rootshighway mixed bag #3

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RootsHighway Mixed Bag Goin’ Down South Goin’ Down South Black Joe Lewis: Black Joe Lewis: tra James Brown tra James Brown e il garage di casa e il garage di casa numero 3 • giugno 2009

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Trimestrale di approfondimento del sito www.rootshighway.it

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Page 1: RootsHighway Mixed Bag #3

RootsHighwayMixed Bag

Goin’ Down SouthGoin’ Down SouthBlack Joe Lewis:Black Joe Lewis:tra James Browntra James Brown

e il garage di casae il garage di casa

numero 3 • giugno 2009

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Sommarionumero 3, giugno 2009

Editoriale“Time is on our side…” … 3

RootsHighway’s PickI dischi del trimestre … 4Bonnie Prince Billy, Black Joe Lewis

Monthly Revelationmarzo-maggio 2009 … 6Buddy & Julie Miller, Jason Isbell, Elvis Perkins in Dearland, Felice Brothers,Tim Easton

Second HandAvvistati in questi mesi … 9Ramblin’ Jack Elliott, Mickey Clark, Flatlanders, Danny Schmidt, BeauSoleil,Abi Tapia,Tom Caufield, Howard Elliott Payne, Handsome Family,Willem Maker, JBM,Wild Specialties,Phosphorescent,Angie Palmer,Amy Speace, Great Lake Swimmers

Speciale Mixed-bagLevelland: nella periferia del rock americano … 17

ClassicHighwaybest of, ristampe e classici … 21Died Pretty “Free Dirt”,“Doughboy Hollow”

Made in Italycose di casa nostra … 23Southlands, Lorenzo Bertocchini

Picture Showsle immagini del rock’n’roll … 24Leonard Cohen “Live in London”

BooksHighwayi libri del trimestre … 25Richard Brautigan; Carl Hiaasen

Americana BasicTrackstracce base d’America … 26Joe Ely “Letter to Laredo”

RootsHighwayMixed BagTrimestrale PDF del web magazine RootsHighway – www.rootshighway.it

Direzione e coordinamento: Fabio Cerbone - [email protected]

Collaboratori e testi di: Davide Albini, Gabriele Buvoli, Gianfranco Callieri, Fabio Cerbone, Gianni Del Savio,Marco Denti, Maurizio di Marino, Filippo Floridia, Edoardo Frassetto, Matteo Fratti, Gabriele Gatto,

Nicola Gervasini, Roberto Giuli, Stefano Hourria, Carlo Lancini, Giovanni Manzoni, Ruggero Marinello,Francesco Meucci, David Nieri,Yuri Susanna, SilvanoTerranova, Gianni Zuretti

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Il tempo è sempre stato dalla nostra parte, per lo meno di tutti quelli che si sonoritagliati orgogliosamente un loro spazio, fra le mille curve della vita, per aprirecuore e testa al rock’n’roll e al suo immaginario: senza sosta quest’ultimo harichiesto dedizione e abbandono nello stesso momento, anarchia e regole precise,in un susseguirsi di contraddizioni, che rappresentano forse l’anima di tuttoquello che gira intorno a questo sogno. Eppure, adesso che è tutto qui e ora,disponibile, facile, immediato – tra le maglie di una rete peer to peer, tra glielenchi di un blog o chissà quali altre scorciatoie – il tempo più che dilatarsi pareproprio che si stia sciogliendo fra le nostre mani, diventando qualcosa diindefinito.

Anche la musica naturalmente: è lì, a due passi di click soltanto, perfetta peressere assimilata all’istante. Si ascolta, più in fretta possibile, si cataloga, magarisi sceglie se acquistarla o meno – perché in fondo, in questa comunità, è il caso diribadire che siamo rimasti fra i pochi “irresponsabili” consumatori – poi però sipassa oltre, c’è già un altro download da far partire. Qualche volta addirittura siprecede tutto e tutti: il disco deve ancora uscire fisicamente, mancano un paio dimesi o una stagione intera, ma te lo ritrovi per caso al passaggio del mouse eallora non puoi fare a meno di “portarlo a casa”. Quando sarà entrato incircolazione veramente – in quel mercato discografico che ormai non esiste più,ma è soltanto una gara a chi cade per primo – ce ne saremo forse già dimenticati.

Avete ragione, è strano e forse persino scorretto che si affermi tutto ciò dallepagine di un sito, da dentro il problema insomma. Potrebbe anche suonare comeuna presa in giro, voltando le spalle al lavoro che stiamo portando avanti daquasi dieci anni: il punto tuttavia non è girare la faccia rispetto a quello che ciaspetta, difendere un ideale o peggio preservare la specie. Saremo ancheparecchio conservatori in fatto di rock’n’roll e chitarre, ma non abbiamo mainascosto l’interesse per le opportunità del web: qui non si rinnega nulla, semmaici si domanda quale sia il modo migliore per sfruttare queste infinite possibilità enon restarne inghiottiti. RootsHighway e a maggior ragione questo trimestraletanto desiderato, Mixed Bag, sembrano aggrapparsi ad un compromesso, chi puòdirlo se vincente o meno: molti dischi, tante informazioni, ma anche una buonadose di approfondimento, di distinzioni e prese di posizione. Una rivista insomma,nonostante la carta l’abbiamo dimenticata in un angolo. Che sia fluttuante sullarete oppure comodamente scaricabile in pdf, non fa differenza, l’importante è chead ogni singolo disco, artista o movimento si dedichi uno spazio che ne apra altri,che rimandi a qualche altra suggestione, inseguendo un tempo che sia umano,come il rock’n’roll d’altronde. Riprendiamocelo allora questo tempo, prima che siatroppo tardi.

(Fabio Cerbone)

EditorialeEditorialeTime is on our side…

giugno 2009giugno 2009��

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Nel mondo di Will Oldham due più due non fa mai quattro, le emozioni si esprimono solo nell’oscurità, e sitraducono sempre in un folk strascicato e caracollante. O perlomeno questa era diventata la banalità di rito dadire nelle recensioni a lui dedicate. Con Beware cambia la sua musica, e probabilmente anche il modocomunemente usato per descriverla. Nel corso delle numerose produzioni di tutte le sue incarnazioni artistiche(Will Odlham, Palace Brothers, Palace Music e Bonnie “Prince” Billy quelle principalmente usate), Oldham hacreato un club che ammette pochi selezionati adepti, ma l’anno scorso sono arrivati l’indefinibile Lie Down InThe Light e quello strano e strabiliante live Is This The Sea?, entrambi così pesantemente immersi nellatradizione rurale americana da cominciare a far storcere il naso ai soci più esclusivi, poco avvezzi ad ammetterelinguaggi così convenzionali e codificati nelle vene del loro guru.

Beware esce come al solito in fretta, con quella cadenza ormai semestrale a cui ci ha abituati (se il prossimonovembre non dovesse pubblicare nulla, ci sarà seriamente da preoccuparsi), e toglie ogni dubbio sulla naturadella svolta intravista lo scorso anno. Lo scandalo è che per la prima volta Oldham sembra voler omaggiare,seguire, citare altri mondi e altri stili, fin da quella copertina che è un’evidente copia di Tonight’s The Night diNeil Young, ma potrebbe anche essere il layout su cui basare una serie di suoi ipotetici American Recordings. Mala buona novella è che questo disco non è un titolo di passaggio, ma rappresenta una nuova milestone del suostraordinario percorso artistico, dopo che I See A Darkness aveva certificato la raggiunta maturità e The LettingGo aveva chiuso il corso con il classico sommario di una carriera. Il suono di Beware è nato negli studi diChicago con una folta schiera di musicisti di genere, tra i quali il chitarrista Greg Leisz e l’ex Mekons JonLangford, ed è un sound pieno, molto simile a quello che si ritrovava in certe produzioni di Nashville degli annisettanta, con largo uso di epici cori femminili (BewareYour Only Friend), abbondante uso di pedal-steel guitar, eritmi orgogliosamente classic-country (You Can’t Hurt Me Now e I Don’t BelongTo Anyone).

Ad un certo punto fa capolino persino un bellissimo sax da rotonda sul mare in quella gemma che è My Life’sWork, brano che tra schitarrate elettriche, violini piangenti e cori in crescendo, mostra tutta la voglia di Oldhamdi uscire dal minimalismo sonoro che lo ha sempre contraddistinto. E poi c’è questa nuova vena folk-pop che fasi che Beware sia pieno di momenti accomodanti, con gentili ballate acustiche che ricordano addirittura un certoCat Stevens (Death Final e ancor di più IWon’t Ask Again). Qui si guarda agli anni settanta, omaggiando sia gliambasciatori del dolore di quegli anni (You’re Lost, Heart’s Arms con i suoi lugubri archi, e lo splendido finale conflauto di Afraid Ain’t Me, sono i momenti più devastanti), sia la vena leggera del folk-rock di allora (I Am Goodbye eYou Don’t Love Me, così facili e cantabili, sarebbero potute anche essere canzoni papabili per una programmazioneradiofonica trentacinque anni fa).

A voi a questo punto il compito di decidere se questa è la fine del vostro interesse per il personaggio o magari ilprimo suo disco che scorre finalmente su coordinate a voi consone.A noi questo Bonnie “Prince” Billy stapiacendo esattamente come quello di prima.

Bonnie Prince Billy

Beware

di Nicola Gervasini

RootsHighway’s PickRootsHighway’s Pickiiii ddddiiiisssscccchhhhiiii ddddeeeellll ttttrrrr iiiimmmmeeeessssttttrrrreeee

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Cresciuto nell’humus familiare di soul e rhythm and blues, Black Joe Lewis ha messo insieme una suapersonale revue che attinge a Lightnin’ Hopkins (basterebbe dare un’occhiata al loro Ep d’esordio, con unacover che rimanda proprio ad un vecchio vinile di Hopkins) e (moltissimo) a James Brown (questi i punti diriferimento dichiarati per vie ufficiali) così come ad una quantità enorme di rock’n’roll assorbito e rimuginato alungo, tra un lavoro e l’altro per sbarcare il lunario. Uno dei suoi primi impieghi, un banco dei pegni, gli ha fornitola chitarra per cominciare a suonare e a cantare la sua street life in forma di canzoni. Il secondo, in un ristorante,è dove l’ha trovato il chitarrista Zach Ernst, un bel pezzo degli Honeybears, che aveva organizzato uno show diLittle Richard all’università del Texas (in questa storia non c’è un nome fuori posto) e gli serviva un gruppo perchiuderlo. Lo show andò a buon fine ma fu l’incontro tra i due la vera svolta: Black Joe Lewis & The Honeybearsdivennero ben presto una delle realtà più avvincenti della nightlife di Austin, e da adesso in poi una dellerivelazioni di quest’anno.

Il motivo è tanto semplice quanto solido: la vittoria della vecchia scuola, quella che preferisce il live act (trequarti del disco sono stati catturati dal vivo, parola del produttore Jim Eno) a stucchi e trucchi, quella che attingea mani basse dal passato perché è tutto ciò che resta, quella che urla a squarciagola e le chitarre se le porta purea letto. Le fondamenta sono purissimo rhyhtm and blues (basta sentire la prima canzone del disco, Gunpowder) ese qualcuno ha voglia di parlare di revival, faccia pure, perché qui c’è anche roba che sembra venire da qualchebootleg di Ike & Tina Turner (Pleaase Pt. Two), direttamente dalle strade di New Orleans (il groove di Master SoldMy Baby sembra un classico delle second line) o da qualche garage ben fornito di ristampe dei Them o degliAnimals (i primi nomi che vengono in mente ascoltando Big Booty Woman) o, per finire, da una dance hall moltoraffinata, dove sembra ambientata I’m Broke, il cui basso, detto per inciso, è (nota più, nota meno) quello di PapaWas A Rolling Stone.

E se gli Honeybears si confermano un combo di rhythm and blues efficace ed energetico – sulla scia di quelrecupero messo in atto da altri giovani protagonisti, Eli “Paperboy” Reed su tutti –, sempre guidato dalla chitarra,ma ricco di tutti i fiati, i pianoforti e gli organi che si possono immaginare, Black Joe Lewis è un urlatore diprimissima categoria, capace di masticare le parole in uno slang diretto e senza mediazioni, grezzo quel tanto chebasta da risultare molto genuino e, va da sé, molto rock’n’roll.

RootsHighway’s PickRootsHighway’s Pickiiii ddddiiiisssscccchhhhiiii ddddeeeellll ttttrrrr iiiimmmmeeeessssttttrrrreeee

Black Joe Lewis & The Honeybears

Tell ‘Em What Your Name Is

di Marco Denti

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Buddy & Julie MillerWritten in Chalk

Come si fa a giudicare serenamenteBuddy Miller dopo che è appenastato nominato “Artista del decennio”dalla rinsavita rivista No Depression? Esoprattutto, come si fa a giudicaresenza condizionamenti Written InChalk, il suo secondo disco licenziatoin coppia con la moglie Julie, appenadieci giorni dopo che lui ha rischiato dilasciarci le penne sul palco? E chepalco! Buddy è stato colpito da infartoil 19 febbraio scorso a Baltimore,mentre era coinvolto in relazioneextra-coniugale con ben tre donne, valea dire Emmylou Harris, Shawn Colvin ePatty Griffin, (il “3 Girls with Buddy”tour, spettacolo che qui in Italiapossiamo solo sognarci). Nulla dimorboso in verità, Buddy stava solofacendo per loro quello che fa ormaida più di vent’anni con la sua chitarra:la colonna, la trave portante dellemigliori performance di Steve Earle oLucinda Williams, per non parlare deltrionfale tour fatto a seguito delpluridecorato duo Robert Plant-AlisonKrauss lo scorso anno. Per la cronacaMiller si è salvato, gli hanno messo trebei by-pass, e a 56 anni suonatipotrebbe anche voler dire che forsedovrà rinunciare a offrire i suoi servigidi grande chitarrista a qualche donna inmeno in futuro.Per cui pur cercando di non scaderenell’agiografia che il personaggiocomunque meriterebbe, diciamosubito che questo Written in Chalk èancora una volta un prodottosuperiore alla media. Non è un “suo”

disco, neppure un disco di un duo, maè il prodotto di una famiglia di grandimusicisti, la summa di tutta una scenadi quella Nashville progressista eilluminata che in Italia èparticolarmente poco apprezzata eseguita. Una bella armonia di gruppodove persino una primadonna comeRobert Plant duetta in What YouGonna Do Leroy di Mel Tillis con unamodestia e una compostezza che neevidenzia la paura di rovinare un cosìperfetto equilibrio. Le chitarre diBuddy qui suonano persino strabiliantiper profondità del suono in alcunimomenti (One Part, Two Part), e ormaianche come vocalist ha l’esperienzaadatta per toccare sempre le cordeadatte (Hush, Sorrow e la stessa Chalk),ma è di Julie Miller che avremmodovuto parlare. È lei infatti che scriveun lotto di brani da applausi, perintensità dei testi e perizia melodica(ascoltate June e Everytime We SayGoodbye), è lei poi che li interpretacon una classe e maturità che lepermettono di sfidare anche unepisodio jazzy come A Long, Long Timesenza scadere nel calligrafico. È ingrande forma Julie, decisamentepronta a riprovare a camminare anchecon le proprie gambe, le stesse cheanni fa ci diedero album deliziosi comeBlue Pony, e così perfino i cameo diPatty Griffin (nella dolcissima Don’tSay Goodbye) e di Emmylou Harris(The Selfishness Of Man) finiscono soloper essere credits superflui.Avremmo forse dovuto rilevare cheWritten in Chalk non è un apice, ma unapprodo, l’album che cementa unpercorso che forse aveva già trovatonello splendido Universal UnitedHouse of Prayer del solo Buddy la suapiena apoteosi, e notare magari cheormai la sicumera di questi attempatisignori nell’offrire il loro country-rockdegli anni 2000 rasenta quasi la puraaccademia, soprattutto nei divertentima di base risaputi episodi più bluesy esudisti come Memphis Jane, Ellis Countyo la divertente Gasoline And Matches.Ma per approfondire e notare lepecche avremo sicuramenteun’occasione più adatta.(Nicola Gervasini)

