dei pubblici servizi. Giolitti rispose con fermezza. Favorevole al libero confronto tra le parti sociali, impose sempre l’autorità dello Stato, garante dei diritti e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Tra i suoi avversari ebbe il socialmassimalista Benito Mussolini, tratto in arresto mentre cercava di impedire la partenza di militari per la Tripolitania: un Mussolini che ancora non lasciava presagire il futuro “duce” della guerra d’Etiopia e della proclamazione dell’Impero (1935-36).Giolitti fu osteggiato anche dalla destra clericale, che ai liberali preferiva le pecore smarrite nei pascoli dell’insurrezionismo di sinistra: don Davide Albertario, don Romolo Murri, lo stesso don Luigi Sturzo che nel 1923 la Santa sede allontanò dall’Italia per compiacere Mussolini dopo avergli lasciato briglie sciolte contro l’Italia liberale. Nulla di nuovo sotto il sole. A capirlo furono i cattolici saggi, guidati dai papi Pio X e Benedetto XV, contrari alla guerra esattamente come lo fu Giolitti e favorevoli a intese tacite, all’elezione di cattolici alla Camera senza bisogno di un partito cattolico o “dei” cattolici.

I Verbali dei governi e il panorama dell’attività legislativa indicano il retaggio fondamentale dell’età giolittiana: la definizione di cittadinanza, l’obbligo dell’istruzione, codificata da Benedetto Croce, il trasferimento della politica estera dal binomio Corona-esecutivo al Parlamento, unica vera espressione della sovranità nazionale.

Dopo il crollo del regime fascista e la ricostruzione postbellica Giolitti conobbe una modesta fortuna storiografica, ma nessun vero riconoscimento del suo ruolo di artefice dello Stato e, al tempo stesso, della sua opera per consolidare la pace europea. Il suo disincantato sostegno agli equilibri, contro ideali che ormai erano ideologie (incluso il completamento dell’unificazione politica, da sostituire con l’avvento degli Stati Uniti d’Europa o forme di federazione tra imperi e Stati esistenti) , cozzò contro l’elogio della rivoluzione, tutt’uno con quello della ghigliottina o del terrore che sempre ne costituiscono lo sbocco fatale. Ora lo si può valutare in una luce più ferma e pacata: grazie ai documenti inediti pubblicati dal Centro “Giolitti”.

Prose

di ProsePoesie

Letture del Risorgimento La vita vera: Carducci a Bologna

Io e Carducci,

Carducci: scrittore, politico,massone

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Da quando ha attaccato gli sci di fondo al chiodo (30 maggio 2002) non ha smesso un solo giorno di pensare ai suo sport preferito. Certo, con Davide è diventata mamma di Mathias e Lorenzo, ma - allenamenti e corsette a parte - ha percorso tutta l’Italia e non solo per parlare di antidoping e di Olimpiadi nelle scuole e fra i giovani in genere. Stefania Belmondo, lei è il personaggio sportivo ideale per descrivere che cosa si intende per sport pulito. Ce lo spiega?Volentieri, anche perché ho sempre voluto la lealtà mia e delle avversarie, combattendo contro il doping e ogni forma di inganno. Sì perché il doping lo considero proprio un inganno, contro se stessi, gli avversari e il pubblico. Non smetterò mai di chiedere lo sport pulito. L’ho fatto quando ero ancora in attività. Lo ripeto adesso che (purtroppo, ndr) non gareggio più. Chi bara non è uno sportivo. Qualche tempo fa alcuni personaggi piemontesi di Torino, Fossano e altre città hanno chiesto di legare il mio nome alla loro attività, sono i Volontari Antidoping. Sono stata contentissima.

Che cosa le manca di più dopo aver smesso di sciare a grandissimi livelli?Ho scelto la famiglia e ho fatto bene. Una scelta che ripeterei mille volte. L’amore per i figli, per mio marito e per tutti i miei cari non ha eguali. Certo, talvolta mi capita di pensare alle Olimpiadi, ai Mondiali, alle gare in genere. Comunque ho avuto la soddisfazione e la fortuna di vincere tanto. Ho lasciato da vincente (medaglia d’oro olimpica nel 2002, a 10 anni di distanza dal suo primo oro olimpico, ad Albertville 1992, ndr), non rimpiango nulla. Eppoi talvolta vengo chiamata in televisione per commentare le gare internazionali e mi diverto molto.

