rivista di psicologia analitica 1984 (poetica della follia)

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Jung e la letteratura Aldo Carotenuto, Roma La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli ed immagini. Non la si può afferrare in altro modo. Vangelo di Filippo Vorrei fare una premessa che reputo essenziale, prima di affrontare il rapporto fra Jung e la letteratura e, in senso più vasto, la relazione fra arte e psicologia del profondo, la disciplina che si interessa di processi che non hanno a che fare con la situazione cosciente, ma con la sfera psichica meno consapevole, quella sfera « profonda » che definiamo comunemente « inconscio ». Tra la psicologia del profondo e l'arte c'è uno stretto rapporto, ma non nel senso che la prima abbia elaborato delle teorie capaci di interpretare la storia dell'arte o il fenomeno artistico. Fa notare Luigi Russo: « Gli scritti che Freud ha dedicato a taluni problemi e questioni di estetica costituiscono, pur in senso lato, una teoria estetica. Freud tuttavia non fu uno studioso interessato a questa sfera concettuale in modo specialistico ... ossia il suo impegno verso taluni problemi e questioni dì estetica fu intermittente e non sistematico, direttamente vincolato dallo sviluppo della dottrina psicoanalitica e non assoluto, cioè da esso sciolto, libero, auto- sufficiente »(1). Per quanto poi riguarda Jung è degna di interesse una lettera di K. Kerényi: 12 (1) L. Russo, La nascita dell’estetica di Freud, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 7.

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Jung e la letteratura

Aldo Carotenuto, Roma

La verità non è venuta nuda inquesto mondo, ma in simboli edimmagini. Non la si può afferrarein altro modo. Vangelo di Filippo

Vorrei fare una premessa che reputo essenziale, prima diaffrontare il rapporto fra Jung e la letteratura e, in sensopiù vasto, la relazione fra arte e psicologia del profondo, ladisciplina che si interessa di processi che non hanno ache fare con la situazione cosciente, ma con la sferapsichica meno consapevole, quella sfera « profonda » chedefiniamo comunemente « inconscio ».Tra la psicologia del profondo e l'arte c'è uno strettorapporto, ma non nel senso che la prima abbia elaboratodelle teorie capaci di interpretare la storia dell'arte o ilfenomeno artistico. Fa notare Luigi Russo:« Gli scritti che Freud ha dedicato a taluni problemi e questioni di esteticacostituiscono, pur in senso lato, una teoria estetica. Freud tuttavia non fuuno studioso interessato a questa sfera concettuale in modo specialistico... ossia il suo impegno verso taluni problemi e questioni dì estetica fuintermittente e non sistematico, direttamente vincolato dallo sviluppo delladottrina psicoanalitica e non assoluto, cioè da esso sciolto, libero, auto-sufficiente »(1).Per quanto poi riguarda Jung è degna di interesse unalettera di K. Kerényi:

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(1) L. Russo, Lanascita dell’estetica diFreud, Bologna, IlMulino, 1983, p. 7.

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(2) F. Salza, « Jung e l'im-magine », Rivista di estetica,n. 5, 1980, p. 74 nota 25.

(3) S. Freud, « II perturbante», Opere 1917-1923, Torino,Boringhieri, 1977, p. 81. Perquanto riguarda il rapporto diFreud con l'arte moderna sìveda una recente polemica suTimes Literary Supplement,3 agosto 1984, n. 4.244, p.868.

(4) S. Freud, « II delirio e isogni nella 'Gradiva' diWilhelm Jensen », Opere1905-1908, Torino, Bo-ringhieri, 1972, p. 264. Si vedaanche la lettera di Freud adArthur Schnitzler, del 14maggio 1922, in S. Freud,Lettere 1873-1939, Torino,Boringhieri, 1960, p. 312.

« L'estetica nel pensiero di C. G. Jung è il tema più sbalorditivo che io mipossa immaginare. In un vecchio manuale sulla fauna dell'islanda c'eraun capitolo sui serpenti. Esso diceva: ‘Serpenti in Islanda non ce nesono'. Non posso immaginare nulla che abbia svolto nel pensiero di Jungun ruolo meno importante dell'estetica. lo ebbi sempre l'impressione cheegli non avesse alcuna sensibilità neppure per l'arte e l'artistico. Egli era,per così dire, contro il bello » (2).

Si consideri anche questo passo di Freud:

« È raro che lo psicoanalista si senta spinto verso ricerche estetiche,anche quando non si riduca l'estetica alla teoria del bello per descriverla,invece, come la teoria delle qualità del nostro sentire. Egli lavora su altristrati della vita psichica e ha ben poco a che fare con quei motidell'animo — inibiti nella meta, sfumati e dipendenti da numerosissimecostellazioni concomitanti — che costituiscono perlopiù la materiad'indagine propria dell'estetica. Può capitare tuttavia ch'egli debbainteressarsi di tanto in tanto di una determinata sfera dell'estetica, e sitratta allora quasi sempre di alcunché di periferico, negletto dalla let -teratura specialistica » (3).

La psicologia non possiede gli strumenti per unacomprensione dell'arte. Il « rapporto » di cui parlo nasceda un'altra considerazione: quando ai primi del NovecentoFreud e, successivamente, Jung si interessarono deifenomeni dell'inconscio e cominciarono a studiarne imeccanismi e l'attività (il sogno, per esempio, i lapsus, isintomi nevrotici), si accorsero che gli artisti avevano giàespresso quanto essi faticosamente andavano scoprendoattraverso il lavoro clinico e la riflessione teorica (4). Èquesto uno dei motivi per cui le opere di Freud e di Jungsono piene di luoghi letterari: Goethe, tanto per ricordareun autore che ci è relativamente vicino, è citatissimo daentrambi, ma basterebbe anche pensare che i temifondamentali della psicoanalisi, come ad esempio ilcomplesso di Edipo, attingono essi stessi al patrimonioletterario.Potrei dire allora che il rapporto che esiste fra lapsicologia del profondo e l'estetica ha a che fare con lacapacità degli artisti di comprendere in modo intuitivo, inun modo comunque non razionale ne scientifico, quelloche gli psicologi sono riusciti a

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comprendere attraverso lo studio di singole personesofferenti.Noi possiamo quindi parlare di un rapporto di Freud o diJung con l'estetica solo da questo punto di vista, tenendopresente che nessuno dei due ha formulato una teoriaestetica (5).Fatta questa premessa, dobbiamo chiederci come sigiustifica un discorso psicologico sull'arte. A mio parere,c'è un solo motivo perché lo psicologo del profondo siinteressi dell'arte, e cioè il fatto che « l'esercizio dell'arte èun'attività psicologica » (6), come d'altra parte ognifenomeno culturale, che può essere oggetto di studio daparte dello psicologo proprio in quanto espressione dellapsiche. Identico è l'atteggiamento di Jung di fronte alfenomeno religioso:« Commetterebbe un deplorevole errore chi volesse vedere nelle mieosservazioni una specie di dimostrazione dell'esistenza di Dio. Essedimostrano soltanto l'esistenza di un'immagine arcaica della divinità equesto è tutto quello che, a parer mio, possiamo dire di Dio dal punto divista psicologico » (7).

Per quanto riguarda specificamente Jung, si è spessofrainteso il suo interesse per aspetti della fenomenologiapsichica che sono generalmente guardati con sospetto,come i fenomeni paranormali, la religiosità, il misticismo.Non sempre si comprende che ciò che attira l'attenzionedello psicologo è il fatto che queste cose esistano e che cisiano persone che ci credono: molta gente, per esempio,crede all'astrologia, al punto che anche giornali «impegnati » pubblicano ogni giorno l'oroscopo. Ciò cheinteressa lo psicologo è appunto questa fedenell'astrologia, oppure il fatto che alcuni abbianoesperienze mistiche o visioni religiose. L'equivoco haorigine da una specie di « corto circuito » per cui siscambia lo studio di un fenomeno psicologico per adesioneal fenomeno stesso. Così, studiare il nazismo, o ilfascismo, non significa sposare tali ideologie, ma cercaredi comprenderne le dinamiche psicologiche sottostanti.L'arte è dunque un'espressione della psiche e in quantotale noi la avviciniamo, senza avere però la

(5) Sui rapporti tra Jung el'estetica si consulti:Morris H. Philipson, Out-lineof jungian aesthetics,Evanston, NorthwesternUniversity Press, 1963;Elizabeth van Loo, Jung andDewey on the nature ofartistic experience, TulaneUniversity, 1973; NoelieMaria Rodriguez, Thearchetypal vision: a marxistand jungian study of muraiart, Los Ange-les, Universityof Califor-nia, 1974; E. Vivas,« On aesthetics and Jung», Modern Age, 18, 1974, pp.246-56; P. Birkhauser, « Lapsicologia analitica e iproblemi dell'arte », Rivista dipsicologia analitica, n. 2,ottobre 1975; F. Salza, «Jung e l'immagine », Rivistadi estetica, 1980; F. Salza,«Jung e ('educazione estetica», Rivista di estetica, n. 11,1982.

(6) C. G. Jung, Psicologia epoesia, Torino, BibliotecaBoringhieri, 1979, p. 19.

(7) C. G. Jung, Psicologia ereligione, Milano, Edizioni diComunità, 1962, p. 89.

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(8) C. G. Jung, Psicologia epoesia, op. cit., p. 19.

(9) Ibidem, p. 29.

pretesa di spiegarla o di formulare giudizi estetici. L'arte,come espressione creativa della psiche, invita lo psicologoa riflessioni sulla dimensione psicologica della creatività.Ogni psicologo dovrebbe sempre avere presente che puòinteressarsi soltanto dell'attività psichica che consente laproduzione artistica, mentre è completamente disarmatodi fronte all'arte in se stessa (8).Un'ulteriore considerazione riguarda un pregiudiziopiuttosto diffuso per il quale l'arte sarebbe il risultato dellamalattia. È soltanto un luogo comune l'idea della pazziacome fonte di « originalità creativa »: chi ha esperienzadiretta della malattia mentale o della nevrosi sa che ingenere non è la patologia a rendere creativa una persona.La nevrosi è, infatti, soprattutto una sofferenza sterile.Quindi noi non possiamo spiegare una produzioneartistica attraverso la patologia personale dell'artista. Ciòsignifica che il senso e il carattere di un'opera sononell'opera stessa e non, come alcuni sostengono, nellecondizioni umane che l'hanno preceduta o determinata(9). E qui facciamo un piccolo riferimento a Freud,tenendo soprattutto conto della particolare situazione cheegli si è trovato a vivere. Freud, come ogni pioniere che fauna scoperta importante, ha avuto la tendenza aestendere la conoscenza acquisita in un campo specificoad altri campi e ad altre dimensioni. E così Freud proposealla cultura a lui contemporanea un'interpretazionedell'opera d'arte che si basava sugli stessi meccanismiche l'analisi psicologica aveva individuato nella genesi deisogni, delle fantasie o dei sintomi nevrotici, nei qualitroverebbe espressione e soddisfazione un desiderioinconscio, radicato profondamente in qualche esperienzafondamentale dell'infanzia. In altre parole, la stessaenergia psichica legata a un desiderio che non ha trovatosbocchi naturali a causa della rimozione, può incanalarsiin un sintomo nevrotico oppure, se intervengono particolaricondizioni capaci di trasformare o << sublimare » l'energiastessa, può sfociare in un'opera artistica.La psicologia freudiana, come si sa, da molta im-

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portanza all'origine infantile sia della nostra vita psichicanormale che di quella patologica, e quindi anche l'operad'arte è vista come il prodotto di una fantasia infantile, chenon ha carattere patologico solo per la forma sublimatanella quale si esprime. Ma in sostanza, nella concezionefreudiana, l'arte deriva dagli stessi meccanismi chepresiedono alla formazione dei sintomi (10).Queste formulazioni appartengono a un preciso momentostorico del pensiero psicoanalitico e come tali vannoconsiderate, perché noi dobbiamo sempre fare i conti conla storia. Freud fu preso dall'entusiasmo per la suagrandissima scoperta ed estese all'ambito più ampio dellacultura le dinamiche psicologiche che il suo metodoindividuava nel singolo. E questa, secondo un'ottica piùmoderna (e più prudente), è un'operazione « riduttiva », ecioè un ricondurre a qualche altra cosa il fenomenocomplesso che si ha davanti. Mentre è sicuramente validosul piano terapeutico spiegare un sintomo con dinamicheparticolari che hanno avuto origine nell'infanzia, ciò è assaimeno sostenibile per la genesi dell'opera d'arte (11).Non si tratta, naturalmente, di condannare nessuno, ma dicapire come l'entusiasmo rispetto a una scoperta possacondurre a commettere degli errori. La storia della scienzaè piena di casi di questo genere:Newton, per esempio, credeva nel misticismo, nel-l'alchimia, e cercava di spiegare certi fenomeni attraversoprocessi magici e spirituali che niente avevano a che farecon la sua scienza. Ciò avviene soltanto quando l'euforiaper una scoperta contamina anche il resto. Jung sidistacca da questa prima interpretazione dell'arte eafferma che essa non può essere considerata un derivato:quindi non è un sintomo, o qualcosa di analogo al sintomo,bensì quello che noi chiamiamo « simbolo vero », unsimbolo cioè che trae la sua forza dalla dimensioneinconscia, che in questa ottica diventa la matrice di ogniprodotto spirituale. A tutti può essere accaduto di viveremomenti particolarmente creativi, oppure di aver avutol'occasione

(10) Si veda il passo di Freudnell'« Introduzione allapsicoanalisi » [Opere 1915-1916, Torino, Boringhieri,1976, p. 530) e la violentareazione di Roger Fry. Aquesto proposito si consultiE. Jones, Vita e opere diFreud, Milano, II Saggiatore,1962, voi. Ili, p. 479-487.

(11) C.G. Jung, Psicologia epoesia, op. cit; p. 25.

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(12) Aldo Carotenuto,Claudio Ricciardi, << Psico-logia analitica e psicoanalisiin rapporto alle domi-

di avvicinare una persona creativa. Ma che cosa significaessere creativi? Questo è un problema molto importante,e ci riguarda poiché probabilmente molte delle sofferenzepsichiche dipendono dal disagio o dalla paura diesprimere la propria creatività. L'uomo creativo,indipendentemente da quella che può essere laspiegazione che egli offre della sua creatività, è al centrodi un conflitto che tende ad una sintesi fra il contingente eil transpersonale. Potremmo definire il contingente comela nostra storia personale, mentre il transpersonale puòessere assimilato all'inconscio collettivo.L'inconscio personale è praticamente la nostra storia. Sepensiamo che l'inconscio si formi dal momento dellanascita, dobbiamo anche tenere presente che quandonasciamo non veniamo a trovarci nel nulla:abbiamo in primo luogo i genitori e generalmente anchedelle altre persone che costituiscono intorno a noi, fin dalprincipio, una rete complessa di interazioni. Ciò determinauna serie di problematiche che non possono essereportate sul piano di coscienza e perciò vengono registrateal livello primario di esperienze emotive, e come taliproducono quel mondo inferiore che chiamiamo appuntoinconscio personale. Nell'analisi psicologica si indaga sullerelazioni all'interno della famiglia, sulle esperienze di vitadel paziente, e continuamente emergono nel rapporto conl'analista le immagini interiorizzate del padre e dellamadre, con le quali è necessario dialogare per realizzare ilproprio sviluppo psicologico. Si tratta, infatti di figuredeterminanti perché entrano a far parte del mondopsichico del bambino nel periodo della sua maggioreimpotenza, cioè nel momento della nascita e nelle primefasi del suo sviluppo.

Il problema dell'inconscio collettivo è uno dei motivi didissenso tra la scuola di Jung e quella di Freud, anche seFreud stesso ha formulato nelle sue opere un concettoanalogo, a cui peraltro i freudiani hanno dato scarso rilievo(12).Questa ipotesi junghiana nasce dalla constatazione che cisono dei fenomeni, delle situazioni psicolo-

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giche che non si possono spiegare in base alla storiapersonale. Si tratta cioè di fenomeni psichici che nonpossono essere ricondotti ad alcuna esperienza reale eche presentano delle straordinarie concordanze da unindividuo all'altro. Oltre a ciò, su un piano più ampio, si ènotato come popoli diversi fra loro, culturalmente egeograficamente lontani, abbiano espresso delle ideepressoché identiche. I missionari che per primi miseropiede in Messico, ad esempio, si trovarono di fronte a unrituale teofagico analogo a quello cattolico. Proprio perspiegare questa serie di fenomeni si è ipotizzato chel'inconscio non sia determinato soltanto dalla nostraesperienza, ma anche da un'attività spontanea dellapsiche che nelle sue modalità espressive segue modellicomuni a tutto il genere umano, e quindi anche allegenerazioni che ci hanno preceduto. Parlare di una psicheinconscia collettiva è come dire che tutti gli uomini hannoda sempre un cuore, dei polmoni, una certa strutturabiologica ereditata: ipotizziamo cioè una strutturapsicologica di base, un certo modo di funzionare che nonsi organizza in base all'esperienza, ma appartiene all'uomocome sua caratteristica peculiare.L'individuo creativo, un Galilei per esempio, è un uomo cheha il coraggio di affermare qualcosa che contrasta con ilsenso comune, è cioè capace di fare dei ragionamenticontrodeduttivi prescindendo dall'immediatezzadell'esperienza. Ciò significa che è animato da unatensione fortissima sul piano psichico, che gli consente diandare oltre i dati della percezione, di andare oltre lapropria storia personale e i condizionamenti culturali chemodellano le sue capacità percettive: ciò significa porsi difronte alla vita con una visione completamente diversa daquella comune (13). Il mutamento dell'ottica richiede ancheun diverso linguaggio, e questo spiega perché i grandicreatori spesso debbono cambiare il loro " stile ».Pensiamo ai molteplici periodi di Picasso o alla propostadella musica dodecafonica che comporta nuove regole dicomposizione: la tensione psichica che si agita all'internodi individui particolar-

nanti psichiche », in A.Carotenuto, Psiche e in-conscio, Padova, Marsilio,1978, pp. 55-83.

(13) Si vedano ad esempio gliesperimenti esposti inGregory Bateson, Mente enatura, Milano, Adelphi 1984,pp. 50-56.

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(14) A. Manning, // com-portamento animale, Torino,Boringhieri, 1972, p. 69.

(15) Aldo Carotenuto, « Al-cuni commenti sulle teo-

mente creativi non può più utilizzare, per esprimersi, glistrumenti che la cultura di quel momento mette adisposizione, e deve creare qualcosa di nuovo, sia sulpiano della forma che del contenuto.L'arte è, dunque, secondo la nostra ottica, frutto di unatensione psichica, di un processo dialettico tra dimensioniopposte, tutte riconducibili alla polarità tra la parte storicae personale della psiche e quella collettiva profonda. Inquesta situazione di opposizione e di sintesi l'uomocreativo fa esperienza di ciò che Jung chiama « strutturearchetipiche ». Con il termine « archetipo » Jung siriferisce a un modello innato di reazione psicologica asituazioni tipiche, una modalità che nelle sue linee es-senziali, nella sua struttura, è identica in tutti gli esseriumani e in ogni tempo, ma che si adegua nella sua formaesteriore alle Condizioni storiche in cui viene attivata. Unesempio tratto dall'etologia può fornire ulteriori chiarimenti:uccelli allevati in una situazione particolarmente protetta econtrollata, nella quale non hanno occasione di farealcuna esperienza di pericolo, manifestano reazioniimmediate di fuga o di difesa alla vista di una sagoma cheassomiglia a quello che realmente è un predatore dellaloro specie. Tale reazione non nasce dall'esperienza, mada una sensibilità innata a quel tipo specifico di stimolo(14). Analogamente, la struttura archetipica scatta nelmomento in cui c'è uno stimolo particolare. Per fare unesempio, pensiamo a una esperienza fondamentale, lamorte di una persona cara. Noi possiamo constatare comein molte civiltà compaiano identici riti funebri, e allora cichiediamo come mai culture anche differenti abbianopotuto elaborare una identica costruzione rituale neiconfronti di questa esperienza. Per rispondere alladomanda ipotizziamo che di fronte a stimoli così forti, cosìimportanti, la struttura interna risponda con una modalitàtipicamente umana, che non differisce fra gli uomini, perquanto distanti siano le culture cui essi appartengono (1).Come si sa, l'ipotesi junghiana dell'archetipo è molto

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discussa e criticata, ma è l'unica che ci permetta di capirequesti fenomeni culturali, fenomeni che non si spiegano senon postulando un funzionamento comune della psicheumana, qualcosa che non ha a che fare conl'apprendimento e con l'esperienza di tutti i giorni. Unadelle critiche più frequenti che vengono avanzate neiconfronti di questa ipotesi è la sua sostanziale astoricità efissità nel tempo. F. Rella, ad esempio, afferma che « perJung l'opera [d'arte] è sottratta ai conflitti storici, è sottrattaalla storicità dei significati » (16) per cui sembrerebbe che ilprocesso di universalizzazione cui l'arte conduce altro nonsia che liberare l'uomo dalla storicità e dal tempo. Questomodo di intendere l'ipotesi dell'archetipo è però errato,anche se il testo di Jung si presta ad essere frainteso. DiceRocci che l'archetipo, oltre a un « aspetto strutturale e sta-tico », in quanto « predisposizione a reagire di nuovo comesi è sempre reagito », possiede anche « un aspettotemporale e dinamico, proprio in virtù del fatto che è centrodi forza, dynamis » (17). Ora, questa temporalità deveessere considerata una dimensione intrinsecadell'inconscio inteso soprattutto come processo. Ed èproprio su questo punto che s'innesta l'opinione di M. Treviper il quale l'ipotesi del processo di individuazione puòessere collegata al principio dialettico dell'eventotrasformatore: « Da questo punto di vista — per quel cheriguarda i processi creativi — la genesi dell'opera d'artenon va ricercata in un immobile livello causale della vitapsichica (complesso o archetipo che sia) ma in unprocesso dialettico in cui vengono implicate molteplicicoppie di opposti: coscienza individuale e inconsciopersonale, canone culturale e strutture archetipiche, formaed evento, lo e Sé » (18).Secondo Jung noi ereditiamo delle modalità specifiche dipercezione e di reazione di fronte a determinateesperienze, modalità che sono in se stesse forme vuote eche attingono il loro contenuto dalla storia. È possibile, adesempio, che due fiabe apparentemente molto diverse,appartenenti l'una agli eschimesi e l'altra a popolazionitropicali, parlino

rie di Jung », in Psiche einconscio, op. cit., pp. 29-44.

(16) Franco Rella, // silenzioe le parole, Milano, Feltrinelli,1981, p. 133.

(17) Giovanni Rocci, « Ilsignificato filosofico delladimensione inconscia »,Annali della Facoltà di Letteree Filosofia, Università degliStudi di Perugia, Vol. XVIII,Nuova Serie, Voi. IV 1980-81,Studi filosofici, p. 254.

(18) Mario Trevi, Introduzionea Erich Neumann, L'uomocreativo e la trasformazione,Padova, Marsilio, 1975, pp.9-10.

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(19) Erich Neuman, L'uomocreativo e la trasformazione,op. cit., pp. 53-54.

di un eroe che deve affrontare un mostro; nel primo caso ilmostro sarà un orso e nel secondo un leone, ma al di là diquesta e di altre differenze, la struttura della fiaba, delracconto, è identica. Ormai si sono versati fiumid'inchiostro su questo argomento, sull'esame strutturaledei miti, delle fiabe, delle religioni, e si è arrivati da piùparti a riconoscere la presenza di motivi ricorrenti. Con iconcetti di archetipo e di struttura archetipica abbiamotoccato il punto centrale dell'ottica secondo la quale Jungsi accosta al problema dell'arte. Scrive Erich Neumann(19):

« La sintesi del processo creativo consiste appunto nell'unione deltranspersonale, cioè l'eterno, col personale, cioè il contingente; unione incui si verifica il fenomeno unico del principio eterno ed eternamentecreante che s'incarna nella realtà creata, contingente e transitoria. Alcontrario, tutto ciò che è solo personale è caduco e insignificante, e tuttoquello che è solo eterno è in sé privo di importanza perché inaccessibile.Infatti dovunque noi facciamo esperienza del transpersonale, ci troviamogià di fronte a qualcosa che si rivela in una realtà circoscritta, cioè che simanifesta secondo la natura e la portata della nostra limitata capacità dicomprensione.Questo fatto fondamentale l'uomo creativo lo prende sul serio,indipendentemente dal fatto se egli sia consapevole o meno di questostato di cose. Egli si mette a disposizione del transpersonale, o meglio:creativo è appunto colui il quale sta a disposizione del transpersonale eper il quale il periodo dell'esperienza infantile, in cui questo stato didisponibilità è naturale, non è passato del tutto. Del resto, questo non haniente a che vedere col fatto che egli possa mostrare interesse per taleperiodo della sua vita o conoscerlo in modo cosciente; benché nell'uomocreativo questo atteggiamento venga interpretato come una ma-nifestazione infantile, si tratta piuttosto del suo modo di essere aperto,per cui il mondo viene creato di nuovo ogni giorno. Ma in ciò egli senteanche continuamente l'obbligo di sgombrare e allargare il proprio limitatoorizzonte, di dare espressione adeguata alle esperienze emergenti, e difondere l'archetipico ed eterno con l'individuale e contingente ».

L'ottica junghiana, il suo modo di vedere il problemadell'arte si contrappone dunque a quello di Freud. Mentreper Freud l'arte è praticamente la sublimazione di conflittipersonali relativi a spinte pulsionali inaccettabili, con Jungsi può parlare di tra-

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sformazione: l'artista trasforma una tensione interna inqualcosa che poi, prendendo forma nella sua opera, riescea parlare anche agli altri, poiché usa un linguaggio comunea tutte le generazioni. È questo il motivo dell'universalitàdell'arte.Sul piano psicologico l'arte può essere esaminata da duepunti di vista: dal punto di vista dell'opera, intesa comesimbolo, e da quello dell'uomo in quanto creatore delsimbolo.Ciò che è importante cogliere in questa interpretazionedell'arte è il fatto che, secondo la concezione junghiana,l'artista e la sua opera anticipano dei valori e dei contenuti,e in questo senso esprimono una sorta di compensazionerispetto all'atteggiamento cosciente generale di quelmomento. È la stessa funzione di compensazione cheJung attribuisce ai sogni. Capita a tutti noi di fare dei sogniin cui si presentano tendenze completamente diverse daquelle che costituiscono il nostro atteggiamento coscienteabituale. Per esempio ci accade di sognare in termini moltonegativi una persona che amiamo e stimiamo, oppure diabbracciare in sogno qualcuno che nella realtà viviamocome il nostro maggiore nemico. Dal punto di vistapsicologico il sogno che si distacca molto dalla nostrarealtà cosciente appare come la compensazione di unatteggiamento eccessivamente unilaterale. Questi mec-canismi, messi in evidenza in primo luogo a livelloindividuale nell'ambito del trattamento analitico, sonoriconoscibili anche su scala più ampia. E così possiamoaffermare che l'arte esprime valori che non sono ancoraentrati nella coscienza collettiva, e in questo senso necorregge l'unilateralità e la fissità. Picasso, ad esempio,scomponendo la figura, ha messo in crisi tutta un'estetica,e una cultura, basata sulla verosimiglianza dell'immagine,e in tal modo ha consentito di portare alla coscienza unmondo di distruzione che abbiamo sperimentato e cheforse sperimenteremo in modo definitivo (20). L'arte èdunque il risultato di una tensione tra opposti e si proponealla nostra attenzione come anti-

(20) M. De Maria, G. Ma-gnolini (a cura di), Tre minutia mezzanotte. Roma, EditoriRiuniti, 1984.

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cipatrice di nuovi valori. In altre parole, la vera arte è unsimbolo che contiene un messaggio vitale per tutti noipoiché ci addita quello di cui difettiamo. L'aspettodrammatico dell'esperienza artistica ha a che faresoprattutto con il creatore. L'individuo creativo èprobabilmente colui che, come sostiene Neumann,contrariamente all'uomo comune che aderisceacriticamente ai canoni collettivi, riesce a sopportare lacontraddizione intrinseca di ogni essere umano, lascissione prodotta in noi dallo sviluppo della coscienza.Ciò significa che la nostra forza non può essere quella dirimuovere la matrice inconscia, ma piuttosto la capacitàdi entrare in relazione con questa dimensioneirrinunciabile. Da questo punto di vista Neumann proponetre possibili alternative. L'incapacità di sopportarel'opposizione interna può condurre in primo luogo alnaufragio nella malattia psichica, che significa un lasciarsisommergere dall'inconscio: la soppressione di uno deidue termini, in questo caso l'Io cosciente, risolve sia puretragicamente quella contraddizione che l'individuo nonriesce a tollerare. L'altra soluzione, che da un certo puntodi vista può essere considerata la peggiore, è il completoassorbimento dell'individuo nel canone culturale corrente,il suo annullarsi nella maggioranza silenziosa. In questocaso l'individuo comprime ogni sua dimensione creativa,assumendo una strutturazione estremamente rigida econformista; egli accetta totalmente i modelli culturali delsuo gruppo privandosi della possibilità, proprio per larimozione della matrice creativa, di vedere al di là di ciòche i modelli collettivi consentono. La maggioranza silen-ziosa è costituita appunto da quella massa anonima chedifende i canoni collettivi perché questi a loro voltadifendono il suo equilibrio. La terza ipotesi è quella cuiabbiamo già accennato parlando dell'uomo creativo, ecioè l'accettazione della conflittualità. Accettare laconflittualità significa praticamente essere in mezzo a duedimensioni opposte, da una parte la cultura collettivaquale si è solidificata nel momento storico in cui citroviamo a vivere, dall'altra quella matrice archetipicasempre pronta ad emer-

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gere e a far sentire la sua voce. II problema non è alloraquello di scegliere tra l'una o l'altra, ma di consentire chequeste due dimensioni si incontrino all'interno di noistessi per dar vita a qualcosa di nuovo.

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N.V. Gogol’Le memoriedi un pazzo

Stefano Garzonio, Firenze

« Sui marciapiedi pozzanghere. Che il diavolo mi prenda!Come amo il tempaccio! Nessun perdigiorno in strada.Non troverai nessuno di quei signori che si trascinanociondolando solo per guardarti gli stivali, i calzoni, il frac oil cappello e poi, spalancando l'orifizio, voltarsi più volteindietro per squadrarti con cura anche nella tua facciataposteriore. Adesso posso stringermi nel mio pastrano insanta pace. Guarda come se la batte quel giovinebellimbusto con un visino che si potrebbe celare nelridicule di una dama. Invano! Non salverà la suafinanziera nuova di zecca. Non preserverà nemmeno lasua eleganza, ne l'ammirazione conquistata sul NevskijProspekt. Battilo più forte, ancora più forte, piogge-rellinamia! Che vada a rintanarsi in casa come un topo di fognainfradiciato. Ah! Ecco anche una dama altezzosa checorre nei suoi cenci variopinti sollevando le vesti: più insu non si potrebbe proprio senza trasgredire le piùelementari regole della decenza. Dove è finita la suagrinta? Non ha niente da

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ridire che un topo di fogna-činovik, in uniforme con la suapiccola croce, stralunando gli occhi verdi come il suobavero, si goda le grasse prominenze delle sue gambe(...). Che gente! Sono delle vere bestie, questi činovniki,sanno approfittare di tutte le occasioni » (1).Queste sono le osservazioni del futuro Aksentij IvanovičPopriščin, il protagonista del racconto di Gogol', Zapiskisumasšedšego (Le memorie di un pazzo) (2). Il branocitato appartiene al frammento Dodž’ byl prodolžitel'nyj(1833, La pioggia fu incessante), che è sicuramentericonducibile alla fase preparatoria de « Le Memorie di unpazzo ». Il protagonista del frammento è forse unmusicista, giacché in uno dei progetti per la raccolta «Arabeschi » Gogol' aveva inserito il titolo Zapiskisumasšedšego muzykanta (Le memorie di un musicistafolle), ma già dai pochi capoversi giunti fino a noi risultachiaro che il personaggio concepito da Gogol' dovevadiscostarsi molto dagli artisti folli della narrativa romantica.Egli non è solo l'archetipo di Popriščin; in lui si intravedonol'uomo superfluo di Turgenev e l'uomo del sottosuolodostoevskiano. I personaggi sono legati tra loro dallostesso genere letterario della narrazione: gli zapiski.II futuro Popriščin, musicista o forse già impiegato, mostratutto il suo disprezzo per la poco nobile fauna diPietroburgo: il mercante << mollusco », il bellimbusto «topo di fogna », l'impiegato « anfibio », abitatore di quella «città palude ». Più di tutti gli è inviso quest'ultimo, ilčinovnik, concentrato di volgarità autosoddisfatta,ignoranza e meschine ambizioni, qualità che facevano sìche, come aggiunge l'autore del frammento, « il suocolletto, come un camaleonte, mutasse colore ogni minutoin relazione alla temperatura, mentre egli restavaimmutabile come l'ordine regnante nella sua cancelleria »(3).Abbandonate le diavolerie e i sortilegi di Dikan'ka, l'epica emonumentale Ucraina di Taras Bulba, i patetici ed inertiabitanti di Mirgorod, Gogol' si tuffa nell'ossessivo formicoliodella città di Pietro. II primo impatto è vissuto attraverso lacoscienza dell'artista

(1) N.V. Gogol', Sobraniesočinenij, M., 1977, t. IlI, p.261. Il termine činovnik sta adindicare il funzionario,l'impiegato della burocraziastatale russa, suddivisagerarchicamente per čin(grado).(2) II racconto fu scrittonell'autunno del 1834 e fupubblicato nella secondaparte degli « Arabeschi » conil titolo Kločki iz zapisoksumasšedšego (Brani da Lememorie di un pazzo).

(3) N.V. Gogol', Sobraniesočinenij, op. cit., p. 262.

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(4) Cfr. V.F. Pereverzev, «Tvorčestvo GogoIja» (1914)in V.F. Pereverzev, Gogol'.Dostoev-skij. Issiedovanija,M., 1982, pp. 58-64.

(5) V. V. Rozanov, « Dvaetjuda o Gogole », in Pri-loženie k knige: Legenda ovelikom Inkvizitore, SPb.,1893.

romantico in irrisolto conflitto tra ideale e realtà. Lo stessofuturo Popriščin sarebbe potuto essere un artista e farpendant con il Cartkov de « II ritratto » e il Piskarëv de « IINevskij Prospekt ». Ma il conflitto gogoliano non èriconducibile ai soli stereotipi let-terari della prosaromantica. Esso ha alla sua base nuovi elementiextraletterari che, operando uno slittamento semantico,favoriscono la comparsa di un nuovo personaggioletterario per il quale il rapporto « realtà-finzione letteraria» è completamente mutato. Il conflitto che già si intravedenel frammento del 1833, e sarà poi evidente in tutte lenovelli pietro-burghesi, si costruisce sulla disgregazionedella « primitiva armonia » della psicologia del piccolopossidente terriero (meikij pomeščik) quando questi, ar-tista o impiegato, è costretto a trasferirsi in città (4).Applicato ad un modello letterario divenuto ormai trito, talenuovo conflitto si trasforma in fattore di ridistribuzionesemantica degli elementi del testo. La novità dellaconcezione gogoliana del personaggio sta dunquenell'aver colto nella realtà un tipo sociale che rendevapossibile la disautomatizzazione delle forme narrativeromantiche, e di averlo inserito nella propria realtàletteraria dove eventi e oggetti, per dirla con Rozanov,sono visti « non quali essi sono, ma nelle loromanifestazioni più estreme » (5). Nel bestiario umanodella città di Pietro, tra molluschi e topi di fogna, fu propriola specie più diffusa e più vorace ad attirare l'attenzione diGogol', la specie più resistente e coriacea, quella chemeglio rappresentava l'inalterabile sistema burocratico-poliziesco di Nicola; non certo le variopinte « farfalle » checome un mare inondano impazzite il Nevskij Prospektnelle ore di punta, ne il sognatore solitario, simile all'aquilacostretta alla segregazione, bensì la più comune dellebestie, la più volgare: il carnaleonte-činovnik.II personaggio letterario del činovnik fu una creazione dìGogol', una creazione che lo impegnò a fondo, dai primiframmenti del 1833 fino al « Revisore », al « Naso », al «Cappotto ». Certo non mancano gli antecedenti, specienella

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prosa giornalistica e nella poesia satirica, ma eranorimasti ai margini della grande letteratura. Unicaeccezione di particolare rilevanza mi sembra il raccontodel principe V. F. Odoevskij Skazka o tom, po kakomuslučaju kolležskomu sovetniku Ivanu BogdanovičuOtnošen'ju ne udalosja v svetloe voskresen'e pozdravit'svoich načal'nikov s prazdnikom (1833, Favola sul motivoper il quale il consigliere di Collegio Ivan BogdanovičOtnošen'e non riuscì a fare gli auguri ai propri superiorinel giorno di Pasqua). Odoevskij fornisce un'immagine dičinovnik assai vicina a quella di Gogol', lo stessocognome, di fantasia [Otnošen'e in russo significa «rapporto »), sta a sottolineare l'impersonalità delpersonaggio, la sua assoluta mancanza di umanità.Imitando un procedimento caro a Hoffmann, Odoevskijchiude il racconto mostrando come le carte da giuoco,divenute improvvisamente esseri viventi, giochino a cartecon ičinovniki, decaduti al rango di oggetti.Il tema del činovnik è prossimo, anzi complementare, aquello del malen'kij celovek (il piccolo uomo), esso èdunque riconducibile alla cosidetta « linea umanitaria »della letteratura russa. In questa prospettiva, Gogol' siricollega a Puskin, all'Evgenij de « II cavaliere di bronzo», al maestro delle poste dell'omonimo racconto. Il temadel činovnik si identifica con quello del malen'kij čelovekgià ne « Le memorie di un pazzo », ma la realizzazionepiù completa di tale identificazione si avrà soltanto ne « IIcappotto ». Gogol' lavorò a lungo sul nuovo personaggio,il činovnik, fornendone numerosi esempi, anche se nonmolto elaborati psicologicamente. D'altra parte, ècaratteristico di Gogol' tipizzare i personaggi; malgradotutto non seppe o non volle crearne uno tutto d'un pezzo,vivo, in carne ed ossa. Sakulin forse non esageravaquando scriveva che i personaggi di Gogol' sonol'incarnazione di diversi stati psicologici nella loromanifestazione estrema (6). Forse essi sono parzialiriflessi del mondo inferiore del loro creatore, dei suoidubbi e delle sue manie. La galleria dei ritratti dičinovniki, inaugurata nei frammenti prosastici, proseguenel teatro di Gogol'

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(6) V. F. Pereverzev, op.cit., p. 119.

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a partire dalla commedia incompiuta Vladimir III stepeni(1832-33, L'ordine di Vladimiro di terzo grado), fino allesue rielaborazioni successive: Utro činovnika (1836, IImattino del činovnik), Tjažba (1840?, La lite), Lakejskaja(1839-40, La stanza della servitù) e Otryvok (1840,Frammento). I ritratti più riusciti li troveremo poi neiracconti del ciclo pietroburghese. Tra i personaggi teatralirisulta di particolare interesse Barsukov, protagonistadella pièce « II mattino del činovnik ». Sua unicaaspirazione è l'ottenimento di un'onorificenza. Ciò lospinge alla pazzia. L'idea è in parte ripresa ne « Lememorie di un pazzo » in una delle lettere della cagnettadi Sophie.I personaggi tratteggiati nei frammenti teatrali sonomaschere senza volto ed anima, tutti consumati dameschine ambizioni di carriera, immiseriti dall'in-sormontabile incapacità di esprimersi in maniera umana. Illoro linguaggio, costituito da espressioni di cancelleria,costruzioni sintattiche arzigogolate e goffe, circonlocuzionidi origine libresca e lazzi degni dello stile spavaldo delgiornalismo di Bulgarin, contiene in nuce la linguaparadossale ed improbabile del « diarista » Popriščin.

Popriščin è al tempo stesso soggetto ed oggetto dellanarrazione. Il mondo de « Le memorie », nella finzioneartistica, è il mondo che Popriščin stesso ci descrive. Lostesso Popriščin lo conosciamo soltanto attraverso di lui.Esiste solo il Popriščin di Popriščin. Unica sua proiezioneesterna è la descrizione straniante fornita dalla cagnetta,descrizione, Io ricordo, dovuta anch'essa alla fantasiadelirante di Popriščin. Nella finzione letteraria Gogol'-autore è assente. Non si cura nemmeno di far precedereo seguire il testo da note o premesse di ipotetici editori oredattori.

Il racconto non ha un vero e proprio sjužet. Come notaBelyj, Gogol' tende a sostituire il sjužet « con ladescrizione del personaggio centrale fin nei minimiparticolari, il che sviluppa il carattere barocco e rococòdello stile » (7). La forma stessa della narrazione, il diario,favorisce tale tendenza. Il testo as-

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(7) A. Belyj, MasterstvoGogolja, M. –L, p. 18.

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sume il carattere di un'esercitazione letteraria di unoscrittore dilettante, Popriščin appunto. Allo stesso tempo,dato il suo contenuto, il testo del racconto si presentacome un « documento », come materiale di natura clinico-medica. Tuttavia, anche se « cronaca di una malattiapsichica », il racconto è innanzitutto, per usare sempre leparole di Belinskij, « un mostruoso grottesco, il sognostrano e bizzarro di un artista » (8).Gogol' non cade nel « protocollismo » della prosafisiologica degli anni Quaranta; il ricorso alla caricatura,alla metafora estetizzante, allo scontro di piani lessicali estilistici differenti fa sì che « Le memorie », pur apparendoin superficie un vero e proprio documento, uno spezzato divita pietroburghese sebbene in una sua manifestazionepatologica, siano anche un giuoco letterario della fantasiatragico-comica di Gogol' dove gli ingredienti sono autentici,desunti dalla realtà, ma la loro distribuzione è del tuttoarbitraria, improbabile tanto da rendere illu-sorio ciò che èevidente e viceversa.L'anno 1833 fu per Gogol' sotto l'insegna di Hoffmann. Eda Hoffmann Gogol' imparò a coordinare il mondo delreale con quello dell'invenzione stravagante, a coniugarel'irreale secondo la grammatica della realtà e viceversa. Sidice che anche il soggetto de « Le memorie » sia statoripreso, almeno in parte, da Hoffmann, più precisamentedal Fragmente aus dem Leben dreier Freunde (9). Certo èche, « celandosi » dietro un folle, Gogol' potè dare liberosfogo alla sua fantasia creatrice. Il tema della folliaacquista dunque una rilevanza del tutto particolare.La « follia » de « Le memorie di un pazzo » discendedirettamente dal tema elaborato dagli scrittori romantici,ma è allo stesso tempo differente.La follia per il poeta romantico rappresenta l'unicapossibilità di fuga dagli angusti limiti della ragione obiettiva,del raziocinio dei benpensanti che, per il romantico, siidentifica con la schiavitù della vita quotidiana, la rigiditàdegli ordinamenti sociali, la miseria delle necessitàmateriali. La follia, in definitiva, detiene per il romanticouna forza primitiva

(8) V. G. Belinskij, Polnoesobranie sočinenij, M.,1953-59, t. I, p. 297.

(9) Cfr. A. Stender-Petersen,« Gogol und die deutscheRomantik », in Euphorion,Zeitschrift fürLiteraturgeschichte, XXIV,Drittes Heft, 1922.