Jason Isbell & 400 UnitJason Isbell & 400 Unit

C’è una ragione precisa se il nuovolavoro di Jason Isbell condivide ilproprio nome con gli stessi 400 Unit, laband che da un paio di stagioni lo staaffiancando in tour: una coesione disuoni e intenti artistici che doveva inqualche modo esser sancita su disco,mostrando quella crescita in pubblicoche il breve excursus di Live at Twistand Shout (New West, 2007) lasciavasoltanto intuire. L’album omonimosbucato in parte dai leggendari FAMEstudios di Muscle Shoals, Alabama, luogoin cui Isbell è cresciuto da ragazzinocon la famiglia (originaria della vicinaFlorence), ha il respiro di un rockpotente ed epico che sa volgere però losguardo nella direzione di un’eleganteballata soul, combinando insieme lechitarre ruggenti del southern rock conl’arte del songwriting di autenticioutsider del luogo, tra cui Donnie Frittse Dan Penn, ovvero sia la storia delsuono country soul sudista.L’effetto di Jason Isbell & The 400Unit è quello allora di un definitivodistacco dalle ombre dei Drive-byTruckers che parzialmente inseguivanoil nostro protagonista nel suo esordioSirens of the Ditch. Un confrontoinevitabile, visto che quel disco vedevacoinvolti nelle sessioni Patterson Hoode l’ex compagna Shonna Tucker,legandosi a doppio filo con le sonoritàe le vite stesse dei suoi vecchi partner.Il sentiero tracciato oggi prende spuntodagli insegnamenti della strada: la bandsi è fatta le spalle larghe e buona partedi queste canzoni sono nate on the

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Monthly RevelationsMonthly Revelationsmmmmaaaarrrrzzzzoooo////aaaapppprrrriiii llll eeee////mmmmaaaaggggggggiiiioooo

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road, registrate fra una pausa e l’altradagli impegni sul palco. Si percepiscedunque l’urgenza, l’affiatamento fra imusicisti e la limatura del suono, cheadesso più che mai promuove JasonIsbell e la sua voce cristallina e pastosafra quelle più credibili del rinascimentoNew South di queste stagioni. Unavolta di più sono racconti diemarginazione, solitudine, disperatericerche di aiuto e di affetto a colorarela tavola dei sentimenti di Jason Isbell &The 400 Unit, storie che tracciano unsolco in quella faccia nascosta e scuradell’America ferita di oggi: fral’introspezione di Sunstroke e No Choicein the Matter, i ricordi di Seven-MileIsland e le amare riflessioni di SoldiersGet Strange, i brani costruiscono unasceneggiatura di tutto rispetto.I contenuti musicali viaggiano di paripasso, divisi fra rabbia elettrica esaggezza d’autore, forse ancora distantida un assoluta perfezione, ma necessariper Isbell e chiunque avrà voglia diascoltare il suo accento sudista:romantico e veemente al tempo stesso,l’album vive nei rimbocchi fra lechitarre dello stesso Isbell e BrowanLollar, ammorbidito spessodall’essenziale presenza di DerryDeborja al piano ed organo. È infatti iltocco pianistico di quest’ultimo arendere appassionate e colme diinquietudine ballad del calibro diSunstroke e Streetlights, debordando inun soul rock di trascinante tormento inCigarettes and Wine e nella più sinuosaThe Blue, scoprendosi infine nelcapolavoro della citata No Choice inthe Matter, spolverata daun’incantevole sezione fiati (CharlesRose e Harvey Thompson) e da quelsapore inconfondibile di southern soulche scorre nelle vene della band.Sono esattamente questi episodi, i più“morbidi” e classici a dare il segnale diuna maturità raggiunta, seppure nonmanchino affatto sferzate rockdall’atteggiamento sfrontato, qualchevolta a rischio di eccessiva enfasi (lagrungy Good), molto più spesso gettatea capofitto in una livida elettricità chenon perde mai di vista la melodia(However Long, Soldiers Get Strange),chiudendo la sua entusiasmante corsain una jam trascinante nella coda finaledi The Last Song I Will Write. Sperando,sia chiaro, che quest’ultima sia soltantouna provocazione e non una minacciada mettere concretamente in atto:Jason Isbell è un cavallo di razza su cuipuntare nel futuro più immediato.(Fabio Cerbone)

Elvis Perkins in DearlandElvis Perkins in Dearland

Dalla malinconia dilagante e daquell’inesorabile rimuginare sul temadella morte che assediava l’esordio AshWednesday al soffio bandistico di unfunerale in stile New Orleans, il passosembra breve e inevitabile. Così ilprofluvio di trombe, tromboni, clarinettie ritmi da marching band che sbucano ditanto in tanto in Elvis Perkins inDearland (mandanmo in sollucheroquelli collocati esattamente a metà diSend My Fond Regards to Lonelyville)continuano a ricordarci, in apparenza,che Elvis è un “ragazzo triste” con unavita tormentata, da cui non poteva chenascere un songwriting poetico e naif,infestato da fantasmi e piccole rivelazioni.E tuttavia la strada non è compromessaa tal punto: oggi c’è una band con laquale stringere un patto, un’atmosfera dicomplicità maggiore che è nata sui palchie nelle tournè degli ultimi due anni, unsuono più vispo che non rinnega ilpassato, ma bagnandosi nel grande fiumedel gospel, del soul, di una folk music chemette insieme senza colpo ferire passatoe presente, si fa più sgargiante,intervallando luci e ombre attraversotonalità meno oppressive.È un disco che nasce da uno spiritocomunitario Elvis Perkins in Dearland, acominciare dall’idea di intitolarloesattamente come se fosse il frutto di unlavoro di squadra: e lo è a tutti gli effetti,come lo stesso Elvis Perkins ci tiene aprecisare. “Più veloce e più giovane” diAsh Wednesday, non necessariamentepiù superfiale, forse soltanto più leggeroe desideroso di mettersi in gioco. Ed èproprio qui che entrano in scenaBrigham Brough (contrabbasso, sax),Wyndham Boylan-Garnett (organo,chitarre, harmonium e trombone) e NickKinsey (batteria,, banjo, clarinetto),comitiva assortita di musicisti che hasaputo riprodurre in studio quellacoinvolgente “accozzaglia” percepita dal

vivo: una piccola orchestrina che sembrarubare lo spirito di una vecchia jug bandall’angolo di una via di New Orleans edarla in pasto al folk rock che fu delVillage, scarabocchiandoci sopra qualcheaccento Americana. Il declamatorio tonocon cui Elvis Perkins apre le danze inShampoo è anche figlio di questatradizione, perché se da una parte citaapertamente gli spiriti della folk music(Black is the Color of my True Love’s Hairinfilata da qualche parte) e nell’armonicainfonde la brezza di un Bob Dylan,dall’altra parte si guadagna un suo stile,una sua personalità ormai definita dovela depressione lascia il passo ad unbriciolo di magia.Non scambiatelo per il solito uggiososongwriter a leccarsi le ferite: ElvisPerkins in Dearland, al trainodell’ottimo lavoro di Chris Shaw in regia,scarta di volta in volta ai lati dellaprevedibilità, volgendo ora allairresistibile solarità pop di I Heard YourVoice in Dresden, ora alla disarmantetenerezza di 1 2 3 Goodbye, ora allacontagiosa melodia che pervade Hey(con la seconda voce femminile diBecky Stark dei Lavender Diamond) esoprattutto la bislacca Doomsday, ballateguizzanti fra trilli di pianoforte, fiati aprofusione e battiti di grancassa. Il garbodi un tempo, e l’amore mai nascosto perLeonard Cohen, è riservato alladolciastra Hours Last Stand, mentre latensione dark blues di I’ll Be Arriving è ilsolo momento un po’ “agghiacciante”della scaletta, con quella manifesta idea dirovistare nella oscura eredità del Sud edel gospel, atteggiamento capace però diprodure un piccolo capolavoro allachiusura del sipario: si tratta del walzerHow’s Forever Been Baby ed è una dellecanzoni più belle di questo 2009.(Fabio Cerbone)

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Tim EastonPorcupine

“Ho pensato che l’animale chiamatoporcospino fosse un simbolo perfetto per ilsuono di questo disco, per il fatto che dalontano appare come una creatura gentile einnocua, ma una volta che ci si avvicina è inrealtà appuntito e potenzialmentepericoloso”. È una descrizione certamentecuriosa per introdurre la propria musica,ma quanto mai azzeccata se ci si addentrafra le sonorità di Porcupine, quinto lavorosolista di Tim Easton, ex Haynes Boys cheda qualche anno, nella generale indifferenza,sta infilando una serie positiva di lavori perla New West. Il suo folk rock pungente – èproprio il caso di dirlo – possiede acume ebrillantezza, unisce il piglio arruffato di unautentico troubadour, la sincerità di unrocker di provincia e l’intelligenza di un

autore che ha sempre tenuto aperte lebraccia verso il mondo e l’evoluzione dellapop music. Non si spiegherebbe altrimenti illavoro in regia con Brad Jones e RobinEaton negli studi Club Roar di Nashville,luoghi da cui non è necessariamente passatasoltanto la solita combriccola Americana.E non sarà certamente Porcupine acostringere Tim Easton fra le maglie diquesto genere: lui resta semplicemente unsongwriter tanto discreto quanto preparato,che fa viaggiare sullo stesso treno Bob Dylaned Elvis Costello, chiede in prestito unamelodia a Tom Petty, con la chitarre chescalciano fra le mura di un rock’n’rollfrizzante (Broke my Heart e Baltimore arrivanodritte al bersaglio) e le gentilezze di un folkda strada. I suoi dischi prendono forma inluoghi lontani, con l’idea di uno spazio e di untempo da accumulare esperienza dopoesperienza: Porcupine raccoglie frammenti fraLos Angeles (la California è la sua residenzaufficiale, nei pochi ritagli al di fuori dei tourincessanti), Dublino, Amsterdam, Seattle,Baltimora e la sua casa d’origine in Ohio,parlando di ragazze senza mai esser banale, diimpressioni rubate ad un viaggio, capacepersino di carpire qualche segreto aRaymond Carver. Il grande scrittore e poetaamericano viene omaggiato quale principaleispiratore della sceneggiata southern rockThe Young Girls, sapori soul con Susan Marshallai cori, una discesa a Sud che si ripeterà nelloswamp appiccicoso di Northbound.Si tratta del suono più spavaldo esibito dagli

esordi di Special 20, riconducendo alla basele sue ballate (in fondo mai così distanti,neppure nei momenti più “modernisti”espressi in The Truth About Us): sono lechitarre ficcanti di Kenny Vaughn (LucindaWilliams band, Marty Stuart) ad alzare laposta in gioco, tra il grattare bluesy della titletrack, le sferzate garage di Stormy e lestilettate elettriche di una Get What I Gor chefa muovere anche le pietre. Ma in fondo lo sipoteva capire fin dall’inizio che l’aria sisarebbe surriscaldata: 1,2,3,4, scandiscechiaramente il battito Tim Easton in BurgundyRed e lascia a briglie sciolte la sua lingua“dylaniana”, prima di immergersi nel caloredella band e nelle scudisciate della sei corde.Tutto ciò, beninteso, senza smentirel’affermazione fatta in apertura dallo stessoprotagonista. Porcupine mostra infattiabbastanza charme e romanticismo perdeliziare chi aveva imparato a conoscere TimEaston come uno dei rappresentati miglioridella nuova onda cantautorale sbarcata aNashville qualche stagione fa (con lui RobbieFulks, Tommy Womack e Todd Snider adesempio): Stones Throw Away e Long Cold Nightin Bed sussurrano tenerezze acustiche, 7thWheel è un esempio perfetto di equilibri folkrock, così come Goodbye Amsterdam unapiccola gemma pop dove piano (Brad Jones)e violino (Megan Palmer) prendono permano la melodia e insegnano come si scriveuna canzone partendo da poche machiarissime idee.(Fabio Cerbone)

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The Felice BrothersYonder is the Clock

“La tua jazz-band ha perso il suo swing, larivoluzione ha perso il suo ring, e quando tutto il

tuo amore è stato una bugia, quello è il giorno della grande sorpresa”. Bum!Knock-out. E va bene: ci arrendiamo. Stavolta vincono i Felice Brothers: lagrande sorpresa l’hanno fatta loro a noi, e fine della partita. Per vocazione e“mission” Rootshighway avrebbe potuto portarli in un palmo di mano findal loro Tonight At The Arizona del 2007, o perlomeno in occasione delsuccessivo acclamatissimo album omonimo. Eppure, se consultate il nostroarchivio, ci scoprirete prudenti e guardinghi dichiarare che “si resta con ildubbio, già espresso in Tonight at the Arizona, se i Felice Brothers ci sianoo ci facciano (…). Al prossimo turno stabilire se hanno spalle larghe esufficiente ispirazione per portare oltre queste intuizioni”. Il turno inquestione si chiama Yonder Is The Clock, espressione rubata a MarkTwain (giusto per ribadire ancora un volta la propria appartenenzaculturale), e stavolta è arrivata la conferma che aspettavamo.Il nostro problema era in fondo quello di aver paura di amarli troppo:loro nei panni della nuova Band degli anni 2000 sono infatti fin troppoperfetti per essere veri, con un’immagine e una biografia cosìinconfondibilmente “roots”, da puzzare di sapiente costruzione fatta atavolino. Per cui bene così, arriviamo forse tardi a promuoverli sul camporispetto ad altri strilloni di “next big thing”, ma quando dobbiamosceglierci delle giovani guide spirituali, preferiamo sempre noninciampare nella frettolosa beatificazione dei nuovi fenomeni. Ancheperché di miracoli non se ne fanno più neanche qui, e Yonder Is TheClock non sarà il nuovo No Depression che qualcuno ancora si ostina a

cercare. Ma di grandi canzoni, per fortuna, ne è pieno questo disco comeil mondo, e i fratelli Simone, Ian and James Felice semplicemente stannodimostrando cosa vuol dire scrivere “storie d’amore, morte, tradimenti,baseball, stazioni, fantasmi, epidemie, celle carcerarie, fiumi rombanti efredde serate invernali” senza scadere troppo nell’iconografia di unimmaginario musical-letterario ultra-rodato.L’album vive essenzialmente di due anime: la migliore resta quellamalinconica e introspettiva, quella che dalla The Big Surprise citata inapertura, passa per la strabiliante Ambulance Man, strascicato estruggentissimo lamento infarcito di citazioni “mitologiche” (“This was anold rodeo in the long ago, now it’s a burning ring of fire”), o ancora nelmelvilliano lamento del baleniere di Sailor’s Song. Stavolta la combriccoladei Felice non ha proprio sbagliato nulla nel toccare le corde più profondedel miglior cantautorato americano, sia quando si dondolano nel ritmopigro di Katie Dear, sia quando si lasciano andare alle amare riflessioni diAnd When We Were Young (“da dove venivano quegli aeroplani che hannobruciato la nostra città? Tutto quel fumo e quella cenere ci hanno soloinsegnato come schiantarci!”), fino all’apoteosi dei sei minuti di Coopertown,emozionante dedica a Ty Cobb, leggendario campione di baseball (unosport che gli americani ammantano della stessa epica che noi italianiattribuivamo al ciclismo, prima che il doping ne distruggesse ognipossibilità poetica). L’album si sorregge però anche su una vena piùscanzonata e movimentata (Penn Station e la sgangherata Memphis Flu), osu scherzi rockettari usciti direttamente dal loro studio di registrazione,che leggenda vuole essere stato ricavato da un ex pollaio (Chicken Wire el’irresistibile Run Chicken Run).Sapranno confermarsi su questi livelli in futuro? Stavoltarispondiamo subito: chi se ne importa! Un disco come Yonder Is TheClock ormai l’hanno fatto, e potrebbe davvero bastare.

