roberto faenza. uno scomodo regista

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ROBERTO FAENZA EDIZIONI FALSOPIANO uno scomodo regista Ignazio Senatore

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Da Forza Italia a Silvio Forever tutti i film e la carriera del regista della serie televisiva I Viceré

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ROBERTO

FAENZA

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FALSOPIANO

uno scomodo regista

Ignazio SenatoreROBERTO

FAENZAuno scomodo regista

Ignazio Senatore

“Questa è la seconda volta che giro un film a New York. La prima è stata nel 1983 quandoho realizzato Copkiller. (...) Da allora a oggi le cose sono molto cambiate e fare cinema aNew York è diventato molto più difficile. A causa soprattutto delle union che si oppongono inogni modo alle produzioni intenzionate a impiegare tecnici e maestranze straniere, a differenzadei nostri sindacati, pronti a inginocchiarsi di fronte a qualsiasi produzione americana che arriviin Italia. Il tema della reciprocità dovrebbe essere una battaglia da ingaggiare, perché non ègiusto né leale che le produzioni americane possano far lavorare in Italia chiunque, dagli attoriai tecnici alle maestranze, mentre noi italiani o europei non possiamo far lavorare in Americaquasi nessuno. (...) In una delle prime riunioni di preparazione di questo nuovo film mi imbattoper la prima volta nella parola “clearance”. Alla riunione partecipa un team di avvocati. Da noiuno è libero di girare in esterni, per esempio se voglio girare a Roma davanti al Colosseo nessunomi verrà a chiedere la liberatoria. Qui non è così. Un edificio, per esempio un famoso grattacielo,può essere soggetto a copyright, un manifesto idem, una vetrina pure. Se voglio girare a TimesSquare e riprendere le immagini proiettate sugli edifici, devo prima chiedere le autorizzazioniagli aventi diritto. Insomma un incubo. (...) In una scena del film squilla il telefono? La suoneriapuò essere soggetta a copyright, per cui prima sarà bene sondarne la licenza. Il protagonistapreme un campanello? Se la targhetta porta un nominativo va prima eseguita la clearance. Inun’altra scena fa una telefonata e compone un numero sul cellulare? Attenzione il numero dev’es-sere inventato (...) In pratica tutto ciò che compare anche in un solo fotogramma del film può es-sere oggetto di contestazione, specie in America dove gli avvocati sono più numerosi delleformiche e dove chiunque può diventare milionario intentando le cause più azzardate”.

Da Diario Americano di Roberto Faenza

Ignazio Senatore è psichiatra e psicoterapeuta dell’Università “Federico II” di Napoli e presidentedella Sezione “Arte, Musica, Spettacolo e Mass Media” della Società Italiana di Psichiatria.Giornalista pubblicista e critico collabora con “Segnocinema” e con “Il Corriere del Mezzo-giorno”. È autore di numerosi volumi: ricordiamo L'analista in celluloide (1994), Curare con il ci-nema (2002), Il cineforum del dottor Freud (2004) e il recente Cinema e terapia familiare conRodolfo De Bernart (2011). Ha organizzato diverse rassegna cinematografiche ed ideato il con-corso “I corti sul lettino. Cinema e psicoanalisi” oltre al sito www.cinemaepsicoanalisi.com. Sonoin uscita due sue monografie dedicate a Daniele Luchetti e Giuseppe Piccioni.

ISBN 978-88-89782-39-2

€ 22,00

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registaIgnazio Senatore

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www.falsopiano.com/robertofaenza.htm

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In copertina: Roberto Faenza in una fotografia di Cosima Scavolini

© Edizioni Falsopiano - 2011via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAwww.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini

Stampa: Laser Group - MilanoPrima edizione - Dicembre 2011

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IndIce

Introduzione

di Ignazio Senatore p. 9

Intervista a Roberto Faenza p. 15

Parte seconda: i Film p. 135

Escalation p. 137

H2S p. 145

Forza Italia! p. 151

Si salvi chi vuole p. 159

Copkiller p. 163

Mio caro dottor Gräsler p. 171

Jona che visse nella balena p. 181

Sostiene Pereira p. 189

Marianna Ucrìa p. 197

L’amante perduto p. 207

Prendimi l’anima p. 217

Alla luce del sole p. 231

I giorni dell’abbandono p. 251

I Viceré p. 263

Il caso dell’infedele Klara p. 279

Silvio Forever p. 289

Diario americano di Roberto Faenza p. 309

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InTROdUZIOne

di Ignazio Senatore

Io e Roberto ci siamo incontrati la prima volta nel 2003. Avevo già pubblica-to L’analista in celluloide e Curare con il cinema ed organizzato nell’AulaMagna dell’Università “Federico II” di Napoli, la proiezione del film Come duecoccodrilli alla presenza di Giacomo Campiotti, di Fuori dal mondo di GiuseppePiccioni, con Silvio Orlando in veste di ospite d’onore, e de La seconda ombradi Silvano Agosti al Teatro Nuovo di Napoli, con Agosti nei panni dell’anarchi-co mattatore.

Non lo conoscevo personalmente ma, quando seppi del tema che avrebbe trat-tato in Prendimi l’anima, con un pizzico di sfrontatezza, contattai la Jean Vigo,la sua casa di produzione, presentai le mie credenziali, e proposi loro di allestirel’anteprima del film al cinema Modernissimo di Napoli, alla presenza di psi-chiatri, psicologi ed appassionati di cinema. Roberto accolse entusiasticamente ilmio invito. Ricordo ancora oggi la sala zeppa ed affollata fino all’inverosimile (erauna proiezione mattutina!). Erano presenti anche i colleghi giornalisti della cartastampata, delle televisione e delle emittenti radiofoniche locali. L’attesa era enor-me. Il clima in sala era piacevolmente effervescente. Dopo i saluti di rito, partì laproiezione della pellicola che al termine fu salutata dal pubblico con un fragorosoe caloroso applauso. Come concordato in scaletta intervenne prima il regista cheesordì dicendo: “Questo film ha veramente delle strane coincidenze mandate nonso da dove... Ci tenevo molto a presentare un film a Napoli, perché è una città cheamo... Poi sei comparso tu con la tua e-mail...”, e rievocò scherzosamente lemodalità con le quali l’avevo contattato e come era nata l’idea della presentazionea Napoli. Dopo aver raccontato la genesi del film, qualche aneddoto relativo allasua realizzazione, passò la parola a Nadia Neri, una psicoanalista junghiana, cheaffrontò lo spinoso e controverso rapporto tra Jung e Sabina Spielrein. A sua voltaElda Ferri, produttrice di tutte le pellicole di Faenza a partire dal 1978, illustrò ledifficoltà incontrate nella realizzazione del film. Infine una emozionatissimaEmilia Fox confessò di essersi completamente innamorata del personaggio diSabina e della passione che Roberto aveva mostrato per quella storia.

Regista e ospiti furono sommersi da decine domande e dovemmo concludere

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l’incontro, a malincuore, per ovvie ragioni di tempo. Di Roberto quel giorno micolpirono l’estrema gentilezza, generosità e disponibilità con la quale avevarisposto alle domande che gli erano state poste, (anche a qualcuna particolar-mente velenosa di qualche giornalista presente in sala), con l’onestà e la tran-quillità di chi non aveva nessuna posizione preconfezionata da difendere e con lasincera curiosità di scoprire, grazie ai loro interventi, qualche aspetto del film chelui stesso aveva messo in campo “inconsapevolmente”.

Ci salutammo con la certezza che ci saremmo incontrati in futuro, cosa cheaccadde l’anno seguente per la presentazione a Roma, in una delle LibrerieFeltrinelli, del mio volume Il cineforum del dottor Freud. Gli avevo chiesto diessere al mio fianco e lui, senza pensarci due volte, aderì immediatamente allarichiesta. Discorremmo con i presenti del mio volume ma anche in quell’occa-sione non si tirò indietro alle numerose domande che il pubblico gli pose sui rap-porti tra cinema e psicoanalisi.

Lo incontrai nuovamente per la presentazione di Psycho cult, un altro volu-me che avevo dato alle stampe e che presentai nel 2006 insieme a lui, a MatteoGarrone e a Marco Giusti (autore di una divertentissima prefazione), in una libre-ria Feltrinelli a Roma. Fu una chiacchierata piacevolissima e discutemmo con ilpubblico, tra l’altro, della ricchezza visiva dei B movie italici, delle storichestroncature che certi critici avevano riservato al cosiddetto cinema di “genere”,del futuro del cinema nostrano.

Quando Roberto tornò a Napoli nel 2007 per presentare alla stampa l’annosuccessivo I Vicerè, il nostro incontro fu fugace perché, per ragioni professiona-li, dopo averlo intervistato, dovetti scrivere al volo l’articolo per “Epolis - IlNapoli”, quotidiano per il quale collaboravo al tempo.

Non l’ho più sentito per un pò (del resto, per ragioni lavorative, in Italia nonc’è quasi mai) e l’ho rivisto per la presentazione alla stampa a Napoli, a marzo2009 del suo ultimo film Il caso dell’infedele Klara. Il film fu accolto male dallacritica locale e quando ci recammo, insieme alla dolcissima Laura Chiatti, allasede de il quotidiano “Il Mattino” per un “forum” con i giornalisti della testatapartenopea, per la prima volta vidi Roberto leggermente accigliato e meno rag-giante del solito.

Quando organizzai a Napoli nell’aprile 2009, il primo concorso di cortome-traggi I corti sul lettino - Cinema e psicoanalisi fu la prima persona alla qualepensai come presidente della giuria. Accettò anche questa volta il mio invito,senza la minima esitazione, e, lontano mille miglia dai lustrini e dai clamori divi-stici di certi suoi colleghi, volle arrivare a Napoli e ripartire per Roma in treno.Dopo aver visionato accuratamente tantissimi cortometraggi, presenziò alla sera-ta finale insieme agli altri componenti della giuria e discusse con i registi e con

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gli attori presenti in sala sulle tecniche da loro adoperate, sulla scelta dei temi,sulla direzione degli attori.

Ci rivedemmo qualche mese dopo, a luglio di quell’anno, quando presentò Ilcaso dell’infedele Klara nell’ambito della Rassegna “Accordi e Disaccordi”,ideata da Pietro Pizzimento, alla quale collaboro da alcuni anni. In quell’occa-sione ritrovai il Roberto di sempre, pieno di propositi e di energie già in moto permille progetti futuri.

Perché narrare così dettagliatamente le diverse occasioni nelle quali ci siamoincontrati? Per sottolineare, forse, che l’idea del volume-intervista è nata sotto-traccia proprio grazie alle nostre “occasionali” frequentazioni di questi anni. Nelcorso delle nostre chiacchierate intuivo che l’uomo non amava molto discuteresulle annose questioni relative al cinema nostrano, sui film usciti in sala, né com-mentare la poetica di un regista o le capacità professionali di un attore o di un’at-trice. Non è che non gli piacesse discorrere di cinema: la sensazione che ne rica-vavo era che il suo spirito solitario, il suo carattere schivo e riservato, mal si spo-sava con il commentare le “gesta” dei tanti “compagni di viaggio” che affollanoil mondo della celluloide. Non solo. Di lui mi colpiva la sua “insolita” modestia,la sua naturale tendenza a sottrarsi agli elogi che, volta per volta, riservavo allesue pellicole in uscita. Si scherniva per poi regalarmi, di tanto in tanto, qualchepiccolo aneddoto relativo a un suo film.

Una cosa però era certa; vuoi anche per la sua carica di ricercatore e docenteuniversitario e/o per la sua frequentazione con gli studenti, era informato su tutto;conosceva benissimo il mondo dell’editoria cinematografica online, il nome deiproduttori, anche di quelli a me sconosciuti, ricordava per quale testata scrivessequel critico e dove e per quale occasione aveva incontrato quell’attore o quel-l’attrice.

Mentre discorrevamo tra un caffè, un primo piatto o un trancio di pizza, comein una sorta di tacito accordo, lasciava scivolare sempre il discorso sui temi lega-ti alla psicoanalisi e alla psichiatria.

Mi colpiva in lui la sua genuina ed autentica ricerca della conoscenza, quellaostinata spinta a voler varcare il confine di un sapere (quello psichiatrico-psi-coanalitico), di cui si è sempre dichiarato appassionato. Mi chiedeva del miolavoro di psichiatra all’Università, il tipo d’approccio che utilizzavo in terapia, lepatologie dei pazienti che avevo in cura. Ascoltava in silenzio, con attenta parte-cipazione pronto a rilanciare, subito dopo, con una nuova domanda.

Della sua vita privata non faceva mai cenno. Solo una volta si è lasciato“scappare” di non essere sposato, ma padre di due gemelli: l’uno con la passio-ne per i documentari, l’altra architetto e stilista. Ed è proprio in una delle tanteappassionate chiacchierate che ho lanciato l’idea di questo volume. Chi lo cono-

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sce sa che è una persona lontana anni luce dal luccichio delle luci della ribalta eda una certa spocchiosità divistica, cara a molti personaggi della cinematografiaitalica. Ha lasciato decantare un po’ l’idea dentro di sé e poi ha accolto favore-volmente la mia proposta. Del resto, da cinefilo incallito, ritenevo quasi dovero-so colmare un vuoto presente nell’editoria del settore e dedicare un volume inte-ramente dedicato a uno dei registi più significativi della nostra cinematografia.

Mi sono accostato alle opere di Roberto con il desiderio di offrire, anche ailettori più giovani, che non conoscono (probabilmente) la sua filmografia com-pleta, con un atteggiamento di grande curiosità e ponendomi di fronte alle sueopere con l’obiettivo di recuperare una sorta di “verginità dello sguardo”.Rivedere dei film di tanti anni fa, scrostare da essi la patina della memoria, nonè un’impresa così facile come si possa pensare. Nell’accostarmi nuovamente aqueste pellicole, ho ritrovato con piacere dei passaggi narrativi che avevo dimen-ticato, recuperato immagini, sfumature, dialoghi, ormai seppelliti nell’oblio. Misono anche imbattuto in delle zone d’ombra, in quei piccoli nei che costellano lasua ricca produzione di regista.