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(10) Mi riferisco alla pro-tagonista del poema di IvanKoziov Bezumnaja (La folle),pubblicato nel 1830. Antiochè il protagonista del raccontodi N.A. Polevoj Blazenstvobezumija (L'estasi della follia,1833).

(11) Si tratta della fantasiadrammatica Torkvato Tasso(1833), opera dell'epigonoromantico N.V. Kukol'nik(1809-68).

di rivelazione: rivelazione che l'onirico è reale. Anche perPopriščin la follia è l'unica via di salvezza, ma Popriščinnon appartiene alla schiera dei folli romantici, sognatoriispirati ed esteti che un abisso divide dall'uomo comune.Popriščin non è fratello dei folli hoffmanniani, ne dei lorodoppioni russi, l'Antioch di Polevoj, i folli artisti diOdoevskij, la « bezumnaja » di Kozlov(10). Popriščin nonha niente in comune con il Tasso impazzito di Kukol' nik(11), niente Io collega al «beato furore» dello spirito liberoche si erge alle stelle. Popriščin non è il folle la cui parolaviene ascoltata come parola di verità, non è lo jurodivyj, èil folle la cui parola non è intesa.Popriščin è la manifestazione più tipica del « filisteo »; egliè un lacchè fin nel profondo dell'anima. Il suo pensiero e ilsuo linguaggio riflettono quasi ossessivamente la realtàcui egli appartiene fino ad apparire inverosimili, fino acadere nel grottesco. In questa prospettiva, Popriščin èuna caricatura, e non solo la caricatura del nobiledecaduto, del činovnik, egli è anche la caricatura del folleromantico. Tuttavia la tragicità dell'epilogo restituisce aPopriščin la sua dignità di uomo. In definitiva, è già statonotato, Popriščin è il riflesso speculare di Chlestakov, madi un Chlestakov che progressivamente si libera dellalogica meschina della sua « normalità caricaturale » perdivenire un essere in carne ed ossa, folle dunque rispettoalla normalità volgare, all'irreale mondo di manichini cuiegli stesso apparteneva.II tema letterario della follia viene dunque del tuttostravolto da Gogol' grazie ad uno slittamento parodistico.È bastato in definitiva, sostituire Piskarëv con Popriščin.L'impiegato modello, prodotto più tipico dell'impersonalemacchina burocratica dell'epoca di Nicola, uomo senzaalcuna qualità, esprimendosi in prima persona (altro cheprosa colma di pathos dei romantici), descrive il proprioprogressivo impazzimento che si trasforma in conflitto diun uomo malato contro una realtà organizzata in modotalmente folle

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da far tornare Popriscin uomo con il compirsi della sua follia.Al fine di accentuare l'effetto tragico-grottesco tutto ilprocesso di impazzimento di Popriscin ha un suosvolgimento logico, progressivo. Il limite tra logico edillogico è rispettato, tutto è ordinariamente folle. Anche inquesto Gogol' si distacca dai romantici russi suoiprecursori. Se nella Pietroburgo dei burocrati pare nonessere! più distinzione tra normalità e follia, Gogol' tendeinvece a condurre la propria narrazione con conseguentelogicità. Popriscin è un pazzo conseguente con le propriepremesse socio-psicologiche.La stessa perdita dei punti di riferimento cronotopici ha unsuo svolgimento logico e graduale che si compie solonell'ultima parte, quando le date non sono più pertinenti,quando nella mente obnubilata di Popriscin si fa avantil'idea che « ogni gallo ha la sua Spagna che si trovaproprio sotto le penne ».Tutte le varie fasi della malattia di Popriscin sono descritteda Gogol' in modo coerente e verosimile, tanto che a lungosi è pensato che egli si fosse servito di documenti medico-clinici autentici. Il medico personale di Gogol', A.Tarasenkov, che curò lo scrittore durante la malattia cheprecedette la morte, scrive nelle sue memorie: « ... tral'altro portai il discorso su 'Le memorie di un pazzo'. Dopoavergli detto che seguivo da vicino alcuni psicopatici edero in possesso dì loro scritti autentici, espressi il desideriodi sapere da lui se non avesse letto alcuni testi del genereprima di scrivere il suo racconto. Egli mi rispose: 'Gli holetti, ma dopo'. 'E allora come vi siete avvicinato cosìfedelmente alla realtà?' chiesi io 'È facile basta l'immagina-zione ...»(12).Come nota il Gippius, in Russia sono riscontrabili numerosiantecedenti letterari e giornalistici del racconto (13). Il temadella follia per ambizione (il classico tema erasmiano della« Filautia ») è presente in numerosi scritti apparsi suiperiodici della fine degli anni Venti. Sul giornale « Babočka» (La farfalla), ad esempio, apparve nel 1829 un raccontodedicato ad

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(12) A. Tarasenkov,Poslednie dni N. V.Gogolja, M., 1902, p. 11.

(13) V. Gippius, Gogol’, L.,1924, pp. 91.

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(14) Non è forse un caso chead un certo punto Popriščinaffermi: « Ho scoperto che laCina e la Spagna sono lostesso paese, solo perignoranza li considerano duediversi stati». In N.V. Gogol',op. cit., p. 174.

un ufficiale francese che si credette il re di Spagna epreparò un piano per la nuova costituzione spagnola.Ancora prima, nel 1826, sulla rivista di Polevoj, il «Moskovskij Telegraf » (II telegrafo moscovita), nell'articolo« II folle ambizioso », si citavano numerosi casi di pazziche si credevano dittatori, condottieri, addirittural'imperatore della Cina (14). Degni di essere citati sonoinoltre l'articolo di Polevoj Sumasšedšie i nesumasšedšie[Pazzi e non pazzi), dove si affermava che nella societàcontemporanea non esistevano più limiti netti trasaggezza e follia, lo scritto di F. Bulgarin Tri Listka izdoma sumasšedšich (Tre fogli dal manicomio) ed infine laprogettata raccolta di racconti Dom sumasšedšich (IImanicomio) di V. Odoevskij, dove al centro dellanarrazione dovevano esserci dei musicisti come nelprogetto originario del racconto di Gogol'. Come si puòdunque constatare le eventuali fonti di Gogol' furono tutteletterarie e non scientifiche.Come è già stato notato, l'impazzimento di Popriščin èprogressivo. Ciò risulta evidente dal gradualetravisamento delle date e delle relative diciture. A partel'episodio dei due cani parlanti, i primi cinque brani nonrivelano in apparenza alcunché di patologico. Certol'ambizione e la misantropia di Popriščin sono indizi dellasua instabilità psichica. La scrittura è diseguale, il mondoesterno è visto in modo deformato, le metafore e gliaccostamenti inusuali abbondano. Se la bella Sophie è «un canarino », il caporeparto è « un maledetto trampoliere», i colleghi sono « cani seduti uno dietro l'altro ». Lostesso Popriščin, nella lettera della cagnetta di Sophie, èparagonato ad una tartaruga.In tutta la prima parte del racconto Popriščin rimanestrettamente legato ai parametri di giudizio dell'ambientesociale cui appartiene. Popriščin non è infatti in conflittocon la realtà in quanto sistema ingiusto, disumano edillogico, non ha una comprensione filo-sofica delproblema. Dando per scontate le regole del gioco, eglivorrebbe svolgere un ruolo diverso, più gratificante,nell'ambito di quella realtà. Egli è schiavo dei pregiudizi edelle aspirazioni meschine

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del suo ambiente. I suoi gusti letterari, ad esempio, sonoquelli di un borghesuccio provinciale. Tuttavia egli si sentediverso, superiore all'ambiente cui appartiene.Grottescamente egli individua la propria superiorità nelfatto di appartenere alla nobiltà. Questo è il primo fattoreche spinge Popriščin ad opporsi alla realtà che locirconda.Ma la causa della follia di Popriščin non è solo e non ètanto l'ambizione. La causa è un'altra e rende ilpersonaggio maggiormente tragico e grottesco. La causaprima della follia di Popriščin è l'amore. L'amore diPopriščin è una parodia dell'amore romantico, unsentimento in apparenza paradossale, che invece è l'unicoelemento che differenzia Popriščin dal suo mondo, dal suostesso modo di pensare. L'amore di Popriščin è unelemento realmente « folle » e dunque « umano » nellarealtà paradossale e disumana descritta da Gogol'.Tuttavia anche questo elemento stenta ad affermarsi inquanto sentimento verosimile, concreto. Nella menteconfusa di Popriščin neanche l'amore riesce a liberarsi deicondizionamenti dell'ambiente, tanto che egli chiama lasua amata « sua eccellenza » con l'ossequioso sussiegodel carrierista. L'amore è mostrato in modo ambivalente: èesso amore per la donna o per il čin? Lo stesso vale per larivolta verbale di Popriščin. Essa si realizza ancora inossequio ai valori paradossali del mondo suddiviso perčin.Nell'epilogo la follia di Popriščin, generata da sentimentiimprobabili e paradossali, si trasforma in folliarigeneratrice che risveglia nuovi sentimenti, stavoltaautenticamente umani.Quando Popriščin si scopre re di Spagna — il che ha unasua logica: al mondo non c'è posto per Popriščin, inSpagna non c'è il re, di conseguenza Popriščin è il re diSpagna (15) — egli si libera della sua mentalità di lacchè,si erge al di sopra della volgarità autosoddisfatta del suomondo, si trasforma veramente in un re. Egli non è più unčinovnik: è un uomo. Popriščin manifesta tutta la suaumanità non appena abbandona le sue assurde idee dirivalsa, i suoi atteggiamenti derisibili: la più paradossaledelle

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(15) V. Škloviskij, Povesti oproze, M., 1966, t. 2, p. 89.

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(16) « Salvatemi! Portatemivia! Grida il povero Popriscin,è il grido dello stesso Gogol'... » nota Blok nello scritto «Ditja Gogolja » (A. Blok, So-branie sočinenij, L, 1982, t.IV, p. 131).

(17) Mi riferisco al capitolo IIIZnačenie boleznej (Iz pis'mak gr.A. T... mu).

(18) A. Terz (A. Sinjavskij),Nell'ombra di Gogol', trad. it,Milano, 1980, pp. 51-52

(19) I. Sikorskij, Izobraže-nie duševnoboi' nych vtvorčestve Gogolja in Pa-mjati Gogol'/a, Kiev, 1902,pp. 429-30. Cito da G. Gu-kovskij, Realizm Gogolja,M.-L-, 1959, p. 301.

pretese, quella di essere re di Spagna, sgretola l'immaginesatirica del činovnik e Popriščin diviene una mascheratragica, acquistando addirittura una solenne regalitàspirituale.Nell'ultimo brano de « Le memorie » lo stile si trasforma. Iltesto acquista un andamento grave, liricamente patetico,ricco di immagini poetiche. L'Italia, ideale della bellezza,mondo immaginario e mirabile, l'azzurra Russia dellesteppe e delle izbe, la trojka a sospingere verso la libertà ilpovero Popriščin. La stessa trojka del Revizore e delleAnime morte. La trojka di Gogol' ... Non a caso nell'ultimolamento di Popriščin, Blok riconobbe la voce di Gogol'piuttosto che quella del suo personaggio (16). Un gridoanalogo alla nota affermazione « Che noia a questomondo, signori! ».La malattia ha un suo effetto benefico, ebbe a scrivereGogol' nei « Passi scelti della corrispondenza con gli amici»(17). Questa è una delle tante chiavi di interpretazionedella follia di Popriščin. Accanto al calembour, alparadosso fantastico, alla comicità scatenata, Gogol'rimane sempre fedele alla propria contraddittorietà: alloscrittore artista si affianca il suo alter-ego moralista,impegnato innanzitutto ad ammaestrare, a convertire. Iltema stesso del trono vacante, lo ha notato di recente ilSinjavskij (18), ha un significato del tutto particolare,autobiografico, quasi Gogol' avesse volutoparadossalmente fornire una caricatura, una parodia, delfuturo se stesso, proprio come, parodiando la figura delčinovnik, avesse voluto deridere le proprie poco credibilifuture idealizzazioni del funzionario patriota e buoncristiano.Lo psichiatra I. Sikorskij, analizzando i folli di Gogol', ebbea scrivere che la parte finale de « Le memorie di un pazzo» rappresentava l'ultimo, improvviso momento di lucidità diPopriscin prima della morte, e che ciò corrispondeva alreale decorso delle malattie di mente (19). La «lucedell'altissimo», scrisse l'archimadrita Fëdor, amico diGogol', con l'approvazione, a quanto pare dello stessoGogol'. L'ultimo lamento di Popriščin è l'unico, fugaceindizio che egli

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ha riacquistato la sua umanità, prima che il buio eterno loingoi. Dopo l'ultimo barlume della ragione Popriščinricade inesorabilmente nella follia: l'ultimo lazzo, ilbernoccolo sotto il naso del bey di Algeri, è il più patetico,il più tragico.

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Umiliazione sociale emalattia

Marcella Pignatelli, Roma

II titolo di « umiliazione sociale e malattia » che si èvoluto dare alla lettura del testo di N.V. Gogol è riduttivo,perché nell'enfasi politica sottolinea soltanto uno dei dueaspetti dinamici, da cui nasce il disturbo psichico: questoinfatti implica la rottura oltre che lungo l'asse Io-Collettivo(Cultura) anche lungo l'asse Io-Inconscio (Sé).Però ci serve per associare subito Gogol a Jung-Freud eper stabilire quella connessione tra letteratura epsicoanalisi, che è alla base del tentativo in questione. Èstato quindi per me immediato il richiamo alle Memorie diun malato di nervi di D. P. Schreber, testo notato da Jungnel 1907 e segnalato a Freud, che ne estrasse il famoso« Caso Schreber » e le sue ipotesi sulla paranoia.Questo evento arricchì di materiale prezioso il patrimoniointerpretativo della psicoanalisi, ma segnò anche uno deimomenti dì conflitto tra Jung e Freud intorno allacomprensione delle componenti psico-patologiche.Così nel porci di fronte all'opera d'arte, mentre possiamocapire le linee di indagine della psicoanalisi e lastrumentalizzazione che ne deriva, in ordine a

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schemi teorici, non ne condividiamo le conclusioni,quando proprio i Maestri si sono arrogati il diritto digiudicare il valore formale del prodotto, che invece èsoggetto a canoni di una categoria come l'estetica,diversa dalla psicologia; e, ancora peggio, di valutare lapersonalità dell'autore da una sua unica manifestazione,per di più inserita in una particolare esigenza espressiva:mi riferisco per esempio ai Saggi di Freud sul Mosè diMichelangelo e su Leonardo, nonché a quelli di Jung suJoyce e su Picasso.Pertanto, se torniamo al parallelo con le Memorie di unmalato di nervi, dobbiamo considerare due versanti: l'unoletterario, caratterizzato da rara efficacia analitica edespositiva, l'altro clinico, quello appunto colto e utilizzatoda Freud.La potenza autobiografica delle Memorie di Schreber,tesa a dimostrare che egli non fosse pazzo, fu tale daottenere l'incredibile risultato di vincere il ricorso inappello contro la sentenza di interdizione, cosicché ilPresidente potè tornare in libertà.L'indagine interpretativa di Freud mise d'altronde in chiaroi nessi tra disturbo mentale e repressione paterna, maanche indirettamente tra paranoia e potere politico, comea ragione afferma Elias Canetti in Massa e Potere.Ecco allora che il libro ci serve purché si mantenganochiare le distinzioni di competenza.Certamente, come dicevo sopra, servì all'autore, nonsolamente per il risultato pratico ottenuto, ma ancheperché lo scrivere, l'obiettivare sulla carta il propriotravaglio, ha un effetto catartico e agisce come con-tenimento all'incalzare dei fantasmi interiori, oltre checonsentire un confronto dialettico con l'altro dentro di sé.Nelle Memorie di un pazzo Gogol è dichiaratamente unoscrittore: l'alto livello artistico rimanda ad altri suoi celebriracconti come il Naso, la Prospettiva Nevskj, il Ritratto, ilCappotto, dove il taglio surrealistico sottolinea la capacitàe la facilità di distaccarsi dal reale, con tutto quanto puòsignificare come prologo alla patologia; mentre la satirasociale indica l'incidenza dell'ambiente sulla malattiamentale, inserendo-

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si in un discorso che avrà gli ultimi corifei nei rappre-sentanti dell'anti-psichiatria da Cooper a Laing, a Basa-glia. Tuttavia, siccome chi scrive parla sempre di sé,anche le Memorie di un pazzo possono essere lette intermini autobiografici: in effetti è impossibile descriverecon tanta sottigliezza e precisione di particolari l'insorgeredel delirio, seguirne le vicende senza averlo conosciutoall'interno di sé come linguaggio alternativo possìbile,affascinante e minaccioso: il che non significa restarnesuccubi, ma certo una dimestichezza ambigua con lafollia, una contaminazione allucinante con il fantastico,che per Gogol riportava direttamente al mondo demonicoe grottesco del romanticismo germanico e in particolare aquello di E.T.A. Hoffmann.Al termine di questa incursione, intellettuale e psicologicainsieme, Gogol approdò ad un misticismo esasperato cheassunse struttura ossessiva: partito da un realismospietato, irresistibilmente attratto dalla caricatura esofferente per essa, in bilico tra la fantasia deformante el'idealizzazione, trasse dall'indagine del dolore nel reale,una spinta di elevato valore spirituale.Ma l'aspetto patologico del religioso, l'enigma che loalimentava si tradusse alla fine in un ripiegamento su sestesso con crisi dì intenso colorito morale, di cui ilpellegrinaggio in Palestina, dopo la Svizzera, Parigi eRoma, rappresentò l'atto emblematico e insieme coincisecon il rifiuto della propria arte e dell'accezione che se nedava come manifesto di liberalismo progressista.Tutto questo va puntualizzato per correttezza storica eper testimonianza di quanto complessi siano gli elementiche sottendono il discorso psichico e le sue eventualiespressioni artistiche: sembra quindi pericolosa latendenza ad appropiarsi di un autore e di una parte di lui,estrapolata arbitrariamente dal contesto, per asservirlo amiopi finalità politiche. D'altronde, considerando ilversante endopsichico, la crisi di Gogol coincide conquella metà della vita, i quarant'anni, più volte sottolineatida Jung come la cerniera di una trasformazione, dalsuccesso o dal

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fallimento della quale dipende il senso compiuto del-l'esistenza.Se poi ci caliamo all'interno della scrittura per leggerla conmodelli psicoanalitici, si rimane incerti se seguire lamagistrale coerenza del linguaggio delirante, che sisrotola nel graduale affiorare dei sintomi, o se estrarrequei momenti salienti dove la forma più alta del contenutoletterario, che si condensa in miscele perfette di ironiaderisione bizzaria inventiva denuncia dramma, colludecon l'esplosione della follia.Ma siccome noi ci poniamo di fronte a questo testo nellaconsapevolezza di un'esercitazione culturale, che sa didiletto-dilettante, rinunciamo senz'altro a trattare ilmateriale come se fosse prodotto da un paziente inseduta.Non si può fare a meno tuttavia di sottolineare l'abilità concui l'autore ci fa entrare nella dimensione atemporale cheè dimora abituale dell'inconscio. Per ottenere questoinserisce parole che, come nel lavoro onirico, praticano lacondensazione o superano le convenzioni processuali deltempo: per esempio « 86 marzobre, anno 2.000 - 43aprile, nessuna data, Li 34 Slo Mc gdao febbraio 349 ».L'adozione del diario per il nostro racconto risultaparticolarmente efficace sia perché manifesta un ten-tativo, mal riuscito per l'interessato, di contenimentoattraverso l'obiettivazione ritmata dello scrivere, siaperché consente insieme di seguire per tappe Iosvolgimento e di negarne però la scansione cronologica,come se tutto fosse già presente; una proposta di ordine,un quotidiano senza tempo, ne giorno, ne notte.Il delirio si rivela subito come l'estrema difesa controun'esistenza insopportabile, l'unico mezzo per superarel'antinomia tra conscio e inconscio, tra desiderio e realtà,tra individuo e collettivo, passando attraversol'eliminazione di uno dei termini verso la dilaganteinvasione dell'inconscio, che soltanto all'ultimo offrirà unospazio di resipiscenza prima del suo trionfo e delladistruzione di Popriščin. Tuttavia lungo le vie checonducono al delirio si

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incontrano i punti nodali che ne spiegano il senso e neconsentono una decodificazione: ma non si trattaevidentemente solo di riconoscere e ripercorrere lecomponenti dinamiche, attivate dagli elementi traumatici,ma di proclamare anche il valore risolutivo del rapportod'amore, come quando il protagonista dichiara « misembra che condividere i propri sentimenti e leimpressioni con qualcun altro sia uno dei massimi beni diquesto mondo ».Tale dichiarazione serve pure a confortare il pregio dellarelazione analitica quale modello di comunicazione io-tu.Quindi Gogol non mistifica i fenomeni che gli si pre-sentano davanti; non è disposto a ributtare sull'esternoda sé ogni responsabilità: ne fa testimonianza l'epigrafedella commedia << l'Ispettore generale » che dice: « nonaccusare lo specchio se la tua faccia è storta ». Ciòsignifica che egli era perfettamente consapevole deifattori genetici della diversità. Come pure, nelloscioglimento della commedia stessa, egli afferma: «l'Ispettore è la coscienza che ci costringe a guardare adocchi aperti dentro noi stessi »; quindi nessuncompromesso, nessun velo alla chiarezza dell'indagineche spesso si traduce in una spietata autoironia, mapiuttosto l'accento sulla dimensione interiore della verità.La duplicità di quest'ultima, che è alla base dellapsiconevrosi ma prima ancora dell'angoscia esistenziale,si incarna nell'ambivalenza con cui il nostro povero eroeguarda alla donna.Da una parte rifulge l'eterno femminino, dall'abito biancocome cigno, dal fazzoletto finissimo di batista, non privotuttavia di fremiti erotici: «vorrei dare un'occhiata allacamera da letto ... là, penso, devono esserci prodigi,deve esserci un paradiso come non ce ne sono neanchein cielo ». L'idealizzazione è il meccanismo piùdisponibile di fronte all'oggetto che sfugge, si allontanainafferrabile: Sophie si perde nei giri di danza, nellaprimavera che fa battere il cuore nell'attesa del nuovo: «non so quale scrittore ha detto che l'amore è unaseconda vita ». Dall'altra parte incombe la donna strega,Lilith, in-

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namorata del demonio; oppure la ragazza scema, l'amicadi Sophie, che fa da controfigura: non è niente brutta,diventa rossa, « la colombella desidera un fidanzato ».Popriščin ha capito subito, lui, che la ragazza era scema:qui subentra un doppio moto di spostamento su di lei, delproprio desiderio nonché della paura di alienazionementale, e di depotenziamento del femminile persostenere l'autostima. Anche Mavra, la donna dellepulizie, è una stupida finnica; dove le note di razzismomaschista sembrano confondersi con l'alterigia russa neiriguardi del vicino povero. Poi « una donna non puòascendere al trono »; e vedremo in seguito che il trono èriservato per lui, quando l'enfasi compensatoriasconfinerà nella megalomania.Ma il riferimento alla donna si conclude drammaticamentenell'invocazione finale « È la mia casa quella cheazzurreggia lontano? È mia madre quella che siede allafinestra? Mamma salva il tuo povero figliolo! Versa unalacrimuccia sulla sua testolina malata! Guarda come lotorturano! Stringi al petto il tuo povero orfanello! Non c'èposto per lui al mondo! Lo perseguitano! Mammina! Abbipietà del tuo bambino malato! ... ».Di fronte alla morte, come alla soglia della follia appare lamadre nella fantasia come nel sogno: è un'esperienzanota per chi ha assistito a questi momenti. L'emotività cheintride l'evento non perde di forza, se ricordiamo l'aspettoparabolico della vita, che comporta al suo concludersiuna regressione a livello infantile, se parliamo, con leparole analitiche, di desiderio di rientrare nell'uteromaterno, di trauma della nascita, di complessoabbandonico, di Grande Madre.Non togliamo nulla alla dignità del dolore se accenniamoalla cultura matriarcale della Russia, o delle civiltàmediterranee: semmai ribadiamo l'importanza che lamadre ha nella vicenda umana, nella sua patologia, comerisulta dalla desolante solitudine del piccolo consiglieretitolare, solo a casa, solo in ufficio, solo al mondo; il chenon può non essere sentito persecutorio, al di là del pesodelle persecuzioni

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reali. Con la madre si struttura la forza dell'identità, lafiducia, la capacità di relazione: o diversamentesolipsismo, incomunicabilità, impotenza.Modalità analoghe, fatte cioè di ambivalenza, trattano ilrapporto dell'impiegato con il Direttore, la Burocrazia, loStato: esso è giocato continuamente, come sopra per ladonna, tra il complesso di inferiorità e l'icasticità delladenuncia, tra il sarcasmo distruttivo e l'idealizzazione.La puntualità veemente, con cui Gogol indica i soprusi delpotere, è stata a ragione considerata un antefatto dellarivoluzione, anche se non sembra che il suo dissensodiventasse consapevolmente un impegno socio-politicoadeguato.Egli stigmatizza inesorabile l'ambizione vacua chefesteggia il nastrino dell'onorificenza, l'ignoranzasbruffona, l'inadempienza, la truffa, la piaggerìa, lacorruzione ... « il Direttore dev'essere un uomo moltointelligente. Tutto il suo gabinetto è pieno di scaffali e gliscaffali sono pieni di libri ... sta sempre zitto, ma nellatesta, penso, pondera tutto ... a mezzogiorno e mezzonon arriva ancora dalla sua camera da letto ». Intanto ilmodesto impiegato va a teatro non appena ha quattrosoldi in tasca, mentre « fra noi altri funzionar! ci sono deiveri maiali: al teatro, gli zotici, non ci vannoassolutamente; forse soltanto se gli dai il biglietto gratis ».La sferza irata si abbatte sugli addetti all'amministrazioneprovinciale e ai tribunali, gente meschina, cupida ditrottatori in coppie, carrozzino, pelliccia di castoro: « per isoldi venderebbero la madre, il padre, Dio; ambiziosi,mercanti di Cristo! ».Qui l'accento morale richiama l'esaltazione mistica, cheinvestirà l'ultimo Gogol: povero Gogol! Se si affacciasseoggi da noi, troverebbe dopo un secolo e mezzo la stessasituazione da lui denunciata; le sue parole sono diun'attualità impressionante e non sembrano aver sortitol'effetto per cui erano state forse pronunciate, anche semi pare facile cogliere in esse una vena di sottilescetticismo e di crudo disincanto.Quando poi Popriščin arriva nel quartiere dove abita

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la padroncina della cagnetta Fidèle il suo sdegnonauseato investe i casermoni, le case dove stanno « unosopra l'altro come cani »: si tratta della Pietroburgo dellaprima metà dell'ottocento e non già di una cittàcontemporanea, dove tuttavia nulla è mutato e dovesussistono sovrappopolazione, miseria, promiscuità aprodurre violenza e follia.La cagnetta parlante, il cane Polkan, il molosso, il pesce,le vacche al negozio e la libbra di tè ripropongono neldelirio il significato dello zoomorfismo, tradizionale nellafavolistica fin dai tempi di Esopo e di Fedro,nell'aneddotica come nei miti, per dire in metafora laverità attenuandone l'urto brutale nel vestito simbolico. Lostesso fenomeno ritroviamo non a caso nei sogni, cosìintimamente tessuti di simbolo, popolati di animali araccontare emozioni, paure, istinti primari: il bestiarioparla, ama, aggredisce, vola, muore, ogni bestia nellasua parte che rappresenti vivamente qualità e difetti.Alla fine l'animale entra nel sacro caricandosi di solennità,oppure di ambiguità e di magia: non sorprende perciò lasua frequenza con la follia, il cui senso può essere intesosolo vivendone l'unica dimensione possibile, quella delsimbolo che si fa realtà, perché non viene riconosciutocome tale.L'identità di Popriščin lascia il consigliere titolare eassume il Rè di Spagna: « confesso che di colpo è statocome se avessi avuto un'illuminazione. Non capiscocome abbia potuto immaginare di essere un consiglieretitolare. Meno male che nessuno ha pensato allora dimettermi in manicomio ». Egli scrive dove firma ilDirettore e verga " Ferdinando VIlI ». Alla prepotenza deisuperiori, alla cieca violenza del sistema risponde conl'onnipotenza e la megalomania, identificandosinell'opposto in uno scambio fit-tizio e perdente.I dettagli riferiti da Gogol fanno trattato di psichiatria;quando l'umile impiegato, paranoicamente sospettosodelle malefatte dei sarti, decide di confezionarsi un mantoda solo attaccando con le forbici l'uniforme nuova che hamesso solo due volte, l'effetto drammatico, affidato allapregnanza sintomatologica

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traccia un piccolo capolavoro: « l'ho tagliata tutta con leforbici, perché il taglio deve essere tutto diverso ». Taglioe diversità dicono che l'estro creativo si rivolge contro sestesso in un insano empito distruttivo. Il linguaggio dellapsicosi è riportato con ricchezza di particolari: « gli uominicredono che il cervello umano si trovi nella testa:nient'affatto; Io porta il vento dalla parte del Mar Caspio ...Domani alle sette la terra si poserà sulla luna ... su tuttala terra c'è un lezzo terribile ... Signori, salviamo la lunaperché la terra vuole posarsi su di lei ».Il peso del mondo, la durezza degli uomini inducePopriščin ad invocare l'insolita morbidezza e la fragilitàdella luna, sposando il richiamo morale all'elevazioneromantica, fuga impotente nell'immaginario. Ma il bisognodi amore, l'etica che ne deriva, fatta di onestà e dirispetto, rimangono il messaggio che pervade tuttal'opera: l'amore deluso per Sophie coincide con la crisipsicotica, ma questa è anche l'epifenomeno dellaperversione degli uomini, che hanno conculcato l'amoreper una malvagità, tanto più spieiata quantomaggiormente sostenuta dalla forza delle ideologie.Nel manicomio fondato per salvaguardare la società dairischi della follia si perpetra l'ultimo delitto sull'individuo: «che cosa fanno di me! Non mi ascoltano, non mi vedono,non mi danno retta. Che cosa gli ho fatto? Perché mitorturano? Che cosa vogliono da me, poveretto? Checosa posso dargli? Non ho niente. Salvatemi! Portatemivia! ». Qui la follia rinuncia al suo tragico gioco per direparole di verità, ma purtroppo sa già che non saràascoltata e sì conclude nella piega amara del sorrisosbarazzino, che si impenna sul bernoccolo sotto il nasodel Rè di Francia.Gogol si chiude in un sarcasmo divertito, che sembraderidere irriverente ogni illusione di ordine e di giustizia.

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F. M. DostoevskijII sosia

Silvana de Vidovich, Roma

II sottotitolo alla serie di incontri, unificati sotto la dizione «In diretta dalla follia », « Storie di delirio nella letteraturarussa », suggerisce una precisa ipotesi di ricerca. A mioparere, l'obiettivo che in questo caso si può porre lostudioso di letteratura consiste non tanto nel documentareil rapporto più o meno diretto che singoli autori russihanno avuto con la follia, quanto nell'indagare, attraversola loro specifica tecnica narrativa, il modo in cui ciascunoha trasferito la propria esperienza sul piano letterario.Partendo esattamente da questa considerazione holavorato sul testo Dvojnik di Dostoevskij. Del resto l'averprivilegiato il concreto dato letterario e l'aver spintol'analisi attraverso lo stesso tessuto linguistico — senza,tuttavia, ignorare la componente biografica dell'autorema, anzi, inserendola quale opportuno supporto storico-informativo — ha reso, a volte, più direttamente evidenteil valore di certe scelte lessicali e di determinate soluzionitematiche.Ancor prima di affrontare l'analisi testuale del racconto,vorrei partire da una considerazione prelimi-

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(1) Suggestiva anche sediscorde dall'originale ap-pare la traduzione scelta daUmberto Barbaro, « L'altro io», compresa nella raccoltaF. Dostoevskij, // romanzodel sottosuolo a cura di G.Pacini, Milano, Feltrinelli,1974.

(2) Tutte le citazioni daltesto sono di mia tradu-zione.

nare sul titolo russo: Dvojnik è comunemente tradotto con// sosia, parola che, — derivata dal nome latino Sosia, ilservo di Anfitrione delle omonime commedie di Plauto e diTerenzio, sotto le cui sembianze si nasconde spessoMercurio per condurre a termine i suoi intrighi — è entratanell'uso comune per indicare persona molto somigliante aun'altra. Nel caso specifico del racconto dostoevskijanorisulterebbe appropriata anche se elude il valore seman-tico della parola russa che contiene la radice ava (due);tenendo presente che in altre parole di linguaindeoeuropea tale radice è conservata (nel francese Ledoublé, nell'inglese The doublé e nel tedesco DasDoppelgänger), la scelta nella traduzione italiana di //doppio, risulta a mio parere più giustificata non soltantosul piano etimologico, ma anche su quello contenutistico,in quanto evidenzierebbe immediatamente ilraddoppiamento di una entità, di una unità (un lo), e il suoconseguente sdoppiamento, la sua permuta con un altrolo(1).La tendenza di un soggetto a identificarsi con un altro deltutto simile a se stesso (sia esso un altro reale o fruttodella fantasia), secondo l'interpreta-zione psicoanaliticarisulta da uno stato di dubbio in cui vive tale soggetto ilquale, non avendo una precisa coscienza del proprio lo,tende a sostituirlo con quello di un altro, estraneo. Talesostituzione risulterebbe essere una sorta di difesadall'autoannientamento, tanto che nel suo « sosia » ilsoggetto incarna ogni specie di possibilità (sociali,emotive, sentimentali e perfino estetiche) in lui nonrealizzate. Esattamente in questo stato di dubbio, diincertezza e di fragilità, Dostoevskij presenta ilprotagonista del suo racconto: Goljadkin. « Mancava pocoalle otto del mattino quando il consigliere di Stato JakovPetrovičGoljadkin riprese conoscenza dopo un lungosonno ... » (2). La scelta di un verbo come očnut'ja(riaversi, rianimarsi) è estremamente indicativa, in quantopiù che far riferimento all'azione del risveglio vero eproprio, esprime una lenta ripresa dei sensi e quindi unaripresa di conoscenza a seguito di una sua perdita, comeper esempio dopo uno svenimento.

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A tale verbo Dostoevskij farà ricorso ogni volta che vorràsottolineare proprio questo ambiguo passaggio da unostato di semincoscienza, vissuto dal protagonista comeossessivo e perturbante, a uno più consapevolmentereale, anche se non meno angosciante. Basterà citare ilrisveglio (cap. VI) la mattina dopo il primo incontronotturno con Goljadkin junior, quando « tutte le insolitecose del giorno prima e l'inverosimile terribile notte con lesue inamissibili avventure gli parvero spaventosamenteevidenti ... ma nello stesso tempo tutto ciò era cosìstrano, incomprensibile, assurdo, tanto da sembrareimpossibile » oppure nel finale, dove, perduti i sensi,Goljadkin « tornò in sé (očnulsja) e vide che i cavalli Ioportavano per una strada sconosciuta. A destra e asinistra nereggiavano foreste; il luogo era deserto e buio». Questo sotterraneo rifiuto della realtà, vienesottolineato da Dostoevskij con puntuale meticolosità findal primo risveglio, alle ore otto circa, della prima dellequattro terribili giornate, nel corso delle quali progrediscee si conclude il dramma di Goljadkin: già allora « non èdel tutto convinto di essere sveglio o di dormire ancora, èincerto se tutto ciò che gli succede intorno sia realtà opiuttosto un prolungamento delle sue disordinate visionioni-riche ». In questo caso l'uso della parola grëza (nellasua valenza di videnie = visione) al posto di mečta(sogno), suggerisce l'ipotesi della proiezione di undesiderio inespresso. Altro segno indicativo che cir-coscrive lo stato di incertezza e di insicurezza èrappresentato dal gesto che Goljadkin compie imme-diatamente non appena si alza dal letto: « corse verso unpiccolo specchietto tondo ». La chiave interpretativa diquesto gesto è più che esplicita, tuttavia Dostoevskijricorre alla presenza dello specchio non solo quandovuole far notare il bisogno di Goljadkin di verificare lapropria immagine (come in questo caso o nel cap. Iliquando, entrato al ristorante, prima di sedersi si da unacontrollatina allo specchio) ma anche come simbolo diuna più specifica ambiguità e di più inquietante mistero(cfr. al cap. IX quando da dietro lo specchio, cheGoljadkin

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(3) S. Freud, « II perturbante», in Opere 1917-1923,Torino, Boringhieri, 1977, p.81.

(4) Ibidem, p. 83.

aveva creduto fosse una porta, appare improvvisamente ilsuo sosia, o al cap. XII quando lo stesso « odiato »nemico riappare inspiegabilmente proprio da dietro unospecchio).Questo gesto di guardarsi allo specchio provoca spesso inGoljadkin una certa soddisfazione [udovol'stvo) e non acaso è accompagnato, con ripetuta insistenza, da gesti diautocompiacimento, come Io stropicciarsi le mani, ilsorridere o l'ammiccare ai presenti (Petruška in casa, o icolleghi in ufficio), eppure Dostoevskij precisaimmediatamente l'estrema fragilità e la breve durata diquesta soddisfazione; ad ogni istante essa puòtrasformarsi nel suo esatto contrario, in uno stato discontentezza [neudovol'stvo) tale, da condurre il soggettoallo sconvolgimento e alla perturbazione (rasstrojstvo). Suquesto termine russo — composto dal prefisso raz cheindica separazione, divisione, movimento in vari sensi oazione intensiva e dalla parola stroj = ordine, regime,formazione, secondo il dizionario dell'Ožegov, esprime «un completo disordine a seguito del mutamento di unostato; una situazione spiacevole causata da un danno, dauna forma di disorganizzazione o da uno sconvolgimentodi un ordine; malattia che turba le funzioni naturali di unorgano; malumore, dolore, e perdita di un equilibrio spiri-tuale — mi pare possano confluire le diverse definizioniche Freud attribuisce alla parola Unheimliche (3). Initaliano, come nota il curatore del testo freudiano, iltermine risulta pressoché intraducibile, « potrebbe esserereso volta volta con inquietante, lugubre, sinistro, nonconfortevole, sospetto, ambiguo, infido e designacomunque una sensazione di insicurezza, inquietudine,turbamento o disagio, suscitata da cose, eventi, situazionio persone » (4). Che in Goljadkin questa minaccia siasempre in agguato, risulta evidente dal suo rapidocambiamento d'umore, le cui cause spesso sonodeterminate dalla paura degli altri, persone a lui note mache sente come estranee. Si viene così a produrre quellasituazione perturbante che, come afferma Freud, si con-cretizza in una « sorta di spaventoso che risale a

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quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare »ma che per delle ragioni strettamente legate allaformazione psichica del soggetto, risulta « nuovo einconsueto » generando uno stato di incertezzaintellettuale. Basterà, per esempio, che il servo Petruška,nel cap. I, parli con degli inquilini sulle scale, perchéGoljadkin s'immagini una congiura contro di lui e dica: «Mi ha venduto »; oppure più tardi, quando in carrozzaincontrerà prima i colleghi e poi il suo superiore AndrejFilippovič, « dopo una eccessiva allegria, il suo sorriso sitramutò in una espressione strana e preoccupata » a cuisegue prima un tremito, « rabbrividì » (vzdrognul) poi unintonti-mento, « rimase tramortito » (obmer). Anche questiverbi ricorreranno di continuo per esprimere un im-provviso e rapido trasalimento, seguito da una perditamomentanea dei sensi e un irrigidimento quasi fisico. Inquesti rapidi passaggi verso una « indescrivibile angoscia» [neopysannaja toska), Goljadkin non sa piùesattamente cosa fare e come primo istinto è portato anegare se stesso, si dice: « ... non sono io, ma qualcunaltro sorprendentemente simile a me ... non sono io, nonsono affatto io, non sono io e basta! » Goljadkin, dunque,teme ciò che gli e più familiare: se stesso e verbalizzandoquesta paura esprime un reale ma celato desiderio, la cuidialettica Io trascinerà, attraverso fasi grottesche, verso latragedia. Questa lacerazione tra l'Io e il non lo Io spinge aun bisogno di azione, sente di voler mettere a prova sestesso, s'interroga tra le varie e infinite soluzioni che gli siprospettano, è assalito dal dubbio, dall'esitazione efinisce col comportarsi in modo contraddittorio. Eccol'erompere dei pensieri che lo assale alla vista di AndrejFilippovič: « Fare un cenno d'inchino o no? Farsi ricono-scere o no? Presentarsi o no? » Si nasconde in fondo allacarrozza, quasi a trovare un rifugio, ma poi si toglie ilcappello e saluta; in altre occasioni darà al cocchiere o alservo una serie di ordini contraddit-tori e lui stessocambierà in continuazione le decisioni o le direzioniprese.Questo rapido susseguirsi di improvvisi cambiamenti

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(5) Probabilmente a suggerirequesto cognome fu il medicoAleksandr EgorovičRisenkampf, un amico con ilquale Dostoevskij visse, nellostesso appartamento, agli inizidegli anni '40.

(6) Jacques Catteau, Lacréation litteraire chezDostoìevski, Institut d'étudesslaves, Paris, 1978, p. 162.

(7) I brani delle lettere sonotratti dal tomo I delle Operecomplete (Polnoe sobraniesočinenij) di F.M. Dostoevskij,in XXX volumi, pubblicatidall'Isti tuto di Letteratura rus-sa dell'Accademia delleScienze dell'URSS, a Le-ningrado, dal 1972 e ancoranon complete.

di situazioni, in tutto l'arco della narrazione, è segnato dauna cadenza ritmica di avverbi del tipo:improvvisamente, di colpo, rapidamente, ad un tratto, inun attimo ... [vdrug, migom, bystro, razom, vot ...). Unaulteriore riflessione sul carattere di Goljadkin emerge dalrapporto che egli instaura con il medico KrestjanAleksandr Rudenspitz (5). La presenza del medico, rivelauno stato di malattia. Ora, il rapporto con la malattia, comesostiene lo studioso Jacques Catteau nel suo splendidolibro La création litteraire chez Dostoìevski, è spesso « laparola chiave dell'edificio dostoevsijano » (6), ma a parermio si è portati troppo spesso a vedere ovunque l'effettodella malattia, con il rischio di perdere di vista l'ottica piùstrettamente letteraria. Sul dato della malattia è statoscritto abbastanza, voglio solo precisare alcunecircostanze determinanti ai fini di un più completoinquadramento di quest'opera all'interno dell'interaproduzione dostoevskijana. Faccio riferimento a daticronologici e a precisi momenti biografici dell'autore,risalenti alla prima ideazione e all'ulteriore sviluppo dellafigura di Goljadkin.Tra « le molte idee nuove » (7) che in una lettera del 4maggio del 1845 al fratello Michail Dostoevskij dice diavere, sicuramente deve essere compresa anche quellasu // doppio se, nell'estate successiva trascorsa sempreinsieme al fratello a Rebel', gli espone un primo piano dellavoro. Rientrando a Pietroburgo dopo la vacanza, inun'altra lettera del settembre, in cui fra l'altro fa riferimentoa se stesso come a « un vero e proprio Goljadkin »,scrive: « Goljadkin ha avuto la meglio sul mio spleen. Misono venute in mente due idee e una situazione nuova ».La successiva lettera dell'ottobre entra già nel merito dellavoro di stesura e illustra un processo creativoabbastanza complesso e difficoltoso, tanto che in unaulteriore lettera del 16 novembre confessa: « Goljadkinnon è ancora finito ... viene fuori benissimo, sarà il miochef d'oeuvre ». Il lavoro continua freneticamente fino apochi giorni prima della pubblicazione sul n. 2 della rivista« Annali patri » (« Otečesvennye zapiski ») del 24 febbraiodel 1846.