Lei è stata ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Torino 2006. Una grande e meritata soddisfazione al termine di una carriera stupenda. Ci racconta quell’emozione?Ho vinto tanto, ma sfilare con la torcia olimpica nello stadio di Torino mi ha riportato indietro a tutte le emozioni più belle che ho vissuto da atleta. È stato (quasi) come rivincere tante medaglie d’oro. Un’emozione grande. Fortissima.Grazie a chi me l’ha regalata, e so che tanti tifosi mi hanno voluta.

Stefania, ha abbandonato lo sci?Sicuramente no, non potrei proprio. Sono praticamente nata sugli sci di fondo, mio padre me li fece provare da bambina. È vero che adesso non gareggio più, ma amo sempre sciare. Inoltre, uno dei miei sogni più grandi è insegnare questoquesto magnifico sport ai bambini. A tanti bambini. Spero prima o poi di poterlo fare.

STEFANIA BELMONDO,UNA VITA PER LO SPORT PULITO

La rivista YoUbi, edita dal Gruppo UBI Banca e destinata al personale, ha presentato, per ciascuna delle banche rete, un cliente di alto profilo. La Banca Regionale Europea ha scelto Stefania Belmondo, amatissima campionessa e per anni suo testimonial. “Ho scelto la famiglia e ho fatto bene. Amo sempre sciare: uno dei miei sogni più grandi è insegnare questo magnifico sport ai bambini”.

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Trento, Macerata, Piacenza, Milano, Treviso sono solamente alcune delle squadre, tra le più blasonate, con cui la Bre Banca Lannutti ha avuto la meglio nella prima parte del Campionato Italiano di volley. La scelta maturata in estate dal presidente Valter Lannutti, e perseguita dal suo staff, mirava a rinnovare la squadra inserendo atleti talentuosi e tecnicamente dotati, ma con nomi meno noti di altri impegnati nella Serie A1. Il campo ha dimostrato da subito, con ottimi risultati ed una posizione sempre ai vertici della classifica, che si è trattato di una mossa vincente smentendo, così, i meno fiduciosi.Sicuramente a rendere possibile questo progetto hanno dato un contributo essenziale l’esperienza e la professionalità di Silvano Prandi, coadiuvato dal suo vice Camillo Placì, che ha sapientemente sfruttato al massimo il vantaggio di avere il gruppo al completo sin dai primi allenamenti di agosto, programmando una tabella di marcia intensa ed impegnativa che ha consentito a tutti di arrivare al meglio al debutto.La Bre Banca Lannutti ha “girato” al massimo dalla prima giornata di gara lanciando al pubblico

il messaggio che stava iniziando un’altra stagione interessante, la risposta è stata immediata con una campagna abbonamenti che ha portato risultati importanti e cifre che hanno riconfermato Cuneo tra le città che più amano il volley.Parlando dei protagonisti, l’ormai cuneese Wout Wijsmans continua a regalare al pubblico grandi soddisfazioni per la grinta e l’impegno che dimostra in campo mettendo in difficoltà la ricezione avversaria con battute imprendibili e potenti attacchi, meritandosi appieno il ruolo di capitano che gli è stato assegnato. ”Naturalmente sono molto soddisfatto per come siano andate le prima gare, però dobbiamo tenere presente che la stagione è ancora lunga. - commenta Wijsmans - Penso che sarà solo dopo la seconda pausa, quella di gennaio, che si faranno i giochi, noi avremo nuovamente l’opportunità di lavorare al completo per essere pronti ad affrontare gare determinanti. Rimanere in testa alla classifica sarà sempre più dura e dovremo concentrarci per sfidare squadre che con l’inizio dell’anno non avranno più distrazioni e allora l’attenzione sarà tutta sul campionato.”