Ma gli eventuali pregi e difetti vanno rivolti al Roberto Faenza regista, sog-gettista e sceneggiatore? Al Faenza libertario e “rivoluzionario”, autore delle sueprime anarchiche e schioppettanti pellicole; al regista satirico che ha messo allaberlina DC e PCI; a chi (tra i primi registi italiani) ha avuto il coraggio di girareun film in America; all’autore più internazionale dei nostri registi, che ha direttoattori del calibro di Harvey Keitel, Max Von Sidow, Miranda Richardson, KristinScott Thomas, Keith Carradine, Daniel Auteil, Claudine Auger e i nostraniMarcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Laura Morante e Margherita Buy? Alregista che ha appena finito di girare un film interamente “americano”, con unagalleria di grandi interpreti, tra cui due premi Oscar, Ellen Burstyn e Marcia GayHarden, oltre a Lucy Liu, Peter Gallagher, Stephen Lang (il cattivo di Avatar), igiovanissimi Toby Regbo, Deborah Ann Wall e la nipote di Hemingway, la ven-tenne Dree?

Al regista che si è avvalso della collaborazione di costumisti premi Oscarcome Danilo Donati e Milena Canonero, di direttori della fotografia del calibrodi Giuseppe Rotunno, Tonino Delli Colli, Blasco Giurato, Maurizio Calvesi, diautori di colonne sonore di prestigio come Ennio Morricone, Paolo Buonvino,Franco Piersanti e Andrea Guerra?

Personaggio unico e complesso all’interno del panorama cinematografico ita-liano, Faenza ha avuto il merito di non appiattirsi mai su un filone e di speri-mentare sempre nuovi percorsi. Dopo il successo di Escalation avrebbe potutocavalcare l’onda del regista ribellista e post-sessantottino; dopo la bufera scate-nata da Forza Italia! e Si salvi chi vuole vestire i panni del fustigatore della cor-

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ruzione e dell’imborghesimento della classe politica italiana; dopo i fasti diPrendimi l’anima diventare il contro-altare di Marco Bellocchio e proporsi comeil regista più psicoanalitico del suolo italico. Faenza si è sempre sottratto allemode, ai facili incassi al botteghino ed è sempre andato avanti, testardamente,per la propria strada, noncurante delle faziose e “programmate” stroncature daparte di una certa critica che lo attacca, ormai sistematicamente, all’uscita di ognifilm.

Per confezionare l’intervista presente nel volume ho incontrato Roberto nellasede della Jean Vigo, un luogo caldo e raccolto a due passi dal Colosseo, alle cuipareti campeggiano i manifesti dei suoi film più rappresentativi (compreso unoin giapponese de I Vicerè e quello de La vita è bella di Roberto Benigni, prodot-to dalla preziosa e infaticabile Elda Ferri insieme a Luigi Braschi). Qua e là, tragli scaffali delle librerie, qualche targa e i premi tra i tanti collezionati in carrie-ra, tra cui spicca la candidatura del 2005 a miglior regista europeo per Alla lucedel sole o il David di Donatello 1993 per Jona che visse nella balena. Questiriconoscimenti non sono stati messi in bella mostra per un vanitoso rispecchia-mento narcisistico, ma solo come silenziosa testimonianza di un percorso artisti-co compiuto nell’arco di quarant’anni.

Durante l’intervista si è concesso come non mai. È riandato con la memoriaa degli avvenimenti del passato, rispolverato nomi e personaggi caduti ormaidimenticati e, soprattutto, ha accettato con grande ironia e professionalità le cri-tiche e le annotazioni che gli ho rivolto.

Come ha lui stesso sottolineato, si tratta di un autore difficile da inquadrare,un cineasta più amato dalle donne che dagli uomini, un regista che procede a zig-zag e in qualche modo “imperfetto”. Il grande François Truffaut affermava: “Ifilm respirano attraverso i loro difetti. Il capolavoro è irrespirabile.” E proprioper quelle scalfitture, crepe, disegualità ed “imperfezioni” che amo il cinema diRoberto.

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Intervista a Roberto Faenza

IS: Ripercorriamo insieme i tuoi primi passi nel mondo del cinema… Vieni aRoma fai il Centro Sperimentale...RF: Lo ricordo come un periodo un pò grottesco. Il Centro avrebbe dovuto esse-re una scuola con relativo carico di insegnanti, ma la disorganizzazione regnavasovrana. Pochissimi i docenti e quei pochi per lo più assenteisti. Diciamo che noiallievi eravamo lasciati soli. L’unica cosa che funzionava era la Cineteca e dun-que il tempo veniva assorbito dalle proiezioni di film. Ovviamente del passato. Ifilm del presente li vedevamo al cinema per conto nostro.

IS: Ricordi qualche collega di corso?RF: Vittorio Melloni che poi si diede al teatro e morì tragicamente assassinato incircostanze mai chiarite. Stefano Silvestrini, che diventò poi un documentarista.Loro due erano i miei compagni di corso (allora gli allievi registi erano tre peranno). Poi c’erano gli allievi uscenti del corso precedente. Vittorio Saltini, chescelse la strada della letteratura (già allora scriveva su “L’Espresso”). FrancoBrocani che diventò un regista “alternativo” negli anni Settanta. Carlo Morandi,considerato una specie di genio incompreso, di cui non ho più saputo nulla.

IS: Hai iniziato con due cortometraggi...RF: Il primo corto l’ho scritto e diretto nel ’65, appena uscito dal Centro, quan-do avevo ventitre anni. Era un cortometraggio su alcuni giovani della Torinobene che d’estate in vacanza giocavano a fare la guerra. Stavo al mare (FinaleLigure dove mio nonno possedeva un albergo) e c’erano questi diciottenni un pòdi destra che si esercitavano a simulare azioni di guerra. Dicevano di farlo pergioco, ma sotto c’era il desiderio di un’esercitazione reale. Il titolo del corto eraLa guerra bene. Impiegavano armi e bombe finte, un divertimento da squilibra-ti. Diciamo che il corto intendeva essere una critica di una certa gioventù bor-ghese anni Sessanta.

IS: Era un corto autofinanziato o allora c’erano dei produttori?RF: In quegli anni vigeva un sistema per cui i cortometraggi venivano distribui-ti nelle sale cinematografiche prima dei film e ricevevano dei premi governativi,cioè finanziamenti piuttosto cospicui. Allora c’era un’industria fiorente del docu-mentari. Ricordo che un pugno di produttori, per lo più agganciati ai carri demo-cristiani e socialisti, si spartiva il mercato: la Documento film, Giorgio Patara, ifratelli Nasso. Quell’industria venne a crollare negli anni Settanta quando sono

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venuti meno i contributi. I primi a soffrirne furono soprattutto i documentaristi,che di colpo si trovarono senza committenti. Si spiega così la scarsa vocazioneal documentarismo da parte della nostra industria, nonostante i molti talenti cheavevamo e che si sono rifugiati a lavorare all’estero.

IS: Il tuo secondo corto?RF: Lo realizzai l’anno dopo, prodotto dai fratelli Nasso. Era la storia di unaragazza, un pò ribelle e poco conformista. Non lo ricordo neppure bene, ancheperché nel 1966 ero già immerso nella scrittura di quello che sarebbe stato il mioprimo film, Escalation. Leopoldo Trieste, attore, regista, drammaturgo, grandeamico di Fellini, si era prestato a recitare nel mio saggio di diploma al CentroSperimentale (ispirato al racconto di Sartre, Erostrato) e mi presentò al produt-tore che aveva appena finanziato A ciascuno il suo di Elio Petri. Si chiamavaGiuseppe Zaccariello e aveva fatto soldi, così dicevano, come industriale di cera-miche a Sassuolo, nel modenese. Ora aveva deciso di investire nel cinema.Trieste gli diede da leggere la mia sceneggiatura. Gli piacque. Decise di farmidebuttare. Budget del film cento milioni di lire. Fu il suo più grande successo,che gli consentì di produrre altri film, che però andarono tutti male. Peccato, per-ché i produttori di allora erano gente che rischiava in proprio. Per questo eranopiù liberi e coraggiosi di quanto non siano ora, visto che dipendono in gran partedal finanziamento della televisione.

Escalation

IS: Escalation è un film sarcastico, irridente che tiene ancora oggi magnifica-mente. È divertente, fresco, ironico. Rivedendolo mi sembra che hai voluto ridi-colizzare un pò troppo Lino, il protagonista che appare, sin dalle prime battute,capriccioso, infantile e piagnucolone. Non mi convince la sua rapida trasforma-zione, in un uomo cinico e crudele, in un marito che, dopo aver scoperto il verovolto della sua amata, si sbarazza di lei senza alcun senso di colpa. Il passaggiotra il Lino sognante, angelico, innocente, ingenuo, in quello mi sembra tropporepentino.RF: È probabile, sì... Ma sai Escalation non è un film realistico, è quasi una favo-la. Da parte mia non c’è mai stata una grande empatia verso il suo protagonista,che per quanto puro e candido alla fine diventa pur sempre un assassino. Il filmè anche un apologo se vuoi sul ’68, un movimento spontaneo, iniziato su basipacifiste e neppure tanto politicizzato, che sotto il dominio dei cosiddetti grup-puscoli è diventato via via sempre più irriconoscibile e deviato.

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IS: Il titolo Escalation fa riferimento ad una scalata che coinvolge non soloCarla Maria ma anche lo stesso protagonista?RF: L’idea del titolo era nell’aria. Allora si parlava di escalation militare. Nondimenticare che l’idea del film fu partorita durante la guerra in Vietnam. Pensaiche ci fosse una certa familiarità con la crescita del protagonista verso la violen-za, ovvero verso la folle decisione di ammazzare la moglie. Così pure intendevosottolineare la scalata di Carla Maria, che tradisce la fiducia di Luca, per alli-nearsi con il padre industriale (un insolito Gabriele Ferzetti).

IS: La critica lo osannò. Pochissimi registi italiani hanno avuto un esordio cosìfulminante e il tuo film è stato paragonato ad altri due capolavori del cinema ita-liano di quegli anni: I pugni in tasca di Marco Bellocchio ed a Grazie zia diSalvatore Samperi...RF: È vero: il film ebbe un esordio come dici tu fulminante. Quando però rifiutai ipremi, tra cui la Grolla d’oro a San Vincent, i critici che prima mi avevano osanna-to cominciarono a capire che non ero fatto di materiale maneggevole. Da alloracominciarono a guardarmi con sospetto. Grazie zia è venuto dopo Escalation. Il tito-lo del film l’ho dato io stesso a Salvatore Samperi, dopo averne scritto la prima ver-sione del soggetto, anche se non compaio nei titoli. Samperi frequentava il CentroSperimentale come uditore e nell’ultimo anno era diventato una specie di mio assi-stente, nel senso che mi aiutò a realizzare il saggio di diploma. Era cresciuto tra noiun rapporto d’amicizia e a un certo punto mi propose di scrivere un trattamento suuna storia che lui aveva in mente, tra una zia e il nipote. A quel tempo mi guada-gnavo da vivere scrivendo sceneggiature per terzi, in particolare per il produttore diZorba il greco, il film con Anthony Quinn. Il suo nome era Anis Nohra. Mi facevalavorare come “nero”, per abbozzare soggetti, sviluppare sceneggiature, etc.

IS: Facevi il ghost-writer?RF: Sì, anche se nessuno di quei progetti venne poi trasformato in film. Samperiapprezzava i miei scritti e decise di affidarmi la scrittura del suo soggetto. Unavolta terminato, si era anche messo in testa che dovessi interpretare io il ruolo delprotagonista. Mi sono rifiutato non avendo nessuna capacità di stare davanti allamacchina da presa. Odio persino essere fotografato, figurarsi recitare. Samperi cirimase male perché lo ritenne un atto di sfiducia nei suoi confronti. Per fortunache la proposta si è fermata lì. Avessi mai accettato, il suo film sarebbe stato undisastro. La scelta successiva, Lou Castel, che tra l’altro frequentava il Centrocon l’idea di diventare regista, è stata perfetta, anche se poi i critici rimprovere-ranno a Samperi di scimmiottare Bellocchio, che aveva appunto esordito conCastel protagonista.

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IS: Come mai non compari come soggettista di quel film?RF: Perché più tardi altri hanno scritto la sceneggiatura e se devo essere sinceronon ero molto convinto della sua struttura. Allora ero molto pragmatico e il fattoche Samperi mi avesse retribuito, se ricordo bene, con circa trecentomila lire, eraper me più che appagante. Basti pensare che vivevo con una borsa di studio men-sile del Centro di cinquantamila lire e stentavo ad arrivare a fine mese.

IS: C’è molto del film rispetto al tuo trattamento?RF: Ci sono parecchie cose, ma poi il film è diventato stoffa di Salvatore. Io misono limitato a mettere in forma di trattamento quello che lui raccontava. Avevain mente questa storia, non sapeva bene come svilupparla. Io l’ho sviluppata echiuso lì.

IS: Ritorniamo a Escalation...RF: Il film ebbe un notevole successo sia commerciale che di critica, anche all’e-stero, specie in Inghilterra, Germania e in molti altri paesi, persino in America lati-na. Credo che nell’anno della sua uscita, 1968, sia stato tra i più grandi successiinternazionali di un regista italiano. Per di più esordiente. Avevo allora 25 anni.