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Che in quegli anni Dostoevskij avesse un rapporto direttocon la malattia mentale viene confermato sia da una suaautoanalisi, espressa a 10 anni di distanza circa, nel 1859,in cui si legge: « Sono stato malato per due anni di seguito(alla metà circa degli anni 40) di un male strano, psichico.Soffrivo di ipocondria. C'è stato perfino un periodo in cuiperdevo conoscenza. Ero troppo irascibile,impressionabile, capace di deformare anche i fatti piùbanali » (8); sia dalle Memorie del dottor Stepan DmitrevičJanovskij, il medico che l'ebbe in cura durante alcuniattacchi, allora qualificati come attacchi di epilessia. II me-dico afferma che Dostoevskij amava molto intrattenere conlui lunghe discussioni sulla malattia mentale e « che moltospesso prendeva in prestito manuali scientifici sullemalattie cerebrali e sul sistema nervoso »(9).Su una conoscenza personale dei sintomi di un disturbopsichico, dunque, Dostoevskij inserisce anche letturetecnico-scientifiche e sa talmente bene quale è il tipo dirapporto che tiene legati medico e paziente che, quandoGoljadkin si reca dal medico, suggerisce, « probabilmenteper tranquillizzare se stesso ... perché aveva sentitol'urgente bisogno di dire qualcosa di molto interessante » ed'altra parte Io stesso Goljadkin continua a ripetersi «sarebbe stupido nascondersi, il medico, come si dice, ècome un confessore ... conoscere il paziente è un suoobbligo ». Facendo bagaglio della sua esperienzaDostoevskij muta, tuttavia, questo iniziale rapporto difiducia in una forma di diffidenza, non appena durante laconversazione (in cui tra l'altro insiste sul datoconfusionale del protagonista, facendolo balbettare,ricorrendo a frasi mozze, a luoghi comuni e facendolosedere e rialzarsi in continuazione) Goljadkin vede nelmedico non più il confidente passivo a cui affidare i proprisegreti ma una entità attiva che gli suggerisce « unaradicale trasformazione del suo genere di vita ». Tanto èvero che al solo suono di quel verbo « lei deverivoluzionare il suo carattere » [perelomit', in russo è unverbo molto sintomatico, in quanto esprime l'azione dellospezzare in

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(8) Citato da Leonid, P.Grossman, in Dostoevskij.Roma, Samona e Savelli,1968, p. 118.

(9) Ibidem.

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due parti qualcosa, col significato traslato di cambiareradicalmente, di spingere con una certa violenzaqualcuno ad essere profondamente diverso), Goljadkinreagisce con quella fermezza di cui è capace soloquando avverte un reale pericolo e che10 porta ad esaltare i suoi modelli esistenziali: « io amola calma ... vado per la mia strada, me ne sto per contomio ... sono una persona pacifica ... amo la tranquillità(ljublju spokojstvie) e non la vita mondana ... io sono unuomo semplice, senza pretese,11 mio aspetto è modesto ... Sono un uomo da poco manon mi lamento del fatto di essere un uomo da poco.Anzi, sono perfino fiero di non essere un grand'uomo, maun uomo da poco. Non sono un intrigante, e anche diquesto ne vado fiero. Agisco apertamente, senzasotterfugi ... ». È una autodifesa di principio — sui cuivalori sì innesteranno più tardi quelli di segnoassolutamente opposto di Goljadkin junior — dettata sulmomento da un sottile e penetrante senso di diffidenza[nedoverie] che lo travolgono verso « una inquietudine,una grande inquietudine, un'estrema inquietudine »[bespokojstvo indica qui l'esatto contrario della «tranquillità » = skopojstvie, precedentemente difesa) i cuisegni sono riconoscibili anche in un cambiamento fisicoesteriore: « I suoi occhi grigi ebbero uno strano lampo, lesue labbra cominciarono a tremare, tutti i suoi muscoli,tutti i lineamenti del suo volto cominciarono ad alterarsi ea contrarsi ». Siamo di fronte alla lenta ma inevitabiletrasformazione (sottolineata dai prefissi verbali za cheesprimono il progressivo avviamento di un processo) daDottor Jekyll a Mister Hyde.Il medico riapparirà solo alla conclusione del racconto,ma con sembianze assolutamente diverse. Goljadkin, allimite della sofferenza, sembra solo voler farla finita, nonoppone resistenza e a chi lo sta conducendo verso lacarrozza dice « Sono pronto, prontissimo » e sentendosisoffocare « perdette i sensi » (letteralmente l'espressionevpal v zabyt'ë significherebbe cadere in deliquio) e inquesta sorta di vaneggiamento il medico gli appare nonpiù come

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l'immagine di un amico ma quasi quella di un gendarme(quello presagito nel sogno al cap. X) che gli parla con unaccento tedesco prima sconosciuto, che usa un tonosevero di rimprovero e che lo minaccia con la prospettivadella condanna al manicomio.Questo emergere del delirio, stadio ultimo di sdop-piamento e di scollamento dalla realtà, sul piano dellarappresentazione letteraria non ha mai connotati spe-cificatamente fantastici. Tutto risulta incredibilmente veroe contemporaneamente immaginato. I margini tra ilmondo della fantasia inferiore e quello esteriore,nell'esposizione narrativa, non sono mai netti e precisi,anzi spesso è Io stesso autore che inserisce ragionamentilogici o digressioni personali quasi a motivare,ammiccando con il lettore, l'incongruenza di certesituazioni paradossali. Per esempio, per giustificare ilterrore di Goljadkin quando sul ponte, dopo la precipitosafuga dalla casa di OIsufij Ivanovič(cap. V) incontrerà perla prima volta l’altro, Dostoevskij commenta: « Già, e abuona ragione, del resto. Il signor Goljadkin avevaperfettamente riconosciuto il suo amico notturno. Il suoamico notturno non era altri che lui stesso, era il signorGoljadkin in persona, un altro signor Goljadkin, maperfettamente identico a lui, insomma, era, quel che sidice, il suo doppio, sotto tutti gli aspetti ... ». Dopo quelprimo incontro inizierà la reale doppia vita delprotagonista e questo dualismo investirà tutto il mondocircostante, compresa la città di Pietroburgo con la suaprecisa toponomastica, le sue brume autunnali e i suoicupi colori. Ogni dato sarà percepito e interpretato comevero, senza che per questo perda un suo alone diambiguità, così come ogni fatto, dotato di tutti gli attributidel reale, sarà vissuto nella sua potenziale realizzabilità.Risvegliandosi la mattina dopo questa allucinante visione,Goljadkin ancora una volta crederà di stare vivendo unincubo e si domanderà: « È stato un delirio [bred), unaallucinazione momentanea della fantasia [mgnovennoerasstrojstvo voobraženija} o un ottenebramento dellefacoltà mentali [otemnenie

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(10) Tutti sostantivi in cui vasottolineata la prevalenza deisuoni consonantici z, s, /,nelle varianti zu, zo e /i, lu,Iju.

(11) Con un magistrale giocodi spostamento tra i diversisinonimi di « amico » e lacontinua ripresa di aggettivi eavverbi su cuialternativamente viene acedere la particella negativa.

urna)? » ricorrendo a termini tutti tecnici di un linguaggiostrettamente scientifico. Questa lacerazione tra ildesiderio di diventare un altro sul piano sociale, affettivo(vedi la sua immaginaria vicenda d'amore con KlaraOlsufievna) ed estetico (non a caso l'aspetto fisico diGoljadkin junior è quello di un giovane aitante) e lacontemporanea rinuncia a tale desiderio lo portanoprogressivamente verso forme di autoavvilimento e diautodistruzione.L'iniziale rapporto di affabile amicizia che si instaura tra idue Goljadkin lascerebbe pensare a una supremazia deldesiderio di Goljadkin senior sulla sua volontà di rinuncia;sarà solo successivamente, via via che Goljadkin junior sicomporterà in un modo che il I non riconoscerà più comesuo, che costui assumerà i peggiori connotati conformi alsuo perfido contegno. Sul piano etico diventerà unfarabutto [podlec], una banderuola [vertljavyj) unleccapiedi [lizun), un leccapiatti [lizobljud] e su quellomondano un mattacchione {šalun}, un pagliaccio [prygun)un ridanciano [chochotun) (10), fino ad essere aperta-mente: il nemico falsamente nobile [ložno blago-rodnyjneprijatel'), il falso amico (ložnyj drug), il perfido amico[verolomnyj drug), l'irriducibile nemico [neprimirimyj vrag],il crudele nemico [ožestočennyj neprijatel') (11), colui chesa comportarsi in società, sa parlare, sa scherzare eportare via all'altro non solo il posto di lavoro ma anchel'affetto di una donna.Eppure proprio queste due polarità, in una certa misura,da sempre sono appartenute a Goljadkin. Dostoevskij leaveva anticipate ancora quando il misero impiegato, alcapitolo IV, dopo essere rimasto nascosto per circa dueore nel ripostiglio, prima di entrare alla festa in casa diOlsufij Ivanovic, alla fine osa entrare: già allora la pauraera di Goljadkin senior e l'insolenzà di Goljadkin junior.Fra i tanti esempi indicativi ad illustrare il grado diimplicazione dello scrittore nella vicenda esposta e neiconfronti del destino del protagonista, la festa del cap. IVcostituisce un modello per eccellenza di narrazionecondotta « dal di dentro ». Il vissuto di

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Goljadkin è per Dostoevskij esperienza ancora in atto, in cuisi sente completamente coinvolto, tanto da rendere spessoimpossibile un distacco interpretativo. Tuttavia anchel'atteggiamento dello scrittore non è esente da quellaambiguità di cui si parlava precedentemente e oscillacontinuamente, sul piano della scelta stilistica, all'interno diuno sbilanciato equilibrio. Nel contatto con la realtà oratocca punte di dolorosa chiarezza, risultando realisticamentedescrittivo, quasi distaccato cronista, ora per la tensioneemotiva trasferisce l'intero episodio in una sorta di atmosferatrans-reale. Nel corso della festa (come in altre occasioni) Iostato di agitazione, di turbamento, o di delirio delprotagonista, da un Iato, viene descritto riportando nelconcreto dettaglio la reazione degli astanti, dall'altro,l'andamento prosastico, contrappuntato da una cadenzamusicale e linguistica che si sviluppa in tre tempi, ciascunodei quali è contrassegnato da un « forte » e da un « piano »cui segue una pausa dì silenzio e immobilità, acquistamaggiore valore concettuale. Seguiamo la cadenza ritmica;I° tempo: « la spietata orchestra attaccò fragorosamente unapolka [bec-poššadnyj orkestr grjanul pol'ku), Goljadkin «sussultò » (vzdrognul) « tutto cominciò ad agitarsi come unmare » (vce zavolnovalos' kak more), << improvvisamentetutto si confuse, precipitò » [vdrug vse zamešalos',zasuetilos') e << la musica tacque » [muzyka umolkla), « ...Goljadkin si muoveva a stento » [edva dvigalsja] ; II° tempo:« Klara lanciò un grido » [Klara vskriknula) ... « tuttifacevano domande, gridavano, discutevano » [vsesprašivalo, kričalo, raccuždalo), « l'orchestra tacque »[orkestr umolk) « e il nostro eroe, ... quasi sorridendomacchinalmente, borbottò fra sé » [geroj naš... masinal'no,otčasti ulybajas', čto-to bormotal pro sebja); III° tempo:quando ormai cacciato fuori, si riprende al contatto dell'ariafresca, « arrivò fino a lui il suono fragoroso dell'orchestra »[do nego doleteli zvuki vnov' grjanuvšego orkestra) e nelfinale, riacquistando tutte le forze « si precipta fuori versol'aria, verso la libertà » (brosilsja von, na bozduch, na volju...) (12).

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(12) L’attenzione agli effettiacustici va qui sottolineatanella frequenza dei suonigutturali dei gruppiconsonantici str, gr, vzdr, zd,vskr, spr, kr che alternandosia quelli più dolci di sa, ca, as,los raggiungono unamusicalità irripetibile nellatraduzione.

(13) Wassily Kandisnky,Tutti gli scritti, II vll., Milano,Feltrinelli, 1974.

Anche nel sogno del cap. X, che riproduce il com-portamento malvagio e infame di Goljadkin junior neiconfronti del derelitto Goljadkin senior, la stessa cadenzaritmica non fa che seguire parallelamente la suaprogressiva estensione verso l'incubo. Il rapidosusseguirsi di lunghe frasi, spezzate di continuo da ripetutiavverbi di tempo e disseminate di ogni segno diinterpunizione, s'interrompe sull'ossessiva iterazione diquel « appariva la nota persona » (javljalos' izvestnoe lieo)fino a bloccarsi a quel grido:« No!, non sarà così! » (Ne budet že etogo!) Al contrastotra rumori assordanti e imbarazzanti silenzi, in altre scenedi delirio, fa riscontro l'antinomia tra bagliori di luce e ilbuio, come nella scena della trattoria (cap. XI) in cuiGoljadkin si rifugia per leggere la lettera di KlaraOlsufievna e inavvertitamente fa cadere la boccetta con lamedicina prescrittagli dal medico: « Ad un tratto sussultò equasi gridò dallo spavento. Una luce nuova si diffondevaintorno a lui. Un liquido scuro di un ripugnante color ros-sastro scintillò sotto i suoi occhi con un bagliore sinistro ...La boccetta gli cadde dalle mani e si ruppe. Lanciò un urloe fece due balzi all'indietro, mentre la macchia del liquidosi allargava ... Goljadkin tremava tutto; il sudore gliimperlava le tempie e la fronte ».Questo passo suggerisce una digressione e fa ricordareche, sebbene in Dostoevskij il colore non abbia un precisovalore simbolico, in questo caso il rosso, « colore »,secondo la definizione che da Kandisnky nel suo libroDello Spirituale nell'arte (13) « che può essere solopensato o visto con gli occhi della mente », e, quindi, inquanto tale, « colore senza confini ... vivace, acceso einquieto » appare diametralmente opposto al colore verdedelle divise dei funzionar! zaristi e della tapezzeriadell'appartamento di Goljadkin, « un coloredisperatamente immobile e passivo », per ricorrere ancoraalla definizione kandiskijana, « un colore che, nellasocietà dei colori è ciò che la borghesia rappresenta nellasocietà degli uomini: un elemento immobile, senzadesideri, soddisfatto e raggiante ». Mentre al cap. XII,quando

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Goljadkin viene abbagliato dal riflesso degli stivali divernice nera di sua eccellenza (e il nero qui appare comecolore della morte), pensa fra sé: « Questo si chiama blick(14), un termine in uso fra i pittori, altri invece questoriflesso lo chiamano rilievo luminoso », questa annotazioneerudita, assume, in un momento di acuta tensionedrammatica, sfumature quasi da umorismo nero.Il tema dello sdoppiamento e delle allucinazioni che puòsubire un soggetto, sono di chiara derivazione romantica opiù specificatamente hoffmaniana (basterà citare anchesolo alcune opere di Hoffman per constatare quantoquesto problema interessasse10 scrittore, per esempio / sosia. Gli elisir del diavolo,Considerazioni del gatto Murr, La scelta della fidanzata.L'uomo di sabbia, ecc. ...) tuttavia su questa affermazioneè necessario fare un distinguo. Dostoevskij, a differenza diHoffman, non introduce mai il lettore in un mondopuramente fantastico, inventato o prodotto solo da unamente malata, un mondo la cui comprensibilità è riservata,come afferma Freud, a una «razionalità superiore » (15)assolutamente ignota al folle. Dostoevskij presentapiuttosto un tipo di proiezioni reali (potremmo dire perfinocoscienti) proprie della visione del mondo del folle stesso.Quanto più queste proiezioni si scontrano con la realtà,tanto più dolorosa è la reazione del soggetto. Èinteressante, ai fini di una verifica nel tessuto narrativo,soffermarsi sull'analisi di alcune scelte linguisticheintrodotte da Dostoevskij per rendere lo stato di completodilaniamento di Goljadkin. Si tratta quasi sempre di unaserie di aggettivi come:« sconvolto » [racctroennyi), « irritato » [razdražënnyj), «scarmigliato » (rastrëpannyj), « fatto a pezzi » [ra-sterzannyi), « smarrito » [rasterjannyj], in cui l'insistenzaancora una volta del prefisso raz, sottolinea qui unprocesso di dispersione e moltiplicazione intensiva; oppuredi verbi quali: oledenet', che dalla radice di lëd = ghiaccio,esprime un blocco del processo vitale, ostolbenet' =allibire, letteralmente, = restare di stucco o stuševat'sja, lacui spiegazione ci viene fornita dall'autore stesso sulle pa

(14) Dostoevskij fa ricorsoalla parola tedesca chesignifica sguardo, occhiatarapida e da cui deriva iltermine russo « lucidoriflesso ».

(15) Op. cit., p. 92.

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(16) F. Dostoevskij, Diario di unoscrittore, Firenze Sansoni, 1981, p.1144.

gine del suo Diario di uno scrittore. « La parola significascomparire, annientarsi, ridursi per così dire, a nulla. Maannientarsi non all'improvviso, non scomparire nella terra,con tuoni e lampi, ma, per così dire, delicatamente,pianamente, impercettibilmente, sprofondarsi nel nulla »(16). Altre volte invece la scelta cade su dei sostantivi deltipo: otemnenie = = ottenebramento, dalla radice temno =buio; oslablenie = indebolimento, torpore e onemenìe, chedal verbo nemet' = ammutolire, indica l'afasia che colpisceil soggetto annientato dal dubbio [razdum'e) e spinto allosbandamento [razbrod). Tutti casi in cui la radiceetimologica, nei suoi differenti significati, si associa all'ideadi una rinuncia alla vita. Va inoltre precisato che ladescrizione delle reazioni interiori, psicologiche delpersonaggio trovano sempre un riscontro effettivo anchesull'aspetto fisico esteriore. Più di una volta Dostoevskijinsiste sul « terribile sguardo annientatore » di Goljadkin,tanto che quando si trova in situazioni di profondo disagio(come al cap. Ili) " cambia addirittura andatura, zoppica,cammina a piccoli passetti, inciampa », spesso «arrossisce », « gli si paralizza la lingua », « gli vengono lelacrime agli occhi »; altre volte invece l'inquietudine simanifesta con i segni di una grande spossatezza fisica, èstremato, suda freddo e trema in tutto il corpo. Nel finale,addirittura, quando si lascia portar via, « il cuore gli dolevasordamente nel petto, il sangue gli pulsava alla testa comeuna fonte bollente; si sentiva soffocare, sentiva il desideriodi sbottonarsi la giacca, di denudarsi il petto, di cospar-gerlo di neve e di bagnarsi con l'acqua fredda ».Le creazioni letterarie dostoevskijane non sono maiarbitrarie o paradossali come quelle hoffmaniane,Dostoevskij sviluppa sempre dei fatti ciascuno dei qualirappresenta l'effetto coerente di una ben determinatareazione. A questo proposito Jacques Catteau afferma: «Ciò che in Hoffman non è che un'ironia di fondo, pudica eaccattivante, destinata a svelare le rivelazioni inquietantidel subconscio, nell'autore de // doppio si trasforma in unafarraggine artificiale, una maschera esteriore che altera iltragico reale

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del soggetto... Dostoevskij conosce certo lo stilepanphiettistico, sa usare il burlesco e il grottesco percreare un effetto di dissonanza, per mettere in rilievo iltragico e il patetico, ma ignora lo humour romanticoquando un dramma lo imprigiona dolorosamente » (17).Dunque, quell'idea « eccezionale » di cui Dostoevskji parlanella lettera al fratello Michail del 1859, e a cui « non èdisposto a rinunciare per la sua importanza sociale », cheegli « ha creato per primo » e di cui è « stato profeta » (18)quell'idea « luminosa » su cui ritorna ne // Diario di unoscrittore, nel novembre del 1877, definendola « la cosa piùseria che abbia mai introdotto nella letteratura », non èsoltanto l'aver trattato il tema dello sdoppiamentopatologico, anormale, il processo schizoide di una menteumana, quanto l'aver portato alla « scoperta dell'irriducibiledualità dell'anima umana » (19), l'aver anticipato che « lavoce del sogno, dello stato patologico, delle manifestazionianormali, conducono all'uomo e che non vannocondannate in quanto pericolose o estranee alla nostraesperienza quotidiana »(20). Del resto lo stessoDostoevskij aveva detto di sé: « Mi definiscono psicologo;è falso, sono solo un realista nel senso più alto deltermine, nel senso che descrivo tutte le profonditàdell'animo umano » (21).Il confronto con Hoffman, porta necessariamente a un altroconfronto: quello con Gogol'. La storia del poveroimpiegato Goljadkin è certamente un ulteriore sviluppo delPopriscin di Le memorie di un pazzo. Dostoevskj, tuttavia,pur seguendo le orme gogoliane, sul piano letterario daall'azione del suo racconto una cadenza più tragica, conritmi più dinamici, mentre sul piano psicologico, allarga iltema dell'umiliazione dell'impiegato-vittima, oppresso dallasocietà burocratica pietroburghese. Spinge, cioè, più afondo l'indagine sul tema della dignità offesa, del-l'amorproprio (ambicija), dell'uomo straccetto (čelovek-vetoška)che conserva una coscienza dei propri principi morali(ribaditi e difesi contro la malvagità degli altri), anche setale coscienza si presenta sotto forma di malattia ealienazione.

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(17) Op. cit., p. 87.

(18) Parole tratte dall'epi-stolario compreso nelleOpere complete, cit.

(19) J. Catteau, Op. cit., p.87.

(20) Ibidem.

(21) Dalla « Biografia » in Operecomplete, cit.

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(22) Tutti i successivi branitratti dai taccuini appaiononel volume Do-stoevskìjinedito, a cura di Lucio DalSanto, Firenze, Vallecchi,1980.

(23) Sarebbe troppo lungoriportare nel dettaglio tutti igiudizi della critica. Accantoa quelli negativi - espressifra i primi da V.G. Belinskij,da K.S. Aksakov e da A. A.Grigorev che definì ilraccon-

II legame genetico della poetica dostoevskijana con quellagogoliana risulta evidente anche in altre precise citazioni: ildialogo di Goljadkin con Petruska a proposito dell'arrivodella carrozza (cap. 1), rimanda alla scena iniziale di Unadomanda di matrimonio, mentre la descrizione del ballo(cap. IV) richiama nello stile comico-grottesco, nelleespressioni retoriche e altisonanti, la festa a casa delgovernatore del Cap. I di Le anime morte. C'è, inoltre, darilevare una continua coincidenza di nomi, quello diPetruska, di Karolina Ivanovna, non che il ricorso a unasemantica fonetica che qualifica, anticipatamente, alcunipersonaggi: da Goljadkin stesso (dalla radice gol', che,come riporta il dizionario del Dal', indica sia uno stato diassoluta nudità, di spoliazione sia il ceto sociale di personeestremamente povere) a Svinčatkin (da svinja = maiale), aPereborkin (da perebor che definisce uno stato dieccessiva abbondanza) fino a quello di Nedoborov (danedobor che allude, invece, a una menomazione). Perultimo, va tenuto presente che il titolo iniziale Le avventuredel signor Goljadkin [Priklijučenija gospodina Goljadkina)fu mutato nell'edizione successiva con quello di // doppio.Poema pietroburghese (Dvojnik. Peterburgskaja poema],che può essere interpretato come un omaggio al poemapietroburghese, Le anime morte, di Gogol'.Un'analisi a parte meriterebbero — ma forse non in questasede — non solo il confronto tra la prima edizione apparsasulla rivista « Annali patri » nel 1846 e quella in volume del1866, ma anche tutti i successivi cambiamenti e gli sviluppi,risalenti agli anni 1860 e 1863-73, conservati nei taccuini(22) dello scrittore ma, tuttavia, mai portati a termine. inconsiderazione della fredda accoglienza della critica (23),Dostoevskij, nell'edizione in volume, tolse tutti i riassuntiche precedevano i singoli capitoli e accorciò la trama(riducendola a 13 capitoli, rispetto ai 14 precedenti),eliminò molte ripetizioni, sintetizzò alcune situazioni, senzatuttavia modificare in nulla la trama. Fece, cioè, un tentativodi migliorare quella forma che, come egli stesso ammisenel Diario di

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uno scrittore nel 1877, non gli era riuscito di trovare:« allora non dominai la mia materia ». Più complessorisulta inquadrare l'andamento degli ipotizzatirimaneggiamenti; diremo soltanto, per ragioni di spazio,che appartengono a due ordini di idee. Da un lato indicanol'intenzione dell'autore di ampliare, con l'aggiunta di nuovesituazioni e di nuovi episodi, il rapporto tra i due Goljadkin,spingendone più a fondo l'intimità, come risulta da questaannotazione: « G-junior sa tutto sul maggiore e può venirea sapere tutto. Potenza del soprannaturale. Il minoreconosce, a quanto pare, tutti i segreti del maggiore, quasifosse la personificazione della sua coscienza ». Dall'altro,invece, testimoniano una precisa volontà dello scrittore dispostare l'azione nella sfera socio-politica, inserendomotivi tratti dall'attualità. Goljadkin per esempio, findall'inizio porta in sé i segni della doppiezza, frequenta ilcircolo Petraševskij dei socialisti utopisti econtemporaneamente ne denuncerà i mèmbri alla polizia.Le due laconiche parole « ossigeno e idrogeno » a lorovolta farebbero riferimento ai principi materiali deiprogressisti, in netto contrasto con « l'essere supremo ». Inaltri termini, l'abbandono della scelta religiosa per quellaateista presuporrebbe una intenzione dello scrittore di svi-luppare in chiave caricaturale il socialismo. Indicazionicerto molto interessanti ma che richiederebberoun'attenzione e uno studio più dettagliato e completo. Lachiave caricaturale e grottesca, sia pure, a un livello di piùcuriosa e giocosa descrizione, riappare nella nota « acasa, su tutto il frac, sono attaccate cartine di caramelle »;mentre tutta una serie di frasi del tipo: « Rapporto giuridicoe patriarcale nei confronti dell'autorità ... », « Anatomia diqualunque rapporto russo con l'autorità », « se l'autoritàsostituisce il padre, interviene il senso della famiglia » eancora « il principio dei rapporti del bambino con il padre »offre un ricco materiale grazie al quale si potrebbe risaliredirettamente alla prima formazione culturale e familiaredello scrittore.A conclusione di questa analisi che, certo, non vuoleessere esaustiva ma con la quale ho inteso fissare

to « una cosa ripugnantecome un cadavere » - vasegnalato quello positivo diN.A. Dobroljubov che seppeassociare il tema sociale aquello della tragedia psichica.

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alcuni nodi di riflessione passibili di ulteriore indagine, sipuò affermare che // doppio rappresenta una tappadecisiva nello sviluppo creativo di Dostoevskij, segna unaradicale spartiacque tra la produzione precedente equella successiva e apre il solco verso tutta la sua futuraattività letteraria. Sebbene l'autore non abbia mai piùripreso direttamente la figura di Goljadkin, le turbe cheagitano la sua anima sono rintracciabili in molti deiprotagonisti dei suoi grandi romanzi: da Raskol'nikov aIvan Karamazov, fino a Pëtr Verchovenskij.

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Il Sé nemico

Antonino Lo Coscio, Roma

II racconto di Dostoevskij inizia cogliendo un momento diun'esistenza, quella del Signor Jacov Petrovic Goljadkin,e ne individua un drammatico punto di passaggio, ilpassaggio dalla sanità alla follia. Inizia col descrivere unostrano risveglio — dunque insolito e quindi nuovo rispettoad un prima — e prosegue descrivendo con minuziosaesattezza lo sviluppo di una condizione di alienazionementale, accompagnando il protagonista fino alle sogliedel manicomio ove sarà rinchiuso.Il racconto può dunque essere letto come la relazione diun caso clinico centrato sulla illusione dell'esistenza di unsosia, un sosia che contrasterà con successo ogniaspirazione, iniziativa e gesto dello sfortunato eroe, che sitroverà — solo contro tutti — a realizzare unicamente ilproprio scacco, ad essere cioè l'artefice della propriasfortuna.Ma per comprendere il senso di questa alienazione, diquesto naufragio nella follia, per comprendere i profondisignificati di questo singolare racconto, è necessarioricostruire l'antefatto, qualcosa che motivi appieno questainquietante vicenda che, proprio in quanto folle, non è maicasuale o gratuita. E nel racconto

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sono presenti numerosi preziosi elementi che autorizzanoquesta ricostruzione del passato e, anzi, che permettonodi anticipare quella che sarà la futura situazionepsicologica del ricoverato Goljadkin.Tra gli elementi di rilievo del racconto vorrei ricordarel'universo monotonamente maschile nel quale si muove ilprotagonista, un mondo di funzionar!, di servi, dicamerieri, animato da due sole figure femminili: quella diKlara OIsùfievna, figlia del benefattore di Goljadkin equella — solamente nominata — d'una cuoca tedescache risponde al nome di Karolina Ivanovna.Quest'ultima rappresenta un antefatto, nel senso che unadelle accuse più infamanti che il Signor Goljadkinriceverebbe dai suoi ex-amici, divenuti poi i suoi piùaccaniti avversar! e detrattori, è proprio quella di averpromesso di sposare la cuoca presso la qualeconsumava i suoi pasti per evitare di corri-sponderle ildanaro dovutole.Tutto ciò, però, appartiene ad un recente passato che oranon è più: il presente del Signor Goljadkin è abitato dallasua ammirazione per la bella e giovane Klara edavvelenato dall'invidia per Vladimir, giovane e brillantefunzionario recentemente promosso ad un grado di rilievonella burocrazia zarista e che, per di più, è lo spasimanteufficialmente accettato della stessa ammaliante ragazza.La promozione di colui che Goljadkin considera inpectore come un rivale è un avvenimento insopportabileper il nostro frustrato eroe che comincerà a denigrare ilfortunato, ed al contempo a valorizzare se stesso fino aconsiderarsi — di fatto — come un pretendente.Questa decisione è poi in grado di sconvolgere la mentedel Signor Goljadkin che è fortemente divisa tra l'ordire eil non ardire.Le sue azioni sono convulse, i suoi gesti compulsivi econtinuamente contraddetti da paurosi rêvirements, cheesprimono bene la ambivalenza relativa al progetto diamore, un amore per il successo e per l'amata semprecamuffati da sbandierati sentimenti di giustizia e da nobiliprincipi.

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Sarà proprio mentre in carrozza vola — non invitato — adun pranzo in casa dell'amata che, scorto dal suo capo-ufficio e zio di Vladimir vorrebbe non esistere, cancellare lasua presenza, anzi, come dice testualmente, « far finta dinon essere io, di essere qualcun altro che mi assomiglia inmodo strabiliante » e ancora « ... non sono io e basta ».Questa fantasia di negazione, questa invenzione difensiva,avviene nel corso del primo atto del nuovo progetto: oredopo, al rientro dal primo fallimento del progetto, (in unostato di particolare frustrazione) questa fantasia simaterializzerà e comparirà sulla scena, nella realtàpercepita da Goljadkin, un individuo in tutto e per tuttoidentico a se stesso, il suo Sosia.Ricordiamo tutti le vicende sempre più drammatiche efallimentari che renderanno il sosia di Goljadkin,presentatesi inizialmente come uomo dappoco, smarrito ein cerca di aiuto, un competitore del vero e non più unicoSignor Goljadkin. In questa competizione i cimentivolgeranno sempre a favore del sosia, come avrebberoprobabilmente esitato gli scontri con il brillante pretendentedi Klara. Tutto ciò fino a che il sosia non prenderàdefinitivamente il posto del Signor Goljadkin: realizzandoparadossalmente quel successo professionale e sociale, distima e di simpatia che la tendenza del protagonista astushetsa (1) gli aveva sempre precluso.E, ancora, i successi di Goljadkin junior conduconoineluttabilmente alla totale alienazione lo sfortunato eroe,che sembra correre con tutte le sue forze verso la follia edil manicomio. Non a caso, durante la concitata visita al suomedico, Krestian Ivanovic, il Signor Goljadkin, aveva dettoche « l'uccello vola da se stesso verso il cacciatore »!Nelle ultime righe il sosia del medico, un altro KrestianIvanovic, spiegherà solennemente e con caricaturalepronuncia tedesca il nuovo destino che attende Goljadkin:l'internamento nell'ospedale psichiatrico di Stato.L'inizio, o meglio l'antefatto, del racconto — la presuntarelazione con la cuoca tedesca — e la sua conclusione —segnata dall'inopinato intedeschi

ti) II significato del termine èspiegato nell'intervento diSilvana de Vidovich. Si vedala pagina 58 dì questostesso volume.

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mento del medico — sembrano connettersi in un circolosignificativo e permettono di ipotizzare unainterpretazione psicologica degli avvenimenti interni, deimeccanismi mentali del protagonista. Possiamo cosìricostruire la sua storia inconscia che, determinandone icomportamenti, determinerà il suo infelice destino.Jacov Retrovie Goljadkin proviene da un paese diprovincia: dalla descrizione che il sosia fa di sé al SignorGoljadkin possiamo facilmente comprendere cheGoljadkin stesso ha avuto una vita stenta, difficile priva dipositivi rapporti significativi. Anzi ha dovuto lasciarel'impiego in un ufficio amministrativo, vittima innocentedella improvvisa depravazione dei capi ufficio, edemigrare a piedi verso la città, la ricca ed opulentaPietroburgo.Nella città ha trovato una discreta realizzazione comeburocrate di secondo ordine, accumulando tuttavia unarispettabile somma di denaro: 750 rubli. Vive in unapiccola e sudicia casa, separato solo da un tramezzo dalsuo servitore.Ha un influente protettore che lo ha aiutato nel lavoro,accogliendolo persino nella propria famiglia (vediamoinfatti come Goljadkin sia ben noto ai servitori delConsigliere di Stato Olsufi Ivanovic Berendieff). In tempipassati è stato in sub-affitto presso la non più giovaneKarolina, di famiglia tedesca, che preparava per lui i pastie verso la quale aveva stabilito un'ipotesi di relazionesentimentale. Se la relazione sentimentale è fortementeipotetica, la relazione profonda, inconscia, è certa echiara:Karolina ha rappresentato la madre che nutre e facrescere attraverso il cibo, oggetto significativo dirapporto primario.Il cibo è l'elemento simbolico per eccellenza, poichérealizza il primo rapporto del mondo con il bambino, ed èl'elemento attraverso il quale si crea una interiorizzazionetra madre che da e bambino che riceve. È un rapportonutriente, necessario, per il quale il bambino dipende dallatte concreto e simbolico che unisce madre e figlio. Ilbimbo si nutre della madre e restituisce in cambiogratitudine.

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Le parti infantili di Jacov Petrovic si legano al cibo diKarolina in un rapporto dipendente che il Signor Goljadkinvorrebbe perfezionare con un matrimonio:uno sposalizio che si pone in alternativa al pagamentoper il vitto e l'alloggio, la primitiva fantasia del bimbo chevuole sposare la mamma che Io nutre.Ma proprio grazie a questo cibo Jacov ha potutosoddisfare nel rapporto le proprie istanze orali inconsce: ècresciuto e ora vuole svezzarsi. La nutrice— evidentemente — non si oppone. Jacov Petrovic puòcosì lasciare la casa di Karolina ed andare a vivere dasolo, nell'appartamento che conosciamo, sostituendo lafigura materna con l'inefficiente servo Petruscka, al qualesi legherà d'un rapporto fortemente ambivalente [chealterna stima e affetto a disistima e timore dell'insidia].Il passo è stato difficile ma funzionale al distacco dalladimensione simbolica di incesto, vissuto fan-tasmaticamente durante la coabitazione con Karolina. Maun ulteriore passo, e ben più arduo, dev'essere compiutoper perfezionare lo stato di svezzamento:il Signor Goljadkin deve trovare una compagna, una verasposa.E sulla spinta di un travolgente tentativo di crescita, chenon rispetta ne i tempi di maturazione dell'inconscio ne lerigide regole della realtà sociale, il Signor Goljadkin inpreda ad una situazione di inflazione fa cadere il suoocchio sulla ricca giovane e bellissima Klara Olsufievnadella quale ha frequentato la casa in qualità di protetto deldi lei padre, il Consigliere Berendieff. È dunque Klara unasorta di sorella, separata da Goljadkin dallo stesso taboudell'incesto, come dalla differenza di censo. Ed in più èfidanzata a quel brillante e giovane Vladimir del qualeGoljadkin ha dovuto di recente apprendere lastupefacente promozione!La situazione nella quale si trova il Signor Goljadkinall'inizio del racconto è estremamente difficile perchéaperta su più fronti, e tutti precari:— Il rapporto con Karolina, conclusosi sul piano dellarealtà, ritorna imperioso attraverso le criti-

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che dei benpensanti: segno questo che le strutturesuperegoiche del protagonista attaccano il pregressodesiderio di incesto non sufficientemente superato, anziriproposto ad un altro livello dal desiderio per la figura diKlara.— Le fantasie di rapporto con la ragazza si scontranonon soltanto con il divieto tabuico ma anche con ladifficoltà a trasformare in oggetto di possesso colei che siera verosimilmente sempre rapportata a Goljadkinattraverso dei sentimenti di pietosa benevolenza;sentimenti che inchiodano il protagonista alla sua realeposizione di dipendenza nei confronti di ciò che è alonedel benefattore.— Ma, maggiormente, si apre la competizione con lafigura maschile, una competizione virile cui Goljadkin nonè preparato ne strutturato ad affrontare. (Infatti, possiamonotare che Goljadkin declinerà la competizione inpolemica, spostandola sui più giovani suoi colleghi, — inon promossi — ma non affronterà mai Vladimir).Queste notazioni mostrano come Goljadkin, nel suotentativo di crescita psicologica, abbia attivato, sce-gliendo Klara donna inaccessibile e quasi sposata, untriangolo edipico. In esso la figura femminile diviene —nuovamente — figura materna, figura maternasessualizzata ed inibita al desiderio di Goljadkin per lapresenza della figura maschile che ne può legittimamentedisporre.Lo svezzamento non è solo l'aver lasciato Karolina, mal'affrontare il proprio passato fantasmatico: è dunquetroppo difficile, ed il progetto di avanzamento subiscenecessariamente un'inversione e prende la strada dellaregressione. Regressione sul piano della crescitapsicologica ma anche della struttura della psiche, unapsiche — quella di Goljadkin — che comincia adappannarsi come coscienza. Quando la coscienza tendead una destrutturazione vengono meno i confini tramondo interno e mondo esterno, e quest'ultimo vieneinvestito di contenuti e di energie abitualmente racchiusenell'inconscio. Gli oggetti vengono investiti allora daquesta cor-

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rente e sembrano animarsi, avere vita propria edautonomia. E come i bambini dialogano con il loro orsettodi peluche così nell'adulto il destrutturarsi della coscienzaproduce le allucinazioni, mentre le fantasie ed i timoriinterni assumono carattere di realtà in una dimensione incui tutto è indistinto ed inquietante.Scrive Dostoevskij nella prima pagina del racconto:« Con aria familiare lo guardarono le polverose affu-micate pareti color verde sporco della sua piccolastanzuccia ... » e ancora: « la grigia giornata autunnale,torbida e sudicia, gettò un'occhiata furiosa dentro lastanza » (il corsivo è mio).Questo non è soltanto un originale modo letterario, ma, iocredo, il modo esatto con il quale la coscienza alterata diGoljadkin sperimenta il mondo che vede animarsi ecambiare sotto i suoi occhi.È a partire da questo particolare clima che si preparal'apparire del sosia, che seguirà dì poco il colpo dicannone che segnala a Pietroburgo l'allagamento dellacittà.Ma cos'è il sosia? Con tutta evidenza un oggetto internomaterializzato nella realtà, un'immagine parziale di noistessi che appare tuttavia come un individuo intero,identico nelle sembianze a noi stessi, ma profondamentediverso dal punto di vista etico e, dunque,comportamentale.L'immagine del doppio è un contenuto che può essereprodotto dall'inconscio di ogni individuo, ma che solocircostanze eccezionali possono far straripare in uncampo mentale che verrà illusoriamente colto comerealtà.È certo questo il frutto d'un anacronistico tentativo dìdifesa di fronte a situazioni capaci di far regredirel'individuo a livelli psicologici infantili e primitivi. Unadifesa che risulta costantemente vana, ma che puòritardare un più completo crollo psichico.La costituzione del sosia ha origine complesse chetrovano riscontro nelle grandi fantasie dell'uomo, come imiti, le costruzioni politeistiche, e cioè in tutti queicomplessi meccanismi del pensiero prelogico che tentanodi opporsi al pensiero della morte.

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Una primitiva esperienza dal cui nucleo potrà poi formarsil'idea di un doppio è rappresentata sia dallo sperimentarela propria immagine rimandata dallo specchio siadall'osservare l'ombra, e cioè quel segno individuale edunico che l'uomo esposto al sole traccia di sé sul terreno.L'ombra è considerata nella dimensione magico-religiosacome una parte integrante dell'individuo, a volte come unomologo dell'anima. Ed è nel mistero dell'immaginazionedell'anima che si situa la comprensione della figura delsosia, problema dunque non facile e di grande portata.In questa occasione dovrò limitarmi a dire che il doppio diGoljadkin ha tutte le caratteristiche — virtù o difetti nonimporta — che il Signor Goljadkin nega a se stesso.La situazione di regressione ha posto il protagonista aconfronto con l'Ombra, il che significa nell'ambito delpensiero di Jung, l'integrazione e il controllo delle partinon accettate di sé, tappa necessaria di ogni processopsico-terapeutico.La situazione del racconto non è tuttavia favorevole alSignor Goljadkin: il suo medico gli prescrive come curaun cambiamento di abitudini; distrazioni, frequentareallegre compagnie, ma soprattutto « essere amico dellabottiglia » e cioè proprio quegli aspetti di Ombra cheGoljadkin non può accettare e che solo il sosia,aggiungiamo, potrà brillantemente attuare. Il medico, congrande intuizione ma con altrettanta sopravvedutezza,propone al suo paziente proprio ciò che risulta precluso aGoljadkin dal suo piccolo mondo moralistico. Ciò farà direa Goljadkin: <c Può darsi che curi bene i suoi malati etuttavia è un somaro ».Ma è nel finale del racconto che Dostoevskìj si faulteriormente apprezzare per le sue notevoli doti dipenetrazione e comprensione psicologica. L'improvvisoparlare « tedesco » di Krestian Ivanovic, lungi dariguardare il dottore, sembra esprimere qualcosa cheappartiene al mondo interno di Goljadkin, qualcosa chetestimonia la condizione psicologica di quel particolaremomento.