(Nicola Gervasini)

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Ramblin’ Jack ElliottA Stranger Here

Il soprabito è fradicio e sgualcitodall’acqua, le valigie stazionano ai piedidi uno “straniero”che si prepara forsead vagabondare nel mondo in cerca diun approdo: manca soltanto unachitarra per tornare alla mitologiadell’hobo americano, ma sappiamobene che basta quel nome, Ramblin’Jack Elliott, per evocare unimmaginario fatto di depressione,polvere, treni, fuggiaschi, reietti emarginalità. A Stranger Here fomentatutto ciò con una celebrazione chetuttavia non ha il sapore della solanostalgia, piuttosto la saggezza di unlungo mestiere, di un camminointerminabile, giunto alla soglia deisessanta anni di carriera, per un uomoche ne porta settantasette sulle spallee non si è ancora stancato di cantare.Con la sua voce rotta e incerta, senzadubbio, ma con l’anima pulita e unavolta tanto con un produttore, deimusicisti, un’etichetta che si sonopresi la briga di costruirgli intorno unlavoro di ricerca, di donare alla suafigura un senso che non sia soltantoun rito fatto di ricordi.Joe Henry, ancora e sempre lui,coscienzioso indagatore di vecchieglorie, gli ha messo a disposizioneun’idea e soprattutto un suono chesuscitasse un parallelo fra l’Americadel crollo finanziario di oggi e quellaspesso sobillata a sproposito dellaGrande Depressione. Non è il caso diA Stranger Here e dei suoi countryblues asciutti e sferzanti, che dagli

spettri di Son House, Mississippi JohnHurt, Reverend Gary Davis, BlindWillie Johnson ricava unarappresentazione magica dentro cui siriflette il presente. A far compiere unoscatto rispetto anche al precedenteesordio su Anti (quel grezzo e scarnobozzetto folk di I Stand Alone), non ètuttavia la semplice scelta di unrepertorio “black” e fuori dallanormale visione di Ramblin Jack Elliott:in A Stranger Here ci sono stanzeaccoglienti e altre più buie, e inognuna si viene accompagnati permano da musicisti che Henry hadiretto con la proverbiale emeticolosa eccellenza. Dal pianismosfavillante di Van Dyke Parks eKeefus Cinancia alle cesellaturechitarristiche di Greg Leisz(illuminazioni e godurie in Rambler’sBlues), dall’accordion di DavidHidalgo alla sezione ritmica formatada David Piltch e Jay Bellerose, c’èesperienza sufficiente per non farapparire classici quali Death Don’tHave No Mercy e Soul of a Man(commovente da groppo in gola)esercizi di stile.Joe Henry sembra inoltre avereaccantonato quella patina di contegnoche cominciava ad affiorare troppospesso nelle più recenti produzioni: ilcanto di Ramblin Jack Elliott risultacosì tutt’altrro che artefatto (inGrinnin’ in Your Face di Son House siconcede in tutta la sua precarietà) e ilrepertorio una manifestazione divitalità in presa diretta, tra il dolcecullare di Richland Women Blues, unaHow Long Blues (Leroy Carr) chegigioneggia fra gli svolazzi della fisa diHidalgo, per non tacere infine di unaNew Stranger Blues che suggeriamo aRy Cooder di riprendere presto inconcerto. Come dite? Gioco facilecostruire un disco della portatacomunicativa di A Stranger Blues, vistiprotagonista e comparse? Provateciallora, a prendere per le corna questecanzoni e a non venirne disarcionaticome assoluti dilettanti.(Fabio Cerbone)

BeauSoleilAlligator Purse

Michael Doucet non è mai stato e maisarà una stella della musica eppure il suopalmarès vanta allori da incutere rispettoanche ai nomi più altisonanti dello showbusiness: ben dieci sono le nomination aiGrammy Awards dei suoi BeauSoleil enel 2005 ha ricevuto il premio alla carrieradal National Endowement for the Arts –agenzia governativa che è una sorta diMinistero dei Beni Culturali degli StatiUniti – riconoscimento che in passato èandato a musicisti come Bill Monroe, RalphStanley, Clifton Chenier, Ola Belle Reed edaltri pilastri della musica popolareamericana. L’appena cinquantottenneDoucet si è trovato quindi beatificato invita ma Alligator Purse – nuovo lavoro instudio della sua band – esibisce fin dalleprime battute una vitalità che spazza ognidubbio sul fatto che davanti abbiamo unartista alive and kicking e non un pezzo damuseo. In oltre trent’anni di carrieraDoucet è sempre riuscito a restare inequilibrio tra il revival cajun e i suonicontemporanei, riuscendo a coniugare leradici francesi della Louisiana con i ritmibianchi e neri degli USA: Alligator Purse simuove ancora una volta lungo questastrada.Reel Cajun è l’indiavolato strumentaled’apertura e si tratta di un classico a firmadella leggenda cajun Dennis McGee ma lacitazione scozzese – il reel – fa pensareanche a Barry Dransfield – altro nome daleggenda ma da questa parte dell’Atlantico– il grande violinista folk che negli anni ’70iniziò Doucet allo strumento. Non si fa intempo a riprendere fiato che la seconda

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Second HandSecond Handaaaavvvvvvvv iiii ssssttttaaaa tttt iiii iiiinnnn qqqquuuueeeesssstttt iiii mmmmeeeessssiiii

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traccia ci fulmina perché Rouler et Tourneraltro che non è che Rollin’ and Tumblin’ –blues primitivo reso famoso prima daMuddy Waters e più recentemente da BobDylan, che qui riceve il trattamento cajunda Doucet e soci: il testo in francese, ilviolino che fa la chitarra e il tuttosostenuto dal tipico backbeat dellaLouisiana del sud rivelano un volto nuovodi questo brano antico. I Beausoleilincontrano poi gli Appalachi quandoinsieme a Nathalie Merchant intonanoLittle Darlin di Julie Miller, mentre Marie livede alle prese con una sezione fiati R&B;umori Dixie invece per Les Oignons, equando il ritmo cala troviamoThe Problem,una cover di J.J. Cale: l’unione di ritmi cajune sonorità laid back del Tulsa Sound èriuscitissima!Ancora un momento felice con I Spent AllMy Money Loving You – firmata da Doucet eda un altro pezzo di storia della Louisian,Bobby Charles – il brano è impreziosito dauna intro all’organo di Garth Hudson.Alla fin fine non servono molte parole perdescrivere questo disco: Alligator Purse èl’ennesimo capitolo vincente delladiscografia dei BeauSoleil, la versatilità dellaband, l’abilità nell’attingere dal repertorio –tanto cajun che della musica americana ingenerale – e il fiuto nel cercare lecollaborazioni giuste rendono questolavoro necessario a chi già conosce lamusica di Doucet e un eccellente primopasso per chi si avvicinasse a essa solo ora.(Maurizio Di Marino)

Mickey ClarkWinding Highways

Una storia comune a tanti, nellaNashville che cambiava faccia alloscadere degli anni sessanta: MickeyClark vi era approdato nella speranza dirivoluzionare quel mondo“conservatore” e la sua lunga tradizione.C’erano segnali evidenti tutti intorno alui: Kris Kristofferson, Townes Van Zandt,

Steve Goodman, John Prine e Jerry JeffWalker. Mickey ha avuto la fortuna diconoscerli tutti, condividendo canzoni epalcoscenico, portando in dote la gavettanel Village di New York con il trio folkThe Three of Us, quindi scrivendocanzoni per proprio conto, qualcunafinita fra le mani di Jerry Lee Lewis. Glianni però sono fuggiti via e come altrigregari relegati nel sottoscala delbusiness musicale, Clark si è dovutoreinventare una storia e una famiglialontano dal centro dell’azione. Qualchesingolo all’alba degli anni ottanta, undisco, Late Arrival, passato neldimenticatoio, fino a quando non ètornata la voglia di farsi sentire. Primaqualche concerto, attività maiabbandonata del tutto, dalle parti dellasua Lousiville in Kentucky, poi il contattogiusto e la svolta che aspettava da unavita intera: una telefonata al grande JimRooney, produttore del disco edestensore delle note nel libretto, nonchéun favore chiesto a John Timmons dellalocale ear-X-tacy Records, così prendeforma Winding Highways, il disco delriscatto.Un gioiello fra country d’autore eaccenti hillbilly come non se ne sentonopiù, che ha preso corpo tornando sulluogo del delitto, a Nashville, mettendoin fila la steel di Al Perkins, le chitarredi Tim Krekel, il contrabasso di DavePomeroy, il piano di Barry Walsh edaltri ancora. Una band stellare made inTennessee che forgia il suono rotondo,agreste e gentile che infonde Red VelvetCake, Bound to Lovin’You, Wyoming Child,episodi raccolti lungo trent’anni di esilio,oggi riverniciati con una sensibilità dapiccolo artigiano della roots music.Mickey Clark ha una voce calda,accomodante, una autentica rivelazione ele sue ballate nostalgiche sanno di vecchisapori perduti dentro un’America dacartolina, tra le pacche sulle spalle deicolleghi James Talley, Guy Clark e JohnPrine. Li ricorda nello stile enell’approccio, tanto è vero che proprioPrine lo affianca nello spiritoso duettoswingante di Don’t Piss on My Boots andTell Me It’s Rainin’, materiale degno di unJerry Jeff Walker d’annata. Guardacaso quest’ultimo spunta come secondoospite d’onore nel finale di GoodnightLoving Trail, dolcissimo walzer countryfirmato dallo scomparso Utah Phillips,una delle tre cover che impreziosisce lascaltetta insieme alla Lousie deldimenticato Paul Siebel e la malinconicaWendigo (Dwain Story).Quello che resta arriva dritto filato dallapenna di Mickey Clark e non fa

rimpiangere assolutamente i piùblasonati colleghi: dal cullare serafico diNight Rider’s Lament all’orizzonte westerndi Where the Green River Flows, dallatrasparente melodia di Sarah alla fiestatex-mex di Tijuana Tequila, con tanto diaccordion al traino. Winding Highways èuna lezione di stile e modestia, ha ilsapore delle cose fatte in casa, unoscrigno ineccepibile di canzoni dall’animaAmericana.(Fabio Cerbone)

Howard Elliott PayneBright Light Ballads

Ogni tanto qualche rockstar britannica siprende il vezzo di travestirsi da yankee edi regalarsi “l’album americano”.Tumbleweed Connection di Elton John,Muswell Hillbillies dei Kinks, TupeloHoney di Van Morrison, Rattle and Humdegli U2 o Give Out But Don’t Give Updei Primal Scream sono i primi illustriesempi che vengono in mente. Ci sibutta a capofitto in tradizioni lontane daifumi di Londra (o dalle verdi collineirlandesi), e molto spesso il truccofunziona. Sarà questo ad aver dato laforza ad Howard Eliott Payne diprovarci fin dall’esordio solista, quasi avoler mettere un marchio sulla propriavita artistica che lo allontani fin da subitoda Liverpool, la sua città natale. Lui nellapatria dei “fab four” era conosciutosemplicemente come Howie Payne edera il leader degli Stands, una brit-pop-band con due album all’attivo, 5 singoligiunti in top 40 UK, e tour come spalladi Libertines, Oasis, Jet e “sua moddità”Paul Weller. Bastano dunque le antichefrequentazioni per farvi capire il taglionetto operato da questo ragazzo, che hamollato il gruppo proprio sul più belloper prendersi una lunga vacanza in Texas.Da dove se ne è uscito con questoBright Light Ballads, poco più dimezz’oretta di brani profondamente

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“Made In Usa,” registrati con volutogusto retrò su un rudimentaleregistratore a otto piste. E così Payneconferma che il link Usa-Uk è semprevivo, perché il risultato è uno dei miglioridischi da vero hard-core troubadoursentito in questi primi mesi del 2009.Complice anche il fatto che Howardabbia evitato le trappole dellamegalomaniaca autoproduzione,affidando le sorti del suo primo figlioartistico a Ethan Johns, mister “come-lo-produco-io-Ryan-Adams-non-loproduce-nessuno”, con i risultati perfettiche ci si aspetta da cotanto nome intermini di piena credibilità del roots-sound. Payne però ci ha messo del suo,scrivendo una serie di belle canzoni folkcome Dangling Threads o Until Morning,piccoli gioiellini che probabilmentesarebbero stati in piedi anche in unoscantinato di Liverpool. Inutile cercarenuovi spunti o particolare personalità inquesto prodotto: Bright Light Ballads èun disco di genere fin dalle intenzioni edai per nulla nascosti rimandi, che vannodal Neil Young acustico e soffertoecheggiato in You Can’t Hurt Me Anymore,ai Byrds di media età risentiti nellamelodia di Underneath The Sun Rising.Il vero modello resta però Ryan Adams,pesantemente presente nei meandri diballate come Summer Has Passed o WalkBy My Side, brani che bisognerebberisentire senza l’ingombrante presenza diEthan Johns per capire fin dove sono

davvero farina del suo sacco. Intantogodiamoci un disco fresco, due branistrepitosi come Come Down Easy e I JustWant To Spend Some Time With You, e laclasse dimostrata nel finale tutto old-time-folk di Lay Down Your Tune For Me.Sono esattamente quelle perle disaggezza da rock delle radici checerchiamo instancabilmente nei tanti cdche passano in questi paraggi.(Nicola Gervasini)

Abi TapiaThe Beauty in the Ruin

La scuola texana, si sa, sforna aripetizione un gran numero di talenti cheescono dall’Università di Austin contanto di laurea in Americana. Spesso apieni voti, dobbiamo ammettere, come

nel caso di Abi Tapia, che è andata astudiare i segreti di quella disciplinagrazie alla passione per la country musicversione stella solitaria, quella che brillaancora e fa luccicare un genere che unpo’ più a est risuona vuoto e ormaicompletamente ammaestrato.Un’infanzia nomade – e questa è unadelle caratteristiche comuni alla maggiorparte degli alunni dello stesso corso –che si trascina tra Iowa e Maine, lamusica nel sangue e un’attitudine che, adifferenza di molti colleghi, va oltre lasemplice stropicciata di un sognoammorbidito da un arpeggio di chitarra.Abi ci sa fare, lo si percepisce sin dalleprime note di questo album che segue ilgià ottimo One Foot Out The Door diquasi quattro anni fa, una manciata dicanzoni che lasciano trasparire unsongwriting maturo e una produzione divalore che conta su pochi mezzi mabuoni, come a ribadire che la sostanzanon ha bisogno di suppellettili, spesso unlimite alla naturale e nobilepredisposizione.Chris Gage, patron della MoonHouse eottimo polistrumentista, dispiega unsound che incornicia a dovere alcuniritratti di tristezza, solitudine e speranzaa lieto fine. Pedal steel e violinoarricchiscono senza esagerare unimpianto semiacustico che pone connaturalezza Abi Tapia nella folta schieradel cantautorato al femminile in sensoclassico, quello che miscela senza

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FlatlandersHills and Valleys