IS: Perché dipinge il corpo di lei? Lei è morta... Un atto d’amore nei confrontidi una donna che l’ha soggiogato e tradito, un prendersi cura di una donna dicui è ancora innamorato, del suo corpo? E la cremazione, un rito purificatore,a conferma che non la odiasse, ma che ne fosse ancora innamorato?RF: Perché la dipinge? Devo dire che sono sempre stato un pò naïf, poco strut-turato e spesso più istintivo che razionale. In quegli anni avevo un amico pitto-re, anche lui torinese, Aldo Mondino (poi diventato tra i pittori più apprezzatidella sua generazione). È probabile che sia rimasto influenzato da questa amici-zia, come pure di un altro pittore che frequentavo, Mimmo Rotella, già allora rite-nuto un grande della pittura contemporanea. Mi ammaliavano le immagini plasti-che, i colori spinti, in definitiva l’anima della pop art, di cui apprezzavo soprat-tutto la rottura con l’arte tradizionale e il rapporto di odio-amore con la societàindustriale. Di qui, l’idea di affrescare il corpo della psicotecnica, un pò per ricor-dare il passato hippy del protagonista e allo stesso modo per effettuare una speciedi sfregio nei confronti di chi lo aveva portato alla soglia della criminalità.

IS: Come è nata l’idea della scena finale del film con il funerale sulla spiaggiasulle note della banda jazz in stile New Orleans?RF: Stavamo girando sulla spiaggia di Rosignano Solvay delle scene. La ricordocon quella sua sabbia quasi rosa e il mare colorato di azzurro per gli scarichi del-

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l’industria locale. Una mattina guardando le ciminiere fumanti alle spalle dellaspiaggia mi è venuta l’idea che quello scenario tipicamente postindustrialeavrebbe potuto costituire una scenografia straordinaria per ambientarvi un fune-rale grottesco e beffardo all’insegna del fantastico. Come se non bastasse, decisianche di impiegare una bara di ghiaccio, ultimo atto in vista della presa del pote-re da parte del giovane protagonista nei confronti della volontà paterna ormaipiegata e sottomessa.

IS: Nelle tue interviste del tempo sottolinei sempre l’uso del colore, una ricercaparticolare... Cito testualmente: “Il colore è molto crudo, crudele, proprio diuna società che aggredisce i sensi e l’intelletto”.RF: Sì, sono attento ai colori, alle presenza sceniche, alle forme e al significatodelle ambientazioni. Penso che nei film che faccio c’è sempre una particolare atten-zione alla presenza estetica. Alcuni, tra l’altro, me la rimproverano, come se que-sto tipo di ricerca fosse sinonimo di estetismo, il che a me proprio non sembra.

IS: Il didascalismo, il calligrafismo, la leziosità…RF: Penso che il cinema debba essere soprattutto un piacere per gli occhi. InEscalation per esempio c’è un tipo di arredamento molto avveniristico, quel lettonuziale triangolare, le pareti della casa ultra colorate, il ruolo del design… Tuttociò non lo vedo come calligrafismo, ma al contrario come una dominante dellastruttura narrativa. Mi sembra di ricordare che qualche critico, se non sbaglioTullio Kezich, aveva accostato la forma del film al fumetto. Paragone pertinente.

IS: La scelta degli attori? Lino Capolicchio non aveva fatto prima nessun film..RF: No. Era stato scoperto dal mio produttore ed esordì insieme a me. In segui-to venne promosso a protagonista da Vittorio De Sica nel film sui Finzi Contini,premiato con l’Oscar.

IS: Claudine Auger è perfetta...RF: È arrivata all’ultimo momento. Avevo scelto una attrice svedese vista in unfilm di Ingmar Bergman. Non ricordo se fosse Liv Ullmann o Harriet Anderson,o forse Gunnel Lindblom. Fatto sta che l’attrice arriva a Tirrenia dove avevamoda poco iniziato le riprese del film. Il guaio è che ha appena partorito e porta isegni della gravidanza. Mi resi subito conto che in quelle condizioni non avreb-be potuto girare le scene di nudo che avevo previsto in sceneggiatura. Il produt-tore insisteva perché la trattenessimo, mentre io mi opponevo. Decisi di affron-tare l’attrice e dirle in tutta sincerità il mio pensiero. Credo che la mia sinceritàl’abbia convinta. Fu molto comprensiva e decise di tornare in Svezia senza con-

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seguenze contrattuali. A quel punto eravamo però senza attrice. Qualcuno, forse lostesso produttore, propose allora un’attrice che aveva appena lavorato al fianco diJames Bond, la francese Claudine Auger. Non sapevo chi fosse. Ma accettai dibuon grado di incontrarla. Si rivelò subito molto simpatica e disponibile.

IS: In un’intervista hai dichiarato: “Non credo che si possa far rientrareEscalation nel filone del cinema cosiddetto sessantottesco, almeno per i suoi con-tenuti. Io credo che l’intuizione più felice del film, sia stata quella di metteresotto accusa quei gruppi di giovani come gli hippie, che venivano consideratiallora i critici che contestavano il sistema… A che serve ritirarsi in campagna ocoprirsi di fiori, lasciando poi immutato il potere e le distorsioni della società?(“La Repubblica”, 18 luglio 1981, da Gianni Volpi) Sei ancora d’accordo?RF: Convinto oggi più che mai. Troppo spesso nascono dei movimenti di conte-stazione che vivono solo il tempo di sfiorire precocemente. Succede specie con imovimenti studenteschi, che partono da rivendicazioni legittime e poi si disper-dono perché incapaci di tenuta. Le conquiste importanti non si ottengono intempi brevi. Lo slogan tutto e subito, tipico del ’68, ha poi partorito il mostro delterrorismo.

IS: A chi venne l’idea del manifesto così osè per l’epoca?RF: Venne a me. L’immagine era tratta da un fotogramma del film. Dunque nulladi inventato. Ho sempre dato molta importanza ai manifesti, perché sono la primacosa che gli spettatori vedono di un film. Un manifesto sbagliato può segnare ilsuo fallimento. Fu con il manifesto che iniziarono le mie schermaglie con la cen-sura. Venne dapprima sequestrato, ovvero trattenuto dalla Procura delleRepubblica di Roma, poi dissequestrato e affisso per le vie di alcune città. Stessacosa che accadrà poi con il manifesto di Forza Italia! Anche il film ebbe proble-mi con la Commissione ministeriale di censura, che pretese il taglio di una man-ciata di fotogrammi dalle scene di sesso tra Luca e la moglie. Una imposizioneridicola che la dice lunga sul bigottismo dei nostri censori. Hai presente PeppinoDe Filippo (attore sublime, sottostimato da una critica idiota) in quel grottescoepisodio cinematografico di Fellini? Mi riferisco a Le tentazioni del dottorAntonio nell’episodio di Boccaccio ’70 del 1961, dove Peppino interpreta il ruolodel ragioniere moralista e bigotto, ossessionato dal sesso, fino a salire sul corpogigantesco della donna e lì...

IS: Ci sono sempre corpi femminili nei tuoi manifesti anche nei tuoi film succes-sivi... Vedi Prendimi l’anima, Klara. È una scelta di mercato o è una tua sceltaprecisa?

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RF: Ti dicevo prima dell’importanza che attribuisco ai manifesti in quanto primaimmagine che vede il pubblico. Anche ne I giorni dell’abbandono domina solola figura femminile di Margherita Buy. Non solo non si tratta di scelte di merca-to, anche se poi si rivelano vincenti, ma in genere gli uffici marketing preferi-rebbero altre immagini più adatte a chiarire se si tratta di un film drammaticooppure di una commedia, partendo dall’idea che è più importante definire ilgenere che il personaggio. Io penso invece che gli spettatori scelgano un film nonper il genere che tratta, bensì per i personaggi con cui identificarsi.

IS: Perché Escalation fu rieditato con il (brutto) titolo L’integrato sessuale. Equanti anni dopo?RF: Ho appreso questa cosa mentre vivevo in America e non ho idea di quandosia successo. Un titolo aberrante che la dice lunga sulla idiozia e la volgarità dichi commercia cinema. Potrebbe essere venuto in mente al produttore, ne eracapace. Avrà pensato di imbarcare altri soldi invogliando a comprare il titolo laparte più becera del mercato.

IS: È vero che in un primo tempo avevi offerto il ruolo di protagonista a deicantanti?RF: Sì, in prima battuta a Gianni Morandi, che rifiutò. L’ho incontrato di recen-te e me l’ha ricordato, aggiungendo che non poteva accettare la parte di un assas-sino suo malgrado, lui che era l’emblema popolare del bravo ragazzo. DopoMorandi pensai di offrire la parte al cantante italo-francese Antoine, che avevaappena lanciato la canzone Pietre. L’idea gli piaceva, ma le nostre date conflig-gevano con il suo tour.

IS: Perché l’idea di un cantante?RF: Mi è sempre piaciuta l’idea di lavorare con una rockstar. Vedi la scelta diJohnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, per Copkiller.

H2S

IS: L’ho visto solo oggi ma è un film inguardabile...RF: Concordo. Un film assurdo, frutto di una mente disturbata. Credo fossero leinfluenze negative del degrado del ’68 che agivano sulla mia mente. A mia dife-sa non posso opporre neppure che avevo solo 25 anni, pur essendo già al secon-do film. Credo che il successo di Escalation, davvero enorme soprattutto perchéinaspettato, mi avesse dato alla testa. Non ascoltavo nessuno, ero convinto di

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essere un genio. Il Signore giustamente mi ha punito. H2S fu un disastro. Costatoun’enormità, venne sequestrato dopo pochi giorni dall’uscita. Ma già alle primeproiezioni il pubblico protestava. In alcune sale si spinse a chiedere i soldi delbiglietto indietro, perché essendo l’inizio privo di dialoghi sembrava un filmsenza sonoro.

IS: Perché il titolo? È un acido velenoso. È un riferimento alla corrosività dellapellicola (penso alla scena dell’occhio tagliato con il rasoio in Un chien anda-lou di Buñuel)? RF: Sì, l’idea del titolo venne per indicare che si trattava di una storia corrosiva,come è appunto la formula chimica cui si riferisce. Magari fossimo all’altezza diLuis Buñuel... Qui ahimè si vola molto più basso, rasoterra.

IS: Il film fu sequestrato. Dopo quanti tempo ritornò nelle sale?RF: Fu sequestrato pochi giorni dopo l’uscita in pubblico. E non tornò mai piùin circolazione. Neppure come dvd. La ragione è semplice: sono stati tagliatidieci o quindici minuti del film dall’originale. Mi riferisco alle sequenze che cor-rispondevano ai capi di imputazione nell’ordinanza di sequestro. Trattandosi di“corpi” di reato e avendo la produzione “patteggiato” in sede processuale, que-ste sequenze non avrebbero potuto tornare in circolazione.

IS: La cosa che più mi ha colpito è che tu ti sei arrabbiato per l’atteggiamentodella critica che non ha difeso Forza Italia!, film di cui parleremo più in là e nonperché ti abbiano appoggiato nei confronti di questo film. Vietato ai minori dianni 14, unico esempio in Italia di film dove non si vede neppure un centimetrodi pelle, fu sequestrato appena uscì nelle sale e tolto immediatamente dalla cir-colazione.RF: Il film fu sequestrato dal giudice Vittorio Occorsio, poi ucciso da un gruppodi estrema destra. Occorsio ne ordinò il sequestro con una decina di capi d’accu-sa, devo dire davvero assurdi. In realtà il giudice aveva visto in H2S una pelli-cola eversiva di segno politico. Siamo alle spalle del ’69, con i fatti luttuosi diPiazza Fontana, le trame neofasciste, la nascita del terrorismo rosso.Effettivamente il film si chiudeva con il battito di una bomba a orologeria. Maera un finale favolistico, come del resto l’intero impianto della storia. Nulla a chevedere dunque con le trame eversive di allora. Fatto sta che il film venne seque-strato, processato e mai più uscito in pubblico. Non esiste neppure più una copiaintera, perché circa venti minuti, corrispondenti ai capi di imputazione del seque-stro, non esistono più, caduti sotto le forbici della magistratura. Essendo corpi direato, credo che se questi venti minuti ancora esistessero potrebbero essere sol-

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tanto negli scantinati del Palazzo di giustizia a Roma. Non li ho mai cercati per-ché è un’esperienza che preferisco dimenticare.

IS: Dove avevi scelto l’attore protagonista?RF: Denis Gilmore. Lo avevo visto in un film inglese. Come pure l’altro prota-gonista, Lionel Stander, che avevo apprezzato in un film di Roman Polanski, Culde sac. Cerco in Internet per scoprire dov’è finito Gilmore e apprendo che direcente è apparso in un film di successo We Want Sex, mentre Stander, che halavorato anche con Sergio Leone, è scomparso da qualche anno.

IS: Un film assolutamente destrutturato.RF: L’ho appena detto: è il film di una mente spappolata. Intanto ha avuto unaserie di vicissitudini già in produzione. Il capo della Paramount, CharlesBlühdorn, si era invaghito di Escalation che aveva distribuito nel mondo conottimi risultati. Aveva dunque deciso di finanziare il mio secondo film, dandocarta bianca al produttore italiano, Gianni Hecht, senza neppure leggere la sce-neggiatura. Grossolano errore. Sarebbe stato meglio mi avessero fermato, ren-dendosi conto che la sceneggiatura era inconsistente. Fatto sta che per realizzareil film mi sono trovato in mezzo a dei marpioni, che guadagnavano quanto più ilfilm sforava nei tempi di lavorazione. Le parti invernali della sceneggiaturadovevano essere girate su montagne innevate. Alla fine di ottobre ci trasferimmocon tutta la troupe a Courmayeur, in Valle d’Aosta. Solo che la neve non c’era. Iproduttori italiani, invece di cambiare location, decisero di aspettare le nevicate.Passano i giorni, passano le settimane e di neve neanche un fiocco. Con la trou-pe in paga e la cinepresa ferma nel magazzino dell’albergo, credo sia trascorsoun mese intero in attesa della neve. Finalmente arrivò alla fine di novembre. Unavera pazzia. Naturalmente la produzione, non sapendo come giustificare unasimile follia, pensò bene di addossare la responsabilità a me. Come se un registaventicinquenne potesse decidere al posto della produzione di spendere fior dimilioni. La Paramount pagava e quelli si arricchivano. Io intanto, aspettavo,privo del ben dell’intelletto.