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Ricordiamo che il medico, che parlava in perfetto russo alsuo paziente, assume solo ora questo ridicolo accento daoperetta.In una situazione di realtà questo recupero della linguamadre esprimerebbe il rifiuto di un già raggiunto livello diintegrazione nella cultura nella quale si è immigrati, afavore di una regressione nella cultura originaria.Se leggiamo questa regressione linguistica al livello delpersonaggio che la agisce, essa può spiegarciunicamente come questo dottore sia un sosia del dottore;ma se la consideriamo come qualcosa che riguardainvece Goljadkin, la comparsa del sosia di KrestianIvanovic rappresenta il fallimento del tentato distaccodalla madre ed il ricadere nell'universo materno senzaluce, ben più oscuro e primordiale del mondo e dellalingua tedesca della cuoca Karolina. Il sosia dottore sipone in questa fase conclusiva non come curante macome la severa madre che possiede interamente il figliodel quale finalmente si riappropria ed al quale — anchese è indegno dell'amore che ella ha per lui — imporrà ilgià desiderato « vitto e alloggio » senza che Goljadkindebba preoccuparsi di pagare.Così Goljadkin vivrà nell'utero sterile e morto che è ilmanicomio, senza alcuna responsabilità di crescita.Pagherà il prezzo di avere sposato la regressione e diaver cancellato ogni aspirazione e progetto:e in più con l'acuta sofferenza che gli viene dall'im-maginare fuori del manicomio, nel mondo che egli non hasaputo guadagnarsi, un Goljadkin, il suo sosia, che vivequella vita che avrebbe dovuto essere la sua. Comescacco, non c'è male: il Sé nemico ha vinto una voltaancora!

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V. M. Garšin,II fiore rosso

Anna Lo Gatto Mover, Roma

(1) Laura Satta Boschian,Tempo d'Avvento. Alle ori-gini culturali, religiose esociali della prima rivolu-zione russa, Napoli, EdizioniScientifiche Italiane, 1981,p. 12.

« Drammatica testimonianza della pazzia e perciò anchesquarcio autobiografico, la novella che, al di là di questivalori contingenti, ha un non comune valore artistico,segna come in un delirio il mo-mente culminante econclusivo del tragitto spirituale di Garšin. Anche per luicome per il malato ricoverato in manicomio, il problemadel male è ormai questione di vita o di morte. E offrirsi inolocausto per sconfiggere il male, sembra l'unica manieraper giustificare la vita e la morte. Ma il vantaggio che ilmalato ha su Garšin è nell'aver potuto individuare econcentrare il male del mondo in tre papaveri rossi cheocchieggiano al di là di una siepe. Basta strapparli eannientarli per vincere il male. La morte che è il prezzo diquesto atto risolutivo diviene così giusta e serena. IImalato muore infatti placato e pago con 'un'orgogliosafelicità nel volto'. Egli ha assolto al suo compito »(1).Con queste parole Laura Satta Boschian mette per-fettamente a fuoco nel suo libro Tempo d'Avvento, i trepunti essenziali che intendo esaminare: l'alto valoreartistico del racconto, la tragicità del conte-

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nuto, vissuta in prima persona dall'autore, e l'intimorapporto che intercorre tra il protagonista e l'autore,Vsevolod MichajlovičGaršin.II nome di Garšin, diversamente da quelli di tutti gli altriautori le cui opere vengono esaminate in questa serie diincontri è pressoché sconosciuto in Italia. Anche coloroche lo hanno sentito nominare, infatti, difficilmente — senon conoscono bene il russo — possono aver letto i suoiracconti, dato che le non molte traduzioni in italianorisalgono ad alcune diecine di anni fa e sonopraticamente introvabili. Penso perciò che prima diiniziare un discorso sul Fiore rosso sia giusto dare alcunenotizie sull'autore e sulle altre sue opere, onde poterinquadrare il racconto, definito dalla Boschian « squarcioautobiografico », nella vita e nell'opera dello scrittore esoprattutto nell'epoca che fu sua e che tanta influenzaebbe sullo sviluppo della sua ideologia e del suopensiero.Nato nel 1855, Garšin è di gran lunga più giovane nonsolo di Gogol', ma anche di Dostoevskij e Tolstoj, mentreè di poco più vecchio di Čechov, Sologub e Andreev. Conlui pertanto si può dire che si apre nei nostri incontri unanuova serie di scrittori: quelli vissuti a cavallo del XIX edel XX secolo. Di questo secondo gruppo, infatti, il soloGaršin, perché morto giovanissimo a 33 anni, non havisto il XX secolo e la sua opera è tutta concentrata inpoco più di dieci anni, tra il 1877 e il 1888, cioè nell'epocadelle cosiddette « questioni maledette » degli anni 70 e80 del secolo scorso. Queste questioni, nate dal falli-mento o graduale esaurirsi dei movimenti dell' << andataal popolo » e dei « nobili penitenti », Garšin le vissetragicamente in prima persona.Il punto cruciale della problematica di Garšin fu quellodella responsabilità individuale di fronte a situazioni e fattisociali gravi come, per fare un esempio, il perseveraredelle penose condizioni di vita dei contadini anche dopola liberazione dalla servitù della gleba e quello del diritto odovere degli intellettuali di non aderire, bensì di opporsiallo stato vigente delle cose, oppure ad esempio alla

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(2) V.M. Garsin, PolnoeSobranie Sočinenij v trechtomach, tom III, Pis'ma,Mosca-Leningrado, Acade-mia, 1934, pp. 11-15.

(3) V.M. Garšin, Sočinenija,Leningrado, Izd. Chud. Lit.,1938, p. 70.

guerra. Sarà appunto il peso di questa responsabilitàindividuale di fronte al male a sconvolgere il labile sistemanervoso di Garšin e del protagonista del Fiore rosso.Tutti gli amici e i contemporanei di Garšin che hannolasciato ricordi o scritto saggi su di lui, ne parlano come diun giovane buono, simpatico, da giovanissimo ancheallegro, sebbene soggetto a improvvisi sbalzi di umore,ipersensibile fino alla morbosità. Sappiamo chequest'ultima caratteristica andrà aggravandosi fino aportarlo alla follia.II primo dramma psicologico che Io turbò fu laseparazione della madre dal padre e l'essere egli stessoconteso tra loro. « L'espressione triste che predomina sulmio viso, probabilmente ebbe inizio in quell'epoca »,scrive egli stesso nella sua Autobiografia (2).II secondo dramma risale al 1876 quando si arruolò epartì volontario a combattere contro i Turchi nei Balcani.Garšin era notoriamente contrario alla guerra, ma decisedi arruolarsi perché riteneva immorale restare a casa conle mani in mano, mentre i soldati, cioè il popolo,combattevano e morivano, anche se all'epoca molti altriconsideravano al contrario immorale appoggiare unaguerra di conquista. Queste idee sono chiaramenteespresse nel racconto // vigliacco, ma sappiamo ancheche Garšin le difese con calore, quasi con rabbia, indiscussioni personali. Da questa sofferta decisione e dalleesperienze al fronte nacquero i racconti: Quattro giorni, IIvigliacco, L'attendente e l'ufficiale, Dai ricordi del soldatoIvanov. In tutti emerge e prende il sopravvento sullanarrazione di singoli episodi l'impostazione psicologica.Quello che interessa Garšin è il rapporto fra i soldati deicampi avversi, il rapporto dei soldati con gli ufficiali,spesso molto duri, e soprattutto la posizione di quegliintellettuali che, come lui, pur essendo contrari alla guerrasi sono arruolati poiché « se non parte uno, deve partireun altro e comunque un uomo sarà distrutto e sfinito » (3).Di questi racconti di guerra il più famoso è il primo, quelloche diede subito notevole fama a Garšin:

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Quattro giorni. È la storia di un soldato russo ferito — haambedue le gambe spezzate — che, prima di essereraccolto dai suoi, giace per quattro giorni accanto alcadavere in graduale putrefazione del turco da lui stessoucciso. Esiste anche in questo caso uno spuntoautobiografico in quanto Garšin cadde ferito a una gamba,tuttavia fu raccolto quasi subito e non patì per quattro giornile sofferenze da lui così realisticamente immaginate edescritte. In questi quattro giorni dominati dai pensieri delsoldato ferito che, bruciato dal sole e assetato, invidia ilmorto, non accade nulla all'infuori dell'avvicendarsi delgiorno e della notte, della calura afosa e del refrigerionotturno, e delle piccole manifestazioni della vita dellanatura nel campo dove giacciono il ferito e il morto. «Occorreva un'enorme maestria— scrive V. G. Korolenko nel suo articolo su Garšin — perfissare l'attenzione dei lettori su questi quattro giorni. EGaršin c'è riuscito con l'instancabile drammaticità del suopensiero » (4),Garšin ha scritto in tutto una ventina di racconti cheoccupano un solo volume di circa 400 pagine. Tra tutti,desidero attirare l'attenzione ancora su uno solo a meparticolarmente caro e che presenta notevoli punti dicontatto con // fiore rosso: l’Attalea Princeps.La palma, costretta a crescere in una serra, aspira allalibertà, come il folle del Fiore rosso aspira a liberare ilmondo dal male. Ambedue i tentativi si rivelano utopici. Lapalma muore dopo aver sfondato con grande fatica il vetroe i ferri della serra, ferendo e mutilando i suoi rami e le suefoglie. Uscita all'aria si trova davanti il grigio cielo nordico,la pioggia e il gelo. « Era autunno inoltrato. [.,.] Unapioggerella minuta cadeva frammista a neve, il ventospingeva bassi cirri di nuvole grigie [...] L'Attalea capì cheper lei tutto era finito [...]. II direttore dell'orto botanico or-dinò di abbattere la pianta » (5). La lotta della palma èvana quanto quella del folle che strappa i tre fiori in cuicrede che sia racchiuso tutto il male del mondo; unicopremio per ambedue è la morte.

(4) V. G. Korolenko, Vsevo-lod Michajlovič Garšin [Li-teraturnyj portret) in So-branie Sočinenij, Mosca, Izd.« Pravda », 1953, vol. V, p.174; trad. it. in / protagonistidella letteratura russa,Milano, Bompiani, 1959, p.683.

(5) V.M. Garšin, Sočine-nija,op. cit., pp. 122-123.

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Quello che va sottolineato è che sia la palma, sia il folle,muoiono perché non scendono a compromessi, nonhanno cedimenti, vogliono il massimo. Come si suoi dire:« o tutto o niente ».Come i racconti di guerra di Garšin nacquero da unaesperienza personale, così anche // fiore rosso propone esviluppa, in una avvincente forma artistica, undrammatico episodio della vita dell'autore:il suo ricovero nell'ospedale psichiatrico « Saburova dača».Sulla causa di questo ricovero e su alcuni antefatti citiamoquanto racconta lo scrittore Gleb Uspenskij nel suoarticolo « La morte di Garšin ».« Alcuni scrittori si erano riuniti [...] — scrive Uspenskij —per discutere del rinnovamento della rivista 'La ricchezzarussa'. Fra gli altri c'era anche Vsevolod Michajlovic. IIsuo stato anormale, eccitato, attirò subito l'attenzione ditutti. Nessuno aveva mai visto Garšin in quello stato.Rauco, con gli occhi rossi continuamente inondati dilacrime, raccontava non si sa quale terribile storia, manon finiva le frasi, s'interrompeva, piangeva e correva incucina a bere e a bagnarsi la testa sotto il rubinetto ».Quindi Uspenskij torna indietro e racconta i fatti del giornoprima: « Ecco cosa era successo a Garšin: alla vigilia delgiorno in cui lo incontrai alla nuova redazione della rivista,alle tre di notte [...] egli era entrato quasi a viva forza daun personaggio molto altolocato di Pietroburgo, avevaottenuto che lo svegliassero e aveva cominciato asupplicarlo in ginocchio, tutto in lacrime, dal profondodell'anima, con lamenti che laceravano il cuore, di voleressere clemente con una persona che doveva subire unagrave punizione. Il personaggio altolocato gli disse alcuneparole di consolazione ed egli se ne andò ». Sappiamoche il personaggio di cui parla Uspenskij era il conte LorisMelikov, ministro degli Interni e capo di una commissionespeciale creata apposta per combattere i movimentirivoluzionari. L'altra persona è il giovane rivoluzionarioIppolìt ÒsipovičMIodeckij che aveva tentato di uccidere ilconte, ma aveva fallito, era stato preso e condannato amorte. Siamo nel 1880.

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Uspenskij prosegue: Garšin « non aveva dormito tutta lanotte, forse anche tutto il giorno precedente, era diventatorauco a causa della preghiera che aveva urlato, a causadella sua invocazione di pietà, e sapendo egli stesso cheper mille ragioni la sua richiesta era irrealizzabile, cominciòa star male, si ammalò, beveva a bicchieri l'alcolicobalsamo di Riga, piangeva, infine sparì da Pietroburgo, siritrovò in non si sa quale tenuta del governatorato di Tuia,a cavallo, con indosso solo una leggera giacchetta, poi, apiedi nel fango si trascinò fino a Jasnaja Poljana poi andòancora non si sa dove, in una parola si comportava 'comeun matto', finché non arrivò a quello stato in cui un malatoviene ricoverato in ospedale ». E Uspenskij aggiunge:« Anche questa volta diventò 'come matto' non solo perragioni ereditarie e perché era malato, ma perché la suamalattia ereditaria era fomentata dalle impressioni dellavita contemporanea » (6).Da questa drammatica esperienza personale, oltre che daconsiderazioni su problemi esistenziali e di coscienzanacque il capolavoro di Garšin, // fiore rosso, la storia di unfolle, ricoverato in manicomio in stato di grave agitazioneche, a un certo momento, immagina che tutto il male delmondo sia racchiuso in tre papaveri rossi del giardino delmanicomio e decide di distruggerli. Prescindiamodall'esattezza della descrizione dello sviluppo dellamalattia (argomento di competenza del collegapsicoanalista) ma segnaliamo il fatto che la descrizione deltetro ospedale e dei duri metodi di cura che vi erano usati,corrisponde esattamente alla descrizione che un giornoGaršin fece ad un collega della « Saburova dača ». Quellaconversazione terminò, pare, con queste parole di Garšin:« Se mi si presentasse l'occasione di scegliere tral'ospedale e i lavori forzati, preferirei trascorrere anche treanni ai lavori forzati piuttosto che uno solo nell'ospedale »[7].Da un punto di vista artistico, il racconto, nella suaconcisione — 16 pagine in tutto — è costruito con raffinatatecnica letteraria in un crescendo che ci coinvolgetotalmente.

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(6) Gleb Uspenskij, PolnoeSobranie Sočinenij, S.Peterburg, Marks, 1908, tomVI, pp. 691-692.

(7) N. Beijaev, Garšin, nellaserie « Zizn' zameča-tel'nych Ijudej », Mosca, «Molodaja Gvardija» 1938, p.112.

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Ancora una volta, come in Quattro giorni e in AttaleaPrinceps non accade quasi nulla, la vita scorre monotonafra le mura del manicomio, come nel prato e fra i vetridella serra, ma qui più che altrove si sente incombere latragedia.II racconto inizia con le parole del folle quando entra nelmanicomio:« In nome di Sua altezza imperiale, il sovrano imperatorePietro Primo, ordino la revisione di questo manicomio ».E quasi subito dopo, quando sente dire agli infermieri diaccompagnarlo nel reparto a destra, interviene:« Lo so, lo so. Sono già stato qui con voi l'anno scorso.Abbiamo visitato l'ospedale, lo so tutto e sarà difficileimbrogliarmi ».II povero folle ci appare quasi risibile e con le sue manie digrandezza ci ricorda un po' il Popriscin gogoliano delDiario di un pazzo.Subito dopo, in occasione del bagno, il tono cambiaradicalmente. Garsin scrive a proposito della stanza delbagno che: « Essa poteva produrre una triste impressioneanche su una persona sana e quindi tanto piùpesantemente agiva su una immaginazione sconvolta eagitata ». E prosegue: « Quando portarono il malato inquesta camera terribile [...] egli fu preso da terrore e furia.Pensieri assurdi, uno più spaventoso dell'altrocominciarono a roteare nella sua testa. Che cos'è?L'inquisizione? Un luogo segreto per le esecuzioni in cui isuoi nemici hanno deciso di eliminarlo? Oppure l'infernostesso? Infine pensò che era una tortura » (8).A questo punto non abbiamo più alcuna voglia di ridere enemmeno di sorridere. II povero folle ci appareestremamente indifeso e ci fa sincera pena. Ma dalcapitolo terzo in poi il tono cambia ancora e situazioni diquesto tipo non si presentano più. Il racconto ormai vertesolo sull'ossessione del malato di voler strappare quei trefiori rossi che ha visto oltre la siepe e che crederacchiudano in sé tutto il male del mondo. La suaagitazione espressa nel continuo camminare e parlare inmodo sconnesso e incomprensibile coinvolge nel suocrescendo anche noi

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(8) V. M. Garšin,Sočinenija, op. cit., pp.222, 223, 224.

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e siamo portati a far tifo per il folle perché riesca adeludere la sorveglianza dei guardiani e a strappare quei tréfiori rossi.Il primo fiore il malato Io strappa perché i guardiani nonstavano molto attenti, non conoscendo le sue intenzioni.« Nessuno vide come egli entrò nell'aiuola, afferrò il fiore efrettolosamente se Io nascose in seno sotto la camicia.Quando le fresche foglie bagnate di rugiada sfiorarono ilsuo corpo, egli si fece pallido come la morte e spalancò gliocchi terrificato. Un sudore freddo gli imperlò la fronte »(9).Dopo la cena quando tutti ormai dormivano, egli solo nondorme. « Tremava come se avesse la febbre e si stringevaconvulsamente il petto imbevuto, almeno così glisembrava, di un veleno mortale come nessun altro » (10).Dopo il primo fiore, la sorveglianza su di lui aumenta, maciononostante egli riesce a strappare un secondo fiore estringendolo sul petto « sente che dal fiore il malefuoriesce a fiotti lunghi e striscianti come serpenti; essi Ioavvolgevano, lo stringevano, opprimevano le sue membrae imbevevano tutto il suo corpo del loro orrendo contenuto» (11).A questo punto la tensione aumenta ancora e sembraquasi che egli non possa arrivare a prendere il terzo fiore;egli infatti si consuma, dimagrisce, e i medici per cercare difrenare il suo moto perpetuo, dopo avergli somministratooppio e morfina, quando questi non agiscono più, lo fannolegare al letto. Ciononostante il malato con incredibile forzae abilità riesce a liberarsi e, scavalcando il guardiano cheper sorvegliarlo si era sdraiato accanto al letto, esce nelgiardino e superando molti ostacoli dovuti alla suadebolezza e alla scarsa luce notturna, arriva finalmentevicino al terzo e ultimo fiore rosso. « — L'ultimo —mormorò il malato — L'ultimo! Oggi la vittoria o la morte.Ma questo per me ormai è indifferente. Aspettate — disseguardando il cielo: — presto sarò con voi.Strappò la pianta, la lacerò, la schiacciò e tenendola

(9) Ibidem, pp. 231-232.

(10) Ibidem, p. 233

(11) Ibidem, pp. 234-235.

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(12) Ibidem, pp. 237-238.

(13) V.G. Korolenko, So-branie Sočineniì, op. cit., vol.V, p. 193; trad it., op. cit., p.702.

in mano tornò per la stessa via nella sua camera. IIvecchio dormiva. Il malato arrivò a stento al letto e crollòprivo di sensi ».Ormai anche per noi la tensione è crollata e siamopreparati al finale.« Al mattino lo trovarono morto. Il suo viso era calmo esereno; i tratti del viso estenuato, con le labbra sottili e gliocchi chiusi, profondamente infossati, esprimevanoorgoglio e gioia. Quando lo misero sulla barella tentaronodi aprirgli il pugno per prendere il fiore rosso. Ma la manoera indurita ed egli portò con sé nella tomba il suo trofeo »(12). « È difficile immaginare — scrive ancora Korolenko— quel tempo lontano in cui questo racconto di Garšin(come al solito breve) cesserà di emozionare e com-muovere i cuori col suo contenuto profondamente tragico edi destare ammirazione con la straordinaria bellezza e lasemplice severità della raffigurazione » (13).// fiore rosso fu scritto nel 1882 e pubblicato nel 1883, lostesso anno in cui Garšin si sposò e trovò un lavoro cheavrebbe arrotondato i magri guadagni letterari. IImatrimonio sembrava felice e la vita più facile, maevidentemente la malattia seguiva il suo corso. Un giornodurante i preparativi per un viaggio su cui Garšin stessocontava per un miglioramento della salute, uscì sulpianerottolo e si buttò giù dal quarto piano. Morì cinquegiorni dopo, il 24 marzo 1888.

Per concludere vorrei dire che il merito artistico di Garšin èquello di aver saputo mettere a fuoco nei suoi breviracconti, senza introdurre disquisizioni o digressioniteoriche, quei problemi o « questioni maledette » che piùhanno angosciato gli intellettuali della sua epoca esoprattutto lui personalmente, e che, a ben vedere, sono iproblemi umani di ogni epoca e paese: il problema cioèdella libertà (v. Attalea Princeps) e quello dellaresponsabilità individuale di fronte a situazioni cheriguardano tutti, soprattutto quelle sociali e politiche.La concisione, la semplicità e la mancanza di ogni

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retorica, nel proporre concetti di valore universale eproblemi profondamente umani, sono caratteristiche cheavvicinano Garšin a Čechov. Racconti come // monaconero, ma ancora di più, per la sua maggiore semplicità,La corsia N. 6, non possono non far pensare al Fiorerosso. Tuttavia si può rilevare che la tragicità dei raccontidi Čechov è meno palese di quella di Garšin. In Garšin sisente fin dall'inizio l'intenzione di elevare a simbolo il fattonarrato. Non per nulla, Attalea princeps e // fiore rossosono stati detti " allegorie ». La simbologia dei dueracconti è invero lampante. Nel Fiore rosso addiritturaduplice: quella del fiore che racchiude tutto il male delmondo, esplicita e valida per il malato, e quella implicita evalida per il lettore, della follia di chi pensa di potersalvare il mondo dal male.

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Il potere dei simboli

Paolo Aite, Roma

Un modo di avvicinare il « Fiore rosso » di V. M. Garšinper proporre un commento dal mio specifico punto divista, credo sia entrare nella scena che l'Autore cipresenta.Alcune immagini evocate dal racconto saranno il filo cheseguirò nella esposizione. Credo che la sofferenzapsichica provata da Garšin nella vita e di cui ho notiziesolo parziali, gli abbia permesso di vedere e farci vederequalcosa del mondo ancora oscuro della psicosi.Una scena centrale nel racconto ha colpito in particolarela mia attenzione: « Quando l'assistente cominciò acercare il nuovo ammalato, gli fu indicata la porta esternadel corridoio. Egli stava lì ritto, il volto attaccato al vetrodella porta del giardino, e guardava fisso le aiuole. Unfiore di un rosso vivo, una varietà di papaveri, avevaattirato la sua attenzione.— Favorite venir qui a pesarvi — disse l'assistente,toccandogli la spalla. Ma quando quegli voltò a lui lafaccia, l'altro indietreggiò dallo spavento, tanto eraselvaggio e tanto odio ardeva in quello sguardo. Se nonche, vedendo l'assistente, mutò immediata-

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mente espressione e lo seguì obbediente, senza dirverbo, come immerso in profonda meditazione ». Il branocitato si è imposto alla mia lettura come una via diaccesso al racconto di Garšin. Prendo lo spunto dal giocodi sguardi evocato da queste parole, per avvicinarmi aquel paziente che, fin dalle prime battute del racconto, ciappare « diverso », immerso in un mondo tutto suo.Egli infatti è separato dagli altri, isolato, proprio perchéattribuisce alle circostanze reali dei significati che nonsono inerenti, non corrispondono alla situazione che stavivendo.Lo psichiatra qualifica questo suo stato con la parola «delirio » una condizione psichica che suscita in noi unareazione emotiva alterna, tanto da spingerci sia al sorriso,sia alla pena più profonda che al rifiuto.Fino al momento della scena appena descritta egli è statocome trascinato dal suo stato psichico in una febbrile,continua agitazione. Proprio davanti a quella finestraall'improvviso si è arrestato, e la sua attenzione è parsacome catturata dalla percezione di quel fiore rosso.Credo sia opportuno fermarsi a riflettere sulla rapidasequenza di sguardi e di espressioni che l'Autore cipropone; questo suo « come » infatti apre degli orizzontialla nostra percezione dell'evento psichico che staaccadendo davanti a quella finestra. Un fiore rosso cheper noi è un segnale che designa un oggetto ed uno solo,si carica di significato e attira l'attenzione delprotagonista.Quella percezione sembra l'occasione di un atto psichicodiverso dal solito.Come infatti il racconto nel suo svolgersi ci chiarirà,questo atto serve a « concepire » qualcosa che non c'è; ilfiore è l'occasione percettiva di questo pensare cheemerge improvviso nel turbinio di impressioni, significatimomentanei, in cui il paziente è travolto. La meditazioneche segue l'evento percettivo e arresta quel fluireincessante per un momento, richiama infatti l'essereintento a un pensiero che occupa la mente.

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(1) Niel Mickelm si soffermasul momento terrifico della «non riflessione » cheprecede il delirio, cogliendonel mito di Perseo e Medusala struttura archetipicadell'evento.« Il delirio nella psicologiaanalitica » - Rivista diPsicologia Analitica, n. 17,1978, p. 261.

L'analista davanti a quanto accade, comincia a usare isuoi strumenti per comprendere: qualcosa che era lontanodalla coscienza instabile e travolta del protagonista, mapur presente, tramite la percezione di quel fiore emergeimprovviso e la occupa.Il lampo di odio selvaggio nello sguardo del paziente chesorprende l'assistente sembra qualificare quel « qualcosa» che è apparso; esso si configura come l'espressionedell'effetto perturbante e violento di un contenutoinconscio che, tutto a un tratto, si fa presente in un oggettocosì consueto e famigliare come un fiore.Quello sguardo ci indica infatti la qualità, la natura di ciòche è apparso davanti a quella coscienza; è qualcosa diconnesso alla violenza, alla distruttività. Il poeta ci favedere anche di più: dalle sue parole emerge il dato chequegli occhi portano la violenza, anzi sono la violenzastessa senza più la luce della riflessività.In essi infatti non c'è l'ombra di un contrasto, di unsentimento che rifletta la presenza di quanto è apparso,ma la paura come la sorpresa compaiono nell'altro,nell'assistente che vede o meglio intuisce, qualcosa diinsondabile in quegli occhi. Si può dire che quanto èavvenuto in quel momento, può essere visto solo diriflesso, tramite l'altro che ne è testimone. Questo potervedere solo indirettamente ci ricorda il mito di Perseo chepuò affrontare la Gorgone solo cogliendo di riflesso il suovolto terribile che pietrifica (1).Questo attimo che direi di assenza di ogni dimensioneumana nello sguardo del protagonista, di vuoto di ogniriflessività, mi appare come un'apertura sul mondo senzaconfini della psicosi. Il paziente infatti anche se sembraadeguarsi immediatamente alla situazione realedell'assistente che lo chiama, è come tornasse da lontano,da una dimensione diversa.Nella scena descritta il poeta mette al centro un eventopsichico che sfugge e va oltre i limiti di quella coscienza. Èproprio questa impossibilità, questo vuoto di ogni

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risonanza che sembra adombrare il mistero insoluto dellapsicosi. Per delimitare con i nostri concetti quanto lascena ci presenta, descriviamo quanto è avvenuto comeun atto psichico il cui carattere è quello di connettereall'improvviso quella coscienza a un contenuto sotteso,inconscio; una parte oscura della psiche, fino a quelmomento tenuta lontana, è apparsa in quegli occhi.In molti altri dati espressi nel racconto infatti traspare unaestrema difesa, un tenersi a distanza del paziente daqualcosa che invade. Emblematico in questo senso è ilcolloquio col medico che precede la scena appena vista;il protagonista infatti ci colpisce per la superiorità cheostenta come una maschera di sicurezza. « Perché aveteraccolto una quantità d'infelici e li tenete qua dentro? »chiede al medico, e ancora:« lo intuisco tutto e sono tranquillo, ma loro? ». « Quandosi comprende di avere qui, nel cervello, una grande idea,un'idea universale, poco importa dove si vive e quel chesi sente ». Si può ora dire, paragonando le battute diquesto colloquio col medico a quanto è poi accadutodavanti alla finestra del giardino, che la percezione delfiore lo ha messo a contatto col male che, fino a quelmomento, egli ha negato in se stesso. Egli non puòriconoscerlo come proprio ma Io vive fuori, prima suglialtri poi sul papavero.Dopo quanto è accaduto tra lui e il fiore però qualcosa èmutato.L'ostentazione di questa superiorità tipica del « matto »anche per il senso comune, che suscita in noi cosiddettinormali, un sentimento misto in cui l'ironia e lacompassione sono copresenti, ci permette ora di coglierein essa il carattere di una reazione difensiva.In quel porsi in alto c'è un tentativo, un modo diorganizzare un'estrema difesa di sé, di fronte a unincalzare che non conosciamo e chiamiamo psicosi.Quella superiorità psicotica, questo modo di costruire unadifesa ad un tempo onnipotente e fragile, racchiude iltentativo di ritrovarsi del paziente.

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Ci si può ora chiedere: ma cosa è sotteso a quellaapparente superiorità che sembra infranta alla percezionedel fiore?Il racconto di Garšin sia prima che dopo l'episodio dellafinestra è dominato dal moto incessante, convulso efebbrile del paziente. È qualcosa che invade indominabileil suo corpo anche quando egli si sofferma in colloquio,come accade col medico, e parla con intelligenza eacutezza non comuni; quel moto diventa una sorta diconcitazione del pensiero e delle parole che Ioesprimono. Il movimento incessante sia del corpo chedella psiche descritto da Garšin, non lascia requie allettore e gli fa intuire come il tempo e lo spazio di quelpaziente spinto sempre in avanti, siano diversi. Egli infattisembra non avere più un ritmo riconoscibile e l'ampiezzasenza confini del panorama che quel fiore ha aperto aisuoi occhi, ce lo fa sentire ancora più isolato rispetto aquanto Io circonda.Si profila un suo modo di essere che sfugge alla nostracapacità di comprensione.Vorrei soffermarmi sul disagio che questa impossibilità acomprendere ci suscita; qualcosa in quel comportamentochiama ma rimaniamo senza risposta. La reazione piùspontanea davanti a questa situazione, è di dare un nomea quell'indefinibile che ci stimola e ci mette in ansia; quelnome spesso non ci serve tanto a distinguere ma adesorcizzare il disagio che proviamo. Le parole come «psicotico » « schizofrenico », anche tra gli esperti a voltesembrano mettere là, fuori di noi, ciò che intimamente cidisturba. Gli operatori che invece tentano di entrare acontatto col mondo di cui il nostro protagonista è unesempio, sanno bene quanto sia legittima la nostradifesa, anche se solo superandola ci si può arricchire diuna esperienza valida come poche per il sensodell'umano che suscita.L'unica strada per avvicinare il mondo psicotico, anche selunga e percorribile da pochi, è lasciarsi penetrare da quel« diverso », osservando non solo l'altro ma anche ilproprio coinvolgimento a volte ai limiti del sopportabile.

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Ritornando al racconto è più facile avvicinarsi a quelmovimento incalzante e a quell'isolamento che Garšinriesce a tradurre con le sue parole. Ogni lettore puòlasciar parlare dentro di sé queste due « presenze »sempre agenti nel racconto, e comprendere così più davicino cosa accade all'operatore che non smetta diinterrogarsi avvicinando lo psicotico. Da parte mia possoora solo agevolare questo contatto tra lettore eprotagonista, associando alcuni dati che stimolino lacomprensione.L'agitazione che occupa il corpo del paziente mi fapensare immediatamente alla paura, anzi a quellaparticolare infinita paura, il panico, che scatena in tutti noiun movimento compulsivo, inarrestabile.La paura in genere ed il panico in particolare, richiamanola necessità imperiosa di un contenimento, o meglio diuna compagnia che entri in risonanza con quellaemozione che invade. L'esempio più tipico di questo attodi contenimento è la risposta ad un tempo psichica efisica, che la madre sa dare al bambino quando è travoltoda stimoli che ne scatenano l'emotività.Possiamo ritornare per un momento a quello sguardo diodio e distruttività del paziente da cui siamo partiti, perrichiamare l'attenzione sull'intima connessione che esistetra la paura panica e la distruttività. Sulla scena infatti lapaura si era fatta presente nella reazione emotivadell'assistente accanto alla distrut-tività scorta nelpaziente.La rabbia, la distruttività mi appaiono come la risposta piùprofonda al panico che deriva dall'essere senza confini,senza il contenimento che restituisca una dimensione disé.Non è un caso che mi sia venuto proprio ora spontaneoparlare del bambino.Il bambino spesso reagisce ad un eccesso di stimola-zione sia fisica che psichica, con un movimento globaleche occupa tutto il suo corpo analogamente al nostroprotagonista. Guardando quel movimento incessante equella incomunicabilità che Garšin propone, la metaforadel bambino ci può aiutare a comprendere. Si può anchedire che quel paziente è

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regredito all'infanzia, alle modalità di reazione che le sonoproprie; il suo comportamento appare allora come untornare indietro per difendersi su un'ultima linea primache l'invasione allaghi tutto il territorio. Infantile, si puòancora dire, è anche quella superiorità apparente, primanotata, che tenta di reagire a una paura incontenibile maidichiarata. La percezione del fiore rosso sembra avercreato una crepa in quella difesa estrema e un contenutofino a quel momento negato è apparso improvviso.Possiamo solo immaginare che dietro la rabbia distruttivadi quello sguardo, traspaiono una esperienza di isola-mento senza risposta e il panico che ne è la conse-guenza. Un mutamento è avvenuto in quell'attimo el'insolito comportamento del paziente, il suo fermarsicome a meditare, ne è il primo segno.

L'Autore fa passare un certo tempo tra la scena che hocommentato e la conclusione della vicenda; è come sequanto è accaduto rimanesse racchiuso, come in latenza,nel paziente ma tuttavia presente. Egli infatti riprende ilsuo movimento incessante e a tratti, sopratutto nelle orenotturne, pare riemergere con lucidità da quel flusso chelo spinge.L'Autore osserva: « Forse l'assenza d'impressioni, laquiete notturna e la penombra, forse il debole lavoriodella mente appena desta, facevano sì che in queimomenti egli avesse un concetto esatto della propriacondizione e sembrasse una persona sana ». « Masorgeva il giorno, e insieme con la luce e col risvegliodella vita nell'ospedale, l'onda di impressioni lo travolgevadi nuovo, la mente inferma non vi si raccapezzava e lafollia tornava ad impadronirsi di lui ».Il movimento incessante si fa via via più convulso sia alivello fisico che psichico; la coscienza del paziente infattisempre più perde i parametri dello spazio e del tempo, ereagisce costruendo attorno alle impressionimomentanee una rete di significati sempre più fitta.Nonostante questa progressione angosciosa, egli

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sembra essere sempre lo stesso da quando lo abbiamovisto all'ingresso dell'ospedale. Ancora uno sguardo peròè l'occasione che fa riemergere ciò che supponevamomutato in lui, dopo l'episodio della prima percezione delfiore. Garšin ci fa vedere di nuovo il paziente davanti aquei fiori: « Si cavò il berretto — ove era disegnata unacroce rossa — e guardò la croce, poi i fiori. Il rosso deifiori era più vivo ». È ancora una percezione che scatenail contatto: il rosso comune alla croce e ai fiorì. La scenadescritta sembra rappresentare un inizio di riflessione, diconfronto, tra quelle due forme che hanno undenominatore comune: il rosso. « Tra i due è il fiore chela vince — disse l'infermo — staremo a vedere ».In poche battute l'A. ci descrive come riappare quanto erapresente anche se nascosto dopo la prima esperienzaavuta tramite il fiore. Quanto prima era un vissuto nondicibile, sembra ora essersi organizzato nel confronto trafiore e croce. Il non senso assume un significato solo oraper il paziente; si è strutturato un delirio, osserval'esperto, che non abbandonerà più il protagonista edappare come un modo di ritrovarsi davanti a quella spintaoscura che sempre più lo domina. Egli ora vede una lottatramite quella croce e quel fiore entrambi rossi, è unalotta cosmica tra male e bene, dove comunque gli èpossibile trovare un suo posto.Il poeta riesce ad aprirci un orizzonte su quanto staaccadendo, e proprio nella scelta di quel rosso comune alfiore e alla croce, ci propone una intuizione penetrante deldelirio.Tra i due il paziente è preso subito da una delle due partiche vede in lotta e proprio l'elemento comune, il rossoche scatena il confronto, gli sfugge. In altre parole se eglivede lo sfondo comune tra quelle due forme, in questascelta immediata senza latenza, senza riflessione, entralui stesso nella scena e diventa parte che può agire inquella lotta come fosse reale.

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In questo rapido mutamento, in questo passaggioall'azione, l'invenzione poetica di Garšin fa trasparire laconfusione tra immaginario e reale che è propria dellopsicotico.L'impossibilità a riflettere su quel rosso che accomuna idue oggetti adombra una mancanza più profonda. Èl'incapacità a formare e usare una rappresentazionesimbolica; non c'è spazio per una creazione della mente,la rappresentazione appunto, che venga distinta in sé,come spazio intermedio tra noi stessi e il reale. È il luogodella riflessione quello che viene a mancare, ove vienedistinta la rappresentazione in sé pur nella suacontraddittorietà.Riappare qui quella mancanza dell'attitudine a riflettereche era stato l'attributo più evidente dello sguardoviolento da cui siamo partiti. La rappresentazione fallisceperché quel rosso comune che unisce le due particontrapposte, non apre degli orizzonti alla coscienza delpaziente.Il fiore come la croce diventano due entità reali in lotta enon immagini che alludono al male e al bene. L'attributorosso delle due forme contiene una apertura allariflessione che sfugge alla coscienza del pazienteincapace di mettere insieme e contenere in unaimmagine simbolica la contraddittorietà di una esperienzaper lui invivibile.La possibilità di formare e usare una rappresentazioneche metta insieme l'esperienza di ciò che appareinconciliabile alla coscienza nel contatto con la vita,sembra fondata sulla capacità di contenimento dellacoscienza. Sotto la spinta impellente del male e del benedi cui è intessuta la vita di ognuno, la possibilità allarappresentazione, permette il differimento della rispostaallo stimolo e apre all'orizzonte della riflessione anche ciòche non è immediatamente presente. Nel protagonista,come abbiamo visto, è proprio questa latenza che vienea mancare, e allo stimolo del confronto tra croce e fiore,egli perde misteriosamente la possibilità dellarappresentazione come testimonia la sua scelta im-mediata. La sua coscienza, retta fino a quel momentosolo dalla precarietà di quella estrema difesa psi-

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cotica, ha perso già i suoi limiti e così la possibilità dicontenere e riflettere su quanto gli sta accadendo. Si puòdire che troppo grande e potente è ciò che gli si èpresentato rispetto alle possibilità della sua coscienza.L'A. riesce a farci percepire la tempesta energetica in attoin quel momento; le due forme irrimediabilmente scisse,separate e opposte dominano ora la scena, e il pazienteviene come trascinato da quella lotta immaginaria, ma perlui reale, che gli impone un ruolo.È come se egli entrasse in un gioco mortale senzasaperlo riconoscere. Questa associazione mi fa pensareall'esperienza del gioco nell'infanzia; essa è l'espressionenaturale di quella capacità di formare e usarerappresentazioni simboliche di cui parlavo poco fa.Il bambino infatti proprio in quegli atti tratta la suaesperienza; i suoi desideri inattuabili, come le sue paure,entrano nella scena del gioco e proprio perché riesce arappresentarli e a viverli in quello spazio, impara atrattenerli ma, al tempo stesso, a conoscerli.In questo suo teatro dell'immaginazione egli riesce ariunire in esperienza simbolica il bene e il male che gliderivano dal contatto col reale. Il bambino però sa digiocare, usa l'immaginazione e la distingue sempre dalreale, mentre nel nostro protagonista l'immaginazione nonsi distingue più dal reale ed egli anziché usarla ne èusato. Proprio il bambino ci insegna che la sua possibilitàdi gioco è sempre in relazione con la sicurezza, con unospazio libero e protetto, dove l'immaginazione possa dareforma alle sue rappresentazioni. È come dire che questapreziosa possibilità è strettamente legata alla sicurezzache deriva dal contenimento inteso come più sopraaccennavo. Il paziente che a mio parere non ha maipotuto vivere questo spazio di gioco e di riflessione, overappresentare e conoscere le parti inconciliabili del suovissuto, assume ormai l'unico ruolo possibile. Il malesempre negato che emerge, non può essere

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riconosciuto anche come proprio, perciò non è vivibile eassimilabile ma diventa concreto, personificato, davanti alui.L'immaginario diventa un reale esterno: « II fiore —osserva Garšin — agli occhi suoi, era il male per-sonificato, che aveva assorbito il sangue sparso degliocchi innocenti (perciò era così rosso), tutte le lacrime,tutto il fiele del genere umano. Era un essere misterioso eterribile, era l'opposto di Dio, l'Arimane fattosi umile einnocuo ».Il male come personalità indipendente non mi appare unespediente del poeta. Si può dire che il paziente, rotti gliultimi, residui legami con i parametri dello spazio e deltempo propri della coscienza, veda il mondodefinitivamente con gli occhi del sogno. Anche nei nostrisogni di tutti i giorni infatti, i conflitti e le emozioni chederivano dalla vita, appaiono come personaggi con cui ciincontriamo, scontriamo o con cui dialoghiamo inavventure significative per l'indagine analitica.Il paziente sprofondato ormai nel suo delirio, sembra avertrovato uno scopo alla sua azione e si orienta perrealizzarlo in modo coerente. In realtà per chi osservaegli non è che una parte del sogno che lo domina, ed èmosso da un invisibile giocatore che gli suggerisce gliultimi atti del suo dramma.Il tipo di sogno che egli vive senza accorgersene, ha uncarattere cosmico e primitivo; ci ricorda infatti le grandivisioni che l'umanità ha prodotto nella sua storia, nei miti,nelle religioni, nelle fiabe. Questa analogia semprepresente nei disturbi psichici più profondi, ci fa supporreche le risposte che l'uomo ha sempre cercato di darsi neisuoi miti, davanti ai problemi insolubili come quello dellaviolenza, del male e della morte, si possono riattivareanche nel singolo.Anche Garšin in questo racconto ci propone una rispostaarchetipica; davanti alla potenza del male il pazienteprende la via del sacrificio: un modo tipicamente umano.Egli ritrova in quell'atto una risposta già presente nei miti,nelle religioni; è l'eroe che si sacrifica, che offre la partepiù preziosa di sé,

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per allontanare e trasformare il male che invade la terra.Concepisce così che l'unica via di uscita da quellaprofondità che gli si è aperta sotto i piedi, è morire perraggiungere le stelle. Nel delirio ha ritrovato il suo senso.

