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AIP ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOLOGIA CONGRESSO NAZIONALE DELLA SEZIONE DI PSICOLOGIA SPERIMENTALE • Capri Novantanove • RIASSUNTI DELLE COMUNICAZIONI a cura di Giovanna Nigro

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AIPASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOLOGIA

CONGRESSO NAZIONALE DELLA SEZIONE DI

PSICOLOGIA SPERIMENTALE

• Capri Novantanove •

RIASSUNTI DELLE COMUNICAZIONIa cura di Giovanna Nigro

Capri, 27 – 29 Settembre 1999

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A.I.P.ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOLOGIA

CONGRESSO NAZIONALE DELLA SEZIONE DI PSICOLOGIA SPERIMENTALE

Capri, 27-29 Settembre 1999

COMITATO SCIENTIFICO

Direttivo della Sezione di Psicologia Sperimentale

Anna Paola Ercolani (Università di Roma “La Sapienza”) – (Coordinatore)

Silvana Contento (Università di Bologna) – (Segretario)

Luciano Mecacci (Università di Firenze)

Roberto Nicoletti (Università di Padova)

Giovanna Nigro (Seconda Università degli studi di Napoli)

SEGRETERIA SCIENTIFICA

Giovanna NigroCarla Poderico

Seconda Università degli studi di NapoliCorso di Laurea in Psicologia

Via Vivaldi, 4381100 Caserta

Con il patrocinio e il contributo

della Seconda Università degli studi di Napoli, della Facoltà di Lettere e Filosofia della Seconda Università degli studi di Napoli, del Dipartimento di Studio delle Componenti Culturali, Umane e Relazionali del Territorio della Seconda Università degli studi di Napoli.

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Presentazione

Signore e Signori,

per questa terza edizione del Congresso Nazionale di Psicologia Sperimentale dell’AIP ho deciso di optare per una presentazione del volume degli abstract che si collocasse a metà strada tra lo stile del Dottor Freud (absit iniuria verbis) ed uno stile epistolare non privo di quella certa eleganza che ancora si ritrova nelle missive vergate a mano e che, sventuratamente, non contraddistingue l’E-mail, mezzo di comunicazione francamente troppo ruspante (adsit 1 iniuria verbis) per conquistare l’animo del lettore fine. Che dire di questo Capri Novantanove? È fin troppo banale affermare che il tre è per tradizione numero sacro e magico e che queste caratteristiche si estendono – come è ovvio – al Congresso ed a tutti quelli che vi partecipano. Lo so che la maggior parte degli psicologi è più sensibile al magico numero sette (più o meno due) e che sulla scorta di questa “dipendenza” ci imporrà almeno altri quattro congressi, perché noi possiamo conquistare quella perfezione alla quale palesemente miriamo e – ahinoi! – non solo nell’ambito della psicologia sperimentale. E comunque, è sempre meglio un fedele del signor Miller che un devoto di Garibaldi e dell’eroica impresa (in questo caso avremmo da allestire altri 997 meeting). Ottimismi a parte, c’è da dire che noi veterani del congresso all’ombra dei Faraglioni, noi veterani del Direttivo di Sperimentale, siamo rimasti letteralmente travolti dal grande successo di critica e di pubblico che puntualmente premia le nostre iniziative congressuali 2. Il compiacimento che ne è derivato e che così bene lega con quell’ombra di narcisismo di cui alle affermazioni iniziali, ha costituito un ottimo antidoto a quelle gravi forme di depressione che avrebbero potuto innescare i 30-40 lavori denominati “abstract.doc”, e gli altrettanti contributi battezzati “Capri99.doc”, ed è riuscito ad annullare la delusione legittima legata alla constatazione che la pregevole presentazione del volume di Capri ‘96, in cui il tema della denominazione dei file costituiva il piatto forte, non era stata letta o addirittura compresa.

Nell’allestimento di questa terza kermesse la cultura di noi umili curatori del volume di abstract ha subìto più che un incremento, un consolidamento, almeno per ciò che attiene alle aree tematiche del Congresso. Abbiamo avuto modo di apprezzare la fedeltà degli autori ai loro cavalli di battaglia, la tenacia negli approfondimenti e la consueta riottosità al rispetto delle regole di presentazione degli abstract. Da qui l’inseguimento telematico per ottenere qualche riferimento bibliografico, una razionale scansione del lavoro secondo tradizione e chiarimenti di omologa natura. Il vantaggio principale dell’E-mail è la rapidità con cui si riesce a raggiungere l’altro. E l’altro veloce ti risponde. Quando

1 Attenzione proto! È proprio “adsit”!2È d’obbligo un ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile l’organizzazione del Congresso. Mi riferisco in particolare agli impeccabili colleghi che hanno svolto il lavoro di referee con la competenza solita e con tutta la rapidità che situazioni di emergenza impongono (come è noto Capri Novantanove è impresa varata in ritardo). Ringrazio ancora gli amici che hanno accettato con il garbo consueto di presiedere le sessioni. Ringraziamenti e gratitudine eterna ai Dottori Roberto Marcone e Vincenzo Paolo Senese che si sono accollati l’onere dell’editing del volume. È il caso di dire – ed è proprio vero – che senza il loro aiuto questo volume non avrebbe visto la luce. Pentimenti a parte.

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ti risponde. Talvolta fa finta di niente. Alla richiesta “...la preghiamo pertanto di riscrivere l’abstract secondo le norme contenute nel call for papers, pena l’esclusione del suo lavoro dal volume degli abstract”, si sono registrate repliche ovviamente tardive del tipo: “Leggo la posta elettronica di rado”, “scarico la posta una volta al mese”, espressioni queste che se ci tranquillizzano sulla complessiva buona salute mentale dei nostri colleghi, ci fanno rimpiangere altre e più sicure forme di comunicazione e di scambio, dai piccioni viaggiatori ai segnali di fumo. A metà giugno (la dead-line era fissata per il 15 di maggio dello stesso anno) non erano infrequenti i messaggi del tipo “per motivi di studio sono stato all’estero per un mese ...”, “sono appena tornato da un congresso negli Stati Uniti ...”, con un seguito uguale per tutti: “potrei inviare un abstract anche se è un po’ tardi?” Ciò a dimostrare che l’eufemismo è figura retorica ben frequentata almeno dagli psicologi che viaggiano molto e per mete mai al di sotto delle sei ore d’aereo. Sarebbe stata più graziosa una missiva che giustificasse il ritardo o la distrazione facendo riferimento ad altri luoghi e ad altri impegni: “Di ritorno da un lungo soggiorno a Cerreto Sannita, dove ebbi a ritemprami delle fatiche accademiche nella magione della nonna, …”, “Negli ultimi due mesi sono stato ospite di un cugino di secondo grado (non informatizzato) che abita ad Attigliano …”, e così via. Confido in prossimi scambi epistolari di massa per leggere missive in stile minimalista. E per non leggere comunicazioni irose, ferocemente ironiche e sostanzialmente irragionevoli. Il programma provvisorio del Congresso vi è stato trasmesso, ancora una volta, utilizzando la posta elettronica e le risposte risentite (pochissime, lo riconosco) mi hanno folgorata nel giro di 48 ore. Un signore ritira i lavori e la quota di iscrizione perché i suoi abstract erano stati collocati nella sessione poster, un altro si arrabbia moltissimo per un refuso contenuto nel programma, un altro ancora per una collocazione oraria non gradita3. Devo dire che non ci sono provenienze geografiche, collocazioni accademiche o extra-accademiche, età o ruolo che possano agire da denominatore comune per spiegare reazioni governate da cotanto risentimento. Chiederò ai colleghi della neonata Sezione di Psicologia Clinica, che ci seguiranno a ruota nell’avventura congressuale caprese, di studiare il fenomeno. Posto che ne valga la pena. Si potrebbe anche pensare ad una giornata comune, rubando il titolo ad un’opera teatrale di Thomas Bernhard4. Estendendo quanto basta ciò che ebbe a dire Jean de La Bruyère (1645-1698), si potrebbe concludere:

La gloire ou le mérite de certain hommes est de bien écrire;                                            et de quelques autres, c’est de n’écrire point.

Les Caractères ou les Mœurs de ce siècle

Per la terza volta: vi aspetto a Capri!

Giovanna Nigro

3 Il cliente ha sempre ragione. È vero. Purtoppo la ragione non ha sempre clienti.4 Mi riferisco all’ultima raccolta, per quanto è a mia conoscenza, delle opere per la scena di Bernhard Teatro IV, pubblicato dalla Ubulibri di Milano nel febbraio 1999. La raccolta comprende tre lavori: L’ignorante e il folle, Immanuel Kant e Prima della pensione. Nella scelta del tema e del titolo della ipotetica e tuttavia auspicabile giornata comune escluderei le ultime due pièces.

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COMUNICAZIONI

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ATTENZIONE

EFFETTI DELL’ATTIVITÀ MOTORIA SU UN COMPITO DI DISCRIMINAZIONE VISIVA

Claudia Bonfiglioli1,2, Chris Rorden2,3, John Duncan2

1 Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna, Italia 2 MRC Cognition and Brain Sciences Unit, Cambridge, UK3 Institute of Cognitive Neuroscience, University College London, UK

L’ipotesi che l’attività motoria possa influenzare il modo in cui l’attenzione visiva viene distribuita nello spazio è stata avanzata da Rizzolatti e collaboratori, i quali hanno proposto la Teoria Premotoria dell’Attenzione (Rizzolatti, Riggio, Dascola e Umiltà, 1987; Rizzolatti, Riggio e Sheliga, 1994). Secondo tale teoria, l’orientamento dell’attenzione verso una specifica regione dello spazio dipende dalla programmazione di un movimento verso quella stessa regione. È possibile dunque ipotizzare che la prestazione ad un compito svolto nella posizione dello spazio in cui si trova il bersaglio dell’azione sia più accurata.

Lo scopo del presente studio è stato quello di stabilire se la Teoria Premotoria dell’Attenzione sia verificata nel caso di movimenti di raggiungimento, valutando il ruolo di questo tipo di movimenti sulla prestazione ad un compito di discriminazione visiva. Il compito sperimentale consisteva nell’identificare una lettera (“S” o “Z”) presentata brevemente 15 cm a destra o a sinistra del punto di fissazione, senza che nessuna enfasi venisse posta sulla velocità di emissione della risposta. Contemporaneamente al compito visivo, ai soggetti (cinque soggetti di età compresa tra i 62 ed i 68 anni) era richiesto un compito motorio di raggiungimento, che doveva essere eseguito il più velocemente possibile, verso uno di quattro pulsanti. Tali pulsanti erano posti a coppie 11.5 cm sotto ciascun LED e ad una distanza di 8 cm l’uno dall’altro. La visione sia dei pulsanti sia dell’arto in movimento era impedita, in quanto l’intero movimento veniva svolto sotto un pannello di legno. All’inizio di ciascuna prova un segnale acustico informava i soggetti su quale pulsante doveva essere premuto. Dopo un intervallo di 200, 500, 800 o 1100 ms (SOA) dalla comparsa del suono veniva presentata la lettera bersaglio.

In base alla Teoria Premotoria dell’Attenzione si prevede una maggiore accuratezza nelle condizioni in cui il bersaglio del compito visivo si trovi nella stessa posizione spaziale del bersaglio del raggiungimento, rispetto alle condizioni in cui i bersagli si vengano a trovare in posizioni differenti. Le prove sono state considerate “compatibili”, quando la coppia di pulsanti ed il bersaglio visivo si trovavano nello stesso emispazio (ad esempio, entrambi a destra); “incompatibili” quando la coppia di pulsanti ed il bersaglio visivo si trovavano in emispazi opposti (ad esempio, i pulsanti a destra ed il bersaglio a sinistra). La percentuale di errori commessa dai soggetti nel compito di identificazione è stata analizzata con una ANOVA a due fattori, Compatibilità x SOA. Contrariamente a quanto previsto dalla Teoria Premotoria, da tale analisi non è emerso alcun effetto dell’attività motoria sulla prestazione al compito di identificazione.

Per verificare che il compito di discriminazione utilizzato fosse sensibile a manipolazioni attentive è stato condotto un secondo esperimento, in cui l’orientamento

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dell’attenzione veniva determinato da un segnale visivo posto in corrispondenza di uno dei due LED. I sei soggetti (età compresa tra i 58 e i 67 anni) dovevano svolgere lo stesso compito di discriminazione dell’esperimento precedente, con la differenza che la presentazione della lettera era preceduta da un breve flash luminoso. Tale flash si verificava nel 70% dei casi nella stessa posizione in cui sarebbe poi comparsa la lettera bersaglio (prove valide), e nel restante 30% dei casi nella posizione opposta a quella in cui sarebbe comparsa la lettera bersaglio (prove invalide). In base ai dati riportati in letteratura (si veda ad esempio Posner, 1980) si può ipotizzare che un segnale visivo esogeno quale quello da noi utilizzato determini un orientamento automatico dell’attenzione verso la posizione dello spazio in cui il flash si è verificato, rendendo la prestazione dei soggetti al compito di discriminazione più accurata nelle prove valide rispetto alle prove invalide. Le medie degli errori sono state analizzate con una analisi della varianza, da cui è emerso che la prestazione dei soggetti è migliore nel caso delle prove valide (23% di errori) rispetto alle prove invalide (35% di errori; F(1, 5)=10.36, p<.03).

Sulla base di questi risultati si può concludere che, nel caso di un paradigma che preveda un compito di discriminazione visiva, gli effetti dell’attività motoria sull’orientamento dell’attenzione non sono tali da determinare una prestazione più accurata per gli stimoli visivi che vengono a trovarsi nella stessa posizione spaziale del bersaglio dell’azione.

Riferimenti bibliograficiPosner, M.I. (1980). Orienting of attention. Quarterly Journal of Experimental Psychology,

32, 3-25.Rizzolatti, G., Riggio, L., Dascola, I., & Umiltà, C. (1987). Reorienting attention across the

horizontal and vertical meridians: Evidence in favour of a premotor theory of attention. Neuropsychologia, 25, 31-40.

Rizzolatti, G., Riggio, L., Sheliga, B.M. (1994). Space and selective attention. In: C. Umiltà & M. Moscovitch (a cura di), Attention and Performance XV. Cambridge, MA: MIT.

CONTROLLO ATTENTIVO DELL’INTEGRAZIONE PERCETTIVA IN UN COMPITO DI DISCRIMINAZIONE

PER L’ORIENTAMENTO

David Burr*†, Stefano Baldassi•*†

* Istituto di Neurofisiologia del CNR• Facoltà di Psicologia, Università degli studi di Roma “La Sapienza”† Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Firenze

IntroduzioneNel paradigma di “Visual Search” il soggetto deve effettuare un task percettivo su

uno stimolo bersaglio in presenza di un numero variabile di distrattori neutri. Ciò permette di inferire le proprietà dei meccanismi attentivi di selezione dell’informazione rilevante. In

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alcuni casi la prestazione percettiva, storicamente misurata attraverso tempi di reazione, non dipende in alcun modo dal numero di distrattori, in altri si osserva un peggioramento della prestazione con l’aumentare degli elementi presenti. Tale differenza è stata utilizzata per affermare una dicotomia tra processi paralleli (preattentivi) e processi seriali (attentivi). Questo studio misura soglie psicofisiche per analizzare gli effetti attentivi dovuti all’aumento di informazione potenziale disponibile su due diversi compiti di discriminazione per l’orientamento: un compito di identificazione dell’orientamento del bersaglio ed uno di locazione del bersaglio stesso in presenza di un numero variabile di distrattori.

MetodoGli stimoli erano reticoli sinusoidali, spazialmente circoscritti una funzione

gaussiana, presentati tachistoscopicamente per 100 ms a 5° di eccentricità. Il bersaglio, leggermente inclinato in senso orario o antiorario, era presentato da solo o in presenza di un numero variabile (da 0 a 15) di distrattori normalmente verticali. In sessioni separate i soggetti dovevano indicare la direzione di inclinazione dello stimolo bersaglio, oraria o antioraria (identificazione) rispetto alla verticale, o indicare la sua posizione. Le soglie di orientamento corrispondevano in ambedue i compiti al valore di orientamento del bersaglio che produceva il 75% delle risposte corrette. Nella condizione attentiva, un piccolo punto bianco, il “cue”, segnalava la posizione del bersaglio 20 ms prima della sua comparsa. Gli stimoli erano presentati su un fondo a luminanza media o con contrasti variabili di rumore visivo applicato su tutto lo schermo.

RisultatiIl risultato principale dello studio (vedi figura) è che nel compito di identificazione

le soglie di discriminazione per l’orientamento mostravano una dipendenza dal numero di elementi con una inclinazione su assi logaritmici di 0.5; mentre nel compito di locazione tale dipendenza, seppur non nulla, risultava fortemente ridotta a circa 0.2. A conferma della robustezza di questi risultati, le due diverse inclinazioni erano mantenute applicando diversi livelli di rumore su tutto lo schermo: il rumore sposta le curve verso l’alto in ambedue i compiti risultando in una perdita complessiva di sensibilità, ma non sposta in alcun modo le dipendenze ottenute. Nella condizione di “cue” l’attenzione sul bersaglio annulla l’effetto del numero dei distrattori, mantenendo le soglie allo stesso livello della condizione senza distrattori. I diversi risultati ottenuti nei due compiti sembrano essere ben spiegati da due diversi meccanismi. Modelli basati sulla Teoria della Detezione del Segnale predicono che una dipendenza logaritmica di 0.5 (radice quadrata) del numero degli elementi, suggerisca che il compito di identificazione sia eseguito integrando i segnali rumorosi di orientamento provenienti dai detettori locali relativi ai singoli elementi. La dipendenza più leggera ottenuta nel compito di locazione è in stretto accordo con un meccanismo che tratti i singoli segnali, indipendenti e rumorosi, separatamente sino al livello della decisione, dove viene scelto l’elemento che genera il segnale di orientamento più forte. Ulteriori evidenze verso queste due spiegazioni sono state ottenute inclinando sistematicamente i distrattori nella stessa direzione del bersaglio o in quella opposta: come prevedibile sulla base dei modelli, distrattori inclinati come il bersaglio miglioravano le soglie nel compito di identificazione, aumentando il segnale di orientamento nell’operazione di integrazione percettiva, ma peggioravano la prestazione nel compito di locazione, riducendo il contrasto di

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orientamento tra i singoli elementi. Inoltre, inclinazioni opposte dei distrattori provocavano un quadro di risultati opposto a quello appena

ConclusioniIl complesso dei risultati ottenuti rielabora in buona parte la dicotomia seriale-

parallelo, deponendo a favore dell’idea che la discriminazione dell’orientamento di un bersaglio orientato sia operata da semplici meccanismi percettivi paralleli. In ambedue i casi la principale fonte di limitazione sarebbe il rumore dei singoli elementi ad un primo livello di elaborazione

Nel compito di locazione gli outputs dei singoli elementi non sarebbero integrati e manderebbero la loro risposta rumorosa indipendentemente e parallelamente allo stadio della decisione. In questo caso il numero degli elementi avrebbe l’unico effetto, statistico, di aumentare la probabilità di errore nella risposta. Nel compito di identificazione avverrebbe invece una semplice somma percettiva che integra i segnali rumorosi generati dai singoli stimoli. L’attenzione agirebbe riducendo l’estensione spaziale su cui l’operazione di integrazione avrebbe luogo. Questo tipo di integrazione globale di “secondo-ordine” potrebbe essere il risultato sia di un operazione percettiva ad alti livelli di elaborazione neurale, o quello di interazione neurali di lunga distanza intercorrenti tra detettori per della corteccia visiva primaria. In entrambi i casi il processo sarebbe sotto rapido controllo attentivo attraverso meccanismi top-down.

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VERIFICA DELLA DISSOCIAZIONE DEGLI EFFETTI DEI MERIDIANI VERTICALI VISIVO E CENTRATO

SULLA TESTA IN UN PARADIGMA DI POSNER

Fabio Ferlazzo^, Franco Pestilli^, Marta Olivetti Belardinelli^*^Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”*ECONA, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva in Sistemi Naturali e Artificiali

IntroduzioneNell’ambito degli studi sull’attenzione un problema che ha destato particolare

interesse è quello relativo alle caratteristiche della distribuzione della attenzione nello spazio. In particolare, un dato ormai comunemente accettato è quello che si riferisce alla anisotropia dello spazio nel quale si sposta l’attenzione. In questo senso un effetto molto noto è il cosiddetto effetto meridiano, che si riferisce al costo maggiore associato, in un paradigma di Posner (Posner, 1978), alle prove invalide che comportano l’attraversamento dei meridiani visivi verticale e orizzontale rispetto alle prove invalide che non comportano un tale attraversamento, a parità di distanza. Questo effetto è stato spiegato nell’ambito della Teoria Premotoria (ad esempio, Rizzolatti et al., 1994) come dovuto al riaggiornamento del programma motorio oculare sia per la distanza che per il verso dello spostamento. L’esistenza di un effetto meridiano dimostra una delle anisotropie riscontrate nello spostamento dell’attenzione spaziale visiva. In un precedente studio (Ferlazzo et al., 1998; Padovani et al., 1999) abbiamo dimostrato lo stesso effetto anche nella modalità acustica, ed inoltre abbiamo osservato che il meridiano che dà origine all’effetto è quello centrato sulla testa e non quello visivo. In questo studio il nostro obiettivo è stato da un lato quello di confermare i precedenti risultati sull’esistenza di un effetto meridiano anche nella modalità acustica e la dissociazione in questa modalità tra meridiano visivo e meridiano centrato sulla testa utilizzando cues cognitivi anziché periferici come nello studio precedente, e dall’altro quello di verificare la consistenza della dissociazione osservata nella modalità acustica verificando l’ipotesi che nella modalità visiva il meridiano responsabile dell’effetto sia quello visivo e non quello centrato sulla testa.   

MetodoI due esperimenti sono stati condotti rispettivamente su 13 e 15 soggetti di età

compresa tra 20 e 30 anni, normoudenti e con vista normale o corretta normale. In entrambi gli studi è stato utilizzato un classico paradigma di Posner nel quale gli stimoli cues consistevano nei numeri da 1 a 4 che apparivano in corrispondenza del punto di fissazione e che indicavano, nelle prove valide, la locazione spaziale dello stimolo target. Inoltre, in entrambi gli esperimenti il punto di fissazione era spostato sulla destra o sulla sinistra rispetto all’allineamento della testa del soggetto, dissociando in questo modo i due

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meridiani visivo e centrato sulla testa. In particolare, il punto di fissazione era posto tra le posizioni 1 (estrema sinistra) e 2 in metà delle prove e tra le posizioni 4 (estrema destra) e 3. Nel primo esperimento gli stimoli target erano acustici mentre nel secondo erano visivi. In ciascun esperimento i tempi di reazione agli stimoli target sono stati analizzati mediante analisi della varianza ad una via sia per il confronto tra le prove (valide vs neutre vs invalide) sia, limitatamente alle prove invalide, per la verifica della dissociazione tra i meridiani visivo e centrato sulla testa (attraversamento del meridiano visivo vs attraversamento del meridiano somatico vs non attraversamento).

RisultatiI risultati dell’esperimento condotto utilizzando target acustici hanno confermato i

precedenti risultati dimostrando un costo maggiore nelle prove invalide che implicavano l’attraversamento del meridiano centrato sulla testa rispetto sia alle prove invalide che implicavano l’attraversamento del meridiano visivo sia alle prove invalide che non comportavano l’attraversamento di uno dei due meridiani (F(2,24)=10.42, p<.001). I risultati del secondo esperimento hanno inoltre confermato che l’effetto del meridiano centrato sulla testa può considerarsi specifico della modalità acustica.

ConclusioniI risultati di questo studio confermano l’esistenza di una anisotropia nello

spostamento dell’attenzione spaziale selettiva, determinata dai meridiani verticali visivo e centrato sulla testa. Inoltre, appare confermata l’ipotesi che tali effetti siano specifici della modalità sensoriale utilizzata.

Riferimenti bibliograficiFerlazzo, F., Rossi-Arnaud, C., Olivetti Belardinelli, M. (1998). Is there any anisotropy in

the acoustic representation of space? Proceedings of the Second Conference on Music Informatics, Gorizia.

Padovani, T., Ferlazzo, F., Rossi-Arnaud, C., Olivetti Belardinelli, M. (1999). Effects of visual and head centred meridians on reorienting spatial attention. Paper presented at the VI European Congress of Psychology, Rome.

Posner, M.I. (1978). Chronometric explorations of mind. Hillsdale, N.J: Erlbaum. Rizzolatti, G., Riggio, L., Sheliga, B.M. (1994). Space and selective attention. In: C. Umiltà

and M. Moscovitch (Eds.) Attention and Performance XV. Cambridge: MIT Press.

IL RAGGRUPPAMENTO PERCETTIVO DI SEQUENZE RITMICHE DI STIMOLI ACUSTICI IN UN COMPITO DI

ATTENZIONE SELETTIVA

Marta Olivetti Belardinelli*°, Sabina D’Amato°*Econa, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva in Sistemi Naturali e Artificiali° Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

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IntroduzioneIl contesto definito dalla organizzazione degli stimoli acustici è un tema

scarsamente studiato in letteratura, probabilmente a causa della difficoltà di studiare stimoli che vengono ad essere organizzati nel tempo. Si ritiene d’altro canto che anche i soggetti abbiano dei ritmi spontanei di elaborazione che difficilmente coincidono con il ritmo dello stimolo che debbono elaborare (Olivetti Belardinelli, 1993). L’obiettivo di questo lavoro, che si inquadra in una direttrice di ricerca sviluppata in collaborazione con Fabio Ferlazzo, è pertanto duplice: 1- indagare se l’organizzazione temporale (ritmica) di una sequenza di suoni ha un effetto sulla capacità del soggetto di discriminare stimoli target rari inseriti all’interno di sequenze acustiche standard; 2- indagare se le modalità di elaborazione (evidenziate mediante ERP) differiscono in base al ritmo spontaneo di elaborazione dei soggetti.

MetodoLo studio è stato condotto su 20 soggetti impegnati in un compito classico di

discriminazione di uno stimolo target acustico raro all’interno di una sequenza di stimoli standard (odd-ball). Sono state utilizzate due sequenze che differiscono per l’organizzazione temporale degli stimoli: una sequenza era composta da uno stimolo forte ed uno stimolo debole regolarmente alternati (ritmo binario), l’altra sequenza era composta da uno stimolo forte e due deboli regolarmente alternati (ritmo ternario). Gli stimoli forti erano costituiti da toni a 1000 Hz presentati a 60 Db Spl. Gli stimoli deboli erano toni a 1200 Hz presentati a 60 Db Spl. Inoltre i soggetti sono stati sottoposti a registrazione psicofisiologica degli ERP con elettrodi posti sullo scalpo nelle posizioni: Fz, Cz, F3, F4, C3, C4, secondo indicazioni di Alain et al. (1994). Gli indici elettrofisiologici presi in esame sono stati l’ampiezza della N100 e della P300 elicitate dagli stimoli target e standard nelle due sequenze. Nella fase di elaborazione dei dati si è proceduto anzitutto all’averaging per l’estrapolazione del potenziale evento correlato e successivamente sono state eseguite analisi della varianza sia sul numero di risposte corrette date dal soggetto che sull’ampiezza della N100, concernente l’attenzione, che sulla P300 che è correlata all’elaborazione cognitiva dello stimolo.

RisultatiLe analisi condotte sulla ampiezza della N100 non hanno dimostrato un effetto

significativo della sequenza temporale, mentre le analisi condotte sulla ampiezza della P300 hanno mostrato che essa è più ampia quando elicitata dagli stimoli target presentati nella sequenza ternaria rispetto alla sequenza binaria, pure esistendo differenze tra i soggetti a diverso ritmo spontaneo.

ConclusioniI risultati dimostrano come il processo di elaborazione degli stimoli sia influenzato

dal contesto temporale nel quale essi sono presentati (effetto rilevabile da una misura psicofisiologica come i potenziali correlati ad eventi) e come le caratteristiche personali influiscono sul pattern di elaborazione.

Riferimenti bibliografici

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Gupta L., Molfese D.L., Tammana R. (1995). An artificial neural network approach to ERP classification. Brain and Cognition, 27, 311-330.

Kandel E.R., Schwartz J.H., Jessel T.M. (1994). Principi di Neuroscienze. Milano CEA.Mecacci L. (a cura di) (1982). Tecniche psicofisiologiche. Bologna Zanichelli. Olivetti Belardinelli, M. (Ed.) (1993). Processi ritmici nella elaborazione cognitiva.

Comunicazioni Scientifiche di Psicologia Generale. V.10. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane.

IL RUOLO DEL MECCANISMO ATTENTIVO DELL’ORIENTAMENTO NELLA PREFERENZA PER IL

VOLTO ALLA NASCITA

Viola Macchi Cassia°, Francesca Simion°, Carlo Umiltà*°Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Numerosi dati testimoniano l’esistenza di una preferenza per il volto alla nascita (Goren, Sarty e Wu, 1975; Johnson, Dziurawiec, Ellis e Morton, 1991; Kleiner, 1987; Maurer e Young, 1983; Valenza, Simion, Macchi Cassia e Umiltà, 1996). Il modello teorico più accreditato in letteratura (modello strutturale), formulato da Morton e Johnson (1991), spiega tale preferenza come il risultato dell’attivazione di un meccanismo specifico, chiamato Conspec, selettivamente sensibile alle caratteristiche strutturali del volto, definite dalla reciproca relazione spaziale che lega le componenti interne presenti in tale stimolo. Tale meccanismo avrebbe sede nei collicoli, e avrebbe la funzione di far sì che il neonato orienti l’attenzione e lo sguardo su qualsiasi stimolo che compare alla periferia del campo visivo e che possiede le proprietà strutturali che sono tipiche del volto. Secondo Morton e Johnson, quindi, la preferenza per il volto alla nascita sarebbe imputabile esclusivamente dall’azione di un meccanismo di orientamento, le cui basi neurali andrebbero rintracciate a livello sottocorticale.

I risultati delle ricerche da noi condotte confermano solo in parte tale modello. In particolare, i risultati di un esperimento nel quale è stata utilizzata la tecnica della preferenza visiva e nel quale sono state presentate due rappresentazioni schematizzate di un volto che differivano unicamente per la disposizione spaziale degli elementi interni, dimostrano che i neonati fissano più lungo lo stimolo che rappresenta il volto (Valenza et al., 1996). Più precisamente, i risultati indicano la presenza di una differenza significativa tra la durata della fissazione visiva sui due stimoli, mentre non vi è nessuna differenza tra il numero degli orientamenti emessi dai soggetti verso l’uno o l’altro stimolo. Questi dati sono stati da noi interpretati come una dimostrazione del fatto che il Conspec non è il solo meccanismo responsabile della risposta di preferenza per il volto mostrata dai neonati, e che tale preferenza implica, almeno in una certa misura, il coinvolgimento di strutture corticali (Simion, Valenza e Umiltà, 1998).

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Tuttavia, Johnson (comunicazione personale, 1998) ha recentemente proposto un’interpretazione alternativa di questi dati, secondo la quale anche i risultati relativi ai tempi di fissazione possono essere spiegati come il risultato del funzionamento del Conspec sottocorticale. Johnson sostiene infatti che i tempi di fissazione sullo stimolo sono determinati dallo stimolo che è in periferia. Più precisamente, poiché il Conspec si attiva ogni volta che un volto compare alla periferia del campo visivo, quando il neonato orienta lo sguardo sul volto dritto tende a fissarlo più a lungo perché il Conspec non viene attivato dal volto inverso presente alla periferia del campo visivo. Al contrario, quando il neonato fissa il volto inverso, il tempo di fissazione sarà inferiore perché la presenza del volto alla periferia del campo visivo attiva il Conspec, che porta il neonato a riorientare velocemente lo sguardo.

L’obiettivo della ricerca che viene presentata è quello di verificare la validità di tale interpretazione. Due gruppi formati ciascuno da 17 neonati di tre giorni di vita sono stati testati mediante l’utilizzazione di una versione modificata della tecnica della preferenza visiva, che prevede la presentazione di una coppia di stimoli uguali, ossia, in questo caso, due volti dritti o due volti inversi. Secondo l’interpretazione fornita da Johnson, l’ipotesi prevedeva che, nel caso in cui la coppia di stimoli fosse formata da due volti, il Conspec avrebbe dovuto essere continuamente attivato e, di conseguenza, i neonati avrebbero dovuto produrre un numero elevato di orientamenti associato a fissazioni medie di breve durata. Al contrario, quando la coppia di stimoli fosse stata formata da due volti inversi, i neonati avrebbero dovuto produrre un numero inferiore di risposte di orientamento, associate a fissazioni medie di durata superiore, in quanto il Conspec non avrebbe dovuto essere attivato.

I risultati ottenuti confermano le ipotesi, dimostrando che, nelle due condizioni considerate, i tempi di fissazione sullo stimolo sono determinati più dalla natura dello stimolo che cade nel campo visivo periferico, che di quello sul quale il neonato ha orientato lo sguardo. Inoltre, essi vengono avvalorati dal confronto effettuato tra i dati emersi dalla presente ricerca e quelli ottenuti presentando contemporaneamente due rappresentazioni schematiche del volto, una dritta e una inversa (Valenza et al., 1996).

Riferimenti bibliograficiGoren C., Sarty M. e Wu P. (1975).Visual following and pattern discrimination of face-like

stimuli by newborn infants. Pediatrics, 56, 54-549.Johnson M. H., Dziurawiec S., Ellis H. e Morton J. (1991). Newborns’ preferential tracking

of face-like stimuli and its subsequent decline. Cognition, 40, 1-19.Johnson M. H. e Morton J. (1991). Biology and cognitive development. The case of face

recognition. Oxford, Basil Blackwell.Kleiner K. A. (1987). Amplitude and Phase Spectra as indices of infants’ pattern

preferences. Infant Behavior and Development, 10, 49-59.Maurer D. e Young R. (1983). Newborns’ following of natural and distorted arrangements

of facial features. Infant Behavior and Development, 6, 127-131.Simion F., Valenza E. e Umiltà, C. (1998). Mechanisms underlying face preference at birth.

In F. Simion, G. Butterworth (Eds.), The development of sensoty, motor and cognitive capacities in early infancy: From perception to cognition, pp. 87-101. Hove, UK, Psychology Press.

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Valenza E., Simion F., Macchi Cassia V. e Umiltà C. (1996). Face preference at birth. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 22, 892-903.

EFFETTO SIMON E RAPPRESENTAZIONE DEI NUMERI

Daniela Mapelli, Carlo UmiltàUniversità di Padova

IntroduzioneIl termine “compatibilità stimolo-risposta” si riferisce al fatto che alcune coppie

stimolo-risposta (S-R) sono più facili e più veloci da processare rispetto ad altre. Ci sono due tipi di fenomeni di compatibilità S-R, entrambi dipendenti dal processamento dell’informazione spaziale: ‘compatibilità spaziale’ e ‘effetto Simon’ (Umiltà e Nicoletti, 1990).

Ai fini del nostro lavoro ci limiteremo qui ad una descrizione dell’effetto Simon. Un compito tipico in cui si verifica tale effetto è quello in cui al partecipante vengono presentate due luci colorate (es. rosso e blu) ed egli è istruito a rispondere premendo un tasto alla sua sinistra al colore rosso ed un tasto posto alla sua destra al colore blu. Anche se la posizione dello stimolo è irrilevante ai fini del compito, le risposte sono più veloci e spesso più accurate quando la posizione dello stimolo (destra/sinistra) corrisponde alla posizione del tasto di risposta (destra/sinistra) (S-R corrispondenti) rispetto a quando le due non corrispondono. Un’assunzione generalmente accettata è che nei compiti Simon viene generato un codice spaziale per l’attributo locazionale irrilevante dello stimolo (Lu e Proctor, 1995). Nella presente ricerca l’effetto Simon viene utilizzato come uno strumento efficace per investigare la rappresentazione mentale dei numeri. L’assunzione di base è che la presenza dell’effetto Simon attesti la presenza di una rappresentazione di tipo spaziale. In letteratura (Dehaene, Bossini e Giraux, 1993) viene ormai considerato un dato acquisito che il continuum numerico sia rappresentato lungo un’asse spazialmente orientato da sinistra verso destra, unicamente in funzione della magnitudo del numero per se.

MetodoEsperimento 1

Al centro dello schermo di un computer vengono presentati singolarmente dei numeri (cifre comprese tra 1 e 9 escluso il 5). Compito dei partecipanti è di valutare se il numero che compare è maggiore o minore di 5 premendo un tasto della tastiera del computer. Vengono registrati i tempi di reazione. I tasti di risposta sono disposti a destra o sinistra sulla tastiera. Nella situazione corrispondente il tasto per la risposta ‘minore di cinque’ è a sinistra, e il tasto per la risposta ‘maggiore di cinque’ è a destra. Nella situazione non corrispondente il tasto per la risposta ‘minore di cinque’ è a destra, mentre il tasto per la risposta ‘maggiore di cinque’ è a sinistra. Ogni partecipante svolge il compito in entrambe le situazioni, corrispondente e non corrispondente, in due sessioni sperimentali

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svolte a distanza di un giorno l’una dall’altra. I tempi di reazione per le risposte corrette sottoposti ad ANOVA dimostrano una differenza significativa tra le due situazioni sperimentali (situazione corrispondente 469 msec vs. situazione non corrispondente 506 msec). I risultati dimostrano che sebbene non vi siano coordinate di tipo spaziale nella presentazione degli stimoli (tutti i numeri sono al centro) i partecipanti svolgano il compito su una rappresentazione mentale che prevede i numeri disposti sequenzialmente lungo un’asse da sinistra verso destra.Esperimento 2

In questo esperimento vengono presentati nuovamente dei numeri al centro dello schermo (cifre comprese tra 1 e 11 escluso il 6) ma ai partecipanti si chiede di svolgere il compito considerando i numeri come delle ore e di decidere se il numero che compare corrisponde ad un’ora prima o dopo mezzogiorno premendo uno dei due tasti della tastiera. Nella situazione corrispondente il tasto per la risposta ‘ora prima di mezzogiorno’ è posizionato a sinistra e il tasto per la risposta ‘ora dopo mezzogiorno’ è posizionato a destra. Nella situazione non corrispondente i tasti sono invertiti. Ogni partecipante svolge il compito in entrambe le situazioni, corrispondente e non corrispondente, in due sessioni sperimentali, svolte a distanza di un giorno l’una dall’altra. I tempi di reazione per le risposte corrette sottoposti ad analisi dei BIN mostrano una differenza significativa solamente al quinto bin (cioè, per i TR più lunghi; situazione corrispondente 643 msec Vs. situazione non corrispondente 764 msec). I risultati dimostrano che per i tempi di reazione più lenti (quinto bin) i partecipanti svolgono il compito su di una rappresentazione mentale di tipo circolare (l’orologio).Esperimento 3

Nell’esperimento 2 non compare l’effetto Simon sui TR veloci: questo suggerisce che i partecipanti non utilizzino in partenza una rappresentazione spaziale. L’effetto Simon, e di conseguenza la rappresentazione spaziale, compare nei TR lunghi: ciò fa presumere che venga attuato un qualche processo di ricodifica. In quest’ultimo esperimento si cerca di indurre nuovamente una rappresentazione spaziale di tipo orizzontale (sinistra-destra) che compaia solo a seguito di una ricodifica degli stimoli. Al partecipante vengono presentate delle lettere al centro dello schermo (dalla lettera A alla lettera I esclusa la E), ed il suo compito è quello di valutare se la lettera comparsa venga ‘prima’ o ‘dopo’ la E premendo un tasto. Il tasto può essere a sinistra per le lettere prima della E e a destra per quelle dopo la E (situazione corrispondente), o viceversa (situazione non corrispondente). I tempi di reazione per le risposte corrette sottoposti ad analisi dei BIN mostrano una differenza significativa solo per i tempi di reazione più lunghi (situazione corrispondente 606 msec Vs. situazione non corrispondente 692 msec). Anche in questo caso i risultati dimostrano che il compito venga eseguito su una rappresentazione spaziale solo quando i tempi di reazione sono più lenti.