IS: H2S ha un apparato scenico sontuosissimo; lampadari d’epoca, costumi ric-chi e sfarzosi…RF: Gianni Polidori, uno dei nostri grandi scenografi, aveva costruito delle sce-nografie avveniristiche, l’unica cosa buona del film. La trama era ispirata adAlice nel paese delle meraviglie, dove Alice era un ragazzo sprovveduto capita-to in una scuola dove regna l’ipertecnologia, la repressione e la ferocia. Un ten-tativo di discorso luddista, ma senza fondamenta.

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IS: La contestazione...RF: Devo dire che io stesso ero stato tra i protagonisti della contestazione ses-santottesca. Pochi mesi prima di iniziare le riprese, ero stato premiato a SaintVincent con la Grolla d’Oro per Escalation e con un gesto per quei tempi cla-moroso l’avevo rifiutata, contestando premi, premiazioni e compagnia bella. H2Scertamente risentiva degli influssi del tempo. Ne era un diretto discendente, masenza spina dorsale. Pensando a quel film, la sola cosa che può avere senso è diosservarlo con la lente del sociologo. Era il perfetto esempio del velleitarismo dicerti contestatori di allora, molti dei quali, avevano scelto la protesta come si dice“without a cause”. Non devo però essere troppo severo con me stesso, né dimen-ticare che una vena anarcoide ha sempre guidato il mio percorso, il che mi è sem-pre costata piuttosto cara. L’Italia non è paese per caratteri troppo individuali. Néper spiriti ribelli. È un paese fatto di clan, di consorterie, di conformismi. Chi nonne fa parte non può che aspirare all’emarginazione. Credo che con Forza Italia!prima, I Viceré poi e ultimamente anche con Silvio Forever tutto ciò sia piutto-sto palese. Tutti film controcorrente che non piacciono all’establishment, aisalotti buoni e a certi circoli intellettuali.

Forza Italia!

IS: Come nacque l’idea del film?RF: Insieme a un gruppetto di cineasti e giornalisti (Marco Tullio Giordana,Marco Bocca, Antonio Padellaro e Carlo Rossella, coordinati dalla produttriceElda Ferri, che è anche la mia compagna e che definire geniale è dire poco) con-cepimmo l’idea di costruire un affresco su trent’anni di potere politico italiano apartire dal dopoguerra. Qualcuno ha detto che si trattava di un film contro la DC.È un errore grossolano, perché noi non prendemmo di mira solo la Democraziacristiana, bensì un intero blocco dirigente, dai democristiani ai socialisti, come sipuò evincere da una delle scene più spettacolari del film, quella cena grottesca alQuirinale in onore di Richard Nixon offerta dal Presidente Giuseppe Saragat,mentre fuori la piazza grida e protesta contro la guerra in Vietnam. Non fu uncaso se tutti i partiti, in primis la Dc, ma anche il Psi e lo stesso Pci, si scaglia-rono contro di noi con una violenza che non ha eguali nella storia del cinema ita-liano. La didascalia in alto al manifesto, Il film che i politici vogliono bruciare,si rivelò purtroppo vero. Forza Italia! non è stato solo il primo film di satira poli-tica, ma anche innovativo sul piano del linguaggio. Per la prima volta fonti diver-se, come brani di repertorio, spezzoni televisivi, filmati, interviste, materiali diarchivio, venivano assemblati insieme per raccontare un terribile trentennio,

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sulla falsariga di quanto insegnano gli storici degli Annales che fanno storia apartire da fonti non tradizionali per raccontare la modernità.

IS: Effettivamente visto con gli occhi di adesso, il film sembra più un film sull’Italia,sul costume che sulla DC. Lasci intendere, supporre, graffi, stuzzichi, mostri inmaniera irriverente dei politici impresentabili, “brutti, sporchi e cattivi”, ma non li“sbatti in prima pagina”… È un film anche gustoso e non è “militante”…RF: Le immagini parlano da sé. Il film fu davvero di rottura: fino allora non sierano mai visti gli uomini politici in carne e ossa sullo schermo cinematografi-co, portati in primo piano nella loro miseria e scompostezza. Adesso li vediamotutti i giorni a “Blob” o a “Striscia la notizia”, che in un certo senso molto hannomutuato proprio da Forza Italia!, specie quanto a stile e tecniche di montaggio.Allora l’esito della nostra pellicola fu talmente prorompente da provocare unareazione che noi stessi non avevamo immaginato. Da una parte il pubblico accor-se in massa a vedere il film, presagendo che potesse essere presto tolto dalla cir-colazione. Il che avvenne poi puntualmente dopo sessanta giorni dalla primauscita in pubblico. Pensa che solo a Roma incassò più di Qualcuno volò sul nidodel cuculo, con Jack Nicholson, premiato con una valanga di Oscar. Dall’altraparte tutti i giorni io e i due sceneggiatori (Padellaro allora scriveva sul “Corrieredella Sera”, mentre Rossella lavorava a “Panorama”) venivamo attaccati sul gior-nale della Dc “Il Popolo”, sul settimanale “La Discussione”, ma anche su“L’Avanti” e persino su “l’Unità”. Arrivarono persino a scrivere che il nostrofilm era parente delle Brigate rosse, una cosa allucinante. Il rapporto conflittua-le che ho maturato con la critica italiana è nato proprio in quell’occasione.Mentre i critici hanno difeso, giustamente, tutti i film censurati, da L’ultimotango a Parigi alle pellicole di Tinto Brass, nessuno di loro ha scritto una riga sulsequestro di Forza Italia! Salvo citarlo per lo più a sproposito quando è uscitoSilvio Forever, molti secondo me senza averlo davvero visto.

IS: Ma Forza Italia! non è stato sequestrato?RF: Il film è stato tolto dalla circolazione la sera stessa del sequestro Moro daparte delle Brigate rosse il 16 marzo del 1978. Non si è trattato di una censuraufficiale, quanto piuttosto di un “sequestro bianco”. Molto probabilmente è suc-cesso che sia gli esercenti delle sale in cui il film era proiettato che le varie pre-fetture hanno avvertito il bisogno di ritirarlo dalla circolazione. Posso anchecapirlo. Vedere il manifesto in cui campeggiava la figura di Aldo Moro e sapereche con i suoi colleghi di partito era tra i protagonisti della nostra satira potevaessere shoccante. Sta di fatto che per circa vent’anni il film non è più tornato incircolazione. Lo si è potuto rivedere solo nel 1993 grazie a Giancarlo

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Santalmassi, che ha osato programmarlo una domenica pomeriggio su Rai3 sfi-dando le ire della direzione Rai. Durante la messa in onda, il centralino della Raiandò in tilt per le centinaia di telefonate, la maggior parte di plauso. Non si eramai vista una beffa del potere così crudele in televisione. Il giorno dopo la DIA sirecò in Rai e chiese di “sequestrare” il film, questa volta con fini non censori, per-ché voleva verificare se Giulio Andreotti, uno dei protagonisti di Forza Italia!,fosse stato inquadrato, durante una visita in Sicilia, a fianco di esponenti mafiosi.Il film è stato di nuovo dimenticato sino a pochi anni fa, quando prima MedusaVideo e poi la RCS lo hanno rimesso in circolazione sotto forma di dvd. La RCSlo ha fatto uscire insieme a un libretto che ne descriveva tutte le vicissitudini subi-te nel corso di oltre trent’anni, con la prefazione di Gian Antonio Stella.

IS: Ripensando a quel periodo, a quei giorni terribili del sequestro Moro, far cir-colare quel film poteva sembrare…RF: Offensivo per Moro…

IS: Destabilizzante per lo Stato, un appoggio alle BR...RF: Infatti ci hanno accusati anche di quello. Ma era una sciocchezza.

IS: Sei capitato in una situazione storica dove quel film non poteva più circola-re per ragioni obiettive… In quei giorni non si sapeva lo Stato italiano che finefaceva... C’era anche il timore che dopo Moro avrebbero, che so, sequestratoPertini o Zaccagnini. C’era il PCI, accusato di aver sempre mantenuto una posi-zione troppo morbida nei confronti della sinistra extraparlamentare… In Cilec’era stato Pinochet, in Italia non si era ancora sopito l’eco relativo al casoSogno, al generale De Lorenzo e al golpe poi rientrato... RF: Sarebbe vero se gli attacchi al film fossero arrivati in seguito al sequestrodelle BR, invece erano stati mossi già all’indomani dell’uscita in sala. Resta ilfatto che dopo gli osanna scritti da tutta la critica italiana, non uno di loro scris-se più una riga per spiegare al pubblico le ragioni della sua scomparsa. Gli uniciche ne parlarono con un certo stupore furono i giornali stranieri, dal francese“l’Express” al “Wall Street Journal” americano, che ne scrisse diffusamente inprima pagina. Una cosa simile non era mai successa. Credo che il dovere di cro-naca implichi rivelare o per lo meno spiegare, non omettere.

IS: Dopo che successe? RF: La cosa più grottesca di tutte, al limite dell’incredibile, fu che dopo l’unicoa difendere il film fu lo stesso Aldo Moro! Quando due anni dopo la sua mortevenne ritrovato nel covo di Via Monte Nevoso a Milano il memoriale autografo

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scritto di suo pugno, nelle ultime pagine si legge che proprio lui suggerisce divisionare Forza Italia! per rendersi conto della spregiudicatezza dei compagni dipartito. Sembra un gioco dell’assurdo: il film viene ritirato per rispetto a Moro,mentre Moro stesso suggerisce di andare a vederlo.

IS: Polemiche storiche a parte, il tuo film, rivisto oggi a distanza di tanti anni,sembra più uno sberleffo che un vero e proprio attacco alla DC.RF:. Ripeto: non era un film contro la DC, ma sulla degenerazione politica delpaese, su un certo tipo di potere ormai allo sfascio. Viene fuori una banda digente impresentabile. Aldo Moro chiese all’allora direttore de “La Repubblica”,Eugenio Scalfari, di ritirare il “tamburino”, cioè la sintesi della critica, estrema-mente lusinghiera scritta da Tullio Kezich. Una delle recensioni più acute la feceFortebraccio su “l’Unità”, usando il termine “antropologico” per descrivere ilvalore del film. Come ti dicevo, mentre la base del Pci accolse il film come unatto di liberazione, i vertici lo attaccarono non meno dei democristiani. Nondimentichiamo che proprio in quell’anno si stava concretizzando il progetto delcompromesso storico e dunque il Pci aveva tutto l’interesse a non infierire sulpartner del nuovo matrimonio, la Dc. Oltre a Fortebraccio, che peraltro ci avevaanche aiutati a raccogliere materiali sulla Dc, lui che un tempo era stato demo-cristiano, “l’Unità” arrivò all’assurdo di pubblicare due recensioni, una l’oppo-sto dell’altra. La prima, firmata da Ugo Casiraghi, uno dei nostri grandi critici,definì Forza Italia! una pietra miliare nella storia del cinema. Il giorno dopo, daRoma, Aggeo Savioli scrisse invece che era un film fascista. Detto da uno stali-nista ha il valore di un cruciverba. Da quel giorno “l’Unità” ha preso ad attac-carci non meno de “Il Popolo”. Maurizio Costanzo, che aveva programmato lamessa in onda di alcuni pezzi del film nell’ambito di Bontà loro con una intervi-sta a me, fu chiamato due ore prima della trasmissione e fu obbligato a cancel-larci. Scrisse poi che fu l’unico caso della sua vita in cui subì una censura.

IS: Quali altre critiche ti furono mosse?RF: Che nel film manca l’opposizione, ovvero la sinistra. In realtà mancava per-ché già allora cominciava a non essere più tale. L’idea del compromesso storico,che in parole povere significava mettere d’accordo maggioranza e opposizione,è a mio avviso quanto di più antidemocratico si possa immaginare. E difatti sisono visti i risultati…

IS: Di chi era l’idea per il manifesto con la scritta “Il film che i politici voglio-no bruciare”...RF: Fu un’idea di Marco Tullio Giordana, che ne aveva parlato con un pittore

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specializzato in cartelloni. Fu preso il quadro di Rembrandt, Lezione di anatomiae al posto del volto del cadavere furono messi i colori della bandiera italiana, conattorno i chirurghi di Rembrandt, ma con il volto dei nostri politici sorridenti. Incima al manifesto c’era Giulio Andreotti con un gran cappello nero e un paio dipinze in mano aperte sul corpo del cadavere. Più in alto ancora, campeggiavaAldo Moro, pensieroso. Il manifesto venne bloccato per una decina di giorni traquestura e Procura di Roma, pare per una denuncia anonima, poi per fortuna ladenuncia fu archiviata.

IS: Dove lo proiettasti per la prima volta?RF: Prima di uscire nelle sale ci fu un’anteprima a Firenze nel dicembre 1977 alFestival dei Popoli. Venne proiettato in un auditorium alla presenza di circa due-mila persone, per lo più giovani. Appena sullo schermo comparvero i titoli ditesta, “con la partecipazione straordinaria di”, ovvero dei nostri politici, ci fuun primo applauso. Poi fu un trionfo di risate e battimani continui. Il distributo-re allora decise di stampare una quindicina di copie e di uscire in una decina dicittà capoluogo. In pochi giorni le copie diventarono un centinaio e gli incassi delbox office crebbero in misura esponenziale.

IS: E la telefonata di Donat Cattin…RF: Era autentica, anche se qualcuno ci accusò di averla doppiata. Nessuno sacome potesse accadere che fosse stata registrata una conversazione telefonicacosì privata tra un ministro e il Presidente del consiglio. Allora non si parlavaancora di intercettazioni. Lo stesso Donat Cattin ci chiese di togliere la telefona-ta dal film, cosa che anche volendo ormai non potevamo più fare.