Ho cercato di assolvere il mio compito entrando nellascena del racconto e scegliendo alcuni momenti per mesignificativi.Nel seguire la sequenza degli eventi, così come sonostati evocati dalle parole di Garšin, mi sono proposto diascoltare e vedere quel paziente usando alcuni strumenticoncettuali o modi di comprendere, così come mi accadedi fare nel lavoro clinico. Proprio nella sequenza delracconto, nel modo di mettere in scena questa storiadrammatica di un delirio acuto, mi è parso di coglieredelle prospettive sul mondo misterioso delle psicosi,difficili da ritrovare nella letteratura specialistica. È raroinfatti nelle descrizioni cliniche percepire questa aperturedi orizzonte, risentire le sensazioni impalpabili che accadedi vivere a contatto diretto con la sofferenza psichica. IImio ovviamente non può ne vuole essere un ap-prezzamento letterario, ma la constatazione di come ipoeti sappiano vedere e far vedere, forse a loro stessainsaputa, mentre il nostro modo di comprendere « permeccanismi mentali » spesso non è in grado di creare lestesse prospettive.Mi rimane il rammarico di non aver potuto attingere, permancanza di conoscenza, al testo originale del racconto.Il modo in cui l'A. usa la propria lingua credo avrebbeaperto un orizzonte ancora più vasto; certi modi di dire edi comporre lasciano trasparire ancora più quel « vedere» che attribuisco all'intuizione poetica.Anche se mi sono dovuto adattare a una traduzione cheal mio orecchio risente del tempo trascorso, il potereevocativo del racconto emerge egualmente. TramiteGaršin il lettore può assistere e partecipare, nell'evolversidella vicenda a una « psicosi acuta »; può percepire ilprofondo isolamento e la regressione di questo statopsichico, ed entrare in quel-

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l'atmosfera delirante in cui ogni percezione assume unarisonanza diversa, significativa. Il delirio, per quantoassurdo alla nostra coscienza, assume anche il senso diun modo di organizzare una esperienza paradossale, ovesono alterati i parametri dello spazio e del tempo chenormalmente ci orientano.Diventa anche evidente come la rabbia e la distrut-tivitàdello psicotico che ci portano spesso ad allontanarlo e arinchiuderlo, per la reazione emotiva profonda che suscitain noi, sono strettamente col legate al contagio dellapaura e del vero e proprio panico, che stanno alla basedella sua particolare esperienza psichica.Le parole di Garšin ci hanno avvicinato al mistero delmondo psicotico facendo trasparire, come ho tentato didire, un nucleo intimo di questo modo di essere che èl'incapacità a formare e ad usare le rappresentazionisimboliche. Viene a mancare così quel luogo dellariflessione, quello spazio intermedio tra reale ed interno,che nel nostro sviluppo è rappresentato dallo spazio delgioco e poi dall'area ove nascono i nuovi accostamentiche aprono alla cultura prospettive diverse.È proprio questa mancanza a determinare nello psicotico,come nel protagonista che abbiamo seguito, laconfusione tra immaginario e reale. Il racconto si prestaad un'ultima considerazione che riguarda il delirio vistocome un modo di riorganizzare una esperienza in sé nonvivibile, in un sistema paradossale ma coerente.Il nostro paziente è un esempio di come il delirio cosmicodi lotta tra bene e male permetta di trovare un centro euno spazio di azione che egli coerentemente porta avantifino alla fine. La grandiosità del sogno che egli vive comereale si oppone all'impotenza totale del suo essere almondo. Abbiamo già notato come questo suo modo diconcepire quanto accade attorno a lui, richiami sponta-neamente dei paralleli col mito e con dei rituali del-l'antichità (II sacrificio come risposta). La forma di questodelirio come quella dei deliri che si presentanoall'operatore nella pratica clinica,

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sembra non casuale ma costruita su motivi dominanti, glistessi che sono presenti nei miti e nei rituali. Nella forma deldelirio che appare anche nei pazienti di oggi, è possibilecogliere la coerenza di motivi che si ripetono, nonostante imateriali moderni con cui sono costruiti (l'energia atomica, iraggi laser ecc.).Riappaiono frequenti i temi della rinascita, dell'in-fluenzamento, della distruzione catastrofica del mondo edella sua ricreazione, il conflitto degli opposti in cui ilpaziente di oggi, analogamente al protagonista, può sentirsichiamato come messia e salvatore. Perry, analistaiunghiano e psichiatra che ha lavorato per anni nel campodelle psicosi acute, in recenti lavori ci fornisce dei dati che cidevono far meditare (2).I primi che vorrei ricordare sono dati statistici; l'A. sostiene che inun campione abbastanza vasto di casi di psicosi acute,mentre le remissioni cliniche sotto trattamentofarmacologico sono molto rapide, le percentuali di ricaduta inepisodi successivi sono dell'ordine del 73%!Le recidive in casi non trattati farmacologicamente e che, almomento dell'episodio iniziale, hanno richiesto l'attività di unintero staff di assistenza, precipitano all'8%! Se questi dativerranno confermati da nuove ricerche, ci si devono porredelle domande di fondo.Una prima proposta di Perry ci fa considerare il delirio comeprocesso di riorganizzazione dell'immagine di se stessi;quella stranezza che è il delirio ai nostri occhi, contiene asuo avviso la potenzialità di un tentativo naturale diguarigione. Sembra che, quando esso può svilupparsianziché essere soffocato sul nascere, il decorso della ma-lattia muti nel tempo come le percentuali delle recidivesembrano dichiarare. « La psiche, osserva Perry, sa cosasta facendo » ma essenziale è la risposta emotiva dello staffche assiste il paziente. Là dove prevale una sorta dipaternalismo nell'operatore che spesso si accompagna aduna azione difensiva caratterizzata dalla tendenzaall'etichettamen-

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(2) J. W. Perry, << Lapsicosi come statovisionario >>, in Rivistadi Psicologia Analitica,n. 17, 1978, p. 213.

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to con termini esorcizzanti come « schizofrenia », «psicosi », il processo acuto non può svilupparsi nel sensosostenuto da questo Autore.È determinante nell'atteggiamento dell'operatore ilcredere alla presenza di una potenzialità terapeuticaanche in quel teatro del delirio, simile alla tragedia, overiaffiorano naturalmente temi archetipici come nei miti.Un contenimento attuato dallo staff che miri ad eliminare ilpregiudizio difensivo sempre pronto a scattare in ognunodi noi, apre Io spazio all'evolversi del processo. Esso è lacondizione preliminare alla partecipazione del terapeutache per le implicazioni emotive profonde che determinaha bisogno di un gruppo di lavoro alle sue spalle.L'approccio al mondo psicotico infatti mette a contatto conintense, a volte distruttive, cariche inconsce che non tuttisono in grado di reggere; se il terapeuta è orientato comesuggerisce Perry può porre attenzione alla trama deldelirio, al suo evolversi, per riconoscere in esso unaconfigurazione già presente nel mito, e ciò oltre cheaiutarlo nel suo tentativo, gli apre una prospettiva sullerisposte che sono necessario a quell'individuo.Quella forma che appare nel delirio contiene infatti lapotenzialità di una risposta tipicamente umana. L'arte delterapeuta sta nel saper restituire ciò che è presente comeprogetto, gradualmente alla coscienza di chi è statoinvaso e travolto dalla psicosi. Sui modi e i tempi diquesta restituzione all'individuo che soffre, il discorso èancora tutto da fare e aperto alla ricerca. Si può direintanto che l'azione di contenimento e di ricerca, attuatada questo punto di vista, mira a mettere in primo pianol'esperienza profondamente umana di chi è costretto adattraversare un episodio psicotico.Chi avrà l'opportunità di leggere il racconto (attualmentedifficile da trovare sul mercato), vedrà proprio questovalore emergere dominante nella scena intensa cheGaršin ha saputo lasciarci.

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L. TolstojLe memorie di un folle

Baio Della Porta, Roma

Non sono uno speculatore, sonod'una pasta poetica, io?

(Majakovskij) = M

Dis-appunti e contrappunti

Coi folli è necessario essere folli. Con Tolstoj non ènecessario essere nemmeno troppo folli:Le Memorie di un folle o memorie di una follia:è sbagliato.Ma memorie di un lucido, non le Memorie di un folle, doveè meno volutamente falso pur essendo falsa la morale.Le Memorie di un folle non sono le memorie di una follia,e nemmeno le follie di una memoria. Non sono affatto lesue Memorie, la memoria della nostra follia o la follia dellanostra memoria: non sono assolutamente ne la miamemoria, ne la mia follia. Tolstoj riferisce. Majakovskij,ferisce. La follia e la memoria di Tolstoj non sono il miopatrimonio. Se sono il vostro patrimonio, io e voi nonabbiamo nulla in comune, poiché la mia intenzione non èdi riferire Tolstoj, ma di ferirlo; sempre che una falsa folliao una falsa memoria è possibile ferire. Il Tolstoj-OrsaMaggiore (M) — femmina —, il virile piagnucolone cirimette e ci dimette. Conferire è più facile che ferire. E piùche ferire

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Tolstoj, io differisco da Tolstoj poiché da Tolstoj si puòsoltanto differire.Io rifiuto un patrimonio comune, poiché Tolstoj è unpatrimonio comune a tutti: la sua eredità, comune a tutti,non è la mia eredità. La mia memoria di lui può soltantoferire lui e differire da lui. Differire è più che dissentire.Sentire Tolstoj: questa sì che è follia! « A questo nonresistente al male/gli darei/un calcione sotto la schiena! »(M). Le Memorie di un folle sono le memorie di Tolstoj,ma non le memorie di un folle. Le sue Memorie nondovranno essere mai la nostra memoria, poiché la suamemoria riferisce più che ferisce, noi. « Gettare Puškin,Dostoevskij, Tolstoj, ecc., dalla nave del nostro tempo »(M): non è bastato! Ma Puškin e Dostoevskij ci ferisconodoppiamente, con la loro vita e con le loro opere; equesto non è capace di mostrarci Tolstoj. Timidamente,forse, soltanto con La morte di Ivan Il'ic (Saintsbury).Aggiungo La sonata a Kreutzer: ma « quanti scrittorihanno smarrito la strada! ... Tolstoj dopo Guerra e Pacecol bastone impastò la terra, ..., si tura il naso e va alpopolo, ..., un intrigo spassoso o l'attraente idea deifilantropi » (M). Ma il poeta fu troppo buono con Tolstoj eperché poi canzona soltanto Tolstoj? Ma « Tolstoj non èun artista. La musica, la pittura, la scultura, la lirica, tuttoquesto per Tolstoj non esiste » (Ot. Brezina). Conferire,cioè raffrontare, Tolstoj con Dostoevskij è stato e saràsempre un luogo comune, poiché la memoria conservaanche le cattive abitudini, oltre che le tradizioni dellacritica letteraria. È necessario dimenticare Dostoevskij ePuškin che non hanno necessità della nostra memoria:sapranno sempre farsi avanti, e senza tanti complimenti,sbattendoci in faccia la loro autentica follia. Ma ènecessario dimenticare anche Majakovskij, nonostante lasua ferita sia anche la nostra ferita;anch'egli è entrato a far parte dei « generali classici » daattaccare. Strano generale: sempre più amato cheattaccato!

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Ma non ci può ferire, dunque, Tolstoj. Allora, sarànecessario deferirlo al tribunale del suo passato, che nonè il mio passato, in quanto che la sua memoria non fu maifolle. Un passato che fu davvero folle, mi si affacciadavanti, da solo, e distrugge il mio. Non si è mai sentitodire di un folle che avesse delle memorie, che nonfossero, anche, folli memorie.

non in un Tolstoj, ma in un grassone (M) *Mi sto tramutando

Le Memorie di un folle, contraddizione?, è possibile; enon si ha dunque depensamento, che pure sarebbe reale,se la memoria fosse folle: poiché il depensare è ilritrovare la follia della propria memoria, attraverso larimozione. La rimozione si realizza attraverso ildepensamento. Depensare è ancora ritrovare, e ritrovarsiè ferirsi. Depensare è, dunque, ferire.Se non si accetta la Morte e la Vita, non ci si può ferire,ma soltanto si può riferire. Tolstoj non poteva accettare laDonna, poiché non accettava la Vita. Non accettando laVita, non accettava la Morte. E quindi accettava la Donnacome depravazione, peccato, non come Gioia, Piacere,ultimo Desiderio. Il centro della sua angoscia, non la mia,è tutto qui:incapace di depensarsi, non poteva ferirsi; non potevapossedere una memoria davvero folle, ma potevasoltanto riferire attraverso le sue Memorie di un folle, noncerto con la follia di una memoria, che è ferita pura.E così, è che gli indizi probanti intorno alle cose palesi sievincono dalle cose nascoste: e questo vale allaperfezione riguardo al testo tolstojano sulle Memorie di unfolle. Da questa breve ma intensis-sima produzione fucancellato più tardi quanto segue, che getta luce su tuttala vicenda psicologica dello autore: « È stato, quello, undeserto ... di piaceri carnali, di ottusità spirituale e dìtramortimento ... 14 anni: era la lotta e la sofferenza dellamorte; 30 anni: era la lotta e la sofferenza della nascita. A14

* Gioco di parole fra Tolstoj e tolstyi (grasso, obeso, corpulento).

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anni, quando conobbi il vizio del piacere corporale, io neinorridii. Tutto l'essere mio si protendeva ad esso, e tuttol'essere (si sarebbe detto) vi si ribellava ».Così, la demonizzazione della sessualità porta all'auto-biografico, alla negazione della vita, o meglio, alla suanon accettazione. Se il piacere carnale equivaleall'ottusità spirituale, se il piacere corporale equivale alvizio, ossia al difettare (vitium, è difetto, mancanza), enon già alla pienezza della vita, si tratta di un problema direspingimento, di rimozione, « quasi più nulla, adesso mene sovviene, e me li richiama alla mente con fatica e conribrezzo », (era la frase, che precede le frasi già sopramenzionate).Non accettazione, quindi, dell'imago feminae, non ac-cettazione della sessualità, non accettazione della Vita.Riduzione della femmina a demonio, della sessualità avizio, della Vita a vuotaggine.

Ma io sono un uomo, Maria,

Lasciami entrare, Maria!

Maria, più vicino!Con denudata impudenzaoppure con un pavido tremoreconcedimi la florida vaghezza delle tue labbra (M).

Inutilmente allora Tolstoj (pazzo, ma quanto?) formula ladomanda a Dio: non ottiene risposta, « ma risposta nonc'era, come se non ci fosse neppure chi potesserispondere ». Voleva che gli svelasse se stesso, ma Eglinon si svelava. Forse perché era già stato respinto inispirito, decenni prima, nella fattispecie, chissà, d'unacontadina, d'una serva ... posseduta, sporcata, vomitata.Come nel mito sumerico Gilgames respinge la Gran Deache gli si offre. Ma non riesce ad evitare la Morte.

È risaputo:tra mee Dioci sono numerosissimi dissensi. (M).

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Le Memorie di un folle sono lo specchio non infedele deisuoi Ricordi e del suo Appunto Scherzoso. II personaggioautore (autore-personaggio) delle Memorie ha lamedesima biografia dell'autore. Le date coincidono. Ilbambino delle Memorie non riesce a quantificare lasofferenza altrui e perciò si dispera; le azioni rivolte controdi lui direttamente non lo portano alla disperazione,poiché è capace di quantificare il dolore, e perciò ècapace di reagire.Ma questo è un riferire alla portata di tutti! Io riferiscomalvolentieri.Riferire in tale maniera è preferire, non ferire. Nelmomento stesso in cui comincerò a ferirmi non ferendovoi, in quel preciso istante, io sarò da voi assente, poichénon è pensabile, da parte mia, riferire, senza che non siaferita la mia presenza. E non riferirò Tolstoj, chesignificherebbe: questo io so, questo noi già sappiamo.Unica mia consolazione (?!) è mettere a nudo questofarsesco novello re Lear (il re di Shakespeare non sidenudò affatto, ma fu denudato dalla follia). Tolstoj,purtroppo, non fece soltanto male a se stesso con la suafollia — cosa che sarebbe stata auspicabile fece del malea tantissima gente, direttamente o no, ma comunque èresponsabile di tantissime morti.Ancora biografi nostrani si tormentano — per costoro mainon invano — su questa melliflua e melensa saggezza: «più erbivori/delle pecore/si riuniscono i tolstoiani. /.../ Urlan/ come furiosi tenorini ». (M)Paradosso o no, nella casa del cosiddetto apostolo dellanon-violenza (chissà se pure in casa Gandhi v'era lastessa situazione di famiglia) c'è la guerra. E questasaggezza mi costringe ad essere assente del tutto el'ironia è una assenza. Mi sarebbe piaciuto riferire deitentativi di volo che avrebbe voluto compiere Tolstoj, chenon furono, tuttavia, tutti insinceri, ma goffi senza rimedioe pericolosi per gli altri:questa è storia. Era un asceta in continua ascensione.Una ascensione più immaginata che reale. Tanto è veroche Sonja Tolstoj riferisce che a lui piaceva:

cacciare e difendere gli animali

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mangiare bene e seguire diete vegetariane essereartista e condannare l'arte fare l'asceta e indulgere aisensi proclamarsi cristiano e demolire la fede

Tolstoj amò sinceramente la Natura. La Natura non amòTolstoj. Lui l'amò tanto da esserne allievo, della suamaestrìa; e farne parziale soggetto della materia dei suoiromanzi. La Natura lo sovrastò e lui non seppe cantarla.La Natura lo espulse come falso profeta dalla sua terra,poiché non lui seppe cantare l'avvento della nuovastagione.E non possedeva nemmeno il dono dello stupore. Lostupore fu il marchio e il privilegio concesso dalla Naturasoltanto a Pasternak. E Skiovskij, « l'arte è un continuostupore »; Pasternak fu artista, e Tolstoj non lo fu.Čechov fu artista, e Tolstoj non lo fu. Ha dunque ragione,Brezina?Tolstoj afferma più volte che la poesia è una cosa inutile.Questo « generale classico » è il primo che deve essereattaccato, distrutto. Ma ancora nostrani biografi su di lui sitormentano. Stefan Zweig cadde in pieno nella trappolaTolstoj (vedi: Tre poeti della propria terra).Che me ne faccio di un uomo che non è capace diaccettare come pura gioia la sessualità passandoattraverso le donne come attraverso il fuoco, e nonattraverso « il deserto d'ottusità e di tramorti-mento »?Tolstoj arriva a fare i conti « sul meriggio esistenziale, colproblema della Morte ». (La Morte è donna, è demonio, èvergine, ecc.). E non riesce ad accettare la Morte, poichénon è riuscito ad accettare l'altro volto della DamaSevera: la Vita, il Piacere e la Donna.Tolstoj non vota (MajakovskiJ, in cielo lo colloca perchéha « un bell'aspetto decorativo e non può che stare fermo»), o meglio è il volo che non fa volare Tolstoj; poiché èconvinto che il piacere equivale all'ottusità spirituale e ilpiacere corporale al vizio, ossia al difettare e non già allapienezza della vita.

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Immaginatelo fra le nuvole con Rousseau, l'arcangeloGabriele, e Matusalemme, e vari angeli! Non vola, non ècapace di staccarsi totalmente (è conte, ha proprietà) e sizavorra; e non è capace di essere un pochino spirito, epecca, scambiando il peccato col volo.Strappa a Dio le redini! Perché prendere in giro il mondocoi miracoli! (M)

Come dice il poeta, la sua (di Tolstoj) è una « filosofiaspicciola su luoghi profondi ». Simili atteggiamenticorrispondono dal lato dello Spirito a quello che dal Iatodella Natura è la Barba Bianca e l'aspetto da Mosè (§.Zweig), il che si rivela proprio molto, molto decorativo.Scrittori come questi servono ai/i Tranquilli di cuore e dispirito: al massimo possono essere scomodi a se stessi(ed è già parecchio se lo sono realmente), e comodi pergli altri (ed è il meno che si possa sperare).Canzonare non è decantare: sarebbe troppo una ope-razione aristocratica nei confronti di uno scrittore che nonmi sento affatto di glorificare. Fu un Fregoli che si travestìda Giove-mugiko, fu un inconsistente novello re Lear, edel Pan di Vrubel non ha soltanto gli occhi. Incapace diglorificarsi, voleva, chiedeva di essere glorificato, e dachi?, da tutti, a cominciare dal potere zarista sinoall'ultimo mugiko. Sarebbe stato meglio se fosse stato undistruggitore d'infanzia e di innocenze;

Lo avremmo amato di più! Incapace di gridare:Glorificatemi!

Non sarò pari ai grandi. (M)

Glorificarlo, e perché? Schierato fra i santi da poeta, è percanzonare la sua presenza, dal pensiero all'aspetto fisico.È il sentimento, non del grottesco e nemmeno di una nonfacile comicità, che mi disintenerisce e che mi preme; nonè la risata che suscita, ma ciò che è dietro e che ancoranon si esprime in risata: è il trattenimento di una esplo-

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sione totale di risibilità contro la seriosità di cui fucircondato in vita e dopo morto. Mi invita invece ilsentimento di chi fu da lui — imparziale/parziale — undistaccato, o comunque più o meno feroce e spieiatocritico; di chi non fu intaccato dalla sua nonviolenza;contrario comunque con o senza rancore. Coloro che glivoltarono le spalle alimentano i miei dis-appunti e sono imiei contrappunti (contrafforti). Non contro, ma in obliqua,cavallo degli scacchi, mi allontano (sono sempre statodistantissimo!) dalla trasgressione di Tolstoj, poiché lasua fu una tra-sgressione per mentecatti, funzionale estrumentale secondo le circostante, opportunista, fideista,prò e contro i creduloni e i sinceri, pro e contro i Tranquillidi ogni ceto e di ogni popolo.La sua trasgressione confuse R. M. Rilke, ma non incantòla Lou Salomè.Il sarcasmo di Majakovskij ci aiuta contro Tolstoj e controle biografie benpensanti dell'epoca e odierne, e contro i «socialisti conciliatori », della letteratura. Spesso mi sonodomandato cosa sarebbe stata la letteratura russa senzaTolstoj: certamente non affetta da senilità precoce emeno morta del suo rappresentante più longevo, cheperciò è ingombrante, che perciò è da canzonare adoltranza, adesso e sempre, come in passato; colui chenon fu nulla se non una Orsa Maggiore da deridere; chesi turava il naso e la cui barba poteva servire soltanto alustrare « i selciati della Russia » in rivoluzione; colui a cuidare « un calcione sotto la schiena »; che è « più erbivorodi una pecora »; che ha « un bello aspetto decorativo enon può che stare fermo; che è schierato fra i santi(ridere!) poiché si occupa di non resistenza al male »(ridere ridere!); che è circondato da << socialisticonciliatori ».Senza Tolstoj avremmo riso di meno. Ci sarebbe man-cato un termine di paragone con le comiche finali! Èesilarante saper vedere la casa di Tolstoj-mugikol'apostolo della non-violenza, presidiata dai soldati dellozar contro eventuali attacchi di veri mugiki. Era tutto neldesiderio di voler essere ad ogni costo un mugiko, esapere di non poterlo essere mai nono-

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stante tutti i suoi goffi tentativi di mascherarsi, come tale.Un intellettuale che non voleva essere un intellettuale perpoter essere un mugiko: è questa la follia di Tolstoj oquella che ci spaccia nelle Memorie di un folle?O non è invece la cecità e l'incapacità di poter influireminimamente sulla realtà, se non con un misticismomortidico?Le critiche, i divertimenti e i sarcasmi, per esempio diCernysèvskij, Dostoevskij, Cechov, Majakovskij e altrisono giustamente spietati e mirano al centro dellacosidetta non-violenza che è principio malsano e capacedi uccidere la vita più che far trionfare la vita. Pensate, leinfanzie di intere generazioni sono state succhiate daquesto principio malsano, e spesso con l'approvazionedel Potere! Tolstoj ha insegnato come si agonizza, noncome si vive. Ha mostrato come essere piamente ipocriti(attori benpensanti, di stato); come insegnare agliignoranti col proposito deciso che l'ignorante debba pernecessità storico-sociali rimanere tale (ancora piùignoranza!); e ha predicato come la poesia che noncommuove il cuore di un contadino non è poesia (e chequindi Puškin, Baudelaire, Verlaine, Monet, Manet,Renoir, Michelangelo, Liszt, Schumann, Berlioz, Dante,Milton, Beethoven, Shakespeare, ecc., non sono ne artistine poeti).Si comprende ora come la critica di Brezina fosse giusta,e giusta la condanna « Tolstoj non è un artista ».Certo se questo suo furore lo avesse diretto control'autocrazia oscurantista imperante nel suo paese, gliavremmo fatto un monumento alla libertà e alla verità; èche il monumento Tolstoj se lo è meritato poichésantificato dai Tranquilli e dai Piangenti, dai miti e dailacrimevoli, dai socialisti conciliatori e da tutti coloro a cuinon bisogna distruggere le infanzie e le innocenze. Piùfolli, costoro, del loro profeta.La miseria morale di Tolstoj si commisura con lacoerenza e con le vitali morti di tutti i poeti russi, suicidatio ammazzati ed il risultato è la esclusione

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del conte-mugiko, senza rimedio e senza appello, daimondi della poesia e dell'arte. Furore mal diretto, non c'èdubbio. L'anastasi cristiana di Tolstoj (soluzione moral-reli-giosa: dopo il peccato è un imperativo categoricoresuscitare) è banale di fronte alla resurrezione peribernazione di Majakovskii, che è invece apologiaassoluta del trionfo della vita: gioia totale. Poeta troppovitale per morire vecchio e decrepito. II verso del poeta «Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri » distruggesenza appello il decorativo Tolstoj.Per questo ho chiesto ripetutamente agli studiosi dipsicologia, psichiatria, ecc., se vi fosse un'altra soluzioneoltre la morte e la follia, per esempio la resurrezione ecostoro non mi hanno risposto, giravano a vuoto, e ciòforse è dovuto ad una eredità positivista.Trionfare sulla propria morte, ogni giorno, puntellando ipropri piedi su quella gioia, è godere di questo sogno,senza le pastoie mistiche di Tolstoj. Tolstoj ha ucciso. Ilpoeta si è ucciso, lo hanno ucciso: conclusioneromantica, morte non stupida. (?) (Savinio).Il Grande Vecchio muore coerentemente decrepito intutto: fallito martire del regime, fallito maestro elementare,fallito artista, fallito pensatore, fallito profeta, fallitopatriarca, fallito perfino come avvocato, ed infine fallitocome mugiko, e fallito folle. Tutte se l'era inventate lefisime, e le follie. La sua follia è qui, non quella che cispaccia nelle Memorie di un folle che è un falsuspsicologico, la negazione voluta della verità: operazioneutilitaristica. Ma è che, la sua follia non mi tocca, non mibrucia, non mi da il tremore e il timore di chi si sadestinato al fuoco. Analizzare soltanto il testo Memorie diun folle sarebbe stato per me banale; è davvero folle:il testo non ci illumina. Ciò che conta è lo scatto umano:Beethoven non si prostrò davanti al Potere, Goethe, si.Gli esempi sono tanti. Černyševskij a Tolstoj: « prima diinsegnare alla Russia la Vostra saggezza pedagogica,cercate di

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farvi una idea più precisa dell'educazione del popolo ...Decidetevi: o smettete di scrivere articoli teorici, oppurestudiate per essere in grado di scriverli ».Dostoevskìj, nel suo Diario di uno scrittore racconta lastoria di un turco che ha afferrato un ragazzo e sta percavargli gli occhi; la sorellina del ragazzo tenta di liberareil fratello: una scena terribile, alla quale un uomo assistesenza intervenire, perché immerso in profondemeditazioni. È chiaro, che il pensatore è Tolstoj.Čechov: « il ragionamento e il senso di giustizia mi diconoche v'è più amore per l'umanità nell'elettricità e nel vaporeche non nelle castità e nell'astinenza ». Tolstoj predicavaentrambe queste virtù. Lenin di Tolstoj: « proprietarioterriero che folleggiava in Cristo ».

Ma, non parlerò più di Tolstoj nella mia vita futura:offrirò piuttosto succo d'ananas

alle puttane nei bar. (M)

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L'angoscia esistenziale

Bianca laccarino, Roma

Confesso di avere avuto molti problemi ad accostarmi aquesto racconto di Tolstoj non, come ho fatto spesso inpassato, da semplice lettrice, ma nel ruolo che mi è statorichiesto per questa occasione, di esperta in psicoanalisi.II problema mi si formulava in mente con questointerrogativo: cosa può dire, dal suo punto di vista, unopsicoanalista su un'opera letteraria? Ed anche: che dirittoha uno psicoanalista a dire qualcosa di « speciale » suuna opera letteraria?Alla fine ho accettato perché in fondo, dentro di me, hoaccettato di assumere questo territorio di confine, cioèpsicoanalisi e linguaggi narrativi, come oggetto diriflessione e di critica.Oggetto di riflessione critica in quanto ho sempre nutritouna certa diffidenza per le cosiddette interpretazionìpsicoanalitiche delle opere d'arte, di qual-siasi scuola, inquanto le ho sentite spesso delle operazioni magaribrillanti sul piano dell'ingegnosità della psicoanalisiapplicata, ma che non mi aggiungevano niente allacomprensione della bellezza di quella determinata opera,anzi, semmai mi toglievano

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qualcosa di quella magia che è sempre appannaggiodella bellezza. Quelle che, in termine tecnico, si chiamanooperazioni riduzionistiche. Così come non mi aggiungemolto l'interpretazione dell'opera d'arte in termini dibiografia personale dell'autore.E poi, alla fine di un'esplorazione di tutti questi percorsideludenti, mi sono detta: ma perché tanto affanno adandare a cercare la chiave di spiegazione psicoanaliticadi un'opera d'arte? Se è un'opera d'arte vuoi dire che è unfatto estetico, che è pericoloso andare a toccare, oalmeno va toccato con mano delicata.E mi è venuta in mente un'immagine, credo di Sta-robinski, che riassumeva tutte le trepidazioni del mioaccostarmi, non da ingenua, ma da esperta, a questoracconto.L'immagine di Psiche che non riesce a sopportare ilmistero del volto di Eros e, di notte, gli illumina il volto ...Scacciata e bandita e sottoposta ad infinite prove, riescealla fine a salvarsi e a ritrovare Eros perché non ha maicessato di amarlo. Psiche alla fine viene perdonataperché in lei lo sguardo della conoscenza era nello stessotempo sguardo d'amore.Ben diversa la sorte di Atteone che spia Diana al bagno,trasformato in bestia, sarà sbranato dai suoi stessi cani.Nel suo sguardo non c'era amore ma violenza,indiscrezione, abuso, violazione della segretezza e delmistero.Tenterò quindi di muovermi come Psiche nei confronti diquesto testo e di evitare le tentazioni di Atteone ancheperché Tolstoj è un autore che mi è molto caro e che haarricchito la mia adolescenza, come quella di moltepersone, credo.E per sciogliere subito il primo nodo, credo che la primameditazione che è venuta fuori dall'immagine di Psicheche disvela Eros è questa: forse sono caduta in unequivoco quando ho pensato di dover leggere da «esperta » le Memorie di un folle di Tolstoj, equivoco dalquale è scaturita la mia paura di snaturare e violentare labellezza del racconto? Perché forse è il tempo e il luogodi cominciare a

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dire che Freud non ha inventato una nuova scienza, maun nuovo linguaggio figurale che fosse in grado di farparlare le immagini dell'inconscio e l'esperienzasoggettiva e privata, una vera e propria drammaturgiadella coscienza. E non a caso ha cercato proprio nellaletteratura, per esempio nella Gradiva di Jensen, unaconferma alla sua teoria; che poi gli allievi e i seguaciabbiano pensato di avere in mano un sapere cosiddettoscientifico e insieme una chiave di volta per spiegare tuttio quasi tutti i prodotti culturali, questo è un altro problemache riguarda la istituzionalizzazione del movimento psico-analitico e, in certi casi, il suo delirio di onnipotenza. Mase Freud fa parlare l'inconscio e l'esperienza soggettivaattraverso un linguaggio figurale, altrettanto fa laletteratura e allora per me non c'è più problema diintrusione e di violenza, come esperta in psicoanalisi,nell'opera d'arte.Cioè, in breve, io vi dirò, con il linguaggio soggettivo dellemie immagini, ciò che ho pensato e vissuto leggendoquesto racconto che, a sua volta, esprime delle immagini.Il problema, cioè il fatto della sua bellezza, cioè di essereun prodotto artistico, rimarrà un discorso soggettivo,privato, mio, vostro, delle nostre singole esperienze dilettori.Diverso e molto più complesso è il discorso che dovrebbefarsi sulla particolare specificità del funzionamentomentale del cosiddetto creatore o artista, cosa che quinon desidero affrontare per non allontanarmi dal temadella conferenza che ha un ben preciso contenuto, maposso accennare solo di sfuggita che il momento creativoprobabilmente va studiato a partire dall'analisi di quelparticolare stato mentale di cui tutti abbiamo fattoesperienza e che si verifica quando, addormentati, stiamosognando e poi è l'alba e ci risvegliamo ma, in partecontinuiamo a sognare, e realtà e fantasia si mescolanol'una con l'altra e non sappiamo di quale dei due regnisiamo abitanti.Ma, come dice Freud in « Dostoevskij e il parricidio »: «l'analisi deve deporre le armi di fronte al

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poeta » e conviene allora inoltrarci nell'esame di questotesto di Tolstoj avendo in mente un altro assunto di Freudche spesso è stato mal interpretato; cioè che l'operad'arte rappresenterebbe, nel piacere estetico che procura,una compensazione all'impossibilità da parte del poeta diagire nella realtà e di conquistarvi i vantaggi chedesidera. Mal interpretato questo passo, dicevo, perchéspesso è stato letto su un piano un po' grettamentepersonalistico, nei termini cioè della nevrosi personaledell'artista che non riesce a realizzarsi nella realtà e allorasi realizzerebbe nella fantasia.C'è invece un'altra possibile interpretazione di questobrano ed è quella che qui vi proporrò lungo il corso dellalettura del testo di Tolstoj: e cioè che l'opera d'arte sisviluppa sì ai margini del mondo, nel regnodell'immaginazione, o di quello stato « sogno o son desto» di cui parlavo prima, ma per svolgere una funzione dimediazione tra l'individuo e il sociale, tra l'artista e ilmondo in cui vive, e se, indubbiamente, ha origine in unfallimento personale, questo fallimento personale ha unarelazione indiretta con quello sociale più allargato, quellodi una cultura o di una generazione.

Infatti, credo che sia molto rischioso dire che l'operad'arte è il « bello di per sé » che non ha legami semanticicol mondo in cui vive, un assoluto senza storia. Vive, alcontrario, in una profonda relazione con i conflitti irrisolti oirresolubili della sua epoca e il racconto di Tolstoj credoche ce ne dia un esempio molto appropriato esignificativo.Siamo nel 1883, in un periodo in cui i rapporti sociali traricchi e poveri sono improntati al massimo della violenzae dell'ingiustizia, violenza e ingiustìzia che però nonvengono « viste », di cui non ci si accorge, fanno partedel vivere quotidiano di ognuno e dell'inconscio diognuno.Non di ognuno; « uno », il protagonista di Tolstoj, siammala, va in crisi e dissimula il suo star male durante lavisita che gli viene fatta, perché altrimenti non potrebbesvolgere il suo « lavoro » di

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pazzo. Lo chiama proprio « lavoro ». Di che « lavoro » sitratta e perché deve dissimulare?II mio modo di sentire questo racconto con la miasoggettività nutrita della mia esperienza psicoanalitica, miha portata immediatamente a vivere la « follia » o moltomeglio sarebbe dire l'angoscia (perché di questo si tratta)di quest'uomo come l'elaborazione in forma privata,soggettiva, interiorizzata e modellata sull'esperienzapersonale, di un conflitto non visto, non affrontato e nonrisolto al livello sociale:il fallimento della Russia zarista nel l'affrontare il problemadella giustizia sociale tra ricchi e poveri e il decadimentodel vivere comunitario a forme abitudinarie e legalizzate diviolenza e ingiustizia. Un fallimento, che, come tuttisappiamo, diventerà presto cosciente nella mente dellamaggioranza e porterà alla rivoluzione del '17. Problemaquesto, dell'ingiustizia sociale, che Tolstoj tra l'altroaffronterà lungo il corso di tutta la sua vita e la sua opera.L'ipotesi che vorrei suggerire è che con questo raccontosiamo in presenza di un esempio che manifesta ladifferenza tra un delirio e l'angoscia esistenziale:mentre il delirio, grossolanamente parlando, rappresenta iltentativo di esprimere un conflitto personale e privato inun linguaggio pubblico (anche se, ma con giri più lunghi,anche il delirio privato ha un legame con il sociale)all'inverso l'angoscia esistenziale di questo protagonistarappresenta l'interiorizzazione e la modellizzazione sullapropria esperienza personale, di un conflitto che la societànon è stata in grado ne di vedere, ne di risolvere oaffrontare. È l'inconscio collettivo che si esprime con lesue immagini e le sue angosce, nell'individuo.II protagonista paga con la pazzia, che sembra essere ilrisultato della sua angoscia insopportabile, ciò che lasocietà non è in grado di pagare:Al termine del racconto:« Dissi, senz'altro, che non potevo comperare quelpossedimento perché il nostro profitto sarebbe statofondato sulla miseria e sul dolore d'altri uomini ...m'illuminò d'un tratto la verità di ciò che avevo detto: laverità del fatto, soprattutto, che i contadini

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vogliono vivere ne più ne meno che noi, che anch'essisono uomini, fratelli, figli del Padre, come dice il Vangelo.Tale fu l'inizio della mia pazzia ». « A questo punto la lucem'illuminò appieno, e io divenni quello che sono. Se tuttoquesto non esisteva, allora anzitutto, cessava d'esistere inme. E lì per lì, sotto il portico, distribuii quanto avevo intasca, trentacinque rubli, ai mendicanti e me ne andai acasa a piedi, discorrendo con la gente del popolo ... ».Il conflitto a livello personale è risolto, l'angoscia è finita, èsubentrato il delirio (o l'illuminazione della verità) einsieme la serenità e il contatto con gli altri, con il popolo.Delirio o illuminazione di verità? Quello che oggi nel 1883è vissuto dagli altri, dal sociale, come delirio, sarà traqualche decina d'anni il credo e la verità d'un interopopolo. Come possiamo allora continuare a chiamarlodelirio? Forse dobbiamo fare, io credo, una riflessioneautocritica su questo termine molto usato inpsicopatologia e cominciare a capire che non si puòinquadrare il delirio come una cosa che appartiene alsoggetto, che lo pervade e di cui è il portatore, mabisogna riferirsi, per poterlo comprendere, ad un'otticarelazionale allargata: cioè, io deliro in un mondo, non nelvuoto.Forse questo modo di ragionare ci potrà anche far capireche il delirio del protagonista di Tolstoj, al contrario diquello che penserebbe la psichiatria tradizionale, contieneun discorso vero, non un discorso falso, quellodell'ingiustizia sociale, per esempio, che nel 1883 nonpoteva diventare un discorso condiviso.Diventa così possibile rispondere alla domanda che cieravamo posti all'inizio: di quale pazzia si tratta e perchéè un « lavoro », che, per di più, va dissimulato? Si tratta difar « lavorare » dall'interno, nel tessuto sociale, ma senzadirlo chiaramente e quindi dissimulandolo nel delirioreligioso, una verità, il bisogno di giustizia sociale, chenon ha, al momento, interlocutori.

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Qual è la differenza che passa, infatti, tra una fissazionereligiosa vissuta nel segreto della propria privatezza chesconfina nel delirio, e l'idea politica che, per esempio,accende un qualsiasi movimento di popolo? Unadifferenza piccola e sostanziale nello stesso tempo: laprima è l'esperienza di un soggetto che si trova, perragioni particolari, a vivere in un luogo dell'esperienza dalquale riesce a cogliere una verità, inconscia a tutti, e sitrova senza interlocutori che possano fare da specchio diconferma della sua identità (perché una percezione diquesto genere provoca sempre una rottura del propriosenso di identità), e contemporaneamente da terzo, cioèda coscienza critica: insomma è solo con la sua veritàindicibile.La seconda è l'esperienza di un gruppo che funziona perse stesso e i suoi singoli mèmbri, appunto, come unospecchio e ha in genere in un partito politico avverso lasua coscienza critica. Il luogo che occupa il protagonistadi Tolstoj è proprio, mi sembra, quello della solitudine diuna verità non comunicabile e incontenibile in uno spaziomentale di gruppo.

Ma, attraverso quale percorso, questo ancor giovaneTolstoj (perché ormai sappiamo che si tratta di unracconto autobiografico) arriva alla sua solitudine diverità?Nel mezzo di una vita ordinaria (sono le sue parole) glicapitano degli episodi inspiegabili di angoscia, nellaforma del terrore della morte, che piano piano loconducono ad uno stato di oppressione e di paralisi.Allora ricorda, nel tentativo di capire e di uscire da questaangosciosa oppressione, due episodi di infanzia: nelprimo un bambino viene picchiato, e la punizione èviolenta e ingiusta perché prima di tutto portata avanti sudi un bambino indifeso e poi perché non cessa quando ilbambino si pente.« Mi risovviene d'una volta che, in presenza mia, hannobattuto un ragazzetto, che grida mandava, e che facciaterribile aveva Foka, mentre lo batteva.

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— Non lo farai più, eh? non lo farai più? — ripeteva, econtinuava a dar colpi. Il ragazzetto diceva: — Non lo faròpiù —. E quello ripeteva: — Non lo farai più? — econtinuava a dar colpi. E a questo punto, mi prese.Incominciai a singhiozzare, a singhiozzare, e per unpezzo nessuno riuscì a calmarmi. Ecco, appunto questisinghiozzi, questa disperazione, sono stati i primi accessidella mia attuale pazzia ».E nel secondo episodio ricorda il racconto della tortura diGesù, da lui vissuto con lo stesso senso di disperazione.« « — Raccontaci ancora di Gesù Cristo.— Ma no, ora non ho tempo.— No, raccontaci.Anche Mìtjegnka insisteva che raccontasse ancora. E lazia incominciò daccapo con quelle stesse cose che ciaveva raccontate prima. Raccontò che lo avevanocrocifisso, picchiato, torturato: ma egli pregava sempre, enon li condannava.— Zia, perché lo hanno torturato?— Erano gente cattiva.— Ma come, lui era tanto buono— Su, basta, sono già le nove. Volete dar retta?— Perché lo picchiavano? Lui li perdonava: dunqueperché lo picchiavano? Gli faceva tanto male? Zia, glifaceva tanto male?— Basta, su: devo andare a prendere il tè.— O forse non sarà vero, che lo picchiavano?— Su, basta.— No, no: non tè n'andare ... ». Scoppia in singhiozzi ecomincia a sbattere la testa nel muro.È come se dicessimo, nel nostro linguaggio psico-analitico, che rifiuta di prendere le parti della legge, dellaforza e del potere, se questi si configurano in termini diingiustizia e violenza e preferisce identificarsi con lavittima, sbattendo la testa contro il11 muro, facendo del male a se stesso. Due volte, dagrande, cercherà di mettersi dalla parte della forza e delpotere cercando di comprare un terreno, ma tutte e due levolte si trova a ragionare come

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un violento e un usurpatore: la prima volta cerca un «imbecille da infinocchiare », la seconda « dei contadini dasfruttare ».E in questa prima compravendita (che non a caso non vain porto così come la seconda) scoppia il suo malessere,la sua angoscia. Si vive come un uomo orrendo,oppresso dal senso di morte, perché in realtà non puòvivere, è paralizzato, non può comprare il terreno ediventare proprietario perché questo significherebbeperpetrare una ingiustizia.Rispetto a questo itinerario, l'angoscia con tutto il suopeso di sofferenza e di mancanza di vita, rappresenta lamalattia, il non sapere dove si è e dove si sta andando,mentre il delirio finale è come la catarsi resa possibile dalraggiungimento di un luogo della propria esperienzaumana dal quale poter guardare la verità, in assolutasolitudine, pagando questa illuminazione con l'uscita dalleforme di comunicazione e di rapporto proprie del suogruppo sociale.