Le Hills and Valleys messe in scena daiFlatlanders sono la trasposizione degli

up&down vissuti in questi anni da un’intera nazione: se tra i versidi Homeland Refugee, un titolo che spiega già tutto, si insinua unacitazione di Pastures of Plenty di Woody Guthrie e sequest’ultimo ritorna apertamente nel finale, grazie alla vivacecover di Sowing on the Mountain, possiamo essere certi che ilnuovo viaggio intrapreso da Joe Ely, Butch Hancock e JimmieDale Gilmore si posiziona saldamente nel solco di quellaamerian folk music con un’anima popolare e sociale, semprepronta ad affrontare a viso aperto i mali della sua terra. Eccospiegate le ombre di Katrina In After the Storm, quelle piùstrettamente locali evocate in Borderless Love, fra muri e barriere adividere le civiltà, o ancora le meno dirette eppure speranzoserichieste di cambiamento che si affacciano in Just About Time enello scattante walzer elettrico di Cry fro Freedom.Nella condotta così esplicita di Hills and Valleys è racchiusa laspiegazione stessa della sua riuscita, con ogni probabilità ilmigliore risultato ottenuto dal terzetto texano, perché dalla“maniera” e dal semplice divertimento che affiorava nei precedenticome back discografici, sembra essere passato ad una collaborazionepiù intensa in fatto di songwriting e tematiche. Insomma, sono

ormai più una band che una leggenda i Flatlanders: i fattori sisono invertiti e non possono più giocare con la mitologia, poiché illoro percorso si è accresciuto di stimoli, in partenza pocoprevedebili, ed oggi del tutto evidenti nella freschezza di episodiquali Love’s Own Chains, il Joe Ely più convicente da molto tempoa questa parte, persino nella schietta forma country rock cheinfonde The Way We Are (scritta da Colin Gilmore) e nei brani piùgoderecci nell’intrecciare l’arte della border music (No way I’llNever Need You, con l’accordion di Joel Guzman che scorazza inlibertà, e ancora la splendida Thank God for the Road). Facile,penserà qualcuno, quando si allineano i talenti del citato Guzman,di Bukka Allen, Robert Gjersoe e Rafael Gayol tra gli altri, equando si richiama all’ordine il vecchio compagno Lloyd Mainesper farsi cucire addosso il sound più verace possibile, ma non èaffatto una mera questione di numeri e comparse.Hills and Valleys convince dunque nella sua chiara complicità instile Americana – una delle migliori del 2009 in corso, va da sé –semplicemente perché ha messo in disparte una buona volta ilcalcolo e una certa accondiscendenza con il proprio passato, percostruire una mappa più variegata, dove le penne di treincontrastati signori del Texas, gli stessi che non hanno più nullada chiedere alla gloria, si sono finalmente prestate a seguirel’istinto. Certo, qualche canzone potrà anche girare un po’ a vuoto(After the Storm, There’s Never Been), ma nel conto finale Hills andValleys porta a casa un bottino di tutto rispetto, sfiorando iquarant’anni di storia in comune con indiscutibile naturalezza.(Fabio Cerbone)

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difficoltà country, folk e qualche goccia dirock che aumenta il grado alcolico senzarischio di ebbrezza. In questo caso direiche ci troviamo di fronte a una via dimezzo tra Mary Chapin Carpenter e laTracy Chapman del primo disco, quelloche ormai fa parte del mito: se siascoltano l’iniziale Another State Line,un’autobiografia in musica con tanto disteel, la bellissima My Miner, una sorta diversione moderna di For My Lover, e laconclusiva The Last Waltz, grandissimaballata dall’impianto epico, non tardiamoa rendercene conto.The Beauty In The Ruin è un discosolido dall’inizio alla fine, ricco di spuntinotevoli e sorprendenti come The EasyWay, un brano che affronta il difficiletema della depressione, con organo eviolino a imprimere il passo a un refrainmagistrale, oppure Let The Lover Be, uncountry upbeat da canticchiareall’infinito, con quella limpidezzamelodica che scombina i piani delmotivo da fischiettare durante lagiornata. Se Flying racchiude qualcheinflessione pop, Beware poggia suun’impalcatura folk di stampo classico,mentre Just Let Me Go è un countrydegno di tale nome che apre le porte aGet It And Go, chitarra knopfleriana ealtro highlight della raccolta. Non potevamancare una concessione al rock, e BornAgain giustifica l’assenza in tempo reale.Belle canzoni, bella voce, Abi Tapia hatutte le qualità per emergere, se lomerita.(David Nieri)

Danny SchmidtInstead the Forest Rose toSing

C’è della poesia fin dal titolo, Insteadthe Forest Rose to Sing, e un pizzico dimistero nella copertina personalmentecurata da Danny Schmidt, unfolksinger texano che ha compiuto il

salto di qualità affermandosi alprestigioso festival di Kerville. Da allora,dopo un’accoppiata di lavoriindipendenti, è arrivato l’approdo in casaRed Hosue, sigillo di garanzia che collocail folk rock d’autore di Schmidt lungouna precisa direzione artistica, la stessache in tempi recenti ha portato in dononuovi talenti quali Jeffrey Foucault e hamantenuto i legami con un mondo disongwriter che guardano prima di tuttoalle parole e ai dettagli di una chitarraacustica. Per qualcuno Schmidt potrebbepersino essere “il Greg Brown della suagenerazione”, ma esagerazioni a parte emesse le giuste distanze fra storie e stilitroppo differenti, restano dieci canzoniche sono comunque la fotografia di untexano atipico.Nascono ad Austin infatti – grazie allaproduzione parsimoniosa di MarkHallman (onnipresente in sessione conmandolino, slide guitar, piano, organo epercussioni) – queste ballate agganciateal treno delle radici ma maieccessivamente rivoltate nella polveredel West: ecco perché in un istantepotreste scambiare Schmidt per undelicato menestrello da East Coast ecoffee houses, con i suoi tratticonfessionali e molto poetici (The Night’sBeginning to Shine), e in quello successivoper uno storyteller di razza che sollevala terra in cerca di qualche personaggioo leggenda da narrare (Grandpa BuiltBridges). Instead the Forest Rose to Singabbraccia entrambe le soluzioni e offreun ciclo di canzoni fra loro legate da untema unico: il rapporto dell’uomo con ildenaro e le conseguenze che tutto ciòcomporta sull’anima e la libertà diciascuno. Un viaggio che si sviluppaattraverso osservazioni profonde e vividiquadretti, spaziando da un folk bluescanonico (Better Off Broke) ad una ballatacolma di tensione, che balla lungo ilborder (Southland Street equell’accordion che ci riporta verso iluoghi calpestati da Tom Russell), sfiora loswing bluesy di Two Timing Ban Robber’sLament (efficacissima l’armonica diGeorge Carver) e infine accentua lamalinconia dell’autore nei tratti rockpossenti di Serpentine Cycle of Money, conla seconda voce della collega CarrieElkin.È dunque un disco più sottile ecomplesso del previsto Instead theForest Rose to Sing, pur in tutta la suafedeltà ai canoni del genere (da Firestorma Oh Bally Ho non ci si può sbagliare), ilfrutto di un autore che ha vissuto sullasua pelle una autentica odissea vista dallastrada, libero di sviluppare un collettivo

di musicisti in Charlottesville, persino divivere in una comune, ma soprattutto disconfiggere un cancro senza uno stracciodi assicurazione sanitaria, soltanto grazieai proventi della sua musica e solo alloradi fare ritorno ad Austin con un contoaperto da riscuotere. Giudicando dallacristallina cura con cui si sviluppano lesue composizioni, anche dai tonidrammatici che riescono a sfiorare(Accidentally Daisies e l’intera sezioned’archi al seguito), Danny Schmidtpossiede la naturalezza e la sincerità dichi sa porsi con le sue canzoni fuori deltempo.(Fabio Cerbone)

Handsome FamilyHoney Moon

Honey Moon è un album luminoso, unalbum di love songs che a sorpresa va adoccupare la casella numero otto nelladiscografia della Handsome Family: laBella Famiglia di Brett e Rennie Sparksfesteggia in questo 2009 vent’anni dimatrimonio e sarà forse questaricorrenza ad aver spinto la coppia adaccantonare per la prima volta leatmosfere da “murder ballads” cheavevano caratterizzato finora il lorocatalogo. Se la virata dei testi è persinobrusca, la musica continua a vagare lungoi sentieri degli Appalachi mentre laproduzione – dal mixer all’artwork –resta fatta in casa e le dodici canzonisono tutte scritte a quattro mani daiconiugi Sparks – unico intruso tale JasonToth che dà una mano coi ritmi battendole pelli con discrezione.Il disco prende il via con Linger, Let meLinger, un country venato di gospel chemusicalmente fa pensare a Crying in theChapel nella versione di Elvis Presley.Intanto il testo rivela da subito comeBrett e Rennie abbiano una vena moltopersonale da esplorare, anche al di fuoridei loro soliti temi: “come il rovo

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avviluppa la staccionata, come il ragnotesse la tela tra gli alberi, e il platanosolitario si piega alla brezza, io sono lapozza sulla strada che aspetta la cadutadelle tue foglie”. Più avanti sarà Lonelinessof Magnets ad affermare senza ulterioreindugio che il mondo amoroso dellaHandsome Family è padrone diun’originalità d’immagini che non farimpiangere gli scenari gotici della loroproduzione precedente. Il tessutomusicale di Honey Moon è saldamenteancorato alla tradizione e soprattuttodue brani A Thousand Diamond Rings e ilpezzo di chiusura – The Winding CornMaze – costituiscono due bellerivisitazioni delle ballate degli albori delrock&roll. Un album solido questoHoney Moon e proprio per questospicca Love is Like, la quale inizia consonorità adatte più agli Sparks – intesicome fratelli Mael – che non ai nostriBrett e Rennie, ma la corposa vocebaritonale di Brett ci riporta subito acasa e così, per poco più di tre minuti,restiamo perplessi chiedendoci doveintendessero andare e perché.Fortunatamente alla traccia successiva gliSparks – quelli veri, quelli nostri – calanol’asso e così The Petrified Forest ci catturacon i suoi toni resi struggenti grazieanche alle armonie di Rennie, cheaiutano Brett ad essere più lirico delsolito. A proposito di miscele vocali unamenzione particolare la merita WildWood – un country convenzionale forse– ma certe cose semplici godono di un

fascino imperituro. Honey Moon, purcon tutto il bene che contiene lascia lasensazione che The Handsome Family –una delle formazioni storiche del neo-folk – fosse alla ricerca di unrinnovamento, una scelta che mostraattenzione per il vivace movimento diquesta scena musicale e che ci consegnail disco meno peculiare di questo duo,ma si tratta comunque di un lavoro checonferma il valore della loro musica,svelandone nuove sfaccettature.(Maurizio Di Marino)

JBMNot Even in July

È il mese delle belle scoperte. DopoDennis Kolen, musicista olandeseascoltato di recente, Jesse Merchant èun esordiente che vale la pena

conoscere. Si sta facendo un nome comescrittore di canzoni e i suoi concertistanno raccogliendo sempre piùconsensi, tanto che probabilmenteavremo presto la fortuna di vederloanche qui da noi. Si nasconde sotto lasigla JBM e in ambito artistico non è unnovellino, avendo già una discretaesperienza come attore. not even inJuly è il suo primo disco, prodotto daHenry Hirsch, ingegnere del suono diLenny Kravitz, da cui è distante anni lucein tutti i sensi. Jesse è un canadesetrapiantato negli States, un particolarenon trascurabile nella sua musica, intrisadi una vena malinconica che possiamoriscontrare in altri suoi conterranei (NeilYoung e Bruce Cokburn sono nomi chedovrebbero dirvi qualcosa).Non si considera un pessimista, e a noisembra più uno spirito sensibile chepennella il suo mondo con la delicatezzadi chi ha fatto delle emozioni un asseportante della propria vita. L’inizio ècome una salita che ti sfianca le gambe,solo che in questo caso si parla di unimpatto deciso, tanta è la grazia di unacanzone profonda come Years, che sidilunga su aperture strumentali disincera bellezza. Anche in questo caso sipuò riscontrare una felice analogia con iltalentuoso Ryan Adams di Desire o diRock N Roll, piccolo gioiellino acusticoin mezzo a tanta elettricità dell’albumomonimo. Jesse ha comunque maturatoun proprio stile, non è un cantautore nelsenso classico del termine, folk e

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Williem MakerNew Moon Hand

Specializzata in cause perse, scovate nellaperiferia del profondo sud, la Fat Possum

quest’anno estrae dal proprio cilindro magico il nome di WillemMaker, e ancora una volta sorprende tutti nel portare alla lucetalenti fuori dagli schemi. Il ragazzo in questione vienedall’Alabama, ed ha al suo attivo un embrionale album auto-prodotto (Stars Fell On) e tante idee da modellare in un lavoropiù compiuto. New Moon Hand è il suo personale e ben riuscitoomaggio al blues sudista, genere che Maker amplifica, indurisce edestruttura con grande maestria e originalità. Il riferimento piùevidente, oltre al compagno di scuderia R.L. Burnside (c’è il figlioCedric tra i musicisti coinvolti), potrebbe essere il William ElliottWhitmore più arrangiato sentito di recente, ma Maker porta illivello del volume ancora più in là, creando spesso un muro delsuono che ha i sapori quasi dei White Stripes o dei Black Keys.Sarebbe invece interessante approfondire in analisi a parte questanuova vena mistica che sta prendendo piede nella provinciaamericana, chiedendoci magari come mai il linguaggio dapredicatore, adottato anche da Maker, stia riscuotendo così tantigiovani adepti. La sua vena religiosa è infatti la stessa sentitaanche in molti prodotti di ultima generazione rootsy, come adesempio quelli di Tom Feldmann e i suoi Get-Rites, ma lui esalta

le proprie esortazioni alla redenzione dell’anima con quel suovocione cavernoso e minaccioso, perso in un mare di slide-guitarssputate fuori dai fanghi del delta e rozzi riff da hard-blues d’altritempi. Rispetto alla media, Maker sembra però avere un passo inpiù in termini di scrittura: se ad esempio Rain On A Shinin oWhite Ladye sono semplici strutture blues tarate sulle sue corde,le sofferte Hex Blues e Saints Weep Wine svelano un autoresopraffino, con il sangue infarcito di cantautorato texano divecchia scuola. E la voglia di gettare ponti sugli stili non finiscequi: The Greatest Hit sa di alt-country anni 90, New Moon Handpresenta un lonesome hobo da strada intento a soffrire sullapropria sgangherata chitarra acustica, mentre Old Pirate’s Song èun roccioso heartland-rock.Musicalmente il disco mostra già una grande maturità, ma instudio come backing-band girano nomi rodati e altisonanti come iLambchop e i Silver Jews, e nella schiera di musicisti in sessionritroviamo anche vecchi marpioni come Jim Dickinson el’inconfondibile sei corde di Alvin Youngblood Hart. C’è tutta latradizione del sud dunque, ma rivista con piglio sperimentale e“progressista”, il che rende New Moon Hand un album in gradodi oltrepassare gli steccati di genere. Che vi ritroviate nella lungacavalcata elettrica di Lead & Mercury, nella rauca malinconia diRosalie o negli accordi aperti di Hard To Told (sembra Ride On deivecchi AC/DC…), in ogni caso New Moon Hand è la nuovasperanza di rinnovamento di quel suono del Mississippi che tuttiamiamo incondizionatamente.(Nicola Gervasini)

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country sfiorano appena la sua musica,quello che si riscontra invece con unascolto attento è la sua naturalepredisposizione a scrivere canzoni moltoevocative, quasi esclusivamente acustichee spesso suonate in punta di dita ecantate con il trasporto di una grandepassione.July On The Sound è l’esempio tangibile diquanto detto. Inizio pianistico di sicuroeffetto, una melodia straniante esognatrice e una coda finale leggermentedistorta che ci culla nelle sue sonoritàelettriche un po’ indie. E che dire dellaconclusiva Swallowing Daggers, gestita insolitaria con la chitarra arpeggiata e lasua calda voce? Stupenda. Ma è tutto ildisco a mantenere un livello qualitativomolto alto, l’ispirazione è quella giusta ele canzoni di quelle che restano. Per chicerca un nuovo songwriter dallesonorità crepuscolari e dalla venapoetica avvolgente Jesse Merchant ècaldamente consigliato, per chi è piùaffezionato alla tradizione puòrappresentare un soddisfacente diversivo.Per noi già un musicista su cui fareaffidamento per il futuro.(Edoardo Frassetto)