IS: Al di là delle polemiche, credo che quello che resterà del film risiedono inalcune tue dichiarazioni di allora e che testimoniano l’originalità culturale del-l’operazione. Cito da una tua intervista: “Forza Italia! non è un solo film dimontaggio, come si pensa. È un film in cui i materiali che abbiamo reperito, il90% circa, erano stati girati da altri, mentre una minima percentuale è stata gira-ta da noi stessi. È semplicemente un preconcetto, un pregiudizio pensare chel’informazione originale sia l’informazione vergine. L’informazione tout-court èsempre elaborata. Per cui che io giri il mio film o che prenda dei materiali giàgirati, che poi comunque verranno rielaborati, è esattamente la stessa cosa. Eranofilmati e spezzoni ripescati negli archivi dell’Istituto Luce o delle principali tele-visioni europee... ripeto: un’opera cinematograficamente innovativa sotto il pro-filo del linguaggio. L’idea era appunto di impiegare brani di materiali ‘morti’,cioè consegnati al passato, per rivitalizzarli, ovvero portarli a nuova vita nel ten-

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tativo di costruire un inedito affresco dell’Italia, una cavalcata irriverente neimeandri del potere”.RF: Devo aggiungere a proposito di questa citazione, che ho appena letto diGeorge Lucas, che intende comprare i diritti d’immagine di alcuni attori defuntie farci un film. È la stessa idea di cui sopra.

IS: Un’operazione che ha fatto per certi versi, alcuni anni, Bob Reiner con Ilmistero del cadavere scomparso con Steve Martin…RF: Il mio sogno sarebbe quello di fare un film con Marilyn Monroe. Secondome questo potenziale del cinema, riportare alla vita ciò che è morto, non è statoancora sperimentato a fondo. In futuro, grazie alle nuove tecnologie, queste ope-razioni saranno all’ordine del giorno. Sarà stupendo dare vita a personaggi chenon ci sono più e rivederli vivere di fronte a noi.

Si salvi chi vuole

IS: Come è nata l’idea del film?RF: L’abbiamo realizzato contando sulla legge di finanziamento dell’Articolo28. Avevamo fatto le domande per il finanziamento del film prima ancora che siabbattesse su di me l’onda censoria di Forza Italia! Si trattava di una storia sul-l’imborghesimento del Partito Comunista Italiano, che ha acuito ancor di più lamia “impoliticità”. Prima avevamo attaccato la Dc, adesso era la volta del Pci.Credo che più incosciente di così non si potesse essere, in un paese dove questedue chiese esercitavano sul paese un dominio pressoché assoluto, soprattutto inambito culturale. E difatti ho pagato questa incoscienza col fatto che pratica-mente per vent’anni non ho più potuto realizzare film italiani. Dal 1978 al 1997ho diretto solo film stranieri. Il mio primo film italiano dopo Si salvi chi vuole èinfatti Marianna Ucria, appunto del 1997.

IS: Si salvi chi vuole non è più in circolazione da tempo...RF: Non è in circolazione perché l’ha prodotto la Titanus di Goffredo Lombardo,che ha cambiato connotazione, passando dal cinema alla televisione. Si troveràuna copia certamente in cineteca. Il film è un pò il pendant di Forza Italia! Lìc’era il ritratto della DC, qui compare un deputato del Pci di Bologna, al centrodi una famiglia sgangherata. Nel contesto entra un personaggio “eversivo”, ilfidanzato della figlia adolescente del deputato, che mette il coltello nella piaga diuna evidente caduta di valori e di ideali. Una storia interessante, anche se realiz-zata solo a tratti.

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IS: La scelta di Claudia Cardinale, in un ruolo se vogliamo insolito rispetto aquelli che aveva interpretato fino ad allora?RF: Il nome della Cardinale l’aveva proposto Lombardo. Con lei aveva prodot-to Il Gattopardo di Visconti mettendola al fianco di Alain Delon. Si salvi chivuole è anche stato il mio omaggio al regista anarchico francese Jean Vigo, l’u-nico cineasta con cui mi identifico in pieno. Il finale con i cuscini lanciati in ariache devastano il salotto del deputato, le piume che volano al rallentatore, i ragaz-zi che fanno baldoria in sua assenza… si ispirano allo splendido finale di Zerode conduite di Vigo. Non a caso la società di produzione che dal 1978 ha pro-dotto tutti i miei film si chiama appunto Jean Vigo. Anche quella è una pellicolacon parecchie ingenuità e certe asperità. A parte i limiti di struttura e di sceneg-giatura, l’idea di mettersi contro i due moloch di questo paese, democristiani ecomunisti, era di per sé un’azione suicida. E infatti...

IS: Il rischio è l’accusa di qualunquismo….RF: Chiamalo qualunquismo se vuoi, come direbbe Lucio Battisti. Ripeto la miaconvinzione di sempre: l’immobilismo del nostro paese è dovuto proprio allacombinazione di queste due potenze, la cui associazione non consente margini didissenso. Lo stesso mondo della cultura ne ha sofferto e ne continua a soffrire.Non sarà un caso se in Italia si producono così poche opere coraggiose sia alcinema che in letteratura.

IS: C’erano allora delle condizioni storiche diverse rispetto a oggi e delle spie-gazioni sul perché il partito di maggioranza e quello di opposizione erano diven-tati chiese…RF: Sì, ma anche oggi non manca la marginalizzazione di chi non ha un pensie-ro omogeneizzato. Certo godiamo di una maggiore e ben più diffusa libertà diinformazione. Ma guarda cosa ci propina ogni giorno la televisione…

IS: Fu un film che incassò, piacque alla destra, alla DC?RF: Non andò male, ma neanche bene. Certo non ebbe il successo di ForzaItalia! E non mi sembra che sia neppure mai passato in televisione.

IS: Oggi un film così non lo finanzierebbe più nessuno.RF: Le ragioni per cui il cinema italiano, secondo me è così debole, è perché nonci sono finanziamenti adeguati e soprattutto “liberi”. Il disagio del nostro cinemadipende dal fatto che deriva in gran parte dal finanziamento pubblico, vuoi difonte televisiva o ministeriale. In America se fai i soldi puoi dire qualsiasi cosa.Michel Moore in Italia non credo proprio che potrebbe operare. Te lo immagini

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un regista italiano che fa un film contro il Presidente della Repubblica o controil Papa? È vero che Sabina Guzzanti ha fatto dei film coraggiosi, ma li hai maivisti in televisione?

IS: In Italia Sandro Tummolini ha diretto un film Un altro pianeta che è costatomille euro. Hanno recitato tutti gratis, dagli attori ai fonici…RF: Con mille euro non ci compri manco la pellicola…. Ma va bene, poi chi lodistribuisce?

IS: Non ci sono i soldi per i passaggi televisivi e per quelli per i canali a paga-mento?RF: Di solito SKY paga i film in base al box office sala. Se incassi che so 100,SKY ti paga il film 2 e così via. Quanto ti va bene, ma devi incassare molto insala, arrivi a quattrocento-cinquecentomila euro per i diritti ceduti. Vuoi saperecome un film italiano viene finanziato? Supponiamo costi tre milioni. Un milio-ne te lo dà il Ministero (se ha i fondi, cosa che oggi appare sempre meno proba-bile), un milione circa te lo dà la televisione (che compra il film a fronte dei dirit-ti antenna), il resto può venire dai vari meccanismi di detassazione, dall’homevideo, da SKY, etc. Insomma devi faticare parecchio per racimolare quanto tiserve a produrre. Oggi poi queste cifre vanno sensibilmente diminuendo, solo inparte sostituite dai benefici del tax credit. Ovviamente questo discorso non valeper quel pugno di film, per lo più dei comici, che partono sicuri al botteghino.Ma si tratta di cinque sei film all’anno, quando va bene. In realtà questo sistemadi finanziamenti, fortemente centralizzato (due sole concentrazioni televisive edue sole grandi distributrici nazionali costituiscono un regime di duopolio), fa sìche esista una forma di autocensura già prima di immaginare il film che vuoi rea-lizzare. Parlo di autocensura perché gli autori e i produttori sanno che certe sto-rie non le possono raccontare, pena di non accedere ai fondi dello stato o dellereti televisive. Il divo fa eccezione. Fare un film su un politico vivente, anche sefuori dai giochi come Andreotti, comporta comunque del coraggio. Infatti hannorischiato per realizzarlo e la televisione, ad eccezione de La7, a tutt’oggi non loha comprato. Se questi sono i meccanismi produttivi, il problema non è più lacensura, ma l’autocensura. L’autore conosce ciò che non è gradito allo Stato oalla televisione e dunque non lo propone perché verrebbe bocciato. In Franciainvece c’è un sistema finanziario molto indipendente. Già trent’anni fa i france-si hanno messo in piedi una serie di finanziamenti di tipo pubblico gestiti in asso-luta autonomia dal cinema, senza favoritismi o clientelismi. In Italia i politicihanno pensato bene di istituire un sistema rigido di controllo. La verità è chequando non c’è autonomia finanziaria non c’è neppure libertà.

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IS: Come mai nel film compare il prof. Celli nel ruolo di psicologo?RF: Abbiamo girato il film a Bologna e in quell’occasione ho conosciuto GiorgioCelli, un personaggio pieno di forza vitale e senso dell’ironia. Mi sembrò perfet-to per quel ruolo.

Copkiller

IS: Come hai scovato Hugh Fleetwood, un autore in Italia abbastanza scono-sciuto?RF: Dopo Forza Italia! mi sono trovato in una situazione di non poter più lavo-rare in Italia. Il film suscitò una reazione talmente virulenta da parte sia del pote-re politico che televisivo da non lasciarmi spazio per trovare finanziamenti e rea-lizzare nuovi progetti. Diciamo che mi sono ingegnato e ho dovuto far di neces-sità virtù. Non potendo lavorare in Italia, ho cominciato a cercare soggetti dagirare all’estero. Conoscevo Fleetwood, un giovane scrittore inglese, perchèinsegnava a Roma. Si era fatto vivo con la nostra casa di produzione per propor-ci un altro romanzo molto interessante, ambientato tra l’Italia e l’Inghilterra.Titolo: The Girl Who Passed for Normal. Poi leggemmo un altro suo romanzoThe Order of Death e piacque parecchio a tutto il nostro gruppo. Intanto mi sem-brava un buon noir, mi attirava l’idea di cimentarmi con un tipo di film moltodiverso da quelli fatti sinora. A tutto ciò aggiungi che, avendo vissuto alcuni anniin America (ho insegnato dal 1969 al 1973 al Federal City College di Washington,D.C.), la proposta di girare il mio primo film americano non poteva che conqui-starmi. Il fatto che fosse ambientato fuori dall’Italia, nella fattispecie a New York,avrebbe inoltre permesso di scavalcare la condizione censoria. Un buon progettoper uscire dall’impasse nella quale ero scivolato mio malgrado.

IS: Con questo film ti cimenti per la prima volta su un thriller. Non sposi perògli stilemi e i codici iconografici del genere, ma sembri più interessato alla sto-ria che al modo con cui illustrarla. Non costruisci un percorso visivo, tipico delthriller e mostri l’assassino nelle prime battute...RF: Questa storia del genere... A parte che non ho mai capito cosa significhi dav-vero. Non credo di aver mirato a un genere preciso. Ho semplicemente raccon-tato una storia con delle parti oscure, in parte drammatica, in parte dominata daun plot pieno di mistero.

IS: È certamente il film più cupo, malsano, senza speranza che hai diretto nellatua carriera. I protagonisti sono fortemente disturbati e autodistruttivi... Per

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amplificare l’effetto claustrofobico hai girato questa specie di incubo dai risvol-ti ossessivi nell’appartamento di Fred. Come mai è vuoto e non è abitato?RF: Perché i due poliziotti l’hanno comprato come investimento. Poi uno dei duecomincia a vederlo come un rifugio dal senso di colpa. Allora il loro sodaliziocomincia a incrinarsi. È abbastanza tipico dei poliziotti corrotti di New Yorkinvestire in attività immobiliari. Comprano e rivendono cinque anni dopo gua-dagnando un bel pacco di quattrini.

IS: Come mai Leo per mesi si mette sulle tracce di Fred, il poliziotto corrotto, lopunta, lo spia? Se Fred è un poliziotto “corrotto”, “cattivo” e “senza scrupoli”,quando comprende che il ragazzo vuole incastrarlo, perché non si sbarazza dilui? Trovo poi confusiva la relazione omosessuale tra Fred e Bob...RF: Relazione omosessuale? Mai pensato a qualcosa del genere. Devo però direche spesso a noi registi manca il “terzo” occhio, quello dello spettatore. Se tu haivisto nella loro relazione qualcosa di torbido, vorrà dire che dei segnali ci sono.

IS: Ma è la stessa Nicole Garcia che lo esplicita a Fred e glielo chiede…RF: Lei glielo chiede perché non si spiega come mai i due poliziotti, Fred e Bob,sono così uniti. Ovviamente nulla sa dell’appartamento, né della loro corruzione.Ripeto: tieni presente che quello che pensa il regista non sempre è quello che pensalo spettatore. Le obiezioni che fai con il senno di poi mi sembrano aver senso. Èvero, quadrano. Non si capisce perché il ragazzo abbia puntato il poliziotto. Dovelo ha scovato? Come fa sapere dell’appartamento segreto? Non so rispondere. Èprobabile che nel film ci siano dei punti neri. Perché no? Nulla è perfetto.