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L. AndrèevII pensiero

Rita Giuliani, Roma

Ho accettato con slancio l'invito a partecipare aquesta « diretta dalla follia » con un intervento suLeonìd Andrèev, dal momento che mi si presentaval'occasione di rivolgermi a un uditorio eterogeneo, enon di soli russisti, a persone che, forse, sentivanoper la prima volta pronunciare il nome di Andrèev,uno scrittore a me particolarmente caro e del qualemi considero una solitaria estimatrice. Nel nostropaese, infatti, egli ha goduto di una grandepopolarità sino alle soglie degli anni Trenta, poi ècaduto progressivamente nell'oblio fino a diventare,com'è a tutt'oggi, un autore pressoché sconosciuto,ormai dimenticato dal pubblico dei non specialisti.Eppure la sua figura rimane una delle piùinteressanti della letteratura russa dell'inizio delsecolo, per usare l'espressione di Lev Trockij: « lafigura artistica più clamorosa, se non la piùprofonda, dell'epoca tra le rivoluzioni » (1).Vero è che in questi ultimi anni in Italia si sono avutii primi segni di un rinnovato interesse verso l'operadi Andrèev: dopo un'assenza dai nostri palcoscenicidurata più di trent'anni sono di nuovo andati

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(1) L. Trockij, Letteraturae rivoluzione, Torino,Einaudi, 1973, pp. 16-17

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(2) L. Andreev, Due racconti,G. Pacini (a cura di), Milano,Feltrinelli, 1980.

(3) N. Lebedev, // cinemamuto sovietico, Torino,Einaudi, 1962, p. 83 ,450.

(4) Sulla cronologia delletraduzioni italiane cfr. R.Giuliani, « La fortuna diLeonid Andreev in Italia », inEuropa Orientalis, 1/ 1982,pp. 49-51. Per un errored'impaginazione I" articolorisulta privo dell'elenco dellemessinscene italiane deidrammi di Andreev.

in scena due suoi drammi (// valzer dei cani 1978;Ekaterina Ivànovna 1983) e nel 1980, a distanza diventicinque anni dall'ultima traduzione italiana di una suaopera, sono stati pubblicati i racconti // pensiero e Le miememorie (2).Considero particolarmente felice la scelta de // pensiero inprimo luogo perché ne è disponibile un'agile traduzionemoderna e, soprattutto, perché // pensiero è un'operaassai tipica della maniera andreeviana e, pur essendo unadelle prime prove letterarie dello scrittore, ne anticipa laproblematica della maturità. Il tema del racconto, infatti,era molto caro ad Andreev che in seguito lo rielaborò inun dramma omonimo, messo in scena nel 1914 al Teatrod'Arte di Mosca con la regia di NemiròvičDànčenko. Dueanni più tardi il soggetto venne ripreso anche dal regista esceneggiatore V. Gàrdin che ne curò un adattamentocinematografico (3).Infine, particolare curioso, // pensiero è stato anche laprima opera di Andreev ad essere tradotta in italiano nel1904(4).Andreev nacque ad Orel nel 1871 e pubblicò il primoracconto nel 1898. Nel 1901 uscì il primo volume dei suoiracconti che fu accolto da pubblico e critica con moltofavore. // pensiero fu scritto e pubblicato l'annosuccessivo, nel momento in cui Andreev si trovavaall'inizio di una parabola artistica che avrebbe raggiunto ilvertice alle soglie degli anni Dieci, dopodiché sarebbeiniziata, veloce e malinconica, la parabola discendente:nel 1919, quando morì a soli quarantotto anni, egli eraormai considerato uno scrittore fuori moda, un sorpassato.Sulla fortuna di Andreev influì negativamente il fatto che lasua opera fosse molto datata, e la sua problematicalegata a un preciso momento storico. Parlando di Garsinla professoressa Maver Lo Gatto ha ricordato come nellasua opera occupassero un posto centrale le « questionimaledette »; anche Andreev inscrive la sua problematicanel cerchio delle questioni ultime, con la differenza che leripropone a distanza di vent'anni a un pubblico diverso,meno sensibile a una tematica che, forse, appariva ormai

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logora, e meno disposto a credere nella sincerità e nelladrammaticità con cui l'autore poneva a sé stesso e agli altriquegli eterni problemi.Anche // pensiero s'inserisce nella tradizione delle «questioni maledette » della letteratura russa, dal momentoche esso è una sorta di meditazione in formadrammatizzata sul tema dei limiti del pensiero umano, dellalibertà dell'individuo, del rapporto tra libertà individuale enorme del vivere sociale.La trama del racconto è assai semplice: il dottor Kèržencevè un solitario che ha fatto del proprio pensiero l'oggetto diun'idolatria quasi maniacale. Il pensiero è infatti per luil'unico amico, lo schiavo, l'amante (in russo « pensiero » èdi genere femminile). Per provare la forza del propriointelletto egli decide di uccidere un suo vecchio amico,Aleksèj Savèlov, col quale ha un rapporto assai conflittuale,tra l'altro Savèlov ha sposato Tatjàna, la donna che luiamava. Kèržencev in spregio di ogni legge etica e civile,decide anche di garantirsi l'immunità per il proprio delittosimulando la follia. Egli uccide come stabilito, ma il suogesto Io travolge, il pensiero Io tradisce: da quel momentonon Io abbandonerà più il dubbio se mentre uccideva eralucido e simulava la pazzia o se invece era pazzo davvero.La critica rimase piuttosto sconcertata dal racconto.Andrèev era considerato, sia pure a torto, uno scrittore ditendenza democratica e realista e il racconto mal siconciliava con l'immagine che dell'autore si volevaaccreditare. Parte della critica e alcuni medici videro ne //pensiero uno studio psichiatrico sut crollo psichico di unindividuo. A. A. Izmàjlov ricondusse il racconto allacategoria dei « racconti patologici » giudicandolo il piùefficace, quanto a potenza di suggestione, dopo // fiorerosso di Gàrsin e // monaco nero di Čechov (5). EppureAndrèev non si era affatto servito di libri d'argomentomedico per « costruire » il racconto e conferirgli una basescientifica, come confessò allo stesso Izmàjlov: « io non necapisco un'acca di psichiatria e non ho letto nulla per //pensiero » (6).La maggior parte dei critici vide invece nel protago-

(5) « Gor'kij i LeonidAndreev. Neizdannaja pere-piska », in Literaturnoenasledstvo, vol. 72, Moskva,1965, p. 156.

(6) Ibidem, p. 413.

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(7) L.A. lezuitova, TvorcestvoLeonida Andreeva. 1892-1906, Leningrad, 1976, pp.98-99.

nista il campione dell'individualismo sfrenato del tempo,colui che si proponeva, come il superuomo nietzschiano,di infrangere ogni legge umana ma, non trovando neldelitto la libertà sognata, giustamente terminava la propriavita in una condizione inumana. A. Lunačarskij fuparticolarmente duro nei confronti del racconto, che nongli piacque affatto. Egli sottolineò la differenza esistentetra il folle de // fiore rosso, la cui follia era nata — a suogiudizio — dalla sofferenze dell'umanità, e Kèržencev,espressione di un'autoaffermazione individualistica cheportava a una nuova variante del tipo Smerdjakov (ilparricida de / fratelli Karamazov): « la differenza traSmerdjakov e Kèržencev — scriveva Lunacarskij — è cheSmerdjakov uccise per denaro, mentre Kèržencev soloper l'onore di diventare Smerdjakov » (7).L'interesse che il racconto suscitò non solo nell'ambienteletterario, ma anche in quello medico, fu tale chel'Imperiale Accademia di Medicina di Pietroburgo dedicòuna riunione speciale all'analisi della condizione mentaledi Kèržencev: il parere pressoché unanime degli psichiatriconvenuti fu che Kèržencev fosse realmente pazzo.Tentiamo ora anche noi di esaminare più da vicino ilracconto e, senza sconfinare nel campo d'indagine delprofessor Maffei, rintracciare l'origine letteraria, filosofica eautobiografica della «follia» andreeviana. Iniziamoinnanzitutto dal titolo: l'originale Mysl' reso in italiano come// pensiero, perde immediatamente la duplicità semanticache il termine mys/' ha in russo, dal momento che mys/'indica non solo l'attività raziocinante della mente, maanche l'idea, la singola idea che balena all'intelletto. Ildramma di Kèržencev è tutto racchiuso in questa dupliceaccezione del termine: il pensiero (mys/') è la sua forza,ciò che gli da il dominio sul mondo circostante, ma èun'idea improvvisa (mys/') — l'idea che egli possa averucciso in stato di reale follia — a precipitarlo in unadevastante incertezza che travolge il suo equilibriopsichico e le fondamenta del suo castello ideologico.

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Analizziamo brevemente come è costruito il racconto. Lanarrazione è in prima persona, è Kèržencev infatti acondurla, la narrazione in terza persona compare solo inpochi, brevi brani, all'inizio del racconto e nel finale. Ilracconto è organizzato in forma di memorie, di appunti, unaforma che Andrèev adottò in numerose opere; sono in tuttootto fogli di appunti che Kèržencev stende per gli espertichiamati a decidere della sua sanità mentale.Nello sviluppo dell'intreccio Andrèev mostra una grandemaestrìa: egli espone le considerazioni del protagonistaalternativamente da due posizioni anti-tetiche: oradall'angolazione della coscienza presente a sé stessa inogni momento, ora da quella di una lucida follia scatenatadal delitto in una mente già minata. Come un abile sofista,egli mantiene un perfetto equilibrio nel dosare le dueipotesi contrarie e sospende il giudizio: ne risulta unalettura assolutamente ambigua, tale da legittimarleentrambe.Inoltre, l'ambiente in cui Kèržencev stende i suoi appunti civiene rivelato non all'inizio, ma dopo qualche pagina,mediante squarci che si aprono all'improvviso nelcontinuum della sua confessione: attraverso di essi larealtà del manicomio irrompe nel racconto nella formasconvolgente dell'urlo bestiale, non più umano, di unmalato.È inoltre tipico di Andrèev il procedimento di costruire iracconti sull'accentuazione dei contrasti:ne // pensiero sono contrapposti la razionalità e la bestialitàconnaturali alla natura umana, il silenzio del monologointeriore di Kèrzencev e le urla del manicomio, la tenebrache regna nella vicenda del protagonista e il sole cheaccompagna il ricordo di un'immagine di felicità; la società,la folla che Kèrzencev rifiuta e colpisce e la sua totale, co-smica solitudine. Sono inoltre costruite per contrasto lefigure di Kèrzencev e di Savèlov, la sua vittima, in cui èadombrato Gor'kij, l'amico-nemico di Andrèev (8).Interessante è anche notare la frequenza quasi ossessivacon cui si ripete la similitudine fra Kèržencev e un attore:attore che dapprima si compiace di es-

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(8) << Gr’kij i LeonidAndreev >>, op. cit., p.381.

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(9) L'indicazione è data da A.I. Naumova in nota a unoscritto di Andrèev pubblicatonella miscellanea «Andreevskij sbornik.Issledovanija i materialy », inNaučnye trudy, vol. 37, n. 1,Kursk, 1975, p. 203.

sere un interprete perfetto, finemente padrone dellapropria arte, poi si immedesima pericolosamente nellaparte (come un attore che interpretando Otello sia prontoad uccidere davvero, dice Kèržencev), e infine impazziscee recita per l'ultima volta, ferito a morte, nell'arena di uncirco.Con una drammatizzazione estrema della narrazione ilconflitto psichico di Kèržencev porta allo sdoppiamentodell'Io: all'lo razionale si contrappone una cosa, ono inrusso, indefinita, senza nome, ma sicuramente nonumana.Passiamo ora ad esaminare brevemente la problematicadel racconto iniziando dalla figura del protagonista.Kèržencev si propone immediatamente al lettore comeipostasi del « superuomo » nietzscheano:egli si è posto al di sopra della morale comune e ritienelecito e doveroso infrangere le leggi di una societàcomposta di esseri di razza inferiore (egli giudica tali, adesempio, le donne e i cani). Andrèev aveva letto conpassione Nietzsche, molto di moda nella cultura russadell'epoca, ma della sua speculazione aveva colto solol'elemento più « sensazionale » e di più facile presa sullettore medio, quale, appunto, la teoria del superuomo.(Anni dopo la sua ammirazione per Nietzsche, unita a unacerta infantile bizzarrìa del carattere, gli avrebbe fattochiamare una sua barca a motore « Zarathustra ») (9).Nella tematica del racconto, però, ancor più profon-damente risuonano echi dostoevskiani. Gli eroi di Andrèevsono spesso vicini ai tormentati « uomini del sottosuolo »di Dostoevskij, come loro tesi in una spietataintrospezione. Tipicamente dostoevskiano è, ad esempio,il concetto del muro, del limite che il personaggio vuolesuperare con uno sforzo volontaristico e contro il quales'infrange invece il suo fragile lo. Non è affatto un casoche Kèržencev nomini nel suo monologo Raskòl'nikov, ilprotagonista di Delitto e castigo, il cui crollo psichico è dalui giudicato misero e stupido.Avere innalzato il pensiero al di sopra di ogni valore eaver creduto che a sua volta il pensiero gli avesseconferito il dominio sul mondo: questo è secondo

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Andrèev il peccato di presunzione di Kèržencev e dellasocietà civile che si gloria della propria cultura, frutto delmillenario progresso del pensiero umano. Ma nella visionedualistica del mondo — tipica di Andrèev — allacondizione dell'uomo civile si oppone lo « stato di natura »,al pensiero l'istinto. Lo scetticismo di Andrèev nei confrontidel progresso etico e sociale della società civileperpetuava l'opposizione teorizzata da Rousseau tra uomocivilizzato e uomo ancora incorrotto e si ricollegava palese-mente alla tradizione della corrente rousseauiana dellaletteratura russa, che aveva prodotto, tra le altre, operequali La povera Liza di Karamzìn (1792) e Guerra e pacedi Tolstoj (1863-69).Una volta Andrèev aveva confidato a Gor'kij: « No, haragione Tolstoj: la cultura è immondizia, essa può soltantorovinare la libera crescita dell'anima » (10). Nel racconto lafigura non corrotta dall'incivilimento, ancora vicina allo «stato di natura » è rappresentata da Masa, l'infermierasemplice e semianalfabeta che Kèržencev disprezza ma,al tempo stesso, invidia perché ella sa che cos'è la vita, saquali sono i suoi veri valori. Balena in Kèržencev il dubbioche l'enigma della vita, il suo senso autentico, a lui celatoda una cultura mistificatrice, sia accessibile solo a spiritisemplici e sia racchiuso in valori a lui estranei e preclusiquali l'innocenza, l'amore dei puri. È significativo il fattoche nel buio che pervade il racconto il sole compaia unasola volta a illuminare la scena semplice e tenera di unabambina, un cagnolino e una bambinaia legati daun'ineffabile tenerezza.Come altri eroi andreeviani Kèrzencev è l'incarnazionedella forza centripeta della vita e la sua tragedia è latragedia dell'egocentrismo. Ma anche in lui balena per unistante il ricordo di una forza centrifuga secondo la qualetutto ciò che esiste, esiste non per sé, ma per l'altro (11).II pensiero condanna l'uomo non solo alla solitudine totale,ma anche allo scacco finale, poiché tra ragione e istinto èquesto a prevalere nell'uomo, secondo la Weltanschauungandreeviana. Il limite tra

(10) Kniga o LeonideAndreeve. Vospominanija,Letchworth, 1970 (reprintdell'edizione russa del1922), p. 19.

(11) L.S. Koziovskij, «Leo.nid Andrèev», in S.A.Vengerov (a cura di), Rus-skaja literatura XX veka[1890-1910), vol. Il, Moskva1915/Munchen 1972, pp.277-278.

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(12) Kniga o Leonide An-dreeve, op. cit., pp. 19-20.

(13) Ibidem, p. 13.

(14) R. Giuliani, LeonidAndreev, Firenze, La NuovaItalia, 1977, p. 99.

l'individuo raziocinante e la bestia è labilissimo e agli eroidi Andreev accade di superarlo spesso. Questaproblematica trascendeva e preesisteva alla finzioneletteraria, essa era per Andreev prima di tutto un'irrisoltaquestione esistenziale.Ancora una volta è Gor'kij ad illuminarci su questo aspettodel pensiero di Andreev. Nelle sue memorie egli haricordato i litigi avuti con l'amico sull'argomento delpensiero, che Andreev «considerava come 'uno scherzocrudele che il diavolo aveva fatto all'uomo'; e gli apparivamenzognero e nemico. Attirando l'uomo verso gli abissi dimisteri impenetrabili, esso lo inganna lasciandolo solo,inerme e tormentato davanti a quegli enigmi, per poispegnersi del tutto. (...) Ad Andreev l'uomo apparivaspiritualmente povero, intreccio di irriducibili contraddizionidi istinto e intelletto, privo per sempre della possibilità diraggiungere una qualche intima armonia. Tutti i suoiaffanni sono vanitas vanitatum, caducità e illusione. E,soprattutto, egli è schiavo della morte e per tutta la vitacammina alla sua catena» (12). E ancora: « LeonidNikolàevič aveva un talento innato, naturale, la suaintuizione era sorprendentemente acuta. In tutto ciò cheriguardava i lati oscuri della vita, le contraddizionidell'animo umano, il suo intuito era spaventoso » (13).Tra le « questioni maledette » lo assillava in parti-colarmodo il problema del pensiero umano. Ancora nel 1912,nella Lettera sul teatro asseriva: « Non la fame, nel'amore, ne l'ambizione: il pensiero, il pensiero umano conle sue sofferenze, gioie e lotte:ecco il vero protagonista della vita moderna! » (14). Ilpensiero umano, però, è un fragile parapetto che non puòresistere all'eruzione delle oscure e sconosciute forzedell'anima, è come un recinto di festuche sull'orlo di uncratere. Nel racconto c'è una immagine rivelatrice delrapporto di forza che secondo Andreev intercorre tra lasfera razionale dell'uomo e quella degli istinti: «Immaginate di aver vissuto in una casa di molte stanze,voi occupavate solo una stanza e pensavate di essere ipadroni di tutto l'edificio. E all'improvviso venite a sapereche

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là, nelle altre stanze, ci abitano. Sì, ci abitano. Ci abitanoesseri misteriosi, forse persone, forse esseri d'altra natura,e la casa appartiene a loro. Voi vorreste sapere chi sono,ma la porta è chiusa e dietro non si sentono ne suoni, nevoci. Ma al tempo stesso voi sapete che proprio lì, dietroquella porta muta, si decide il vostro destino » (15).La fragilità del pensiero porta l’eroe andreeviano, in questocaso Kèržencev, a dubitare dell'intellegibilità del reale e ariconoscere alla fine la sua impenetrabilità. Qui si rivelachiaramente l'influenza di Schopenhauer, il filosofo cheAndreev aveva più caro e le cui teorie sentivaparticolarmente vicine alla sua visione del mondo. Ancheper Andreev la vita è illusione, un velo dietro cui si celauna realtà che alla ragione è negato di conoscere. Il motivodell'illusorietà dell'esperienza empirica era anche tipicodell'epoca, basti pensare, ad esempio, alle poetichesimboliste.Nel racconto questo motivo viene ripetuto e sottolineatodalla metafora ricorrente dell'attore, dall'idea cheKèržencev ha della società come di un palcoscenico per lesue interpretazioni, e dalla sua propensione a teatralizzareogni azione e ogni momento della propria esistenza (ilconcetto della teatralizzazione della vita verràulteriormente sviluppato nel dramma del 1914).Ma se non si può andare oltre l'apparenza, se il pensieronon può cogliere la vera realtà, chi potrà dire a Kèržencevla parola definitiva sulla sua condizione mentale, chi potràessere così sicuro del proprio pensiero per farlo? A questadomanda non risponde nessuno: ne gli esperti che devonoeseguire la perizia medica e che si dividono equamentetra le due tesi opposte, ne le persone che lo circondano,ne i giurati che lo devono giudicare (Andreev tace ilverdetto finale), ne Io stesso autore. Nell'ultimo foglio didiario la tensione si fa parossistica ed esplode la rivoltanichilista, cosmica, di Kèržencev che sogna di far saltarel'universo con una miscela esplosiva di sua invenzione. Loscacco dell'individuo è divenuto scacco universale, la sua

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(15) L. Andreev, << Mysl’>> in Izbrannoe, Moskva,1982, pp. 171-172

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(16) A. M. Ripellino, //trucco e l'anima, Torino,Einaudi, 1965, p. 108.

(17) R. Giuliani, LeonidAndrèev, op. cit., p. 7.

solitaria rivolta sfocia in un desiderio di devastazionecosmica. La disperazione e l'impotenza di Kèržencevsembrano concentrarsi nel suo folle desiderio di urlarecome una belva, immagine questa che ha ricordato nonsolo a me, ma anche al pro-fessor Maffei, conun'associazione forse scontata, ma perentoria, il famosodipinto di Edvard Munch // grido (1893): urlo d'orrore in unvolto smaterializzato. Tutto il racconto anticipa la tensionespasmodica (oltre che singoli motivi, quali, ad esempio, latentazione del parricidio, la rivolta nichilista) delle operedegli espressionisti tedeschi ed è esso stesso gridod'angoscia di una coscienza che davanti alle contraddizionidella realtà urla d'orrore e smarrisce sé stessa. È la follia.Cerchiamo di riguardare più da vicino questa follia. Lapazzia è nel destino di molti personaggi di Andrèev, chenon starò qui ad elencare e, direi, è un destino ovvio,coerente con la concezione del mondo dell'autore. Lapazzia è infatti il risultato e dell'impotenza del pensieroumano e, al tempo stesso, dell'assenza di valori certi chediano un senso alla vita. In questo senso la follia ha originenel « sociale », nella vita dell'epoca, nella malattia dell'or-ganismo sociale. Non è un caso che nel teatro russo deiprimi anni del Novecento andasse tanto di moda il tipo del« nevrastenico », dell'uomo dall'equilibrio psichicospezzato (16). L'opera di Andrèev si presta quindi adessere letta anche in chiave sociale e ad essereconsiderata come un prodotto e, al tempo stesso, comeuna testimonianza della crisi di valori di una generazionevissuta in un'epoca di transizione. Pochi anni prima, nel1892,Čechov aveva scritto:« Noi non abbiamo scopi ne vicini, ne lontani e la nostraanima è vuota. Non conosciamo politica, non crediamonella risurrezione, non abbiamo Dio ne temiamo glispiriti...» (17).Tra gli scrittori dell'epoca colsero bene la rappresentativitàe il valore premonitore dell'opera andreeviana BIok eCulkòv, che scrisse: « Felice o no che fosse il suo stile,profondo o no il suo pensiero, resta il fatto che lui stesso,Andrèev, la sua personalità,

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il furore intellettuale e il suo cuore malato furono comesegni profetici del nostro destino. Egli fu la vittima immolataper tutti noi » (18). E Blok ricordava: « (...) che dovunqueregnava l'infelicità, che la catastrofe era vicina e il terrorealle porte io lo sapevo da molto tempo, prima ancora dellaprima rivoluzione, ed ecco che a questa mia consapevolez-za rispose all'improvviso La vita di Vasilij Fivejskij, poi //riso rosso, poi, in modo particolarmente chiaro, il breveracconto // ladro » (19); erano tutte opere di Andrèev.Ma in Andrèev la follia ha anche un'altra origine, un'originedi natura filosofica che attinge, come abbiamo giàaccennato, al pessimismo di Schopenhauer nei confrontidella realtà empirica.Infine la pazzia ha anche radici nelle vicende au-tobiografiche, nelle stesse esperienze psichiche diAndrèev. Egli era figlio di un alcolizzato e soffriva dialcolismo ereditario che, a detta di quanti Io conoscevano,gli procurava crisi non frequenti, ma assai tormentose,durante le quali egli lottava contro i fantasmi generati dallasua coscienza. Non gli era nemmeno estranea l'esperienzadello sdoppiamento della personalità, come risulta dai suoiprimi diari e da testimonianze di amici (20).Aleksèj Rèmizov, che l'aveva conosciuto agli inizi della suaattività letteraria, definì una volta lo sguardo di Andrèev «sconsolato e amaro, col folle barlume di Gàršin », eun'altra volta tentò di spiegarne la particolarità con questeparole: «Non l'orrore di Gàršin, non la disperazione di GlebUspènskij (21), ma un che di fatale — ecco come vedoLèrmontov:questa natura lermontoviana si celava nei suoi occhi.Davvero, un demone » (22).Non so se la sua perenne oscillazione tra i due polidell'amore per la vita e della sua più totale negazione —che in gioventù l'aveva spinto a tentare il suicidio tre volte— fosse solo frutto della sua visione del mondo, o se viavesse parte anche una causa d'ordine biologico, quale,forse, l'alcolismo ereditario. Di certo essa fu il tormentodella sua vita e delle sue creature letterarie, Kèržencevcompreso.

(18) Kniga o Leonide An-dreeve, op. cit., p. 69.

(19) Ibidem, p. 58.

(20) Cfr. le memorie di V.Beklemiševa nel volume D.L. Andreev-V. Bekiemiseva(a cura di), Rekviem. Sbornikpamjati Leonida Andreeva,Moskva, 1930, p. 266; cfr.anche Kniga o LeonideAndreeve, op. cit., p. 18.(21) G.I. Uspènskij (1840-1902), scrittore russo, morìpazzo.

(22) L. Andrèev, « An-dreevskij sbornik », op. cit.,p. 216, 218.

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Concludendo il discorso sulla follia di Kèržencev, è ormaievidente che risolvere il dilemma se egli sia pazzo oppureno, mentre per il lettore profano di psicanalisi, e pertantoansioso di risposte univoche, rappresenta una legittimacuriosità, per Andrèev e per il suo personaggio, alla lucedella loro visione del mondo, appare non solo impossibile,ma addirittura irrilevante, poiché per loro non esiste, nonpuò esistere risposta a un simile interrogativo.Particolarmente illuminante a tale riguardo mi sembra ilbrano di una lettera che Andrèev scrisse all'attore L. M.Leonìdov che s'apprestava a interpretare il ruolo diKèržencev nel dramma // pensiero:« Kèržencev stesso non sa se è pazzo o no, proprio inquesto sta la sua tragedia e se tu davvero vuoi esseresincero e non forzare ne in un verso, ne nell'altro, non Iodevi sapere nemmeno tu. E quanto più sarai sincero nel'non saperlo', tanto più risulterà efficace, in caso contrariocadresti immancabilmente nella finzione e nella falsità.(...) È esatto così: tu non sai, come non sa Kèržencev,come non sa nessuno ‘se è sano oppure no’ >> (23).

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(23) D. L. Andreev-V.Beklemiseva, Rekviem,op. cit., p. 80, 82.

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La coscienza perversaGiuseppe Maffei, Lucca

La lettura di un testo letterario può essere condottasecondo diverse metodologie e sostanzialmente puòessere privilegiato lo studio del rapporto tra Io scrittore el'opera (il problema della creatività) oppure, prescindendodallo scrittore, il testo stesso in quanto tale. lo non mioccupo professionalmente di studi di testi letterari e cosìla mia formazione mi porta direttamente verso questosecondo tipo di impostazione per il fatto che trovoveramente difficile pensare di comprendere ciò cheaccade ad uno scrittore nella composizione della suaopera senza che lui partecipi alla scoperta degli eventualicontenuti latenti che la sua opera potrebbe rivelare. Nellavoro analitico clinico si sviluppa come una sorta di pro-fondo rispetto per le resistenze degli analizzandi;il lavoro si fa in due e forse solo così potrebbe essereindagata la relazione dell'autore con l'opera. Nei lavori <«in assenza » non si può non dare che poca importanza aimeccanismi invisibili (la trasformazione nel contrario ed ilrivolgimento contro la propria persona) ed allora lacomprensione analitica diviene pressoché impossibile. Iltesto invece è in qualche modo offerto dall'autore e cosìnon mi sembrano esistere dubbi sulla legittimità di un suo

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esame. II privilegiamento dello studio del testo è stato inquesto caso necessitato anche dal fatto di non conoscerel'opera e la vita di Andrèev.Una volta scelto di privilegiare l'analisi del testo esistonoperò altre opzioni da compiere ed in particolare quella traun'analisi del linguaggio ed una dei contenuti dellinguaggio stesso. Dalla pubblicazione della « Letturafreudiana della Fedra » di F. Orlando in poi è moltodifficile parlare di un testo letterario senza sottoporlo adun'analisi attenta del linguaggio che lo costituisce. Il testopuò essere esaminato con questo metodo come unanalizzando con le sue associazioni. Comunque anche inquesto caso la non conoscenza della lingua russarendeva impossibile una lettura secondo questa modalità.Anche da questo punto di vista è stata così necessaria lascelta di una lettura contenutistica. Posto il problema inquesti termini la questione diviene allora quella di checosa io possa dire come analista, di quelli che sono icontenuti manifesti del testo letterario. E più in particolarepermette al testo di evidenziare dei contenuti latenti, perla rivelazione dei quali può essere utile la miapreparazione psicoanalitica? Postomi in questo angolovisuale, il testo è divenuto perciò per me come una sortadi analizzando e sono stato libero di reagire a lui comereagisco ad un analizzando, dando cioè spazio alle fan-tasie che il testo mi suscitava. II tipo di lettura derivato daquesto approccio non può essere allora che moltosoggettivo. Voglio dire che la lettura psicoanalitica èsempre molto soggettiva e molto connessa alla fase disviluppo in cui l'analista si trova. Io credo che lapsicoanalisi sia scienza, ma una scienza particolare, unascienza della soggettività, non dell'oggettività ed è perquesto che il suo statuto di scienza è così difficile dadefinire.Libero di muovermi come sono abituato a fare descriveròallora la prima lettura come una prima seduta ed arriveròsuccessivamente a quella lettura che mi appare oggi piùinteressante. Durante la prima lettura sono stato presodal livello più manifesto che appare nello scritto e sonostato trasci-

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nato dalla questione che Kèržencev pone: sono o nopazzo?, domanda che egli pone a se stesso, ma anche,con chiaro atteggiamento di sfida agli psichiatri che nelracconto devono giudicarlo. La prima fantasia che hosviluppato durante la lettura è stata così quella di essereio uno di questi psichiatri. Evidentemente, la lettura avevasuscitato in me non solo un moto di simpatia perKèržencev, ma anche un vissuto di solidarietà con isupposti colleghi. La loro compagnia era, nella miamente, ad un tempo gradita e sgradita ed in particolarequesta ambivalenza era molto forte nei riguardi di queglipsichiatri, citati in una prefazione, che si riunirono aMosca per discutere il caso di Kèržencev. La lorocompagnia era gradita perché questi psichiatri, nella miafantasia, appartenevano ad un'epoca mitica, potevanoavere ricevuto le prime influenze di Vienna e Zurigo,potevano essersi trovati in un conflitto difficile tra la loropreparazione e le « novità » che all'inizio del secoloponevano in discussione le certezze anteriori; sgraditaperché mi sembrava che si fossero lasciati prendere daun problema che, profondamente, li ridicolizzava; eraKèržencev che, di fronte ai periti, teneva in mano il giocoed invece tutta la mia professionalità consiste nel nonprestarsi a questo, devo capire la sofferenza, ma nonlasciarmi strumentalizzare. Kèržencev riusciva invece neltesto ad indurre gli psichiatri in difficoltà e pensavo cheanche Andrèev era riuscito a manovrare degli psichiatri,senza consultarli ed inviando da loro un suo personaggioletterario; nella mia fantasia nessun psichiatra russo, nellariunione dedicata al caso, aveva inoltre detto quello cheoggi io avrei potuto dire e cioè che c'era da esaminare seun testo era pazzo o no, non se un personaggio del testolo era. Partecipe a quella riunione, avrei lanciato il proble-ma: possiamo giudicare la pazzia di un testo? Conconseguenze che non arrivavo ad immaginare, ma che misembravano perlomeno altrettanto divertenti dellequestioni che Andrèev-Kèržencev riuscivano ad imporre.Nella prima lettura reagii così con un desiderio di nonlasciarmi strumentalizzare e volli al-

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lora ascoltare più a fondo l'inquietudine derivantemi dallarelazione fantasmatica che avevo stabilito con i colleghirussi dell'epoca; capii che la questione che mi interrogavaera quella se oggi, io, dopo tanti anni, avrei saputodavvero qualcosa di più dei colleghi di allora. Lapsichiatria è avanzata? Volevo a tutti i costi rispondere disì, ma poi non trovavo ragioni precise per le quali potessiaffermarlo con sicurezza; avvertivo comunque che moltecose erano sicuramente cambiate da allora. In primoluogo avrei potuto spiegare oggi a Kèržencev che ilrapporto tra follia e salute mentale è un rapporto non «sostanziale », come lui Io pone; gli avrei spiegato che or-mai normalità e pazzia non sono stati contrapposti e che,al limite, sono solo nomi che noi diamo a diversi stati delnostro esistere, che non hanno però alcuna sostanzialitàin sé; sono nomi che altri danno a nostri stati diesistenza, non cose in sé di cui possiamo essere certi.L'uomo moderno, avrei spiegato a Kèržencev ha ormaicapito questo, ha ormai ben elaborato che pazzia enormalità non sono così contrapposti come lui volevaimporre, lo, poi pensavo, non avrei mai accettato diessere nominato perito in un processo del genere; se Ioavessi accettato lo avrei accettato in quanto convintosostenitore delle norme vigenti del tempo ed allora, daquel punto dì vista, non avrei avuto alcuna difficoltà adesprimere un parere su di lui, ma solo dopo avergli fattoben comprendere che il giudizio di normalità e follia eraun giudizio in cui lui non c'entrava, lui non avrebbe potutosapere da me se era pazzo o no, ma solo se le norme deltutto soggettive, storiche, particolari di quel tempo loconsideravano al di fuori o al di dentro di sé. Avrei parlatoa lui da assoluto relativista ed amorale con la stessaspregiudicatezza del suo pensiero, non accettando asso-lutamente che solo lui si ponesse in tali posizioni;da giudice gli avrei inoltre detto che la mia condannasarebbe consistita nel fare scegliere a lui, tra manicomioe lavori forzati. Avrei accettato la sua proposta perchéfatta da lui, avrei considerato con grande attenzionequello che lui proponeva, perché

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mi sarebbe sembrato giusto rimandargli indietro ilproblema che lui poneva. In questa prima lettura mi posiquindi prevalentemente il problema dei rapporti traKèržencev e gli psichiatri. Nel lavoro analitico si da moltaattenzione a ciò che viene descritto come esternoall'individuo, perché spesso, in ciò che viene descrittocome esterno si trovano gli elementi rimossi e proiettatipiù importanti della psiche del soggetto esaminato. Micolpì cioè subito questa sostanziale dipendenza diKèržencev dagli psichiatri, questa dipendenza sul pianoreale, come se Kèržencev avesse potuto-volute regrediread un rapporto in cui sono gli altri ad essere i « grandi ».Gli psichiatri mi apparivano come figure del suo mondointerno ed esattamente come i garanti per lui del suo li-vello di partecipazione sociale. Kèržencev non era statogarante di se stesso ed aveva avuto allora necessità,appunto, degli psichiatri. Quando formulavo questipensieri, avvertivo anche che questo rinviare a Kèržencevil problema, aveva una sfumatura «sadica». Le letturesuccessive non ebbero l'impatto emotivo della prima e siaccompagnarono ad una serie di interpretazioni banali deltesto, interpretazioni che avvertivo di maniera ed un po'stupide. E questo capita in analisi, che nella prima sedutasi capisca molto e successivamente meno. Era chiaro cheil rapporto a tre poteva essere considerato come unaripetizione dell'Edipo, era chiaro che Savèlov era unafigura di ombra di Kèržencev, era chiaro che Maša erauna figura di anima, era chiaro che Tatjàna Nikolaevnaaveva capito le intenzioni omicide di Kèrzencev e che nonsi era molto affaticata per impedire l'omicidio, che appuntopoteva essere considerata come una madre che spingevail figlio inconsciamente verso il parricidio. Mi sembrò cioècentrale il fatto che Tatjàna Nikoiaevna non spiegasseniente a Kèržencev del suo amore per il marito,mettendolo di fronte esclusivamente ad un « lo amo » chenon poteva che rinforzare in lui fantasie di un bambino difronte ad una coppia genitoriale, misteriosamente estranamente felice. Mi immaginavo che sarebbe bastatoche lei si esponesse di più, che dicesse di più del

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perché del suo rifiuto e della preferenza per il marito cheKèržencev avrebbe potuto iniziare a pensare con lei enon trovarsi solo con il proprio pensiero. Ma, pensandoqueste cose, mi sentivo un analista scolastico, il testonon mi interrogava a questo livello; pensando questecose, mi sembrava dì pensare in un modo pocosoggettivo ed analitico. L'interpretazione, nel lavoroanalitico, non può essere « oggettiva »; si tratta piuttostodi passare dal parlare del presente al presente delparlare. Non si può far pensare la teoria al posto dellanostra mente;se è la teoria a pensare, l'esperienza viene incasellatanon capita. Kèržencev faceva di tutto per avere unproprio pensiero; mi sembrava giusto risponder-gli di piùcol mio pensiero che con le mie teorie. in analisi,l'analista è abituato ad aspettare molto in attesadell'interpretazione e della costruzione giusta. Il tempo diquesta relazione si avvicinava ed io mi sentivo un po'pressato. Il testo continuava piuttosto a produrre varierisposte che non si concretizzavano in una rispostasoddisfacente. Il testo evoca, come l'uomo, risposteinfinite e non può essere catturato in una interpretazione:è interminabile l'analisi di un uomo come è interminabilel'analisi di un testo; la scienza psicoanalitica ha a che farecon problemi di questo tipo, l'interpretazione si fa semprenella posteriorità, nell'après coup ed è questo il motivoper cui non può arrestarsi. Il fatto che l'interpretazionecontinui ad esercitarsi è comunque la prova che un testoè ancora vivo; ma può esistere un testo morto?Esporrò così l'ultima delle « costruzioni » cui sonoarrivato. Mi sembra oggi che la chiave di volta delracconto sia il momento in cui, dopo l'omicidio benriuscito, al culmino del successo dell'opera tantoabilmente preparata ad un tratto viene in mente aKèržencev « un'idea nuova che possedeva però tutte lequalità delle idee elaborate dal mio pensiero, e cioè lachiarezza, la precisione e la semplicità. Quell'idea mientrò in testa con pigra indolenza e ci rimase. Eccola quiespressa in terza persona, così come — chissà perché— mi si era presentata: Può

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darsi benissimo che il dottor Kèržencev sia effettivamentepazzo. Forse lui crede di fingere, ma in realtà è pazzo. Èpazzo anche in questo momento ». Credo che sarebbemolto interessante per chi studia Andrèev sapere comeegli sia arrivato ad una conoscenza così precisa di comeavvenga l'inizio di alcune psicosi. Per letture, peresperienze proprie, di amici? Il fenomeno su cui è stato inparticolare Lacan a richiamare l'attenzione, è certo moltoimportante nella teoria sulle psicosi. Il fenomeno in sé èmolto frequente nella clinica ed appunto di assaicomplessa spiegazione. Mi raccontava in questi giorni ungiovane psicotico che il padre, quando lui aveva 15 annie faceva chiasso e litigava con i suoi gli diceva: Staiattento, chissà cosa diranno i vicini di casa. E lui non sipreoccupava molto, dice, di quanto il padre diceva, finchéun giorno una voce interna gli disse: Francesco ed ilpadre sono matti!, appunto in terza persona.Vedersi dall'esterno non è facile ed oggi sappiamo che lapsicosi ha molto a che fare col tentativo di evitare ilvedersi dall'esterno. Lo psicotico tenta infatti di sostituirecompletamente il proprio punto di vista o quello dellafigura con cui ha vissuto in simbiosi a quello che è ilpunto di vista oggettivo cui pure aderisce. Lo psicoticotenta cioè spesso la via della soggettività assoluta:Kèržencev è, da questo punto di vista, particolarmenteinteressante. Ama il suo pensiero al di là, al di sopra diogni cosa;cerca di far tutto col proprio pensiero e nega ogniimportanza alla propria affettività. Il suo pensiero Io vuoleatemporale, solido, puro, esatto e gli altri, quelli che nonlo hanno così puro, sono dei sottouomini, anche Savèlovè persona spregevole perché usa il pensiero a finiinferiori, a fini non degni dell'attività pensante dell'uomo.Ma la verità ha i suoi diritti: tutto dimostra che il solopensiero non basta a risolvere i problemi dell'uomo; c'èuna verità che gli occhi, gli orecchi, il pensiero dicono eche non può essere negata: il mondo è complesso e nonriducibile all'unità. Colui che instaura la dimensione dellacomplessità nel-

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l'infanzia dell'uomo è il padre. Il bambino può pensaremolto potente se stesso nel rapporto duale con la madre.Tutto può avere una corrispondenza punto punto tra le dueattività psichiche in presenza, ma sullo sfondo, qualcuno (ilpadre?), dice: « Voi siete una madre ed un figlio! Nonsareste potuti esistere come tali senza di me, come tuttinoi non saremmo potuti esistere come tali senza tutto ciòche ci circonda ed in cui siamo inseriti ». Credo che siamolto difficile per chi non ha conoscenza del mondo dellepsicosi comprendere a fondo ciò che vado dicendo, lapassione con cui certi psicotici fanno di tutto per evitare diconfrontarsi con la semplice verità prima detta. E laformula magica di Lacan: ciò che è precluso torna nelreale, non fa che dire quanto accade a Kèržencev: quelpensiero che lui non ha voluto pensare, che cioè dal puntodi vista non degli stupidi, ma del padre, che ha istituito unpatto, chi uccide è pazzo, perché lede appunto una normafondamentale dello stesso « patto », questi pensieri che luiha voluto mettere da parte, ad ogni costo, gli ritornanosotto forma di pensieri che gli si presentano da sé, pensatisenza che lui lo voglia. Nella psicosi vera e propriacompaiono più spesso come allucinazioni, qui Andrèev li facomparire appunto come pensieri autopensati. Si potrebbeformulare il problema anche in termini bionianì: il pensieroha a che fare con l'assenza degli oggetti pensati. Non puòmai restituire la pienezza degli oggetti perduti. II pensiero èdiverso dalla cosa. Proprio per questa sua diversità dallacosa, può però cercare di riprendere la consistenza dellacosa stessa. L'assenza della cosa è espulsa dalla psichedegli psicotici e può vagare lontana dalla loro psichefinché, impazzita, può trovare spazio, come elemento nonelaborato e pertanto fonte di pazzia, in frasi freddepronunciate in terza persona. Il lui, il loro, il lei escludonodefinitivamente e per sempre la relazione del tu, la re-lazione potente ed armoniosa che può esistere tra due Tu.L'intervallo tra i Tu è la dimensione terza:Kèržencev tenta di eliminarla ma essa ritorna e locondanna durante il ricovero alla disperazione. Gli

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urli che tanto lo tormentano, non saranno così gli urli dichi cerca una dimensione paterna, qualcuno capace dirispondere ai suoi interrogativi? Il lavoro forzato potrebbein qualche modo simbolico restaurare una dimensionematerna. Non c'è speranza altro che in un'ignota sorgentedi vita. Kèržencev avrebbe avuto probabilmente bisognodi una madre che avesse conosciuto l'importanza delpadre.Vorrei chiudere qui, ricordando però un accenno che hofatto dicendo le fantasie occorsemi durante la primalettura; quando fantasticai di dire a Kèržencev di deciderelui per quanto riguarda la condanna, avvertii che erosadico nei suoi confronti. Quanto ora detto mi fa capire ilperché e questa osservazione è anche molto interessanteper quanto riguarda la pratica psicoanalitica. Lacostruzione finale di un lavoro analitico riprende spessovissuti della prima seduta. Mettendo in luce il rapportocon gli psichiatri, avevo cioè probabilmente avvertitosotterraneamente l'importanza della figura del padre.Rispondendo in quel modo, mi rifiutavo di prendereKèržencev sulle mie spalle e qualcosa, oscuramente, miavvertiva che questo rifiuto non era buono nei confronti diKèržencev stesso.II senso latente che sembra comunque emergere dallamia lettura del testo è in sintesi quello di un desideriomolto forte di una figura paterna.