ConclusioneIl primo esperimento conferma che i numeri vengano rappresentati spazialmente

lungo una dimensione orizzontale orientata da sinistra a destra (Dehaene, 1993). Secondo Dehaene, tale rappresentazione dipende dalla grandezza dei numeri per se (SNARC-effect). Il secondo esperimento dimostra invece che, in funzione del tipo di istruzioni assegnate al soggetto, è possibile invertire la rappresentazione prevista in funzione della semplice grandezza numerica: se nell’esperimento. 1 il “3” è a “sinistra” ed il “9” è a “destra”,

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nell’esp. 2 avviene l’esatto contrario. La rappresentazione orizzontale sinistra-destra è comunque di tipo più immediato: infatti, i tempi di reazione nell’esperimento 1 sono in assoluto i più veloci; ed inoltre la necessità di una ricodifica secondo altre rappresentazioni (esp. 2 e esp. 3) fa sì che l’effetto Simon possa essere osservato solo sui tempi di reazione più lunghi. È importante notare che gli esperimenti dimostrano la possibilità di osservare un effetto Simon anche qualora gli stimoli siano presentati privi di attributi locazionali.

Riferimenti bibliograficiDehaene, S. (1992). Varieties of numerical abilities. Cognition, 44, 1-42.Dehaene, S., Bossini, S. & Giraux, P. (1993). The mental representation of parity and

number magnitudo. Journal of experimental psychology: general, 122, 371-396.Lu, C.H. & Proctor, R.W. (1995). The influence of irrilevant location information on

performance: a review of the Simon and spatial Stroop effect. Psychonomic bulletin and review, 2, 174-207.

Umiltà, C.A. & Nicoletti, R. (1990). Spatial S-R compatibility. In R.W. Proctor & T.G. Reeve (eds.), Stimulus-response compatibility: an integrated perspective. Amsterdam: North Holland.

SENTIRSI TOCCARE LE MANI DI GOMMA: STUDIO SULLA CATTURA VISIVA DI STIMOLI TATTILI

Francesco Pavani °, Charles Spence *, Jon Driver ^°Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna*Department of Psychology, University of Oxford^Institute of Cognitive Neuroscience, University College London

IntroduzioneLa codifica della posizione di uno stimolo tattile rispetto alle coordinate dello

spazio esterno è il risultato di un’integrazione sensoriale, in quanto si basa su informazioni somatosensoriali derivate dalla modalità tattile, su informazioni propriocettive relative alla posizione della parte del corpo stimolata e, presumibilmente, su informazioni visive. In questo lavoro è stato studiato il ruolo delle informazioni visive nella localizzazione spaziale di uno stimolo tattile, creando una situazione di conflitto sensoriale tra la posizione delle mani percepita tramite la propriocezione e la posizione delle mani percepita tramite la vista. Tale conflitto è stato ottenuto impedendo ai soggetti la vista delle proprie mani e mostrando invece loro una coppia di arti artificiali.

I Esperimento: Metodo

Nel primo esperimento è stato chiesto ad un gruppo di 10 soggetti di afferrare fra il pollice e l’indice di ciascuna mano una coppia di stimolatori tattili, al di sotto di un pannello orizzontale opaco che impediva la visione delle braccia. In corrispondenza di ciascuna mano, 15 cm al di sopra del pannello, era posta una coppia di LED orientati

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verticalmente. In ogni prova dell’esperimento i soggetti ricevevano una vibrazione da uno dei quattro stimolatori tattili, ed uno stimolo luminoso da uno dei quattro LED. Il compito dei soggetti era quello di discriminare il più velocemente possibile la posizione della stimolazione tattile (alto, in corrispondenza dell’indice; basso, in corrispondenza del pollice) ignorando l’informazione visiva (LED in alto o LED in basso). Spence, Pavani e Driver (1998) hanno recentemente dimostrato che questo compito di discriminazione tattile subisce l’interferenza dello stimolo luminoso quando quest’ultimo è incongruente rispetto alla codifica alto/basso, ed in particolare che l’interferenza è maggiore quanto più lo stimolo visivo incongruente è vicino alle dita della mano stimolata. In metà dei blocchi sperimentali, due mani di gomma erano appoggiate sul pannello, allineate con le braccia del soggetto, le dita di gomma accanto ai distrattori visivi. Se la presenza degli arti di gomma determina una cattura visiva del senso di posizione delle mani, i soggetti dovrebbero percepire le loro mani nella posizione in cui vedono gli arti di gomma e quindi gli stimoli tattili più vicini ai distrattori visivi. Di conseguenza l’interferenza determinata dai distrattori visivi dovrebbe essere maggiore quando gli arti di gomma sono presenti rispetto a quando non lo sono.Risultati

I risultati hanno dimostrato che i distrattori visivi posti al di sopra di ciascuna mano interferivano maggiormente con il compito di discriminazione tattile quando gli arti di gomma erano presenti (TdR con distrattore incongruente – TdR con distrattore congruente = 145 ms), rispetto a quando erano assenti (TdR con distrattore incongruente – TdR con distrattore congruente = 90 ms; p<0,005 al t-test). Inoltre, i soggetti riportavano la sensazione illusoria di percepire gli stimoli tattili alle mani di gomma, come dimostrato dalle risposte ad un questionario somministrato al termine dell’esperimento.

II Esperimento: Metodo

Il legame fra l’effetto di interferenza e il fenomeno della cattura visiva è stato confermato in un secondo esperimento su 10 soggetti, in cui gli arti di gomma, quando presenti, erano posti sul pannello in posizione ortogonale rispetto agli arti del soggetto. In questa condizione, in cui gli arti di gomma occupano una posizione implausibile rispetto a quella degli arti reali, non dovrebbe verificarsi nessuna illusione del senso di posizione e quindi nessuna modulazione dell’interferenza esercitata dei distrattori visivi.Risultati

I risultati hanno dimostrato che in questo secondo esperimento l’esperienza soggettiva dell’illusione scompariva e non si osservava più alcuna modulazione dell’effetto di interferenza in relazione alla presenza degli arti di gomma (interferenza media quando gli arti erano presenti = 85 ms; interferenza media quando gli arti erano assenti = 82 ms; n.s. al t-test).

ConclusioniIn conclusione, questo studio documenta, attraverso la misura oggettiva della

modulazione dell’interferenza, un effetto di cattura visiva di uno stimolo tattile. Questi risultati dimostrano il ruolo cruciale dell’informazione visiva (quando presente) nello stabilire la posizione spaziale di una stimolazione somatosensoriale. L’illusione descritta sembra riflettere un fenomeno percettivo piuttosto che un fenomeno di suggestione, poiché

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i soggetti erano costantemente consapevoli del fatto che gli arti di gomma non appartenevano al loro corpo.

Riferimenti bibliograficiSpence, C., Pavani, F., & Driver, J. (1998) What crossing the hands can reveal about

visuotactile links in spatial attention. Abstract of the Psychonomic Society, Psychonomic Society, 3, 13.

RAPPORTI TRA RESTORATIVENESS DEI LUOGHI E PREFERENZA ESPRESSA

Terry Purcell*, Erminielda Peron**, Rita Berto***    Department of Architectural and Design Science, Sydney University, Australia**Dipartimento di Psicologia Generale, Università degli Studi di Padova, Italia

IntroduzioneLa psicologia ambientale è quel settore della psicologia che si “interessa ai rapporti

tra processi psicologici e processi dell’ambiente sociofisico” (Bonnes e Secchiaroli, 1992, p.94). Il settore della psicologia ambientale al quale si fa riferimento in questo lavoro è quello della preferenza ambientale. Sono stati considerati due modelli di preferenza ambientale : il “modello di preferenza ambientale” di Kaplan .e Kaplan (1989) e il “modello della discrepanza” di Purcell (1986). Secondo Kaplan e Kaplan (1989) la preferenza ambientale è determinata dalle caratteristiche fisiche dell’ambiente. Purcell (1986) invece nel “modello della discrepanza” collega la preferenza ambientale alla cognizione ambientale. Da recenti studi è emerso che la preferenza ambientale è determinata soprattutto dal tipo di scena valutata (Purcell, Lamb, Peron e Falchero, 1994). Questo risultato però non è spiegabile né in base al modello di Kaplan e Kaplan (1989), troppo legato alle caratteristiche fisiche dell’ambiente, né in base al modello di Purcell (1986), legato soprattutto ai processi cognitivi del soggetto. Visti quindi i limiti dei due modelli si ipotizza che la preferenza per tipi di ambienti diversi possa essere spiegata da un altro fattore, non considerato dai due modelli, e cioè dalla restorativeness dei luoghi. Il concetto di restorativeness è collegato al concetto di stress ambientale. Un restorative place cioè un luogo rigenerativo, consente ad una persona di distrarsi, di rilassarsi, favorisce gli stati emotivi positivi e consente uno stacco dalla routine quotidiana. Sono state considerate due teorie sui luoghi rigenerativi : “la teoria del recupero dallo stress” (Ulrich, 1981) e “la teoria dell’attenzione rigenerata” (Kaplan S., 1995). Per entrambe le teorie i luoghi naturali sono più rigenerativi di quelli costruiti.

MetodoPer verificare se la restorativeness dei luoghi può effettivamente spiegare perché la

preferenza ambientale varia in relazione a tipi di ambienti diversi e quindi se esiste una relazione tra preferenza ambientale e restorativeness, relazione finora mai considerata in letteratura, è stato condotto un esperimento che consiste nel valutare la restorativeness e la

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preferenza per cinque tipi di luoghi diversi usando la Perceived Restorativeness Scale. La scala si basa sulla “teoria dell’attenzione rigenerata” (Kaplan S., 1995) e consente di rilevare il grado di restorativeness di un luogo misurando la percezione individuale di cinque fattori rigenerativi: being-away, fascination, coherence, scope e compatibility (Korpela e Hartig, 1996). Oltre alle informazioni sul grado di restorativeness di un luogo, la scala consente di valutare anche la familiarità e la preferenza per lo stesso. Sono state utilizzate dieci diapositive rappresentanti a due a due, cinque tipi di ambienti diversi che variano da costruito a naturale e che coprono l’intera gamma della preferenza ambientale, come già dimostrato nel lavoro di Purcell et al. (1994) : zona industriale, case, strade di città, colline, laghi. Queste diapositive sono state randomizzate in modo da ottenere cinque coppie costituite da diapositive appartenenti a due diverse categorie ambientali. Cinque gruppi di 20 studenti universitari (10 maschi e 10 femmine) hanno valutato una coppia di diapositive ciascuno. Ogni soggetto ha valutato la restorativeness e la preferenza per i due luoghi rappresentati dalle diapositive rispondendo a due Perceived Restorativeness Scale, una per diapositiva.

RisultatiDai risultati emerge che la preferenza ambientale è determinata dal tipo di scena

valutata. I punteggi di preferenza dimostrano che i soggetti preferiscono i luoghi naturali cioè le colline e i laghi, rispetto a quelli costruiti cioè la zona industriale, le strade di città e le case. Inoltre i luoghi preferiti sono stati valutati come più rigenerativi rispetto a quelli non preferiti. Infatti i luoghi naturali oltre ad ottenere alti livelli di preferenza presentano anche alti livelli dei fattori rigenerativi being-away, fascination, scope e compatibility. Il fattore coherence invece non si è rivelato un fattore che caratterizza esclusivamente le esperienze nei luoghi naturali. La preferenza ambientale e la restorativeness presentano il medesimo andamento all’interno delle cinque categorie : alti livelli di preferenza sono accompagnati ad alti livelli di restorativeness e viceversa.

ConclusioneSe la preferenza per tipi di ambienti diversi non è spiegabile né in base al “modello

di preferenza ambientale” di Kaplan e Kaplan (1989), né in base al “modello della discrepanza” di Purcell (1986), concludendo possiamo dire che i nostri dati suggeriscono che la restorativeness invece, potrebbe spiegare perché la preferenza ambientale varia in relazione a tipi di ambienti diversi. La preferenza espressa per un luogo sembra dipendere infatti dal suo grado di restorativeness; gli ambienti valutati come più rigenerativi (colline e laghi) sarebbero preferiti rispetto a quelli valutati come poco rigenerativi (zona industriale, strade di città, case), tuttavia sono necessarie ulteriori ricerche che considerino altre categorie ambientali.

Riferimenti bibliograficiBonnes M. e Secchiaroli G. (1992). Psicologia ambientale. Introduzione alla psicologia

sociale dell’ambiente. La Nuova Italia Scientifica, Roma.Kaplan S. e Kaplan R (1989). The experience of nature: a psychological perspective.

Cambridge, Cambridge University Press.Kaplan S. (1995). The restorative benefits of nature: Toward an integrative framework.

Journal of Environmental Psychology, 15, 169-182.

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Korpela K. e Hartig T. (1996). Restorative qualities of favourite places. Journal of Environmental Psychology, 16, 221-233.

Purcell A. T. (1986). Environmental perception and affect. A schema discrepancy model. Environment and Behavior, 18(1), 3-30.

Purcell A. T., Lamb R. J., Peron E. e Falchero S. (1994). Preference or preferences for landscape? Journal of Environmental Psychology, 14, 195-209.

Ulrich R. S. (1981). Natural versus urban scenes. Some psychological effects. Environment and Behavior, 13(5), 523-556.

PREVEDIBILITÀ E CONTROLLO DEL CAMBIAMENTO DI COMPITO

Franca Stablum1, Sergio Morra2

1 Università di Padova2 Università di Genova

La possibilità di predisporsi mentalmente all’esecuzione di un compito e la necessità di cambiare predisposizione (mental set) al momento del cambiamento di compito (task shift) sono da lungo tempo documentate (Jersild, 1927) ma la loro spiegazione è tuttora controversa. Morra e Roncato (1988a) proposero l’esistenza di processi di controllo, consistenti nell’attivare programmi per l’esecuzione del compito che inizia e disattivare quelli relativi al compito già concluso. Allport, Styles e Hsieh (1994) proposero invece una spiegazione in termini di interferenza proattiva del primo compito sul secondo. Rogers e Monsell (1995) sostennero l’esistenza di processi di controllo relativi all’avvio del compito nuovo.

I risultati di diverse ricerche (Morra e Roncato, 1988b; Rogers e Monsell, 1995; Stablum, Leonardi, Mazzoldi, Umiltà e Morra, 1994) depongono a favore della capacità dei soggetti di controllare il cambio di predisposizione; Rogers e Monsell (1995) la chiamano “componente endogena” del task shift. I nostri precedenti esperimenti, peraltro, suggeriscono che ciò accada solo in condizioni di elevata prevedibilità del cambiamento. Tuttavia, anche nelle condizioni più favorevoli, rimane regolarmente un costo dello shift di poche decine di millisecondi (Meiran, 1996; Morra e Roncato, 1988b; Rogers e Monsell, 1995; Stablum e al., 1994); tale componente “esogena” potrebbe essere compatibile con l’esistenza di interferenza proattiva, o di operazioni di inibizione controllata del programma irrilevante. I due esperimenti qui riferiti intendono contribuire al confronto di tali spiegazioni ed esplorare il ruolo della memoria di lavoro nei processi di controllo del task shift.

MetodoIn ognuno dei due esperimenti si utilizzano due compiti: discriminazione di numeri

(pari/dispari) e discriminazione di lettere (vocale/consonante). Nel primo esperimento la risposta è vocale ai numeri e manuale alle lettere; nel secondo esperimento viceversa. A parte questo, i due esperimenti sono identici, con 8 soggetti (studenti universitari) ciascuno.

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Vi sono quattro livelli del fattore “lunghezza delle serie”, per cui si alternano regolarmente sequenze di 2, 4, 7, o 10 numeri ad altrettante lettere, e due livelli del fattore “cue”, per cui, nella condizione di cue presente, un suono preavvisa i soggetti del cambiamento di compito.

Si analizzano i tempi di risposta al primo e al secondo stimolo di ciascuna serie, in funzione del compito, della lunghezza delle serie, e della presenza/assenza del cue. Il costo dello shift è dato dalla differenza fra i tempi di risposta al primo e il secondo stimolo della serie.

Risultati e discussioneIn entrambi gli esperimenti, il costo dello shift dipende dalla lunghezza della serie

(p<.001 in entrambi i casi), dalla presenza del cue (p<.01 nel primo e p<.001 nel secondo esperimento), e dalla loro interazione (p<.001 in entrambi gli esperimenti). In media, fra i due esperimenti, in presenza del cue il costo dello shift è di 29, 38, 37, 34 msec rispettivamente con serie di 2, 4, 7, 10 item; in assenza del cue, il costo dello shift è rispettivamente di 50, 42, 154, 176 msec.

In altri termini, in presenza di cue il costo dello shift è esiguo (ma significativo) e non dipende dalla lunghezza della serie. In assenza di cue il costo è più elevato, ma lo è in particolare con lunghe sequenze di stimoli, che impediscono al soggetto di tenere a mente (oltre alle informazioni necessarie per lo svolgimento del compito) anche la posizione attuale nella serie, e quindi prepararsi, dopo l’ultimo stimolo della serie, al cambiamento di compito. Quando, cioè, si eccede la capacità della memoria di lavoro, la componente “endogena” dei processi di controllo non è in grado di operare.

Sebbene in ciascun esperimento il TR sia maggiore per il compito a risposta vocale, complessivamente risulta più difficile la discriminazione di numeri. È con questo compito che si ha anche il costo maggiore (84 vs 57 msec, p<.01, unendo insieme i due esperimenti); inoltre, il costo dello shift è influenzato dalle interazioni compito x cue (p<.03) e compito x lunghezza della serie x cue (p<.02), nel senso che il compito più difficile (numeri) accentua ulteriormente gli effetti di cue e lunghezza della serie. Ciò conferma i risultati di Morra e Roncato (1988b) riguardo l’effetto della difficoltà dei compiti, e contrasta coi risultati di Allport e al. (1994), che tale effetto non avevano trovato.

Neppure in presenza di cue, però, i processi endogeni di controllo eliminano totalmente il costo dello shift. Se fosse vera l’ipotesi dell’interferenza proattiva, ci si dovrebbe attendere che questa fosse maggiore dopo una serie lunga che dopo una breve; invece, in presenza di cue, il costo dello shift non cresce con la lunghezza della serie. Pertanto, la componente residua del costo (quella non spiegata da processi endogeni di attivazione del programma relativo al compito da iniziare) sembra difficilmente spiegabile in termini di semplice interferenza. Ricerche future possono esplorare l’eventualità di processi di controllo per l’inibizione attiva del programma irrilevante.

*Gli autori ringraziano Agnese Figus e Michela Perini per la raccolta dei dati, e Paola Calza per la collaborazione a un esperimento preliminare.

Riferimenti bibliografici

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Allport A.D., Styles E., Hsieh S. (1994). Shifting intentional set: Exploring the dynamic control of tasks. In: Umiltà C., Moscovitch M. (eds.), Attention and performance, XV, Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Jersild A.T. (1927). Mental set and shift. Archives of psychology, intero n. 89.Meiran N. (1996). Reconfiguration of processing mode prior to task performance. Journal

of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition, 22, 1-20.Morra S., Roncato S. (1988a). Latenza della risposta in funzione del contenuto e dell’ordine

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Morra S., Roncato S. (1988b). L’effetto del cambiamento di compito con sequenze di lunghezza fissa. Abstracts del VII Congresso SIPs Ricerca di Base (Palermo), pp.211-213.

Rogers R.D., Monsell S. (1995). Costs of a predicatable switch between simple cognitive tasks. Journal of Experimental Psychology: General, 124, 207-231.

Stablum F., Leonardi G., Mazzoldi M., Umiltà C., Morra S. (1994). Attention and control deficits following closed head injury. Cortex, 30, 603-618.

DOMINANZA VISIVA: UNA NUOVA PROSPETTIVA

Massimo Turatto, Giovanni Galfano, Francesco BensoDipartimento di Psicologia dello SviluppoDipartimento di Psicologia Generale Università di Padova

IntroduzioneIl presente studio si propone di indagare i meccanismi attentivi legati al

processamento di stimoli visivi ed uditivi. Dalle prime ricerche su questo argomento (es. Gibson, 1943; Posner, Nissen e Klein, 1976) nacque il concetto di dominanza visiva (DV), per descrivere il fatto che la prestazione dei soggetti in vari paradigmi sperimentali appariva essere controllata dalla modalità visiva. Studi successivi basati sul paradigma di facilitazione intersensoriale (es., Posner et al., 1976) riscontrarono un bias nella distribuzione delle risorse attentive verso la modalità visiva rispetto a quella uditiva, dato che fu interpretato come ulteriore indice di DV. Secondo Posner et al. (1976), la DV era dovuta al fatto che il sistema visivo, rispetto a quello uditivo e propriocettivo, sarebbe meno legato a meccanismi di allerta importanti per la sopravvivenza. Per compensare tale “deficit” del sistema visivo, gli esseri umani svilupperebbero un bias attentivo inconsapevole verso la visione. I risultati emersi da questo e da altri studi risultano, tuttavia, essere viziati da una serie di problemi metodologici che sono stati ben evidenziati da Spence e Driver (1997), il più importante dei quali è il cosiddetto artefatto spaziale, legato alla scelta di sorgenti di stimolazione aventi posizioni differenti nello spazio. Scopo di questa ricerca è investigare i meccanismi attentivi coinvolti nella selezione di stimoli provenienti da canali sensoriali diversi evitando gli artefatti metodologici delineati da Spence e Driver (1997).

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Esperimento 1Con questo esperimento eravamo interessati ad indagare la possibilità che la

detezione di uno stimolo bersaglio S2 potesse essere influenzata dalla modalità di un segnale di warning S1, anche quando la modalità di questo non fosse predittiva della modalità del bersaglio.Metodo

Hanno preso parte all’esperimento 25 studenti universitari, i quali erano informati del fatto che la modalità del segnale S1 non era informativa rispetto alla modalità dello stimolo bersaglio S2. I soggetti sedevano di fronte ad un tavolo su cui si trovava un dispositivo costituito da una scatola in plastica su cui erano assemblati coassialmente uno speaker ed un LED (le due sorgenti di stimolazione avevano la stessa posizione nello spazio). Per la modalità visiva, S1 era rappresentato dall’accensione del LED in una colorazione rossa, mentre S2 era costituito dall’accensione in colorazione verde. Per la modalità acustica, S1 era un tono a 900 Hz, mentre S2 era un tono a 1800 Hz. Compito dei soggetti era premere un tasto il più rapidamente possibile non appena veniva presentato lo stimolo bersaglio, a prescindere dalla sua modalità (TR semplice). Nel 50% dei casi le prove erano ipsimodali e nel restante 50% crossmodali. Erano inoltre presenti dei catch trials. I SOA (stimulus onset asynchrony) utilizzati per indagare il decorso temporale del fenomeno erano di 150, 600 e 1000 ms. Ad ogni prova, la relazione tra S1 e S2 cambiava casualmente. Risultati e discussione

Abbiamo utilizzato le seguenti convenzioni: VV (S1 visivo-S2 visivo), VA (S1 visivo-S2 acustico), AA (S1 acustico-S2 acustico) e AV (S1 acustico-S2 visivo). I TR sono stati analizzati per mezzo di un’ANOVA a misure ripetute in cui i fattori considerati erano la modalità di S1 (visiva o acustica), la modalità di S2 (visiva o acustica) ed il SOA (150, 600 oppure 1000). Di seguito riportiamo soltanto gli effetti principali e le interazioni che hanno raggiunto la significatività. Il fattore modalità di S2 è risultato significativo [F(1,24) = 26.946, p < .001]: i soggetti si sono dimostrati più rapidi nel rilevare il bersaglio uditivo [M = 411 ms, SD = 92] rispetto al visivo [M = 444 ms, SD = 87]. Anche il fattore SOA è risultato significativo [F(2,48) = 54.827, p < .001]. L’interazione modalità di S1 x modalità di S2 è risultata significativa [F(1,24) = 13.680, p < .005; VV, M = 437 ms, SD = 85; AV, M = 451 ms, SD = 90; AA, M = 395 ms, SD = 83; VA, M = 427 ms, SD = 98]: i soggetti hanno risposto più rapidamente nelle prove ipsimodali [M = 416 ms, SD = 81] rispetto alle prove crossmodali [M = 439 ms, SD = 88]. Anche l’interazione triplice ha raggiunto la significatività statistica [F(2,48) = 60.402, p < .001], mostrando che i TR per le prove ipsimodali erano più veloci rispetto alle crossmodali soltanto al SOA più breve (150 ms). Ai dati sono state applicate delle analisi post-hoc (t-tests). Al SOA più breve, i TR nella condizione VV erano più rapidi rispetto alla condizione AV [differenza: 74 ms, p < .01]; allo stesso modo, i TR nella condizione AA sono risultati più veloci rispetto alla condizione VA [differenza: 101 ms, p < .01]. Al SOA intermedio, i TR delle condizioni VV ed AV non sono risultati significativamente diversi, così come nelle condizioni AA e VA. Al SOA più lungo, i soggetti erano invece più rapidi nella condizione AV rispetto alla condizione VV [differenza 27 ms, p < .01] e più rapidi anche nella condizione VA rispetto alla condizione AA [differenza 21 ms, p < .05]. La nostra ipotesi era che la presentazione di uno stimolo S1, sia esso visivo che uditivo, avrebbe determinato uno spostamento dell’attenzione sulla modalità corrispondente, determinando TR più rapidi nella detezione di un successivo

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bersaglio S2 ipsimodale: ciò si è verificato al SOA di 150 ms. La scomparsa di questo effetto al SOA intermedio (600 ms) può essere legata alla non informatività del segnale di allerta S1. Il pattern riscontrato all’intervallo più lungo (1000 ms) è invece interpretabile, a nostro avviso, come la prima dimostrazione del fenomeno dell’inibizione di ritorno tra modalità sensoriali. Per concludere, i dati di questo esperimento non forniscono alcuna evidenza per la DV, almeno nei termini ipotizzati da Posner et al. (1976).

Esperimento 2Scopo di questo secondo esperimento era indagare ulteriormente il grado di

automaticità del meccanismo esogeno responsabile dello spostamento dell’attenzione tra le modalità per trovare eventuali indicazioni di DV non emerse nel primo esperimento. Abbiamo utilizzato lo stesso paradigma sperimentale, con un’unica eccezione: i soggetti (24 nuovi osservatori) erano informati che, all’interno di un determinato blocco di prove, la modalità dello stimolo bersaglio rimaneva sempre la stessa. In base a questa procedura, i soggetti potevano focalizzare l’attenzione sulla modalità del bersaglio in anticipo, ignorando, se possibile, la modalità del segnale di allerta S1. Come nell’esperimento precedente, il 50% delle prove erano ipsimodali e il 50% crossmodali. Erano presenti anche dei catch trials. L’ordine di presentazione dei blocchi era bilanciato tra i soggetti.Risultati e discussione

I TR sono stati analizzati tramite un’ANOVA per misure ripetute con gli stessi fattori del primo esperimento. Riportiamo di seguito solo il dato più rilevante: la triplice interazione ha raggiunto la significatività [F(2,46) = 16.120, p < .001], mostrando come l’effetto della modalità di S1 sulla modalità del bersaglio variasse in funzione del SOA. Ai dati sono state quindi applicate delle analisi post-hoc (t-test). Al SOA più breve, i TR nella condizione VV non sono risultati significativamente diversi da quelli per la condizione AV. Invece, la condizione AA ha mostrato TR più rapidi rispetto alla condizione VA [differenza: 101 ms, p < .01]. Al SOA intermedio ed a quello più lungo non è emersa alcuna differenza tra VV e VA, e tra AA ed AV. I risultati hanno mostrato una forte asimmetria tra le due modalità nel catturare l’attenzione. Infatti, sembrano suggerire che quando l’attenzione è completamente rivolta alla modalità visiva, uno stimolo acustico non riesce a catturarla, mentre quando l’attenzione è concentrata sulla modalità acustica, la comparsa improvvisa di uno stimolo visivo è in grado di produrre tale cattura involontaria. Tale asimmetria sembra poter essere interpretata come prova a favore dell’esistenza del fenomeno della DV, la quale, contrariamente da quanto ipotizzato da Posner et al. (1976), non sarebbe dovuta al fatto che l’attenzione è spostata verso la modalità visiva per ovviare ad uno scompenso nella capacità allertante del segnale. Al contrario, i nostri dati suggeriscono che la DV può essere vista come un accesso privilegiato dei segnali visivi al sistema attentivo in grado di causare un processamento obbligatorio ogniqualvolta questi vengano percepiti.

Riferimenti bibliograficiGibson, J. J. (1943). Adaptation, after-effect and contrast in the perception of curved lines.

Journal of Experimental Psychology, 16, 1-31.Posner, M. I., Nissen, M. J. e Klein, R. M. (1976). Visual dominance: An information-

processing account of its origins and significance. Psychological Review, 83, 157-171.

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Spence, C. e Driver, J. (1997). On measuring selective attention to an expected sensory modality. Perception & Psychophysics, 59, 384-403.

ESEMPIO DI UTILIZZO STRATEGIE DI ORIENTAMENTO DELL’ATTENZIONE BASATE

SULL’OGGETTO PIÙ EFFICACI DELL’ORIENTAMENTO BASATO SULLE COORDINATE

SPAZIALI

Alec Vestri*, Tiziana Metitieri^, Valentina Angeli^*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova^Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

IntroduzioneGli studi sull’orientamento dell’attenzione visiva spaziale (OA) hanno mostrato

che è possibile utilizzare due tipi di strategie attentive. Una strategia è basata sulla rilevanza degli oggetti presenti nel campo visivo: le configurazioni visive che formano dei percetti dovrebbero, in quanto tali, facilitare la selezione delle informazioni rilevanti (Duncan, 1984; Baylis & Driver, 1993) . L’altra strategia è basata sulle coordinate spaziali: la selezione dell’informazione avverrebbe in base alla rilevanza di determinate localizzazioni nella mappa del campo visivo (Posner, 1980). I lavori sperimentali effettuati in questo ambito partono dall’assunto che una delle due strategie, piuttosto che l’altra, sia più efficace. Da un punto di vista teoretico, è interessante notare che gli autori hanno raramente valutato una strategia rispetto all’altra in condizioni che permettessero un confronto sull’efficacia di entrambe. Solo negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni lavori che hanno dimostrato la possibilità della coesistenza dei due tipi di OA (Egly et al., 1994; Heslenfeld et al., 1997; Buck et al., 1998).

Scopo di questo lavoro è confrontare le due strategie di OA in condizioni dove possano essere valutate entrambe e dove sia possibile misurare l’efficacia di una rispetto all’altra.

IpotesiDiversamente da altri autori, non riteniamo che, a priori, una strategia di OA debba

essere più efficace rispetto all’altra, ma che entrambe abbiano un ruolo funzionale che si manifesta a seconda delle richieste del compito. Le richieste possono essere sia esplicite (istruzioni) che implicite (tipo di stimoli, difficoltà del compito). Pur manipolando le istruzioni, quindi, è ipotizzabile che la forte rilevanza informativa di oggetti semplici presenti nel campo visivo condizioni le prestazione in favore di OA basato sull’oggetto anche in un compito dove sarebbe teoricamente possibile utilizzare OA basato solamente sulle coordinate spaziali.

Metodologia

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Sono stati condotti 4 esperimenti su un totale di 38 soggetti volontari (tra i 21 e 29 anni, 29 donne, tutti con vista normale o corretta). Per ogni esperimento la procedura è quasi identica e venivano utilizzati soggetti diversi: su un monitor Nec MultiSync 4Fge, mediante un PC 486 ed il software MEL, venivano disegnati due oggetti di forme (vedi figura 1) e colori diversi (blu e grigio). Gli oggetti misuravano 6x1.5 gradi di angolo visivo (g.a.v.) e distavano l’uno dall’altro di 5 g.a.v. In mezzo ad essi vi era una crocetta bianca che fungeva da punto di fissazione. La procedura prevedeva che per alcune centinaia di msec (variabili) il soggetto aspettasse la comparsa di un cerchietto verde (indizio) che poteva apparire in uno dei quattro vertici all’interno degli oggetti; l’indizio permaneva per circa 110 msec e quindi spariva; dopo un intervallo variabile (210, 360, 510 msec) appariva lo stimolo imperativo (SI: un cerchietto identico al precedente, ma di colore rosso). Sul totale di 320 prove per soggetto, nella metà, fra indizio e stimolo imperativo, avveniva uno scambio di posizione dei due oggetti (quello a destra appariva a sinistra e viceversa). Compito principale del soggetto era rispondere premendo la barra spaziatrice della tastiera del computer non appena vedeva apparire lo SI. I primi tre esperimenti erano divisi in due blocchi di prove: i soggetti venivano istruiti a tener conto del fatto che l’indizio suggeriva l’oggetto (in un blocco) o la posizione spaziale (nell’altro blocco) dove successivamente sarebbe apparso lo SI. Lo SI poteva apparire secondo 4 possibilità in base all’indizio: a) stesso oggetto e stessa posizione, b) stesso oggetto e diversa posizione (l’altro vertice), c) oggetto diverso e stessa posizione (scambio degli oggetti), d) diverso oggetto e diversa posizione. La reale probabilità che lo SI apparisse in maniera compatibile alle istruzioni era del 70%; nel restante 30% lo SI appariva in una delle posizioni incompatibili rispetto alle istruzioni. Nell’ultimo esperimento non venivano date istruzioni sulle strategie: i due blocchi erano identici e le probabilità di apparire un una delle posizioni era identica.

Il secondo esperimento è stato condotto per bilanciare il fenomeno di flickering che teoricamente poteva disturbare in maniera sistematica le prove in cui avveniva lo scambio di posizione degli oggetti; il terzo era diviso in due parti per separare i due aspetti visivi di colore e forma; il quarto era senza istruzioni specifiche.

RisultatiI risultati del secondo esperimento confermano tutti quelli del primo (l’interferenza

visiva del flickering dunque non disturbava le strategie attentive): fra i dati rilevanti, sono significativi l’effetto di compatibilità (p.<.01) e l’interazione istruzioni per compatibilità (p<.01; vedi grafico 1). In particolare si nota che la differenza tra compatibili e incompatibili con istruzioni date per l’oggetto è significativa (post-hoc con t-student: p<.001) mentre non lo è per le istruzioni date per lo spazio (c’è una tendenza inversa rispetto all’attesa: le valide sono più lente delle invalide). L’esperimento 3 non ha messo in luce differenze significative interessanti (solo una leggera tendenza in direzione della maggiore pregnanza del colore). L’esperimento 4 ha confermato alcune analisi separate degli esperimenti precedenti che tenevano conto solo delle strategie possibili a prescindere delle istruzioni: l’effetto di validità permane a favore delle strategie per l’oggetto (p<.001) e mai per lo spazio (viene un effetto contrario – p<.01- spiegabile in base alle strategie per l’oggetto).

Conclusioni

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I dati dei nostri esperimenti sono a favore della predominanza della strategia di OA basata sull’oggetto in un compito di confronto rispetto alla strategia di OA basata sulle coordinate spaziali. Gli esperimenti dimostrano inoltre che ciò avviene in maniera automatica e non volontaria.

Figura 1. Stimoli utilizzati con esempio di indizio

Grafico 1.Dati relativi all’esp. 2: Istruzioni x compatibilità

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Istruzioni perOA – Oggetto

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Compatibile

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Riferimenti bibliograficiBaylis G.C., & Driver J. (1993). Visual Attention and Objects: Evidence for Hierarchical

Coding of Location. Journal of Experimental Psychology: H.P.P., 19 (3): 451-470.Buck-BH; Black-SE; Behrmann-M; Caldwell-C; Bronskill-MJ (1998). Spatial- and object-

based attentional deficits in Alzheimer’s disease. Relationship to HMPAO-SPECT measures of parietal perfusion. Brain, 120 (Pt 7): 1229-44.

Duncan J. (1984). Selective Attention and the Organization of Visual Information. Journal of Experimental Psychology: G., 113 (4): 501-517.

Egly R., Driver J., Rafal R.D. (1994). Shifting visual attention between objects and locations: Evidence from normal and parietal lesion subjects. Journal of Exp. Psych.: G., 123 (2): 161-177.

Heslenfeld D.J., Henemans J.L., Kok A., Molenaar P.C.M. (1997). Feature Processing and Attention in the Human Visual System: an Overview. Biological Psychology, 45: 183-215.

Posner M.I (1980). Orienting of Attention. Quarterly Journal of Experimental Psychology, 32: 3-25.

PLASTICITÀ COGNITIVA CROSSMODALE ED EFFETTO SIMON

Marco Zorzi, Mariaelena Tagliabue, Carlo Umiltà Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Introduzione L’effetto Simon è quell’effetto per cui risposte lateralizzate a stimoli lateralizzati

sono più veloci quando le posizioni dello stimolo e della risposta sono uguali (rispetto a quando non corrispondono) anche se la risposta deve essere selezionata sulla base di caratteristiche non spaziali dello stimolo (colore, forma ecc.). I modelli attualmente più accreditati a rendere conto di questo fenomeno sono i modelli a due vie (De Jong, Liang e Lauber, 1994 e Kornblum, Hasbroucq e Osman 1990) che prevedono l’esistenza di una via automatica di codifica della posizione che si attiva sempre alla comparsa di uno stimolo. Contemporaneamente si attiva anche una via controllata, più lenta, che determina le associazioni arbitrarie tra caratteristiche non spaziali dello stimolo e posizione della risposta in base alle istruzioni. La via automatica crea una preattivazione sulle unità di selezione della risposta e quindi la selezione della risposta spazialmente corrispondente è più veloce, mentre viene rallentata la selezione della risposta non corrispondente.

Alcuni studi hanno cercato di verificare se esistono compiti di addestramento che possono alterare le prestazioni al compito Simon (Proctor e Lu, 1999). In un recente lavoro (Tagliabue, Zorzi, Umiltà e Bassignani, in stampa) è stato dimostrato che se il compito Simon è preceduto da un compito compatibile i TR hanno l’andamento del classico effetto Simon, mentre se il compito Simon viene svolto dopo un compito incompatibile, l’effetto Simon si inverte. Tale inversione viene registrata quando i due compiti vengono svolti ad

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una settimana di distanza, mentre si ha solo una riduzione dell’effetto Simon quando il compito incompatibile precede il compito Simon solo di 5 minuti o di 24 ore. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che le associazioni arbitrarie che si creano durante il compito incompatibile e che si mantengono nel successivo compito Simon (modificando l’azione della via automatica) sono associazioni di tipo ippocampale che si consolidano nel tempo. In questo caso le conseguenze dell’addestramento incompatibile sull’effetto Simon dovrebbero trasferirsi da una modalità all’altra.