IS: È un film totalmente al maschile...RF: Direi di sì. Le poche donne presenti sono piuttosto secondarie rispetto ai dueprotagonisti. Qui devo aprire una parentesi sulla mia stessa psicologia, ammessoche la conosca davvero. Questa nota ha a che vedere con il rapporto relativo aipersonaggi femminili, ma non solo. Diciamo subito che il mio percorso cinema-tografico è tutto meno che lineare. Nel cinema ci sono autori che raramente sban-dano dalla propria strada, vedi Fellini, Antonioni, Visconti, tanto per fare qual-che nome. E ci sono registi che procedono a zig zag, ovvero che fanno film moltodiversi uno dall’altro. Penso a Stanley Kubrick, che passa dal dramma alla com-media, al grottesco, al noir, al film in costume. Ecco, senza volermi paragonarea maestri simili, appartengo a questa seconda scuola. Procedo sulla retta storta,se mi è consentito un ossimoro. Posso spiegare questa mia forma mentale citan-do il brano iniziale de I Viceré (nella versione delle due puntate tv, diversa daquella della versione per il cinema), quando il protagonista, per definire la sua

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psicologia, dice che sente un tumulto dentro di sé, come se in lui convivesseropiù persone in conflitto tra di loro. In questo viaggiare zigzagando, compierescelte spesso contraddittorie, può accadere che nei miei film una volta le figurefemminili siano marginali e un’altra volta appaiano invece dominanti e centrali.Devo dire che questa mia tendenza a svicolare e a sbandare probabilmente costi-tuisce la ragione per cui una certa critica mi osserva con sospetto. Quando di unapersona non si capiscono bene i contorni, è inevitabile che nasca la diffidenza, senon il rifiuto. Tu hai fatto questa sottolineatura sulla dominanza maschile diCopkiller. Hai ragione. La tua osservazione mi fa distinguere almeno due perio-di che attraversano il mio lavoro. Come nel campo della pittura, anche i film pos-sono appartenere a periodi diversi, a volte addirittura contrastanti.Effettivamente, guardando ai film che ho diretto nel corso di questi anni, le figu-re femminili passano da una connotazione quasi misogina (è il caso di Escalatione H2S) a una presenza dominante. Vedi Prendimi l’anima oppure I giorni del-l’abbandono, oppure ancora Marianna Ucria, tutte pellicole dove le donne emer-gono come protagoniste assolute e i maschi appaiono deboli, meschini, subordi-nati, incapaci di passioni. Come dice Sabina in Mio caro Dr. Gräsler, uominiincapaci d’amare. Questa dicotomia nei confronti della donna è ben presente intutto il cinema italiano. Sino a Riso amaro di Giuseppe De Santis possiamo affer-mare che la donna è più che altro un corollario. Con De Santis la donna del cine-ma italiano spezza le sue catene e comincia un percorso da protagonista. Ma poinella commedia all’italiana, dove dominano i mattatori maschi, da Sordi aGassman a Tognazzi, torna secondaria e ancillare. Lo stesso Marco Ferreri in unprimo periodo fa un cinema piuttosto misogino, per poi cambiare radicalmenterotta. E anche Fellini nella sua immaginazione visionaria identifica la donnacome un oggetto di desiderio, distante, irraggiungibile. Vedi Anita Ekberg, chescivola via di continuo ne La dolce vita. Ho fatto questa digressione per chiarireil senso della contraddizione presente nel mio cinema. Volendo dare una data alcambiamento di percorso, la situerei verso il 1990 quando realizzo Mio caro Dr.Gräsler e poi soprattutto qualche anno dopo, quando passo a dirigere Jona chevisse nella balena, con quello stupendo personaggio che è la madre di Jona, laquale aspetta di mettere in salvo la sua creatura e subito dopo impazzisce.

IS: Come sei giunto alla scelta di Harvey Keitel?RF: È un attore forse più amato in Europa che in America. Mi aveva molto col-pito ne La morte in diretta di Bertrand Tavernier. Ricordo ancora che ho vistoquel film al cinema Metropolitan di Roma insieme alla mia produttrice Elda Ferrie subito abbiamo trovato in lui l’interprete ideale per Copkiller. Siamo riusciti acontattarlo, gli è piaciuta la storia, siamo volati a New York per incontrarlo.

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Lavorare con lui non è stato facile. Keitel appartiene a quella categoria di attoriche seguono il metodo dell’Actors Studio. Oggi ne è co-presidente insieme ad AlPacino e Ellen Burstyn (quest’ultima è tra i protagonisti del film al quale stolavorando ora, ispirato al romanzo di Peter Cameron, Un giorno questo dolore tisarà utile). Nell’Actors Studio ci sono due tipi di attori: uno è ortodosso, usa ilmetodo e da quello non deroga. Poi ci sono quelli che credono nel metodo, masono più elastici. Harvey appartiene al primo tipo. Per esempio, dovendo inter-pretare il ruolo di un poliziotto, è stato parecchi mesi in un distretto di polizia a“imparare” la parte. Entrare in un ruolo a partire dalla realtà è alla base del meto-do. Harvey usciva in pattuglia con i veri poliziotti e alla fine era quasi diventatouno di loro. Al punto che sul set si sarebbe sentito davvero poliziotto solo seavesse avuto la pistola con il corpo in canna. Per un regista il problema di lavo-rare con questo genere di attori è che ti chiedono in continuazione spiegazione sututto, anche sui minimi particolari. Vuoi che vadano dal salotto alla finestra? Bene,loro vogliono sapere perché. Magari tu hai deciso così solo perché è comodo perla macchina da presa. Se non sai dargli una spiegazione razionale, quelli non simuovono. Tutto ciò pone il regista in una posizione “scomoda”. Devi trovare atutto una spiegazione, una motivazione, una ragione. E non è facile. Tanta era lamia preoccupazione, il nervosismo e le mie crisi d’ansia sul set, che quando ho fini-to di girare il film avevo perso i capelli. Essere attore “Actors Studio” comportaqualche problema anche per gli attori che lavorano al suo fianco e che non seguo-no lo stesso metodo. Sia Nicole Garcia che Sylvia Sidney, le altre interpreti diCopkiller si irritavano quando Harvey si impuntava su qualcosa o durante le este-nuanti discussioni con me. Un giorno la Sydney, un mito della Hollywood del pas-sato (era stata la protagonista di Fury diretto da Fritz Lang e di Sabotage diretto daAlfred Hitchcock), prese in disparte Keitel e con il sarcasmo di cui era capace glichiese a bruciapelo: “senti un pò Harvey, ma secondo te se devo interpretare ilruolo di una puttana dovrei prima andare a battere sul marciapiede”?

IS: E la scelta di Johnny Rotten?RF: John Lydon, più noto come Johnny Rotten, il fondatore dei Sex Pistols insie-me a Sid Vicious, fu la vera rivelazione del film. Keitel mi aveva presentato aBonnie Timmermann, “casting director” di molto film famosi (oggi è anche pro-duttrice). Aveva accettato di aiutarci nella scelta degli attori che mancavano acompletare il cast. Devo dire che prima di allora non sapevo neppure che cosafosse il cast director. Da noi questo genere di lavoro lo faceva di solito lo stessoregista insieme al suo aiuto. In America invece, dove gli attori sono a migliaia,la figura esisteva già da tempo e nessun film poteva farne a meno. Fatto sta cheBonnie, letto il copione, propose subito Johnny Rotten, di cui io ignoravo l’esi-

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stenza, non essendo mai stato un patito di quel genere di cantanti. Le chiesi per-ché aveva pensato al leader dei punk. Rispose che era perfetto per il ruolo: unribelle, un irregolare, un ragazzo che non usciva di casa e trascorreva le ore aguardare la televisione. Rotten era l’idolo di una folla di giovani e aveva fama dipersonaggio intrattabile. In passato gli avevano proposto vari ruoli che lui avevasempre rifiutato. Per cui parve improbabile che volesse accettare ora con un regi-sta italiano sconosciuto. Invece si innamorò del suo ruolo, anzi disse che eratagliato su misura per lui e accettò senza indugio. A quel punto nacque un primoproblema: le compagnie si rifiutavano di assicurarlo durante la lavorazione delfilm. Il suo compagno della band, Sid Vicious, si era appena suicidato con la suacompagna in una stanza del Chelsea Hotel di New York (dove tra l’altro allog-giavo proprio io) e le assicurazioni temevano che Rotten potesse fare chissà cosa.Una banda di drogati, questo pensavano. Decidemmo di dare fiducia a Johnny einiziammo lo stesso il film senza copertura assicurativa. Il che per le regole diuna produzione è cosa del tutto inconsueta, parecchio rischiosa. Rotten ripagò lafiducia con una condotta esemplare. Si dimostrò un ragazzo intelligentissimo,pieno d’ironia e di sarcasmo. Sul set non ha mai creato dei problemi, non ha maidisertato una sessione, mai arrivato in ritardo. Un solo neo: ruttare in continua-zione forse per la troppa birra che ingoiava. Una sera fummo invitati a cena daMartin Scorsese (grande amico di Keitel, con cui aveva girato sia Mean Streetsche Taxi Driver) e portammo con noi anche Rotten. So che in seguito Scorsesepropose un ruolo a Johnny ma, incredibile a dirsi, lui rifiutò. Copkiller (questo iltitolo italiano, mentre in America è uscito come Corrupt e in Inghilterra con lostesso titolo del romanzo cui è ispirato, Order of Death) ebbe una notevole dif-fusione in tutto il mondo, specie in America, Inghilterra e soprattutto Germania.Poca visibilità ebbe invece da noi, perché la società che lo distribuiva qui, laGaumont Italia allora guidata da Renzo Rossellini aveva appena chiuso i batten-ti, lasciando il cinema italiano in crisi (come al solito). Ancora oggi il film è rite-nuto una specie di cult, soprattutto per la presenza di Keitel, ma forse ancor piùdi Rotten, che continua a essere molto amato dai giovani. Devo aggiungere cheho girato Copkiller a New York tra il 1982 e il 1983. Che differenza tra l’Americadi allora e quella di oggi! Il mio secondo film americano l’ho appena finito digirare e siamo tra il 2010 e il 2011. Allora sedeva alla Casa Bianca il repubbli-cano Ronald Reagan. Oggi siede il democratico Obama. Allora l’America era unpaese in piena espansione economica, oggi batte in ritirata. Allora la Cina eradavvero distante e l’America poteva guardarla con sufficienza dall’alto della suasupremazia. Oggi la Cina possiede l’intero debito degli americani, che se nonstanno attenti rischiano di fallire. Durante la lavorazione di Copkiller ho ancheavuto il mio primo incontro-scontro con i sindacati americani. Fortissimi nel

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difendere i loro associati, ma durissimi nell’escludere i precari, sono una verapiaga per una produzione straniera non abituata a una miriade di regole e divietiai quali in Europa non siamo abituati. Nel corso degli anni sono diventati anco-ra più restrittivi. Ne parlo per esteso nel diario americano in fondo a questo libro.

IS: La scelta di Silvia Sidney...RF: Ho sempre avuto l’ambizione di avere nei miei film i divi del passato. LaSidney era una specie di monumento del cinema di Hollywood, avendo fatto laprotagonista con registi del calibro di Alfred Hitchcock e Fritz Lang. La stessaambizione che ho cercato di appagare nel film americano al quale sto lavorandoora. Anche in questo caso si è trattato di scegliere una grande vecchia. Sono statoincerto tra Lauren Bacall e Ellen Burstyn. Io avrei scelto la Bacall, il cui agenteletto il copione ci ha subito chiamato entusiasta. Poi la mia casting director, AvyKaufman, si è battuta per la Burstyn. La trovava più giusta per il personaggio. Emi ha convinto.

IS: Per Copkiller ha lavorato alla sceneggiatura Ennio De Concini, uno deglisceneggiatori più prolifici del cinema italiano, premio Oscar con Divorzio all’i-taliana di Pietro Germi. Spesso i registi lavorano in coppia per anni con lo stes-so sceneggiatore; Zavattini e De Sica, Age & Scarpelli con Monicelli, Ugo Pirroed Elio Petri. Tu ti sei sempre affidato a numerosi scrittori e sceneggiatori: daFleeetwood a Tabucchi, ad Andrea Porporati a Giampiero Rigosi ai fratelliGentili a Sandro Petraglia...RF: La verità è che in Italia, fino alla fine degli anni Settanta abbiamo avuto dav-vero dei grandi sceneggiatori. La generazione dei Suso Cecchi d’Amico, RodolfoSonego, Ennio Flaiano, Tonino Guerra… si sono praticamente esauriti con l’e-poca di Visconti e di Fellini. Credo sia questa la ragione per cui a partire dagliAnni Ottanta pochissimi nostri film hanno avuto una sceneggiatura degna di queimaestri. I nostri film cosiddetti d’autore sono quasi sempre scritti dal regista,magari associato a qualche sceneggiatore. Cosa che non capita quasi mai inAmerica, dove la scrittura per il cinema è un mestiere praticato dal fior fiore discrittori. Quando un regista si mette in testa di scrivere anche il copione a mioavviso cominciano i guai. E infatti passando le nostre pellicole alla radiografia,appaiono per lo più carenti sia dal punto di vista drammaturgico che, soprattutto,nei dialoghi. Se metti a confronto un nostro copione con uno americano ti accor-gi della loro abilità nello scrivere i dialoghi e della nostra debolezza. Là il dialo-go è una lingua parlata, immediata, come la senti parlare ogni giorno al bar, inufficio, a casa, per la strada. Da noi hanno la pesantezza della letteratura, sannodi scritto a tavolino, se non di bizantinismo o peggio di fumisteria. Geni del cine-

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ma come Fellini, Visconti, Antonioni, Leone, Germi… partecipavano alla scrit-tura del copione, ma non scrivevano. A scrivere erano Tonino Guerra, SusoCecchi d’Amico, Enrico Medioli, la coppia Benvenuti e De Bernardi, lo stesso DeConcini... Poi siamo venuti noi, qualche generazione dopo. E abbiamo comincia-to a voler scrivere da soli o al più con qualche collaboratore. Da una parte, secon-do me, la nostra pretesa “autorialità” ha reso più debole l’impianto drammaturgi-co dei film, dall’altra ha fatto sì che molti scrittori di cinema si siano rivolti altro-ve: alla televisione, oppure a firmare racconti e romanzi. La televisione li pagavameglio e più a lungo, specie per le serialità. E la letteratura gli procurava quel pre-stigio che non si acquista con le sceneggiature. Questo venir meno di una prezio-sa collaborazione tra due professioni tanto diverse, scrivere e dirigere, ha indebo-lito la nostra produzione. L’ha resa più monoteista (il dio regista), meno aperta allarealtà. Inoltre il rarefarsi della categoria di sceneggiatori di cinema ha fatto sì chequelli bravi siano sempre di meno e quando un regista si accorge che non può far-cela da solo non sa più a chi rivolgersi. Io stesso, quando devo progettare un film,non so mai chi chiamare. Così spesso mi arrangio da solo, salvo poi invitare a col-laborare quei pochi che trovi liberi. Oggi i bravi li contiamo sulle dita di unamano. Una volta erano decine, uno più abile dell’altro. Prendiamo il caso diHereafter, di Clint Eastwood. Ogni volta che vedo un suo film, mi chiedo comeha fatto un ex attore cowboy a diventare un genio del cinema. La sceneggiatura diHereafter, film stupendo, è un capolavoro di perfezione, scritta dallo sceneggia-tore drammaturgo britannico Peter Morgan. Ecco ditemi: dove lo troviamo inItalia uno sceneggiatore così? Se ci fosse lo scritturerei a vita.