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L’ incubo delquotidiano

Concetto Gullotta, Roma

« ... Quando il viandantecanta nell'oscurità, rinnega la propria apprensione, ma non per

questo vede più chiaro ».

(S. Freud)

Cosa può dire Io psicologo-analista nei confronti di untesto letterario? Nulla fuorché esprimere, mediante le sueriflessioni, quella che lui crede la sua raggiunta, forseillusoria, opinione che, facendo eco a quella dell'autore,potrà anche servire come traccia a quanti,nell'appassionato vizio della lettura cercheranno il sensoo il conforto, il distacco o il coinvolgimento che sempretraspare nello studio delle « sudate carte ».Mi sono quindi chiesto come poter trovare un deno-minatore comune che, di fronte a questo tipo di difficoltà,potesse in qualche maniera aiutare tutti (interprete,lettore) a capire di più, anche se non in modo definitivo.La mia prima risposta è stata che esiste un'analogia neipercorsi psichici per cui, se uno propone e descrive unacerta storia psicologica, essa potrà essereanalogicamente applicata a chi si trova in situazioni,anche se in parte diverse, che riproducano un po' lostesso cammino. Credo che questo sia vero, perchéindubbiamente in ogni storia psicologica, storia cheguarisce e patisce, storia che porta alla viadell'individuazione naturale, secondo le possibilitàentelechiale, o culturale, attraverso la

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passione dell'Io, in ognuna di queste storie psicologiche,possiamo con facilità intravedervi il momento del senso dicolpa e del destino, della sintesi simbiotica e delladifferenziazione, del sospetto o della paura paranoidea edel riscatto, della esaltazione e dell'abbandono, dellasolitudine e della partecipazione, della depressione edella mania.Tutti questi aspetti si riflettono similmente in tutte lediversissime situazioni di esperienza psicologica in cui citroviamo.Lo psicologo analista preferisce dare le sue inter-pretazioni ad una persona singola, per cogliere, appuntocon essa, in quale fase della vita si trovi e quindi percomprendere in quale momento venga rivolta ad essa laspinta all'Individuazione.Non si può infatti definire molto facilmente e condenominatori comuni la varietà delle forme epifanichedella psiche.Un'altra difficoltà, a cui non ho trovato una soluzioneprecisa, l'avverto ogni qual volta mi accingo a parlare o ascrivere di questioni psicologiche; mi riferisco qui aun'altra domanda che mi sono fatto più volte: qual è ilrapporto fra la mia esperienza personale, il momentodella mia ricerca mossa dalla spinta individuativa, ed illinguaggio che uso comunicando con gli altri? È chiaroche qui le risposte possono variare fra due estremi. Unaprima risposta è che non ci sia alcun rapporto, cioè che iotratto scientificamente la materia, senza stabilirerelazione alcuna con ciò che sento e vivo. Si darebberocosì delle interpretazioni il cui carattere è quanto maiimpersonale. Ma l'accettare questo atteggiamento mi rie-sce piuttosto difficile perché mi rendo conto che sempre,anche inconsciamente, quando si parla con gli altri, si èstimolati da cose, impressioni, pensieri avuti o fatti neigiorni, nei mesi, negli anni precedenti.Mi rendo conto anche quanto il soggetto, perfettamenteanalizzato, non debba sempre fare i conti poi con lepregiudiziali ideologiche della scuola a cui appartiene, ocon le visioni del mondo di cui soggettivamente eliberamente crede di esprimere il

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senso, oppure non debba ancora vedere quella che puòessere un'altra forma di nevrosi difficile da descrivere eda curare: quella situazione di chi porta troppo avanti etroppo a lungo il processo analitico, diventando così un «super-analizzato », il che, a mio avviso, riflette un altrostato d'incoscienza.Non vedo quindi come concretamente sia possibile unaspersonalizzazione « scientifica », che pure non è deltutto indesiderabile.Naturalmente l'opposto, cioè la seconda risposta, è lapura comunicazione dell'esperienza propria. Allora chiscrive comunica spontaneamente ciò che in quelmomento costituisce la sua esperienza e la comunica inmaniera diretta, partecipata, attraverso il ritmo di alcuneriflessioni e/o descrivendo delle immagini.Tra questi due estremi, cioè l'impersonalità e la puracomunicazione della propria esperienza, c'è una modalitàdi mezzo che è difficile da definire, ma che vorrei almenotentare di seguire.A questo scopo trovo opportuno riferirmi al testo diSologub // demone meschino, proprio per evitare diessere troppo personale. E sarà sulla base di questotesto che esporrò riflessioni attinenti ai personaggi inesso narrati ed analogamente accennerò alle modalitàcollettive della psiche che si sommuovono in ogni essereumano.Il testo da oggettività, l'esposizione invece una risonanzapersonale. Se il testo, come in questo caso, è un testoscritto in epoca pre-psicoanalitica l'oggettività èassicurata e ciascuno potrà quindi dirsi: non mi vienedetto o imposto ciò che uno scrittore sta vivendo adesso,probabilmente attraverso le metafore psicologiche degliultimi 80 anni e che può non essere interessante per meo addirittura del tutto fuori dalla mia esperienza, ma miviene dato un testo letterario che, pur nella risonanzapersonale, è assolutamente oggettivabile.Ma si può parlare in termini psicologici riferendosi non auna persona, ma ad un testo? Sarebbe come analizzareun sogno senza conoscerne l'autore, le eventualiassociazioni al racconto onirico, ciò che

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ha sognato o fatto in precedenza. In breve si tratterebbedi fare della ermeneutica, ma nulla che abbia a che farecon la psicoanalisi o con la psicologia analitica.Alcuni psicologi in questi ultimi decenni hanno praticatoun gioco molto allettante. Si è tentato di addentrarsi nellapsicologia dei personaggi storici o letterari, sia perdescriverli, come se li fosse conosciuti personalmente,sia per analizzarne il profondo. Molto spesso arbitrario,questo gioco ha portato talvolta a immaginarsi ilpersonaggio in questione secondo i moduli della propriapsicologia e a proiettare su di lui — senza volerlo o senzaaccorgersene — le proprie reazioni affettive, in sensopositivo o in senso negativo. Tuttavia questo tipo diricerca, nonostante i rischi, ha per lo meno il vantaggio diabbandonare il campo delle astrazioni ideologiche afavore dello studio, pieno di incognite, delle reazioni esi-stenziali concrete.Utilizzando un linguaggio tecnico, possiamo dire che sipuò far leva sulle reazioni contro-transferali del lettore,pur rimanendo ben consapevoli della radicaleinsufficienza, come strumento analitico, del solo contro-transfert.Senza voler cadere in uno psicologismo a oltranza, misembra interessante osservare, con questo metodo, gliatteggiamenti umani di Sollogub così come si lasciaparzialmente conoscere nella prefazione del suoromanzo, allorché commenta e confuta, in prima persona,le critiche letterarie del suo tempo.Scrive testualmente l'autore: « II romanzo "II demonemeschino' fu cominciato nel 1982 e finito nel 1902.Stampato in parte per la prima volta nel 1905 nella rivista'I problemi della vita', fu pubblicato nella sua formadefinitiva nel 1907. I critici hanno espresso intorno aquesto romanzo due opinioni opposte.Alcuni ritengono che l'autore sia un uomo cattivo che havoluto fare il proprio ritratto e si è raffigurato nelpersonaggio di Peredonof. La sincerità dell'autore,secondo essi, gli ha impedito di presentarsi migliore diquel che egli è in realtà. E così egli si

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(1) F. Sologub, // demonemeschino. Campitelli, 1923,(trad. E. Lo Gatto), i XIX.

è dipinto con i colori più scuri. Egli ha compiuto questoatto estremo per salire una specie di Golgota a soffrirviper una causa ignota. È così che questo romanzointeressante ed inoffensivo ha veduto la luce.Interessante, perché fa vedere fin dove può arrivare lacattiveria degli uomini inoffensivo, perché il lettore dirà: 'lonon ho niente in comune con costoro'.Gli altri critici, meno severi nei riguardi dell'autore,ritengono che i Peredonof nel mondo sono parecchi. Essiarrivano fino ad affermare che ognuno di noi,osservandosi attentamente, può scoprire in se stessoqualche tratto del carattere di Peredonof. La seconda diqueste opinioni è quella che io preferisco » (1). Nelriassumere questi due atteggiamenti contrapposti dellacritica contemporanea, mi sembra che l'autore esprimapiù o meno consapevolmente le polarità della modapsichiatrica-psicologica del suo periodo storico, polaritàamplificate dalla critica letteraria, ma presenti nell'autorestesso con una decisa preferenza per quella che eglidefinisce « La seconda di queste opinioni ».La prima polarità, quella che Sologub rifiuta, ha a che farecon le storie psicologiche intese come catarsi; cioè quelparticolare significato che esprime, in estetica, lapurificazione dell'animo in chi contempla o produceun'opera d'arte. Da Platone [Convivio e Fedro) e Aristotele[Poetica e Politica), attraverso i Pitagorici, da Giamblico(De Misteris), e Proclo fino a Kant [Esteticatrascendentale) a Schiller [Lettere sull'educazioneestetica) a Schopenauer a Bergson [Essai sur les donnésimmediates de la conscience), numerosi autori, lungo unpercorso esclusivamente filosofico, sul quale poggiaanche la visione psicologica dello spirito del loro tempo,ha voluto considerare l'efficacia, o l'influenza, della crea-tività dell'arte sull'uomo, cioè il suo aspetto catartico.L'arte rappresenta uno stimolo alla fantasia; è liberazionedalle esigenze, dalle difficoltà, dalle limitazioni della vita,permette di far confluire lo spirito nel puro regnodell'immaginazione. In questa concezione di catarsi, chefondamentalmente poggia sulla conce-

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zione aristotelica, convergono i vari significati di te-rapeutico, estetico, morale e religioso. Abbiamo detto chel'autore rifiuta decisamente questo giudizio « proiettivo »di certa critica per privilegiare un altro giudizio proiettivo,ma che esprime forse meglio la propria tipologia. Laseconda polarità, quella che Sologub predilige, la definirei« Storie psicologiche raccontate secondo le modalitàfenomenologiche ». Qui lo stile del racconto vuole esseresoprattutto un tentativo di attingere le « Cose stesse », larealtà in tutta la sua purezza, senza lasciarsi fuorviare dapregiudizi ideali di qualsiasi sorta. Questo metodo divienecosì, non solo per definizione etimologica, ma per la suapiù intima natura, descrizione, lettura, scienza del « fe-nomeno ». Continua Sologub nella sua prefazione:« lo non ho avuto bisogno di immaginare nulla; tutto ciòche vi è di aneddotico, di psicologico e di reale nel miolibro è fondato su osservazioni precisissime. lo avevo amia disposizione materiale più che sufficiente. Se hoimpiegato tanto tempo a fabbricare il mio romanzo, èstato esclusivamente perché era indispensabile riportarel'accidentale al necessario, perché là dove dominavaAissa, seminatrice di aneddoti, regnasse alfinel'implacabile Ananke.È tuttavia vero che gli uomini 'amano di essere amati' edesiderano che si mettano in luce i lati nobili della loroanima. Persino nei malfattori essi vogliono vedere deiraggi di bene, 'la scintilla divina', come si diceva prima.Così quando si mostra loro una figura vera, oscura,cattiva, si rifiutano di credere e vorrebbero dire: 'L'autoreha parlato per sé'. No, miei cari contemporanei, nel'Demone meschino' Io ho parlato precisamente di voi,Peredonof, Varvara, le sorelle Rutilof, Volodin, Pylnikof egli altri si trovano in mezzo a voi.Questo romanzo è uno specchio terso. Io l'ho forbito alungo e con cure assidue. La sua superficie è liscia e lamateria pura. lo ho preso le misure esatte. Gli oggetti,riflettendovisi, non si deformano. II bello

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e il brutto vi si specchiano con la stessa precisione » (2).Mi sembra evidente che « l'intenzionalità » cosciente

dell'autore nel « fabbricare » questo romanzo sia stataquella di usare il metodo fenomenologico, metodo alloranon chiaramente delineato dal giovane HusserI, ma chegià si esprimeva nel 1981 (anno antecedente l'inizio delromanzo!) quando usciva la Philosophie der Arithmetik,studio e ricerca intorno all'origine e al significato dellanozione di molteplicità. La molteplicità, secondo HusserI, siriduce, in ultima analisi, all'atto psicologico, chiamatoInbergriffsvostellung, rappresentazione complessiva cheraduna in sé sinteticamente i diversi contenuti, (normalità eanormalità, tipicità, atipicità). In questa opera di HusserI leinfluenze psicologistiche sono assai marcate, sebbene sinoti già una tendenza a concepire la coscienza piùdinamicamente che nella precedente psicologiaantropologica di Brentano.L'accostamento di Sologub a HusserI e al metodofenomenologico prescinde da una documentazionestorica; la sincronia, pur suggestiva, delle date non ciautorizza ad ipotizzare nulla e può essere presa inconsiderazione soltanto come espressione dello spirito deltempo.Tenendo presente questa premessa, il nostro autore ed ilsuo romanzo esprimono già nel titolo, voluta-mentebizzarro, il momento di passaggio alle nuove concezioniriguardanti le malattie psichiche e la loro psicologia, lequali, superato il periodo delle concezioni magico-demoniache, sopravvissuto più a lungo in psichiatriarispetto ad altre branche della medicina, si affermavano inEuropa ad opera di grandi clinici come Kraepelin, Magnan,Wernicke ed altri nella seconda metà del secolo XIX,quale minuziosa ricerca e catalogaziene della grandevarietà dei contenuti sintomatici e quale individuazione dicostellazioni sintomatiche particolari considerate « entità »nosografiche ben definite, per le quali si sperava di trovareun substrato anatomico specifico come avveniva perqualsiasi malattia organica.A tale impostazione di ispirazione meccanicistica

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(2) F. Sologub, op.cit., p. XX.

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della vita psichica, verso la fine del secolo XIX, e quindi neiprimi del secolo XX, si andava contrapponendo, sottol'influsso di correnti filosofiche vitalistico-dinamiche etotalistiche della vita psichica, un orientamento dellapsicopatologia che portava alla valorizzazione dellopsichico come fattore primario del problema della causalitàdella malattia, fino a capovolgere la formulazioneprecedente, per cui, non era più il fisico che condizionavalo psichico, ma era lo psichico (ampliato a comprendere isuoi più vasti territori dell'inconscio) che conteneva in sé ilproblema della malattia psichica. (Charcot, Bernheim,Janet, Freud, Jung).Come manifestazione dello spirito del suo tempo Sologubesprime, attraverso la creazione artistica, la filosofia a luicontemporanea: la nascente fenomenologia. Egli riassumeil momento magico-demoniaco della psichiatria e neintuisce le costellazioni sintomatiche della incipientepatologia e clinica delle malattie nervose e mentali e, ciòche a mio avviso è più suggestivo, egli illustra neipersonaggi principali i nuclei di quella che sarà lafenomenologia e la psicodinamica della paranoia cosìcome verrà enunciata da S. Freud, primariamente e informa schematica nell'epistolario Freud-Fliess del 1895 (3)e poi nell'epistolario Freud-Jung del 1907(4), poi ancora inmaniera più scolastica nel caso clinico del presidenteSchreber che è del 1910(5).La descrizione fenomenologica dei personaggi centrali delromanzo e cioè la coppia Peredonof-Varvara, cipermetterebbe questo tipo di interpretazione psicoanaliticacosì come la coppia Sascia-Liudmila ci permetterebbe diinterpretarli come polo opposto e quindi complementare-terapeutico rispetto alla coppia precedente.Allo scopo che mi sembra di essenziale importanza —richiamare l'attenzione del lettore sulla complessa eaffascinante struttura del romanzo in questione — citereialcuni brani del libro dai quali è possibile cogliere questadinamica, senza peraltro dilungarmi sull'approfondimentodello studio psicodina-

(3) S. Freud, « Paranoia >>(Minuta H 1), in Opere1892-1899, Torino, Borin-ghieri, 1968, p. 36.

(4) Lettere tra Freud eJung, Torino, Boringhieri,1974, p. 40.

(5) S. Freud, « Osserva-zioni psicoanalitiche su uncaso di paranoia », inOpere 1909-1912, Torino,Boringhieri, 1974, p. 335.

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mico, ma lasciando le varie possibilità di costellazionepersonale proiettiva e interpretativa.

<< Peredonof ebbe rabbia di se stesso. Cosa stava lì aperdere tempo con Rutilof. Come se Rutilof lo avesseincantato. Si, ma poteva darsi che Rutilof l'avesseveramente incantato. Bisognava fare al più presto gliscongiuri.Peredonof fece dei giri su se stesso, sputò in tutte ledirezioni e borbottò tutti gli scongiuri che conosceva.II suo viso esprimeva una severa attenzione, comenell'adempimento di un rito solenne. Dopo questaindispensabile esecuzione di scongiuri, egli si sentì alsicuro da qualsiasi stregoneria di Rutilof. E risolutamentepicchiò col bastone alla finestra, borbottando irritato:bisognerebbe denunziarle, adescano gli uomini.— No, oggi non mi voglio sposare — annunzio egli aRutilof che si era sporto dalla finestra.— Ma che hai, Ardalion Borisic? È già pronto tutto —tentò di persuaderlo Rutilof.— Non voglio — dichiarò risolutamente Peredonof —andiamo a casa mia a giocare a carte ».

« Varava tagliò un pezzo di pane e ascoltando i discorsidivertenti di Volodin rimase con il coltello in mano. Lapunta del coltello luccicava. Peredonof fu preso dallapaura: « E se mi ammazzerà ad un tratto! » egli gridò: —Varvara, metti giù il coltello! — Varvara trasalì ».

« Ma anche la mattina dopo, tornando in città, Peredonofnon andò a casa, ma si fece portare in chiesa;era l'ora della messa. Adesso gli sembrava pericolosonon andare spesso in chiesa: potevano denunziarlo.Incontrando, mentre entrava nel cortile, un graziosopiccolo allievo del ginnasio, dal viso ben colorito, ingenuo,e dagli occhi puri e celesti, Peredonof disse:— Ah, Marietta, buon giorno, bambina. Misela Kudriavzefarrossì, indispettito. Già varie volte Peredonof l'avevastuzzicato chiamandolo Marietta. Kudriavzef non sapevaperché e non osava lagnarsi ».

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« Nella casa nuova fecero subito chiamare il prete per labenedizione. Era necessario secondo i calcoli diPeredonof, far vedere che egli era un uomo religioso.Durante il servizio religioso l'odore dell'incenso,facendogli girare la testa, provocò in lui uno stato d'animovago, simile a quello della preghiera. Una stranacircostanza lo turbò. Non si sa di dove era accorso unostranissimo essere, dalle linee imprecise, piccolo, agile,che sorrideva e tremava e si aggirava intorno aPeredonof. Quando egli tendeva la mano per prenderloesso si dileguava rapidamente, scappando dietro la portae sotto l'armadio e dopo un minuto ricompariva, etremava e provocava; grigio, senza volto, agile.Finalmente quando il servizio religioso fu finito, Peredonofcapì e borbottò sotto voce degli scongiuri. Il piccoloessere grigio sibilò piano piano, si restrinse come in unpiccolo gomitolo e rotolò dietro la porta. Peredonofsospirò sollevato.— Si, è bene che se ne sia andato del tutto. Ma, forse,vive in questa casa, in qualche posto sotto il pavimento edi nuovo verrà per stuzzicarmi —. Peredonof sentì freddoed angoscia.— E perché esistono al mondo questi cattivi spiriti? »

« Un vestito di Varvara attirò la sua attenzione: era tuttocoperto di volantini, di nodini, di nastri, come se fossestato fatto apposta perché ci si potesse nasconderequalcuno. Peredonof osservò a lungo, poi con uno sforzo,coll'aiuto di un coltello, strappò e in parte tagliò la tasca ela buttò nella stufa, e poi si mise a strappare e tagliare inpiccoli pezzi tutto il vestito. Nella sua testa giravanopensieri torpidi e strani e tutto il suo animo era invaso daun'angoscia disperata.Dopo un poco tornò Varvara. Peredonof stava ancoratagliando i resti del vestito. Ella pensò che egli fosseubriaco e cominciò a ingiuriarlo. Peredonof ascoltò alungo, poi, finalmente disse:— Che cosa abbai, stupida! Forse porti il diavolo in tasca.Debbo interessarmi di ciò che succede qua. Varvara fusbalordita ».

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« Quando Peredonof e Varvara si prepararono per an-dare a letto, a Peredonof parve che Varvara avessequalcosa di cattivo in mente; egli tolse via le forchette e icoltelli e li nascose sotto il letto, balbettando, con la linguache non gli obbediva:— lo ti conosco: non appena ti sposerò, mi denun-zieraiper disfarti di me. Riceverai la pensione ed io saròstritolato dal mulino di Pietropaolo.La notte Peredonof ebbe un delirio. Delle figure vaghe,terribili, giravano in silenzio; i re, i fanti, agitavano le lorospade. Essi sussurravano tra di loro, cercando di nonfarsi vedere da lui e di nascosto gli si ficcavano sotto ilcuscino.Ma presto diventarono più ardite, cominciarono amuoversi, a correre e ad agitarsi intorno a Peredonof,dappertutto, in terra, sul letto, sotto i guanciali.Sussurravano tra di loro, stuzzicavano Peredonof, glimostravano la lingua, facevano davanti a lui terribilismorfie, allargando la bocca in modo mostruoso ».« Peredonof era dominato senza tregua dalle immaginiinopportune della persecuzione e ne era terrificato. Egli siimmergeva sempre più in un mondo di sogni selvaggi. Ciòsi rifletteva anche sul suo viso, che si trasformava in unaimmobile maschera di terrore. Adesso Peredonof nonandava più la sera a giocare a bigliardo. Dopo pranzo sichiudeva in camera da letto, barricava la porta con delmobilio, la sedia sopra la tavola, e barricandosi faceva deisegni di croce e degli scongiuri, poi si metteva a scriveredelle denunzie contro tutti coloro di cui poteva ricordarsi.Egli scriveva denunzie non solo contro le persone, maanche contro le figure delle carte da gioco. Appena scrittele portava subito all'ufficiale dei gendarmi. E così passavaogni sera. Dappertutto, davanti agli occhi di Peredonofgiravano le figure delle carte, come vive: i re, le regine, ifanti. Giravano persino le carte minori. Erano questeuomini con dei bottoni chiari, degli studenti, degli agenti.L'asso, grasso, con la pancia all'infuori, quasi una panciasola. Qualche volta le carte si trasformavano in personeconosciute. Si mescolavano tra loro

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gli uomini e queste strane figure, sotto cui, secondoPeredonof, si presentava il lupo mannaro ».

« — Ho ucciso una cimice — spiegò Peredonof cupo.I suoi occhi scintillavano di un selvaggio trionfo. Eraspiacevole soltanto una cosa: che c'era cattivo odore.Marciva e puzzava dietro la tappezzeria la spia as-sassinata.Il terrore e il trionfo lo facevano fremere. Peredonof, egliaveva ucciso un nemico!Il suo cuore si esasperò fino alla fine in questo delitto. Undelitto non commesso, ma per Peredonof era lo stesso diun delitto commesso. Il pazzo terrore aveva lavorato in luila prontezza per il delitto;e l'immagine reale scura, che si nasconde nelle regioniinferiori della vita morale, del futuro delitto, il penosoprurito al delitto, lo stato di esasperazione primitiva,opprimevano la sua volontà depravata. Ancora incatenato— molte generazioni sono passate sull'antico Caino —esso trovava soddisfazione nel rompere e guastare glioggetti, nello spaccarli con l'ascia, nel tagliarli col coltello:tagliava gli alberi del giardino, perché la spia non potessenascondervisi. E nella distruzione degli oggetti sirallegrava l'antico demone, mentre gli occhi selvaggi delpazzo riflettevano il terrore simile al terrore dellemostruose sofferenze dell'agonia. E sempre le stesse, ele stesse visioni si ripetevano e lo torturavano ».

« Peredonof non dubitava affatto che l'aver egli scopertoin uno degli scolari una ragazza, avrebbe attrattol'attenzione dei superiori e che oltre alla promozione gliavrebbero data anche una decorazione. Ciò loincoraggiava a vigilare sempre più attentamente lacondotta dei suoi alunni ».« Peredonof si svegliò verso il mattino. Qualcuno loguardava con degli occhi quadrati. Non era questiPylnikof? Peredonof andò alla finestra e guardò la visionesinistra.Dappertutto magie e sortilegi. Squittiva il selvaggio esseregrigio, e con perfidia ed ira, tutti, animali

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ed uomini, guardavano Peredonof. Tutto gli era ostile,egli era solo contro tutti ».«Pylnikof era allegro, sorrideva e guardava Peredonofcon i suoi neri occhi ingannevolmente puri e senza fondo.Il viso di Sascia tormentava e terrorizzava Peredonof.L'affascinava quel maledetto ragazzo col suo perfidosorriso. Ma è un ragazzo? O son due: fratello e sorella? Enon si può proprio capire chi dei due sia qui. O forse eglisa trasformarsi da ragazzo in ragazza? Non per niente èsempre così pulito; quando si trasforma si sciacqua nelleacque magiche; altrimenti non è possibile trasformarsi.Ed è sempre così profumato.— Con che cosa vi siete profumato, Pylnikof? —domandò Peredonof.

« La strada era silenziosa si era tranquillizzata nel-l'oscurità e dormiva dolcemente. Era scuro, umido etriste. Delle nuvole pesanti giravano per il cielo.Peredonof brontolava:— Perché hanno fatto venire tanta oscurità? Adesso eglinon aveva paura: non era solo, andava con Varvara.Dopo poco cominciò a cadere una pioggia sottile spessae incessante. Tutto divenne silenzioso; soltanto la pioggiadiceva qualche cosa di inopportuno, svelto svelto,affogandosi in se stessa; discorsi incomprensibili, tristi efastidiosi.Peredonof sentiva nella natura il riflesso della suaangoscia, del suo terrore, sotto la maschera di ostilitàdella natura stessa verso di lui; invece quella vita interioree inaccessibile alle determinazioni esteriori, che è in tuttala natura, quella che è l'unica creatrice di vere, profondee sicure relazioni tra l'uomo e la natura, questa vita eglinon la sentiva. E perciò tutta la natura gli sembravapenetrata dei suoi meschini sentimenti umani. Accecatodalle seduzioni della personalità e della esistenza indivi-duale, egli non comprendeva i dionisiaci entusiasmielementari che giubilano ed urlan o in tutta la natura. Egliera cieco e misero, come molti di noi ».

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<< Liudmila sospirò leggermente e disse lentamente:— Diventi sempre più bello, Sascia! —Sascia arrossì e rise, cacciando un po' fuori la puntadella lingua arrotolata.— Ne pescate sempre delle nuove — disse — non sonomica una signorina; che bisogno ho di diventare piùbello? —— Il viso è bello, m'immagino il corpo. Fa vedere almenofino alla cinta — disse ella carezzevolmente e l'abbracciòsulla spalla.— Ecco, ancora, cosa vi viene in mente! — escalmòSascia vergognoso e indispettito.— E che c'è? — disse Liudmila in tono spensierato —che segreti hai?— Potrà entrare qualcuno — disse Sascia.— E chi può entrare? disse Liudmila con lo stesso tonoleggero e spensierato —. Chiuderemo la porta e cosìnessuno potrà entrare —. Liudmila si avvicinò svelta allaporta e la chiuse col lucchetto. Sascia capì che Liudmilanon scherzava. Disse, tutto acceso, con le gocce disudore sulla fronte.— Non bisogna, Liudmiloc'ka.— Stupido, perché non bisogna? — domandò con vocepersuasiva Liudmila. Ella tirò a sé Sascia e cominciò asbottonargli la blusa.— Ma perché Io vuoi, Liudmila? — disse Sascia con ungesto di vergogna.— Perché? — cominciò Liudmila con tono appassionato.— lo amo la bellezza. Sono una pagana, una peccatrice.Avrei dovuto nascere nella antica Atene. Amo i fiori, iprofumi, i vestiti chiari, il corpo nudo. Dicono che c'èl'anima. Non lo so, non l'ho vista. E a che mi serve? Ch'iomuoia come una ondina, come una nuvoletta, sotto il solemi scioglierò. Io amo il corpo forte, agile, nudo, che puògodere.— Ma può anche soffrire, — disse Sascia piano.— Anche soffrire, anche questo è bello — sussurròappassionatamente Liudmila. — È dolce anche quando famale: basta sentire il corpo, soltanto vedere la nudità e labellezza del corpo.— Ma è una vergogna stare spogliato? — disse Sasciatimidamente.

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Liudmila con impeto si gettò in ginocchio davanti a lui.— Caro idolo mio, adolescente, eguale a Dio — sus-surrava soffocando, e baciando le sue mani — per unminuto soltanto, lasciami ammirare le tue spalle. Sasciasospirò, abbassò gli occhi, arrossì e si tolse goffamente lablusa. Liudmila l'afferrò con le mani ardenti e coprì di bacile sue spalle che sussultavano di vergogna.— Vedi come sono obbediente! — disse Sascia sor-ridendo per forza, per scacciare il turbamento con10 scherzo.Liudmila baciava frettolosamente le braccia di Sascia dallaspalla fino alle dita; ed egli non gliele toglieva, agitato edimmerso in fantasticherie voluttuose e crudeli. I baci diLiudmila erano scaldati dalla adorazione, e già non piùcome un ragazzo, come un Dio adolescente, baciavano lesue labbra ardenti come in un rito tremante e misteriosoalla carne che cominciava a fiorire ».

Come si può rilevare dal contenuto di queste citazioni,appare nel contesto di tutto il romanzo, quello che nellapsicologia archetipica (6) si chiama un << mondoimmaginale », cioè un mondo di immagini specificamentepsichico, con le sue strutture, i suoi caratteristici processi, itoni emotivi, e le raffigurazioni drammatiche. Questo «mondo immaginale », si manifesta nei sogni e nei miti,nella letteratura e nei processi artistico-creativi in genere,e si colloca tra il mondo dei contenuti astratti della co-scienza dell'Io, e il mondo psicoide, privo di immagini,costituito dai processi della materia vivente. Questomondo immaginale è il mondo della psiche e degliarchetipi. Esso rappresenta il tramite tra il mondopersonale dell'Io cosciente, e il mondo del comportamentoistintivo e della vita biologica. Questo mondo può essereesaminato da un punto di vista psicologico, può esseresottoposto alla lettura ermeneutica, in modo che siapossibile coglierne un significato specifico.Il significato è sempre di natura psicologica, ma non

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(6) J. Hillman, <<Psicologia archetipica>>, Enciclopedia del900, vol V, 1980.

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deve essere confuso con l'« interpretazione psicologica »,la quale parla il linguaggio dell'Io, e non quello dellapsiche, e tende ad imprigionare sia l'autore che l'interpretenei dilemmi di una psicologia personalistica, che si celadietro concetti astratti e ideologie non chiaramente definitee che oscurano più che chiarire il problema (7).Mentre mi accingo a concludere questo articolo, unaamica, visitatrice animica della letteratura e dellapsicologia, mi ha ricordato un brano di Andre Breton:credo che con le stesse parole di questo poeta si possanoconcludere queste pagine, lasciando così alla creativitàletteraria la possibilità di esprimersi con nuova creativitàattingendo spontaneamente all'ubertoso e fecondo terrenodell'inconscio personale e collettivo senza lasciarsiimprigionare negli schemi del riduttivismo.

Queste citazioni, bisogna pur convenirne, bussano ancora(bussano ai vetri), molto debolmente; dovetti nelpomeriggio dello stesso giorno, uscire e vagare solo, perconstatare che un notevole bisogno di coesione si era benpresto impadronito di esse, e che non mi avrebbero datotregua finché non fossero state restituite all'insieme più omeno organico al quale appartenevano. Fu così chesoltanto la sera, mi indussi a riaprire un mio libro allapagina in cui sapevo che le avrei ritrovate. Una simileconcessione a tutto ciò che fino allora non volevo sapere,si trasformò in un seguito ininterrotto, folgorante di sco-perte ... » (8).

« E le sue finestre davano sulla via lattea Ma nessunol'abitava ancora perché visitata a

sorpresa da personaggi fuggevoliFuggevoli ma notoriamente più devoti dei fan-

[tasmi! » (9).

Conclusione: la struttura del filo argomentativo,volutamente in filigrana, che ho voluto seguire in questoarticolo, consente di provocare o di accrescere l'adesionedel lettore alle tesi, non enunciate,

(7) R. Grinnell, « Introdu-zione » a: J. Hillman, Se-nex et Puer, Padova, Mar-silio, 1973, p. 8.

(8) André Breton, L'amourfou, Torino, Einaudi, 1974,p. 65.

(9) André Breton, Poesie (//girasole), Torino, Einaudi,1967.

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(10) C. Perelman, // campodell'argomentazione, Parma,Pratiche edizioni, 1979, p. 24.

che si presentano e che nella conclusione appaiono comeargomentazione e non come dimostrazione. Le tesifondamentali sono 3:a) Impossibilità e inutilità di leggere l'atto creativo « in sé »con le teorie psicologiche di qualsiasi scuola.b) L'atto creativo esprime sempre lo spirito del propriotempo e, come tale, ne è da questo condizionato; nelcontempo è creatore di nuova cultura.c) L'interprete di un testo non può evitare il circoloermeneutico che sottende ad ogni atto interpretativo.L'apparire di queste 3 tesi e l'argomentazione che lecollega è prima di tutto un'azione che sollecita un'altraazione.Infatti, l'azione argomentativa così come l'azione chel'argomentazione mira a far iniziare, sono opere di agenti.La persona interviene così all'improvviso; con la suastabilità, ma anche con la sua facoltà di scelta, la sualibertà creatrice, i rischi del suo comportamento, laprecarietà dei suoi impegni. L'adesione della persona alletesi che le vengono presentate non è sempliceregistrazione di risultati acquisiti attraversol'argomentazione: le tesi adottate possono essererimaneggiate e modificate, per essere in armonia con altrecredenze, nuove strutturazioni possono essere realizzateper permettere di aderire pienamente a quel che vieneproposto (10).

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A. ČechovII monaco nero

Michele Colucci, Roma

II monaco nero è un racconto del 1894. All'epoca Čechovha già scritto La steppa. II duello. Una storia noiosa. Lacorsia numero sei, ma non ha ancora esordito comeautore teatrale (la messa in scena de // gabbiano è di dueanni dopo). Čechov si trova insomma in una fase in cuinon è già più l'apprezzato ma sostanzialmente minuscoloautore di feuil-lettons e di racconti umoristici e non èancora il grande scrittore che, tra poco tempo, si imporràall'ammirazione senza riserve del pubblico. // monaconero si situa quindi in un momento particolare dellaparabola di Čechov e, non a caso, è un racconto per certiaspetti singolare, quasi un unicum. Čechov infatti hatrattato a fondo il tema della follia solo un'altra volta, ne Lacorsia numero sei, uno dei suoi capolavori. Si trattavaperò di una follia vista da tutt'altro angolo di visuale:dall'interno di un manicomio, luogo in cui una societàcorrotta e tarata emargina i pazzi (ma dove poi anche i'sani', proprio per colpa di questa struttura sociale, diquesto clima di abiezione, finiscono per essere rinchiusi).Dunque, una sorta di unicum. Quasi tutta la critica che haesaminato il racconto ha finito per concen-

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trare l'attenzione sul rapporto tra il protagonista, AndrejVasil'evičKovrin, e il monaco nero, il suo alter ego.Fondarsi su questa impostazione equivarrebbe però aripetere l'errore che si commette quando si considerano ipersonaggi secondari ininfluenti o quasi nell'economiagenerale della narrazione, senza comprendere laspecificità e l'insostituibilità della loro funzione.Guardiamo allora le altre figure prima di esaminare AndrejVasil'evič' e il suo monaco. È in fondo un trittico dipersonaggi, un quadrittico se includiamo anche il monaconero.Vi è anzitutto Egor SemenyčPesockij, il padre di Tanja, ilfuturo suocero di Kovrin. Egor Semenyč' è un floricultore;dire questo, però, non significa dire molto. In realtà EgorSemenyčè un manìaco della floricultura (che poi non èsolo floricultura ma anche frutticultura), da cui losplendido giardino che ha organizzato, accompagnato daun altrettanto splendido frutteto, gli articoli scientifici chescrive sull'argomento, la sua attività indefessa. EgorSemenyčpota, innesta, incombe sui propri contadini dallamattina alla sera, accentra dispoticamente tutta l'attivitàeconomica della propria azienda agricola. Sembrainsomma legittimare nel modo migliore la definizionecrociana dell'attività economica come forma creativa dellospirito, non necessariamente determinata da moventi dilucro. Detta altrimenti, il nostro floricultore-frutticultore èun maniaco della sua professione, è totalmente rinchiusoin questa dimensione per la quale ha anche sacrificatosua figlia, Tanja. Tanja è infatti una creatura che ha pa-gato e pagherà tutta la vita il sogno di grandezza, l'ubrisortofrutticola', del padre. Da notare che Pesockij è unpersonaggio, in apparenza, simpatico (almeno Čechov celo rende tale): è bonario, a suo modo amaappassionatamente la figlia, adora il genero e ritiene diaver consacrato la propria vita ad un'attività nobile econcreta.Lasciamo per ora da parte la questione di quanto leapparenze corrispondano alla realtà. In un'ottica

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di vita come quella di Egor Semenyč, domina un pro-blema, che è poi l'eterno problema che si pone tra laperfezione del disegno e la dimensione limitata,transeunte, della vita umana (l'opera di per sé può essereperfetta, sarebbe perfetta se non dovessimo morire): chicontinuerà ad occuparsi del frutteto? Siamo in unatematica che può ricordare, per esempio, il nostro Verga(non per niente i due autori sono coevi); ma mentre ilprotagonista della verghiana La roba non trova unasoluzione, Egor Semenyčuna soluzione ce l'ha. Da unaparte Tanja, dall'altra Andrjuša che, per di più, è quasicresciuto in famiglia:si tratta di farli sposare. Egor Semenyč Io dice espli-citamente: « Se tu la volessi, se nascesse tra di voi unromanzetto, io sarei felice [...] se aveste un figlio io farei dilui un frutticultore [...] Io saprei fare di lui un frutticultore ».Il disegno è perfetto: si deve saltare una generazione, mail cerchio si può richiudere, il progetto può continuare.Occorre, secondo me, dare la dovuta importanza aquesta dimensione totalmente « univoca » di Pesockij. Daquesto punto di vista la diagnosi che farà di lui Andrjusa,quando10 liquiderà sprezzantemente come 'uno del gregge', unuomo del tutto normale, è sbagliata: i due sono dellastessa pasta.Poi c'è Tanja: una creatura magra, dai grandi occhiespressivi, un po' febbrile, un po' spaurita. Col padre puòanche litigare, naturalmente, ma non saprebbe concepirela vita senza di lui e senza il frutteto. Anche il rapportosentimentale che si instaura fra Tanja e Andrjusa èconforme alla natura di questo personaggio: Tanja èinfatti una figura totalmente passiva, è sempre oggetto,mai soggetto di storia. Succube del padre, in fondo silascia « scegliere in moglie » da Kovrin, passivamentecerca di guarire il marito; passivamente prosegue la suaparabola sino alla fine. Il suo unico atto di ribellione èquando, alla fine del racconto, invia una lettera colma diodio all'ex marito; anche in questo caso però sem-brerebbe un atto, non dico gratuito, ma privo di con-seguenze pratiche perché Andrej nemmeno finisce dileggere lo scritto. La sua rivincita, l'unica possi-

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bile, Tanja la avrà solo nelle battute finali del racconto.I due Pesockij, padre e figlia, vanno visti attentamente percapire la psicologia e le azioni di Andrjuša, ma vaesaminato attentamente anche l'ambiente circostante. Èinteressante, ad esempio, notare il contrasto che c'è tral'aspetto triste del vecchio 'giardino all'inglese' della villa(qui Čechov dice significativamente: « Era un posto doveveniva voglia di scrivere una ballata ») e il frutteto, con lasua regolarità, la sua squadrata razionalità da impresaeconomica.L'unico elemento che, quasi simbolicamente, lega questidue universi è il fumo che si produce quando nel fruttetosi accendono fuochi per combattere la brina, fumo chetutto avvolge nelle sue volute. Personalmente, se fossi unregista cinematografico e dovessi portare // monaco nerosullo schermo, penso che nelle prime scene darei ilmassimo risalto a questa cappa bianca che, a poco apoco, annulla uomini, piante, cose. Altre opposizioni sonoquelle tra Kovrin, l'intellettuale alla moda, e la campagnaintorno, immobile nella sua dimensione arcaica, cheancora misura il tempo non sul calendario, ma secondo lefeste (Sant'Elia, l'Assunzione); o ancora tra la piena,dispiegata felicità di Tanja e Andrjusa nella tenuta deiPesockij e gli avvenimenti che maturano a Mosca(città/campagna). Naturalmente, col gioco delle op-posizioni binarie, tanto caro alla critica contemporanea (e,del resto, non le ha inventate lo strutturalismo, le hasoltanto sottolineate) potremmo andare avanti ancora alungo ...Arriviamo finalmente ad Andrej Kovrin. Vediamo in-nanzitutto come si presenta esteriormente. Fuma sigari digran prezzo, beve Madera e altri vini, anch'essi di granprezzo; dorme poco, legge e scrive continuamente; sioccupa, dice Čechov, di psicologia e di filosofia. Dunqueuna specie di intellettuale in vitro. Andrej è orfano e, sinda piccolo, è cresciuto in casa dei Pesockij; non è perciòun elemento estraneo e il matrimonio con Tanja non com-porta la lacerazione affettiva consueta per la donna