Metodo Sono stati realizzati tre esperimenti. In ogni esperimento i soggetti venivano

sottoposti a due condizioni sperimentali: una di addestramento nella compatibilità spaziale in modalità acustica e una successiva condizione Simon in modalità visiva. Nel primo esperimento le due condizioni erano separate da una breve pausa (5 min. circa); nel secondo il compito Simon veniva svolto 24 ore dopo la compatibilità spaziale; nel terzo esperimento le due condizioni erano separate da 7 giorni.    In ogni esperimento 8 soggetti svolgevano il compito compatibile come addestramento, mentre altri 8 soggetti svolgevano il compito incompatibile. Nel compito compatibile i soggetti dovevano premere un tasto a destra quando sentivano un suono all’orecchio destro e un tasto a sinistra quando il suono arrivava all’orecchio sinistro. Nel compito incompatibile i soggetti sentivano sempre il suono all’orecchio destro o sinistro, ma dovevano premere il tasto di sinistra nel primo caso e quello di destra nel secondo. Nel compito Simon ai soggetti veniva presentato un quadrato a destra o a sinistra di un punto centrale di fissazione; il quadrato poteva essere rosso o verde, e i soggetti dovevano rispondere col tasto di destra ad un colore e col tasto di sinistra all’altro colore.

Risultati I risultati mostrano che, anche quando l’addestramento incompatibile viene svolto

in modalità acustica e la condizione Simon in quella visiva, a distanza di una settimana di tempo, il compito incompatibile produce una netta inversione dell’effetto Simon, mentre alle altre due distanze temporali l’effetto Simon subisce una semplice riduzione.

Conclusioni L’influenza della posizione dello stimolo sulla velocità delle risposte selezionate

sulla base di caratteristiche non spaziali dello stimolo stesso, è un fenomeno sempre presente. Malgrado la stabilità di questo fenomeno alcune condizioni sperimentali possono alterare le dinamiche temporali di interazione tra le due vie di elaborazione chiamate in causa (una automatica e una controllata), in modo da invertire o annullare l’effetto Simon. Ciò avviene quando i soggetti svolgono, prima del Simon, un compito incompatibile che li induce a creare delle associazioni tra stimolo a sinistra e risposta a destra e viceversa. L’azione di queste ultime sulle associazioni automatiche preesistenti continua ad essere presente anche nella successiva condizione Simon. Tali associazioni sono di tipo crossmodale, come dimostrano gli esperimenti descritti. Le dinamiche temporali di interazione tra vie automatiche (perciò relativamente rigide) e vie controllate, conferiscono al sistema cognitivo una certa plasticità, senza per questo rinunciare all’efficienza.

Riferimenti bibliografici

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COMUNICAZIONI - ERROR: REFERENCE SOURCE NOT FOUND

De Jong, R., Liang, C.C. & Lauber, E. (1994). Conditional and unconditional automaticity: A dual-process model of effects of spatial stimulus-response correspondence. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 20, 731-750.

Kornblum, S., Hasbroucq, T. & Osman, A. (1990). Dimensional overlap: Cognitive basis for stimulus-response compatibility – A model and a taxonomy. Psychological Review, 97,253-270.

Proctor, R.W. & Lu, C.H. (1999). Processing irrelevant location information: Practice and transfer effects in choice-reaction tasks. Memory and Cognition, 27, 63-77.

Tagliabue, M., Zorzi, M., Umiltà, C. & Bassignani F. (in stampa). The role of LTM links and STM links in the Simon effect. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance.

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

EVOLUZIONE PROGRESSIVA DELLE REGOLAZIONI EMOZIONALI E COMUNICATIVE IN PRE-

ADOLESCENTI IMPEGNATI IN ATTIVITÀ DI GRUPPO

Pina Boggi Cavallo, Mauro Cozzolino, Daniel Donato, Antonio IannacconeDipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Salerno

Lo studio dei gruppi in psicologia, inaugurato da K. Lewin con una serie di ricerche ormai classiche, è andato perfezionandosi negli ultimi 50 anni con l’introduzione di metodologie particolarmente raffinate. È il caso, ad esempio, delle griglie di Bales (1950), delle reti di comunicazione di Flament (1974) della prospettiva psicosociale nell’interazione in-group e out-group (Palmonari, 1995; Petter, 1998).

La presente ricerca intende esplorare il problema classico dell’organizzazione e del funzionamento di gruppi, centrandosi, in modo specifico, sulle variazioni dei processi comunicativi e delle regolazioni emozionali in relazione alla dimensione temporale della vita di gruppo. In particolare, ricorrendo a tecniche di self-report e strumenti di osservazione delle dinamiche organizzative e comunicative, la ricerca si è posta l’obiettivo di individuare i processi di costruzione di significati (ed azioni) condivisi, anche in relazione alla progressiva modifica dei vissuti emozionali dei partecipanti alle diverse sessioni interattive.

MetodologiaSono stati formati tre gruppi di adolescenti, impegnati nella realizzazione di una

messa in scena di un breve atto di teatro dialettale. Le attività dei gruppi che si sono protratte in quattro sessioni successive, sono state completamente videoregistrate e le conversazione trascritte con l’ausilio di software specifico. Per ognuna delle sessioni è stata prevista una rilevazione dei vissuti emozionali all’inizio e alla fine della stessa.

Risultati I risultati, ancora in corso di definitiva elaborazione, mostrano che le dinamiche di

realizzazione delle attività collaborative sono in relazione con le modalità di condivisione e i vissuti emozionali dei membri del gruppo, sia nello spazio a breve termine della sessione che in quello a medio termine (inizio -    fine della ricerca).

Lo studio consente di delineare un’analisi della dinamica di gruppo potenzialmente interessante e ricca di prospettive di approfondimento.

Riferimenti bibliograficiBales R.F. (1950).    Interaction Process Analysis: a Method for the Study of Small Groups,

Addison-Wesley, Cambridge (Mass.)Flament, C. (1965). Réseaux de communication et structures de groupe. Trad. it. Isedi,

Milano, 1974.Palmonari, A. (1995). Processi simbolici e dinamiche sociali, Bologna, Il Mulino.

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Petter, G. (1998), Lavorare insieme nella scuola. Aspetti    Psicologici della collaborazione fra insegnanti. Firenze, La Nuova Italia.

SETTING SPERIMENTALE E RISPOSTE EMOTIVE

Maria Teresa Cattaneo°, Elisa Frigerio°, Milena Peverelli°, Giorgio Annoni*°Istituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università di Milano*Dipartimento di Medicina Interna, Cattedra di Geriatria, Facoltà Medica, Università di Milano

Uno dei problemi più dibattuti nell’ambito della psicologia delle emozioni è quello di suscitare risposte emozionali in laboratorio: le difficoltà incontrate riguardano soprattutto la specificità degli stimoli.

È stato approntato un piano generale di ricerca di tipo metodologico con l’obiettivo di individuare una procedura adeguata a stimolare una risposta emotigena costante e specifica. Il contesto teorico fa riferimento sia al modello di Scherer (1984), che considera le risposte emozionali come insieme complessi, dinamici, costituiti da diversi componenti organizzate gerarchicamente, sia ad approcci di tipo dimensionale (Osgood, Suci e Tannenbaum, 1957).

In una prima fase, è stato selezionato, attraverso una procedura che ha cercato di ridurre al minimo l’intervento degli sperimentatori, un set di stimoli filmici, che è stato validato su un campione di 60 soggetti (Galati, Cattaneo, Cesa-Bianchi, 1996). Lo studio prevedeva la rilevazione e l’analisi solo della componente cognitiva delle emozioni: i dati in letteratura permettono di avanzare l’ipotesi che il confronto tra più indicatori, quali la componente cognitiva, la componente espressivo-motoria (espressione facciale), la componente fisiologica (f.c., p. a., e.d.a.) possa portare ad una migliore differenziazione delle risposte emotigene. In questa fase della ricerca, si è deciso di limitare il numero degli indici considerati alle componenti cognitiva ed espressivo - motoria.

Il materiale stimolo è costituito da un set di 12 scene filmiche, organizzato in tre sequenze random, che vengono presentate al soggetto in una situazione che cerca di rispettare il più possibile le condizioni in cui il fenomeno si presenta nella realtà quotidiana. Si è cercato, infatti, di coniugare l’esigenza di controllare il maggior numero di variabili con il rispetto dei criteri che garantiscono validità ecologica all’esperimento.

Per valutare la componente cognitiva è stato utilizzato un questionario che indaga se il film è già stato visto in precedenza, e tipo ed intensità dell’emozione elicitata. La componente espressiva - motoria si rileva dalla videoregistrazione delle espressioni facciali, che verranno valutate attraverso il FACS (Ekman, Friesen, 1978). L’espressione delle emozioni ha anche una funzione comunicativa che si attiva in presenza di altre persone (Rimé, 1989): si è deciso di predisporre un piano sperimentale che comprendesse quattro diverse situazioni: soggetti da soli, con o senza sperimentatore; a coppie: con e senza sperimentatore.

Questa fase della ricerca è stata condotta su 40 soggetti. Le elaborazioni confermano nuovamente la validità del set di stimoli. Ogni scena è in grado di elicitare

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

emozioni differenziate e di intensità variabile. Gli stimoli sembrano, inoltre, confermare le loro caratteristiche prototipiche; ogni sequenza possiede elementi strutturali e causali che le permettono di essere associata con grande facilità e frequenza ad una determinata esperienza emozionale (Fehr e Russel, 1984; Galati, 1993).

L’analisi della componente cognitiva delle risposte emotive evidenzia la difficoltà, già rilevata da altri ricercatori, di individuare degli stimoli puri, in grado cioè di evocare un’unica e specifica emozione. Questo è valido soprattutto per alcune emozioni, in particolare la rabbia, che viene indicata spesso in associazione al disgusto. Si ipotizza che il successivo confronto tra indici cognitivi ed espressivi migliori la capacità discriminativa degli stimoli.

I dati indicano come variabile critica la presenza dello sperimentatore che svolgerebbe una funzione inibitoria nei confronti della componente espressivo – motoria. Le situazioni in cui i soggetti assistono da soli alla proiezione sembrano, inoltre, differenziarsi dalle situazioni ‘in interazione’, che facilitano una maggiore espressività facciale.

Questi risultati, ancorché preliminari, confermano la validità della procedura utilizzata e incoraggiano un’ulteriore estensione della ricerca a soggetti anziani e con eventuali patologie.

Riferimenti bibliograficiEkman P, Friesen WV, 1978. Manual for facial action coding system. Palo Alto: Consulting

Psychologist Press.Fehr B, Russell JA, 1984. Concept of emotion viewed from a prototype perspective. J

Exper Psychol Gen, 113: 464-486.Galati D, Cattaneo MT, Cesa-Bianchi G, 1996. Elaborazione di stimoli emozionali: criteri

metodologici. Ikon, 32: 251-267.Galati D. (ed), 1993. Le emozioni primarie. Torino: Boringhieri.Osgood CE, Suci GJ, Tannenbaum PM, 1957. The measurement of meaning, Urbana:

Univeristy of Illinois Press.Rimé B, 1989. Le partage social des émotions. In: Rimé B, Scherer KR (eds), Les émotions,

Neuchatel: Delachaux et Niestlé.Scherer KR, Ekman P, 1984. Approaches to emotion. Hillsdale: Erlbaum.

L’ENTUSIASMO

Michela Checchi, Isabella PoggiUniversità di Roma Tre

L’entusiasmo è un’emozione molto bella, e forse anche molto utile, ma poco studiata, con alcune rare eccezioni (Greenson, 1984; Lyotard, 1986). In questo lavoro vogliamo presentare un’analisi dell’emozione dell’entusiasmo in termini di scopi e conoscenze, e una ricerca empirica volta a verificare alcuni punti della nostra analisi.

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Come sappiamo, ogni emozione è uno stato soggettivo complesso che comprende aspetti cognitivi, di vissuto interiore, fisiologici, espressivi e motivazionali (Battacchi, Renna e Suslow, 1995). Di un’emozione inoltre è possibile individuare le funzioni adattive, cioè gli scopi biologici a cui serve. Ogni emozione, infine, è attivata da una specifica classe di eventi (o antecedenti situazionali), che vengono categorizzati dall’individuo in base a una serie di elementi cognitivi, o ingredienti mentali (Castelfranchi e Poggi, 1992).

Come possiamo caratterizzare l’entusiasmo riguardo a questi diversi aspetti della “sindrome” emotiva?

Cominciamo dagli ingredienti mentali che devono essere presenti nella mente di una persona affinché possa provare entusiasmo. Noi proviamo entusiasmo quando abbiamo raggiunto, o stiamo ancora perseguendo, uno scopo per noi molto importante. L’entusiasmo appartiene infatti alla stessa famiglia della gioia, e anche la gioia si prova al raggiungimento di uno scopo per noi importante, uno scopo di alto coefficiente di valore. Tuttavia, l’entusiasmo è una gioia di tipo ben particolare: da un lato, certo, perché la gioia la sentiamo in genere quando lo scopo è effettivamente raggiunto, mentre l’entusiasmo si può provare anche mentre lo stiamo perseguendo; ma inoltre, probabilmente, fra gli scopi che ci provocano gioia, solo alcuni ci possono far provare entusiasmo: dobbiamo dunque individuare le specificità qualitative di questi scopi.

Secondo la nostra ipotesi, gli scopi il cui raggiungimento (o anche solo il perseguimento) ci fa provare entusiasmo sono particolarmente gli scopi del piacere estetico (possiamo entusiasmarci alla vista di un bel quadro o di un bel paesaggio, o al sentire un’esecuzione magistrale di una musica che amiamo) e gli scopi dell’autostima (ci entusiasma far bene qualcosa a cui teniamo molto); e all’interno di questi ultimi spesso ci fanno provare entusiasmo gli scopi morali (pensare di aver svolto o di stare svolgendo un’azione, magari faticosa ma socialmente utile, altruistica, importante per il bene degli altri).

Un altro elemento rilevante nell’entusiasmo sembra essere la consapevolezza che quello scopo particolarmente importante lo raggiungiamo o lo stiamo perseguendo insieme ad altri: vi è, in altre parole, una forte tendenza alla socialità nell’entusiasmo: se siamo insieme ad altri, nel godere di uno scopo raggiunto, ci entusiasmiamo molto di più.

Venendo agli aspetti fisiologici ed espressivi dell’entusiasmo, anche da questo punto di vista tale emozione condivide molte caratteristiche della gioia; ma gli aspetti espressivi dell’entusiasmo appaiono ancor più marcati: occhi che brillano, voglia di muoversi, di saltare, di abbracciare gli altri ecc..

Dal punto di vista motivazionale, cioè degli scopi attivati dall’emozione, l’entusiasmo ci dà tanta voglia di fare, o aumenta la voglia di continuare a fare ciò che stiamo facendo.

Qual è dunque la funzione adattiva dell’entusiasmo?A nostro avviso, la grande energia attivata da questa emozione serve a permetterci

di perseguire con maggiore costanza e determinazione proprio gli scopi visti sopra: scopi estetici, morali e dell’autostima. E questo si spiega a nostro avviso con l’importanza che tali scopi hanno per la sopravvivenza e il benessere dell’individuo.

Queste sono le ipotesi che avanziamo sulla natura dell’entusiasmo, a partire da un’analisi concettuale di questa emozione, così come la si deduce dal modello teorico qui adottato. Per sottoporre a verifica queste ipotesi, abbiamo somministrato, a 120 studenti

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

universitari, un questionario con domande aperte e a scelta multipla, i cui risultati saranno esposti durante l’intervento.

Riferimenti bibliograficiBattacchi W., Renna M., Suslow T. (1995): Emozioni e linguaggio. Carocci, Roma.Castelfranchi C. e Poggi I. (1992): “Gli ingredienti delle emozioni”. Comunicazione al XI

Congresso SIPS, Cagliari, 23-25 settembre 1992.Greenson R.R. (1984): Esplorazioni psicoanalitiche. Boringhieri, Torino 1984.Lyotard, J.F. (1986): L’enthousiasme. Editions Galilee, Paris.

STUDIO STORICO SUL COMPORTAMENTO DI INCLINAZIONE LATERALE DELLA TESTA NELLE

ARTI FIGURATIVE

Marco CostaDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneIl comportamento di inclinazione laterale della testa consiste in un piegamento

angolare del capo rispetto all’asse di congiunzione delle spalle. Esso è stato interpretato come gesto di sottomissione (Key, 1975), diminuendo l’altezza complessiva del corpo, come esempio di differenziazione dello status sociale (Ragan, 1982), come domanda di protezione (Morris, 1977) e come modo per comunicare amicizia e disponibilità al contatto sociale (Halberstad e Saitta, 1987).

Scopo della presente ricerca è stato quello di studiare come questo comportamento sia stato utilizzato da pittori di diverse epoche storiche nelle rappresentazioni di figure umane in funzione dei seguenti parametri: a) Genere: figure maschili vs. figure femminili; b) Lato di inclinazione: destra, sinistro o dritto; c) Età del soggetto rappresentato: bambino, giovane, adulto o vecchio; d) Status: religioso (cristo, madonna, santo, angelo, personaggio biblico, religioso), personaggio mitologico, nobile (re, regina, principe, nobile), artista (pittore, musicista, scrittore, ballerino, cantante, buffone, poeta) e professionista (militare, umanista, mercante, archeologo, studioso, filosofo, medico e altri personaggi ben caratterizzati da una professione specifica); e) Contesto: soggetto in posa vs. rappresentazione naturalistica; f) Direzione dello sguardo: occhi puntati sull’osservatore vs. occhi puntati in altra direzione.

MetodoDalle opere omnie dei 10 autori studiati sono state esaminate tutte le figure umane

che rispettassero i seguenti criteri di inclusione: a) meno di 10 personaggi nello stesso quadro; b) testa non rappresentata di profilo, da dietro, inclinata in avanti o dietro; c) corpo non coricato o sdraiato. Di seguito è riportato l’elenco degli autori in ordine cronologico di nascita, con indicato il numero di figure esaminate: Simone Martini (1284 - 1344): 126; Hubert Van Eyck (m 1426) e Jan Van Eyck (m 1441): 162; Hans Holbein il Giovane

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

(1497/98 - 1560): 147; Ludovico Carracci (1555 - 1619), Annibale Carracci (1560 -1609) e Agostino Carracci (1557 -1602): 235; Velazquez (1599 -1660): 111; Rembrandt (1606 - 1669): 282; Edgar Degas (1834 - 1917): 122; Cézanne (1839 - 1906): 184; Gustav Klimt (1862 - 1918): 76; Amedeo Modigliani (1884 - 1920): 330. Il totale delle figure esaminate è stato di 1775. Gli autori sono stati scelti tenendo conto di due fattori: la loro rappresentatività rispetto ad un certo periodo artistico e la focalizzazione sulla figura umana con preponderante produzione di ritratti o rappresentazioni con un numero limitato di figure per quadro. Per ciascuna figura esaminata, la posizione angolare del capo è stata determinata calcolando l’ampiezza dell’angolo formato dalla retta congiungente il nasion (punto di innesto del naso fra le arcate ciliari) con il punto mediano delle labbra e la retta perpendicolare all’asse di congiunzione delle spalle.

RisultatiLe analisi condotte su tutte le figure complessive hanno evidenziato i seguenti

risultati: a) l’inclinazione della testa è significativamente più accentuata nei soggetti femminili (media 12,9°) rispetto a quelli maschili (7,2°): F(1, 1496) = 50,3, p < .001; b) l’inclinazione verso sinistra (guardando il volto) è significativamente più probabile rispetto a quella a destra e quando è a sinistra è maggiore (20,2°) rispetto a quando è a destra (17,5°): F(2, 1495) = 750,5, p < .001; c) riguardo all’età dei soggetti è risultato che i bambini vengono dipinti con maggior inclinazione (11,2°) rispetto a giovani ed adulti (8,8°) mentre i vecchi tendono ad essere rappresentati con una minor inclinazione (4,1°); d) lo status sociale si è rivelato una variabile molto importante, le analisi hanno infatti messo in luce un primato dell’inclinazione per soggetti inerenti la religione (18,3°) e la mitologia (18,7°) mentre è risultata scarsa nella rappresentazione di artisti (3,9°) e professionisti (4,7°) e quasi del tutto assente nelle raffigurazioni di nobili (1,8°): F(4, 1003) = 117,4, p < .001; e) l’inclinazione della testa è maggiore quando il soggetto è rappresentato in un contesto naturalistico (17,5°) rispetto a quando è dipinto in atteggiamento di posa (4,3°): F(1, 1217) = 45,7, p < .001; f) l’inclinazione della testa non è stata utilizzata in egual misura dai vari autori ma in particolare da quelli che hanno centrato la loro produzione su soggetti sacri e mitologici come Carracci (20,9°), Martini (13°) e van Eyck (17,3°), autori che hanno operato fino al XVI secolo. Nei pittori successivi come Rembrandt (3,1°) e Velazquez (5,9°) risulta fortemente diminuito essendo prevalentemente ritrattisti di nobili e professionisti mentre in autori moderni come Cezanne (9.8°) e Modigliani (9,8°) ritorna ad essere fortemente utilizzato come strumento espressivo raggiungendo l’apice in Klimt (15,04°) dove in alcuni volti si superano gli 80° di inclinazione, ben al di là dei limiti fisiologici di possibile inclinazione della testa. Effetto principale per autore: F(9, 1488) = 35,5, p < .001.

DiscussioneLa frequenza del comportamento di inclinazione della testa negli autori

considerati, tenendo conto di tutte le figure esaminate è risultata del 49%. Una percentuale molto alta che supera la frequenza del 38,4% indicata da Halberstadt e Saitta (1987) per persone in contesti naturalistici. Tale elevata frequenza e le forti significatività dimostrano quanto diffusamente l’inclinazione della testa sia stata adottata dai pittori come strumento espressivo. La diffusione dell’inclinazione della testa nell’arte sacra laddove il tema principale era quello della devozione, della sottomissione alla divinità, la sua assenza nei

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

ritratti su commissione nei quali l’artista era chiamato ad esaltare l’immagine di potere e di ricchezza del committente nobile o professionista e la maggior frequenza nei bambini e nei soggetti di sesso femminile dotati nei secoli passati di uno status sociale inferiore rispetto ai soggetti maschili portano sostegno ai dati precedenti della letteratura che vedono nella presenza di questo comportamento una espressione di sottomissione e di disponibilità al contatto sociale e nella sua assenza una espressione di potere e di dominanza.

Riferimenti bibliograficiHalberstadt, A.G. e Saitta, M.B. (1987). Gender, nonverbal behavior, and perceived

dominance: A test of the Theory. Journal of Personality and Social Psychology, 53, 257-272.

Key, M.R. (1975). Male/female language. Metuchen, NJ: Scarecrow Press. Morris, D. (1977). Manwatching: A field guide to human behavior. New York: Abrams. Ragan, J.M. (1982). Gender display in portrait photographs. Sex Roles, 8, 33-43.

DETERMINANTI COGNITIVE DELLA CONDIVISIONE SOCIALE DELLE EMOZIONI

Antonietta Curci*, Bernard Rimé*** Dottorato di Ricerca in Psicologia della Comunicazione, Dipartimento di Psicologia Università degli studi di Bari** Unité de Psychologie Clinique et Sociale, Département de Psychologie Université Catholique de Louvain (Louvain-la-Neuve, Belgique)

La condivisione sociale è un effetto normale dell’esperienza emozionale. Consiste nella rievocazione dell’episodio emozionale da parte dell’individuo che l’ha vissuto, in presenza di un altro soggetto, attraverso il linguaggio scritto o orale o altre forme espressive (Rimé, 1997; Rimé & al. 1992). Secondo la letteratura sull’argomento, l’emozione è un’esperienza che necessita di articolazione cognitiva. Il linguaggio e la comunicazione contribuiscono alla sistemazione del materiale emozionale in conformità alle regole ordinarie del pensiero logico (Rimé & al., 1997). Accanto alla condivisione, un’altra modalità di sistemazione dell’esperienza emozionale è la ruminazione mentale (Tait & Silver, 1989).

Scopo del presente lavoro è lo studio delle determinanti di base della condivisione dell’emozione. Dal momento che la condivisione obbedisce a particolari esigenze del sistema cognitivo, le stesse determinanti cognitive (appraisal) dell’emozione potrebbero rientrare tra gli antecedenti della condivisione. Le determinanti cognitive potrebbero, inoltre, influire sulla ruminazione mentale.

Allo scopo di testare queste ipotesi a 144 studenti dell’Université Catholique de Louvain (Belgio) e a 200 studenti dell’Università di Bari è stato proposto un questionario volto ad indagare la relazione tra appraisal, intensità emozionale, condivisione e ruminazione mentale. Nella prima sezione, veniva chiesto agli intervistati di rievocare una recente esperienza di paura, collera o tristezza. I soggetti erano casualmente assegnati ad

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una delle tre condizioni. Nella seconda sezione gli intervistati completavano una serie di scale sull’intensità dell’emozione, sulle dimensioni di appraisal (valenza, inaspettatezza, certezza, familiarità, importanza, controllabilità, azione, causalità, valutazione morale, autovalutazione) (Frijda, 1987; Frijda & al., 1989; Smith & Ellsworth, 1985) e sulla distintività dell’esperienza. La terza sezione conteneva scale di condivisione e ruminazione dell’esperienza.

I dati raccolti sono stati sottoposti ad analisi strutturale secondo un modello di path analysis (Jöreskog & Sörbom, 1996). Il modello ipotizzato prevedeva che le dimensioni di appraisal avessero influenza diretta sull’intensità dell’emozione e sulla condivisione e ruminazione dell’esperienza. L’intensità emozionale avrebbe dovuto influenzare direttamente la condivisione e la ruminazione. I risultati confermano parzialmente l’ipotesi in quanto le dimensioni di appraisal si connettono in modo non uniforme all’intensità dell’emozione, alla condivisione e alla ruminazione. Per di più, il modello esclude la relazione causale diretta tra emozione e condivisione-ruminazione. In sostanza, gli antecedenti cognitivi dell’emozione rendono ragione della condivisione e ruminazione, escludendo l’impatto diretto dell’intensità dell’emozione. In questo senso, la sistemazione dell’esperienza emozionale opera come prosecuzione del processo di valutazione cognitiva che precede l’emozione.

La presente ricerca opera su materiale rievocato e le misure di appraisal sentono gli effetti delle operazioni ricostruttive della memoria. Successive linee di ricerca possono concentrarsi sulla relazione tra emozione, appraisal e condivisione in contesti naturali, non basandosi su esperienze di rievocazione.

Riferimenti bibliograficiFrijda, N.H. (1987). Emotion, Cognitive Structure, and Action Tendency. Cognition and

Emotion, 1 (2), 115-143.Frijda, N.H., Kuipers, P. & ter Schure, L. (1989). Relations among emotion, appraisal and

action tendency. Journal of Personality and Social Psychology, 57, 212-228.Jöreskog, K. & Sörbom, D. (1996). LISREL 8: User’s Reference Guide. Chicago: Scientific

Software International, Inc.Rimé, B. (1997). Emotion et cognition. In J.P. Leyens & J.L. Beauvois (Eds.), L’ère de la

cognition. Grenoble: Presses Universitaires de Grenoble, 107-125.Rimé, B., Finkenauer, C., Luminet, O., Zech, E. & Philippot, P. (1997). Social Sharing of

Emotion: New Evidence and New Questions. In W. Stroebe & M. Hewstone (Eds.), European Review of Social Psychology, 7, Chilchester: Wiley.

Rimé, B., Philippot, P., Boca, S. & Mesquita, B. (1992). Long-lasting Cognitive and Social Consequences of Emotion: Social Sharing and Rumination. In W. Stroebe & M. Hewstone (Eds.), European Review of Social Psychology, 3, Chilchester: Wiley, 225-258.

Smith, M.B. & Ellsworth, P.C. (1985). Pattern of cognitive appraisal in emotion. Journal of Personality and Social Psychology, 48, 813-838.

Tait, R. & Silver, R.C. (1989). Coming to terms with major negative life events. In J.S. Uleman & J.A. Bargh (Eds.). Unintended thought. New York: Guilford Press, 351-381.

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

MODELLI DI PERSONALITÀ A CONFRONTO MEDIANTE TECNICHE DI GENETICA

COMPORTAMENTALE

Carlamaria Del Miglio, Sabina D’Amato Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneNel campo della psicologia moderna, la genetica del comportamento si occupa di

indagare gli effetti dei geni sul comportamento nelle sue diverse manifestazioni. Nell’ambito della psicologia della personalità si ritiene (Loehlin et al. 1994) che le differenze individuali possono essere attribuite a due componenti: genetiche (Zuckerman M., 1991) e ambientali, che risultano strettamente interrelate. Lavori condotti da diversi autori (Cattell, 1982; Loehlin, 1992; Eaves, et al.,1989), sono giunti alla conclusione che l’effetto che i geni esercitano sulle differenze individuali nella personalità può essere stimato attraverso i questionari self-report. Lo scopo di questo studio consiste nel confrontare diversi modelli di personalità utilizzando il metodo del confronto controllato tra gemelli (o metodo gemellare). I modelli considerati sono: Modello dei Big Five di Costa & McCrea, Modello dei Big Five proposto da Zuckerman, Modello PEN proposto da Eysenck.

MetodoIl campione analizzato è composto da 40 coppie gemellari (MZ e DZ) di età media

35 anni. Ai soggetti sono stati somministrati tre questionari di personalità: BFQ, ZPQ, EPQ. Per analizzare i dati sono stati utilizzati indici di ereditabilità in accordo con i modelli biometrici proposti dai genetisti comportamentali (Loehlin et al., 1988, Plomin et al., 1991) con lo scopo di stimare il peso dei fattori genetici.

RisultatiI risultati di maggior rilievo ottenuti da questo studio preliminare sono

tendenzialmente in accordo con quelli emersi in cinque importanti studi condotti sui gemelli, dal 1976 al 1989, in diverse popolazioni (USA, Gran Bretagna, Svezia, Australia, Finlandia). In particolare si evidenziano coefficienti di somiglianza più elevati nelle coppie di soggetti Mz. Il carattere preliminare di questo lavoro è determinato dal fatto che si inserisce in una linea di ricerca del tutto innovativa in Italia, mirata alla comprensione della trasmissione e del mantenimento dei tratti di personalità negli individui.

ConclusioniSebbene l’idea che i tratti di personalità possano essere in qualche modo ereditabili

non sia da tutti condivisa, oggi l’aumentare delle conoscenze sul funzionamento del cervello in relazione tanto alle malattie mentali, quanto alle abilità cognitive, sta determinando la diminuzione di questo scetticismo.

Riferimenti bibliograficiDel Miglio C. (1995). Il Sé gemellare. Roma: Borla.

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Loehlin J. C. (1992). Genes and environment in personality devlopment. Newbury Park, CA: SAGE Publications.

Plomin R. & Bergerman, C.S. (1991). The nature of nurture: Genetic influence on “enviromental” measures. Behavioral and Brain Science, 14, 373-427.

Plomin R., DeFries J., McClearn G., Rutter M., (1997) Behavioral Genetics. New York: Freeman.

Zuckerman M. (1991). Psychobiology of personality. Cambridge: Cambridge University Press.

EMOZIONI, PROCESSI COGNITIVI E MOTIVAZIONI ATTRIBUITE, NELLA FRUIZIONE DI RACCONTI

ILLUSTRATI

Anna Maria Giannini, Paolo Bonaiuto, Martina D’ErcoleDipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneEsaminando numerose sequenze di racconti letterari, racconti a fumetti, filmati,

appartenenti ai generi contrapposti “giallo” e “horror”, fu possibile in passato individuare la maggior frequenza di immagini visive (sia percepibili direttamente, sia evocate tramite il racconto verbale) improntate ai noti processi del completamento amodale nel genere “giallo”; o della contraddizione (paradossi, incongruenze) nel caso dell’ “horror” (Bonaiuto, 1983). Anche processi emotivi e motivazionali pertinenti ai due opposti generi narrativi risultarono in quell’indagine ben differenziati e consonanti coi processi cognitivi con cui di volta in volta si articolavano. Il genere “giallo” fu colto far leva soprattutto su istanze alla soluzione di problemi di tipo convergente, sul piacere di scoprire schemi già esistenti, di architettare e produrre insiemi organizzati a partire da pochi elementi, di controllare, di riparare e ripristinare forme di integrità dopo esperienze disgregative e aggressive. Tali operazioni presuppongono appunto il completamento come procedimento cognitivo interessante per il fruitore specificamente motivato (conoscenza ordinata, costruzione, socialità, affermazione rispettosa di schemi). All’opposto, il genere “horror” fa leva su istanze alla sfida, alla dissonanza, al sovvertimento di schemi comunemente accettati; cioè al conflitto: oggetto-meta di istanze quali l’aggressione, la conoscenza esplorativa, i bisogni di tensione emotiva, l’affermazione attraverso l’indipendenza. Riflettendo su quella prima indagine e su altre affini, ci è parso che un panorama non meno produttivo e denso di informazioni sulle relazioni fra processi emotivi e cognitivi proposti al fruitore, fosse reperibile esaminando i racconti illustrati del genere fiabesco. In questa direzione si è mossa una complessa ricerca promossa presso gli insegnamenti di Psicologia generale e di Psicologia dell’arte e della letteratura nella nostra Facoltà di Psicologia.

MetodoSono state esaminate 100 fiabe illustrate a colori, edite in Italia negli ultimi

trent’anni. Per ciascuna si sono evidenziate tre illustrazioni caratterizzanti: una di apertura,

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

una centrale e una conclusiva. Ogni immagine, vagliata da tre esaminatori esperti (individualmente e poi in concorso fra loro) ha dato luogo a una scheda che compendia: a) le qualità emotive dominanti, con riferimento ad una gamma d’un centinaio di differenti emozioni: allegria, tristezza, serenità, rabbia, amore, odio, ammirazione, disgusto, ecc. (Giannini, 1997); b) i principali processi cognitivi proposti: completamento, contraddizione, risalto, mascheramento, coesione, segregazione, contrasto, assimilazione, regolarizzazione prospettica, aspetti del movimento, aspetti del colore, attribuzioni causali, ecc. (Bonaiuto, 1983; Bartoli, Giannini, Bonaiuto, 1996); c) le motivazioni attribuibili ai personaggi, e quindi proposte anch’esse al fruitore in chiave di identificazione o contrapposizione: socialità, sessualità, aggressione, affermazione, esigenze nutrizionali, bisogni di tensione emotiva, esigenze di movimento, di costruzione, di conoscenza variata (curiosità) o di ordine e congruenza cognitiva (Bonaiuto, 1967); d) i principali temi e significati rappresentati: conflitto, superamento di ostacoli, magia, rivalità, solidarietà, violenza, vendetta, obbedienza, ribellione, cura, maltrattamento, dipendenza, autonomia, astuzia, inventiva, ricerca di identità, accordo, ecc. (Propp, 1966; Bettelheim, 1976). Sono state così allestite 300 schede complete, per gli opportuni rilievi statistici.

Risultati, discussione, prospettiveCalcolando distribuzioni di frequenza e correlazioni fra i diversi item si

individuano varie strategie di comunicazione e relazioni cariche di significato psicologico. I principali temi si accompagnano in modo congruente a proposte formali allestite favorendo tonalità emotive e attribuzioni motivazionali consonanti (e non altre); nonché processi cognitivi atti a veicolarle ed esprimerle. Ad esempio, temi di conflitto interpersonale, violenza e maleficio si accompagnano a tonalità emotive di attività, minaccia, ostilità, rabbia, angoscia, a loro volta veicolate da forme angolate, asperità, colorazioni “allarmanti” (viola, verde oliva, grigio, nero...) e dai processi visivi del contrasto e del risalto. Temi di amore, pacificazione, accordo nella coppia o nel gruppo, vengono proposti con tonalità emotive di serenità, quiete, tenerezza, gioia, fiducia, veicolate da forme tondeggianti e colorazioni “rasserenanti” (rosa, pastello, ecc.), in concomitanza con la coesione e l’assimilazione. L’indagine ha pure confermato e ampliato relazioni già colte per altra via, quali i nessi profondi fra processi cognitivi del completamento amodale e oggetti-meta di specifiche esigenze, che implicano vissuti iniziali di insufficienza e incompletezza del sé (sessualità, nutrizione, socialità); oppure fra contraddizione (incongruità) e motivazioni basate sul conflitto. Le immagini di apertura, descrittive, e di chiusura, risolutive, si differenziano fra loro e ancor più dalle immagini centrali, riferite sovente a conflitti aperti e fortemente dipendenti dai temi principali del racconto. Fra le prospettive di sviluppo emergono le analisi delle preferenze in funzione di esigenze dominanti nel fruitore e quindi del suo assetto motivazionale: su cui influiscono fattori culturali, stili educativi, fasi di sviluppo attraversate.

Riferimenti bibliograficiBartoli, G., Giannini, A. M., Bonaiuto, P. (1996). Funzioni della percezione nell’ambito del

museo. Firenze: La Nuova Italia.Bettelheim, B. (1976). The uses of enchantment. The meaning and importance of fairy tales.

New York: Knopf.

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Bonaiuto, P. (1967). Le motivazioni dell’attività nell’età evolutiva. Milano: C.M.S.R. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, A. M. Giannini, V. Biasi (a cura di), Motivazioni umane, processi cognitivi, emozioni, personalità. Vol. 2 (pp. 15-99). Roma: Ed. Psicologia, 1994.

Bonaiuto, P. (1983). Processi cognitivi e significati nelle arti visive. Relazione al Convegno Nazionale “Linguaggi visivi, Storia dell’Arte, Psicologia della percezione”, Roma. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, G. Bartoli, A. M. Giannini (a cura di), Contributi di psicologia dell’arte e dell’esperienza estetica. Vol. 1 (pp. 39-84). Roma: Ed. Psicologia, 1994.

Giannini, A. M. (1997). Emozioni, motivi, interessi. In: C. M. Del Miglio (a cura di), Manuale di psicologia generale (pp. 225-266). Roma: Borla.

Propp, V. (1966). Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi.

PERCHÉ CONDIVIDERE EMOZIONI? VERSO UN MODELLO PREDITTIVO

Emanuela Greci, Isabella PoggiUniversità di Roma Tre

La letteratura recente sulle emozioni si è spesso concentrata sulla cosiddetta “condivisione delle emozioni”: ci si è chiesto a chi si raccontano le proprie emozioni, quali si condividono più spesso, quali funzioni possa svolgere la condivisione, e se esistano differenze individuali nella scelta di condividere o meno. (Ricci Bitti, 1998; Bellelli, 1995). Ma il tema della condivisione s’intreccia con diversi tipi di ricerche, come la differenza fra internalizzatori ed esternalizzatori, o addirittura il dibattito sulla teoria della catarsi, sulla questione se esprimere le emozioni le faccia “raffreddare” o meno.

In questo lavoro proponiamo un’analisi concettuale del concetto di condivisione e illustriamo una ricerca empirica mirante a individuare gli scopi per cui si condividono le emozioni.