TEMPO DI GRANDE VOLLEYLA BRE BANCA LANUTTI AI VERTICI DELLA CLASSIFICA DEL CAMPIONATO DI SERIE A1

La scelta di puntare su giovani e su nomi nuovi, accanto a campioni affermati, quali Wout Weijsman, si è confermata vincente. La squadra di Silvano Prandi è impegnata nella Champions League e si prepara alle sfide dei play-off.

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Da sinistra in piedi: 1° Allenatore Silvano Prandi, Renato Felizardo, Francesco Fortunato, Manius Abbadi, Valerio Curti, Michal Lasko, Wout Wijsmans, Mattia Rosso, 2° Allenatore Camillo Placi’Da sinistra in ginocchio: Marlon Muraguti, Simone Parodi, Daniele Vergnaghi, Andrea Battilotti, Javier Gonzalez

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Cuneo ancora una volta ha avuto fiuto: il club, gli appassionati ed i tifosi hanno avuto la conferma che attendevano dalla regia affidata a Javier Gonzalez, palleggiatore che ha abbandonato Cuba per scegliere questo sport. Gonzalez ha letteralmente impressionato tutti, occupando le pagine della cronaca sportiva per le sue imprese sottorete ma anche per il servizio molto offensivo. “Poter ritornare a giocare ad alto livello per me è stato come rivedere il sole” - ha dichiarato l’alteta - “voglio ripagare questa società per avermi aiutato giocando al massimo”, promessa mantenuta! Ma le sorprese non sono finite e la Bre Banca Lannutti sfodera un altro asso nella manica schierando il giovane schiacciatore ligure Simone Parodi, che si guadagna immediatamente la fiducia di Prandi che non aspetta a lanciarlo nel sestetto titolare, Parodi lo ripaga macinando punti gara dopo gara facendo capire che nulla è lasciato al caso. Ottime prospettive anche per l’altro giovane

cresciuto tra le giovanili cuneesi, Mattia Rosso, che appena ha avuto l’occasione di scendere in campo ha fatto capire che è maturo per le grandi imprese. Il suo sorriso solare ricorda come la pallavolo sia uno sport pulito, lui racconta che “da matricola qualche compito mi tocca, come in trasferta portare la borsa con le maglie da gioco e altri piccoli favori ai compagni di squadra.” I suoi idoli? “Capitan Wijsmans e Miljkovic”, niente male! La Bre Banca Lannutti prosegue il cammino anche in Europa dove è impegnata con la prestigiosissima Indesit European Champions’ League per ritagliarsi un ruolo da protagonista tra i club più forti a livello internazionale. Nel mese di gennaio si concluderà la prima fase e solamente le prime due squadre di ciascun girone proseguiranno la corsa in Coppa. La simpatia di questi ragazzi fa sì che venga spontaneo augurare loro ancora molti successi che facciano vivere al pubblico altre emozioni indimenticabili.

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NOTIZIE DALLA BANCA REGIONALE EUROPEA

I RISULTATI CONSOLIDATIDEL GRUPPO UBI AL 30 SETTEMBRE 2007SCHEMI PRO-FORMA RICLASSIFICATI CONFRONTO CON IL 30 SETTEMBRE 2006

Conferma del buon posizionamento della Banca in relazione alla crisi dei mercati finanziari anche in base alle rilevazioni al 30 settembre 2007

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SERVIZI DI INCASSO E PAGAMENTO: DAL 1º GENNAIO È OPERATIVO IL CODICE IBAN

MIFID, LA NUOVA NORMATIVA EUROPEAPER L’ARMONIZZAZIONE DEI SERVIZI FINANZIARI

Classificazione della clientela

Pluralità di sedi di negoziazione

Best execution

Gestione del conflitto di interessi

Libera concorrenza all’interno dell’Unione Europea

LA BANCA REGIONALE EUROPEA A FIANCO DELLA CONFARTIGIANATO DI CUNEO

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IL CONCERTO DI NATALE IN SAN MICHELE, A PAVIA

UNA SERATA MUSICALE A MILANO CON LA SOCIETÀ DEL QUARTETTO

CAPODANNO AL TEATRO FRASCHINI DI PAVIACON JESUS CHRIST SUPERSTAR

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