IS: Tu parli di dialoghi?RF: Nei dialoghi siamo davvero mal messi. Come pure nell’impianto delle storie.

IS: Vuoi dire la struttura…RF: La struttura, le componenti della storia, il suo evolversi, la definizione deipersonaggi, la loro personalità. Insomma scrivere una sceneggiatura non è un’ar-te che un artista può fare da solo come un bricolage. È un mestiere. Richiedeesperienza, allenamento, pratica continua, un sano rapporto con la quotidianità.

IS: È vero che Abel Ferrara ha copiato a mani basse Copkiller per il suo Il cat-tivo tenente?RF: Somiglianze ce ne sono, sì. Del resto tieni presente che il suo poliziotto è lostesso Keitel che ha interpretato quella parte la prima volta con me. Una seraapro la televisione e vedo Keitel in bagno prendersela con la sua vittima. Chestrano, penso, non sapevo che ci fosse Copkiller in televisione. Era il film di

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Ferrara. Stesso interprete, stessa azione, stesso ambiente, stessi colori. Del resto,ho letto una sua intervista in cui citava il mio film. Lungi dall’essere geloso, lacosa mi ha fatto piacere. Tutti noi dobbiamo qualcosa a qualcuno. Nessunoinventa da zero. Basta pensare agli influssi esterni dell’intera opera diShakespeare...

IS: Ho letto che la traccia musicale che ti era stata proposta da Johnny Rotten èstata poi utilizzata nove anni dopo nel film Hardware di Richard Stanley..RF: Non lo sapevo. Come diavolo fai a scoprire tutte queste cose! Johnny avevapreparato una traccia per qualche musica, poi Ennio Morricone, che era il musi-cista del film, disse di no e non le abbiamo usate.

IS: Il cinema americano ha colonizzato il nostro inconscio, dice Wim Wenders.Questa sembra perfetta per spiegare Copkiller...RF: È piuttosto vero. Nessuno può sottrarsi all’influenza di quel cinema, anchese sarebbe preferibile non lasciarsi troppo condizionare dai colonizzatori.

IS: Come hanno accolto in America un regista italiano che gira negli States.Prima di te, credo sia stato solo Antonioni con il suo indimenticabile ZabriskiePoint a lavorare con attori americani?RF: Non ho avuto difficoltà. Eccetto qualche problema sindacale, come dicevoprima. Tieni presente che in America gli italiani sono molto apprezzati e amati.Ci ritengono più avanti di loro non solo nella moda e nella cucina, ma anche nellearti, nel design e persino nel cinema (più del passato che, ahimè, del presente).

Mio caro Dottor Gräsler

IS: Il film è tratto dal racconto di Schnitzler, Dottor Gräsler, medico termale.Perché è stato aggiunto nel titolo quel “Mio caro”?RF: Il titolo originale del film, che ho girato in inglese, è The Bachelor, lo sca-polo. La versione italiana prende spunto da una lettera che Sabina, la giovanedonna che Gräsler avrebbe dovuto sposare, gli invia al termine di un tormentatofidanzamento. La lettera inizia appunto con “Mio caro Dottor Gräsler ”. Perchého scelto Arthur Schnitzler, un autore così lontano da noi? Perché è uno scritto-re che ha una complessità, un impianto drammaturgico e una visione psicoanali-tica che mi ha sempre affascinato. Dai suoi racconti erano stati tratti vari film. Ilpiù bello probabilmente La ronde di Max Ophüls, del 1950. Sapevo che StanleyKubrick aveva acquistato i diritti di Doppio sogno, da cui anni dopo avrebbe trat-

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to il suo ultimo film, Eyes Wide Shut. Come è noto anche Sigmund Freud era ungrande ammiratore di Schnitzler. Eppure i due, pur vivendo in quel periodo nellastessa città, Vienna, non si sono mai voluti incontrare. Come se uno, incontran-do l’altro, si rispecchiasse troppo profondamente in se stesso. Pensando al filmmi viene in mente un episodio buffo. Nella fase di ricerca dei finanziamentiinviammo la sceneggiatura alla Paramount. Ci sbellicammo dalle risate quandoil lettore americano rispose che si trattava di un copione interessante, ma non eradel tutto convinto della sua struttura. E ci chiese cosa ne pensasse l’autore delracconto. Rispondemmo con educazione che, ahimè, il signor Schnitzler eramorto da circa 60 anni, per precisione nel 1931.

IS. Credo sia uno dei tuoi film migliori che fa da perfetto contraltare a Copkiller;grandi spazi, un protagonista fragile ed indeciso, melanconico, fermo, bloccato,incapace di prendere contatto con le proprie emozioni tutto l’opposto dell’eroecorrotto e malsano del tuo film precedente. L’indecisione che attanaglia il dot-tor Gräsler mi rimanda, per certi versi, ai protagonisti de L’uomo che non c’eradi Joel ed Ethan Coen e anche a Quel che resta del giorno di Ivory...RF: Il tema dell’indecisione dei maschi compare in molti miei film, anche inPrendimi l’anima. In quel film, che io amo più di tutti, Carl Gustav Jung apparecon una personalità molto simile a quella del dottor Gräsler. Sono entrambi inde-cisi, timorosi nei confronti della passione, incapaci di amare, come appunto rim-provera Sabina al medico delle terme. Con Mio caro Dottor Gräsler , ormai “lan-ciato” dal buon esito internazionale di Copkiller e dimenticata, al pari del nostrosommo poeta, l’Italia, “non donna di province ma bordello”, cominciai a batterebandiera straniera. Trovammo un produttore coraggioso, Mario Orfini, lo aiu-tammo a raccogliere i finanziamenti necessari e mettemmo in piedi un cast dav-vero eccellente: Keith Carradine (lo avevo apprezzato come attore e cantantescoperto da Robert Altman), Kristin Scott-Thomas (in seguito molto apprezzatasia in Europa che a Hollywood), Miranda Richardson (certamente la più estrosaattrice inglese molto apprezzata da Spielberg), Max von Sydow (insieme aMastroianni l’attore più generoso che ho incontrato), Mario Adorf (contava lepagine del copione e si lamentava che il suo ruolo ne aveva meno di Max vonSydow). Orfini che veniva da vari successi tutti italiani, con Renzo Arbore,Luciano De Crescenzo e Roberto Benigni, ebbe la felice intuizione di affiancar-mi due premi Oscar: Peppino Rotunno (il direttore della fotografia di Visconti eFellini) e Milena Canonero (allora premio Oscar per i costumi di Barry Lyndon,ne avrebbe poi vinti altri due). Il film venne girato interamente in Ungheria. Èforse il film più fastoso e costoso che ho girato sinora.

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IS: Gräsler sembra un personaggio simile ad Adolphe, il protagonista dell’omoni-mo romanzo di Benjamin Constant. C’è qualche correlazione con quel romanzo?RF: Non conosco il romanzo di cui parli. Adesso che me lo dici vado a cercarlo.

IS: Dopo la parentesi americana di Copkiller, ti riallacci alla grande tradizionedella cultura europea e ti metti in contatto con un grande perlustratore dell’in-conscio come Schnitzler. In una tua intervista hai dichiarato: “Con SostienePeriera sono diventato vecchio, in Jona un bambino…”. Mi chiedevo come maieri passato dalle atmosfere cupe di Copkiller a quelle più ovattate di Gräsler.RF: Come sai sono di origine ebraica, al pari dello stesso Schnitzler. Mia madre èebrea e per quanto io sia non credente, ho certamente mutuato da lei influssi di quel-la cultura. Con Gräsler ho probabilmente cominciato quel percorso d’affinità con lastoria ebraica. Dopo è venuto Jona che visse nella balena, L’amante perduto,Prendimi l’anima, tutti film che hanno a che vedere con la storia ebraica più o menorecente. Devo dire che se non me lo facessero notare gli altri, io neppure ci pense-rei che sono storie di ebrei. Le ho scelte perché mi interessavano in quanto storie.Poi se rifletto, devo ammettere che non sarà stato un caso se sono anche storie dimatrice ebraica. Se ci penso però, credo che si tratti di una affinità più inconsape-vole che palese. Come direbbe Freud, qualcosa che ha a che vedere con il mioinconscio. Del resto l’“amico” Freud è stato anche il mio primo referente per unatesina che mi affidò da sviluppare Norberto Bobbio quando studiavo Leggeall’Università di Torino. Si trattava di uno studio su guerra e psicoanalisi dal titoloLa guerra in Freud. Iniziò lì il mio incontro con la psicoanalisi. Ricordo che Bobbiomi mandò a Milano per chiedere lumi a Franco Fornari, grande studioso sia di psi-coanalisi che di storia della guerra. Ho sempre provato una grande attrazione per l’a-nalisi (per realizzare Prendimi l’anima ho impiegato più di 20 anni). Anche se noncomprendendola a fondo, la ammiro in quanto narrazione, più che come disciplina.Per esempio mi piace leggere Freud scrittore più dello studioso della psiche.

IS: Quello dell’indecisione maschile che attanaglia il protagonista è un temamolto moderno e attuale...RF: Certamente ne sai più tu di me, visto che sei uno psichiatra. Gräsler è unuomo che non riesce a rinunciare. E chi non sa rinunciare, non sa scegliere.Scegliere significa appunto rinunciare a una cosa per averne un’altra. Il medicotermale del film è un uomo che per paura di impegnarsi emotivamente, perde leoccasioni d’amore più belle e finisce per accasarsi con la donna peggiore chepoteva incontrare. La scena più bella del film credo sia proprio quella in cuiMiranda Richardson, donna navigata e con prole, attira Gräsler nella sua rete,facendogli credere che sarà lui a comandare, quando invece accadrà l’esatto

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opposto. In questo c’è la modernità di Schintzler che sottolineava una caratteri-stica dell’uomo del suo tempo ma che penso valga anche per il nostro: l’indeci-sione, l’incertezza, lo spaesamento. Sono convinto che tale comportamento siatipico dei maschi. Al contrario della fermezza e della capacità di decidere tipicodelle donne, le quali soprattutto in materia d’amore sono molto più coraggiose,più risolute e determinate di noi.

IS: È anche un personaggio figlio del suo tempo...RF: Certo... Gräsler come emblema di un declino anche storico. Vive in un perio-do, la cosiddetta “finis Austriae”, che coincide con la caduta dell’impero mitte-leuropeo. Non a caso ho collocato la vicenda del film negli anni immediatamen-te antecedenti la prima guerra mondiale, con quel tintinnìo di armi che già si per-cepiva negli anni Dieci dello scorso secolo. In quegli anni domina l’insicurezzadel futuro. Forse è questo un altro elemento che fa sentire quella trama non lon-tana da noi. Di sicuro, neppure noi viviamo in un tempo di quiete.

IS: La critica ha accolto abbastanza bene il film. C’è chi lo ha accostato all’e-stetica viscontiana chi, invece, l’ha accusato di un eccesso di calligrafismo, a unIvory minore.RF: Non credo sia il mio film migliore. Ha dei tempi lunghi, è un film che sepotessi rimonterei. La critica italiana fu piuttosto favorevole, molto di più fuquella inglese e americana. Leonard Maltin, autore della celebre guida cinema-tografica, lo colloca tra i suoi preferiti. Al Festival di Londra dove venne pre-sentato ebbe un notevole successo e poi fu venduto in America.

IS: Come andò nelle sale?RF: Il film non ha avuto vita facile perché fu distribuito dalla Titanus, la qualepensò bene di chiudere dopo che il film era appena uscito in sala. Cosa che influìovviamente sulla precarietà della distribuzione. Si ripeteva la vicenda diCopkiller. Là chiudeva la Gaumont Italia, qui la Titanus (nel frattempo ceduta daGoffredo Lombardo al Gruppo Romagnoli, che la tenne pochi anni e poi ladismise per imprese più lucrative). Questa storia delle case di distribuzione ita-liane che chiudono va avanti sempre uguale da decenni. Un tempo c’era laCineriz, poi il Cifid, poi fu la volta della Euro dei fratelli Cicogna... Brillanoqualche anno, quindi spariscono divorate dai debiti o dalla rapacità dei loro mag-giorenti, oppure per l’incapacità di rinnovarsi.