Innanzitutto, ci sembra importante osservare che l’espressione condividere un’emozione può avere in italiano almeno due significati diversi. Da un lato, può significare solo che uno vuole raccontare a un’altra persona un’emozione provata e l’evento che l’ha causata: tornando a casa dopo una litigata in ufficio posso raccontare ai miei familiari che mi sono molto arrabbiata col capufficio e perché. Ma in certi casi, condividere un’emozione vuol dire non solo che voglio far conoscere all’altro l’emozione che ho provato, ma voglio che un poco la provi anche lui; come quando alla fermata dell’autobus esprimo la mia indignazione per i ritardi e le inefficienze della rete filotranviaria, per suscitare negli astanti la mia stessa indignazione. Inoltre, la condivisione può avvenire in situazioni diverse, a maggiore o minore distanza di tempo, con persone diverse e per scopi diversi, a seconda che si condivida un’emozione positiva o negativa. Infine, l’espressione condividere in certi casi non sembra appropriata per riferirsi a ciò che le persone fanno quando esprimono in maniera non verbale, ma anche verbale, una propria emozione. Talvolta raccontiamo una nostra emozione non tanto per “condividerla”, metterla in comune, per farla conoscere o

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addirittura provare all’altro, quanto, semplicemente, per “sfogarci”. È necessario, in altre parole, distinguere i casi in cui lo scopo per cui raccontiamo o esprimiamo una nostra emozione menziona un’altra persona, e quelli in cui invece il nostro scopo è solo “buttar fuori”, liberarci, sollevarci almeno in parte da quello sconvolgimento fisiologico e psicologico in cui un’emozione consiste.

Per chiarire le diverse letture del concetto di condivisione, che potranno essere rappresentate come significati almeno in parte diversi di questa parola, ci può aiutare un’indagine sugli scopi del condividere. Una persona quando condivide una propria emozione può avere scopi diversi: può voler essere consolata, voler ricevere aiuto o consiglio, può cercare empatia o volere dall’altro un’oggettivazione, un rispecchiamento o una rassicurazione sull’emozione provata; a meno che non lo faccia semplicemente, come nei casi accennati, solo per “sfogarsi”.

Per indagare sugli scopi della condivisione di emozioni abbiamo condotto una ricerca: prima attraverso interviste strutturate e poi attraverso un questionario, abbiamo chiesto a due diversi campioni di soggetti in quali casi hanno raccontato ad altri una loro emozione piacevole o spiacevole, a chi e perché l’hanno raccontata, come si aspettavano che l’altro reagisse, come in realtà ha reagito, e qual è stato l’effetto che ha avuto su loro stessi questo atto di condivisione. I risultati della ricerca saranno presentati durante l’intervento.

Sulla base di questi verrà proposto un modello predittivo della condivisione delle emozioni. Quando, con chi e perché decidiamo di condividere una nostra emozione? Il potenziale Mittente di un messaggio comunicativo “decide” (a livelli diversi di consapevolezza) se comunicare una propria emozione, a chi comunicarla e come, sulla base di un modello del contesto che egli si rappresenta nella propria mente (Poggi e Pelachaud, 1998). Questo modello comprende da un lato la rappresentazione della propria mente, in particolare dei propri scopi cui può servire il comunicare l’emozione, dall’altro la rappresentazione della mente del Destinatario, dei suoi possibili scopi e della sua personalità, e infine la rappresentazione dei rapporti (affettivi e di potere) fra Mittente e Destinatario.

Riferimenti bibliograficiBellelli G. (a cura di): Sapere e sentire. Liguori, Napoli 1995.Poggi I. e Pelachaud C. (1998): “Performative faces”. Speech Communication 26, pp.5-21.Ricci Bitti P.E. (a cura di): Regolazione delle emozioni e arti-terapie. Carocci, Roma 1998.

NARRAZIONE DI EPISODI EMOZIONALI IN ADOLESCENZA

Olimpia Matarazzo, Dario BacchiniCorso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli

IntroduzioneAlcuni degli studi che hanno indagato le teorie ingenue delle emozioni a partire

dalle narrazioni delle esperienze emozionali hanno mostrato che esse possono essere

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concettualizzate come script (Conway e Bekerian, 1987; Fisher, 1991; Shaver et al.,1987) comprendenti sequenze di eventi tipici e con contenuti specifici per ogni emozione. Da tali ricerche si evince una sostanziale convergenza tra quelle teorie scientifiche che sostengono la dimensione processuale delle emozioni e il senso comune, anche se la metodologia adottata, in cui veniva richiesto di rispondere a domande più o meno dettagliate su vari aspetti dell’esperienza emozionale, non consente di stabilire se narrazioni spontanee si organizzino effettivamente in termini di script e, in caso affermativo, quali componenti essi contemplino e se presentino caratteristiche formali analoghe per tutte le emozioni.

Il lavoro che presentiamo, e che è parte di una più ampia ricerca sulla competenza emotiva in adolescenza (Matarazzo e Bacchini, 1997, 1999), mira ad affrontare queste questioni attraverso un’indagine sulle narrazioni di episodi emozionali effettuate da adolescenti. Nello specifico, ci proponiamo di mettere alla prova l’ipotesi secondo cui la struttura delle narrazioni, pur potendo essere rappresentata in termini di script, vari non solo qualitativamente ma anche formalmente a seconda delle emozioni descritte e del livello di competenza emotiva dei soggetti, vale a dire che riteniamo che le componenti in cui può essere articolato il processo emozionale siano presenti in modo non equanime e assumano una rilevanza diversa in funzione delle due variabili considerate.

MetodoA 275 soggetti di età compresa fra i 12 e i 20 anni, frequentanti il terzo anno di

scuola media, il secondo e il quinto anno di scuola superiore, equidistribuiti rispetto al sesso, è stato chiesto di indicare le emozioni provate più frequentemente nell’ultimo anno e di descrivere per tre di esse, indicandone il nome, un episodio in cui erano state sperimentate Nessuna ulteriore specificazione veniva richiesta nella consegna al fine di lasciare emergere il modo in cui i soggetti organizzavano spontaneamente la narrazione degli episodi emozionali.

Le descrizioni così raccolte sono state analizzate in relazione alle diverse componenti dell’esperienza emotiva: condizioni elicitanti, vissuto fenomenologico, reazioni fisiologiche, manifestazioni espressive e comportamentali, durata, eventuali modalità di autoregolazione e di coping, conseguenze sulle azioni future.

RisultatiSono stati raccolti 781 episodi (un soggetto non ha descritto alcun episodio, 264 ne

hanno descritti due e 243 hanno rispettato pienamente la consegna): di questi, 91 erano stati etichettati o con termini non emozionali (es. cambiato, testardo) o con l’indicazione delle situazioni elicitanti (es. partita di calcio, primo bacio, ingiustizia); 64 riportavano nel titolo due emozioni e 15 tre. Tale scelta rifletteva nella maggior parte dei casi una concomitanza di stati emozionali innescati dall’episodio mentre in altri indicava piuttosto il susseguirsi di emozioni in funzione dello sviluppo degli eventi.

Gli episodi descritti più frequentemente, e che vengono analizzati in questa sede, si riferiscono alle seguenti emozioni, citate sia da sole che insieme ad altre: felicità (66 episodi), amore (62), paura (50), gioia (34), tristezza (32), solitudine (28), rabbia (27). È da notare che tali emozioni, anche se non rigorosamente nello stesso ordine, sono quelle che avevano fatto registrare le più elevate frequenze alla richiesta di indicare le emozioni provate più spesso nell’ultimo anno.

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Nell’analizzare gli episodi si è proceduto dapprima a registrare quali componenti del processo emozionale venivano descritte in ognuno di essi e si è poi passati a classificare i resoconti mediante una procedura di progressiva astrazione del contenuto, analoga a quella messa a punto da Boucher (1983). Sono state pertanto costruite, per ogni componente del processo emozionale, apposite categorie di codifica in grado di sussumere la varietà delle descrizioni individuali anche se nelle analisi successive sono state eliminate, secondo la procedura seguita da Shaver et al. (1987), quelle idiosincratiche.

I dati così sistematizzati sono stati sottoposti alle seguenti elaborazioni statistiche: 1) analisi log-lineare per individuare se la scelta delle emozioni di cui si erano descritti gli episodi variava in funzione dell’età e del sesso dei soggetti; 2) analisi delle corrispondenze basata sul computo delle componenti presenti o assenti nei resoconti relativi a ciascuna delle sette emozioni per accertare se si delineavano profili emozionali formalmente diversi a seconda della predominanza di specifiche componenti in ognuna di esse; 3) analisi della varianza (classe x sesso) per valutare se in funzione dell’età e del sesso dei soggetti variava il numero delle componenti presenti nelle descrizioni; 4) analisi delle corrispondenze basata sulla distribuzione delle categorie di codifica di ciascuna componente, e considerando le 7 emozioni come variabili supplementari, per individuare se i profili emozionali erano sufficientemente discriminati qualitativamente.

I risultati hanno messo in luce che le emozioni descritte variavano sia in base al numero delle componenti utilizzate nella descrizione degli episodi ad esse relativi, sia in base alle caratteristiche qualitative delle stesse componenti. Le descrizioni delle femmine sono risultate tendenzialmente più ricche di quelle dei maschi mentre non è stata riscontrata una relazione lineare tra età e numero delle componenti utilizzate nei resoconti.

Riferimenti bibliograficiBoucher, J. (1983). Antecedents to emotions across cultures. In S.H. Irvine, J.W.Berry

(Eds.), Human Assessment and cultural factors. New York: Plenum Press, pp.407-420.

Conway, M.A. e Bekerian, D.A. (1987). Situational knowledge and emotions. Cognition and Emotion, 1, 2, 145-191.

Fisher, A. (1991). Emotion scripts. A study of social and cognitive facets of emotions. Leiden: DSWO-Press.

Matarazzo, O. e Bacchini, D. (1997). Comunicare e descrivere le proprie emozioni: studio sulla competenza emotiva in adolescenza. Comunicazione presentata al Congresso nazionale della Sezione di psicologia sperimentale dell’A.I.P., Capri 22-24 settembre.

Matarazzo, O. e Bacchini, D. (1999). Denominare e valutare le proprie emozioni in adolescenza. Psicologia e Società, XXV (XLVI), 59-87.

Shaver, P., Schwartz, J., Kirson, D. e ÒConnor, C. (1987). Emotion knowledge: further exploration of a prototype approach. Journal of Personality and Social Psychology, 52, 6, 1061-1086.

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APERTURA MENTALE E STRATEGIE COGNITIVE NEL PROBLEM SOLVING QUOTIDIANO

Silvana Miceli, Raffaella Misuraca, Daniela Donato, Maurizio CardaciUniversità degli Studi di Palermo

IntroduzioneAll’interno del modello dei “Big Five” (Caprara e Perugini, 1991a; Digman, 1990;

John, 1990; McCrae e Costa, 1992), l’Apertura Mentale appare il fattore più controverso e di difficile definizione. Le ragioni di ciò sono riconducibili all’esiguo numero di ricerche specifiche, nonché ai dubbi sollevati da numerosi autori (p.e. Cattell, 1943; Eysenck, 1947; Guilford, 1959), circa la possibilità di considerare l’intelligenza una delle dimensioni della personalità. Attualmente, il fattore Apertura Mentale viene considerato una “dimensione intrapsichica” (McCrae, 1996) caratterizzabile in termini di larghezza di vedute, profondità di pensiero, creatività, intelligenza, fantasia, talento, ecc. Secondo Caprara e coll.(1993), l’Apertura Mentale si compone di due fondamentali sottodimensioni: Apertura alla Cultura e Apertura all’Esperienza. La prima riguarda l’inclinazione a tenersi informati e ad acquisire conoscenze. La seconda è relativa a una disposizione favorevole nei confronti delle novità, alla capacità di considerare ogni cosa da più prospettive e ad una apertura nei confronti di valori, stili, modi di vita e culture diverse. Per queste sue caratteristiche, si può avanzare la duplice ipotesi che l’Apertura Mentale possa essere sensatamente considerata un antecedente sia delle strategie cognitive attraverso le quali il soggetto fronteggia nella vita quotidiana concrete situazioni problemiche, sia della ricerca di una pluralità di spiegazioni nel ragionamento attribuzionale (più “cause” per uno stesso comportamento; più comportamenti per una stessa “causa”). Il presente studio si propone di fornire una verifica empirica delle suddette ipotesi.

MetodoHanno partecipato alla ricerca 74 studentesse universitarie, alle quali sono stati

somministrati tre questionari. Il primo era una check list di Apertura Mentale ispirata al NEO-PI (Costa e McCrae,1985) e al BFQ (Caprara et al. 1993), composta da 26 item (Likert), 13 dei quali riguardanti la sottodimensione di Apertura alla Cultura, gli altri relativi all’Apertura all’Esperienza. Il secondo strumento esplorava il problem solving situazionale (S.P.S.I.), presentando 10 situazioni specificamente riferite a differenti concrete situazioni (domain-dependent), (ad esempio, quale strategia scegliere per superare un conflitto lavorativo, come risolvere una situazione imprevista durante un viaggio in un paese straniero, ecc.). Per ciascuna situazione problemica il soggetto doveva scegliere tra quattro possibili alternative (1.apertura alla cultura, 2.apertura alla esperienza, 3.risparmio cognitivo, 4.passività) la strategia cognitiva percepita come più efficace. Il terzo strumento era un questionario “multiattribuzionale” (M.I.), articolato in 30 item: il soggetto poteva attribuire una o più motivazioni ad un certo comportamento (ad esempio, una persona ama leggere perché: a) desidera arricchire il proprio bagaglio culturale; b) vuole lasciare vagare la sua mente; c) si vuole rilassare). Il rationale dello strumento si basa sull’assunto che i soggetti con un alto livello di Apertura Mentale sono capaci di fornire spiegazioni multiattribuzionali al contrario di quelli con un basso livello di Apertura Mentale. Dopo

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aver sottoposto i soggetti alle tre prove, sulla base dei risultati ottenuti alla check list di Apertura Mentale, sono stati individuati due gruppi contrapposti: soggetti ad alto livello di Apertura Mentale (rango = 75% percentile) e soggetti a basso livello di Apertura Mentale (rango = 25% percentile). Per ogni soggetto veniva inoltre calcolato un punteggio totale basato sul numero di scelte “apertura mentale” (AC+AE), “risparmio cognitivo” (RC) al questionario S.P.S.I e un punteggio basato sul totale di risposte attribuzionali al M.I.

RisultatiDal confronto tra il gruppo a bassa e ad alta apertura mentale (t test) è emerso

quanto segue: i soggetti ad alta apertura mentale ottengono punteggi significativamente più alti in ordine alle due strategie di Apertura (AC: p=.0259; AE: p=.0317), quelli a bassa apertura mentale, ottengono invece punteggi significativamente più alti nel numero di preferenze relative alla dimensione “passività” (p=.0026), mentre nessuna differenza significativa è emersa rispetto alla strategia “risparmio cognitivo”. Per quanto riguarda il questionario M.I., non sono state riscontrate differenze significative tra i due gruppi.

ConclusioniQuesti risultati supportano l’ipotesi che l’Apertura Mentale come dimensione di

personalità, si traduce in specifici stili di funzionamento cognitivo-situazionale. Non risulta sorprendentemente confermata l’ipotesi secondo cui l’Apertura Mentale costituisce l’antecedente di capacità di giudizio multiattribuzionale. Ulteriori ricerche si rendono necessarie, in particolare per comprendere quali siano i correlati di personalità sottostanti alle evidenti differenze individuali da noi trovate nei processi di multiattribuzionalità.

Riferimenti bibliograficiCaprara, G.V. e Perugini, M. (1991 a), L’approccio Psicolessicale e l’emergenza dei Big

Five nello studio della Personalità. Giornale Italiano di Psicologia, XVIII, 5, 721-747.

Costa, P.T. e McCrae, R.R. (1985), The NEO Personality Inventory Manual. Odessa, Fla, Psychological Assessment Resources.

Mc Crae, R.R. e John, O.P. (1992), An Introduction to the Five-Factor Model and its Applications. Journal of Personality, 60, 2, 175-215.

UMANO CHI LEGGE (DUE RACCONTI IN DUE CULTURE)

Sergio MorraUniversità di Genova

IntroduzioneQuesta ricerca considera la risposta alla letteratura da un punto di vista

interculturale, finora preso in considerazione solo in pochi studi (p.es. Halász, 1991; Larsen e László, 1990; László e Larsen, 1991). Oltre agli effetti della distanza culturale sulla

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

comprensione e l’apprezzamento dei racconti, vengono riesaminati problemi classici della psicologia della risposta alla letteratura, quali le relazioni fra familiarità, comprensione e interesse (p.es. Asher, 1980; Sadoski, Goetz e Fritz, 1993) e quelle fra comprensione, immaginazione ed emozioni (p.es. Brewer e Liechtenstein, 1981; Miall, 1989).

L’Islanda è un paese in cui la cultura letteraria ha profonde radici e vasta diffusione (cfr. Guðbjörnsdóttir e Morra, 1997, 1998). In questa ricerca si utilizzano due racconti folklorici (uno italiano e uno islandese), di circa duemila parole ciascuno, accomunati dal tema principale dell’incontro con un mondo “altro” e misterioso (i morti nel racconto italiano, gli elfi in quello islandese) e anche da un tema secondario, l’amore coniugale. Due gruppi di soggetti, italiani e islandesi, dopo avere letto ciascun racconto, lo hanno ripetuto oralmente e valutato mediante un questionario.

MetodoI soggetti sono 55 studenti dell’università di Padova e 60 dell’università d’Islanda.

I due racconti sono presentati ai soggetti in ordine bilanciato. Di ogni racconto si chiede l’immediata ripetizione orale, di cui si valuta la percentuale di ricordo delle proposizioni e degli eventi. Quindi, il soggetto risponde a un questionario riguardante la familiarità con storie e temi di quel tipo, l’interesse e il piacere provato nella lettura, la facilità di comprensione, l’immaginazione visiva, diversi aspetti della conclusione del racconto, la sua eventuale identificazione con qualche personaggio, e un elenco di 23 emozioni. La procedura viene poi ripetuta per l’altro racconto.

I dati sono analizzati mediante analisi di varianza 2x2 a disegno misto (campioni indipendenti per la nazionalità dei soggetti, osservazioni ripetute per i due racconti) e con analisi correlazionali e di covarianza. Queste ultime si propongono di fare luce su possibili relazioni causali (quali variabili potrebbero spiegarne altre).

Primi risultatiLa raccolta dei dati nel campione islandese è in via di completamento. Un’analisi

limitata al campione italiano indica un ricordo delle due storie simile quando si considerino le proposizioni (cioè il ricordo dei dettagli), mentre il racconto italiano è ricordato meglio quando si considerino gli eventi cruciali (cioè la comprensione della struttura). Per i soggetti italiani, il racconto italiano è più piacevole e interessante, più facile da comprendere, più simile a storie già conosciute, più positivo e più coerente nella conclusione, e suscita più immagini visive, più emozioni positive e più emozioni “drammatiche”, mentre il racconto islandese suscita più emozioni negative. Col racconto islandese, ma non con quello italiano, la valutazione della comprensibilità della storia correla con l’esperienza di immagini visive.

Sempre nel campione italiano, le analisi di covarianza indicano che le differenze di gradimento fra i due testi possono essere spiegate dalle differenze nella memoria di eventi, nella facilità di comprensione, nell’esperienza di immaginazione visiva, di emozioni positive e “drammatiche”, e nella percezione di una conclusione “positiva” (lieto fine, trionfo del bene). A sua volta, la differenza nelle emozioni “positive” può essere spiegata dalla familiarità con storie simili, dalla facilità di comprensione, dall’immaginazione visiva e dalla percezione di una conclusione “positiva”. In breve, sembra che vi sia un’influenza massiccia dell’elaborazione cognitiva sulle esperienze emotive, piuttosto che viceversa.

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Tale conclusione, peraltro, potrà essere meglio valutata non appena siano disponibili per le analisi anche i dati del campione islandese.

Riferimenti bibliograficiAsher S.R. (1980). Topic interest in children’s reading comprehension. In: Spiro R.J., Bruce

B.C., Brewer W.F. (Eds.), Theoretical issues in reading comprehension. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Brewer W.F., Liechtenstein E.H. (1982). Stories are to entertain: A structural-affect theory of stories. Journal of Pragmatics, 6, 473-486.

Guðbjörnsdóttir G., Morra S. (1997). Social and developmental aspects of Icelandic pupils’ interest and experience in Icelandic culture. Scandinavian Journal of Educational Research, 41, 141-163.

Guðbjörnsdóttir G., Morra S. (1998). Cultural literacy: Developmental and social aspects of experience and knowledge of Icelandic culture. Scandinavian Journal of Educational Research, 42, 85-99.

Halász L. (1991). Understanding short stories: An American-Hungarian cross-cultural study. Empirical Studies of the Arts, 9, 143-163.

Larsen S.F., László J. (1990). Cultural-historical knowledge and personal experience in appreciation of literature. European Journal of Social Psychology, 20, 425-440.

László J., Larsen S.F. (1991). Cultural and text variables in processing personal experiences while reading literature. Empirical Studies of the Arts, 9, 23-34.

Miall D.S. (1989). Beyond the schema given: Affective comprehension of literary narratives. Cognition and Emotion, 3, 55-78.

Sadoski M., Goetz E.T., Fritz J.B. (1993). A causal model of sentence recall: Effects of familiarity, concreteness, comprehensibility, and interestingness. Journal of Reading Behaviour, 25, 5-16.

INTERESSI PROFESSIONALI, SELF-EFFICACY E DIFFERENZE DI GENERE

Francesco Pace, Giovanni Sprini, Velia di BenedettoDipartimento di Psicologia, Università di Palermo

Negli ultimi anni gli studi che si sono concentrati sull’assessment delle dimensioni psicologiche intervenienti nei processi di scelta professionale, nelle aree dell’orientamento, del ri-orientamento e della selezione del personale, hanno aperto interessanti prospettive per il collegamento tra i fattori più tradizionalmente esplorati (abilità, interessi, valori professionali, personalità) ed i correlati motivazionali delle scelte (Betz et.al., 1996). Si è, più in generale, concentrata maggiormente l’attenzione su alcuni aspetti che apparentemente costituiscono importanti indicatori della volontà del soggetto di “mettersi in gioco” nel proprio sviluppo professionale (Solberg et.al., 1994). Tra questi indicatori, il concetto di self-efficacy di Bandura (1977) ha certamente assunto un ruolo di primaria importanza: si tratta infatti di un costrutto che spiega la percezione personale che un

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

soggetto ha di essere capace di adottare con successo un comportamento (in campo professionale, sociale, ecc.).

Gli studi sugli interessi professionali, d’altronde, hanno da molti anni segnalato l’importanza di una teoria capace di rendere ragione delle conclusioni di ricerche dalle quali emergeva come solo una parte dei soggetti che ottenevano una marcata e precisa configurazione di interessi svolgevano in seguito con successo e soddisfazione la professione indicata come preferita, soprattutto nei casi in cui questo fenomeno non fosse legato alla mancanza di abilità specifiche. È apparso chiaro come un modello esaustivo di spiegazione dello sviluppo delle carriere, pur tenendo in debita considerazione le variabili legate alle limitazioni strutturali del mercato del lavoro, debba dare ampio spazio agli aspetti motivazionali e di personalità. Alcuni lavori, in particolare Lent et. al.(1995) ed il già citato lavoro di Betz et.al., hanno sottolineato come un basso livello di self-efficacy può ostacolare persino l’iniziale interesse in un’area specifica: questi autori arrivano inoltre! alla conclusione che l’indagine sugli interessi, i valori e le abilità di un soggetto non sono sufficienti a valutare la potenzialità dell’individuo nello sviluppo della propria carriera.

La presente ricerca si prefigge di esplorare le linee di connessione tra gli interessi professionali e la efficacia percepita, tenendo in considerazione le differenze legate al sesso. Abbiamo fatto perciò riferimento alla teoria di Holland (1985) sulle tipologie professionali, che rappresenta un importante punto di incontro tra personalità ed interessi, e che è universalmente riconosciuta come modello semplice ed intuitivo. Tale modello prevede sei differenti tipologie professionali (Realistica, Investigativa, Artistica, Sociale, Imprenditoriale e Convenzionale), che rappresentano anche sei differenti ambiti lavorativi.

Metodo. Per valutare le tipologie di Holland abbiamo utilizzato la versione italiana dello Strong-Campbell Interest Inventory (Sprini e Pace, 1998). Per esplorare la dimensione della self-efficacy abbiamo utilizzato il questionario General Self Efficacy (GSE) proposto da Pierro (1997). Il nostro campione é composto da 150 soggetti che frequentano il Liceo Classico. Le nostre ipotesi erano: 1) che alti punteggi alla scala GSE fossero correlati alle tipologie professionali di Holland collegate a professioni che prevedono un alto livello di approfondimento culturale e/o di alto rischio professionale (in particolare le tipologie Investigativa ed Imprenditoriale); 2) che i soggetti con alti interessi nelle aree professionali stereotipicamente non attribuite al loro sesso (ad es. area Realistica per i maschi, area Sociale per le femmine) avrebbero ottenuto un punteggio più alto alla scala GSE rispetto a tutti i soggetti di sesso opposto. Sono state effettuate delle analisi correlazionali e multivariate.

Risultati. I risultati confermano pienamente la prima ipotesi. La seconda ipotesi è confermata soltanto per quel che riguarda le aree professionali stereotipicamente maschili, verso le quali le femmine con alti punteggi risultano avere un punteggio maggiore alla scala GSE rispetto ai maschi.

Conclusioni. Le nostre analisi sembrano suggerire che la combinazione di alti interessi professionali ed efficacia percepita sia capace di limitare (almeno nella dimensione delle possibilità) uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione professionale, costituito dagli stereotipi sessuali. In accordo con le conclusioni di Betz et al. (1996), possiamo affermare che la valutazione della self-efficacy, soprattutto nella fase adolescenziale nella quale é più vivo il processo di sviluppo delle scelte scolastiche e professionali, può essere un efficace strumento di supporto alle attività orientative. Riteniamo opportuno, in tal senso, avviare la

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

costruzione di uno strumento che valuti in particolar modo la self-efficacy negli studi e lavorativa.

Riferimenti bibliograficiBandura, A. (1977). Self-Efficacy: toward a unifying theory of behavioral change.

Psychological Review, 84, 191-215.Betz, N.E., Harmon, L.W, Borgen, F.H. (1996). The relationships of Self-Efficacy for the

Holland Themes to Gender. Occupational group membership, and Vocational Interests, Journal of Counseling Psychology, 43, 90-98.

Holland, J.L. (1985) Making Vocational Choices (2nd ed.). Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall.

Lent, R.W., Brown, S.D., Hackett, G. (1994). Toward a unifying social cognitive theory of career and academic interest, choice, and performance. Journal of Vocational Behavior, 45, 79-122.

Sprini, G., Pace, F. (1998). La misurazione degli interessi professionali: applicabilità della teoria di Holland alla popolazione italiana. Comunicazione al Congresso Nazionale di Psicologia Sperimentale dell’AIP, Firenze.

Pierro, A. (1997). Caratteristiche strutturali della scala di General Self Efficacy. Bollettino di Psicologia Applicata, 221, 29-38.

Solberg, V.S., Good, G.E., Nord, D., Holm, C., Hohner, R., Zima, N., Hefferman, M., Malen, A. (1994). Assessing career search expectations: development and validation of the Career Search Efficacy Scale. Journal of Career Assessment, 2, 111-124.

ANALISI STRUTTURALE DELL’EMOZIONE DI SORPRESA: UNO STUDIO INTERCULTURALE

CONDOTTO ATTRAVERSO INTERNET

Donatella Pagani, Luigi Lombardi Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova.

IntroduzioneLa sorpresa occupa spesso una posizione particolare se confrontata con quella

delle altre emozioni considerate “universali” (Frijda e Tcherkassof, 1997; Katsikitis, 1997; Mc Andrew, 1986; Russel, 1997).

Diversi autori (Ekman e Friesen, 1978; Izard, 1971; Katsikitis, 1997; Smith e Scott, 1997) hanno evidenziato il ruolo delle componenti della regione superiore del volto, occhi e sopracciglia, nell’identificazione della sorpresa. In questo lavoro viene presentato uno studio esplorativo condotto attraverso Internet sulla comunicazione iconografica dell’emozione di sorpresa in diversi gruppi di partecipanti classificabili in accordo a distinte aree geografiche e culturali. A questo scopo è stato costruito un esperimento on-line per investigare il ruolo delle componenti dell’area superiore del volto (occhi e sopracciglia) nella valutazione di sorpresa in un set di pittogrammi sintetici generati attraverso una

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

apposita interfaccia grafica chiamata MAS (Modello di Analisi Strutturale) (Lombardi, 1997).

MetodoSoggetti

742 partecipanti (68,9% femmine, 30.1% maschi) nell’arco di 5 mesi si sono connessi da 45 paesi differenti al nostro laboratorio on-line della facoltà di psicologia di Padova. La dimensione del campione e l’eterogenea provenienza dei partecipanti ha permesso di costituire otto gruppi geografici, quattro dei quali (gruppo nord americano [478 ss.], gruppo nord europeo [99 ss.], gruppo sud europeo [87 ss.] e gruppo asiatico [33 ss.]) con sufficiente dimensione campionaria.Materiale

9 pittogrammi rappresentanti la parte superiore del volto sono stati utilizzati come stimoli sperimentali. I pittogrammi potevano variare nel grado di apertura degli occhi (3 livelli: media, medio-massima, massima), nella posizione delle sopracciglia (3 livelli: media, medio-alta, alta), e nell’inclinazione delle sopracciglia (3 livelli: nessuna inclinazione, convergenza verso l’alto, convergenza verso il basso). I nove pittogrammi utilizzati nell’esperimento sono stati selezionati dall’insieme totale delle 27 possibili combinazioni attraverso un opportuno quadrato latino e successivamente organizzati secondo tre differenti ordini di presentazione.Procedura

I partecipanti avevano accesso all’esperimento on-line attraverso quattro possibili link (APS (American Psychological Society) On-line, WWW Università di Padova, WWW University of Tuebingen, WWW University of Plymouth). Per ciascun pittogramma presentato veniva richiesto di valutare il grado di sorpresa ad esso associato attraverso una scala a 7 punti (0=totale assenza di sorpresa, 6=massima sorpresa).Disegno

Tre ANOVA a misure ripetute:a) 3(posizione delle sopracciglia)×3(apertura degli occhi)×2(sesso)×4(area geografica);b) 3(posizione delle sopracciglia)×3(inclinazione delle sopracciglia)×2(sesso)×4(area

geografica);c) 3(apertura degli occhi)×3(inclinazione delle sopracciglia)×2(sesso)×4(area geografica);

aventi come componente within-ss le tre possibili coppie di variabili definenti i fattori strutturali dello stimolo, e come componente between-ss le variabili sesso e area geografica.Risultati

Un primo risultato importante è emerso, rispettivamente, dall’interazione significativa tra il fattore apertura degli occhi e l’area geografica di provenienza dei partecipanti: F(6,1246)=4,30 (p<0,001), e tra il fattore posizione delle sopracciglia e l’area geografica: F(6,1246)=2,40 (p<0,05). L’analisi dei confronti multipli (eseguiti attraverso opportuni contrasti) ha evidenziato come una generale espansione delle componenti dell’area superiore del volto ha prodotto una valutazione superiore del grado di sorpresa indipendentemente dai distinti gruppi geografici. Nel particolare, si è registrata una pressoché identica modalità di valutazione tra il gruppo nord americano e quello nord europeo, che si sono differenziati chiaramente da quello asiatico, che è apparso assegnare maggior peso nel processo di attribuzione del grado di sorpresa all’apertura degli occhi

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

piuttosto che alle sopracciglia. I sud europei si sono collocati in una posizione intermedia rispetto alle due tipologie descritte.

Il secondo risultato importante è rappresentato dalle interazioni statisticamente significative tra il genere sessuale dei partecipanti e il fattore apertura degli occhi: F(2,1246)=6.07 (p<0,005), oltre che tra lo stesso fattore between e l’inclinazione delle sopracciglia: F(2,1246)=13,37 (p<0,001). In particolare, abbiamo osservato una tendenza relativamente più accentuata del gruppo femminile ad assegnare valori di sorpresa più alti in relazione alla crescente apertura degli occhi.

ConclusioniI laboratori on-line costituiscono a nostro parere un nuovo e affascinante strumento

per la progettazione di esperimenti a carattere interculturale, in modo particolare per gli studi sulla comunicazione pittografica delle emozioni.

La possibilità di accedere ad un bacino eterogeneo e pressoché illimitato di individui (la popolazione della rete), fa di Internet lo strumento più interessante in termini di costi e di accessibilità che al giorno d’oggi il ricercatore che si occupa di problematiche interculturali ha concretamente a disposizione.

Riferimenti bibliograficiEkman, P. & Friesen, W. V. (1978). Facial action coding system. Palo Alto: Consulting

Psychologists Press.Frijda, N. H. & Tcherkassof, A. (1997). Facial expressions as modes of action readiness. In

The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.

Izard, C. E. (1971). The face of emotion. New York: Appleton Century Crofts.Katsikitis, M. (1997), The classification of facial expressions of emotion: a

multidimensional-scaling approach. Perception, 26, 613-626.Lombardi, L. (1997, Settembre). Rappresentazione delle espressioni del volto: proposta di

un modello insiemistico orientato ad oggetti. Contributo presentato al 1997 Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri.

Russel, J. A. (1997). Reading emotions from and into faces: Resurrecting a dimensional-contextual perspective. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.

Smith, C. A. & Scott, H. (1997). A componential approach to the meaning of facial expressions. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.

SUONO ED EMOZIONI: ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ASCOLTO OLOFONICO

Tito Pavan, Roberto CaterinaDipartimento di Psicologia, Università degli studi di Bologna

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

IntroduzioneCon lo sviluppo della stereofonia nei decenni passati furono messi in atto diversi

tentativi per migliorare il realismo spaziale del suono, come la quadrifonia o altre sperimentazioni multi-speaker, tipo il sistema Dolby Surround o il sistema inglese Ambisonic. Questi sistemi hanno soltanto in parte raggiunto lo scopo di dare una maggiore naturalezza e spazialità al suono e richiedono sia in fase di registrazione sia di ascolto l’impiego di ingombranti e complicate apparecchiature.

Utilizzando una tecnologia differente, basata su un più approfondito studio dei meccanismi relativi all’ascolto binaurale e dei moduli che sottostanno alla ricezione, alla percezione e all’interpretazione del segnale acustico (Blauert,1983; Lehnert and Blauert, 1992), dai primi anni ‘80, si è sviluppata una linea di ricerca tesa alla costruzione di speciali microfoni -trasduttori olofonici che consentono di riprodurre le caratteristiche spaziali del suono con un impianto stereofonico tradizionale. Le ricerche sull’olofonia al di là della loro applicazione commerciale in vari contesti hanno una notevole rilevanza scientifica in quanto ci consentono di delineare meglio l’influenza che la qualità del suono può avere sulla rappresentazione del significato che ad esso attribuiamo.

In quest’ottica ci siamo proposti di iniziare un’indagine su quanto la tecnica olofonica possa essere un fattore importante nell’induzione delle emozioni. L’esperimento che presentiamo costituisce, naturalmente, soltanto un primo, limitato, passo in questa direzione.

MetodoDopo un pre-test effettuato su un ampio campione di stimoli si sono prodotti una

serie di 6 brevi stimoli sonori riguardanti rispettivamente il suono di una campana tibetana, di un carillon, di un paio di nacchere, il rumore di un asciugacapelli e due diverse voci umane maschili. Ogni stimolo è stato prodotto in tre diverse modalità: registrazione monofonica, stereofonica e olofonica per un totale, quindi di 18 stimoli.

25 soggetti in gran parte studenti universitari o loro familiari (età media anni 25,2; range 16-38), 19 maschi e 6 femmine hanno ascoltato in cuffia in una serie di sedute individuali gli stimoli prima descritti presentati in ordine casuale e con un intervallo di 20 secs tra uno stimolo e l’altro. Su un apposito foglio di risposta i soggetti hanno indicato per ogni stimolo: 1) la direzionalità del suono (frontale, sinistra-destra, alto-basso); 2) il grado di movimento attribuito allo stimolo, su una scala unipolare a 6 punti da 0=immobile a 5=estremamente mosso; 3) il grado di piacevolezza-spiacevolezza attribuito allo stimolo, su una scala bipolare a 7 punti da –3=estremamente spiacevole a +3=estremamente piacevole; 4) il grado di naturalezza-innaturalezza attribuito allo stimolo su una scala bipolare a 7 punti da –3=estremamente innaturale a +3=estremamente naturale.   

Secondo la nostra ipotesi il suono o il rumore olofonico avrebbe dovuto essere percepito come più mosso, più piacevole e più naturale rispetto allo stesso suono o rumore prodotto sia in modalità monofonica sia in modalità stereofonica.

RisultatiI risultati hanno confermato ampiamente la nostra ipotesi. Per quanto riguarda la

direzionalità i soggetti hanno ben percepito le differenze tra i suoni monofonici, stereofonici e olofonici: i primi sono stati percepiti come prevalentemente frontali, i secondi come frontali o provenienti da destra e sinistra, i terzi come provenienti da più direzioni

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

(frontali, destra-sinistra, alto-basso). Per quanto riguarda l’attribuzione del grado di movimento, piacevolezza e naturalezza i risultati sono sintentizzati nella tabella in calce. Tutte le differenze tra le tre condizioni sono altamente significative (p<.001), ad eccezione del rapporto tra stimoli monofonici e stereofonici che è risultato non significativo per quanto riguarda il grado di piacevolezza e che presenta una minore significatività (p<.05) per quanto riguarda il grado di naturalezza.

Condizione Movimento Piacevolezza Naturalezza

Monofonica 1,147 -,167 -,067Stereofonica 2,407 +,067 +,240

Olofonica 4,280 +1,327 +1,480

ConclusioniIn sostanza l’ascolto olofonico risulta più piacevole e naturale sia di quello

monofonico sia di quello stereofonico. È importante sottolineare che la differenza tra olofonia e stereofonia appare quasi sempre più marcata rispetto a quella tra monofonia e stereofonia nelle dimensioni della piacevolezza e della naturalezza. Questi primi dati ci consentono di ipotizzare che il sistema olofonico permetta un ascolto reale e consenta un più efficace trasferimento delle informazioni emotive che si vogliono indurre. I risultati di alcune indagini preliminari sugli spettri di potenza del segnale elettroencefalografico (EEG), nonché variazioni del ritmo cardiaco e respiratorio, rilevabili in alcuni stimoli olofonici emotivamente connotati rispetto a stimoli neutri sembrano andare in questa direzione.

Riferimenti bibliograficiBlauert, J. (1983). Hearing - Psychological Bases and Psychophysics, Springer, Berlin New

York.Lehnert, H. and J. Blauert, J.(1992). Principles of Binaural Room Simulation. Journ. Appl.

Acoust., 36:259-291.