Tom CaufieldThe Times are Never so Bad

La stampa d’oltreoceano lo definiscel’anello mancante tra l’heartland rockdi Springsteen e l’introspezione poeticadi Jackson Browne, una sorta difermaglio coast to coast in grado dipiegare in due la cartina senzarovinarne i contorni. C’è da direinnanzitutto che Tom Caufield è unodi quei misteri che non si spiegano,molto più di altri in verità, e il motivo èmolto semplice: ascoltando questodisco si stenta a comprendere il perchédi tanto anonimato, tanto più che nonsi tratta di un’opera prima, on the roadci sono diversi album e collaborazioni,

quelle che lo vedono esordire tra le filadei Raisins, band dell’Ohio chediventerà il supporto di Adrien Belewnella terra degli orsi. Nativo delMichigan, Caufield ha vissuto tra NewYork e Nashville prima di stabilirsidefinitivamente sulla West Coast,assorbendo colori e gradazioni di unatradizione in viaggio, quella che riflettenei suoi dischi autoprodotti, a parte unesordio che risale al 1988, LongDistance Calling, realizzato per laParadox e distribuito a livello nazionaledalla PolyGram, tanto per iniziare acostruire le ali di un sogno.Non c’è bisogno di aggiungere che se sisogna in bianco e nero gli incubi sonomonocromatici, e possiamo capire inquale direzione virano. Caufield restasul marciapiede del successo, e da solocontinua a lavorare su diversi progetti(tra i quali un duo) senza mollare. Inaltre epoche il suo roots-pop-folk-rockavrebbe senz’altro fatto breccia nellediscografie che si rispettano, o forse no,sarebbe stato il risultato dell’ennesimobeautiful loser del cui passaggio siaccorgono in pochi. Chissà, con i senon si fa la storia, neanche quella dellamusica. Nell’album, a parte qualcheeccezione, l’artista suona tutti glistrumenti e registra nel suo studio,sede della sua etichetta a Brentwood,California. Un talento innato per lemelodie semplici, da godere finoall’ultima goccia, con il Bryan Adamsancora sotto contratto con la decenzache si affaccia tra le note della titletrack, una bellissima canzone chesgorga da un periodo di difficoltà, conun retrogusto amaro intriso disperanza.Le esalazioni pop si respirano sindall’inizio e regalano emozioni a nonfinire, a partire da The Old West End,canzone limpida e vibrante che offuscale ombre e sterza verso il sunny side oflife; che dire poi di Meant To Be e To SeeThe Stars, due ballate ricche dicontaminazioni da parte di un certomainstream anni ottanta (quello buono,si intende), oppure di Eyes Wide Shut,titolo kubrickiano il cui svilupporicorda il Michael McDermott dei primidischi, cioè il migliore, fino all’apoteosidi Throw It In The Fire, quintessenza diuna innata intimità con il pentagrammae gli strumenti per cristallizzarlo inpiacevole frastuono. Si chiude con gliechi folk di Drifting On Till Morning Tide eThe Staying Kind, splendide aperturemelodiche che trasfigurano uno statod’animo in attesa. E pensare che il fai date regna sovrano, con tutte le

limitazioni del caso. Non osoimmaginare cosa succederebbe con unaproduzione professionale, quella che algiorno d’oggi è purtroppo destinata aqualche personaggio da reality.(David Nieri)

PhosphorescentTo Willie

Il percorso di Matthew Houck è statofin qui piuttosto lineare, nonostantel’andatura caracollante della sua voce el’obliquità della sua musica lascerebberosupporre il contrario. Dall’esordio del2003 al denso Pride di due anni fa (inmezzo il difficile e irrisolto – ma moltoamato dai suoi fan – Aw Come Aw Wry,di cui si è parlato anche sul nostromagazine), è stata una lenta maperseverante messa a fuoco, un tira emolla con le tentazioni lo-fi e lastravaganza neo-freak insita nelpersonaggio, per arrivare all’essenza dellecanzoni. E alla fine, ci siamo arrivati.Certo, per farlo Houck, che gioca ancoraa nascondino dietro la siglaPhosphorescent, ha fatto ricorso alsongwriting di uno dei giganti dellamusica popolare americana degli ultimi40 anni: Willie Nelson. Il repertoriocoperto va dagli anni ’60 di The Party’sOver, ai ’90 di Too Sick to Pray (presa dalcapolavoro della tarda maturità, Spirit),concentrandosi soprattutto sugli anni “dafuorilegge”, ma assecondando sceltedecisamente personali e quasi mai banali.Che sia un omaggio da autentico fan, celo rivela l’ammiccamento del titolo, chericalca, anche graficamente, un album diNelson del 1977 dedicato alle canzoni diLefty Frizzell. Ma, neanche troppoparadossalmente, in queste 11 cover,scelte anche tra i brani non scritti daNelson ma da lui portati al successo,possiamo riconoscere i contorni nitidi diun musicista che ha finalmente trovatouna sua voce, lasciandosi alle spalle

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catalogazioni semplicistiche e fastidiose eparagoni ingombranti (quello con WillOldham il più abusato). E senza doversitagliare la barba, a quanto ci risulta. Nonha mai cantato così bene Houck, e non èmai sembrato tanto a suo agio inarrangiamenti così tradizionali (dasegnalare i ricami di pedal steel di RickyRay Jackson degli Heartless Bastard),che vanno dall’intimità di Not Supposed toBe That Way (con la voce di AngelDeradoorian) alla pienezza da full-banddi Walkin. Certo, Houck è figlio del suotempo, e certe scelte richiamano allamente gli universi musicali di colleghiillustri e vicini, per generazione e stile:Reasons to Quit è affine al Bonnie PrinceBilly degli ultimi anni, così come I GottaGet Drunk potrebbe venire dalrepertorio dell’ultimo Conor Oberst, mapiù per una convergenza di spirito, cheper una pedissequa volontà di annusarele piste dei nomi che “tirano”.L’impressione, davvero, è che, al di là diquest’opera godibile e consigliata, ilfrutto sia maturo e che le potenzialità diquesto ombroso e sottovalutato autoresiano lì per concretizzarsi in qualcosa diimportante. Io aspetto fiducioso. Delresto, lo confesso: nutro una personaleammirazione per il personaggio daquando mi sono imbattuto per caso inuna sua esibizione, nervosa e sofferta,elettrica e intima, in un centro sociale diAmsterdam qualche tempo fa: “Tonight:Phosphorescent - American music”,diceva il cartello all’ingresso. Ecco: chi l’hascritto aveva già detto tutto, in fondo.(Yuri Susanna)

Great Lake SwimmersLost Channels

In apparenza nulla cambia nel mondo diTony Dekker, ma come più volterivelato nelle precedenti sortite della suacreatura artistica, aperta a piùcollaborazioni, dei Great LakeSwimmers, la facciata un po’ immobiledelle sue desolate, spettrali ballate è unasorta di atto di resistenza nei confrontidel chiasso della modernità, forse ladimostrazione stessa del suo talento.Lost Channels non è in antitesi dunquecon il percorso fin qui sviluppatosi,seppure lo si possa persino definire ildisco più “movimentato” e ambiziosodella discografia della band canadese.Rispetto alla malinconia atavica degliesordi, alla calma pacifica e acustica delrecente passato, questo lavoro compiequalche balzo nella direzione di un folkrock più acceso ed elettrico, versoballate che incrociano al largo illinguaggio alternative country e la

serenità di certo country rock di marcawestcoastiana, unendo in un ponte idealeNeil Young con Will Oldham e i RedHouse Painters (sentite Everything IsMoving So Fast, con Serena Ryder allaseconda voce, oppure le diafane ConcreteHeart e Stealing Tomorrow), questi ultimigli immancabili punti di riferimentostilistici che sempre vanno imponendosi.Tuttavia, oggi più che mai i Great LakeSwimmers sono un vero collettivo,possiedono personalità e storia perstaccarsi da qualsiasi raffronto: LostChannels non è forse il loro disco più“sofferto” e ammaliante, ma senzadubbio è il più strutturato e accessibile,ammantato da quella classicità chespesso si raggiunge soltanto con l’etàmatura. La band lascia fluire tenerecantilene rootsy quali Pulling on a Line,scintille folk rock che esplodono neiconsueti riverberi dati alle chitarre e allavoce di Dekker, tra cui spiccano unaPalmistry dalle nuance quasi pop, una SheComes to Me in Dreams che spargequalche seme di flebile psichedeliacountry californiana (la steel è nella manidell’esperto Bob Egan, già con BlueRodeo e Wilco), scivolando infine su undolcissimo sentiero rurale che spolverabanjo e pruriti hillbilly in The Chorus inthe Underground (il violino appartiene aErin Aurich) e intona una litania acusticain Still, evocativa come sa essere lamigliore scuola folk, nata e concepita astretto contatto con l’elemento naturale(River’s Edge la più esplicita).Proprio così, perché una volta di piùTony Dekker ha acciuffato le sue canzoni

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Angie PalmerMeanwhile, As Night Falls…

Molto spesso viene usato ed abusato ilconcetto del “segreto meglio custodito

di…”, con Angie Palmer proverò io stesso ad impugnarlo, saràdifficile che qualcuno possa smentirmi. Questa volta il segretoproviene dall’Inghilterra e dico subito che il concetto si attagliabenissimo alla più americana delle cantautrici inglesi (adottatadalla Francia!), giunta ormai al suo quarto album che sin dalprimo ascolto si è rivelato il suo capolavoro. Meanwhile, as nightfalls…, è un disco che lascerà il segno nel 2009 in musica per chivorrà avere orecchie per intendere. Oltre 55 minuti di magnifichecanzoni che non lasciano un minuto di vuoto o di distrazioneall’ascoltatore, brani che passano dal folk al country, al rock, eperfino al rockabilly, suonate da manuale grazie ai musicisti chefanno da backing band, i Revelators, bravissimi.Meanwhile è un album ricco, carico di suoni di chitarre, lap steel edobro che sotto le abili mani di Billy Buckley, unitamente a dueimportanti interventi di pedal steel del leggendario B.J. Cole,ammantano tutto il disco. Poi c’è la splendida voce di Angie,personalissima in quanto si piega alle canzoni come i rami di un

salice al vento, soprannominata la Lucinda Williams diManchester, a mio avviso è più appropriato riconoscerne doti chespaziano e si accostano a diverse signore della voce. Infatti, ora sifa Grace Slick come in On The Eve, canzone che ti si incolla e nonti lascia più, oppure Patty Smith in The Fiery lake e Slip AwayFrom Me, Tanita Tikaram in Hunting The Wolf, Joni Mitchellnella delicatissima If I was, oppure ancora è Shawn Colvin nellacanzone più bella del lotto, Nightsong, un folk rock strepitoso, conil violino ed il dobro che si rincorrono impetuosamente comeacqua di torrente.Questo patchwork interpretativo non sta a testimoniare che laPalmer interpreta le canzoni emulando, al contrario è dotata diuna ricchezza interpretativa che ci lascia stupiti: c’è dell’altro,infatti, nel disco, segnalo il rockabilly trascinante I Hear thatLocomotive nel quale Buckley si supera all’elettrica e il brano chechiude l’album, Weeping Wood, cavalcata epica di oltre otto minutiche si sviluppa lenta ed ipnotica per poi squarciare il cielonotturno della copertina con strali di chitarre morriconiane,archi, hammond, percussioni, insomma un’orgia di musica e voceche ricorda certe atmosfere care ai Walkabouts. Una parola aparte la meritano i testi che Angie scrive con il filosofo PaulMason e che hanno lo spessore consono ad un’opera che rasentala perfezione.(Gianni Zuretti)

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in luoghi appartati, magici e impensabili,mettendo in luce i rapporti e i contrastifra animo umano e natura: catturati sunastro fra “old churches, communityhalls, abandoned grain silos and rurallocations” sparsi nella regione delleThousand Islands al confine fra Ontario,Canada e stato di New York, USA, iGreat Lake Swimmers hanno rinnovatoquella tradizione di illuminare una musicadal carattere spirituale, fuori del tempoperché ancorata in qualche modo alciclo della vita e dei paesaggi.(Fabio Cerbone)

The Wild SpecialtiesBeautiful Today

Loro hanno tutta l’aria di nonessersene neanche resi conto, maBeautiful Today può tranquillamenteentrare nel novero delle piccole

sorprese dell’anno. Inaspettata permolte ragioni: primo perché viene dagliWild Specialties, sconosciuta bandolandese, esordienti su disco, ma nonsulla strada (girano i festival ditutt’Europa da ormai quindici lunghianni). Secondo perché anche se daqueste parti siamo abituati a dischi ditutto rispetto fatti da dopolavoristi conl’hobby della canzone, Beautiful Todayha in certi momenti una statura dagrande che lo distingue dal mondodella sufficienza. Forza dunque, avantiallora con il passaparola, unica speranzadi dare giustizia a questo prodotto,visto che i ragazzi sono talmente pococonvinti delle loro possibilità, chenavigando on-line ci si dispera nonpoco anche solo per scoprire come edove comprare questo cd (bastachiederlo direttamente a loro è larisposta, ma per evitarvi l’incombenza,sotto trovate un link utile al fine).Voi direte: passaparola di che? Di undisco indefinibile, che passa per essererock di derivazione springsteeniana (BeStill ha un incipit che sa delle sue cosepiù recenti, il maestoso finale diBeautiful Today sciorina sax allaClemmons senza timore), ma che allafine sembra più un disco buono perfare da sottofondo ad un cocktail aftermidnight in un lounge club di NewYork. Canzoni nate nella polvere dellestrade roots dunque, ma ripulite inatmosfere jazzy (in Another Time par disentire gli Steely Dan quando flirtavanocon il country grazie alla chitarra di Jeff

“Skunk” Baxter), negli elementi jazz-pop alla Paul Weller di Angels o di RedSun, nei blues malati di Delta (RivendelBlues) o nelle reminiscenze di quanto iMorphine insegnarono al mondo neldecennio scorso (Juliette). Non ci sonocadute di tono in questi brani, soloforse una mancanza di focus su dovevorrebbero andare o cosa vorrebberoessere, perché se è vero che fiati, violinie Fender Rhodes alla Brian Auger sisposano benissimo tra loro, alla fine ilrischio per questi dischi è quello dirimanere oggetti troppo a cavallo divarie nicchie per conquistarsene una.All=Fine rende bene l’idea: ha un riff disax e un incedere percussivo rubato alTom Waits anni 80, ma un distaccatoformalismo di fondo che l’allontanadallo spirito da clochard del suo padrespirituale. Si frequentano mondi sonoripiù sofisticati qui, non necessariamentefreddi, ma sicuramente volti altroverispetto all’heartland-rock che sta allabase di tutto. Loro però non sembranoaver paura di sembrare troppo lievi esmussati, nemmeno quando in CactusNight finiscono addirittura per ricalcaremelodie alla Coldplay. Confusi su cosaaspettarsi da questo disco dunque?All’inizio anche noi, alla fine un po’forse anche loro stessi, eppure si hasempre voglia di un altro giro, e questoè un risultato non indifferente inquest’epoca di frenetici ascolti on-line.Maneggiatelo con cautela dunque, mase vi piace, abusatene pure.(Nicola Gervasini)

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The Wild Specialties

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LevellandLevellandNella periferia del rock americanoNella periferia del rock americanoLLLLoooo ssssppppeeeecccciiii aaaallll eeee ddddiiii MMMMiiiixxxxeeeedddd bbbbaaaagggg

Una rock’n’roll band che si spegne lascia un vuotod’energia, un buco nero, una super nova, a volte soltantola frammentazione in altre piccole meteore, fortunate ses’illuminano all’improvviso. Questo è un mondo dove nonè sufficiente avere la fantasia di evocare nomi suggestivicome Sixteen Horsepower, Uncle Tupelo,Whiskeytown o Blue Mountain, qui c’è “solo giocopesante, come vuole la giovane America” secondo DerekWalcott: per l’innocente idea di vivere per la musica enon con la musica, come se il fantasma di Hank Williamse lo spirito di Johnny Cash stessero vigilando questipiccoli tentativi di sopravvivenza nel profondo nowhere,da nessuna parte, si sono inventati un now here, ora equi, senza dover aspettare le decisioni dall’alto, dalle città,dal centro, ammesso che ne esista uno. Nella Levellanduna diaspora che ha prodotto un’immagine frammentata

dell’America, parcellizzata in una miriade di furgoni cheviaggiano da una “smalltown” all’altra, cercando di tenerein vita canzoni e passioni. Un mucchio di viaggi da unniente all’altro in nome di un sogno, di una speranza, diuna canzone. Una miriade di dischi da salvadanai spaccati,rock’n’roll band tenute insieme dal coraggio, più che daaltro, e da chilometri e chilometri di strada, in una mappadesolata e disperata dell’America. Un firmamento distelle spente, di riflessi, anche di polvere che rotolanell’aria. Eppure in tutto questo fluttuare c’è unagrandezza, e non solo per i risultati maturati nel tempoda Wilco e Ryan Adams, per fare due nomi tra i piùeclatanti, ma proprio per il tramandarsi sotterraneo chequesti gruppi (soprattutto) e solisti hanno generato. Unaspecie di corrente autonoma che ha contribuito nonpoco a mantenere in vita un’idea precisa del rock’n’roll.