IS: Come ti sei trovato a lavorare con attori di diversa nazionalità; dall’immen-so Max Von Sidow, attore feticcio di Ingmar Bergman, a Keith Carradine che

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aveva già interpretato con Robert Altman I compari, Gang, Nashville, I duellan-ti con Ridley Scott e Pretty Baby con Louis Malle?RF: Tra gli attori di origine italiana e quelli stranieri c’è, purtroppo per noi, unabisso. Un grande limite del cinema italiano sta secondo me nel fraintendimentodi cosa sia stato realmente il neorealismo. Credere che gli attori possano esserepresi dalla strada, che tra l’altro il neorealismo non ha mai fatto, è la causa dellanostra mancanza di grandi attori. Se pensi ai nostri vicini di casa, i francesi, pos-sono pescare su un vastissimo “parco attori”, intesi come protagonisti. Noi almassimo ne abbiamo una decina e pochissime attrici (secondo me il cinema ita-liano è un cinema misogino in cui la donna raramente ha il ruolo di protagoni-sta). In America ne hanno mille volte tanto. Alcuni scellerati si sono inventatiquesta idea idiota che si possono trovare i protagonisti per la strada. Magari hafunzionato in qualche caso, ma per il resto si sono visti magri risultati. Il neo-realismo non ha mai preso gli attori per la strada. Anna Magnani era un’attriceche veniva dal teatro. Aldo Fabrizi idem. Dopodichè, Mastroianni, Gassman,Giannini e con loro tantissimi altri sono venuti fuori dalla stessa fucina.Ciononostante, continuiamo a credere in quell’idea malsana. Il risultato di tuttociò è che abbiamo vissuto per decenni illudendoci che si può essere attori senzascuola, senza esperienza, senza apprendistato. La conseguenza è che se tu oggicerchi un protagonista di 50 anni non sai dove trovarlo, oppure devi accontentartidi quei due o tre volti che sono sempre gli stessi. Per fortuna le giovani genera-zioni si sono accorte dell’inganno e della trappola pseudo-neorealista e hannocominciato a frequentare l’Accademia, il Centro Sperimentale, le molte scuoledisseminate nel paese. All’Università Sapienza di Roma, dove dirigol’Osservatorio di cinema, il portale Cinemonitor.it ne ha registrate oltre trecento!Per fortuna stanno cominciando a uscire giovani preparati, che non vengono scel-ti perché hanno un bel di dietro o delle tette prosperose, ma perché hanno impa-rato il mestiere. Pensa che in America ci sono oltre 4.500 università che sforna-no ogni anno migliaia di giovani che hanno frequentato un corso di recitazione.Ecco perché poi vengono fuori tanti attori nuovi e bravissimi. La recitazione faparte dell’insegnamento in tutte le scuole del mondo anglosassone. Dovremmocominciare a imitarli. Tra l’altro recitare è una cosa molto buona anche per ibambini, che si abituano a comunicare con gli altri, a interpretare, a gioire, apiangere, insomma a frequentare “la vita degli altri”. Quando ho iniziato a incon-trare attori del peso di Keitel, Carradine, Max von Sidow, Miranda Richardson.Kristin Scott-Thomas… ho cominciato a confrontarmi con un mondo straordina-rio da cui ho molto imparato e al quale devo molto.

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IS: Che giudizio dai del film che vanta un Premio David per la migliore foto-grafia al grandissimo Giuseppe Rotunno?RF: È un film complesso, come dicevo con delle lentezze. Qualcuno l’ha defini-to “viscontiano”, forse proprio perché Rotunno era il suo direttore della fotogra-fia preferito. Ogni volta che c’è una cornice scenografica forte (alla quale io dòmolta importanza e infatti ai miei film collaborano scenografi di grande tradi-zione, da Giantito Burchiellaro a Francesco Frigeri al grande Danilo Donati),salta fuori il nome di Luchino Visconti. Può essere un complimento, ma al tempostesso una critica che implica formalismo e/o estetismo. Per quanto riguardaGräsler, la ricchezza delle ambientazioni e la sontuosità delle scene derivanoinnanzitutto dalla scelta dei luoghi (le fastose terme austro-ungariche), dal perio-do (il primo Novecento), dalla ricchezza degli abiti (firmati appunto da MilenaCanonero insieme ad Alberto Verso). Aggiungo che la componente estetica èimplicita nei film in costume, specie quando la ricercatezza delle immagini rap-presenta lo stile e il cuore della storia che si intende raccontare.

IS: Perché Miranda Richardson nel doppio ruolo di Friederike, la sorella diGräsler e della vedova Sommer? Psicoanaliticamente, vista la storia, è comprensi-bile e sembra rimarcare l’attaccamento di Gräsler verso la sorella suicida…RF: Dopo la sua brillante interpretazione in Ballando con uno sconosciuto, som-mersa di premi, Miranda Richardson aveva ricevuto valanghe di offerte.Spielberg l’aveva chiamata a Hollywood ed era riluttante a fare il ruolo dellavedova nel film che stavamo preparando. Miranda è una donna piena di dubbi,enigmatica, non proprio calorosa. Non era del tutto convinta della nostra propo-sta. Pensa che sul set litigò con Rotunno, in pieno agosto, chiusi a Budapest inun teatro di posa a 50 gradi, perché non voleva che si uccidessero le mosche(sciami di mosche ci impedivano di girare). Un’animalista un pò troppo estremi-sta… Al primo incontro con me, presente il suo agente a Londra, mi esplicitò cheil ruolo offerto non era proprio entusiasmante. A un certo punto, pur di averla, mivenne l’idea di proporgliene due: la vedova e anche la sorella di Gräsler. Sapevoche Miranda era capace di trasformazioni eccezionali. Si mise a ridere. Guardòil suo agente e mi disse: ok, accetto. Fu poi talmente brava a interpretare entram-bi i ruoli che nessuno tra il pubblico se n’è mai accorto. E ha fatto tutto senzatrucco, senza niente di tutto ciò che siamo soliti fare per invecchiare o cambiarei connotati di un attore. Semplicemente, prima di girare la scena della maturasorella di Gräsler e dopo aver girato le scene della vedova, ben più giovane, sichiuse due giorni in albergo. Due giorni durante i quali nessuno la vide. Quandouscì, io stesso stentai a riconoscerla. Camminava un pò chinata in avanti, lenta-mente, l’espressione stanca, gli occhi spenti, le mani tremanti. Insomma non era

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più la giovane vedova maliziosa e intrigante. Si era trasformata davvero in un’al-tra persona, stanca della vita, che di lì a poco avrebbe dovuto impiccarsi (scenache abbiamo girato nell’isola di Lanzarote).

IS: Nel film c’è il prezioso contributo di Milena Cononero, costumista di BarryLyndon, Arancia meccanica, Shining, Momenti di gloria, Il padrino...RF: Ha fatto tre film con me, l’unico regista italiano ad averla mai chiamata. Inquest’ultimo film americano che sto finendo appare come co-produttrice, aven-do affiancato Elda Ferri. Ha fatto la supervisione artistica a tutto, costumi, sce-nografie, look degli attori. È stata la mia spina dorsale. Vedi il ritratto che ne fac-cio nel Diario americano, in fondo al libro.

Jona che visse nella balena

IS: Ho letto il romanzo di Jona Oberski che, secondo me, non ha la potenza deltuo film. È il tuo terzo film tratto da un romanzo. Che rapporto hai con la pagi-na scritta?RF: Preciso subito che a me non interessa il valore letterario di un’opera. Mi inte-ressano i romanzi solo in quanto fabbrica di storie. I miei rapporti tra scrittura efilm si limitano alla trama, alla fonte d’ispirazione, al plot. In realtà, l’autore diun film prende dal romanzo cui si ispira solo uno spunto, per poi muoversi versouna direzione autonoma rispetto al racconto di partenza. Lo stesso vale per il rap-porto tra sceneggiatura e film, dove lo script è solo uno strumento tecnico chepreesiste al film. Realizzato il quale, a nessuno viene in mente di parlare dei con-fronti tra film e copione, o amenità varie. Proprio perché le pagine scritte sonodestinate a diventare un oggetto trasformato e superato dal prodotto finale, ilfilm. A un certo punto il film prende la sua piega, va per la sua strada. E lo scrit-to, che è precedente, non conta più nulla. Trovo ridicolo che si continui a parla-re di rapporto tra cinema e letteratura. Così come sarebbe altrettanto risibile par-lare di rapporto tra film e sceneggiatura. Aggiungi un particolare non indifferen-te, ovvero che l’autore del romanzo non è l’autore del film. Sono così distanti ledue figure e infatti il primo ha venduto al secondo i diritti della sua opera. Cosìcome si potrebbe cedere qualsiasi cosa, che so un’automobile, un appartamento,un mobile. L’hai venduto, diventa proprietà di un altro, grazie e tanti saluti. Haragione William Faulkner quando, richiesto di esprimere la sua opinione in meri-to al circuito letteratura-sceneggiatura-film, risponde che il rapporto è inesisten-te, perché lo scritto che precede il film, quale esso sia, muore quando l’altro ini-zia a vivere. Del resto letteratura e cinema non hanno in comune la compatibi-

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lità. Sono incompatibili perché la prima evoca, il secondo mostra. Partendo daquesto presupposto, la fedeltà al testo di origine diventa un discorso astratto, dipura accademia. Non è vero che il cinema difetta di originalità quando si ispiraalla letteratura. Un regista che parte da un romanzo non è un autore di scarsainvenzione. Semmai è vero il contrario. Vedi l’esempio di Kubrick, che è quasisempre partito da un racconto già pubblicato. Negli ultimi decenni la letteraturaè diventata sempre più ancillare rispetto al cinema. Sono gli scrittori che avver-tono il fascino del cinema e non solo viceversa. Non conosco scrittore il qualenon desideri che il suo romanzo diventi un film. Molti scrivono pensando a que-sto e moltissimi romanzi somigliano sempre di più a delle sceneggiature vere eproprie, pronte per essere filmate.

IS: Perché il titolo di Jona fa riferimento a un episodio Bibbia senza essere atti-nente alla vicenda del film?RF: Non abbiamo pensato alla storia biblica. Non lo so perché abbiamo cambia-to il titolo del romanzo di Jona Oberski, Anni d’infanzia, che ha ispirato il film.Forse perché qualcuno ha ricordato che c’era la strofa di una canzone che rac-contava di Giona nella balena. Probabilmente è stato un errore, anche perché nonè un titolo azzeccato. In Francia è uscito con quello originale, Anni d’infanzia,tradotto in francese.

IS: Nel vedere il film si ha come una sensazione di una ricostruzione del campodi concentramento “finta”, da “studios”. È stata una tua scelta voluta?RF: Ho cercato di costruire il campo di concentramento come visto dagli occhidi un bambino, quindi non troppo realistico, non troppo misero, non troppo tra-gico. C’è la neve, le casupole sono di legno, la stanza dell’infermeria in cui padree madre fanno l’amore è calda. Lì per l’ultima volta Jona vede insieme madre epadre. Sono arrivati lì per fare l’amore un’ultima volta e Jona non capisce perchédebba stare di spalle, in silenzio, finchè non avranno finito. La ritengo una scenatra le più forti che io abbia mai immaginato. Jona ricorda del campo solo le cosemigliori, perché se ricordasse quegli orrori non potrebbe sopravvivere. Lo sovra-sterebbero, lo annienterebbero. Per sopravvivere, deve dimenticare il peggio ericordare il meglio: la mamma, il papà, il loro calore, il loro affetto. La stessascena in cui Jona prende in giro le SS con i cani lupo è forse un sogno che lo aiutaa ricordare se stesso vincente, non soccombente, come sarebbe stato nella realtà.

IS: La scena più bella del film è quando Jona si perde nel lager di Bergen-Belsen. L’ho trovata molto poetica perché lì è l’inconscio del bambino che pren-de il sopravvento sulla realtà.

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RF: Mi sembra che confermi quanto ho appena detto. Ho seguito il film nellescuole e ancora oggi lo vedono tantissimi ragazzi, specie quelli della stessa etàdi Jona, tra gli otto e i dieci anni. Una volta a Milano abbiamo fatto una proie-zione per ragazzini delle scuole elementari insieme a ragazzi del ginnasio dellastessa scuola, dai quattordici ai sedici. Durante la proiezione i ragazzi più gran-di ridevano in certe scene, mentre i più piccoli piangevano. Quando poi si sonoaperte le luci e le maestre hanno iniziato a far parlare i ragazzi, c’è stato un ragaz-zino di quarta elementare che si è alzato e ha detto a uno di quindici sedutoaccanto a lui che rumoreggiava: “Stai zitto tu che non sai nemmeno piangere”.L’ho trovata una frase stupenda. È vero, Jona racconta una storia talmente inten-sa, da obbligare molti di noi a respingerla. Tocca le corde più profonde del nostroessere. Piangere non è maschile, non è da adulti, non è da veri uomini. È più faci-le ridere che commuoversi.

IS: Come mai il film si chiude con il piccolo protagonista mentre allucina solo ilpadre che nel corridoio di casa sta battendo sulla macchina da scrivere. Comemai manca la madre?RF: Non saprei... Chiedo perdono, non so spiegare tutto. Mi piaceva finire il filmcon una immagine tenera e poetica. La madre lui l’ha vista impazzire. Il padreinvece è sparito nel nulla della deportazione. Jona ricorda il padre quando lofaceva giocare con la bicicletta. Ho pensato che quella immagine gli è rimastaimpressa. È un ricordo bello, che lo riporta a sorridere dopo tanto soffrire

IS: Jona... è uno dei tuoi film più premiati ma, provocatoriamente, vorrei chie-derti: di fronte a storie così ipersature di sofferenza (un campo di concentra-mento, un bambino strappato all’infanzia, al calore domestico…) non si rischiadi raccogliere dei facili consensi da parte di critica e pubblico? Tra i due prefe-risco di gran lunga Mio caro dottor Gräsler...RF: Capisco la tua osservazione, ma c’é una grande differenza fra Gräsler eJona. Gräsler non è un film che ti emoziona. È un film un pò freddo, distaccato,così come lo è il suo protagonista. Jona al contrario è un film che quando lo vedoa distanza di anni (l’ho girato nel 1993) ancora oggi mi provoca delle emozionifortissime. Sono sensazioni che non mi capitano con nessun altro film. Sai chequando la Rai lo ha proiettato la prima volta in televisione ha avuto un indice d’a-scolto enorme, che nessuno si aspettava? Un piccolo film senza attori conosciuti,con un tema difficile, ha letteralmente sbancato l’audience. Mi è stato detto chedopo la proiezione in tv ci sono stati addirittura dei ricoveri di donne al pronto soc-corso con attacchi di panico. È un film che ha una potenza emotiva davvero unica.Capisco la tua nota ma non la condivido. Ci sono dei temi inattaccabili, è vero, non

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Roberto LasagnaWalt disney. Una storia del cinema

Nicola BoariWakamatsu Koji. Il piacere della distruzione

Meris NicolettoValerio Zurlini. Il rifiuto del compromesso

Maurizio FaillaLa storia del cinema per chi ha fretta

Nicolò Barretta - Andrea Chimento - Paolo ParachiniAlla ricerca della (in)felicità. Il cinema di Todd Solondz

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