PERCEZIONE CORPOREA E RELAZIONI INTERPERSONALI ALL’INTERNO DELLE DINAMICHE

DI CLASSE

Annalisa Pelosi, Marina Pinelli, Raffaele TucciUniversità degli Studi di Modena, Dipartimento di Scienze Biomediche

IntroduzioneIntento della nostra ricerca è quello di mettere in correlazione fenomeni sociali e di

gruppo con vissuti dell’individuo, ovvero verificare l’esistenza di modulazioni tra gli aspetti cognitivi (misurati attraverso il rendimento scolastico), ed emozionali (in specifico la

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

percezione del sé corporeo) dell’adolescente e dinamiche sociali, sia genericamente amicali, sia più specificatamente legate alla coesione del gruppo-classe d’appartenenza del singolo. L’importanza che il gruppo riveste nella acquisizione di una buona percezione di sé dell’adolescente è già stata ampiamente dimostrata dalla letteratura (Muss, 1976; Coleman, 1983; Loprieno, 1986; Berndt, 1992; Damon, Hart, 1992; De Wit, Van der Veer, 1993; Palmonari,1993): nel gruppo di amici l’adolescente si rispecchia e conferma o disconferma la propria immagine. Particolarmente critico durante questo periodo della vita è il vissuto corporeo, che sembra influenzare le relazioni sociali in senso positivo o negativo, anche se con intensità diverse tra maschi e femmine. Il fenomeno potrebbe essere letto anche nell’altro senso: relazioni sociali non buone si accompagnano a un senso di inadeguatezza da un punto di vista fisico. Rispetto al gruppo degli amici, come si colloca il gruppo classe? Quale importanza ha relativamente alle relazioni sociali, al vissuto corporeo e non ultimo al rendimento scolastico? La classe è un gruppo orientato funzionalmente e/o un gruppo di amici? Una classe coesa è una classe orientata al compito o una classe solidale? Un’alta coesione all’interno della classe è funzionale alla performance del singolo?

MetodoIl campione è costituito da 636 studenti di un Istituto Tecnico per Geometri (463

maschi - 73,7% - e 165 femmine -26,3% -), di età media 16.7 anni. Ad essi è stata somministrata durante il normale orario scolastico, in forma

collettiva e anonima, dagli insegnanti stessi, la seguente batteria di test: un questionario (che prende spunto dal Group Environment Questionnaire, Carron, 1985) per la misurazione della coesione nei cinque domini dell’attrazione individuale per il gruppo focalizzata ai rapporti sociali (AGS), dell’attrazione individuale per il gruppo focalizzata sul compito (AGC), dell’integrazione del gruppo focalizzata ai rapporti sociali (IGS), della solidarietà di classe e della coesione di genere; un questionario (Kellman, 1993) per le relazioni interpersonali di tipo amicale; una scala del Test Multidimensionale dell’Autostima (TMA: Bracken, 1993) relativa al vissuto corporeo. Sono state inoltre raccolte informazioni relative ai voti scolastici nelle materie professionalizzanti.

RisultatiNella coesione, il peso del dominio “orientamento al compito” è

significativamente maggiore dell’integrazione orientata ai rapporti sociali (t= 4.3, p<.01). Non è stata trovata nessuna correlazione tra i cinque domini della coesione di classe e le relazioni amicali. Il vissuto corporeo è correlato con le relazioni interpersonali (r=.472, p>.01) e con la coesione di genere, ma non con le scale della coesione di orientamento sociale e al compito. Vi sono differenze significative nel TMA tra maschi e femmine (F= 84.2, p<.01), che ottengono un punteggio inferiore di 10 punti. Anche nelle relazioni interpersonali sono i ragazzi ad ottenere un maggior punteggio (F= 3.7, p<.05); i punteggi delle relazioni interpersonali sono significativamente peggiori (F= 4.7, p<01) in relazione a performance scolastiche alte. La solidarietà di classe presenta variazioni significative in relazione alla classe d’appartenenza (F= 4.3, p< .01). La coesione di genere mostra differenze significative per sesso (t= -7.9, p<.01) e per rendimento scolastico (F= 3.1, p< 05).

Conclusioni

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Per quanto riguarda il campione preso in esame sembrerebbe che la percezione del sé corporeo sia in relazione con le scelte amicali, ma che sia indipendente dalle dinamiche di attrazione o esclusione verso o dal gruppo classe. Probabilmente quest’ultimo, in quanto gruppo imposto e non scelto, è orientato funzionalmente, per cui vengono a mancare le motivazioni affettive e le motivazioni di durata. La classe si prefigura dunque come un gruppo di lavoro temporaneo, le cui dinamiche prosociali non devono essere equivocate con le relazioni amicali, da esse distinte per essere spontanee e durature. Buone relazioni all’interno della classe non preservano quindi il ragazzo/a dallo sviluppare un negativo schema corporeo. Inoltre migliori performance scolastiche corrispondono a peggiori relazioni interpersonali, e sembrano essere indipendenti dai domini della coesione.

Riferimenti bibliograficiBerndt, T.J. (1992) Friendship and fiends’ influence in adolescence. Current Directions in

Psychological Science, 1:156-159.Bracken, T. (1993). Test multidimensionale dell’autostima.. Trento, Edizioni Erikson.Carron, A.V., Widmeyer, W.N., Brawley, L.R. (1985). The development of an instrument to

assess cohesion in sport teams: the Group Environment Questionnaire. Journal of Sport Psychology, 7: 244-266.

Coleman, J.C. (1980). La natura dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.Damon, W., Hart, D. Self-understanding and its role in social and moral development. In

M.H. Bornstein e M.E. Lamb (Eds,) Developmental Psychology: An advanced textbook, Hillsdale NJ:Erlbaum.

De Wit, J., Van der Veer, G. (1993). Psicologia dell’adolescenza. Teorie dello sviluppo e prospettive di intervento. Firenze, Giunti.

Loprieno, M., a cura di (1986). Identità e valori nell’adolescenza. Pisa, ETS.Muss, R.E. (1976). Le teorie psicologiche dell’adolescenza. Firenze, La Nuova Italia.Palmonari A., a cura di (1993) Psicologia dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.

ATTENZIONE, PERICOLO!

IL PROCESSAMENTO EMOZIONALE DI STIMOLI MINACCIOSI

Michela Sarlo, Giulia Buodo*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Da un punto di vista evoluzionistico, appare verosimile che stimoli minacciosi, e quindi potenzialmente dannosi per la sopravvivenza, abbiano una priorità di elaborazione: l’analisi dei semplici attributi percettivi di tali stimoli avverrebbe in stadi molto precoci dell’elaborazione dell’informazione e farebbe capo a meccanismi di processamento preattentivi, automatici ed estremamente rapidi, in grado di favorire il successivo processo

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di completa estrazione del significato (Öhman, 1997). Una tale priorità sarebbe inoltre funzionale alla preparazione all’azione (attacco/fuga), dimensione implicitamente sottostante al concetto stesso di emozione.

Parallelamente, numerosi studi sostengono che i volti godano di un’elaborazione privilegiata, essendo processati in modo olistico, come un’unica configurazione, piuttosto che come insieme di caratteristiche discrete (Tanaka e Farah, 1993) e che l’identificazione delle espressioni facciali avvenga in modo automatico, senza gravare sull’impiego di risorse di processamento (White, 1995). L’universale capacità di riconoscere ed identificare le diverse espressioni facciali, fondamentale meccanismo adattivo di comunicazione sociale ed emozionale, sarebbe infatti innata, o “hard-wired” e favorirebbe un’estrazione rapida e automatica dell’informazione emozionale. In linea con quanto affermato in precedenza, alcuni dati empirici sostengono, anche se non univocamente, che il meccanismo che governa l’elaborazione dei volti raggiunga la massima efficienza nell’individuare segnali di potenziale minaccia (Hansen e Hansen, 1988).

Scopo del presente esperimento era di mettere in relazione la ribadita rilevanza motivazionale di alcune categorie di stimoli con l’impegno attentivo richiesto per la loro elaborazione.

Si intendeva valutare: a) il processamento delle informazioni di minaccia, contrapposte ad altri contenuti emozionali, veicolate o meno dallo stimolo “volto”; b) l’andamento temporale e la peculiare precocità di elaborazione legata ad emozioni evoluzionisticamente rilevanti; c) l’eventuale influenza dell’impegno attentivo sul consolidamento delle tracce mnestiche.

Sono state presentate a 49 soggetti 36 immagini standardizzate tratte dall’International Affective Picture System (IAPS, Center for the Study of Emotion and Attention, 1999), a contenuto piacevole, spiacevole e neutro, suddivise nelle seguenti classi: volti (sorridenti, minacciosi e neutri) e non-volti (avventura/sport, minacce e oggetti domestici). Nell’ambito di un paradigma del doppio compito sono stati misurati i tempi di reazione (TR) semplici ad un tono acustico presentato durante la visione delle immagini a 300, 800 o 1800 msec dall’onset. Subito dopo la sessione sperimentale è stata effettuata una prova di rievocazione libera delle immagini mostrate chiedendo al soggetto di riportare il maggior numero di dettagli possibile.

I risultati hanno mostrato TR globalmente inferiori per le immagini spiacevoli rispetto alle neutre e alle piacevoli, sostenendo la priorità di elaborazione per le informazioni di minaccia, in linea con quanto riportato in letteratura. Inoltre, i volti minacciosi hanno prodotto i TR più rapidi, mostrando di richiedere una quantità minima di risorse di processamento, probabilmente perché veicolano l’informazione rilevante per la sopravvivenza attraverso l’espressione facciale, immediatamente e automaticamente analizzata. Dall’analisi dell’andamento temporale dell’impegno attentivo è emerso che le informazioni a contenuto spiacevole vengono estratte precocemente permettendo una successiva e progressiva maggiore disponibilità di risorse (riduzione dei TR), mentre per le altre categorie si verifica una stabilizzazione.

Nonostante la minor quantità di risorse richiesta per l’elaborazione, la rievocazione degli stimoli spiacevoli è risultata globalmente più dettagliata rispetto a quella degli stimoli piacevoli e neutri. Appare vantaggioso, d’altra parte, in funzione della rilevanza evoluzionistica di tali stimoli, ricordare i particolari di una situazione minacciosa, utili per il consolidamento di uno schema mnestico efficace. Tale effetto non è così evidente per i volti

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

minacciosi, per i quali, verosimilmente, i dettagli non risultano di grande utilità una volta identificato il messaggio che il volto esprime.

Riferimenti bibliograficiCenter for the Study of Emotion and Attention {CSEA-NIMH} (1999). The international

affective picture system: digitized photographs. Gainesville, FL: The Center for Research in Psychophysiology, University of Florida.

Hansen, C.H., & Hansen, R.D. (1988). Finding the face in the crowd: an anger superiority effect. Journal of Personality and Social Psychology, 54, 917-924.

Öhman, A. (1997). As fast as the blink of an eye: evolutionary preparedness for preattentive processing of threat. In: P.J. Lang, R.F. Simons, & M.T. Balaban (Eds.), Attention and orienting: sensory and motivational processes. Hillsdale, NJ: Erlbaum.

Tanaka, J.W., & Farah, M. (1993). Parts and wholes in face recognition. Quarterly Journal of Experimental Psychology, 46A, 225-245.

White, M. (1995). Preattentive analysis of facial expression of emotion. Cognition and Emotion, 9, 439-460.

RELAZIONI PERSONALI, ANTECEDENTI DI EMOZIONI, ED ETICHETTE EMOZIONALI 5

Vanda L. ZammunerDipartimento di Psicologia dello sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

Secondo i risultati di varie ricerche, la conoscenza che gli individui hanno delle emozioni comprende anche informazioni circa gli eventi che tipicamente suscitano questa o quella emozione (e.g., Shaver et al. 1987). I termini del lessico emozionale a loro volta presumibilmente denotano, oltre ad altri aspetti (e.g., l’intensità dell’emozione), anche tali legami (e.g., Conway e Beckerian, 1987). La ricerca che verrà presentata si prefiggeva di analizzare le rappresentazioni dei legami eventi-emozioni allo scopo di indagare quali e quanti termini emotivi sono associati a diversi tipi di eventi che possiamo ipotizzare siano antecedenti (più o meno) prototipici di questa o quell’emozione. L’ipotesi era che il grado di omogeneità, o uniformità tra i soggetti, nell’etichettare l’esperienza emotiva suscitata dagli eventi variasse in funzione: (i) della natura dell’esperienza emotiva (più o meno articolata e complessa), (ii) di alcune caratteristiche specifiche del tipo di evento - in particolare, a seconda della natura del rapporto interpersonale che lega chi esperisce l’emozione, che chiameremo protagonista (P), a chi causa l’evento, che chiameremo agente (A), e infine (iii) del grado in cui uno specifico termine è di livello “basilare”, utile a designare economicamente esperienze emotive anche tra loro diverse, piuttosto che di livello “subordinato”, atto cioè a specificare una gamma ristretta di esperienze. In altre parole, dovremmo trovare che se un certo evento tende a suscitare esperienze emotive piuttosto simili nella maggior parte delle persone, i soggetti le etichetteranno in modo

5 Desidero ringraziare N. Girtler per il suo prezioso aiuto nella preparazione degli stimoli sperimentali, nella raccolta e nell’analisi dei dati

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

omogeneo, utilizzando pochi termini, di significato molto simile; viceversa, se l’evento suscita un’esperienza emotiva complessa ed articolata, e/o esperienze diverse a seconda di certe sue caratteristiche specifiche e/o di chi ne sono i protagonisti, soggetti diversi etichetteranno l’esperienza in modi anche piuttosto dissimili.

MetodoLa ricerca verte su 10 emozioni, spesso indagate in letteratura e presumibilmente

frequenti, sia “di base” che “complesse”: Gioia, Orgoglio, Tristezza, Paura/Ansia, Sorpresa, Rabbia, Disgusto, Colpa, Imbarazzo, e Gelosia. I rapporti interpersonali tra protagonista (P) e agente (A) indagati furono 7:    A è rispettivamente (i) Sé stesso, (ii) Genitore (padre/madre) di P, (iii) Fratello/sorella, (iv) Partner, (v) Amico/a, (vi) Conoscente, (vii) Boss (capo/un superiore) nell’ambito del lavoro. Per ogni emozione furono costruite 7 vignette che riportavano un evento causato da uno di questi 7 agenti, per un totale di 69 eventi (non fu testato, in quanto irrealistico, l’evento di gelosia causato dal Sé) - per es., P scopre che A, suo fratello, spaccia droga; P litiga con A, suo partner; P “perde” A, suo amico, perché la famiglia di A si trasferisce all’estero; A, padre di P, viene ricoverato all’ospedale per un incidente d’auto; A, capo di P, lo promuove e gli aumenta lo stipendio; A, amico di P, vince un importante concorso; P fallisce un esame perché non ha studiato a sufficienza. Le vignette furono presentate ai soggetti (N= 81; 42 M, 39 F) in uno di più ordini randomizzati in un questionario che chiedeva loro di esprimere 2 giudizi: dire quale emozione (un solo termine) proverebbe nella situazione descritta (a) la maggior parte delle persone, (b) essi stessi. I soggetti sceglievano l’emozione da un elenco di 80 termini prescelti come rilevanti in base alla letteratura, comprendenti, oltre a quelle sopracitate, emozioni quali allegria, dispiacere, indignazione, stupore, preoccupazione, soddisfazione, invidia, e terrore. Se lo ritenevano necessario, potevano supplire essi stessi un termine diverso.

Le scelte dei termini emozionali da parte dei soggetti in rapporto alle vignette proposte (138 giudizi per ciascun soggetto) furono tabulate in una matrice e sottoposte a varie analisi, tra le quali l’analisi delle corrispondenze (AC).

RisultatiPer etichettare le vignette loro proposte, i soggetti utilizzarono 236 termini in tutto

- 156 termini ‘nuovi’, oltre agli 80 pre-elencati. Una prima analisi dei giudizi permise di ridurre a 94 (80 originali, più 14 ‘nuovi’) il numero di termini emozionali necessari a dar conto di tali giudizi. La riduzione fu effettuata considerando sia la frequenza di ciascuno dei termini prodotti spontaneamente, sia il grado di somiglianza concettuale con i termini pre-elencati nel questionario. La risultante matrice di dati (94 termini x 69 situazioni x 2 giudizi (sé stessi, in generale) fu sottoposta ad una prima AC, i cui risultati permisero di ridurre ulteriormente la matrice a 17 categorie emozionali - le 10 elencate sopra, più altre 7, quali Contentezza, Indignazione e Preoccupazione - e 69 eventi, matrice che fu sottoposta ad una ulteriore AC i cui risultati permisero di ridurre ulteriormente il numero di tipi di eventi distinti. La (terza ed ultima) analisi AC riguarda la matrice ‘definitiva’ di 17 categorie emozionali x 32 eventi - sono state mantenute le distinzioni dovute alla natura del rapporto interpersonale implicato soprattutto per Rabbia, Disgusto, Sorpresa, e Imbarazzo; viceversa, non vi sono distinzioni significative connesse all’etichettamento degli eventi di Gioia e Paura, e sono poche quelle per gli eventi di Colpa, Orgoglio e Tristezza). I risultati

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

mostrano che l’etichettamento degli eventi è spiegato da 6 fattori (varianza spiegata: 80.9%): non sorprendentemente, il primo (22.4%) distingue tra (eventi che suscitano) emozioni di tono edonico positivo, e quelle di tono negativo; il secondo (15.9%) distingue tra Paura/preoccupazione e Rabbia/gelosia, il terzo (12.9%) tra Colpa/imbarazzo e Sorpresa/Dispiacere, il quarto (12.1%) tra Colpa/sorpresa/stupore e Gelosia/rabbia/imbarazzo, il quinto (10.1%) tra Tristezza/dispiacere e Imbarazzo, e infine il sesto (7.4%) tra Disgusto (anche nell’accezione di Indignazione)/gelosia/rabbia e Sorpresa/stupore. I dati mostrano in sintesi che il tipo specifico di evento considerato (Sé/qualcuno viene promosso sul lavoro, vince un concorso, ecc.) non influisce molto sulla natura delle emozioni positive che suscita, perlomeno secondo l’opinione dei soggetti - ad esempio, gioia è l’etichetta scelta non solo in rapporto alla quasi totalità degli eventi di Gioia, ma anche l’etichetta che definisce molti eventi di Orgoglio; questi ultimi, naturalmente, sono spesso etichettati anche come Orgoglio, oltre che, come alcuni di quelli di Gioia, come Contentezza o Soddisfazione. La Sorpresa - ma anche Sbalordimento e Stupore - è, sempre secondo i soggetti, un’emozione che caratterizza non solo gli eventi ipotizzati quali antecedenti tipici di questa emozione, ma abbastanza spesso anche gli eventi che suscitano Disgusto, e meno frequentemente, Tristezza, Rabbia, e altre emozioni negative. Tristezza e Dispiacere sono a loro volta emozioni che caratterizzano non solo gli eventi loro prototipici, ma emozioni onnipresenti, associate cioè alla maggior parte degli eventi che suscitano emozioni negative, e dunque anche in relazione a tutti i tipi di rapporto interpersonale indagati. Lo stesso vale per la Rabbia che, associata in misura prevalente agli eventi prototipici, è tuttavia spesso presente come etichetta per altri tipi di eventi negativi. Paura, Gelosia, Disgusto/indignazione, e Colpa e Imbarazzo sono infine etichette che i soggetti attribuiscono prevalentemente solo agli eventi ipotizzati come prototipici per ciascuna di esse - anche se vi è uno stretto rapporto tra Colpa e Imbarazzo (nell’accezione spesso di Vergogna).

Nel complesso i dati ottenuti mostrano: (i) la maggiore articolazione presentata dalle emozioni negative rispetto a quelle positive; (ii) il fatto che certi termini emotivi (quali rabbia, disgusto, imbarazzo) designano esperienze emotive di natura molto diversa tra loro; (iii) gli eventi variano significativamente tra loro nel grado in cui i soggetti ritengono che suscitino un’esperienza emotiva di questa piuttosto che quella natura (e.g., rabbia piuttosto che tristezza; disgusto piuttosto che rabbia, sorpresa, tristezza);    (iv) la natura del rapporto interpersonale tra l’agente A, cioè chi causa l’evento, e il protagonista P, colui/colei che esperisce l’emozione, è una variabile importante nel definire la natura dell’esperienza emotiva soprattutto quando essa è di tono edonico negativo, e quando implica che l’azione di A blocca (Rabbia), ‘ferisce’ (Disgusto), o mette a repentaglio in qualche modo (Imbarazzo, Colpa, Gelosia) gli scopi immediati o a lungo termine di P (e.g., ottenere x, dove x può essere il superamento di un esame, una promozione, l’amore del partner, ecc.).

I dati ottenuti, oltre che nella definizione del significato dei termini del lessico emozionale (e.g., vedi Zammuner 1998; Zammuner e Galli 1997), sono a mio avviso pertinenti anche allo scopo di costruire un data-base dei legami eventi-emozioni così come se li rappresentano gli individui.

Riferimenti bibliografici

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COMUNICAZIONI - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Zammuner, V.L. (1998). Concepts of emotion: ‘Emotionness’, and dimensional ratings of Italian emotion words. Cognition and Emotion, 12, 243-272.

Zammuner, V.L., Galli, C. (1997). La conoscenza del lessico emozionale negli adolescenti e nei giovani. Congresso AIP, Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri.

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

ERGONOMIA

ASSESSMENT ON LINE DEL PROFILO COGNITIVO-MOTIVAZIONALE DI UTENTI INTERNET. UNO

STUDIO PILOTA

Maurizio Cardaci, Amedeo Claudio Casiglia, Barbara Caci, Alessandra Attardi Università degli studi di Palermo

Introduzione La sempre più rapida diffusione del fenomeno Internet (in particolare del World

Wide Web) ha generato una popolazione di utenti, il cui profilo cognitivo-motivazionale è ancora poco conosciuto. A fronte dell’aumento esponenziale di variegate tipologie di “navigatori”, diventa oggi possibile utilizzare le risorse di Internet per condurre ricerche on-line (OLR) attraverso strumenti presentati e supportati direttamente dal network. Da un punto di vista metodologico, nelle indagini on-line i soggetti non sono estratti secondo specifiche procedure di campionamento né contattati direttamente dal ricercatore. Questi non ha dunque altra possibilità di sollecitarne la partecipazione se non quella di costruire e diffondere in rete strumenti, con caratteristiche di veri e propri “attrattori virtuali”, cioè ben visibili e adeguatamente pubblicizzati. Utilizzando un’apposita check-list multidimensionale fatta circolare su un certo numero di siti WEB del circuito universitario italiano, la presente indagine fornisce una prima descrizione di alcuni aspetti del profilo cognitivo-motivazionale di utenti Internet.

Metodo Hanno partecipato alla ricerca 160 soggetti (64 donne e 96 uomini) rispondendo

nell’arco di circa 5 mesi alla check-list raggiungibile sotto forma di link nelle home pages di diversi atenei italiani (Palermo, Padova, Lecce, Perugia ecc.). Per evitare all’utente un sovraccarico attenzionale il tempo necessario alla compilazione era di circa tre minuti e le modalità di risposta (assai semplici) si basavano sul point and click. Per la restituzione automatica dello strumento era sufficiente cliccare sul pulsante “invia form”. Lo strumento utilizzato è composto da 60 item relativi a quattro differenti aree: 1. informazioni generali (genere; età; livello di istruzione; professione; provenienza geografica); utilizzo della rete (modalità e motivazioni) 2. caratteristiche di personalità (riferibili al modello dei Big Five) 3. stile cognitivo-percettivo (modello ecologico di Satow); 4. convinzioni psicoepistemiche (razionalismo vs. irrazionalismo; dualismo mente/corpo)

Risultati I soggetti si caratterizzano per un livello di istruzione medio-alto (il 56% ha la

laurea). La maggior parte risiede al sud, benché anche il nord ed il centro siano adeguatamente rappresentati. Per quanto riguarda le loro caratteristiche di personalità e lo stile cognitivo, emerge un atteggiamento aperto e positivo nei confronti della realtà. Analogamente, la buona stabilità emotiva, le convinzioni prevalentemente “razionalistiche”

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

e l’uso contenuto di Internet rilevati nella popolazione della ricerca non avvalorano le tesi di quanti associano l’interesse per Internet a bisogni di fuga in mondi virtuali. Differenze individuali percettivo-cognitive quali la preferenza per ambienti ricchi di stimoli sensoriali e percettivamente vari costituiscono altresì l’antecedente del livello di interesse verso l’uso di una pluralità di servizi Internet.

Conclusioni Nonostante il loro carattere provvisorio, i suddetti risultati rivestono, a nostro

parere, un certo interesse. Le risorse telematiche disponibili in Internet possono infatti offrire allo psicologo un adeguato supporto per nuovi strumenti di assessment costruiti secondo appropriati criteri ergonomici.

Riferimenti bibliograficiCardaci, M., Ceresia, F. (1995) Psycho-Epistemic Inventory. Uno strumento di valutazione

di costrutti psico-epistemologici. Bollettino di Psicologia Applicata, 213, 27-30.Mc Crae, R.R. e John, O.P. (1992), An Introduction to the Five-Factor Model and its

Applications. Journal of Personality, 60, 2, 175-215.Satow A., (1986), An ecological approch to mechanisms determining individual differences

in perception. Perceptual and Motor Skills, 62, 983-998.

FRASEOLOGIA STANDARD E DEVIAZIONI PROCEDURALI NELLE COMUNICAZIONI FRA

CONTROLLORI DI VOLO E PILOTI

Paola Corradini *, Cristina Cacciari *, Silvana Contento **, Roberto Nicoletti**** Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Modena ** Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Bologna *** Dipartimento di Psicologia, Università di Padova

IntroduzioneQuesta ricerca è parte di un più ampio progetto che indaga aspetti cronobiologici e

comunicativi dell’attività di un campione di controllori di volo di un aeroporto dell’Italia settentrionale (Nicoletti, R. et al., 1998; Cicogna, P. et al., 1998). È particolarmente rilevante l’analisi delle comunicazioni in questo ambito perché queste si dovrebbero svolgere nel rispetto di una fraseologia operativa standardizzata che stabilisce l’uso di contenuti, sintassi, formati, regole di pronuncia convenzionali. Deviazioni da questa fraseologia possono comportare ambiguità comunicative e dare luogo a problemi di varia entità a livello operativo (Morrow, D. et al., 1993; Billings, C. E. & Cheaney, E. S., 1981; Grayson, R. L. & Billings, C. E., 1981). Per quanto riguarda i fattori comunicativi sono stati analizzati dei campioni di comunicazioni svoltesi fra controllori di radar e di torre e piloti con l’obiettivo di valutare: a) se e con quale entità si verificassero fenomeni di ambiguità, attraverso lo

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

studio dell’organizzazione delle comunicazioni e di quanto queste rispettassero le procedure operative e la fraseologia standard prescritta; b) quali difficoltà comunicative o deviazioni procedurali si verificassero più frequentemente e che ricadute avessero sulle successive comunicazioni ed operazioni; c) se ci fossero delle correlazioni fra caratteristiche delle comunicazioni ed altre variabili di tipo ambientale (carico di lavoro) e cronopsicologico (livello di vigilanza). La presente comunicazione si limiterà ai punti a) e b).

MetodoDurante l’arco di una settimana, considerata rappresentativa del traffico aereo

medio dell’Aeroporto, sono stati selezionati 5 giorni lavorativi (4/8 maggio 1998); per ogni giorno e per ognuna delle due posizioni operative oggetto di studio, sono stati raccolti campioni di sequenze comunicative svoltesi tra controllori di torre e di radar ed equipaggi di volo (piloti). Sono state considerate le seguenti variabili:

a) turno di lavoro (sono previsti tre tipi di turni: mattino, pomeriggio, notte);b) carico di lavoro (massimo e minimo) stimato sul numero di aeromobili gestiti

durante il turno in base al riassunto dei movimenti aerei fornito dal CAV (Centro di Assistenza al Volo).

Sono stati così ottenuti, per ogni giorno, dodici campioni di sequenze comunicative (postazione ´ turno ´ carico di lavoro) di 10’ circa. Le comunicazioni sono poi state trascritte, revisionate con la consulenza di un controllore esperto, quindi analizzate.

Per l’analisi, di tipo qualitativo e quantitativo, è stata elaborata una tassonomia degli aspetti comunicativi ritenuti rilevanti in base sia ai dati e alle osservazioni riportati in letteratura (Cushing, 1994; Morrow, D. et al., 1991; Seamster, T., et al., 1992; ; NASA-ASRS,1994), sia ad interviste svolte con piloti e controllori di volo. Le categorie così determinate sono le seguenti:

1) transazione routinaria vs. non-routinaria (cioè in cui si sia verificata una qualche forma di incomprensione che abbia poi alterato il normale svolgersi della conversazione);

2) problemi dovuti a malfunzionamenti del canale (radio);3) confusioni fra omofoni (numeri, callsign, parole);4) mancato/scorretto uso della fraseologia:4.a) problemi interlinguistici (uso della lingua italiana, passaggio dall’italiano

all’inglese e vv.);4.b) uso di prassi linguistiche (prassi collettive, prassi individuali, prassi nella

dizione dei numeri);4.c) omissioni (di clearances, di informazioni, di parametri, di parole o numeri);4.d) acknowledgements (a. assente, a. privo di readback, a. con readback parziale);4.e) callsign (sigla di identificazione dell’aeromobile)/nome della stazione di

controllo assenti o detti scorrettamente, relativamente sia alla stazione emittente che a quella ricevente;

4.f) ridondanze (ripetizioni o locuzioni inutili, forme di cortesia e saluti, espressioni di negoziazione più o meno esplicita);

5) comunicazioni basate su modelli mentali inadeguati.Per ogni categoria sono state calcolate: 1) la frequenza di occorrenza di ogni

fenomeno e 2) la media di occorrenza, considerando come universo (n) il numero totale di

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

turni di parola verificatosi nel turno di lavoro in questione, separatamente per controllori e piloti.

RisultatiI dati ottenuti consentono, in prima istanza, alcune osservazioni di carattere

qualitativo.a) La distribuzione dei fenomeni comunicativi considerati non sembra presentare

differenze significative e sistematiche né in relazione ai diversi tipi di turno, né in relazione al maggiore o minore carico di lavoro. Per quanto riguarda i controllori, questi dati sembrano essere coerenti con i risultati relativi al livello di vigilanza autovalutato dai soggetti per mezzo della scala GVA (Global Vigor Affect Scale): i controllori percepiscono il proprio livello di vigilanza sempre piuttosto elevato e non riferiscono cali nei periodi in cui questi fisiologicamente si determinano, come durante la notte.

b) Non sembrano esservi differenze sistematiche nei formati comunicativi utilizzati da controllori di radar vs. controllori di torre, e nemmeno fra controllori e piloti. Le comunicazioni si realizzano in base ad una fraseologia di uso diffuso e condiviso che si discosta considerevolmente da quella standardizzata.

c) A conferma del punto b) è la diversa frequenza con cui si manifestano le deviazioni procedurali analizzate: in circa un terzo degli scambi comunicativi vengono utilizzate “prassi collettive”, cioè espressioni non conformi ai formati standard ma ampiamente adottati e compresi, quindi resi convenzionali dall’uso. Prassi collettive molto diffuse sono pure una serie di omissioni di termini che comunemente vengono tralasciati perché inferibili dal contesto (ma che invece dovrebbero essere enunciati) e l’uso di forme di cortesia e saluti che, al contrario, dovrebbero essere omessi. Molto rare sono invece deviazioni più gravi, come omissioni di autorizzazioni (mai verificatesi) o di parametri rilevanti o acknowledgements assenti o totalmente privi di readback.

d) Molto frequente è l’uso della lingua italiana quando dovrebbe invece essere usato solo l’inglese. Ciò si associa, inoltre, ad un forte aumento di espressioni ridondanti che sembra rendere molto più probabile lo “scivolamento di codice”, cioè il passaggio dal linguaggio standard a quello naturale con il conseguente appesantirsi della comunicazione e possibili ambiguità semantiche e lessicali.

ConclusioniIl dato più evidente che emerge è l’utilizzo, nella prassi operativa, di un linguaggio

che si basa sì sulla fraseologia standard, ma che se ne discosta in modo rilevante attraverso l’uso di prassi comunicative ampiamente condivise, utilizzate e comprese. In condizioni normali questo sembra non produrre fenomeni di ambiguità con conseguenti rischi per la sicurezza, ma si può ipotizzare che, in particolari situazioni, il discostarsi dalla fraseologia standard costituisca un indebolimento delle misure di sicurezza e salvaguardia dall’errore del sistema (si tenga presente che la fraseologia standard è proprio mirata a minimizzare il verificarsi di ambiguità, fraintendimenti e incomprensioni).

I risultati sono comunque ancora in corso di analisi. Ulteriori approfondimenti riguarderanno sia gli aspetti comunicativi che le possibili correlazioni fra questi e le altre variabili ambientali e cronopsicologiche considerate.

Ricerca eseguita con il contributo MURST ex 40% - 97

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Riferimenti bibliograficiBillings, C. E. & Cheaney, E. S. (1981a). Information transfer problems in the aviation

system. (NASA TP 1875) Moffet Field, CA: NASA-Ames Research Center.Billings, C. E. & Cheaney, E. S. (1981b). The information transfer problem: summary and

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Nicoletti, R., Alzani, A., Depolo, M., Iani, C., Scozzari, M. (1998). Livelli di vigilanza nel controllo del traffico aereo. Presentato al Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale dell’AIP, Firenze, 1998.

Seamster, T., Cannon, J. R:, Pierce, R. M. & Redding, R. E. (1992). Analysis of en route air traffic controller team communication and controller resource management (CRM). In: Proceedings of the Human Factors Society 36th Annual Meeting.

L’USABILITÀ A QUATTRO DIMENSIONI

Francesco Di Nocera, Rosaria SalpietroDipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

Nella letteratura sulla Human-Computer Interaction si fa spesso riferimento alla natura multi-dimensionale dell’usabilità (Chin et al., 1988; Jordan, 1994). Tuttavia, malgrado l’accordo sull’idea che diversi fattori contribuiscano a definire questo costrutto, due possibili impostazioni si contrappongono nel tentativo di definire l’esatta natura di tali dimensioni. Fondamentalmente, l’usabilità può essere considerata in termini di attributi specifici di un prodotto o in termini di criteri soggettivi di valutazione adottati dall’utente che interagisce con quel prodotto. La prima prospettiva di ricerca è spesso adottata in

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

contesti aziendali, per soddisfare esigenze di mercato e, in tal senso, risulta più assimilabile al marketing che all’ergonomia cognitiva. Nella ricerca psicologica sull’usabilità, invece, la problematica centrale dovrebbe essere rappresentata proprio dal processo soggettivo di valutazione, un processo che probabilmente opera attraverso diverse dimensioni le quali, a loro volta, contribuiscono alla definizione del sistema di riferimento adottato dall’utente.

Questo contributo si propone di dimostrare l’esistenza di tale sistema, nonché di definire le dimensioni che lo costituiscono. In particolare, per le potenzialità che offre e per la capacità che ha mostrato di imporsi in breve tempo come standard per la comunicazione, l’editoria e il commercio, abbiamo ritenuto opportuno, tra le tecnologie disponibili, indagare l’usabilità di Internet.

Nelle prime fasi di questa ricerca (Di Nocera et al., 1999) sono stati identificati, attraverso un’indagine pilota, gli aspetti generali che, secondo gli utenti, caratterizzano la navigazione in Internet. Sulla base di tali informazioni è stato possibile generare un elevato numero di affermazioni, settanta delle quali sono state selezionate al fine di realizzare un questionario per la valutazione dell’usabilità dei siti Internet.

I dati riportati nel presente contributo fanno riferimento ad un campione di 320 soggetti. Metà del campione ha risposto al questionario on-line [forma elettronica], mentre l’altra metà ha compilato una tradizionale forma “carta e matita” dello stesso strumento durante sessioni di valutazione in laboratorio [forma cartacea].

I risultati di questo studio confermano la nostra ipotesi di un costrutto multidimensionale di usabilità. In particolare, l’analisi fattoriale condotta sui dati raccolti ha mostrato l’esistenza di quattro dimensioni, parzialmente correlate tra loro e con coefficienti di attendibilità sufficientemente elevati. In base ai risultati ottenuti sembrerebbe che gli utenti valutino il sito in funzione:

- del livello di SODDISFAZIONE in termini di mancato raggiungimento dell’obiettivo, un’etichetta alternativa potrebbe difatti essere quella di “utilità emotiva”;

- della MANEGGEVOLEZZA, cioè controllo, gestione e manipolazione del sito, probabilmente la dimensione più propriamente “ergonomica” dell’usabilità, condivisa dall’uso di oggetti concreti (realmente manipolabili);

- dell’ATTRATTIVA, cioè presenza di elementi inattesi che, in funzione degli obiettivi e delle preferenze dell’utente, possono rendere più piacevole la visita al sito;

- dell’UTILITÀ della visita definita in termini di conseguimento degli specifici obiettivi dell’utente.

Tali fattori potrebbero essere considerati una cornice di riferimento generale, uno spazio di lavoro entro il quale l’utente organizzerebbe le proprie valutazioni. Inoltre, proprio questa caratteristica di generalità dei fattori emersi, suggerisce che tale organizzazione del costrutto di usabilità sia propria dell’utente e che quest’ultimo la utilizzi ogniqualvolta necessiti di fornire una valutazione, indipendentemente dal prodotto da valutare.

L’Analisi della Varianza Multivariata (MANOVA) condotta sui punteggi fattoriali utilizzando la forma (elettronica vs. cartacea) come variabile indipendente, ha mostrato differenze statisticamente significative tra le due modalità di somministrazione. In questo studio, inoltre, è stata adottata la procedura bootstrap (Efron, 1979; Efron e Tibshirani, 1993) per valutare la attendibilità e la consistenza dei risultati della Analisi Fattoriale e della MANOVA. Nonostante tale approccio non sia di uso frequente nella ricerca psicologica, esso appare di grande utilità nella definizione di nuovi costrutti. Questo studio mostra

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

inoltre, come era da attendersi, un effetto del livello di esperienza sul processo di valutazione, anche all’interno dello stesso schema di riferimento. In particolare, soggetti esperti e inesperti mostrano pattern completamente opposti su tutte le dimensioni ad eccezione della SODDISFAZIONE.

Riferimenti bibliograficiChin, J.P., Diehl, V.A., & Norman, K.L. (1988). Development of a tool measuring user

satisfaction of the human-computer interface. Proceedings of the SigChì88: Human Factors in Computer Systems, 213-218.

Di Nocera, F., Ferlazzo, F., Renzi, P. (1999). Us.E. 1.0: costruzione e validazione di uno strumento in lingua italiana per valutare l’usabilità dei siti Internet. In M.F. Costabile, & F. Paternò (a cura di), HCITALY’99: Giornata Italiana su Human-Computer Interaction. Rapporto CNUCE-B4-1999-003. Pisa: CNUCE-CNR.

Efron, B. (1979). Bootstrap methods: another look at the jackknife. Annals of Statistics, 7, 1-26.

Efron, B., & Tibshirani, R.J. (1993). An introduction to bootstrap. New York: Chapman and Hall.

Jordan, P. W. (1994). What is usability? In S. A. Robertson (Ed.), Contemporary Ergonomics 1994. London: Taylor & Francis, 454-458.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

METAFORE E ALTRI TROPI NEL LINGUAGGIO ICONICO

Alberto ArgentonDipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione Università di Padova

L’obiettivo della mia comunicazione è quello di presentare i risultati fino ad ora ottenuti tramite alcune ricerche che, nel loro insieme, concorrono a costituire un progetto d’indagine ad ampio raggio, il quale ha come oggetto la presenza, la tipologia, l’origine, la comprensione e le funzioni cognitive delle figure retoriche nel linguaggio iconico.