Quindi misero radici in questo fangoper evitare che venissero soffiati via dalla terra

costruirono una città proprio quinon appena la polvere ebbe cessato di soffiare

la chiamarono LevellandJames McMurtry, Levelland

Bad Americadi Marco Denti

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Minoritaria per più di un motivo, per la scelta di vivere egodersi l’underground e la periferia, per l’essenza stessadi coordinate labili e sfuggenti, per le dimensionimicroeconomiche di tutto l’affare, se tale si puòchiamare. Forse fallimento è più realistico. Sicuramentepiù americano. Scriveva William Carlos Williams in TheDescent: “Nessuna sconfitta è fatta interamente disconfitta, giacché il mondo che apre è sempre un luogoinsospettato. Un mondo perduto, un mondo insospettatoaccenna a nuovi territori e nessuna purezza (perduta) ècosì bianca come il ricordo della purezza”. Tenuti adistanza, nemmeno conservati o riesumati, tante piccoleluci a intermittenza che brillano un poco alla volta (madentro ci sono storie lunghe intere vite, chilometri echilometri percorsi davvero tra il now here e nelnowhere, canzoni e canzoni che si susseguono). Maniente e nessuno, né la critica snob e pruriginosa, né ilmercato possono negare il diritto all’esistenza e allaresistenza. Ogni songwriter e tutte le rock’n’roll bandnon hanno alternativa nella Levelland: “Fai questa merdafinché non ti arricchisci, o muori”, e se c’è una certezza èquesta, solo che la “merda” di cui parla Richard Ford eche vale per qualsiasi altro lavoro, qui è il rock’n’roll, chelascia sempre un qualche margine di scampo.Il processo è orizzontale, un’evoluzione per piani e livellipiù che per i saliscendi tipici dello stardom system.Bisognerebbe dire un movimento di base, ma qui gli unicimovimenti sono quelli delle macchine e dei furgoni chesi muovono nelle roots highway perché ognuno coltivacon coraggio univoco la propria indipendenza, le proprie

speranze, e salvo una comune attitudine (anche estetica)e sporadiche interazioni, la dispersione è totale. Questonon vuol dire affatto che da un punto di vista artisticoquesta situazione imponga dei limiti: chiunque abbia vistoun concerto dei Marah o abbia sentito StrangersAlmanac dei Whiskeytown (il capolavoro centraledella Levelland) o si sia letto le liriche di JamesMcMurtry o abbia sorriso a un titolo come The Bar’s OnFire dei Bottle Rockets (“Somebody Save The Beer”aggiungevano loro, ed è la giusta cosa da fare) saprà chequi dentro ci si crogiola in una delle migliori idee dirock’n’roll degli ultimi venticinque anni. Andare a trovarli,questi outsider, uno dopo l’altro, scovarli tra etichetteindipendenti (durate spesso lo spazio e il tempo di undisco), management inesistenti e promozione e pubblicitàbasata soltanto sulle proprie miglia, mentre “the rest” sioccupava e si occupa d’altro, è stato come realizzareun’infinita serie di piccoli scoop quotidiani. Sempre cheinteressino le storie che puzzano di realtà, inseguireanche uno soltanto di tutti questi gruppi e/o singer &songwriter è sempre un atto di fede, perché vannocercati attraverso canali che non sono mai standard emai banali. Forse il fascino della Levelland ha il saporepovero dell’esclusività, per quanto limitata, di chi puòpermettersi di “possedere”, conoscere e snocciolarenomi come Son Volt, Wilco, Jayhawks, Bottle Rockets, GoTo Blazes, Slobberbone, Handsome Family, Drive-ByTruckers, Calexico o Lucero. Da un certo punto di vista,sarà anche snob, ma nei nostri modern times, dovel’identità è ormai un optional sempre meno garantito, in

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questi nomi poco politically correct scorre unapersonalità forte della propria indipendenza, dellapropria libertà e, senza dubbio, della propria sconfitta.A guardarla bene, la Levelland è il profilo di tutta unanazione. Vista dalla sua prospettiva, l’America coincidecon la metafora usatada Tom Robbins in“Natura morta conpicchio”: è un“vibrante alveare”,un paese senzacentro, un mosaicodi speranze e diillusioni, unaragnatela di tour chesi incrociano incontinuazione, unsuccesso sempre“relativo”. Non èl’ambigua emisteriosa Americadi Twin Peaks, anchese i paesaggi diDavid Lynch sono incomune. L’Americadelle mille rock’n’roll band che si formano, si sciolgono, siseparano e si riformano in una galassia di frammenti e dienergie è un paesaggio complesso a cui possonoappartenere anche i R.E.M. o i Los Lobos (ognuno, amodo suo, una realtà di dimensioni internazionali) cosìcome Bruce Springsteen, Tom Petty, Bob Seger e JohnMellencamp, ma nella Levelland si vive per meritipropri, senza riflessi, senza abbagli, perché fedeli alleradici e coerenti anche al dettato di Ralph WaldoEmerson: “Noi dobbiamo procedere da soli”. Cosanascondono allora queste rock’n’roll band dai nomifantasiosi, banali, stupidi o geniali? Cosa cercano questisongwriter e cosa possono offrire che Bob Dylan nonabbia già espresso, che Leonard Cohen non abbia giàcompresso, che Neil Young non abbia già manomesso?Già non è facile chiamarsi Tom Waits, figurarsi con nomicome Alejandro Escovedo, Greg Brown, Joe Henry, ToddSnider, Chris Knight, Robbie Fulks, Gillian Welch oLucinda Williams, e l’elenco potrebbe continuare conpari dignità per una o due moltitudini. La“compensazione” di mille act che si creano e altri milleche si dissolvono, di nomi che arrivano e scompaiononell’arco di una stagione o poco più, non si limitaall’esistenza pura e semplice, perché se si fruga nellapolvere – e qui c’è gente che lo fa da sempre – è facilescovare qualcosa di importante anche nelle pieghe diun’America sempre più difficile da interpretare nella suadecadenza, nel suo disconoscersi dagli abbaglidell’american dream. Scivolando sulle “strade di ghiaia”,passando per le “città di whiskey” o entrando in “lucinere” ci si accorge che Ralph Waldo Emerson raccontavacon modalità molto simili, qualche secolo fa, la stessanazione: “La vita americana si scatena intorno a noi ognigiorno, ed è lenta a trovare una lingua”. Nella Levelland

i semi dispersi, nascosti, finiscono per diventare l’inizio dialtri sogni e la dispersione dei semi è, per dirla con H.D.Thoreau, “l’agire nel mondo” di questa importante einsolita area del rock’n’roll. La dispersione è unametafora fino a un certo punto, perché nessuno, salvo

The Band (che è ilmonumentale puntodi riferimento perchiunque in questaterra desolata), èstato così vicino allawilderness e alleradici della culturapopolare. Semi, radici.Radici, semi, e unatotale indifferenza aifrutti, perché le radicisono l’essenza: nonc’è altro riferimentose non la frontieradella modernaamerican rootsmusic, che solo fino aun certo punto può

sembrare un percorsoal contrario, indietro nel tempo. Un pulviscolo di canzoniche viene soffiato nel vento, di “high hopes” – per dirlocon un gruppo protagonista di un solo (e bellissimo)disco, gli Havalinas – non sempre raccolte dalla fortuna,anzi, spesso inaridite dal tempo. Provare a ricostruire laLevelland di questi gruppi, di questi songwriter, di questerock’n’roll band è anche cercare di intuire l’esportabilitàdell’american dream, o almeno di una sua visione pùcoerente e meno univoca, di costruirsi una speranza dasoli, con i propri mezzi, con i propri sogni, perché laprovincia e la periferia sono Levelland ovunque, non soloin America. Non è un processo semplice, soprattutto inuna fase transitoria, com’è quella a passaggio tra gli ultimidue secoli. Ma forse è sempre provvisorio perchél’America e i rock’n’roll sono per loro stessa natura deltutto imprevedibili. Certo, quando si parla di rock’n’rollband la speranza è legata a un filo o a variabili impossibilida controllare (ma anche a dinamiche un po’ piùprosaiche: il manager giusto, una canzone in una colonnasonora, qualche giornalista appassionato), ma alla finel’indipendenza, la strada, la possibilità di fallire un’altravolta sono gli elementi che alimentano queste storie.Forse sono proprio questi, al di là dell’aspettopropriamente artistico, i contorni più impressionantidella Levelland, e le parole dell’omonima canzone,direttamente dalla chitarra di James McMurtry, nesono la miglior sintesi. Tutti loro, questi songwriter equeste rock’n’roll band nelle loro migrazioni attraversol’America, sono “separated from the rest”, ma là fuori,nella Levelland, si sono pagati tutti i debiti, senza sconti esenza aiuti, e hanno dato il meglio che potevano. Non sipuò dire di tutti gli altri, a partire da quelli che stannolassù, in alto, molto lontani dalla Levelland, troppo lontanidall’America.

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La strada, l’orizzonte irraggiungibile e la possibilitàdell’eterno viaggio in quegli spazi infiniti che noi italianinon potremmo mai sperimentare (anche solo per banalilimiti geografici): da sempre è questo mito americano, chefa della mobilità una filosofia di vita – ancor prima cheuna metafora dell’esistenza – ad aver stuzzicato anche lanostra cultura. Levelland di Fabio Cerbone è in questosenso un libro coraggioso, perché racconta di quella voltain cui la cultura americana si è invece fatta piccola, statica,e – usando un termine che è tutto nostro – “provinciale”.In altre parole un mondo spogliato di qualsiasi fascinazioneletteraria, se non quella dell’epica della sopravvivenza. SeJohn Mellencamp (ma prima e dopo di lui mille altri), avevacantato delle “Small Town” americane come del punto dipartenza per una fuga, i nuovi Bob Dylan di questa storiarestano invece a Duluth e non approdano mai a New York,e le loro Highway 61 non vengono né percorse, nétantomeno rivisitate. Una storia yankee – dove sarebbe piùfacile citare Fogazzaro che Kerouac – meritava un’analisiapprofondita, perché qui si parla degli Uncle Tupelo che“di fronte a sé hanno soltanto un orizzonte chiuso, fatto su misuradell’uomo comune di un America altrettanto comune” o deiJayhawks, che vivono in una Minneapolis dove “altro cheinterminabili Interstate o dimenticate strade secondarie, la guidaresta unicamente il Mississippi”. Un modo di vivereintegralmente la propria piccola realtà che John Steinbecksintetizzò bene scrivendo che “un texano, fuori dal Texas, èuno straniero”.Levelland cerca le motivazioni che spinsero vent’anni fadei ventenni della X-Generation ad affidarsi a quell’oldtime music che gli anni ottanta sembravano averdefinitivamente sepolto. Non di fiera e patriotticaesibizione delle proprie tradizioni si trattava, ma ditragica necessità di riempire lo spaventoso vuoto culturalelasciato dall’era degli yuppies e della “reaganomic” conl’unica espressione culturale a disposizione nellacampagna americana. Lo stesso Ryan Adams spogliòquella scelta tradizionalista di qualsiasi vanitàintellettuale o programmatica, quando cantò in FaithlessStreet dei Whiskeytown: “ho formato questa country-band,perché il punk è difficile da cantare”.Roots-music più per necessità che per passione dunque,per l’urgenza di uscire con la mente da quei “piccolimondi antichi” americani creati dalla nuova Grande

Depressione dei primi anni novanta. Questo libro è unviaggio in un non-viaggio, dove i personaggi non ciprovano nemmeno a sognare la ribalta della grande città,e soprattutto dove è Cerbone stesso che deve muoversi,andando a scovare le loro storie di cittadina in cittadina,aiutandosi con vere cartine geografiche poste in calce adogni capitolo. Vicende musicali poco raccontate quelledegli eroi dell’alternative country: laddove il grunge diSeattle recuperava negli stessi anni i linguaggi del punk edell’hard rock per raccontare la propria desolataesistenza, dei ragazzi persi nel “bel mezzo del nulla”recuperavano traditionals, Nashville e i suoni “roots”. Untermine, quest’ultimo, che vi suonerà familiare sebazzicate spesso queste pagine, ma, come sottolineaMarco Denti nella prefazione al libro, roots vuol dire“radici, semi, e una totale indifferenza per i frutti”. Perchémentre il grunge ha avuto le sue star e il suo grandemomento mediatico, l’alternative-country è rimasto unfenomeno più sommerso, senza neppure un poetamaledetto da piangere, nonostante alcuni titoli qui trattatiabbiano raggiunto anche vendite interessanti.I grandi palcoscenici del rock si apriranno (senza neanchetroppi clamori) solo anni dopo per Ryan Adams e JeffTweedy con i suoi Wilco, vale a dire gli unici due eroidella storia che ad un certo punto hanno deciso discappare dalla periferia – sia artisticamente chefisicamente – alla ricerca di spazi più liberi. Levellandracconta il tutto sia con il piglio accessibile a tutti delromanzo storico, sia con quel taglio un po’ specialisticoche lo rende anche una valida guida all’ascolto, utile siaper chi già conosce anche i protagonisti più oscuri dellavicenda, quanto ovviamente – e questa è forse lasperanza/scommessa più grande – per le nuovegenerazioni. Non sta a noi dare un giudizio sul libro:Cerbone qui gioca in casa. Quello che ci premesottolineare è come Levelland sia a tutti gli effetti il veromanifesto programmatico del sito Rootshighway, perchéracchiude tutto l’amore per il “grande piccolo” che animaquesta webzine, e perché definisce alla perfezione iltermine “outsider” posto in copertina del libro.E ovviamente anche perché racconta di una musicastraordinaria.(Nicola Gervasini)

Fabio CerboneLevelland. Nella periferia del rock americano

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ClassicHighwayClassicHighwaybbbbeeeesssstttt ooooffff ,,,, rrrr iiii ssssttttaaaammmmppppeeee &&&& cccc llllaaaassssssssiiiicccc iiii