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in caso di nozze, ma sembra quasi rinsaldare il nucleofamigliare.Guardiamo ora al rapporto tra Kovrin e il monaco, che ècome dire il filo conduttore dell'opera.Conviene anzitutto esaminare come è strutturato ilracconto. Esso ha nove sequenze narrative. Nella primavengono presentati i protagonisti, gli « atlanti » dellastoria, e si narra della leggenda del monaco. Kovrinafferma di aver letto, non ricorda dove, di un monaco chemille anni or sono, errava in qualche parte del mondo(Arabia, Siria ...) e che dopo mille anni sarebbe ritornato:strana, lugubre leggenda. Nella seconda sequenza ilmonaco appare, mentre cominciano a tessersi i filisentimentali che legheranno Tanja e Andrjuša fino almatrimonio. Da notare che Kovrin si limita a prendere attodella cosa, si limita a dirsi: «Allora la leggenda era vera ».Terza, quarta e quinta sequenza. Sono in un certo sensoquelle che danno vita all'azione. Se mi è consentita unaparentesi, dirò che uno dei rilievi che si fanno a Čechov èche, in genere, le sue trame sono statiche; negli stessiracconti più lunghi, poniamo, La steppa o // duello, sonoinfatti ben pochi i cosiddetti « avvenimenti esterni ».Anche da questo punto di vista // monaco nero faeccezione, perché in un arco di poco più di venti pagineassistiamo al matrimonio, alla follia e alla morte delprotagonista.Nella terza sequenza vengono « gettate le basi » delfuturo matrimonio fra Tanja e Andrjuša. Il suocero fa ildiscorso che abbiamo già visto (« in fondo se tu sposassiTanja sarei felice [...] un figlio [...] ne farei un floricultore»), e non a caso in queste pagine il monaco comincia adassumere una dimensione più concreta. Subito dopo leparole del suocero, Kovrin riflette su quanto gli è statodetto, pensa al monaco e ha coscienza (questo è puntofondamentale) che il monaco in fondo non è cheun'allucinazione, un ectoplasma creato da lui stesso. Checonseguenza ne deriva? A rigor di logica la conseguenzache il protagonista è malato. Ma il protagonista medita suquesto e dice testualmente: « Eppure io mi sento

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bene e non faccio male a nessuno, quindi nelle mieallucinazioni non c'è nulla di brutto ».Nella quarta sequenza la vicenda sentimentale di Tanja edi Andrej sembra essere deviata da un episodio cheinvece ne funge da catalizzatore: un gran litigio tra padree figlia. Tanja si altera col padre per una questione diinnesti e di lavoranti, piange, si chiude in camera. Andrejva a consolarla e vedendola in quello stato, scarmigliatae piangente, pensa che non potrà mai sposare unadonna 'normale', una donna serena, quieta, soddisfatta;pensa che ha bisogno esattamente di una creatura così.La quinta sequenza è, narrativamente parlando, ladecisiva. Non a caso si annodano due fatti: il monaconero parla per la prima volta ad Andrej e Andrej, dopo ilcolloquio col monaco, fa la sua dichiarazione d'amore aTanja. Siamo legittimati, a questo punto, a dire che ledue azioni sono correlate. Non che Andrej si innamori diTanja perché vede il monaco, ma, certo, Andrej siinnamora di Tanja nella misura in cui l'intero episodio chesta vivendo in campagna lo coinvolge emotivamente, glisi presenta sotto una luce di « eccezionaiità ». Quanto alcolloquio tra Andrej e il monaco, poiché quest'ultimo nonfa che ripetere con alcune varianti lo stesso concetto,possiamo riassumerlo rapidamente. Secondo il suo inter-locutore, Kovrin è una figura intellettualmente nobilissimaperché ha sacrificato tutto se stesso per il prossimo,perché lavora per il bene comune, perché si deve a lui, ea tanti altri come lui, se l'umanità un giorno, tra due otremila anni, vivrà un'esistenza serena e luminosa ...Kovrin perciò si deve sentire un privilegiato: investitodalla Provvidenza di una missione superiore, deveaverne la consapevolezza e l'orgoglio.Andrej fa scattare la molla mentale del: « Tu sei unfantasma, un'allucinazione [...] Dunque io sono psi-chicamente malato, un'anormale? » Ma la replica èilluminante: « E foss'anche così? Perché turbarsi? Tu seimalato perché hai lavorato troppo e ti sei strapazzato, maquesto vuoi dire che della tua salute hai fatto sacrificioall'idea ed è vicino il tempo che le

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darai la tua vita stessa ». Poco oltre il monaco dirà ancoraad Andrej: « Anche se è un'allucinazione, l'allucinazionefa parte della natura ».Si istituisce perciò un doppio equilibrio, una polarità dielementi opposti: da una parte un pieno appaga-mentopsicologico di Andrej e dall'altra la coscienza che si trattadi allucinazione, ciò che peraltro non ne diminuisce la'fruizione' intellettuale. Quando poi il monaco insiste asottolineare gli elementi che fanno di Andrej Kovrin unessere privilegiato, quest'ultimo « Ricordò il suo passato,puro, casto, pieno di fatiche, si rammentò di quello cheaveva studiato e di quello che egli stesso avevainsegnato agli altri e giudicò che nelle parole del monaconon c'era esagerazione ». Subito dopo il colloquio con ilmonaco, c'è la dichiarazione di Andrej a Tanja. Tanja,come al solito, non sa reagire. È felice, ma è una felicitàche è anche una sofferenza: si torce le mani, fugge via,piange. « Sembrava invecchiata di dieci anni » scriveČechov. Questo nella realtà, ma Andrej la vedebellissima: « Com'è bella! » si dice, nello stesso momentoin cui, oggettivamente, la donna è brutta, bruttissima. Quisiamo evidentemente giunti a un climax narrativo ed ènecessario per Čechov abbassare la tensione emotiva. Èquello che avviene nella sesta sequenza, tutta dedicata aipreparativi del matrimonio. Sì, continua ad esserci sullosfondo il monaco, con lui Kovrin dialoga, ma è unapresenza quieta e rasserenante, abituale.Nella settima sequenza siamo a Mosca. Parlavamo primadel contrasto tra l'atmosfera moscovita e l'ambiente dellacampagna. Opposizione marcata dallo svolgimentodell'azione. Andrej sempre più avvolto dal fumo dei suoisigari, sempre più chino sui quaderni, sempre piùinsonne, una mattina si sveglia:vede il monaco vicino al letto, e comincia a parlargli: èpreoccupato della sua felicità, è così sereno e appagatoda rammentarsi di quel personaggio del mito greco,Policrate, che, troppo felice, aveva deciso di sacrificare ilpiù bello dei suoi anelli agli dei per distoglierne l'invidiadal proprio capo. Nel momento stesso in cui Andrejesterna questi sentimenti, na-

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turalmente Tanja, la moglie, si sveglia. Vedendolo parlarecol nulla (non c'è nessuno sulla sedia), gli dichiaraapertamente che da tempo sta notando in lui segni disquilibrio mentale.Andrjuša ammette questa realtà e, naturalmente, cosapuò fare? Curarsi. Con ciò arriviamo adottava epenultima sequenza. Sono passati quasi due anni,Andrej è imbottito di bromuro, lavora solo due ore algiorno, non fuma più, non beve più. Deve solamentereingrassare, per il resto sarebbe ristabilito. La scena sisvolge, questa volta, in campagna. Si rovescia il rapportoche c'era all'inizio: la campagna come serenità per l'eroe,diviene campagna come martirio. C'è infatti uno scontroviolento tra Andrej e la moglie: Andrej dice di se stessoche è guarito ma che « guarito » per lui significa essereritornato una persona volgare, triste, infelice,ossessionata da una moglie che incombe su di lui e daun suocero che è « uno zietto da vaudeville ».Naturalmente è una diagnosi sbagliata, ingiusta, ma nonè questo quello che interessa. Ci interessa invece che, aquesto punto, Kovrin si ribella a tutta la situazione; già datempo divenuto sgarbato e brusco con il suocero, ora lo èanche con l'incolpevole moglie.Qui c'è una nuova cesura, dopo la quale si apre l'ultimasequenza, che si svolge in Crimea, in un albergo di fronteal mare. È passato del tempo, Kovrin ha ottenuto unacattedra e ora vive con una nuova donna, tale VarvaraNikoiaevna. Arriva una lettera da Tanja e Andrej legge: «Mio padre è morto. Questo lo devo a tè; il giardino è inmani estranee che Io stanno distruggendo esaccheggiando. Questo lo devo a tè. Ti odio ... ».Ma Andrej non prosegue e si limita a strappare la lettera.Subito dopo però fa una spietata, lucidissima analisi di sestesso e della sua vita fino a quel momento. Ripercorre idue anni di matrimonio con Tanja, le numerose bassezzee crudeltà di cui è stato capace e, al di là del suomatrimonio, scorge distintamente la mediocrità dellapropria esistenza di intellettuale, di professoreuniversitario. Un piccolo brano ci riporta qui alla tematica'grandezza e

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miserie dell'università' che già costituiva il nucleo di Unastoria noiosa (del mondo accademico Čechov sembraaver visto soprattutto le miserie, ed è possibile che siaeffettivamente così, che le miserie prevalgano sullegrandezze). Andrei pensa: « Ad esempio, per ottenereverso i quarant'anni una cattedra, essere professoreordinario, esporre con un linguaggio fiacco, noioso epesante dei pensieri ordinar! e per giunta altrui, insommaper raggiungere la posizione di un mediocre scienziato,lui, Kovrin, aveva dovuto studiare per quindici anni,lavorare giorno e notte, sopportare una grave malattiapsichica, fare l'esperienza di un matrimonio infelice,commettere molte sciocchezze e ingiustizie di ogni sorta,delle quali avrebbe fatto piacere non ricordarsi. Kovrinaveva ora chiara consapevolezza di essere un mediocre».A questo punto, che è il momento supremo del-l'autocoscienza di Kovrin (non solo è guarito clinica-mente, ma è guarito dalle sue possibili nevrosi) siinserisce un « eccezionale esterno ». Andrej risente ilsuono di una romanza che aveva già ascoltato all'iniziodel racconto (tra l'altro di un compositore italiano, Braga,e notiamo un particolare curioso:esattamente come l'Irina de Le tre sorelle, anche Kovrinstudia l'italiano). Nello stesso momento il monaco neroriappare. Il monaco dice delle parole, purtroppo,profondamente ragionevoli: « Come eri felice quandocredevi di essere un genio. Come eri felice, soddisfatto,realizzato ... ». Immediatamente dopo, con un tocco damaestro, Čechov ci mostra la morte di Kovrin: un'emottisi(la crisi psichica si accompagna a quella fisica: i due fattisono correlati). L'ultima parola che Andrej Kovrinpronuncia, e ci sembra logico, è « Tanja ». QuandoVarvara Nikolaevna uscirà dalla stanza Io troverà morto,con un sorriso di beatitudine sul volto.Non sono poche le cose che si possono dire su questoracconto, anche se per motivi di tempo mi limiterò a pochipunti. Il primo fatto che mi pare necessario puntualizzareè quello cui è stato del resto già accennato: la natura delrapporto che lega il monaco

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ad Andrej e la perfetta consapevolezza che ne haquest'ultimo. Ciò che in effetti differenzia la novella diČechov da una trama romantica è che il monaco nonrivela a Kovrin nessun segreto, nessun mistero più omeno tenebroso; ne tantomeno ha alcuna rivelazionefilosofica da fargli, una pietra filosofale, capace dischiudere nuove prospettive intellettuali, da regalargli.Semplicemente il monaco afferma che Kovrin è unintellettuale benemerito di una causa che si chiama ilprogresso con la 'P' maiuscola; che solo a lui, e ad altricome lui, si dovranno tutti i passi in avanti dell'umanità, ecosì via. Non fa altro insomma che elevare a potenza ipensieri di Andrej.Il monaco pertanto non è che l'oggettivazione palpabile diun'attività intellettuale definibile come 'mito-poietica',assai più diffusa fra gli esseri umani di quanto possasembrare a prima vista. Non vedo, ad esempio, come cisi possa figurare uno scrittore che costruisce la trama diun romanzo senza immaginarlo immerso nei personaggiche sta creando, fino a 'viveri!' in ogni attimo dellagiornata. E non c'è bisogno di limitarsi all'artista comecreatore di fantasmi: in una certa misura lo stesso puòvalere per l'uomo politico, per l'industriale, per ilmissionario ... Nel caso di Egor Semenyčquale scena èpiù naturale che vederlo sognare una Russia coperta difrutteti da lui piantati e coltivati, per il maggior benesseredella patria e la sua gloria personale? È quello che imediocri romanzieri e i mediocri poeti chiamavano'sognare ad occhi aperti': un'attività immanente allapsiche umana. La differenza sta nel fatto che Andrej vede'fisicamente' il monaco, parla con lui anche in presenza dialtri, quando sulla sedia non c'è nessuno. Una differenza,in fondo, quantitativa non qualitativa ... Da questo puntodi vista, la soluzione del racconto ci pare coerente con lepremesse: certamente Kovrin, comunque si vogliagiudicare la sua vicenda, era felice quando colloquiavacol monaco. È la distruzione di questo rapporto che lo hagettato in una condizione per lui invivibile.Dietro una simile tematica vi sono evidenti componenti diordine culturale, a cui conviene accennare

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non perché siano indispensabili a chiarire il 'senso' delracconto, ma perché permettono di collocarlo inun'adeguato ambito storico. Quando si parla di eletti, diprivilegiati che trascinano avanti l'umanità, viene allamente una filosofia di tipo nietzschiano. Così comequando il monaco parla di genio che, per definizione, è alconfine con la follia, ci si ricorda naturalmente diLombroso, le cui opere in quegli anni erano al massimodella loro diffusione in Europa e da poco erano statetradotte anche in Russia. Trattando poi di letteratura russanon si può prescindere dal Raskol'nikov di Delitto ecastigo: ma Raskol'nikov commette un delitto per cercaredi provare a se stesso che è un uomo eccezionale,mentre il nostro Kovrin è già convinto di esserlo nelmomento in cui si vede il monaco di fronte. Infine sipotrebbe, a proposito di futuro radioso, di aetas aurea cheattende l'umanità, fare riferimento al clima intellettuale chesarà tipico del simbolismo russo.Fatte queste puntualizzazioni, chiediamoci ora: qualelettura si dovrà dare di questo racconto? Ce n'è una conreferenti immediati, evidenti, di tipo, se vogliamo definirlocosì, 'naturalistico'. L"ubris gnostica' di Andrej e I' 'ubrisortofrutticola' di Egor Semenyč: due dimensioni psichichepolarizzate su un unico obiettivo (l'una più esplicita nellesue dimensioni di follia, l'altra più mascherata) chetravolgono, come una nemesi, anzitutto chi se n'è fattodominare; poi, e questo è il fatto eticamente parlando piùrilevante, l'unico personaggio 'normale' del trittico, Tanja.Questa è una prima, possibile lettura: una condannasenza esitazioni di chi, dimenticando tutto il restodell'esistenza, inseguendo un suo mito, finisce per colpirenon solo se stesso ma anche vittime innocenti.Si tratta di un'interpretazione possibile, certo, ma ad essaosta anzitutto proprio la figura di Tanja, che nel raccontoha un suo posto di rilievo ma sicuramente non è il centrodell'azione. Ben altrimenti avrebbe dovuto esseredisegnato il personaggio della ragazza se il raccontoavesse voluto incentrarsi in-

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torno alla sua figura, vista quasi come la Sonja de Lo zioVanja.C'è poi la lettura opposta, quella 'decadente'. Kovrìn chesperimenta tragicamente la banalità umiliante della realtàrispetto alla perfezione di un ideale amorosamenteaccarezzato, e tale da riempire totalmente la 'esistenzaintcriore' di un'anima. Kovrin cioè che, arrivato almomento in cui giudica se stesso e l'intera propria vita unfallimento, si rende conto di come la sua unica nobiltàintellettuale fosse nel suo mito, nel suo scollamento totaledal mondo circostante. Anche questa è un'interpretazioneplausibile ma, a guardar bene, riduttiva. ConoscendoČechov, valutando le sue componenti spirituali, semprecosì rigorosamente ancorate ad una dimensione etica,non potremmo immaginarlo soddisfatto di una simile tesi.E allora? Personalmente ritengo che tutte e due le'letture' siano legittime, a condizioni di intersecarle. Mispiego meglio: Čechov non ha mai dato ricette filosoficheche sia possibile estrapolare dai contesti letterari, non èassolutamente un Dostoevskij. Se leggiamo queldocumento così suggestivo (una delle più significativetestimonianze dell'Ottocento russo) che è il suoepistolario, non possiamo estrarne nulla che siaassimilabile alla proclamazione di una 'dottrina di vita e diarte'. Čechov è l'uomo dei difficili e delicati equilibriintellettuali, in un'epoca, indubbiamente critica per lacultura europea quale poteva essere la fine del secolo, ilmomento del passaggio dal positivismo al neoidealismo.Da questo punto di vista non c'è niente di più tipico delsuo atteggiamento di fronte al metafisico: l'uomo che siproclama così spesso non credente è poi colui che hascritto l'ultimo atto de Lo zio Vanja, e ci ha lasciatoun'alta, dolorosa confessione quando ha dichiarato: « Fra'Dio c'è' e 'Dio non c'è' esiste uno spazio sterminato che astento il saggio si sforza di percorrere in tutta la vita ».Arriverei allora a dire che questo racconto — che haqualità notevoli ma in assoluto non è certo uno deicapolavori di Čechov — potrebbe essere inteso comeuna tragica tranche de vie di un intellet-

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tuale di fine Ottocento. Nel clima per tanti aspettistimolante creato dal neospiritualismo europeo, e russo inparticolare, stimolante sì ma anche torbido, Čechovsembra avvertire tutti i germi di pericolosità e diirrazionalità immanenti a una simile temperie intellettuale.Da cui una storia come // monaco nero, in fondo costruitasu un 'equilibrio di opposti": sforzo di comprendere, concalda simpatia umana, la dinamica psicologica delprotagonista e impietosa, 'obiettiva' analisi dei risultati acui, inevitabilmente, essa approda.Una franche de vie, valutabile, nei suoi svolgimenti e neisuoi esiti infausti, in vari, possibili modi, ma sempretenendo presente ciò che leggiamo in una delle ultimelettere di Čechov, scritta qualche settimana prima dimorire alla moglie: « Tu mi chiedi cos'è la vita. È Iostesso che tu mi chiedessi cos'è una carota. Una carota èuna carota e non ne sappiamo altro ».

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L’orgoglio della gnosi

Aldo Carotenuto, Roma

Chi potrà disegnare un albero senzadiventare un albero!

Nietzsche

(1) « Nel momento in cui ci siinterroga sul senso e sulvalore della vita si è ammalati,giacché le due cose nonesistono in senso oggettivo; siè solo riconosciuto che si hauna provvista di libido insod-disfatta e che qualcos'altrodeve essere avvenuto di essa,una specie di frammentazioneche porta al cordoglio e allaseparazione » (S. Freud, Let-tere 1873-1939, Torino, Bo-ringhieri, p. 402).

Domandarsi che senso abbia la vita non è certo cosa chesuccede spesso alla maggioranza dei viventi, e può darsiche a molti non sia accaduto mai. A me sembra che,siccome la nostra tradizione culturale offre delle rispostepreconfezionate a questa domanda, il fatto stesso dicontinuare a porsela indichi il « diverso », l'individuo nonomologato. Per Freud, si sa, interrogarsi sul senso dellavita segnala un guasto nel rapporto con la vita, insomma èun sintomo di malattia (1).Si tratta di semplici opinioni, naturalmente, che si possonocondividere o meno ma a noi tornano utili perché ciconsentono di avvicinare questo racconto e di muoverci alsuo interno cogliendo fra le figure il mutevole itinerariodella sofferenza psichica, il suo ergersi a ricerca, il suoincrociarsi, confinare e confondersi con la malattia.Gli psicologi analisti si sono sempre interessati all'arte e inmodo particolare alla narrativa perché hanno constatatoche l'artista sembra miracolosamente in sintonia con illinguaggio e i movimenti della nostra anima, e arriva dicolpo con l'intuizione là dove lo psicologo faticosamentetende con la ricerca. Quando i nostri padri Freud, Jung ealtri studiando

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la psicopatologia incontrarono i modelli fondamentali delfunzionamento umano, spontaneamente si rivolsero allagrande letteratura, — ad esempio i tragici greci,Shakespeare — perché lì veniva rappresentato un quadroprofondo e sostanziale della nostra anima (2). Comeanalisti possiamo avvicinarci a // monaco nero di Čechovnel medesimo spirito, consapevoli peraltro dellasoggettività e 'opinabilità' della nostra lettura.Nel racconto, fin dalle prime righe, è descritta la sofferenzadi un uomo, un professore di filosofia e psicologia. Neimomenti cruciali della vita accade che attraverso lamalattia è come se fossimo chiamati a dare un significatoall'esistenza. Alcune persone sono assolutamente sorde,altre invece ascoltano questa richiesta di trasformazioneinterna che spesso sì esprime attraverso un disagiopsicologico o anche fisico. In alcune situazioni critiche,quando un ulteriore sviluppo è una condizioneindispensabile al proseguimento della propria esistenza, sipuò anche incorrere nella malattia psicosomatica. In effetti,per affrontare un processo di rinnovamento della perso-nalità si deve essere mossi da una necessità profonda,prepotente.In genere, quando si giunge ad una svolta nella propria vitale energie vengono rimaneggiate e trasformate, el'individuo che è coinvolto in questo processo dicambiamento può essere colpito da fenomeni singolari chefiniscono con l'isolarlo. In questa situazione la realtàinferiore diventa molto più importante della realtà esterna,e allora si sviluppa la tendenza a ridurre al minimoindispensabile il rapporto con il mondo, nel quale l'individuovive o già viveva con difficoltà; ci si ritira, insomma, in sestessi.C'è nel racconto un passaggio particolarmente inte-ressante nella nostra ottica: quando Kovrìn chiedeconsiglio all'amico medico sul modo di curarsi, quasicontemporaneamente riceve una lettera di invito atrascorrere una vacanza in campagna. Jung definiscequeste coincidenze 'fenomeni sincronistici', riferendosi aquegli avvenimenti che sono collegati tra loro

(2) Theodor Reik a questoproposito riferisce che sitrovava d'accordo con Freudsull'inadeguatezzadell'istruzione medica per laprofessione di analista. «Freud indicava che i poeti(Shakespeare, Goethe,Dostoevskij) ed i filosofi(Fiatone, Schopenhauer,Nietzsche) si erano avvicinatidi più alle verità fondamentalidella psicoanalisi che non ifilosofi » (Theodor Reik,Trent'anni di psicoanalisi conFreud, Roma, NewtonCompton Editori, 1974, p.49).

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(3) C. G. Jung, « La sin-cronicità come principio dinessi acausali », in Ladinamica dell'inconscio,Opere, vol. 8, Torino, Bo-ringhieri, 1976, p. 447 epassim. Vedi anche AnielaJaffé, « Fenomeni sincro-nistici » in Saggi sulla psi-cologia di C. G. Jung, Roma,Edizione Paoline, 1984, p. 36-60.

(4) Cechov, // monaco nero,Milano, Rizzoli, 1976, p. 194.Per le successive citazionisarà indicata solo la paginanel testo dell'articolo.

(5) T. Hoving, Tutankhamon.Una storia sconosciuta,Milano, Mondadori, 1979, p.350.

invece che da un rapporto di causa-effetto da unarelazione di significato.Tali fenomeni si verificano quando un individuo tendeverso un cambiamento o quando si trova in una dispo-sizione conscia o inconscia di ricerca. Questa singolarecondizione psicologica può essere considerata una sortadi paranoia benefica, in positivo, uno "stato di grazia' checi consente di cogliere segnali che altrimenti andrebberoperduti e di ordinarli in un preciso messaggio; ma puòanche essere immaginata come un potente campoenergetico che attira gli eventi all'interno di una trama disignificati che ci orientano nella ricerca (3).Per potersi curare, Kovrìn torna nella casa in cui era statoallevato. Siamo di fronte al tema usuale ma semprepotente del ritorno alle origini, del ritorno al passato: « Laprimavera era ancora appena all'inizio e gli ornamenti piùsfarzosi delle aiuole erano ancora nascosti nelle serre, magià ciò che fioriva lungo i viali e qua e là nelle aiuole erasufficiente perché, passeggiando per il giardino, ci sisentisse nel regno dei delicati colori ... Ciò che costituivala parte decorativa del giardino ... aveva prodotto suKovrìn un tempo, nell'infanzia, un'impressione fiabesca »(4).Quando scoprirono la tomba di Tutankhamon, gli ar-cheologi trovarono queste parole incise nella pietra:« lo conosco il futuro perché ho conosciuto il passato »(5).La conoscenza del passato è un elemento portante delprocesso psicoanalitico, perché Io psichismo di ciascunindividuo viene plasmato nell'humus di alcune esperienzefondamentali, e se egli non le rende coscienti ne saràcondizionato al punto da doverle ripetere continuamente,impoverendo le proprie possibilità di vita. Per potercomprendere e delimitare l'influenza del passato sulpresente, è necessario tornare indietro per entrare inpossesso di quell'energia che sarà poi la possibilitàpropositiva che consentirà di riplasmare la realtà che si hadi fronte. È questa l'idea dì Kerényi, valida sul piano dellastoria personale, individuale, come su quello

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della storia di un popolo, di una cultura: « Prima di agire,l'uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, allamaniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egliavrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersicome in una campana di palombaro, per affrontare così,protetto e in pari tempo trasfigurato, il problema delpresente » (6). Kovrìn fa questo passo indietro verso ilpassato e ritorna nei luoghi della sua infanzia. Ilripiegamento sulla propria dimensione interiore se èl'espressione di una crisi è anche già l'inizio di una ricerca,il primo passo nella trasformazione della personalità. Leesigenze della vita molte volte ci spingono ad indirizzare lenostre energie in una direzione unica. Nella pratica losviluppo unilaterale della personalità può essere realmentefunzionale all'adattamento e al successo sociale ma alungo andare si può essere costretti a fare i conti con lapropria complessità psicologica e con quella dell'esistenza.Di fronte alla vita nella sua complessità e alle pro-blematiche fondamentali che ogni essere umano puòessere chiamato a risolvere, evidentemente ogni forma dispecializzazione sì rivela inadeguata. Jung scriveva che «l'uomo della 'pura coscienza', l'uomo dell'Io, è unframmento, in quanto egli sembra esistere astraendodall'inconscio. Ma quanto più staccato è l'inconscio, informe tanto più forti si contrappone alla coscienza » (7).L'ampliamento e la trasformazione della personalitàrichiedono il confronto con l'inconscio e quindi ilsuperamento di un vecchio modo di essere che comportasempre crisi e sofferenza dell'Io, fino anche alla perdita delsenso di identità. In un processo di trasformazione non puòessere evitato l'impatto con il dolore psichico, con il sensodella morte. Per poter procedere oltre i confini limitati dellacoscienza, diventa allora necessario tramontare, morire: «Ne una dimora umana ne un'anima viva in lontananza, epareva che il sentierino, a seguirlo, avrebbe condottoproprio a quel luogo ignoto e misterioso dove era appenacalato il sole e dove così vasto e maestoso fiammeggiavail tramonto » (p. 201).

(6) K. Kerényi, « Origine efondazione nella mitologia »in C. G. Jung e K. Kerényi,Prolegomeni allo studioscientifico della mitologia,Torino, Boringhieri, 1980, p.18.

(7) C. G. Jung « Saggiod'interpretazione psicologicadel dogma della Trinità " inPsicologia e religione,Opere, vol. 11, Torino,Boringhieri, 1979, p. 161.

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[8) Jung ritiene che i fenomenidel tipo sperimentati da Kòvrinsi riferiscono ad una tensionepsichica. « Se vogliamo espri-merci con ogni prudenza,dobbiamo dire che si tratta diuna considerevole tensionedell'energia psichica checorrisponde evidentemente adun contenuto inconscio moltoimportante, dotato di un affettoirresistibile e che siimpadronisce totalmente dellacoscienza » (C. G. Jung, «Fratel Klaus », in Psicologia ereligione, op. cit., p. 303).

Dallo stesso orizzonte dal quale Kovrìn vede tramontare ilsole compare come un turbine, come una tromba d'aria,l'immagine inquietante del monaco nero che si dilegua inuna fumata.L'inconscio si esprime sempre attraverso il linguaggiodelle immagini in una molteplicità e contraddit-torietà disignificati che ogni volta sembrano sfidare la capacità dicomprensione dell'uomo. Nel racconto il monaco nero èun'immagine dell'inconscio che si presenta comefenomeno autonomo e percettibile all'esterno; si tratta cioèdi un'allucinazione con la quale il protagonista dialoga, purnella consapevolezza di avere a che fare con un prodottodella propria immaginazione. Fenomeni come leallucinazioni si verifi-cano sempre in particolari condizionipsicologiche, per esempio in situazioni di isolamentoreale, o anche quando le esperienze inferiori diventanoincomunicabili. Anche quando un individuo è cosciente ditrattare una propria dimensione interiore non è meno fortee significativo l'impatto con la realtà psichica che egli vasperimentando (8).Nonostante il carattere apparentemente illusorio di questeesperienze non si può negare la loro esistenza: quelleimmagini sono la reale espressione della nostra naturapsichica. Proprio in questo senso si possono intendere,nel racconto, le parole del monaco nero: « lo esisto nellatua immaginazione e la tua immaginazione è una partedella natura, dunque io esisto nella natura » (p. 209).Si può comprendere come ad un uomo che ha fondato lapropria vita sul valore unico della conoscenza, la realtàinconscia si imponga sotto forma di un'allucinazione chediscorre con lui proprio sul valore della conoscenza e sullaricerca della verità.« Il vero godimento è nella conoscenza » dice il monaco,confermando ciò che Kovrìn aveva sempre pensato — «Strano, tu ripeti quello che sovente viene in testa a mestesso ». E ancora il monaco: « Una disposizione di spiritoelevata, l'eccitazione, l'estasi, tutto ciò che distingue iprofeti, i poeti, i martiri del l'idea dagli uomini comuni, ècontrario al lato animale dell'uomo, cioè alla sua salutefisica » (p. 210).

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L'idea di una conoscenza puramente contemplativaesclude dalla ricchezza e varietà del conoscere l'espe-rienza della vita sensibile, la corporeità, l'amore, lasessualità. Kovrìn vorrebbe evitare tutta la fatica del-l'esistenza, di migliaia di anni di lotta, di peccato e disofferenza umana, vorrebbe eludere il problema della vitae della morte, il problema del dolore. Come dicevaNietzsche, la conoscenza che esclude il desiderio è unaforma di conoscenza sterile, mentre è creativa laconoscenza che nasce dal coinvolgimento, come quelladegli amanti.Zarathustra vuole amare e tramontare affinchè unaimmagine non rimanga immagine soltanto: « Ecco! la miasaggezza mi ha saturato fino al disgusto; come l'ape chetroppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che siprotendano ...Perciò devo scendere giù in basso: come tu fai la sera,quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo infero, oricchissimo fra gli astri! Anch'io devo al pari di tè,tramontare ... » (9). L'apparizione del monaco nero el'innamoramento del protagonista per Tania sonoavvenimenti quasi concomitanti che si presentano semprein relazione all'espressione musicale e al suono: « Kovrìnascoltava la musica e il canto con avidità e ciò lo estenua-va ... » (p. 199). Una sera egli presta attenzione alle paroledi una romanza che Tania cantava abitualmente e nerimane turbato: « una fanciulla dall'immaginazione malataudiva di notte nel giardino certi suoni misteriosi, belli estrani a tal punto da dover riconoscere in essi una sacraarmonia che per noi mortali è incomprensibile e perciò sene vola indietro nei cieli » (p. 199). Poco dopo gli torneràalla mente la leggenda o il sogno del monaco nero e avràla prima allucinazione.In generale, possiamo considerare questi fenomeni comeespressione di un'attivazione dell'inconscio. In particolare,C. David (10) guarda all'amore e all'innamoramento comead uno stato psicologico in cui non solo si riattivanoreminiscenze del passato e soprattutto si risvegliano lafantasia e l'immaginazione, ma in cui l'individuo vive unasorta di destrut-

(9) F. Nietzsche, Cos/ parlòZarathustra, Milano,Adelphi, 1968, p. 3.

(10) C. David, La dimen-sione amorosa, Napoli,Liguori, 1982.

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(11) R. Barthes, Frammenti diun discorso amoroso, Torino,Einaudi, 1979, p. 87.

(12) K. Kerényi, « Origine efondazione nella mitologia »,op. cit., pp. 16-17.

turazione della personalità perché si preparano delletrasformazioni psichiche, un nuovo assetto e sintesi diquella personalità. L'innamoramento non sarebbe soltantouna semplice riproduzione e ripetizione di affetti, ma unacondizione psicologica nuova, attivatrice di un dinamismocreativo gravido di conseguenze e ripercussioni sullapersonalità di chi ama. In Frammenti di un discorsoamoroso, R. Barthes scrive che la perdita dello statoamoroso vuoi dire « essere esiliati dal proprio Immaginario»:« Prendiamo per ipotesi il caso di Werther nel momentofittizio (all'interno della finzione stessa) in cui egli rinunciaa suicidarsi. A quel punto non gli resta che l'esilio: non giàallontanarsi da Carlotta ... ma esiliarsi dalla sua immagineo, peggio ancora, soffocare quell'energia delirante cheviene chiamata Immaginario. Ha allora inizio 'una specie dilunga insonnia'. Il prezzo che si deve pagare è: la mortedell'Immaginario contro la mia propria vita» (11).A proposito della musica, che in questo racconto svolgeun ruolo fondamentale, Kerényi osserva che le operemusicali, così come i miti, sono « qualcosa che è giàdiventato oggetto autonomo che parla da sé, qualcosa acui non si rende giustizia con inter-pretazioni espiegazioni, bensì tenendolo presente e lasciando chepronunci da sé il proprio senso » ... « che questo richiedaun particolare 'orecchio' ... si intende da sé. 'Orecchio'significa anche qui un vibrare insieme, anzi un espandersiinsieme. 'Colui che si spande come una sorgente vieneconosciuto dalla conoscenza' (Rainer Maria Riike) » (12).Ciò che le immagini musicali pongono in primo piano è latonalità emotiva, la risonanza affettiva; ecco perché lamusica è l'espressione privilegiata del nostro mondoemozionale, dei sentimenti; è, per così dire, la voce dellavita sensibile. La musica nel racconto allude ad unaspecifica forma di conoscenza: la conoscenza delcoìnvolgimento, del rapporto con le emozioni cherichiedono ascolto nel tempo e forme attraverso cuiesprimersi, dialoghi, concordanze e dissonanze attraversocui trascendersi.La capacità di vivere e di generare richiede, quindi,

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coinvolgimento e capacità di morire, di accogliere esopportare l'esperienza del dolore. L'esistenza vuoleessere collegata alle proprie profondità, pertanto non sipossono alienare il dubbio, la colpa, il male, in brevel'esperienza dell'a/fra parte che chiamiamo 'inconscio' eche contrasta necessariamente ogni pretesa di assoluto.Dice ancora il monaco a Kovrìn: « Sani e normali sonosoltanto gli uomini ordinar!, quelli del gregge » ... « sevuoi essere sano e normale va' nel gregge » (p. 210). Iltermine « gregge » deve essere inteso come 'collettivo',vale a dire come una modalità troppo generalizzata nellaquale l'individuo non potrà mai riconoscersi. II problemadel collettivo è stato ampiamente trattato da Jung, inparticolar modo quando ha dovuto evidenziare lo sforzodell'uomo nella ricerca di una dimensione creativa eindividuale.Il gruppo, vale a dire l'insieme anziché i singolicomponenti, esaurisce il suo compito quando le suerisposte ai problemi della vita diventano insufficienti percolui il quale ha affinato nella ricerca la propria capacitàpsicologica. Naturalmente le parole del monaco a Kovrìnpotrebbero essere interpretate in molti modi diversi; pernoi rappresentano l'idea della 'malattia', della 'follia', inquanto espressione di distinzione individuale. Da unpunto di vista psicologico, ogni patologia custodisce i piùprofondi valori individuali di un essere umano.II lavoro analitico dovrebbe consentire il riconoscimento diquesti valori per permettere al paziente di essere almondo esprimendo la propria specificità umana. È perquesto che il lavoro dell'analista non è mai rivolto asottolineare le psicopatologie ma è invece attento ascoprire le potenzialità creative della persona che soffre.Si è uomini proprio in funzione di una propria dimensionepersonale che ci distingue dagli altri, che consente didifferenziarci dal gruppo. Il problema fondamentale èquindi il recupero della propria individualità e la lotta che ènecessario condurre per poter emergere da un'esistenzameschina nella quale la

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propria specificità umana rischia continuamente dinaufragare, di essere soffocata.Se l'individuo alla domanda che ci ponevamo all'inizio —cosa è la vita? — non può rispondere in questi termini,non si solleva mai da un'esistenza puramente biologica.Ma se noi ci interroghiamo e cerchiamo di dare unarisposta a quella domanda, l'unica risposta giusta sarà ilrecupero della nostra intera dimensione psichica, siaconscia che inconscia, per consentire alla nostraindividualità di realizzarsi nella maniera più ampia ecompleta possibile.Questo incontro della dimensione cosciente con quellainconscia non deve però essere confuso con una cadutanell'irrazionale. Quando Kovrìn inizia a dialogare con ilmonaco, soltanto allora, incomincia a sentirsi bene, equesto proprio perché stabilisce un contatto conl'inconscio, la cui mancanza lo aveva portato allamalattia.La psicopatologia insegna che l'unico modo di curare ildelirio è quello di consentire alle immagini, ai personaggistessi del delirio, di esprimersi entrando in dialogo con lacoscienza per permettere all'energia psichica traspostanell'inconscio di trovare dei canali per rifluire nella realtà.E a questo punto del racconto c'è un colpo maestro diČechov: Kovrìn viene scoperto dalla moglie Tania aparlare ad una poltrona vuota, ed è quindi costretto aconfrontarsi per la prima volta con questa sua anomalia.« Tania abbracciò il marito e si strinse a lui, come perdifenderlo dalle visioni, e gli coprì gli occhi con la mano.— Sei malato! — ... Solo adesso, guardandola, Kovrìncomprese tutto il pericolo del proprio stato, capì che cosasignificassero il monaco nero e i colloqui con lui. Adessogli riusciva chiaro ch'egli era pazzo» (p. 217). «Tu seimalato» o anche « Tu sei pazzo »: ecco frasi che,secondo il mio parere, sono tra le più usate quandobisogna fronteggiare l'atteggiamento inconsueto di unaltro. Che questa incomprensibilità riguardi un aspettodell'esistenza che può sfuggire ai più, sembra averescarsa o nulla importanza. In realtà è sempre la

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scoperta di qualcosa di nuovo che spinge ad abbracciaremodi di vita di per sé non evidenti o che comunque sisituano, come si suoi dire, fuori dal solco delle cosescontate. Si consideri che essere 'pazzo' non ha a chefare soltanto con la dimensione dei sentimenti (il puntopiù debole su cui si scagliano coloro per i quali la nostravita emotiva non deve rappresentare un segreto), masignifica anche considerare la Terra rotonda o ritenereuna favola la teoria dell'Etere. Ho imparato dalla miaesperienza analitica che l'attimo della 'pazzia' vera epropria coincide quasi sempre con quelle azioni cheabbiamo dovuto compiere per non sembrare, appunto,dei matti. Sana sarebbe quindi la persona che non siscuote dalle spalle il giogo di un lavoro inutile, sanasarebbe la persona che legge nel suo cuore la fine di unsentimento e continua a negare a sé e agli altri questatragica circostanza. Quante vite fallite nel momento in cuinon si è dato vita al proprio entusiasmo, a quella spinta diincredibile vigore che è poi il momento in cui ogni uomotocca il segreto della sua vera essenza creativa! A questopunto si invoca il principio di realtà, lo credo che il'principio di realtà' sia da considerarsi quasi come unprincipio 'divino' nel cui nome sono stati commessi anchedei crimini. Certo, Freud fu molto cauto a riguardo quandodisse che la saggezza della vita consisteva proprio nelcapire che cosa fare di fronte alla realtà. Ma in effetti taleprincipio diventa un muro invalicabile che, il più dellevolte, pone la nostra esistenza nell'infelicità, per non avercapito che non esiste alcun principio di realtà assoluto,ma soltanto relativo al nostro livello psicologico. Questopunto, fra l'altro, è una delle dimensioni nascoste dellavera trasformazione terapeutica.Parte della nostra esistenza cammina sui binari di quellache si può chiamare la 'denominazione':ognuno di noi è così come viene denominato dagli altri.Lo scontro nel quale purtroppo il protagonista è perdenteavviene proprio con la denominazione, vale a dire con lainterpretazione che della sua realtà viene data dallamoglie.

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Kovrìn si trova nell'impossibilità di difendere il suo mondoinferiore, di continuare a vivere in rapporto con le sueimmagini interne, la sua capitolazione avviene proprio difronte alla denominazione altrui e al suo sentirsi malato.Nei rapporti analitici si vede come sia importanteaffrontare il disagio che il paziente vive come malattia, daprospettive diverse, e come in questo modo si possacambiare completamente la situazione psicologica. Nelracconto, la ricchezza interiore da cui Kovrìn staattingendo viene denominata « malattia » e l'autoreprobabilmente voleva dirci che qui si sta combattendouna lotta fra colui che segue una sua strada individuale ealtri che vorrebbero ricondurlo alla « salute », vale a diresu di un cammino che non gli appartiene.Ma cosa è la malattia? Tramontate le certezze otto-centesche, è sempre più difficile discutere in termini cosìdrastici di 'malattia' e 'salute', tanto più difficile quanto piùsi capisce che le denominazioni sono spesso funzionali achi detiene il potere o comunque a certi gruppi di personea scapito di altre. Pensiamo per esempio a quelle chevanno sotto il nome di perversioni sessuali.Il protagonista del racconto viene curato con il bromuro,ossia viene curato in modo tale che il suo spessorepsicologico, la sua ricchezza inferiore vada perduta edegli ritorni una persona grigia, spenta, conforme allanorma.Di fronte a questa cura, che per lui rappresenta lacapitolazione definitiva perché Io estromette dal suorapporto con l'inconscio, non c'è altra soluzione che lamorte, una morte di tubercolosi, e soltanto poco prima dimorire egli rivede il monaco, che lo rimprovererà di nonavergli creduto. Sono due notazioni che concorrono afarci capire la difficoltà di Kovrìn di comprendere illinguaggio inferiore e di sostenere un rapporto cosìarduo. Abbiamo visto che quando Kovrìn era in relazionecon il suo aspetto profondo veniva definito un malato, esappiamo quanto sia importante proteggere le nostremalattie, avere il coraggio di difendere le nostre anomaliepsichiche.

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Direi che io non sono tanto tranquillo su coloro chedecidono di 'curare' le malattie psichiche, perché cosa èla malattia psichica?Negli scritti di Nietzsche si trova spesso un riferimentoall'enorme valore creativo delle sue difficoltà psicologicheper la sua opera filosofica. Tutto ciò non vuoi dire che èstata la malattia a creare ma che la sofferenza psichica èla spina che non consente mai di abbandonarsi, chespinge ad interrogarsi continuamente e a cercare dellerisposte individuali ai problemi dell'esistenza.Il protagonista del racconto è invece caduto di fronte alladenominazione degli altri, ma se egli non si fosse arresoio credo che avrebbe saputo rispondere su cosa è la vita:la vita è un dialogo con l'inconscio, con l'unicadimensione nella quale la nostra individualità può esserecreativa.

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