Con linguaggio iconico mi riferisco al linguaggio delle immagini statiche, bidimensionali e tridimensionali, ottenute tramite tecniche diverse (in particolare, disegno, grafica, pittura, fotografia, computer graphics, scultura) e prodotte in campi specifici (in particolare, le arti visive, il disegno umoristico, la satira, i comics, la pubblicità). E con figure retoriche mi riferisco ai tropi o traslati o alle figure del pensiero (ad esempio, metafora, metonimia, sineddoche, sinestesia, iperbole, ossimoro, personificazione, ecc.) che vengono usati nel linguaggio iconico al fine di rendere efficace — espressivo — il processo comunicativo o, in altri termini, secondo una definizione di carattere psicologico, a tutti quegli espedienti formali, frutto di un “pensiero figurato” (R.W. Gibbs, 1994), che

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

contribuiscono a dare “qualità espressive” (R. Arnheim, 1966; 1974) al “significato percettivo e rappresentativo” (A. Argenton, 1996) dei prodotti del linguaggio iconico.

Su questo oggetto di indagine esistono sporadici e non sistematici studi (ad esempio, J.M. Kennedy, 1982) o lavori che, rivolti principalmente alla comunicazione letteraria, ne accennano soltanto (ad esempio, R. Arnheim, 1966; R.W. Gibbs, 1994; C.R. Hausman, 1989), anche se sembra inizi a manifestarsi un maggiore e più deciso interesse nei suoi confronti (V. Kennedy, J.M. Kennedy, 1993). Tuttavia, sulla base degli assunti che il linguaggio figurato è manifestazione del pensiero e non mero fatto linguistico (G. Lakoff, M. Johnson, 1980), che il pensiero e l’immaginazione hanno origini e fondamento nella percezione (R. Arnheim, 1969) e nell’esperienza corporea (M. Johnson, 1987), che fra linguaggio verbale e linguaggio visivo vi siano, oltre alle differenze, delle similarità (R. Arnheim, 1986a; 1986b; 1992; W.J.T. Mitchell, 1995; J. Muhovic, 1997), non mancano i riferimenti teorici a cui ricondurre l’indagine stessa e che sono integrabili con quelli, anche di carattere metodologico, presenti nella psicologia delle arti visive (R. Arnheim, 1974; J. Willats, 1997; R. Wollheim, 1987).

Le ricerche, di cui verranno presentati i principali risultati attraverso una serie di esempi, sono state svolte adottando una metodologia diversificata a seconda dei campi ai quali erano rivolte. In sintesi, è stata esaminata — tramite analisi formale, di contenuto e contestuale, ricorrendo, in alcuni casi, al giudizio di esperti e attuando un confronto, laddove possibile, con la letteratura specialistica in proposito — la produzione iconica di singoli artisti, appartenenti a varie epoche e tendenze stilistiche, la produzione iconica a noi contemporanea di tipo pubblicitario, satirico, umoristico, fumettistico, presente in pubblicazioni edite in un determinato lasso di tempo e scelte seguendo alcuni criteri di campionamento, e si sono individuate e classificate le metafore e gli altri tropi usati nelle produzioni stesse.

I risultati, allo stato di analisi e di interpretazione a cui si è giunti, sembrano confermare la possibilità di trovare corrispondenze tra figure del linguaggio verbale e figure del linguaggio iconico; di iniziare a creare, così, una tipologia di queste ultime con lo scopo di indagare a fondo l’origine, la comprensione e le caratteristiche funzionali di tipo cognitivo delle stesse.

Riferimenti bibliograficiArgenton, A. (1996) Arte e cognizione. Introduzione alla psicologia dell’arte, Raffaello

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

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(s.l.) 1982.Mitchell, W.J.T. (1995) Picture theory: Essays on verbal and visual representation, Chicago,

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Princeton, Princeton University Press.Wollheim, R. (1987) Painting as an art, Princeton, Princeton University Press.

FALLIMENTI COMUNICATIVI: UNA PROSPETTIVA EVOLUTIVA

Francesca M. BoscoCentro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

La comunicazione è un’attività cooperativa e intenzionale di un agente volta modificare gli stati mentali del proprio interlocutore (Austin 1962, Grice 1989, Searle 1969). In particolare la comunicazione di successo consiste nel cambiamento degli stati mentali di una persona, in seguito al riconoscimento dell’intenzione comunicativa espressa da un altro agente: la comunicazione fallisce se l’attore non riesce a modificare gli stati mentali del partner nel senso desiderato.

Da un punto di vista pragmatico i fallimenti comunicativi non hanno ricevuto grande attenzione e, in ogni caso, nessuna delle correnti teorie considera quali siano le rappresentazioni mentali e i processi cognitivi implicati nel riconoscimento e recupero di differenti tipi di fallimenti comunicativi.

Questa ricerca rappresenta sia una estensione teorica che una validazione empirica, della Pragmatica Cognitiva di Airenti, Bara & Colombetti (1993a; 1993b), una teoria dei processi cognitivi umani sottostanti la comprensione e produzione di atti comunicativi. Questa teoria ha già permesso di effettuare ipotesi sullo sviluppo di differenti abilità comunicative come la comprensione di atti linguistici semplici e complessi, ironia e inganno in bambini normali e con danni cerebrali (Bara, Bosco & Bucciarelli 1999a; 1999b).

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Secondo Airenti et al. un enunciato di successo richiede la costruzione, da parte del partner, di una rappresentazione mentale per cui: è riconosciuto l’atto espressivo dell’enunciato, riconosciuto il significato inteso dall’attore nell’emetterlo ed è riuscito l’effetto comunicativo desiderato dell’attore, l’effetto cioè che chi pronuncia l’enunciato vuole raggiungere sul partner.

Sulla base della teoria della Pragmatica Cognitiva è possibile proporre una tassonomia che individua differenti tipi di fallimenti comunicativi.

Fallimento dell’atto espressivo: consiste nella incomprensione o nel fraintendimento, da parte del partner, dell’aspetto espressivo dell’enunciato.

Fallimento del significato inteso dall’attore. consiste nella incomprensione o nel fraintendimento del significato che l’attore voleva esprimere pronunciando l’enunciato.

Fallimento dell’effetto comunicativo: consiste nel rifiuto del partner ad accettare il gioco proposto. In questo caso, a differenza dei precedenti, il partner comprende la mossa proposta dall’attore ma la rifiuta. Il partner può quindi rifiutare la mossa, cioè non accettando quella particolare proposta che realizza il gioco, o rifiutare il gioco, non accettando nessuna fra le mosse disponibili congruenti con il gioco proposto.

È possibile ipotizzare un trend di difficoltà crescente sia nel riconoscimento che nel recupero dei differenti tipi di atti comunicativi. Tali predizioni dipendono dalla complessità delle rappresentazioni mentali e dei processi cognitivi implicate nei differenti compiti.

Riconoscimento: dal compito più semplice al più difficile, fallimento dell’effetto comunicativo, fallimento dell’atto espressivo, fallimento del significato inteso dall’attore. Un’assunzione sottostante tale ipotesi è che comprendere quale sia il gioco agito da un attore sia più difficile che riconoscere quale sia la mossa agita.

Recupero: dal compito più semplice al più difficile: fallimento dell’atto espressivo, fallimento del significato inteso dall’attore, fallimento dell’effetto comunicativo. In particolare recuperare il rifiuto della mossa è più facile che recuperare il rifiuto del gioco. Nel formulare tale ipotesi assumiamo che cambiare gioco sia più difficile che cambiare mossa scegliendone una alternativa ma congruente con quel gioco. Inoltre assumiamo che cambiare la formulazione della mossa, sia più difficile che la semplice ripetizione della mossa.

È possibile ipotizzare infine che riconoscere un fallimento comunicativo è più semplice del rispettivo recupero. Il recupero del fallimento richiede un’attiva pianificazione, e questo è più difficile del semplice riconoscimento di una data situazione. Per recuperare con successo un fallimento il partner deve infatti avere, oltre una rappresentazione mentale, che gli consenta di comprendere che è avvenuto un fallimento, una strategia che gli permetta di superarlo.

Un gruppo di ottanta bambini appartenenti alle seguenti fasce d’età ha partecipato all’esperimento: 3-3;6, 4;6-5 6-6;6, 7;6-8. L’esperimento consiste nella presentazione di brevi (10-15 secondi) scenette videoregistrate (4 per ogni compito + 4 prove di controllo) in cui è rappresentata una semplice interazione comunicativa. Le prove rappresentano una situazione in cui il protagonista chiede qualcosa ad un partner e questi o non comprende, o fraintende, o si rifiuta di accogliere la proposta dell’attore: in ogni caso la meta che si era prefissato l’attore nel proferire l’enunciato fallisce. Al termine di ogni prova lo sperimentatore chiede al bambino di riconoscere e recuperare il fallimento.

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I risultati dell’esperimento confermano tutte le predizioni circa la crescente difficoltà implicata nei compiti di riconoscimento e recupero del fallimento di un atto comunicativo. È possibile concludere che la teoria della Pragmatica cognitiva fornisce un frame-work teorico che differenzia tra diversi tipi di fallimenti comunicativi e spiega la crescente capacità dei bambini a trattare con essi.

Riferimenti bibliograficiAirenti, G., Bara, B.G. & Colombetti, M. 1993a. Conversation and behavior games in the

pragmatics of dialogue. Cognitive Science, 17, 197-256.Airenti, G., Bara, B.G. & Colombetti, M. 1993b. Failures, exploitations and deceits in

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Austin, J.L. 1962. How to do things with words. London: Oxford University Press. [2nd ed. revised by J.O. Ormson & M. Sbisà. London: Oxford University Press, 1975].

Bara, B.G., Bosco F.M., & Bucciarelli M. 1999a. Rappresentazioni mentali e competenza pragmatica in età evolutiva. Giornale Italiano di Psicologia. In stampa.

Bara, B.G., Bosco F.M., & Bucciarelli M. 1999b. Developmental Pragmatics in normal and abnormal children. Brain and Language, Special Issue, in press.

Grice, H.P. 1989. Studies in the way of words. Cambridge, MA, & London: Harvard University Press.

Searle, J.R. 1969. Speech acts: An essay in the philosophy of language. London: Cambridge University Press.

LA TEORIA DELLA MENTE NEI RECUPERI DEI FALLIMENTI COMUNICATIVI: IL CASO

DELL’AUTISMO

Livia Colle, Monica BucciarelliCentro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

Secondo la teoria della comunicazione umana da qui origina questo lavoro, la Pragmatica Cognitiva (Airenti, Bara e Colombetti, 1993), esistono due diverse modalità di comprensione di un atto comunicativo: un processo inferenziale standard ed uno non standard. Nel primo caso un atto comunicativo viene compreso per mezzo di regole per default, in altre parole il contesto permette di comprendere pienamente il significato dell’enunciato. Atti comunicativi non standard, invece, necessitano dell’applicazione di inferenze più complesse, dal momento che il contesto immediato non è sufficientemente informativo. Secondo questa prospettiva, la comprensione di un atto comunicativo richiede un numero di inferenze minori rispetto alla comprensione e al recupero di un fallimento comunicativo. Per riconoscere un fallimento è infatti necessario confrontare la rappresentazione di ciò che l’attore intendeva, con la rappresentazione che l’interlocutore si

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è costruito; quindi, per recuperare il fallimento è necessario formulare un strategia consistente con l’intenzione originaria dell’attore (Bara, Bosco e Bucciarelli, 1998).

Riguardo alla capacità di assumere punti di vista diversi – sia percettivi che epistemici - esiste un’estesa letteratura che prende il nome di teoria della mente (e.g. Premack e Woodruff, 1978). La capacità di “decoupling”, cioè di tenere contemporaneamente a mente l’effettivo stato del mondo e una, o più, sue interpretazioni soggettive, è da considerarsi un’abilità cognitiva di base da cui, successivamente dipendono altre capacità quali il gioco simbolico, le competenze linguistiche, la comprensione di comportamenti e atti altrui. Sembra perciò un’abilità molto vicina a ciò che noi riteniamo necessario per la comprensione e il recupero di atti comunicativi falliti. Entrambi infatti, teoria della mente e recuperi di fallimenti richiedono di lavorare contemporaneamente su differenti rappresentazioni della realtà (metarappresentazioni). (cfr. Feldman e Kalmar 1996).

La teoria della mente ha dedicato molta attenzione al disturbo dell’autismo, individuando all’origine della patologia proprio l’impossibilità di considerare l’altro come un individuo capace di formulare rappresentazioni del mondo non necessariamente coincidenti con le proprie (Baron Cohen, Frith e Leslie, 1985).

Un’ipotesi alternativa ad una mancanza di teoria della mente è quella che indica come deficit originario dell’autismo quello attentivo. Diversi autori (Ozonoff et al., 1991, Pierce et al., 1997) sottolineano come il problema dei soggetti autistici sia una generale impossibilità nel controllo del meccanismo attentivo (funzione esecutiva). Questa difficoltà attentiva spiegherebbe di conseguenza molti dei problemi cognitivi dei soggetti autistici.

In accordo con questa seconda linea teorica la nostra ipotesi di lavoro prevede che una volta individuata una metodologia sperimentale che riduca il carico attentivo, le prestazioni dei soggetti autistici in compiti pragmatici (quali il recupero di fallimenti comunicativi) e in compiti di teoria della mente migliorino vistosamente, non discostandosi dalle prestazioni dei soggetti normali. In secondo luogo ipotizziamo di rintracciare delle correlazioni fra le prestazioni dei soggetti sperimentali nei due compiti.

Venti soggetti autistici con diagnosi di autismo (DSM-IV) hanno partecipato al nostro esperimento. Il criterio di selezione dei soggetti ha riguardato la loro abilità nell’utilizzo della Comunicazione Facilitata (Biklen, 1991). Questa tecnica permette loro di utilizzare la tastiera di un computer per comunicare in quasi completa autonomia. La possibilità di mantenere lo stimolo visivo per tutto il tempo necessario alla generazione di una risposta e la possibilità di elaborare una risposta per iscritto, ha permesso di superare almeno in parte le difficoltà attentive di questi soggetti. Il campione era costituito da soli maschi di età compresa tra i 7 e i 18 anni (età media 11), la maggior parte completamente muti. Il gruppo di controllo Ë stato costruito in base all’età, il sesso, la comprensione del linguaggio scritto (punteggio medio Test di Bada = 43) e le abilità di ragionamento non verbali (punteggio medio Matrici Colorate di Raven = 31). L’esperimento si Ë svolto individualmente in una stanza tranquilla alla presenza dello sperimentatore, del soggetto e di una figura familiare per il soggetto autistico. Questa figura Ë stata introdotta per rendere il più possibile semplice l’approccio a questi soggetti. Il protocollo sperimentale prevedeva 2 compiti di teoria della mente presentati per iscritto (False Belief, Smarties Test) e tre compiti di recupero di fallimenti, sempre per iscritto. In particolare, recupero di atto linguistico diretto, indiretto, e inganno.

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I risultati dell’esperimento relativi alla capacità di recuperare un fallimento comunicativo non rilevano differenze significative nella prestazione globale dei due gruppi (88% di risposte corrette negli autistici, 92% nei soggetti normali, Mann-Whitney: z =-0.35, p = 0.73). Anche nell’analisi dei diversi recuperi considerati separatamente non si riscontrano differenze significative (Mann-Whitney: z con un valore da 0.000 a –0.281, p con un valore da >0.999 a 0.7787).

In accordo con le nostre previsioni, anche in compiti di teoria della mente non ci sono differenze significative fra i due gruppi (Mann-Whitney: z = -2.18, p<.03).

Infine, i risultati delle correlazioni fra le prestazioni dei soggetti autistici in compiti di teoria della mente e compiti di recupero di fallimenti rivelano una stretta relazione fra le due prestazioni (correlazioni di Spearman: z con valore da 3.571 a 2.868 , p con valore da .0041 a .0004).

I risultati dell’esperimento sono a conferma del fatto che esiste una stretta relazione fra teoria della mente e recupero di fallimenti comunicativi. Suggeriscono inoltre che una volta aggirate le difficoltà attentive dei soggetti autistici le loro prestazioni nei due compiti non differiscono dalle prestazioni dei soggetti normali.

Riferimenti bibliograficiAirenti, G., Bara, B. G. e Colombetti, M. 1993. Conversation and behavior games in the

pragmatics of dialogue. Cognitive Science, 17, 197-256.Bara, B., Bosco, F. e Bucciarelli, M. 1999. Rappresentazioni mentali e competenza

pragmatica nei bambini.    Giornale Italiano di Psicologia, in stampa.Baron-Cohen, S., Leslie, A. e Frith, U. 1985. Does the autistic child have a ‘theory of

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repetition in dialogue. In C. Bazzanella (ed.) Repetition in dialogue. Tubingen: Niemeyer.

Ozonoff, S., Pennington, B.F. e Rogers, J.S. 1991. Executive function deficits in high functioning autistic individuals: relationship to theory of mind. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 32, 1081-1104.

Pierce, K., Glad, K., e Schreibman, L. 1997. Social perception in children with autism. An attentional deficit. Journal of Autism and Developmental Disorders, 27, 265-282.

Premak, D. e Woodruff, G. Does the chimpanzee have a theory of mind? Behavioural and Brain Sciences 4, 515-26.

PERTINENZA E CREDIBILITÀ NELL’INTERAZIONE IN TRIBUNALE

Renata Galatolo, Marina MizzauDipartimento di Discipline della Comunicazione, Università di Bologna

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PremessaRispetto alla conversazione ordinaria e ad altri contesti istituzionali la seduta di

tribunale sembra essere il luogo privilegiato di applicazione del principio di cooperazione di Grice (1967) tanto che lo schema dello scambio processuale è stato considerato (Penman, 1987), in quanto troppo coercitivo, inadeguato ad assicurare una coerenza discorsiva. Il perseguimento di questo modello è quanto meno alla base della consapevolezza esplicitata di regole (o metaregole) riconducibili alle massime conversazionali in cui si articola il principio di cooperazione: quantità, qualità, relazione e modo. La constatazione dell’adesione alle massime tiene però in modo stretto solo per una di esse, quella della “pertinenza”, mentre per le altre il discorso è più complesso.

Per quanto riguarda la pertinenza, in tribunale vigono leggi esplicite e codificate che vincolano gli interroganti; leggi meno esplicite, ma che vengono evocate almeno al momento della trasgressione, che vincolano gli interrogati ai quali l’osservanza della massima è imposta da chi è in quel momento il rappresentante della legge. Nel primo caso le sanzioni hanno per oggetto la non pertinenza delle domande, in quanto ritenute tendenziose (leading and speculative questions) o fuori luogo. Nel secondo, la pertinenza è definita in termini di precisa corrispondenza della coppia domanda-risposta (Mizzau, 1998).

Quanto alla massima della qualità, a un livello macro è ovvio che il tribunale è il luogo paradigmatico della sua osservanza. La massima della qualità prescrive di dire la verità, di non mentire e la ricerca della verità costituisce l’obiettivo stesso del processo. Alla verità si è vincolati con il giuramento iniziale, al quale però sono tenuti solo i testimoni, non gli accusati. In questo modo gli imputati sono sottoposti al dilemma di perseguire i loro interessi, ma rischiare che la loro versione non sia creduta proprio perché interessata (Kompter, 1998). Del resto, rifacendosi alla discussione generale sullo statuto delle massime: la massima della qualità deve intendersi non come massima etica ma, come le altre, massima conversazionale; non può quindi suonare che come “dire ciò che appare vero”.    Il punto su cui interrogarsi quindi è: cos’è che rende una deposizione (degli imputati, dei testimoni) verosimile?

Obiettivo Servendoci di interrogatori videoregistrati e trascritti secondo il metodo

dell’analisi della conversazione, si intende analizzare che cosa in tribunale venga considerata osservanza delle massime, come vengono sanzionati i tentativi di trasgressione delle stesse e le negoziazioni conflittuali che ne conseguono. In particolare, si analizzerà il concetto di verosimiglianza proprio di questo contesto.    L’analisi riguarda sia il far credere vero di chi fornisce la testimonianza, sia le strategie dell’interrogante qualora interroghi la sua parte e qualora cerchi invece di mostrare la menzogna di un testimone chiamato dalla parte avversa.

IpotesiLa verosimiglianza in tribunale sembra essere direttamente proporzionale alla non

contraddittorietà, alla ricchezza di dettagli e alla completezza della ricostruzione, alla spontaneità della narrazione e alla specificità con cui si differenzia l’esperienza diretta da quella indiretta e dalle proprie inferenze (Bogen e Lynch 1989, Caesar-Wolf 1984, Penman 1987, Wodak-Engel 1984). Ad ognuna di queste caratteristiche corrispondono strategie di squalificazione della testimonianza e del teste da parte dell’interrogante. In particolare, le

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contestazioni del rispetto della massima della qualità sono caratterizzate dall’essere indirette e dall’essere costruite ad arte per stimolare inferenze da parte della giuria (Drew 1992).

RisultatiOltre a mostrare il particolare statuto della massima della qualità rispetto alle altre

massime, l’analisi mostra come la verità sia un costrutto interazionale che risponde a regole contestuali. Dall’analisi, inoltre, emerge e trova conferma l’inevitabile intreccio tra le massime (fenomeno che del resto si verifica in ogni ambito conversazionale).

Riferimenti bibliograficiBogen, D., Lynch, M. (1989) Talking Account of the Hostile Native: Plausible Deniability

and the Production of Conversational History in the Iran-Contra Hearing. In Social Problems, 36 (3), 197-224.

Caesar-Wolf, B. (1984) The construction of ‘adjudicable’ evidence in a West Germany civil hearing. In Text 4 (1/3),    193-224.

Drew, P. (1992) Contested Evidence in Courtroom cross-Examination: the Case of a Trial for Rape. In Atkinson, J., Drew, P. Talk at Work, Cambridge University Press, Cambridge.

Grice, P. (1967). Logic and Conversation, In P.Cole, J.L. Morgan (Eds) (1975) Syntax and Semantics-Speech Acts, Academic Press, New York.

Komter L.M.(1998), Dilemmas in the Coutroom, Lawrence Erlbaum Associates Publishers, Mahwah, New Yersey.

Mizzau, M. (1998).Risposte impertinenti, In R.Galatolo, G. Pallotti (Eds) G. Di Pietro e il giudice, Pitagora Editrice, Bologna.

Penman, R.(1987). Discourse in Courts: Cooperation, Coercion, and Coherence In Discourse Processes 10 (3), 201-218.

Wodak-Engel R.(1984) Determination of Guilt. In Kramerae, C., Schultz, M., ÒBarr, W. M. Language and Power, Sage Publications, Beverly Hills.

IL PROCESSO PERSUASIVO IN AMBITO SANITARIO: UNA PROPOSTA DI ANALISI

Tiziana Panero, Fiorella ScottoUniversità di Roma Tre

Secondo il Modello della comunicazione in termini di conoscenze e scopi proposto da Castelfranchi e Parisi (1980), dire una frase per comunicare equivale a compiere un tipo particolare di azione, per cui le frasi e le azioni sono attività volte al raggiungimento di scopi; ed anche la conversazione è un’azione guidata da scopi. Un’analisi adeguata della conversazione presuppone pertanto che vengano tenuti presenti contemporaneamente i processi cognitivi dei singoli individui coinvolti nell’interazione verbale, gli scopi attivi nella loro mente e i processi che regolano le loro interazioni sociali.

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All’interno dello stesso quadro teorico generale si inserisce il Modello della Persuasione (Poggi, 1998) che spiega in termini di scopi e conoscenze i processi di influenza che si realizzano nel corso di qualsiasi interazione persuasiva. Secondo questo modello, la persuasione è un modo di influenzare la gente (Conte e Castelfranchi, 1996), ovvero uno dei tanti modi in cui un agente A induce un altro agente B ad avere degli scopi che non aveva precedentemente. Ma ciò che distingue la persuasione dalle altre forme di influenzamento è il fatto che essa non si realizza attraverso l’esercizio della forza o del potere, ma grazie al fatto che essa produce, nella mente del persuadendo, un forte convincimento circa l’utilità di perseguire lo scopo proposto dal persuasore. I tre elementi essenziali su cui si fa leva per persuadere l’agente B sono, secondo questo modello, gli stessi già individuati da Aristotele: il LOGOS (la parte razionale del discorso), l’ETHOS (il carattere dell’oratore) e il PATHOS (le passioni dell’uditorio).

Il modello di analisi della persuasione e della conversazione in termini di conoscenze e scopi è stato applicato in una ricerca mirante ad analizzare due diversi tipi di interazioni verbali persuasive: l’interazione tra il Medico e l’Informatore Scientifico del Farmaco (ISF: in termini quotidiani, il “rappresentante di medicinali”) e quella tra l’Operatore Sanitario e il Paziente. Nel primo tipo di interazione, l’ISF cerca di persuadere il medico a prescrivere i farmaci dell’Azienda da lui rappresentata piuttosto che i farmaci concorrenti. Nel secondo tipo di interazione, l’Operatore Sanitario (medico o infermiere) cerca di indurre nel paziente comportamenti utili alla sua salute (ad esempio, ad adottare forme di prevenzione).

Nell’analisi della comunicazione tra l’ISF e il medico, l’obiettivo della ricerca è stato duplice: da un lato si è ricostruito il percorso comunicativo seguito dall’ISF durante il colloquio con il Medico, rappresentando la gerarchia di scopi comunicativi sottesa al suo discorso; dall’altro, attraverso la rilevazione dei tre elementi base del processo persuasivo, logos, ethos e pathos, utilizzati dall’ISF durante il colloquio, si è cercato di verificare l’ipotesi secondo cui il pathos può risultare elemento determinante ai fini della persuasione. Per verificare questa ipotesi, sono state raccolte un certo numero di conversazioni tra l’ISF e il Medico durante le loro rispettive routines lavorative, e se ne sono analizzati alcuni frammenti cercando di ricostruire gli scopi comunicativi perseguiti dall’ISF durante il colloquio. Grazie a tale analisi si è potuto evidenziare come l’ISF utilizzi gli elementi di logos, ethos e pathos nell’ambito della conversazione e quali siano le strategie persuasive adottate momento per momento durante l’interazione verbale.

Riguardo al processo persuasivo nella relazione tra l’Operatore Sanitario e il Paziente, l’analisi delle conversazioni in questo ambito da un lato ha permesso di mostrare la carente competenza comunicativa del personale sanitario e dall’altro di evidenziare, anche in questo caso, il ruolo determinante del pathos quando si intenda innescare, all’interno di una relazione asimmetrica (Operatore Sanitario/Paziente), un processo di comunicazione volto alla modificazione di uno stile di vita.

Dalle analisi svolte nei due contesti sembra emergere che, in entrambi i tipi di relazioni sociali analizzate, l’utilizzo di strategie basate unicamente su elementi di logos e di ethos non garantisce l’effetto persuasivo auspicato, che invece si verifica più frequentemente grazie all’elemento pathos, per il ruolo fondamentale che questo svolge nel dirigere il comportamento degli individui.

Riferimenti bibliografici

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Castelfranchi, C. e Parisi D. (1980): Linguaggio, conoscenze e scopi. Il Mulino, Bologna.Conte R. e Castelfranchi C. (1996): La società delle menti. UTET, Torino.Poggi, I. (1998): “A Goal and Belief Model of Persuasion”, Poster presentato alla 6th

International Pragmatics Conference, Reims, 19/24 luglio 1998.

MEMORIA E APPRENDIMENTO

CORRETTEZZA E CONFIDENZA NELLA DATAZIONE DI EVENTI PUBBLICI A VALENZA POSITIVA E NEGATIVA IN MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

Elena Calamari, Mauro PiniUniversità di Pisa

La datazione degli eventi pubblici accaduti nel corso della vita è un processo costruttivo che si avvale del ricordo autobiografico delle circostanze concomitanti e di punti di riferimento sia pubblici che privati (Thompson, Skowronski, Larsen e Betz, 1996). In una precedente ricerca (Calamari, Greco e Pini, 1997) abbiamo rilevato una valutazione metacognitiva realistica della correttezza della datazione di eventi storici contemporanei scelti dagli stessi partecipanti. La correttezza non mostrava però alcuna relazione significativa con il grado di dettaglio del ricordo del contesto della notizia, sul quale si basava invece il livello di confidenza. Inoltre gli eventi positivi erano datati più correttamente di quelli negativi, che venivano ricordati in modo più dettagliato. Questo risultato aveva lasciato aperti alcuni interrogativi perché la valutazione era stata effettuata post hoc dagli sperimentatori. Nell’ambito della ricerca sui ricordi Flashbulb si discute circa il ruolo di variabili come importanza, sorpresa ed emozionalità (Finkenauer et al., 1998), che risultano per lo più collegate tra loro. Il lavoro che presentiamo si propone di contribuire al chiarimento della questione e di verificare, con una diversa metodologia, il rapporto tra correttezza e confidenza e il ruolo della valenza positiva e negativa degli eventi ricordati.

A 53 studenti universitari di età media 22 anni e mezzo abbiamo presentato una lista predefinita di 10 eventi pubblici, politici e non politici, che sono stati ricordati, datati (mese e anno) e valutati su alcune rating scales a 7 punti: grado di confidenza nella data, sorpresa ed emozione al momento dell’evento, frequenza del ripasso, importanza dell’evento e vividezza di un’eventuale immagine relativa ad esso, che si chiedeva di descrivere. Il ricordo delle circostanze è stato siglato contando il numero degli elementi Flashbulb (Fl): dove, quando, con chi, da chi, seguito, reazione emozionale propria e altrui. La valenza positiva e negativa è stata ricavata da una scala di valutazione attuale dell’evento, effettuata dagli stessi partecipanti, da molto negativo (-3) a neutro (0) a molto positivo (+3).

Per le 504 risposte ottenute (il 45,2% di date corrette anno contro il 67% della ricerca precedente), l’errore medio di datazione risulta di circa quattro mesi. Sono state

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fornite in tutto 350 risposte complete (anno e mese), di cui solo 63 corrette, una percentuale del 12,5% del totale degli eventi ricordati, analoga a quella riportata in letteratura (Brown, 1990). Gli elementi Fl sono in media circa uno per evento ma un terzo degli eventi non ha suggerito alcun ricordo di dettagli. Per 281 eventi (il 55,7%) sono state descritte immagini e valutato il grado di vividezza.

L’ipotesi del rapporto fra correttezza e confidenza viene confermata, con la metodologia della lista di eventi predefinita, sia dalla correlazione negativa con l’errore di datazione degli eventi (p<.001), sia dalla differenza di medie nella valutazione della confidenza fra risposte corrette e scorrette (p<.001). Diversamente dalla ricerca precedente, la correttezza della datazione per gli eventi è correlata anche con il numero di elementi Fl, sia come scarto anno (rho=.19 p<.001) sia, in misura minore, come scarto mese (rho=.10 p<.1), e risulta significativa la differenza nel numero medio di dettagli fra risposte corrette e scorrette anno (t=3,07 p<.001) e mese (t=1,9 p=.05). Vengono riportati più dettagli per gli eventi datati correttamente (t=4,5 p<.001) rispetto alla ricerca precedente, dove risultava maggiore confidenza (t=3,8 p<.001) nelle date scorrette attribuite agli eventi scelti da alcuni soggetti. Proponendo a tutti i soggetti gli stessi eventi si ristabilisce la relazione funzionale tra ricostruzione dettagliata di notizie coinvolgenti, uso del ricordo per la datazione corretta e fiducia realistica nella correttezza. Sui soggetti si ottiene infatti una correlazione positiva del numero di risposte corrette con la confidenza nella data (r=.38 p<.01) e il numero dei dettagli (r=.37 p<.01), che non risulta correlato con la confidenza. Per gli eventi il grado di confidenza nella datazione prodotta è positivamente correlato con tutte le variabili valutate e col numero di elementi Fl (p<.001).

La valutazione dell’emozione al momento dell’evento è correlata con la correttezza della data (p<.05). L’ANOVA fra le medie degli elementi Fl, per gli eventi positivi (n=151), negativi (n=270) e neutri (n=83) secondo i soggetti è significativa e ne vengono prodotti di più per gli eventi valutati negativamente (F=8,2 p<.001). Si conferma quindi anche con una differente metodologia che la valenza negativa è una caratteristica degli eventi ricordati con più dettagli contestuali, che si prestano a divenire ricordo Flashbulb. L’ANOVA risulta significativa anche per la confidenza (p<.05) e per tutte le altre scale di valutazione (p<.001) eccetto la vividezza, e gli eventi neutri presentano valori inferiori a quelli positivi e negativi. Questi ultimi ottengono valori medi più elevati di sorpresa, emozione e ripasso, mentre sono giudicati più importanti quelli positivi. I risultati verranno discussi in relazione agli specifici eventi pubblici proposti, evidenziando il ruolo dell’emozione e della valenza nel ricordo.

Riferimenti bibliograficiBrown N.R. (1990). Organization of public events in long-term memory Journal of

Experimental Psychology: General, 119, 297-314.Calamari E., Greco E., Pini M. (1998). Contenuto e datazione degli eventi “storici” in

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Erlbaum.

STRATEGIA DI CHUNKING E CAPACITÀ DELLA MEMORIA DI LAVORO VISUO-SPAZIALE

Sara Mondini, Luca Lucidi, Cesare Cornoldi Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Lo studio delle componenti della memoria di lavoro visuo spaziale (MLVS) ha avuto grande impulso negli ultimi anni. Dopo essere stata a lungo trascurata per dare spazio a tutta la ricerca sulla memoria verbale, recentemente molti autori, riprendendo il modello di Baddeley (1986) e le sue successive elaborazioni (Logie, 1995), si sono occupati di distinguere le sottocomponenti del sistema specifico di elaborazione di materiale visivo. La ricerca è stata, spesso, guidata da uno studio per analogia ipotizzando che la MLVS avesse le stesse caratteristiche della elaborazione verbale. Uno degli effetti che con il materiale verbale è stato a lungo descritto e studiato (Baddeley, Thompson & Buchnam, 1975), è relativo alla “lunghezza” degli item da memorizzare. Questa influisce sul loop articolatorio del sistema, limitandone la capacità: infatti il tempo necessario alla ripetizione della parola (verbale o subvocalica) correla con la successiva quantità di ricordo. Questa variabile non ha una corrispondenza diretta nel materiale visuo-spaziale: potrebbe, però, ragionevolmente corrispondere alla sua complessità. Per complessità si intende il numero di elementi dello stimolo che devono essere codificati, tenendo conto, però, che cruciale è il modo con cui tali elementi interagiscono fra loro. Anche con il materiale verbale, infatti, fondamentale è come le parole vengono memorizzate. Ad es. Ericsson, Chase & Faloon nel 1980 hanno descritto gli effetti di una strategia, il chunking, che permetteva di raggruppare il materiale verbale. In questo modo si memorizzava un numero di stimoli (numeri), maggiore a quello raggiunto con la codifica senza chunking.

Nello studio che qui si vuole descrivere si è cercato di applicare la stessa strategia di chunking alla codifica di materiale visuo-spaziale. L’ipotesi era che, anche con materiale visuo-spaziale, questa strategia avvantaggiasse il ricordo di pattern complessi.

Gli stimoli sperimentali erano costituiti da 3 cerchi con al loro interno un numero variabile di posizioni spaziali (identificate con un punto) da memorizzare. Il compito veniva sempre svolto contemporaneamente ad un altro compito, i.e. la soppressione articolatoria, che permetteva di controllare l’utilizzo di strategie verbali. Tre gruppi di soggetti hanno ricevuto istruzioni diverse per facilitare o inibire l’utilizzo di strategie di chunking in codifica: il primo gruppo vedeva il materiale con il chunking indotto dagli stimoli stessi, infatti, le posizioni nei cerchi erano collegate da una sottile linea nel materiale semplice e da 2 linee, nel materiale complesso (gruppo chunk); il secondo gruppo era istruito ad immaginare attivamente la linea o le linee che univano i punti (gruppo chunk imagery) ed un terzo gruppo di controllo doveva memorizzare singolarmente uno dopo l’altro, da sinistra a destra i punti nella loro posizione (gruppo no-chunk).

L’analisi statistica ha evidenziato un forte effetto dovuto alla complessità del materiale e l’interazione significativa tra complessità e strategia. Con il materiale semplice

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(6 posizioni), le 3 strategie portavano a risultati differenti: il gruppo chunk aveva un ricordo significativamente migliore del gruppo no-chunk, mentre il gruppo imagery attivo otteneva una prestazione intermedia rispetto agli altri due gruppi. Con il materiale complesso (12 punti) il ricordo era, globalmente, molto inferiore e l’efficacia delle 3 strategie si equivaleva. In questo caso, evidentemente, il materiale superava la capacità del sistema e le strategie di chunking non aiutavano il ricordo.

Lo studio ha evidenziato che anche con materiale visuo-spaziale la strategia di chunking può aiutare il ricordo, ma che esistono dei limiti di capacità del sistema che ne limitano l’efficacia. Il chunking, inoltre, determinava un miglioramento della prestazione solo quando gli stimoli stessi ne permettevano una utilizzazione immediata e automatica (elaborazione passiva). Al contrario, quando il chunking doveva essere attivamente costruito dal soggetto, modificando lo stimolo, i risultati erano limitati. Ciò conferma l’importanza di distinguere nella MLVS anche tra processi passivi ed attivi di elaborazione (Vecchi e Cornoldi, 1998).

Riferimenti bibliograficiBaddeley, A.D. (1986) Working memory. Oxford, Claredon Press.Baddeley, A.D., Thompson, N. & Buchanan, M. (1975). Word lenght and the structure of

short-term memory. Journal of Verbal Learning and Verbal behaviour, 14:575-589.Ericsson, K.A., Chase, W.G. & Faloon, S. (1980). Acquisition of a memory skill. Scienze,

208:1181-1182.Logie, R.H. (1995). Visuo-spatial working memory. Hove, Earbaum Associates.Vecchi, T. & Cornoldi, C. (1998). Differenze individuali e memoria di lavoro visuo-

spaziale. Giornale Italiano di Psicologia, 25:491-530.

MEMORIA DI IMMAGINI MENTALI: QUANDO LA RICCHEZZA DELLA RAPPRESENTAZIONE NON

FAVORISCE IL RICORDO

Paola PalladinoDipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Introduzione Il declino mnestico che si osserva con l’invecchiamento, e che riguarda anche il

funzionamento della memoria di lavoro, viene attribuito principalmente ad una riduzione della velocità di elaborazione dell’informazione o anche ad una riduzione della capacità di memoria o di “spazio” di elaborazione delle informazioni (Light, 1991). Le difficoltà che quindi incontra l’anziano rispetto al giovane vengono interpretate come una perdita di efficienza, una riduzione e un impoverimento dei contenuti e del funzionamento cognitivo. L’anziano è più lento, ha minori risorse cognitive ed è in difficoltà se deve tenere a mente un certo numero di informazioni e, ancor più, se queste informazioni devono essere, oltre che mantenute, anche elaborate (Light, 1991, Salthouse e Meinz, 1995).Queste descrizioni sperimentali delle capacità cognitive degli anziani poco si combinano con l’esperienza

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comune di persone anziane che mostrano grande ricchezza, nei propri pensieri e nelle proprie memorie, ricchezza che è frutto di esperienza, e che è stata culturalmente e socialmente riconosciuta nei secoli. Un recente approccio teorico ha voluto fornire una spiegazione che potesse conciliare l’abilità dell’anziano in vari aspetti della sua comunicazione linguistica e del suo pensiero con la perdita di efficienza in compiti cognitivi complessi di memoria e/o di elaborazione dell’informazione. Hasher e Zacks (1988) hanno individuato nel calo di efficienza dei meccanismi inibitori una della cause del declino mnestico osservato nell’anziano: l’ipotesi è che un ridotto funzionamento dei meccanismi inibitori “arricchisca” il contenuto della memoria di lavoro di informazioni irrilevanti che creano interferenza e sottraggono risorse alle informazioni più importanti.