“Energico e disperato, il lamento dei DiedPretty sfoglia le pagine consunte dellospleen adolescenziale con rinnovata enfasi,non ignaro delle litanie di Patti Smith e deimelodrammi di Bruce Springsteen”. Ecco,se l’autore di queste parole in effettiesistesse, se non bisognasse tirargli leorecchie per uno stile oratorio sempree comunque tremendamente involuto,bisognerebbe allora dire che per unavolta il buon Piero Scaruffi(www.scaruffi.com) ha saputosintetizzare con rara efficacia il respiroche ancora oggi soffia nelle canzonimigliori degli australiani Died Pretty.Uno di quei gruppi che anche in Italia,durante gli anni ’80, compliceun’infatuazione se vogliamo un po’superficiale per una new-wave degliantipodi osannata come rivoluzionariaquando in realtà si limitava adaggiornare (con rinnovato slanciovisionario, questo sì) un canonerock’n’roll vecchio quanto i Doors e lapsichedelia sixties di Frisco e dintorni,venivano osannati oltre e al di là di ogniriserbo critico e sono poi statiscaraventati nel dimenticatoio conaltrettanta, malaccorta rapidità. Eppure,il disco meritorio di entrare negli annalidella storia del rock i Died Prettyl’hanno scolpito per davvero, si intitolaFree Dirt, esce in origine per la Citadelnel 1986 e suona anche oggi allamaniera di un incendio di visioni,liturgie deviate, scorticato lirismo,romanticismo fiammeggiante. I 9 branidi Free Dirt, con picchi irripetibili nellelunghe e acidissime prolusioni di Life ToGo, Just Skin e Next To Nothing, traggonola propria solenne potenza dalpaesaggio del profondo outbackaustraliano, dal quale emergono tramiteallucinati sermoni doorsiani ederaglianti grovigli di organo,

pianoforte, chitarre, violini. Officiantiesclusivi della cerimonia sono lostentoreo vocalist Ronnie Peno,l’organista ed ex-giornalista FrankBrunetti, il chitarrista Brett Myers(che con Brunetti proveniva da unapsych-band significativamente chiamataThe End) e il furibondo drummerChris Welsh, già batterista deiconterranei Screaming Tribesmen,mentre la supervisione del rito èaffidata al leggendario Rob Younger(proprio il frontman dei gloriosi RadioBirdman e dei successivi New Christs),che chiama a raccolta il selvaggio sax diTim Fagan, gli archi di Julian Watchhorn,qualche steel e un mandolino perconfezionare un febbricitantemonumento alla combinazione trapunk, r’n’r, atmosfere gotiche, folkdisturbato e convulse accelerazioni diepos drogato.Quando la combriccola si riunisce, nonprima di aver provato a tenere qualcheconcerto sotto il nome di FinalSolution (un chiaro omaggio ai PereUbu di David Thomas), i sogni di gloriasono ancora limitati. Secondo Peno, “ilmassimo della fama potrebbe essereincidere un sette pollici e poi non farsimai più sentire”. Ma nonostante leambizioni ridotte di Peno, Myers e soci,nella prima metà degli ’80 la scena diSydney – la più antica città d’Australianonché luogo natale di quasi tutti imembri del gruppo – si presentapiuttosto vivace: un posto dovecircolano Hoodoo Gurus, Moffs,Johnnys, Celibate Rifles, Sunnyboys eBeasts Of Bourbon è l’ideale per farsile ossa e guardarsi un po’ intorno.Grazie all’interessamento del citatoYounger, la band giunge all’esordiodiscografico in tempi molto brevi, enonostante nello stesso periodo i

gruppi garage siano soliti realizzarne amigliaia, ci rende conto da subito cheOut Of The Unknown, licenziato dallaCitadel nel 1984, non è il solito singolousa e getta. La canzone, un bluesselvaggio e stravolto dove una slideimpazzita fa la sua irruzione a metàprogramma, ipotizza un inedito quantoeccitante matrimonio tra a psichedeliabeat dei primi Byrds e l’affilatoringhiare chitarristico dei Television; piùrasserenante e tranquillo il retro,affidato alla melodia cantabile di WorldWithout. Rapidamente esaurita la primastampa del 45, la Citadel provvede aimmetterne sul mercato un’altra, in duediverse versioni: ad Out Of TheUnknown viene stavolta accoppiato ilmonumento psichedelico di MirrorBlues, 10 minuti di riff d’organo, rasoiatedi sei corde e un 2/4 di batteria che sitrasforma in 6/4 nel break centrale, uninseguimento dei fantasmi di Gun Club,Velvet Underground e Tom Verlainesuddiviso in due parti, una per ciascunaedizione del singolo. Quindi è la voltadi un 12 pollici, Next To Nothing (’85),che forte di un’altra impennata diradicalismo psichedelico e rock’n’roll –gli 8’ incandescenti di Desperate Hours– proietta senza esitazioni il gruppo trale promesse più eccitanti di tutti gliantipodi.L’edizione “deluxe” di Free Dirt, chegiusto un anno dopo Next To Nothingconferma tutte le promesse di cuisopra e ne formula addirittura altre,racchiude tutto quel che vi ho appenadescritto (compresa la versioneintegrale di Mirror Blues) e gli aggiungediversi episodi dal vivo registrati traAmerica, Australia e Inghilterra (conuna devastante rilettura londinese dellaloureediana Wild Child che vale da solail prezzo del biglietto), il singolo

Died PrettyFree Dirt/Doughboy Hollow

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francese di Stoneage Cinderella(doppiato da una splendida Yesterday’sLetters) e diversi demo, tra i quali spiccauna sgangherata ed ultraelettricarivisitazione del Bob Dylan di From ABuick 6. Ma non contenesse altro che ildisco nella sua forma primigenia, questaristampa andrebbe comunquebenedetta, perché ha il pregio dirispolverare dall’oblio uno dei dischimigliori degli ultimi venticinque anni, enon certo uno dei più facili da reperire.La psichedelia velvettiana, dolce,perturbante e claustrofobica al tempostesso di The 2000 Year Old Murder, latempesta di sax, chitarre e tastierescatenata in una Next To Nothingscolpita nella roccia, il punk’n’rollstradaiolo e irresistibile di StoneageCinderella, le sorprendenti svisaterootsy di una Through Another Doorcucita prendendo in prestito leintuizioni del Neil Young piùnotturno e rabbioso el’incontenibile tappeto ritmicodelle frenetiche Wig-Out(reminiscenze celtiche a bagnonell’acido), Laughing Boy (unarsenale ritmico di potenzainaudita), Blue Sky Day (folk-punkcon spettacoloso finale all’insegnadi una jam tra violino e mandolino)o Round And Round continuano asplendere di un fulgore sciamanicoereditato dalle voci di JimMorrison e Iggy Pop, alla cui enfasiteatrale Peno deve indubbiamenteparecchio, e di un senso disofferenza psichica incombente,oppressivo e minaccioso ereditatodai Velvet come dalla dolorosa poesiaurbana dei rockers americani degli anni’70 e dalle spigolature nervose delprimo post-punk. A rendere ancora piùsingolare l’impasto di elementiprovvede senz’altro la produzione diYounger, perfetta nel fare in modo che ibrani si raddensino intorno a toni epicida messale alternativo del rock chetuttavia non perde occasione peragguantare una grande melodia laddovese ne presenti una, magari già cantatada Bob Dylan, Gram Parsons o RogerMcGuinn.Detta melodia viene inseguitasoprattutto negli album successivi, chepur mantenendosi su buoni livelli nonsapranno più riproporre, salvooccasionali zampate (ascoltateWinterland dal susseguente Lost [’88]o The Underbelly dal terzo EveryBrilliant Eye [’90]), il bruciante furoredegli inizi. Sarà anzi particolarmenteinfausto l’accasamento presso la Sony,

foriero di due album da dimenticare(Trace [’93] e Sold [’95]), mentrerisulterà inaspettatamente buono ilrientro in Citadel, che nel 1998pubblicherà uno Using My Gills As ARoadmap che resta forse il primoalbum di Myers e Peno da portarsi incasa qualora già si possieda Free Dirt.Conservavo un brutto ricordo diDoughboy Hollow, il quarto album deinostri, uscito per l’inglese BeggarsBanquet nel 1991, ma siccomel’etichetta aussie Aztec ha ristampatopure quello, sempre in edizioneampliata, l’ho messo nella lista della

spesa e vi dirò, regalo e sorpresamigliori non potevo farmi. Certo, nonsiamo alle altezze siderali di Free Dirt,eppure penso si tratti ugualmente di undisco nei cui confronti il tempo s’èrivelato assai galantuomo, e sebbenenon rivoluzioni un bel nulla, alcontrario del debutto di sei anni prima,dico che se una simile raccolta di bellecanzoni (solide, robuste,intrinsecamente classic rock eimpregnate di un inequivocabile feeling“americano”) uscisse oggi cistrapperemmo i capelli in quattro equattr’otto. Nelle note di questaristampa il gruppo lascia intendere chela produzione dell’album, affidata a quelHugh Jones già in cabina di regia perEcho & The Bunnymen e all’epocacollaboratore per dei Del Amitri aiprimi passi, nasce come reazione allavoro troppo statunitense (“hisstridently US production sensibility”)

svolto da Jeff Eyrich su Every BrilliantEye, ma nei fatti Doughboy Hollowassomiglia in tutto e per tutto a undisco di college rock americano (difattinegli USA rimane il loro best-seller)dalle forti tentazioni classicheggianti,per nulla agressivo e moltoconcentrato sui perimetri della forma-canzone. Piacerà a chi in quegli anniimpazziva per Tom Petty, REM,Dashboard Saviors, Buffalo Tom, iGreen On Red di Too Much Fun (’92) ei Soul Asylum di Grave Dancers Union(’92), tutti nomi che non possono nontornare in mente accostandosi al

roots-pop limpido e sentimentaledelle varie Sweetheart, The LoveSong, Out In The Rain.Il nuovo tastierista John Hoeynon ha una sola goccia del sanguelisergico e spiritato di Brunetti, maallineandosi al drumming stavoltagentile di Chris Welsh e allepercussioni rootsy della new-entrySunil De Silva riesce comunque atrovare un buon compromesso tramid-tempos e raffinatezze.L’attacco violento di Doused, ilmarziale e abbacinato passoceltico di The Battle Of Stanmore ola tristezza forsennata di unaGodbless marchiata a fuoco dagliassoli di Myers rammentano inparte i trascorsi ardori, tuttavia ilcuore dell’album va cercato nellagarbata malinconia elettrica dellanotturna Satisfied, nel jingle-janglebyrdsiano della frizzante StopMyself e nelle soffici suggestionielettroacustiche di D.C.,

quest’ultima addolcita dalla viola diSarah Peet e dal violino di AmandaBrown (Go-Betweens). L’aspettotradizionalista di Doughboy Hollow èinoltre rafforzato dal corredofotografico di copertina e booklet (acura di Paul Tatz), con le sue immaginidi automezzi vintage arrugginiti eabbandonati colte nel bel mezzo delleperiferie campestri d’Australia, e dai 15brani del cd aggiunto, che oltre ai vari“lati b” dei singoli dell’epoca presentaquasi tutto il disco in versione demo emostra chiaramente quanto le sue 11tracce suonassero in origine ben piùruvide e grintose. Ma chi ha detto cheinvecchiare bene significhi soltantoscimmiottare gli entusiasmi di gioventù?Free Dirt e Doughboy Hollow nonavranno la stessa statura artistica,questo è certo, eppure non è unaragione sufficiente per non amarlientrambi.(Gianfranco Callieri)

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Made in ItalyMade in Italyccccoooosssseeee ddddiiii ccccaaaassssaaaa nnnnoooossssttttrrrraaaa

SouthlandsThe Morning Sky

Comincia davvero ad avere le spallelarghe quell’angolo di resistenzaitaliana che va sotto il nome di rockdelle radici: dagli stessi studi di

Massimo Visentin (Studiottanta) che hanno visto maturare l’ottimoStill Got Dreams dei conterranei Mandolin’ Brothers, escono ora alloscoperto i pavesi Southlands, combo guidato da una limpida,onestissima ispirazione “Americana” dove strade, benzina, viaggi esogni di rock’n’roll si uniscono per animare il loro esordio adulto,The Morning Sky. Un disco che se fosse arrivato dal desertodell’Arizona o da qualche sobborgo del Midwest avremmo forseaccolto con più curiosità, nella nostra colpevole esterofilia: siamoinvece a Voghera, dove la lingua universale di queste “roots” non devepiù creare steccati. Ecco perché gli applausi ci stanno tutti per unatenace rock’n’roll band dal nostro “nulla” italiano, che manda avanti lasua scommessa con una buona dose di gusto e competenza.La parola magica per The Morning Sky è esattamente gusto: nellaricerca dei suoni, degli arrangiamenti, nell’intreccio delle chitarre diMarco “Rovo” Rovino e Roberto Semini, il punto di forza deiSouthlands, nella cura della parti vocali (Dario Savini comefrontman), che pur con tutte le ingenuità degli esordi e qualcheindecisione di pronuncia riescono a fotografare con precisionel’immaginario di questo gruppo. È un rock irrimediabilmentestradaiolo il loro, con accenti sudisti a seconda delle emozioni delmomento, e che ricorda certo frizzante battito elettrico degli anni’90, quello di band quali Gin Blossoms o Refreshments, anche se lamateria questi ragazzi l’hanno imparata molto probabilmente suidischi di John Mellencamp e John Hiatt. Questi ultimi erano alcunidegli artisti di cui i Southlands interpretavano il repertorio a partiredalla loro fondazione, nel 2000: da cover band con le spalle larghe èarrivato quindi il momento di trasformarsi in qualcosa di piùambizioso.Ci sono riusciti e le premesse sono quanto meno incoraggianti:hanno canzoni svelte che non voltano mai lo sguardo alla melodia, acominciare da South Burning, asfalto sotto le ruote e tutti pronti acaricare il furgone per un nuovo viaggio. Iconografia che ritornainsistentemente nel disco, tra una esplicita, rombante Drive (c’è ancheil caloroso organo di Riccardo Maccabruni, guarda caso dai MandolinBrothers) e la conclusiva Free Gasoline, passando per unaeffervescente Mr. Killerman, stoffa da vero singolo se solo ci fosse unpo’ di sensibilità nelle programmazioni radiofoniche di oggi. Sonospontanei e schietti i Southlands e la loro musica chiede soltanto diessere apprezzata per la sincerità: così si potranno accogliere isussulti rock’n’roll di Company Week-end e Revolver Rock, già sentitemille volte senza dubbio, ma a modo loro perfettamente amalgamatecon il resto della scaletta di The Morning Sky. Il quale sa mostrareanche una faccia più interessante a livello compositivo: ad esempio ladolce ballad The Piece We Move, e ancora l’accoppiata (Clouds) TheMorning Sky e Dust in the Dark, ballate che giocano con gli specchi diun suono elettro-acustico e chiaramente alternative-country oancora l’acustica In the Middle of Me, con tanto di mandolino eaccordion. Piccole band germogliano nella provincia italiana, per unavolta andiamone orgogliosi.(Fabio Cerbone)

Lorenzo Bertocchini& The Apple PiratesUncertain, Texas

Narra la leggenda che un giornouno stregone Caddo, stanco del

ritmico rullare delle percussioni degli uomini della tribù,profetizzò l’arrivo di visi pallidi con canzoni che avrebberomescolato vari generi musicali dei bianchi e dei neri, chiamando iltutto folk’n’fun. Mi sono inventato tutto, ma nella zona dov’erastanziata questa tribù (confine tra Texas e Louisiana) un lagoporta il loro nome, e sulla sua sponda occidentale c’è appuntoUncertain, Texas. Cosa accomuna Varese e Uncertain, a parte illago? Incertezza… Sta di fatto che Lorenzo Bertocchini &The Apple Pirates sono tornati (a undici anni dal miticoGreatest Hits) sulla giostra del rock’n’roll, accostandosi così aglialtri “Italiani del Jersey” Miami & The Groovers: come loro,secondo disco e giostra in copertina; fatto curioso che mostrauna comunanza di intenti, di gusti, di passioni non indifferente.Questo viaggio degli Apple Pirates si insinua fin nel cuore degliU.S.A., partendo proprio dal New Jersey dell’amato Springsteen:Everybody è già ritmo e sudore, il sax di Dario Paini che sialterna all’armonica del leader. Last Clean Shirt, incentrata sulconcetto sessodrogarockandroll, è uno dei punti più altidell’intero album (ottimo il lavoro ai tasti di Roberto Masciocchi).Blue è velata di tristezza come il suo titolo, sorretta dalla pedalsteel di Alessandro Grisostolo. You è una mossa canzoned’amore, poi con What Do You Hate So Much si arriva finalmentein Texas: la sezione ritmica composta da Marco Negrelli eFloriano Botter entra dopo l’introduzione piano-chitarra-organoe ci trasporta in una affollata dance-hall, non importa che sia ilBroken Spoke di Austin, piuttosto che il Billy Bob’s di ForthWorth: pure texas music! Too Lazy è reggae. Cosa c’entra?Ricordatevi che lo “zio” Willie Nelson ha già ampiamentesdoganato negli States questo genere musicale che arriva daiCaraibi: “folk’n’fun” deve essere, come scritto nelle note del cd,che folk’n’fun sia!Su terreni più consueti si muove Walkin’ Out In The Cold, mentrePerfect è di nuovo rock. La tenue Follow My Steps è la pausaacustica prima della scatenata Rosie, Mary And Tiffany. San Secondoè solo un sogno ambientato nel medioevo, dove qua e là affioraperò la ragazza del Jersey (che guarda caso saliva sulle giostre delluna-park…) cantata da Tom e Bruce. Hard Thing To Do è unabolgia sixties con boogie, blues, rock: due elettriche (AlessandroTalamona e Luca Pasqua) e via a palla. Sbuca dai sixties anche lalunga My Serenade, popolata da tanti personaggi non per forza dicose legati alla musica. Time Is Runnin’ Out, elettrica, tastiere e sax,con un banjo sbucato da chissà dove (Monti Appalachi?) e labuonanotte affidata a I Am, sembrano riportare tutto verso est,dove il viaggio ha avuto inizio, dove le luci del luna-park siconfondono in quelle della città, dove si può “ballare nell’oscuritàsulla spiaggia degli amanti disperati”, per essere i primi a vederl’alba… e poi ripartire.(Luca BorderwolfVitali)