Il presente lavoro vuole indagare il cambiamento nella natura e nella ricchezza delle immagini mentali generate e nel loro successivo ricordo con l’invecchiamento. L’obiettivo dell’indagine consiste nel verificare l’ipotesi che il funzionamento cognitivo dei soggetti anziani sia caratterizzato da una ricchezza di contenuti i quali però sono solo in parte rilevanti ai fini del compito. La numerosità dei dettagli irrilevanti non inibiti può contribuire a sovraccaricare le strutture di memoria di lavoro a danno delle informazioni rilevanti. Più in generale, si ipotizza che un buon funzionamento della memoria sia dovuto anche al controllo che i meccanismi inibitori operano sugli effetti di interferenza.

Metodo A ottanta soggetti di quattro diverse fasce di età, giovani, di età compresa tra 19 e

22 anni, giovani-anziani, di età compresa tra 55-65 anni, anziani, di età compresa tra 66-75 anni, e anziani-anziani di età superiore ai 75 anni, tra loro omogenei per educazione e livello socioculturale, è stato chiesto di generare un’immagine mentale per ogni parola presentata e di descriverne le caratteristiche. Al termine del compito di generazione di immagini veniva richiesto al soggetto di rievocare il maggior numero possibile di parole presentate. Sono state presentate 40 parole concrete tutte con un medio-alto valore di immagine (6.40>valore di immagine, I>5.23) e medio-alta frequenza d’uso (36.16>frequenza d’uso, U>2.15) tratte dal repertorio di Cornoldi (1974). Al soggetto venivano concessi 40 secondi per ogni parola al fine di consentire anche la formazione di immagini complesse. Al termine della presentazione, dopo circa un minuto di intervallo, veniva chiesto al soggetto di ricordare, in un tempo massimo di 5 minuti, il maggior numero possibile delle 40 parole ascoltate nel corso della prova.

RisultatiLa prestazione dei soggetti è stata categorizzata ed analizzata sulla base dei

seguenti indici: Tipo di immagine prodotta e numerosità. Due giudici indipendenti hanno classificato

le immagini generate in 4 categorie; generale, specifica, contestuale e autobiografica. I soggetti anziani hanno prodotto un maggior numero di immagini generali ed autobiografiche.

Dettagli rilevanti e irrilevanti. Di ogni immagine generata sono stati distinti i particolari ad essa associati in rilevanti, ovvero dettagli dell’immagine, e irrilevanti, dettagli non in relazione con l’immagine. I soggetti più anziani hanno prodotto un numero comparabile ai giovani di particolari rilevanti ma un numero significativamente superiore di particolari irrilevanti.

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Ricordo incidentale finale, determinato dal numero di parole correttamente rievocate alla fine del compito di generazione di immagini. I soggetti più anziani hanno ricordato un minor numero di parole.

La presente ricerca ha mostrato che con l’invecchiamento si osserva un declino della memoria: tale declino non sembra però essere dovuto ad una riduzione della capacità mnestica né ad un impoverimento delle rappresentazioni mentali, quali le immagini mentali generate. Sembra piuttosto che, come ipotizzato, le difficoltà degli anziani siano riconducibili ad una eccessiva ricchezza e densità delle informazioni che hanno accesso alla memoria di lavoro.

Riferimenti bibliograficiHasher, L. e Zacks, R. (1988). Working memory, comprehension, and aging: A review and a

new view. In G. H. Bower (Ed.), The Psychology of Learning and Motivation (vol. 22), San Diego, CA: Academic Press.

Light, L. L. (1991). Memory and aging: Four hypotheses in search of data. Annual Review of Psychology, 42, 333-376.

Salthouse, T. A. e Meinz, E. J. (1995). Aging, inhibition, working memory, and speed. Journal of Gerontology: Psychological Sciences, 6, 297-306.

IL RUOLO DELL’INFORMAZIONE SPAZIO-TEMPORALE IN COMPITI DI IMMAGINAZIONE

Lara Pelizzon, Maria Antonella BrandimonteDipartimento di Psicologia, Università di Trieste

IntroduzioneQuando osserviamo una figura, noi percepiamo sia l’oggetto disegnato che lo

sfondo su cui l’oggetto è disegnato. Un noto principio di organizzazione percettiva è quello secondo il quale la figura e i suoi attributi costituiscono un’unità percettiva e lo sfondo e i suoi attributi costituiscono un’altra unità percettiva (Koffka, 1935; Koehler, 1947). Nel dominio della memoria, è stato mostrato che c’è più coerenza tra una figura ed il suo colore che tra una figura ed il colore dello sfondo (Asch, 1969; Ceraso, 1985). L’interpretazione comune è che, in memoria, la figura ed il suo sfondo sono rappresentati separatamente. Recenti ricerche hanno però messo in dubbio questa conclusione generale, mostrando che la forma del cartoncino (tipicamente percepita come un attributo dello sfondo) sul quale una figura è disegnata può fungere da cue per il recupero della rappresentazione dell’oggetto (Brandimonte, Pelizzon, Schooler e Luccio, in revisione). Questo risultato pone la questione di base se figura e sfondo, pur costituendo rappresentazioni distinte, possano, in certe condizioni, essere associate attraverso particolari “mediatori”. Uno di questi mediatori potrebbe essere l’informazione relativa alla congruenza tra ordine di presentazione degli stimoli alla codifica e ordine di recupero. Infatti, l’informazione sull’ordine potrebbe servire da cue “spazio-temporale” per creare un legame tra la figura ed il suo sfondo.

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

MetodoNel presente lavoro, abbiamo manipolato il tipo di cue di recupero, la presenza

della Soppressione Articolatoria (d’ora in poi SA) e la congruenza tra l’ordine di presentazione degli stimoli alla codifica e al recupero. Sono stati utilizzati tre tipi di cue: visivo, spazio-temporale e visivo + spazio-temporale. Il compito immaginativo consisteva nella rotazione e scoperta mentale di lettere (cf. Brandimonte, Hitch e Bishop, 1992). Gli stimoli erano costituiti da 6 figure facili da denominare disegnate su cartoncini di forma diversa, difficili da denominare. Al momento del recupero, prima del compito di rotazione, ai soggetti venivano presentati 6 fogli bianchi su ognuno dei quali si trovava a) la sagoma del cartoncino sul quale, alla codifica, era disegnata la figura (condizione “cue visivo”); b) il numero corrispondente all’ordine di presentazione, alla codifica, di ogni figura (condizione “cue spazio-temporale”) oppure c) entrambe le informazioni (condizione “cue visivo + spazio-temporale”).

I soggetti dovevano memorizzare le figure (con o senza SA). Dopo la fase di addestramento, venivano dati loro i 6 fogli con il cue corrispondente alla condizione. Veniva detto loro di formarsi l’immagine mentale della figura corrispondente alla sagoma o al numero del cartoncino, ruotarla, identificare le due lettere da cui era formata e scriverle sul foglio.

RisultatiLa SA non ha avuto nessun effetto, mentre si è riscontrato un effetto significativo

della congruenza tra l’ordine di presentazione degli stimoli alla codifica e quello al recupero ed un effetto del tipo di cue.

L’effetto della congruenza riguarda soltanto la condizione “cue visivo”. Il cue “visivo+spazio-temporale” produce un miglioramento significativo, rispetto agli altri, in tutte le condizioni, mentre il cue “visivo” e il cue “spazio-temporale” producono prestazioni simili.

ConclusioniCon questo esperimento abbiamo scorporato la componente visiva da quella

spazio-temporale, dimostrando che da sole non sono sufficienti a produrre una buona prestazione in compiti immaginativi, è necessaria l’unione delle due componenti. Contemporaneamente, abbiamo escluso la presenza di una componente verbale nel recupero della rappresentazione visiva, infatti tale componente sarebbe stata eliminata dalla SA e quindi avremmo dovuto trovare prestazioni significativamente peggiori nelle condizioni “con SA”.

Possiamo quindi concludere che figura e sfondo non sono unificate in un’unica rappresentazione, bensì in due rappresentazioni associate. Se la rappresentazione fosse unica, allora anche la presentazione del solo “cue visivo” dovrebbe migliorare la prestazione dei soggetti. Questo non avviene e perciò è possibile ipotizzare che, di fronte ad uno stimolo composito, in memoria si formino due rappresentazioni (figura e sfondo), associate attraverso la “mediazione” dell’ordine degli stimoli (“cue spazio-temporale”) che, tuttavia, da solo non è sufficiente a determinare una prestazione elevata.

Riferimenti bibliografici

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Asch, S.E. (1969). A reformulation of the problem of associations. American Psychologist, 24 (2).

Brandimonte, M.A., Hitch, G.J. & Bishop, D.V.M. (1992c). Verbal recoding of visual stimuli impairs mental image transformations. Memory & Cognition, 20, 449-455.

Brandimonte, M.A., Pelizzon, L., Schooler, J.W., & Luccio, R. Attenuation of verbal overshadowing: The effectiveness of background shape as a retrieval cue, Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory & Cognition, manoscritto in revisione.

Brandimonte, M.A., Schooler, J.W., & Gabbino, P. (1997). Attenuating verbal overshadowing through color retrieval cues, Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory & Cognition, 23, 915-31.

Ceraso, J. (1985). Unit formation in perception and memory. In G. Bower (Ed.), The Psychology of Learning and Motivation, 19, New York: Academic Press.

Koehler, W. (1947). Gestalt psychology. New York: Liveright.Koffka, K. (1935). Principles of Gestalt psychology. New York: Harcourt, Brace & World. Schooler, J.V. & Engstler-Schooler, T.Y. (1990). Verbal overshadowing of visual memories:

Some things are better left unsaid. Cognitive Psychology, 22, 36-71.

I RAPPORTI TRA SCRITTURA E LETTURA: UNO STUDIO PRELIMINARE

M. Carmen Usai, Paola ViterboriUniversità di Genova

Uno degli aspetti che ha suscitato interesse nella letteratura relativa ai processi di alfabetizzazione riguarda i rapporti tra abilità di lettura e scrittura.

Alcuni autori hanno ipotizzato l’interdipendenza delle due abilità. Gough, Juel e Griffith (1992; si veda anche Shankweiler e Lundquist, 1992) sostengono che le strategie utilizzate in lettura e scrittura sono le stesse. Stuart e Masterson (1992), riprendendo un’osservazione di Seymour e MacGregor (1984), suggeriscono che lo strutturarsi del lessico ortografico per la scrittura avvenga attraverso il trasferimento delle rappresentazioni dal lessico per la lettura a quello per la scrittura.

Altri autori sostengono, invece, l’esistenza di una certa indipendenza tra abilità di lettura e di scrittura. Secondo Bryant e Bradley (1980), i bambini imparano a leggere e scrivere in modi differenti: la lettura avverrebbe per riconoscimento di insiemi di lettere (visual chunks), mentre la scrittura attraverso l’utilizzo di segmenti fonologici.

Per quanto riguarda lo studio delle prestazioni deficitarie, sono state riscontrate dissociazioni fra le due abilità. Sebbene in età evolutiva sembri esserci un’alta correlazione fra le prestazioni in lettura e scrittura, sono segnalati quadri in cui a un problema in scrittura corrisponde un’adeguata prestazione in lettura (Frith, 1980).

Obiettivo del presente studio é analizzare le prestazioni di lettura e scrittura di un campione di bambini selezionati per la presenza di problemi di apprendimento della scrittura.   

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MetodoPartecipanti

41 bambini frequentanti il secondo ciclo della scuola elementare (18 di IV e 23 di V), selezionati per la presenza di difficoltà in scrittura.Materiali e procedura

Una prova di scrittura costituita da tre dettati (Usai, 1996) é stata somministrata ai bambini di alcune scuole elementari di Genova dalle rispettive insegnanti. I bambini con prestazioni inferiori al primo decile sono stati selezionati ed hanno eseguito le seguenti prove:

- scrittura sotto dettatura di una lista di parole (n=141) e di una lista di non parole (n=24);

- lettura delle medesime liste.Nella lista di parole sono state bilanciate le variabili relative alla lunghezza

misurata in numero di sillabe e alla frequenza d’uso (FdU) per scrittura e lettura nel lessico italiano infantile (Marconi, Ott, Pesenti, Ratti e Tavella, 1994). La lista di parole era rappresentativa di specifiche difficoltà ortografiche.

A ciascun bambino individualmente è stata proposta la prova di scrittura seguita dalla prova di lettura. Per entrambe sono stati registrati i tempi di esecuzione.

RisultatiI tempi di lettura e scrittura sono stati trasformati in punteggi standard per

consentirne un confronto. I risultati preliminari relativi alla sola lista di parole indicano l’esistenza di un’interazione significativa fra i tempi di lettura e scrittura e le FdU (alta e bassa): F(1,39)=18.640 p<0.001. Le prestazioni per le parole ad alta e bassa FdU differiscono significativamente sia in scrittura (rispettivamente 0.13 e -0.03) che in lettura (rispettivamente 0.27 e -0.22) ma con un maggior divario in lettura. Il dato è spiegabile alla luce della strategia utilizzata dai bambini: prevalentemente di tipo lessicale in lettura e di tipo fonologico in scrittura.

La prestazione in lettura è significativamente migliore di quella in scrittura solo per le parole con doppio cluster consonantico (es. sponda) o con cluster a tre consonanti (es. strada) e per le parole relative all’uso di ‘cù e ‘q’ (es. cuoco).     

I dati dimostrano alcune differenze relative a particolari tipologie di difficoltà evidenziate in lettura e scrittura che suggeriscono l’utilizzo di un differenziale sviluppo delle due abilità.

Riferimenti bibliograficiBryant P.E., Bradley L. (1980). Why children sometimes write words which they do not

read. In U. Frith (Ed.), Cognitive processes in spelling (pp.355-370). San Diego, CA: Academic Press.

Frith U. (1980). Unexpected spelling problems. In U. Frith (Ed.), Cognitive processes in spelling (pp.495-515). San Diego, CA: Academic Press.

Gough P.B., Juel C., Griffith P.L. (1992). Reading, spelling and the ortographic cipher. In P.B. Gough, L.C. Ehri & R. Treiman (Eds.), Reading acquisition (pp.35-48). Hillsdale, N.J.: Lawrence Erlbaum Associates.

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Juel C., Griffith P.L., Gough P.B. (1986). Acquisition of literacy: a longitudinal study of children in first and second grade. Journal of Educational Psychology, 78, 243-255.

Luzzatti, C., Laiacona, M., Allamano, N., De Tanti, A., Inzaghi, M.G., Lorenzi, L. (1994). Un test per la diagnosi dei deficit di scrittura: principi di costruzione e dati normativi. Ricerche di Psicologia, 18 (3), 137-160.

Marconi, L., Ott, M., Pesenti, E., Ratti, D., Tavella, M. (1994). Lessico Elementare. Dati statistici sull’italiano scritto e letto dai bambini delle elementari. Zanichelli, Bologna.

Seymour P.H.K., MacGregor C.J. (1984). Developmental dyslexia: a cognitive experimental analysis of phonological, morphemic and visual impairments. Cognitive Neuropsychology, 1(1), 43-83.

Shankweiler D., Lundquist E. (1992). On relations between learning to spell and learning to read. In R. Frost, L. Katz (Eds.), Ortography, phonology, morphology and meaning. Elsevier Science Publisher, Amsterdam, 179-192.

Stuart M., Masterson J. (1992). Patterns of reading and spelling in 10-years old children related to prereading phonological abilities. Journal of Experimental Child Psychology, 54, 168-187.

Usai M.C. (1996). Aspetti metodologici dello studio sull’acquisizione delle competenze ortografiche. Tesi di Dottorato, Università di Genova.

NEUROPSICOLOGIA

MENTE E MOVIMENTO: UNO STUDIO PET SULLA PERCEZIONE ED INTERPRETAZIONE DI MOVIMENTI

INTENZIONALI COMPLESSI

Fulvia Castelli 1, Francesca Happè 1,2, Uta Frith 1, Chris Frith 3

1 Institute of Cognitive Neuroscience, University College London2 Institute of Psychiatry, De Crespigny Park, London 3 Wellcome Department of Cognitive Neurology, London

IntroduzioneL’attività cerebrale sottostante la “teoria della mente”, ovvero la capacità di

attribuire pensieri ed emozioni a se stessi e ad altri al fine di descriverne e prevederne il comportamento, è stata negli ultimi anni oggetto di studio nel campo della neuro-immagine. A differenza dei precedenti paradigmi impiegati per investigare la “teoria della mente” (Fletcher et al, 1995, Happè 1996), basati sulla comprensione verbale, il presente lavoro si basa esclusivamente sulla percezione visiva.

Heider e Simmel (1944) hanno dimostrato che è possibile attribuire stati mentali a figure geometriche semplicemente osservando la traiettoria dei loro movimenti. Inoltre, Berry et al. (1992, 1993) hanno sottolineato che la propensione di adulti e bambini a

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

descrivere le animazioni in termini antropomorfici è basata sulle proprietà del movimento caratteristiche del filmato, e non sulle caratteristiche degli stimoli.

Prendendo spunto da questi lavori, abbiamo creato dei cartoni animati muti i cui protagonisti sono un triangolo grande e uno più piccolo che si muovono su di uno sfondo bianco. Per poter investigare l’attività cerebrale associata all’attribuzione di stati mentali (capacità anche denominata “mind-reading”), abbiamo creato tre tipi di animazioni, caratterizzate da diversi tipi di movimento. Nella condizione “teoria della mente” i due triangoli interagiscono in modo complesso, come se il loro movimento fosse determinato dai loro pensieri o sentimenti. Nella condizione “comportamentale” -goal-directed- i triangoli si muovono prendendo in considerazione le reciproche azioni. L’ultimo tipo di movimento è di tipo “random”, senza alcuna interazione tra i due triangoli.

L’ipotesi riguarda l’attività celebrale associata all’osservazione delle animazioni in cui i soggetti attribuiscono stati mentali complessi. Si prevede un incremento di attività nell’area prefrontale media, simile ai risultati di precedenti studi PET.

MetodoIl campione consiste in sei soggetti volontari adulti maschi (20-31 anni) a cui è

dato un rimborso spese. Durante lo scanning i soggetti hanno osservato in totale 12 cartoni animati sullo schermo di un computer, quattro per ogni tipo di movimento: movimento che elicita ’attribuzione di stati intenzionali, di azioni finalizzate, e di traiettoria random. Ogni sequenza dura circa 34-45 secondi. La presentazione delle animazioni era controbilanciata tra soggetti, ed era divisa in due blocchi: in uno veniva suggerito al soggetto, prima di ogni scan, che tipo di animazione avrebbe visto, nell’altro non veniva dato alcun suggerimento. Il compito richiesto consisteva nell’osservare attentamente il filmato e, alla fine dello scanning, rispondere alla domanda “Che cosa succedeva in questa animazione?”. Le risposte sono state registrate e codificate relativamente al tipo di descrizione fornita: termini intenzionali, lunghezza, correttezza, esitazione.

L’analisi statistica dei dati PET è stata eseguita con la tecnica di “Statistical Parametric Mapping” implemented in SPM97 (Wellcome Department of Cognitive Neurology, Friston et al. 1995a). Per ogni soggetto, un set di 12 PET scan è stato automaticamente ri-allineato e normalizzato sulla dimensione di Tailarach e Tournoux (1988).

RisultatiDescrizioni verbali

I soggetti hanno attribuito al movimento dei protagonisti delle animazioni un diverso grado di intenzionalità (F (2,10)= 154.75, p< .000: maggiore intenzionalità alle animazioni “teoria della mente” rispetto alle “comportamentali” (t-value= -5.89, p= .002) e alle “random” (t-value= -16.04, p< .000). Al movimento random sono stati attribuiti significativamente meno stati intenzionali rispetto alle animazioni comportamentali (t-value= 17.43, p< .000). La condizione relativa al suggerimento non ha fornito alcun effetto significativo. Attività cerebrale

Non si è osservata alcuna differenza relativa all’ordine di presentazione o alla condizione di suggerimento. I tre tipi di animazione hanno provocato invece significative differenze nel flusso cerebrale sanguigno.    I risultati intenzionali (metodo della sottrazione:

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animazioni “teoria della mente” meno animazioni “comportamentali” e “random”), indicano un aumento di attività cerebrale in associazione con l’attribuzione di stati intenzionali in quattro aree principali: il solco temporale superiore, il giro occipitale, il giro fusiforme ed il giro frontale medio.

ConclusioniIl risultato riguardante l’aumento di attività nell’area medio-frontale (Broadman

area 9) durante l’osservazione di movimenti intenzionali conferma precedenti risultati PET. La stessa area è stata associata all’osservazione del movimento di un essere umano rappresentato da un tracciato luminoso (Bonda et al., 1996). L’attività della regione medio-frontale è stata osservata anche in studi di auto-monitoraggio mentale. La giuntura temporo-parietale fa parte del network cerebrale attivato durante l’osservazione di movimenti biologici.

L’interesse nell’attività cerebrale durante l’attribuzione di stati mentali nasce dalla speranza di una migliore comprensione del funzionamento neurale anormale in individui che presentano un deficit cognitivo specifico riguardante la capacità di “mentalizzare” (Autismo e Sindrome di Asperger).

Riferimenti bibliograficiBerry,-Diane-S.; Misovich,-Stephen-J.; Kean,-Kevin-J.; Baron,-Reuben-M.(1992) Effects

of disruption of structure and motion on perceptions of social causality. Personality-and-Social-Psychology-Bulletin. Apr; Vol 18(2): 237-244

Berry,-Diane-S.; Springer,-Ken (1993) Structure, motion, and preschoolers’ perceptions of social causality. Ecological-Psychology. Vol 5(4): 273-283

Bonda-E; Petrides-M; Ostry-D; Evans-A (1996). Specific involvement of human parietal systems and the amygdala in the perception of biological motion J-Neurosci, Jun 1; 16(11), 3737-44

Fletcher, P.C., Happé, F., Frith, U., Baker, S.C., Dolan, R.J., Frackowiak, R.S.J., & Frith, C.D. (1995) Other minds in the brain: a functional imaging study of “theory of mind” in story comprehension. Cognition, 57, 109-128.

Friston, K.J., Holmes, A.P., Worsley, K.J., Poline, J-B., Frith, C.D. & Frackowiak, R.S.J. (1995a) Statistical parametric maps in functional imaging: A General Linear approach. Human Brain Mapping, 2, 189-210.

Happé, F., Ehlers, S., Fletcher, P., Frith, U., Johansson, M., Gillberg, C., Dolan, R., Frackowiak, R. & Frith, C. (1996) ‘Theory of mind’ in the brain: Evidence from a PET scan study of Asperger syndrome. NeuroReport, 8, 197-201.

Heider,-F.; Simmel,-M. (1944) An experimental study of apparent behavior. American-Journal-of-Psychology, 57, pp. 243-259.

Talairach, J. & Tournoux, P. (1988) A Co-planar Stereotaxic Atlas of a Human Brain. Stuttgart, Thieme-Verlag.

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PIANO MEDIANO SAGITTALE E BISEZIONE DI LINEE IN PAZIENTI CON NEGLECT: EFFETTI DIREZIONALI

DIVERGENTI

Giorgia Committeri, Gaspare Galati, Fabiana Patria, Luigi Pizzamiglio*Centro Ricerche Neuropsicologia, IRCCS S. Lucia * Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza”, Roma

IntroduzioneIl piano mediano sagittale del corpo è un riferimento di primaria importanza per la

costruzione di rappresentazioni spaziali egocentriche. Le teorie attuali sull’eminegligenza spaziale (Karnath, 1997) riconoscono nella deviazione ipsilesionale di tale sistema un aspetto fondamentale e causale del disturbo. La maggioranza degli studi ha descritto uno spostamento sistematico verso destra della posizione percepita del piano mediano in pazienti con eminegligenza sinistra, misurata con un compito di puntamento manuale al buio o chiedendo ai soggetti di fermare uno stimolo visivo in movimento nel punto ritenuto essere “dritto davanti a sé”. Negli ultimi anni, però, sono emerse evidenze a favore di un andamento più complesso e non direzionale delle prestazioni di questi pazienti. In particolare, Farné e collaboratori (1998) hanno evidenziato nel compito visivo uno spostamento ipsilesionale solamente nelle prove in cui lo stimolo visivo si muoveva in direzione controlesionale: un chiaro effetto della direzione di scansione. Analogamente, il compito di puntamento manuale potrebbe risentire di bias motori direzionali, che sono stati descritti nei pazienti eminegligenti (Heilman, 1985). Il presente lavoro ha voluto verificare l’esistenza o meno di uno spostamento ipsilesionale del piano mediano sagittale, cercando di eliminare i bias appena descritti. Per fare ciò, è stata utilizzata la tecnica psicofisica degli stimoli costanti, chiedendo ai soggetti di giudicare se una barretta verticale posta in posizioni prestabilite lungo la dimensione orizzontale dello spazio, fosse a destra oppure a sinistra rispetto al piano mediano (Hasselbach e Butter, 1997): tale paradigma non prevede stimoli in movimento e, esteso alla modalità propriocettiva, non richiede risposte motorie. L’utilizzo dello stesso paradigma anche in un compito di bisezione di linee ha inoltre permesso di effettuare il confronto tra giudizi di natura egocentrica e giudizi di natura allocentrica.

MetodoSono stati esaminati 10 cerebrolesi destri con neglect per lo spazio sinistro, 10

cerebrolesi destri senza neglect e infine 10 soggetti senza lesioni cerebrali. Il lato e la localizzazione di queste ultime è stato verificato mediante TAC o MRI. Le sessioni sperimentali erano due: 1) una sessione “visiva”, costituita da due compiti, nella quale i soggetti, posti di fronte ad uno schermo con la testa bloccata, dovevano riportare verbalmente se una barretta bianca verticale si trovava a destra oppure a sinistra rispetto al loro piano mediano oppure rispetto al centro di una linea orizzontale; 2) una sessione “propriocettiva”, nella quale i soggetti, con gli occhi coperti da una mascherina, dovevano riportare verbalmente se la loro mano destra, portata passivamente dallo sperimentatore in posizioni prestabilite lungo il piano perpendicolare al piano mediano sagittale, si trovava a destra oppure a sinistra di esso. Attraverso il modello probit di “stima della massima

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verosimiglianza” è stato calcolato, per ciascun soggetto, il punto in cui la probabilità di dire “destra” e quella di dire “sinistra” si equivalevano (PSE o punto di uguaglianza soggettiva ). Oltre ad esso, è stato stimato anche l’intervallo di differenza appena percepibile (JND): minore tale intervallo, maggiore la consistenza da parte del soggetto nel fornire le proprie risposte. Le differenze tra i gruppi nei tre compiti per quanto riguarda il PSE e il JND sono state valutate con una serie di analisi della varianza.

Risultati Piano mediano soggettivo visivo e propriocettivo: il punto di uguaglianza

soggettiva (PSE) non differiva significativamente nei tre gruppi esaminati. Negli stessi due compiti la differenza appena percepibile (JND) era invece significativamente più grande nel gruppo di pazienti con neglect rispetto ai cerebrolesi destri e ai controlli.

Bisezione di linee (modalità visiva): il PSE presentava una significativa differenza nei pazienti con neglect, nei quali il punto mediano era spostato verso la destra del segmento. Anche in questo compito la JND dei pazienti con neglect era significativamente maggiore rispetto agli altri due gruppi; tale valore era comunque significativamente minore rispetto a quello da loro ottenuto ai due compiti di midline.

ConclusioniIl presente lavoro ha evidenziato una netta dissociazione tra la prestazione dei

pazienti con neglect sinistro in un compito classico di bisezione di linee e quella in un compito di midline soggettiva: mentre nella bisezione é emerso l’atteso spostamento verso destra del punto di uguaglianza soggettiva, i giudizi di midline non sono risultati affetti da errori direzionali, in entrambe le modalità investigate. Nonostante ciò, essi erano caratterizzati da una variabilità di giudizio molto elevata, maggiore rispetto a quella del compito di bisezione: questi dati depongono a favore di una difficoltà qualitativamente diversa, da parte dei pazienti con neglect, nel compiere giudizi di localizzazione in relazione al proprio corpo (egocentrici) o in relazione ad un oggetto esterno ad esso (allocentrici). In conclusione, il sistema di riferimento egocentrico sembra essere effettivamente danneggiato nel neglect, ma questo danneggiamento sembra essere di tipo più complesso di una semplice deviazione del piano mediano.

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0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

C N+ N-

Medie JND

-2

-1. 5

-1

-. 5

0

.5

1

1 .5

2

C N+ N-

Me die PSE

cm

bisezione visiva

midline visiva

midline propriocettiva

Riferimenti bibliograficiFarné A., Ponti F., Làdavas E. (1998). Neuropsychologia 36 (7): 611-623.Hasselback M., Butter C.M. (1997) In: Thier P., Karnath H.-O. (Eds), Parietal lobe

contributions to orientation in 3D space. Springer-Verlag, Heidelberg, pp.579-595.Heilman K.M., Bowers D., Coslett H.B., Whelan H., Watson R.T. (1985) Neurology 35:

855-859.Karnath H.O. (1997) In: Thier P., Karnath H.-O. (Eds), Parietal lobe contributions to

orientation in 3D space. Springer-Verlag, Heidelberg, pp.497-520.

VALUTAZIONE DELL’ANISOMETRIA ORIZZONTALE NELL’EMINATTENZIONE MEDIANTE COMPITI

NAVIGAZIONALI E NON NAVIGAZIONALI

Giuseppe Iaria, Cecilia Guariglia*, Gaspare Galati, Luigi Pizzamiglio*Centro Ricerche Neuropsicologia, IRCCS Ospedale S. Lucia*Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza”, Roma

IntroduzioneNegli ultimi anni, una serie di lavori ha dimostrato che nell’eminattenzione è

presente un’anisometria della rappresentazione dello spazio lungo la dimensione orizzontale (Bisiach, Rusconi, Peretti, & Vallar, 1994), consistente in un’espansione della rappresentazione dell’emispazio sinistro ed in una compressione di quello destro. Recentemente, Doricchi ed Angelelli (Doricchi & Angelelli, 1999) hanno rilevato come l’anisometria sia maggiore nei pazienti eminattenti con concomitante deficit di campo visivo, rispetto a quelli senza deficit di campo visivo. Poiché i compiti utilizzati negli

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esperimenti che valutano la presenza di anisometria orizzontale sono per lo più compiti di elaborazione visuo-spaziale, ci siamo chiesti se l’effetto di anisometria sia presente solo quando si richiede un’elaborazione visuo-percettiva o visuo-immaginativa dello stimolo, o anche in un compito navigazionale, in cui si richieda una valutazione delle distanze percorse tramite locomozione passiva, compito che richiede l’elaborazione di informazioni principalmente di tipo vestibolare (Israël, Grasso, Georges-François, Tsuzuku, & Berthoz, 1997).

MetodoHanno preso parte a questo studio tre gruppi di soggetti: un gruppo composto di

pazienti cerebrolesi destri con eminattenzione, diviso in due sottogruppi in base alla presenza o meno di deficit di campo visivo (N+E+, N+E-); un gruppo composto di pazienti cerebrolesi destri senza eminattenzione (N-); ed un gruppo di soggetti di controllo normali (C). Tutti i pazienti cerebrolesi sono stati sottoposti ad una batteria di test per la valutazione dell’eminattenzione (Pizzamiglio, Judica, Razzano, & Zoccolotti, 1989), ad esame neurologico, esame campimetrico ed un esame neuroradiologico (RM o TC). Erano proposti due compiti:a. nel compito navigazionale, i soggetti sedevano su un robot mobile che poteva essere

guidato da un computer o dal paziente stesso tramite un joystick. Il computer era programmato per eseguire percorsi rettilinei in tre condizioni diverse: in avanti, verso sinistra e verso destra. Compito dei soggetti era quello di replicare il percorso effettuato dal robot, guidandolo tramite il joystick.

b. Nel compito non navigazionale, i soggetti sedevano di fronte ad un’asta orizzontale, sulla quale era possibile far scorrere con la mano destra un cursore; il centro dell’asta veniva fatto corrispondere al piano mediano corporeo del soggetto. In ogni trial la mano dei soggetti veniva posta sul cursore, posizionato ad una distanza prefissata a destra o a sinistra dal centro. Compito dei soggetti era spostare il cursore fino al centro dell’asta, dove era posto un fermo mobile. Successivamente il fermo veniva rimosso ed i soggetti dovevano muovere il cursore nella stessa direzione, percorrendo la stessa distanza.

Ambedue i compiti erano eseguiti in due condizioni diverse: occhi chiusi ed occhi aperti

Risultati e conclusioniSono stati analizzati gli errori compiuti dai soggetti nel replicare i percorsi

effettuati dal robot (compito navigazionale) e nel replicare la distanza effettuata con il cursore (compito non navigazionale).

I pazienti eminattenti compivano errori significativamente maggiori di quelli commessi dagli N- e C sia nel compito navigazionale che in quello non navigazionale. In ambedue i compiti, non si sono rilevate differenze significative tra le prestazioni fornite dai 4 gruppi di soggetti nelle due condizioni occhi chiusi/occhi aperti. Per quanto riguarda la direzione del movimento, era presente una tendenza dei pazienti N+ a compiere pattern diversi di errori nelle due direzioni: ciò avveniva nel compito non navigazionale, ma non in quello navigazionale.

Questi dati sembrano dimostrare che l’anisometria della rappresentazione dello spazio sia rilevabile in compiti di tipo non navigazionale, ma non in compiti navigazionali,

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in cui la rappresentazione delle distanze da riprodurre viene elaborata prevalentemente sulla base di informazioni vestibolari e non visive.

Riferimenti bibliograficiBisiach, E., Rusconi, M. L., Peretti, V., & Vallar, G. (1994). Challenging current accounts of

unilateral neglect. Neuropsychologia, 32, 1431-1434.Doricchi, F., & Angelelli, P. (1999). Misrepresentation of horizontal space: the role of

hemianopia. Neurology, in press.Israël, I., Grasso, R., Georges-François, P., Tsuzuku, T., & Berthoz, A. (1997). Spatial

memory and path integration studied by self-driven passive linear displacement. I. Basic properties. Journal of Neurophysiology, 77, 3180-3192.

Pizzamiglio, L., Judica, A., Razzano, C., & Zoccolotti, P. (1989). Toward a comprehensive diagnosis of visual-spatial disorders in unilateral brain-damaged patients. Psychological Assessment, 5, 199-218.

COME LA POSIZIONE DELLA TESTA INFLUENZA LA PERCEZIONE DELLA DIREZIONE DELLO SGUARDO:

IMPRECISIONE DEL SISTEMA PERCETTIVO

Paola Ricciardelli1,2, Jon Driver1

1Institute of Cognitive Neuroscience, University College London, UK 2Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Modena

IntroduzioneDiversi lavori hanno dimostrato che la posizione della testa influenza la percezione

della direzione dello sguardo altrui (Gibson & Pick, 1963; Cline, 1966; Anstis et al., 1969; Perrett et al., 1985; Vecera & Johnson, 1995). Dato che le orbite oculari sono parte della testa stessa non sorprende che l’orientamento del capo limiti o influenzi la posizione degli occhi all’interno dell’orbita. Posizione questa che permette ad un individuo di dirigere il proprio sguardo su un dato punto nell’ambiente, e ad un osservatore esterno di percepire la direzione dello sguardo. Tuttavia, ciò che è tuttora confuso è in che modo la testa influenzi la percezione dello sguardo e, se e come, il sistema percettivo sia in grado di compensare o meno questa “distorsione”.

MetodoI soggetti partecipanti allo studio erano tutti volontari, la maggior parte studenti

universitari, e ricevevano un rimborso spese per la loro partecipazione. Come stimoli sono state impiegate fotografie di una persona con la testa girata a destra o a sinistra rispetto all’osservatore e lo sguardo diretto nella stessa direzione assunta dalla testa o nella direzione opposta. Il compito richiesto era di giudicare la direzione dello sguardo della persona ritratta in fotografia, premendo uno di due tasti sulla tastiera di un computer. I tempi di risposta sono stati sottoposti al test dell’Analisi della Varianza con un unico fattore (congruenza) a due livelli (testa e sguardo congruenti vs incongruenti).

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Risultati e conclusioniTempi di risposta significativamente più lunghi (F(1,31)=5.26, p<.05) sono stati

riscontrati in tutte le condizioni in cui sia la testa che la direzione dello sguardo erano allineati e congruenti (620 ms) rispetto a quando la testa e lo sguardo erano incongruenti (578 ms), indicando un’influenza della posizione della testa sulla percezione della direzione dello sguardo nella direzione opposta a quella della testa. In particolare, sembrerebbe essere la quantità visibile di sclera all’interno dell’orbita oculare a risentire maggiormente dell’influenza della posizione della testa. Risultato questo che consoliderebbe ulteriormente studi psicofisici precedenti (Anstis et al., 1969) secondo i quali sarebbe proprio questo uno degli elementi su cui il sistema percettivo si baserebbe per giudicare la direzione dello sguardo. Inoltre, il costo pagato nei tempi di risposta quando testa e sguardo sono allineati suggerirebbe un’incapacità del sistema percettivo di tenere in debito conto la posizione della testa relativamente alla direzione dello sguardo.

Riferimenti bibliograficiAnstis, S.M., Mayhew, J.W., and Morley, T. (1969). The perception of where a Tv portrait is

looking. American Journal of Psychology, 82, 474-489.Cline, M.G. (1966). The perception of where a person is looking. American Journal of

Psychology, 80, 41-50.Gibson, J.J. & Pick, A.D. (1962). Perception of another’s person’s looking behaviour.

American Journal of Psychology, 76, 386-394.Perrett, D.I., Smith, P.A.J., Potter, D.D., Minstlin, A.J., Head, A.S., Milner, A.D. & Jeeves,

M.A. (1985). Visual cells in the temporal cortex sensitive to face view and gaze direction. Proceeding of the Royal Society of London, B223, 293-317.

Vecera, S.P., & Johnson, M.h. (1995). Gaze detection and the cortical processing of faces: Evidence from infants and adults. Visual Cognition, 2, 59-87.