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Picture ShowsPicture Showslllleeee iiiimmmmmmmmaaaaggggiiiinnnniiii ddddeeeellll rrrroooocccckkkk’’’’nnnn’’’’ rrrroooollll llll

Leonard CohenLive in London

10 Marzo 2008: Lou Reedintroduce Leonard Cohen nellaRock And Roll Hall Of Fameleggendone i versi delle canzoni.Declama First We TakeManhattan, dove si racconta di undestino incrociato al suo: laddoveLeonard conquista primaManhattan e poi Berlino, Lou hacatturato prima l’essenza dellacapitale tedesca e solo dopomolti anni quella della “sua” NewYork. “Dobbiamo ritenercifortunati di poter esserecontemporanei di quest’uomo”dichiara Reed prima di chiamareCohen sul palco. Leonard entra,ringrazia, e dichiara di essereancora incredulo di questoprivilegio. Dice di aver perso ognisperanza nel 1975, quando sentìJon Landau dichiarare “Ho visto ilfuturo del Rock and Roll, e non è Leonard Cohen”. Risate insala: la telecamera coglie lo stesso Landau in mezzo alpubblico intento a rassicurare i vicini che la sua frase non eraesattamente quella. Il resto della dichiarazione è fattasemplicemente dei versi immortali della sua Tower Of Song.Tutto Cohen è in quei dieci minuti di cerimonia: la modestia,la capacità di esprimere sé stesso solo attraverso i versi deisuoi brani, l’ironia di un uomo abituato a scrivere di visionicupe e di umanità frantumate. Ma per la definitivaglorificazione di una delle personalità più importanti delsecolo scorso, mancava l’opera finale. E non poteva esserecerto il suo ultimo album, quel Dear Heather che era unammasso di appunti e abbozzi di canzoni senza troppo senso,se non quello di cantare la propria morte in anticipo suitempi.Un finale troppo oscuro e in tono minore per un uomo cheinvece il 17 Luglio del 2008 ha calcato il palco della O2 Arenadi Londra, con un sorriso e una vitalità degna del più baldo estrafottente giovanotto rock odierno. Lasciamo perdere tuttala trafila di eventi che hanno portato alla pubblicazione diquesto Live In London: avrete avuto modo di leggere millevolte degli imbrogli finanziari e dell’indigenza economica chehanno costretto un settantatreenne abituato a vita ascetica arimettersi in gioco tra la folla. Questo DVD (o semplice CD,se decidete di perdervi la vista del vecchietto più affascinanteche abbia mai calcato un palco rock) è il premio alla carrierache Leonard ha fatto a noi…ma soprattutto a se stesso. Il CDnon renderà mai giustizia alla sincera commozione diquest’uomo, che dichiara di essere onorato di poter cantare

per il proprio pubblico, e maifrase così di circostanza èsembrata così vera su quel visoscavato. Leonard canta(benissimo tra l’altro: fiato cortopermettendo, la sua voce èsempre migliorata col tempo,quando avrà 180 anni canteràdivinamente), suona chitarra esintetizzatore all’occorrenza(“non preoccupatevi se non sosuonare uno di questi cosi, tantofa tutto da solo”), ride e scherza,e quando può, balla pure. Sembraun ragazzino intento a realizzareun sogno, e si concede per treore, manco fosse davvero luil’instancabile Springsteen cheLandau battezzò a futuro delrock. Performance perfettadunque, grazie anche a una bandineccepibile, anche perché affidataagli arrangiamenti del bassistaRoscoe Beck, e non a quellidella deleteria Sharon Robinson,una che ha fatto tanti danni nelleultime produzioni in studio, e che

qui viene finalmente relegata a capo-corista. Registrazioneottima, immagini patinate e allineate al ritmo lento delpadrone di casa, pubblico caldo e devotamente ammirato.Tutto talmente perfetto che, se si dovesse trovare un difetto,ci si dovrebbe proprio appellare all’eccessiva impeccabilità,con piena lontananza dallo spirito bohemien e dalla poeticabeat da cui Cohen proviene. Ma il Leonard catturato in questaserata non è il poeta maledetto di Live Songs (1973),nemmeno il canadese errante, zingaro e ramingo di FieldCommander Cohen (l’album è del 2001, la tournee del 1979),o il fascinoso profeta sintetico del Cohen Live (1994). Qui èun santone che gioca con le sue stesse parole, che prendetutti in giro quando identifica nel de-dum-dam-dam checommenta tutta Tower Of Song il senso di tutti i misteri dellavita cercati per tutti questi anni. La scaletta la lasciamoscoprire a voi, magari sottolineando che la resa di The Gypsy’sWife resterà a memoria come una delle sue miglioriinterpretazioni di sempre, e che spiace che la celebrazioneabbia dimenticato completamente un album pieno di tutto lasua miglior poetica come Songs Of Love And Hate. Sembrache Cohen abbia ritrovato forze e motivazioni per scriverenuove canzoni e rientrare in studio. Ben venga se ciòavvenisse, ma se anche tutto finisse qui, il percorso sarebbecomunque completo. Eppure lui non sembra avere intenzionedi fermarsi, e a questo proposito nel live racconta che il suomaestro di Zen Rinzai, che oggi ha passato abbondantementei 100 anni di vita, ai suoi adepti un giorno ha detto “Scusatemise non sono morto”. Sarai comunque scusato Leonard.(Nicola Gervasini)

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Greer e Cameron sono due killer professionisticapaci di mille scrupoli e vengono ingaggiati da unasinuosa ragazza di origini native, Magic Child, peruna misteriosa missione a casa di Miss Hawkline.Sul bersaglio, mistero fitto, ma la cifra pattuita e ilsavoir faire di Magic Child, nonché una certapresunzione sulle proprie capacità, li spinge adaccettare l’incarico e a ritrovarsi nel bel mezzo diun’avventura folle e surreale. La riscoperta, in modocontinuativo e approfondito, di RichardBrautigan rende finalmente il giusto omaggio adun grande fuorilegge della letteratura americana.Troppo visionario persino per i tempi migliori dellaSan Francisco beat & hippie, Richard Brautigan hainventato un linguaggio tutto suo che, trasformatoin una scrittura trascinante e irriverente, habilanciato il paradosso di una vita tormentata emalinconica. Un loser oltre che un outsider perchéproprio questo romanzo poteva diventare un filmcon la regia di Hal Ashby e (pare) Jack Nicholson eDustin Hoffman nella parte dei due killer, ma tuttonaufragò per la sua intransigenza. Forse non avevanemmeno tutti i torti perché il cocktail che avevapreparato era già fin troppo denso: un quarto diwestern, un quarto di horror, un quarto dicommedia e un quarto di sesso serviti con unaspruzzata di sana follia e accompagnati da ungeneroso bicchiere di whisky (che è indispensabile,se si vuole arrivare alla fine, dove scoprireteperché). Libro “roots” del mese.

Scrivere necrologi tutti i santi giorni forse non è ilpunto più basso del giornalismo, ma non è nemmenol’occasione per dare una svolta positiva alla carriera. Uneufemismo per dire che è un vicolo chiuso, se nonproprio un capolinea: Jack Tagger, il protagonista diCrocodile Rock, ci è arrivato perché da buon perdenteè innamorato della verità, una rarità che è moltoscomoda in quello “squallido gioco di interessi che nonha nulla a che fare con l’onesta pratica del giornalismo”.Le sue parole dipingono bene il paesaggio umano che loricorda e che lo insegue perché il caso vuole che debbascrivere il “coccodrillo” (così, in gergo, i necrologi) diJames Bradley Stomarti alias Jimmy Stoma, cantante egià leader degli Slut Puppies. Da lì, Carl Hiaasenimbastisce un noir frizzante e colorito, con moltesfumature (a tratti persino rosa), e non ultima unapungente ironia di fondo. La fine tragica di unarock’n’roll star, da cui si dipana la storia, è soltanto unodei cliché dello stardom system che Carl Hiaasenassembla: c’è il comeback di Jimmy Stoma (impedito poidagli eventi) e il un lost album, la canzone magica(ovvero un hit) e molto altro ancora, a dimostrazione diuna dimestichezza con un vocabolario che solo inapparenza è superficiale, perché se non altro bisognasaper distinguere tra Black Crowes e Counting Crows.Attorno a lui un nugolo di personaggi femminili: unarete di donne che bilancia il primato cinico e spietato diCleo Rio e che aiuta Jack Tagger a scioglierel’ingarbugliato enigma e a ritrovare quelle due o trecose che servono veramente nella vita e che né la famané l’ambizione possono supplire. Da leggere senzaesitazioni, con il sorriso sulle labbra e un disco diWarren Zevon come colonna sonora.

BookshighwayBookshighwayiiii llll iiiibbbbrrrr iiii ddddeeeellll ttttrrrr iiiimmmmeeeesssstttt rrrreeee

a cura di Marco Denti

Richard BrautiganIl mostro degli Hawkline

Carl HiaasenCrocodile Rock

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Americana Basic TracksAmericana Basic Tracksttttrrrraaaacccccccceeee bbbbaaaasssseeee dddd’’’’AAAAmmmmeeeerrrr iiiiccccaaaa

Joe ElyLetter to Laredo

Quando nel 1996 uscì, in poche coraggiose sale, il film di PaulAuster e Wayne Wang “Blue in the face”, sorta di progettoparallelo di “Smoke”, il titolo (che si riferisce al fatto che nelfilm gli attori, tra i quali anche Madonna e Lou Reed, parlanoincessantemente fino a diventare, per l’appunto, cianotici) mifece immediatamente pensare alla frase “Sang ‘til my lipsturned blue” contenuta in All just to get to you, la canzone cheapriva lo splendido Letter to Laredo di Joe Ely, uscitoappena pochi mesi prima.Ma i testi delle canzoni di Joe Ely,si sa, raramente sono dei fiumi diparole in piena e no, non ci sonolabbra blu o visi cianotici adaccompagnare idealmente questeborder songs alla loroconclusione. Se proprio vogliamotrovare in Letter To Laredoqualcosa di blu dobbiamo cercarenei polpastrelli di Teye, oscurochitarrista flamenco olandese. Bluperché tale doveva essere ilcolore dei succitati polpastrellidopo le dimostrazioni divirtuosismo che possiamoascoltare nel disco, e blu perchéblu è il colore della malinconia,che del flamenco è principalenutrimento. Se le direttricimusicali dei precedenti lavori diEly si collocavano nell’ambito diun country rock piuttosto canonico, sebbene lontano millemiglia dai suoni modaioli di Nashville, Letter To Laredo nesposta l’ideale collocazione in quella linea di confine chesepara il Texas dal Messico.Ad accompagnare Joe in questo affascinante viaggio musicaletroviamo, insieme ad un manipolo di ottimi musicisti (moltidei quali affiancano il cantante da tempo), anche un paio divecchi amici dello stesso: Bruce Springsteen, che presteràla propria voce per il brano iniziale (la muscolosa All Just ToGet To You) e per quello finale (I’m A Thousand Miles FromHome, autentico capolavoro del disco) e Jimmie DaleGilmore (titolare insieme allo stesso Ely ed a Butch Hancockdella premiata ditta Flatlanders), che armonizzerà con lapropria voce I Saw It In You. Anche il restante terzo deiFlatlanders, Butch Hancock per l’appunto, dà il propriocontributo al disco firmando She Finally Spoke Spanish To Me,curiosa autoreferenziale risposta a quella She Never SpokeSpanish To Me, da lui scritta e peraltro cantata dallo stesso Elynel suo disco d’esordio del 1977. Se il brano di Hancock èbello ma non memorabile, lo stesso non si può dire di Gallo

Del Cielo, straordinaria canzone di disperazione e galli dacombattimento uscita dalla penna di Tom Russell (eraoriginariamente su Poor Man’s Dream) che proprio in LetterTo Laredo, grazie anche all’apporto vocale di Raul Malo, allachitarra di Teye ed alla suggestiva fisarmonica di Ponty Bone,trova la sua versione definitiva.Insieme a questi brani, per un motivo o per un altromaggiormente rappresentativi dello spirito del disco, scorre,con la lentezza del Rio Grande, una lunga sequela di piccoligioielli acustici attraverso i quali Ely, dimostrando di avereassimilato alla perfezione la lezione di Cormac McCarthy (cheEly ringrazia pubblicamente nei credits), ci racconta, spessocon poche ma efficacissime immagini, le sue storie di confine.Dall’incedere gitano di Run Preciosa al tex-mex di Saint

Valentine e Ranches And Rivers,dalla malinconica nostalgia di chi,per un motivo o per un altro,fugge dai propri luoghi e daipropri affetti (raccontatamagistralmente nella title tracked in I’m A Thousand Miles FromHome) al country più tradizionaledi I Ain’t Been Here Long, ognisingola nota ed ogni singolaparola in Letter To Laredo ciparlano di quella linea ideale (mamica tanto, essendo percorsa perbuona parte da un alto murosorvegliato a vista) che non silimita a separare due popoli ma,anche e soprattutto, a cercare ditenerne lontano uno,decisamente più affamatodell’altro.Riguardo questo aspetto“politico” della forzata vicinanza

tra Stati Uniti e Messico Ely decide di mantenere, in Letter ToLaredo, un profilo decisamente basso. Nessuna denuncia,nessun racconto di attraversamenti notturni della linea diconfine (altri lo hanno fatto o lo faranno, penso per esempioal Bruce Springsteen di Across The Border o di MatamorosBanks), ma ciò non significa che la disperazione e la fuga dauna condizione di vita insostenibile siano stati lasciati fuoridalle canzoni di Letter To Laredo: basta mettere a fuoco in unpunto indefinito posto appena qualche metro dietro le paroleche compongono i testi. Perché dietro ogni uomo che fuggedalla legge per un crimine non commesso, dietro ogni uomoche si trova a miglia di distanza dalla propria casa nel tentativodi raggiungere una qualsivoglia terra promessa, dietro ogniuomo che ruba qualcosa (sia anche un gallo dacombattimento con le ali rotte ed un occhio storto) perricomprare la terra che era del proprio padre, dietro tuttequeste persone non ci può che essere un’unica, immensadisperazione.(Silvano Terranova)

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ROOTSHGHWAY PLAYLISTmmmmaaaarrrrzzzzoooo----mmmmaaaaggggggggiiiioooo 2222000000009999

TOP TEN1. Bonnie Prince Billy “Beware”

2. Black Joe Lewis “Tell ‘Em What Your Name Is”3. Felice Brothers “Yonder is the Clock”4. Ramblin Jack Elliott “A Stranger Here”

5. Elvis Perkins in Dearland “Elvis Perkins in Dearland”6.Amy Speace “The Killer in Me”7.Mickey Clark “Winding Highways”

8.Tim Easton “Porcupine”9. Bob Dylan “Together Trough Life”

10. Buddy & Julie Miller “Written in Chalk”

RUNNERS11. Jason Isbell & The 400 Unit “Jason Isbell & The 400 Unit”

12.Willem Maker “New Moon hand”13. JBM“Not Even in July”

14.Aby Tapia “The Beauty in the Ruin”15. Flatlanders “Hills and Valleys”

16.Danny Schimdt “Instead The Forest Rose to Sing”17.William Elliott Whitmore “Animals in the Dark”

18.The Handsome Family “Honey Moon”19.Howard Elliott Payne “Bright Light Ballads”20. Justin Townes Earle “Midnight at the Movies”

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RootsHighway 2009