PERCEZIONE

EFFETTI DI PRIMING NEGATIVO NELLA PERCEZIONE DEL MOVIMENTO

Raffaella DelbelloDipartimento di Psicologia, Università di Trieste

IntroduzioneGli effetti di priming negativo consistono in un rallentamento della risposta ad uno

stimolo identico o correlato ad uno presentato nella prova immediatamente precedente. Tali effetti compaiono in diversi ambiti cognitivi e ciò ha dato lo spunto per ampliare le indagini su questo fenomeno utilizzando degli stimoli che possiedono delle qualità dinamiche. Treisman e DeShepper (1996) sono stati i primi ad indagare gli effetti di priming

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

utilizzando degli stimoli in movimento. I risultati del loro esperimento hanno portato delle prove a favore dell’esistenza di effetti di priming in un compito in cui sono stati impiegati stimoli con caratteristiche dinamiche. Gli stimoli utilizzati da Treisman e DeShepper potevano contenere oltre ad una informazione relativa al movimento, delle informazioni spaziali che permettevano di codificare lo stimolo anche come una forma bidimensionale. Tale ambiguità    non ha permesso di attribuire gli effetti di priming riscontrati in quell’esperimento alla sola percezione del movimento. Nel presente lavoro, viene presentata una nuova metodologia per lo studio degli effetti di priming negativo nella percezione del movimento, che si è dimostrata in grado di ovviare ai limiti del paradigma utilizzato da Treisman e DeShepper. Per scindere il movimento da qualsiasi indizio di forma sono stati impiegati degli stimoli costituiti da configurazioni casuali di punti in traslazione sullo schermo del computer. Nel 1998, Raymond e Isaack hanno studiato l’influenza che un episodio di movimento esercita sulla percezione di un episodio di movimento immediatamente successivo. I loro risultati hanno evidenziato un fenomeno chiamato contrasto direzionale (da ora in poi CD). Tale fenomeno consiste in una significativa diminuzione della soglia di detezione di movimento coerente in configurazioni casuali di punti, quando l’episodio a cui il soggetto era chiamato a rispondere veniva preceduto da un episodio di movimento con direzione opposta. Per studiare gli effetti di priming negativo nella percezione del movimento, nella presente ricerca il paradigma del CD è stato modificato introducendo dei distrattori nello stimolo, con l’obiettivo di indurre una modulazione dell’attenzione che fosse in grado di generare effetti di priming negativo.

MetodoAll’esperimento hanno partecipato due soggetti esperti e quattro soggetti ingenui.

Gli stimoli erano costituiti da due configurazioni sovrapposte di punti casuali    in traslazione, una di colore bianco (stimolo target) e una di colore giallo (distrattore). Ogni prova comprendeva una fase di prime e una fase di probe, separate da una schermata vuota. Le condizioni sperimentali a cui tutti i soggetti venivano sottoposti si differenziavano in base al rapporto tra lo stimolo target presentato nel probe e gli stimoli presentati nel prime.

- Nella condizione di facilitazione lo stimolo target al probe si muoveva nella stessa direzione dello stimolo target al prime.

- Nella condizione di priming negativo lo stimolo target al probe si muoveva nella stessa direzione dello stimolo distrattore al prime.

- Nella condizione di controllo alla fase di probe lo stimolo presentava due direzioni mai comparse nel prime.

La proporzione di moto coerente al prime era sempre del 100%, mentre la proporzione di moto coerente al probe variava in base al metodo della staircase. La misura dipendente era la soglia di detezione di moto coerente alla fase di probe. Secondo l’ipotesi sperimentale, la soglia di detezione di moto coerente doveva innalzarsi significativamente nella condizione di priming negativo, in quanto il movimento del target al probe corrispondeva al movimento del distrattore al prime che veniva volontariamente ignorato.

Risultati e conclusioniCome previsto nell’ipotesi sperimentale, oltre a replicare i risultati sul CD è stato

trovato un significativo aumento nella soglia di detezione di moto coerente nella condizione di priming negativo. Dato l’accorgimento metodologico che ha permesso di eliminare la

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

possibile confusione tra forma e movimento, questi risultati possono venire interpretati come un effetto di priming negativo nella percezione del movimento. Infatti l’innalzamento della soglia registrato nella condizione di priming negativo è attribuibile all’inibizione attiva del distrattore al prime. La diminuzione della soglia di detezione di moto coerente rilevata nella condizione di facilitazione è per contro imputabile all’elaborazione del target al prime che si ripresenta identico nella fase di probe.

Riferimenti bibliograficiNeill, W. T. (1997). Episodic retrieval in negative priming and repetition priming. Journal

of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition, 23, 1291-1305.Raymond, J. E. e Isaack, M (1998). Successive episodes produce direction contrast effects

in motion perception. Vision Research, 38, 579-589.Treisman, A. e DeSchepper, B. (1996). Object tokens, attention, and visual memory. In Inui,

T., McClelland, J. L. (Eds.),. Attention and Performance, XVI: Information integration in perception and communication (pp. 15-46). Cambridge, MA, USA: Mit Press.

EFFETTI DI PRIMING SEMANTICO A SEGUITO DELLA PRESENTAZIONE SUBLIMINALE DI FIGURE

Roberto Dell’Acqua, Jonathan GraingerUniversità di Padova e CNRS, Aix en Provence

IntroduzioneQuali sono le informazioni che è possibile estrarre da uno stimolo presentato

subliminalmente? Questa domanda ha suscitato l’interesse di un numero notevole di ricercatori fin dall’inizio del secolo, e continua a suscitarne anche ai nostri giorni (si veda Draine e Greenwald, 1998). La ragione per cui una risposta soddisfacente sembra ancora lontana è legata a difficoltà di ordine tanto teorico quanto metodologico. Da un punto di vista teorico, va ravvisata una scarsa concordanza sulla definizione di ‘subliminalità’ degli stimoli (si veda Holender, 1986); da un punto di vista metodologico, la difficoltà è legata alla stima della potenza statistica necessaria per la rilevazione di effetti comportamentali elicitati dalla stimolazione subliminale.

Scopo del presente lavoro è quello di fornire evidenza empirica a favore della dissociazione tra una misura diretta dell’influenza sul comportamento osservabile di stimolazione subliminale e una misura indiretta in forma di ‘effetto priming’ (si veda Greenwald, Klinger, e Schuh, 1995). Nello specifico, la presente indagine empirica si è concentrata sulla misurazione di effetti determinati dalla presentazione subliminale di figure-prime in un compito di categorizzazione di parole-target (viventi/non-viventi) e in un compito di denominazione di figure-target. L’assenza di riconoscimento delle figure-prime (da parte degli stessi soggetti sperimentali che eseguivano i compiti sperimentali) è stata dimostrata tramite due prove sperimentali di categorizzazione delle figure-prime come 1) viventi/non-viventi, e 2) esistenti/non-esistenti.

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

MetodoIn ciascuna prova dei presenti esperimenti, una serie di stimoli era presentata sullo

schermo di un computer. Il primo stimolo era costituito da un punto di fissazione su cui il soggetto era invitato a focalizzare la propria attenzione (800 ms). La presentazione del punto di fissazione era seguita dalla presentazione di pre-mascheramento (100 ms). Veniva quindi presentata una figura-prime (17 ms), seguita da una schermata ‘blank’ (17 ms), e da post-mascheramento (100 ms). Al termine della presentazione del post-mascheramento, veniva presentata una parola-target (Esperimento 1a), o una figura-target (Esperimento 2a). Il compito del soggetto era quello di categorizzare (risposta manuale) la parola-target come indicante un concetto vivente/non-vivente (Esperimento 1a), o di denominare (risposta vocale) la figura-target (Esperimento 2a). Ogni soggetto era invitato ad eseguire il compito sperimentale il più velocemente e accuratamente possibile.

In prove diverse, lo stimolo-prime e lo stimolo-target potevano essere identici (es. cane-cane; condizione ID), semanticamente congruenti (es. cane-gatto; condizione SC), o semanticamente incongruenti (es. cane-bottiglia; condizione SI).

Al termine degli Esperimenti 1a e 2a, ogni soggetto era esplicitamente invitato a tentare di riconoscere le figure-prime, che venivano presentate una alla volta, all’interno della stessa sequenza di eventi descritta per gli Esperimenti 1a e 2a. I soggetti erano invitati a categorizzare le figure-prime come indicanti concetti viventi/non-viventi (Esperimento 2a), o concetti reali/non-reali (Esperimento 2b). Negli esperimenti 2a e 2b, gli stimoli-target erano sostituiti con una stringa di 5 ‘X’.

RisultatiL’analisi dei tempi di reazione ha messo in luce i seguenti risultati. Il tempo

impiegato tanto per categorizzare (Esperimento 1a) quanto per denominare (Esperimento 2a) gli stimoli-target era inferiore nelle condizioni ID e SC rispetto alla condizione SI (effetto priming). La quantità di effetto priming era statisticamente equivalente nelle condizioni ID e SC. L’analisi dei risultati ottenuti dalla somministrazione degli Esperimenti 2a e 2b ha messo in luce valori medi di d’ prossimi allo 0, ovvero, i risultati suggerivano che i soggetti eseguivano i compiti previsti per gli Esperimenti 2a e 2b con prestazioni a livello del caso.

ConclusioniI risultati dei presenti esperimenti supportano ed estendono studi precedenti che

hanno indagato l’influenza della stimolazione subliminale sul comportamento osservato. L’originalità della presente ricerca sta nell’aver usato stimoli pittorici e non stimoli verbali, ovvero, gli stimoli usati nella totalità degli studi precedenti. I due esperimenti riportati nel presente contributo fanno parte di una più ampia linea di ricerca sull’elaborazione di stimolazione subliminale che ha lo scopo di indagare una serie di questioni centrali in questo campo. Ad esempio, verranno citati risultati di altri esperimenti volti ad indagare le caratteristiche temporali dell’attivazione di informazione semantica. Inoltre, si daranno cenni dei risultati di una serie di esperimenti volti ad indagare possibili influenze del compito sperimentale sulla quantità di effetto priming a seguito della presentazione subliminale di figure.

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Riferimenti bibliograficiDraine, S. C., e Greenwald, A. G. (1998). Replicable unconscious semantic priming.

Journal of Experimental Psychology: General, 127, 286-303.Greenwald, A. G., Klinger, M. R., e Schuh, E. S. (1995). Activation by marginally

perceptible (‘subliminal’) stimuli: Dissociation of unconscious from conscious cognition. Journal of Experimental Psychology: General, 124, 22-42.

ORIENTAMENTO ATTENTIVO E STRUTTURA TEMPORALE NELLA VALUTAZIONE DELLA DURATA

Rosalia Di MatteoDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”, ECONA

IntroduzioneI modelli che tentano di spiegare la capacità di valutare il tempo possono essere

suddivisi in due ampie categorie: alcuni, attribuendo tale capacità all’attività di un orologio interno, individuano una relazione diretta tra l’accuratezza delle stime temporali e il grado di attenzione dedicata al tempo (Macar, 1996; Bueno, 1994), altri, considerandola un prodotto collaterale dei normali processi di elaborazione dell’informazione, attribuiscono un ruolo principale alle modalità di rappresentazione delle informazioni in memoria (Ornstein, 1969; Block 1990; Zakay, 1990). Alcune ipotesi alternative, tuttavia, sottolineano l’importanza della segmentazione e della coesione nel flusso degli eventi nella valutazione della durata. In questa ottica Jones e Boltz (1989) suggeriscono che gli eventi del mondo naturale, essendo caratterizzati da un grado elevato di coerenza strutturale, tendono ad evocare modalità attentive di tipo automatico. Gli eventi caratterizzati da un livello basso di coerenza interna richiedono, al contrario, una modalità attentiva di tipo controllato ed una segmentazione attiva del flusso di stimolazione attraverso il ricorso a strategie di conteggio e raggruppamento. Su questa base e nell’ambito della linea di ricerca sviluppata in collaborazione con Olivetti Belardinelli viene ipotizzato che la coerenza strutturale degli eventi interagisca con l’attenzione dedicata al tempo nel determinare l’accuratezza nella valutazione della durata.

MetodoÈ stato utilizzato un paradigma di doppio compito per esaminare l’accuratezza

della valutazione prospettica della durata di eventi acustici strutturati in diverse condizioni di orientamento attentivo. All’esperimento hanno partecipato 50 studenti iscritti al primo anno di Psicologia. È stato impiegato un disegno fattoriale misto, nel quale la misura ripetuta era rappresentata dal grado di coerenza strutturale dell’evento, mentre il fattore indipendente era costituito dalle differenti richieste attentive del compito.

Gli eventi acustici derivavano dalla rielaborazione di alcuni frammenti musicali divisi in 5 categorie: tonali salienti (TOSA), tonali non-salienti (TONS), non-tonali e salienti (NTSA), non-tonali e non-salienti (NTNS) e isocrone (ISOC) come categoria di controllo. I frammenti originali sono stati rielaborati in modo tale da conservare soltanto le

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relazioni temporali tra battiti consecutivi. L’ANOVA condotta sulle durate fisiche (media=7.413 sec; d.s.=1.225 sec) e sul numero di battiti (media=20,5 battiti; d.s.=5.9) non ha evidenziato differenze significative.

L’orientamento attentivo è stato variato mediante 4 diverse istruzioni sperimentali, nelle quali veniva chiesto di prestare maggiore o minore attenzione ad un compito secondario di conteggio dei battiti: massima attenzione al tempo (Max D), stessa attenzione al tempo e ai battiti (D = B), massima attenzione ai battiti (Max B), e attenzione ad un singolo compito (Solo D / Solo B) come condizione di controllo. La valutazione della durata consisteva in un compito di riproduzione.

RisultatiPer ogni soggetto e per ogni categoria di eventi è stato calcolato l’errore medio

assoluto di valutazione della durata che è stato utilizzato come variabile dipendente.L’ANOVA condotta sull’errore di valutazione della durata evidenzia un effetto

principale del fattore STRUTTURA (F4,144=8.045; p<0.000) dovuto ai giudizi differenti ottenuti per gli eventi TOSA e ISOC rispetto agli eventi TONS, NTNS e NTSA (test di Tukey con p<0.05). È stata riscontrata inoltre una interazione significativa tra STRUTTURA e ATTENZIONE (F12,144=2.049; p<0.05) dovuta alle differenti stime ottenute per gli eventi NTSA e NTNS nelle varie condizioni attentive.

L’ANOVA condotta sugli errori di conteggio dei battiti mostra un effetto principale significativo sia per il fattore STRUTTURA (F4,144=28.113; p<0.005) sia per il fattore ATTENZIONE (F3,36=5.758; p<0.000). L’analisi rivela inoltre una interazione significativa tra i due fattori (F12,144=3.040; p<0.001). Il post hoc indica che le differenze riguardano gli eventi TOSA, TONS, NTSA e NTNS nella condizione EQUAL e SINGLE rispetto alle condizioni MAXIM e MINIM.

ConclusioniI risultati nel loro complesso indicano che la durata soggettiva si riduce sia al

diminuire della prevedibilità degli eventi, sia al crescere delle richieste attentive da parte del compito secondario. Tuttavia il quadro emerso dall’analisi delle risposte relative al compito di conteggio dei battiti impone una certa cautela nell’interpretazione. In generale il lavoro conferma l’influenza della struttura degli eventi sulla valutazione della durata e suggerisce la necessità di considerare modalità di interazione tra fattori strutturali, attentivi e mnestici anche più complesse.

Riferimenti bibliograficiBlock, R.A. (1990). Models of psychological time. In R.A. Block (Ed.), Cognitive models

of psychological time (pp. 1-36). Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates.Bueno, B.M. (1994). The role of cognitive changes in immediate and remote prospective

time estimations. Acta Psychologica, 85, 99-121.Jones, M.R., Boltz, M. (1989). Dynamic attending and responses to time. Psychological

Review, 96, 459-491.Macar, F. (1996). Temporal judgements on intervals containing stimuli of varying quantity,

complexity and periodicity. Acta Psychologica, 92, 297-308.Ornstein, R.E. (1969). On the experience of time. Harmondsworth: Penguin Books.

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Zakay, D. (1990). The evasive art of subjective time measurement: some methodological dilemmas. In R.A. Block (Ed.), Cognitive models of psychological time (pp. 59-84). Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates.

MECCANISMI VISIVI PER LA PERCEZIONE DELL’ANALISI DEL MOVIMENTO COMPLESSO

M. Concetta Morrone, David C. Burr, Paola Neri Istituto di Neurofisiologia, CNR PisaDipartimento di Psicologia, Università di Firenze

Il flusso delle immagini che cadono sulla nostra retina sono una ricca sorgente di informazione del nostro moto e della struttura tridimensionale degli oggetti del mondo esterno. Il cervello umano ha un’abilità particolare nel ricostruire una forma partendo da pochi e sparsi segnali di movimento. È, per esempio, sufficiente una decina di punti luminosi posti sulle articolazioni perché un essere umano riesca, al buio, ad avere una percezione precisa del soggetto in movimento (moto biologico, Johansson, P&P,1973). Oltre a questo tipo di    analisi di moto, estremamente precisa e locale, il nostro cervello effettua anche un analisi globale del flusso delle nell’immagine retiniche, importante per esempio nella locomozione. In questa ricerca abbiamo studiato e confrontato le proprietà spaziali e temporali dei meccanismi visivi che analizzano i segnali di moto biologico e di flusso ottico. Per questi ultimi abbiamo anche studiato la loro localizzazione cerebrale nell’uomo utilizzando le tecniche di fMRI.

Moto biologico11 luci posizionate sulle articolazioni di un uomo, altrimenti al buio, sono

sufficienti per percepire e discriminare il soggetto e il suo moto. Tuttavia se l’uomo si ferma qualunque percezione organizzata sparisce. In questa ricerca (Neri et al, Nature, 1998) abbiamo per la prima volta valutato quantitativamente questo fenomeno, detto di “Movimento Biologico” e ne abbiamo caratterizzato le proprietà spaziali e temporali. Utilizzando una tecnica in cui le singole articolazioni vengono campionate per un breve periodo della traiettoria, abbiamo misurato la sensibilità di localizzare o di discriminare il moto di un ometto sintetico, riprodotto su un monitor, in funzione del numero di articolazioni simultaneamente illuminate. La sensibilità per il movimento biologico (numero massimo di punti di rumore aggiunti allo schermo tollerati) cresce molto più rapidamente rispetto ad altri moti più semplici, come la traslazione. Inoltre, l’informazione è integrata per tempi molto più lunghi dell’ordine di 3-8 sec (8-20 volte più lunghi che per la traslazione). Questi risultati indicano che la percezione del moto biologico non è mediata da integratori specializzati che sommano l’informazione su un campo recettivo a forma di ometto che cammina. Piuttosto, se un detettore specializzato esiste, esso si adatta dinamicamente alla natura dello stimolo. Questo offre il vantaggio di ridurre il numero

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possibile di detettori che servirebbero per analizzare ogni movimento biologico, però comporta una perdita di efficienza.

Flusso otticoI campi associati al flusso ottico retinico, come per un generico campo di flusso,

possono essere decomposti matematicamente in cinque componenti indipendenti, di cui una associata ad un moto radiale e un’altra ad un moto circolare. Utilizzando la stessa tecnica di sommazione spaziale descritta per il movimento biologico, si è studiato 1) se esistono meccanismi che integrano il moto lungo queste traiettorie complesse su un’ampia regione di spazio; 2) se essi siano specifici per la rotazione, espansione (moto radiale) e per la traslazione; 3) dove essi siano localizzati nel cervello dell’uomo. Gli stimoli utilizzati consistono in schermi di punti stocastici dove una proporzione variabile di punti vengono spostati consistentemente lungo una traiettoria predeterminata (punti che costituiscono il segnale) ed i rimanenti vengono visualizzati in posizioni spaziali casuali da quadro a quadro. I punti che costituiscono il segnale seguivano o una traiettoria puramente radiale, o una puramente rotazionale o traiettorie ottenute da combinazioni lineari di rotazioni e di moti radiali (moti lungo spirali). Sono state misurate le soglie di sensibilità al rumore a questi stimoli stocastici su una popolazione omogenea e con visione normale di giovani soggetti. Sono state anche misurare le soglie quando i punti di segnale venivano confinati a settori circolari, che suddividevano lo schermo in 16 parti uguali.

I risultati mostrato che la tolleranza per il rumore cresce con il numero di settori utilizzati, anche quando il moto è confinato a settori opposti. La dipendenza tra rumore tollerato e numero di settori è risultata essere quella prevista da un modello di detettore ideale che integra l’informazione su tutto lo schermo. I risultati di tolleranza al rumore in funzione del tipo di movimento (radiale, circolare e spirale) sono stati analizzati utilizzando la tecnica di decomposizione in componenti principali (Principal Component Analysys) della matrice di correlazione. L’analisi statistica effettuata ha mostrato che i dati di sensibilità possono essere descritti da solo due sistemi neuronali con massima selettività lungo il moto circolare e lungo il moto radiale.    La banda di selettività del sistema è molto ambia e tale che permettere una buona rappresentazione di tutti i moti lungo spirali. Questi risultati mostrano che nel cervello dell’uomo esistono detettori specializzati per l’analisi del flusso ottico retinico (Morrone, Burr & Vaina, Nature 1995; Burr et al. Vision Res. 1998) e che meccanismi indipendenti integrano il moto lungo le direzioni cardinali di rotazione e di espansione/contrazione.

Questi stessi stimoli sono stati usati anche per evocare una risposta BOLD in esperimenti di Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI). Stimoli in cui tutti i punti si muovevano coerentemente lungo una traiettoria radiale, circolare o di traslazione venivano alternati a stimoli di rumore. Una attività BOLD, correlata con l’alternanza delle fasi dello stimolo, è stata misurata solo nella parte posteriore della area 37 di Brodmann. Stimoli con moto circolare e radiale evocano risposte localizzate in aree sovrapposte, mentre stimoli di traslazione eccitano un’area corticale vicina ma distinta e più ventrale.

Conclusioni Questi risultati mostrano che il flusso ottico è analizzato da meccanismi ad alta

efficienza che sono selettivi ai moti radiali di rotazione e di traslazione e che questi meccanismi sono localizzati in aree visive secondarie, probabilmente omologhe delle aree

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MT e MST della scimmia. In contrasto, il movimento di forme complesse, come può essere la percezione del movimento biologico, non sembra essere effettuato da un detettore ideale ad efficienza costante, ma piuttosto da una rete diffusa che si adatta dinamicamente allo stimolo.

Riferimenti bibliograficiBurr, D. C., Morrone, M. C., Vaina, L. (1998). Large receptive fields for optic flow

direction in humans. Vision Research, 38, 1731-1743.Johansson, G. (1973). Visual perception of biological motion and a model for its analysis.

Perception & Psychophysics, 14, 201-211.Morrone, M. C., Burr, D. C., Vaina, L. (1995). Two stages of visual processing for radial

and circular motion. Nature, 376, 507-509.Neri, P., Morrone, M. C., Burr, D. C. (1997). Spatial and temporal integration of biological

motion. Perception, 26, 90.

COPLANARITÀ E PERCEZIONE DEL MOVIMENTO: EVIDENZA A FAVORE DELL’IPOTESI DELLA

SOPPRESSIONE

Fauzia MoscaUniversità degli Studi di Trieste Facoltà di Psicologia

Introduzione Per recuperare il movimento di un oggetto, il sistema visivo deve risolvere il

cosiddetto problema dell’apertura. Esistono motivi di ritenere che la soluzione sfrutti un processo di integrazione dei moti cinematici locali tenendo conto della struttura spaziale dello stimolo (Wallach, 1935). In letteratura sono state proposte due ipotesi alternative, quella della soppressione e quella della competizione, le quali si basano su un principio di coplanarità per spiegare l’integrazione di tali moti. L’oggetto di questa ricerca è lo studio dell’informazione spaziale fornita dalla parallasse binoculare (scomponibile in disparità retinica e stereopsi di “Da Vinci”) e il suo ruolo nell’integrazione cinematica. Vengono riportati i risultati di tre esperimenti sulla percezione della velocità di un contorno presentato all’interno di una cornice rettangolare. Le componenti presenti all’interno di questa configurazione corrispondono al vettore perpendicolare all’orientazione del contorno (Vp) e al moto dei terminatori del contorno lungo i margini della cornice (Vt).

Metodo e stimoliNel primo esperimento è stato condotto usando il metodo degli stimoli costanti, il

secondo e il terzo usando il metodo della doppia staircase. Veniva presentata una cornice rettangolare, orientata verticalmente (esperimenti 1 e 2) oppure orizzontalmente (esperimento 3) la quale poteva apparire di fronte (disparità crociata) o dietro (disparità non-crociata) il piano del monitor, ed era attraversata da una barra orientata a 45 gradi, della quale veniva misurata la velocità attraverso un compito 2AFC rispetto ad una seconda

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barra, dalle medesime caratteristiche, posizionata sullo stesso piano stereoscopico della prima, ma presentata successivamente ed in campo omogeneo. Per controllare eventuali effetti dei movimenti oculari la durata della presentazione era pari a 204 ms. In ogni prova, prima di dare il giudizio sulla velocità veniva svolto un compito secondario di aggiustamento in profondità mediante il quale era possibile controllare disparità retinica e fissazione. Per misurare eventuali bias soggettivi nel compito di confronto successivo, nel secondo e nel terzo esperimento è stata aggiunta una condizione di controllo nella quale gli osservatori confrontavano due barre presentate in campo omogeneo, entrambe con movimento verticale o perpendicolare (esperimento 2) oppure orizzontale o perpendicolare (esperimento 3). I PES ottenuti in queste misure di controllo sono stati utilizzati come baseline per valutare l’effetto della parallasse binoculare.

Analisi e risultatiL’analisi dei dati è stata svolta in tre stadi. Per prima cosa sono stati determinati i

PES, utilizzando l’analisi dei probit (primo esperimento) o calcolando la media delle inversioni nelle staircase (secondo e terzo esperimento). Successivamente è stata analizzata la variabilità dei giudizi nelle diverse condizioni. Infine, sono stati confrontati i coefficienti angolari delle rette che meglio fittavano i PES in funzione della velocità fisica dei contorni e della parallasse binoculare, con quelli attesi in base alle due ipotesi. I risultati hanno confermato che è possibile studiare l’integrazione cinematica usando confronti di velocità e stimoli molto brevi. In particolare, è emerso che i PES nella condizione con disparità crociata risultano sistematicamente più alti rispetto alla condizione con disparità non-crociata. Inoltre negli esperimenti 2 e 3 i PES della condizione con disparità crociata sono risultati simili alla baseline di Vt, mentre i PES della condizione disparità non-crociata sono risultati simili a quella di Vp. Non sono state trovate differenze per quanto riguarda la variabilità nei giudizi fra le due condizioni studiate. Infine, la differenza fra i coefficienti angolari delle rette che fittano i PES è di circa 10 gradi.

ConclusioniNel loro complesso, i risultati confermano primo che il sistema visivo utilizza un

principio di coplanarità nell’integrazione delle velocità locali, e secondo che il processo di integrazione è coerente con quanto proposto dall’ipotesi della soppressione. Quando il contorno appare davanti alla cornice rettangolare, la sua velocità appare uguale a quella di un contorno con uguali lunghezza, orientazione, e componenti locali Vt e Vp. Viceversa, quando il contorno appare dietro la cornice la sua velocità appare uguale a quella di un contorno che si muove lungo la sola componente Vp. Il risultato a favore della soppressione viene inoltre confermato dall’andamento della variabilità dei giudizi (se, come ipotizza l’ipotesi della competizione, in circa metà delle prove venisse percepita Vt e nell’altra metà venisse percepita Vp, i PES dovrebbero avere una variabilità maggiore rispetto al caso in cui una delle due componenti viene favorita rispetto all’altra) e dalla differenza fra i coefficienti angolari delle rette che fittano i PES (che risulta sempre di circa 10 gradi esattamente come ci si aspetterebbe se nella condizione in cui la barra viene percepita dietro Vt venisse soppresso). Queste conclusioni rimangono valide anche quando la coplanarità viene suggerita dalla sola disparità retinica (finestra orizzontale, esperimento 3) in assenza di stereopsi di “Da Vinci”.

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Riferimenti bibliograficiCastet, E., Charton, V. & Dufour, A. (1999) The extrinsic/intrisic classification of 2D

motion signals with barber-pole stimuli. Vision Research, 39, 915-932. Shimojo, S., Silverman, G. H., & Nakayama, K. (1989) Occlusion and the solution to the

aperture problem for motion. Vision Research, 29, 619-626.Wallach, H. (1935) Über visuell wahrgenommene Bewegungsrichtung. Psychologische

Forscheung, 20, 325-380.

PROCESSI SERIALI NELLA COSTANZA DEL COLORE

Sabrina Plet, Walter GerbinoUniversità di Trieste

IntroduzioneIl fenomeno della costanza del colore si riferisce all’apparenza invariante del

colore delle superfici sotto sorgenti luminose cromaticamente differenti. In ricerche precedenti (Foster et al., 1992, 1998a, 1998b), sono state simulate delle superfici costituite da un numero variabile di regioni colorate per valutare l’ipotesi che i cambiamenti di riflettanza di una regione simultanei a un cambiamento globale dell’illuminazione sono elaborati in parallelo. In tali esperimenti la numerosità delle regioni e la numerosità dei bordi di colore covariavano.

MetodoPer evitare la confusione tra la numerosità delle regioni e la numerosità dei bordi

di colore, la costanza del colore è stata studiata usando 6 condizioni sperimentali. Nelle condizioni c1, c4 e c6 erano presenti rispettivamente 2, 6 e 10 quadratini su uno sfondo uniforme; nelle condizioni c2 e c5 erano presenti rispettivamente 2 e 6 quadratini su uno sfondo articolato in 5 regioni; nella condizione c3 erano presenti 2 quadratini su uno sfondo articolato in 9 regioni. Nelle condizioni c2 e c4 erano presenti 6 bordi di colore, mentre nelle condizioni c3, c5 e c6 erano presenti 10 bordi di colore.

In ciascuna prova venivano presentate in sequenza 2 immagini, senza intervallo di tempo. La prima immagine, presentata per 1s, era costituita da colori che simulavano carte Munsell sotto l’illuminante D65. La seconda immagine, in cui l’illuminazione cambiava da D65 alla sorgente luminosa A, scompariva alla risposta del soggetto.

Nella metà delle prove, nella seconda immagine, aveva luogo un simultaneo cambiamento di riflettanza di un quadratino (target), corrispondente alla sua illuminazione locale da parte della sorgente di luce C (invece di A). I soggetti venivano informati che le regioni presenti sullo sfondo non cambiavano mai la loro riflettanza e che quindi soltanto uno dei quadratini poteva essere il target.

Il compito consisteva nel decidere il più velocemente possibile se c’era stato un cambiamento di riflettanza di uno dei 2, 6 o 10 quadratini presenti nello stimolo.

Risultati

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Confrontando la prestazione nelle 6 condizioni non è stata trovata una differenza significativa nel criterio di risposta. Ciò ha consentito di individuare la funzione lineare nel dominio velocità della risposta e d’: velocità = .07 d’ + 1.10. In base a questo è stata calcolata una misura sintetica dell’efficienza della prestazione che combinava d’ e velocità della risposta, data dalla distanza tra l’intercetta della retta di regressione e la proiezione ortogonale dei punti (d’, velocità) su tale retta.

La prestazione migliore è stata ottenuta nella condizione con il minor numero di quadratini e la maggiore articolazione dello sfondo (c3). Dall’analisi delle condizioni c1, c2 e c3, in cui il numero di quadratini era costante (= 2), è emerso che la prestazione migliorava all’aumentare dell’articolazione dello sfondo. Dall’analisi delle condizioni c3, c5 e c6, in cui il numero di bordi di colore era costante (= 10), è stato trovato un peggioramento della prestazione all’aumentare del numero di quadratini. Dall’analisi delle condizioni c1, c4 e c6, in cui l’articolazione dello sfondo era costante (= sfondo uniforme), la prestazione non differiva a causa di una compensazione dovuta all’effetto positivo del numero di bordi di colore e all’effetto negativo del numero di quadratini. Da una regressione multipla sulle variabili articolazione dello sfondo e numero di bordi di colore è risultato che la varianza spiegata era pari al 40% e la variabile numero di bordi di colore non risultava significativa. Calcolando una regressione semplice sulla variabile articolazione dello sfondo la varianza spiegata non diminuiva in modo significativo ed era pari al 36%.

ConclusioniQuesti risultati suggeriscono che l’articolazione dello sfondo, costituita dalle

regioni irrilevanti dal punto di vista della ricerca del target, aumenta l’informazione sul cambiamento di illuminazione e quindi favorisce la discriminazione tra gli stimoli in cui le relazioni cromatiche sono preservate (cambiamento di illuminazione) da quelli in cui sono violate (cambiamento di riflettanza di un quadratino simultaneo al cambiamento di illuminazione). Questo effetto è consistente con quanto trovato da Melfi e Schirillo (1999) in una ricerca in cui sono state utilizzati degli stimoli statici e acromatici.

I risultati suggeriscono che i cambiamenti di riflettanza sono elaborati in modo seriale: quando il numero dei bordi di colore è costante la prestazione peggiora all’aumentare della numerosità dei quadratini. Non è stata trovata nessuna differenza tra le condizioni quando l’effetto negativo della numerosità dei quadratini viene compensato dall’effetto positivo del numero di bordi di colore.

Riferimenti bibliograficiFoster D.H., Craven B.J., Sale E.R.H. (1992). Immediate color constancy. Ophthalmic and

Physiological Optics, 12, 157 - 160.Foster D.H., Nascimento S.M.C., Arend L., Linnell K.J., Nieves J.L., Plet S. (1998a).

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Foster D.H., Nascimento S.M.C., Arend L., Linnell K.J., Nieves J.L., Plet S. (1998b). Parallel detection of violations in relational colour constancy. Investigative Ophthalmology and Visual Science, vol. 39, no. 4, 2049.

Melfi T.O., Schirillo J.A., (1999). Lightness judgments on articulated surrounds suggest an enhanced inference of illumination gradients. Investigative Ophthalmology and

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Visual Science, vol. 40, no. 4, 3952.

PSICOLINGUISTICA

FREQUENZA E NUMEROSITÀ DEI NEIGHBORS: DECISIONE LESSICALE E LETTURA DI NON-PAROLE

Lisa Arduino*, Cristina Burani*** Università “La Sapienza” e Istituto di Psicologia del CNR, Roma** Istituto di Psicologia del CNR, Roma

Gli studi sul riconoscimento visivo di parole e di non-parole suggeriscono che l’identificazione di un dato stimolo non dipende solo dalla sua forma ortografica, ma anche dal numero (Coltheart, Davelaar, Jonasson e Besner, 1977) e dalla frequenza delle forme ortograficamente simili (Segui e Grainger, 1990). Coltheart et al. (1977) e Andrews (1989), esaminando gli effetti del numero di vicini ortografici in compiti di decisione lessicale, hanno mostrato che i tempi di reazione per le non parole sono più lenti quando queste hanno molti vicini, rispetto a quando ne hanno pochi. Successivamente Grainger e Jacobs (1996) hanno trovato che il fattore che incide maggiormente sulla velocità di riconoscimento di una non-parola, non è tanto la numerosità, quanto piuttosto la frequenza dei vicini: gli autori hanno mostrato un effetto facilitatorio della frequenza dei vicini e un non significativo effetto inibitorio della numerosità degli stessi (l’effetto inibitorio era presente solo nel caso in cui tutti i vicini erano di bassa frequenza). Sembra quindi che entrambi questi fattori siano determinanti per la velocità e l’accuratezza con cui una non-parola viene riconosciuta come tale. Ciò che è ancora oggetto di discussione è la direzione degli effetti e se e come questi due fattori interagiscano.

I dati presenti in letteratura mostrano spesso dei risultati contrastanti, soprattutto per quanto concerne la decisione lessicale. L’accordo è maggiore per i compiti di lettura ad alta voce: sono molte le evidenze a favore di un effetto facilitatorio della numerosità dei vicini sulla velocità con cui vengono lette le non-parole (McCann e Besner, 1987; Peereman e Content, 1995; Weeks, 1997).

Scopo del nostro lavoro è stato di accertare quale ruolo possono avere il numero dei vicini ortografici, la loro frequenza e la possibile interazione dei due fattori nella lettura e nel riconscimento di non-parole. A questo fine abbiamo condotto due esperimenti, il primo di decisione lessicale visiva, il secondo di lettura ad alta voce.

MetodoSono state create 60 non-parole, partendo da altrettante parole della lingua italiana

(tutte di 5 lettere) e cambiando la prima lettera. Abbiamo così ottenuto due gruppi di stimoli caratterizzati dall’avere un alto o un basso numero di vicini ortografici (media dei vicini ortografici: 4.3 versus 1.3). Inoltre le non-parole sono state differenziate per la frequenza dei vicini: metà degli stimoli era caratterizzata dall’avere un vicino di alta frequenza,

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

mentre il/i vicino/i dell’altra metà era/erano sempre di bassa frequenza (frequenza media: 229 e 19 calcolate su un milione di occorrenze).

Abbiamo così ottenuto un disegno fattoriale 2 x 2 (Numerosità dei vicini ortografici: Alta/Bassa -    Frequenza dei vicini ortografici: Alta/Bassa).

Hanno partecipato agli esperimenti 51 soggetti per il compito di decisione lessicale e 30 soggetti per quello di lettura ad alta voce (età compresa tra i 20 e i 30 anni).

RisultatiI risultati dei due esperimenti mostrano un pattern contrastante. Nel compito di

lettura ad alta voce i TR variano in funzione della numerosità dei vicini ortografici: i soggetti leggono più velocemente le non-parole che hanno un alto numero di vicini. L’analisi degli errori mostra invece che è la frequenza dei vicini ad avere un ruolo significativo: gli errori di lettura sono significativamente inferiori in presenza di quelle non-parole che hanno un vicino di alta frequenza.

Per quanto riguarda la decisione lessicale, il solo fattore significativo risulta essere la frequenza dei vicini ortografici: questa variabile esercita un ruolo inibitorio, nel senso che basta che ci sia un vicino di alta frequenza perché i tempi della decisione vengano penalizzati, e questo indipendentemente dalla numerosità. Lo stesso risultato lo si ottiene dall’analisi sugli errori.

I risultati verranno discussi alla luce dei correnti modelli di accesso lessicale e di lettura.

Riferimenti bibliograficiAndrews, S. (1992). Frequency and neighborhood effects on lexical access: Lexical

similarity or orthographic redundancy? Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory and Cognition, 18, 2, 234-254.

Coltheart, M., Davelaar, E., Jonasson, J.T., & Besner, D. (1977). Access to the internal lexicon. In S.Dornic (Eds.), Attention and performance, VI., (pp. 535-555). New York: Academic Press.

Grainger, J., & Jacobs, A.M. (1996). Orthographic processing in visual word recognition: A multiple read-out model. Psychological Review, 103, 3, 518-565.

McCaan, R.S., & Besner, D. (1987). Reading pseudohomophones: Implications for models of pronunciation assembly and the locus of word-frequency effects in naming. Journal of Experimental Psychology: Human Peception and Performance, 13,1, 14-24.

Peereman, R., & Content, C. (1995). Neighborhood size effect in naming: Lexical activation or sublexical correspondences? Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory and Cognition, 21, 2, 409-421.

Segui, J., & Grainger, J. (1990). Priming word recognition with orthographic neighbors: Effects of relative prime-target frequency. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 16, 65-76

Weeks, B.S. (1997). Differential effects of number of letters on word and nonword naming latency. The Quarterly Journal of Experimental Psychology, 50A (2), 439-456.

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EFFETTI SINTATTICI E SEMANTICI NELLA PRODUZIONE DI NOMI E VERBI

Simona Collina, Patrizia Tabossi, Francesca CancianUniversità di Trieste

Nel corso degli ultimi anni, uno degli aspetti più studiati nell’ambito della produzione del linguaggio riguarda il ruolo che le informazioni semantiche e sintattiche delle parole hanno nei processi di recupero lessicale (Levelt, Roelofs, Meyer, in stampa; Caramazza, 1997). Nonostante vi sia un grande interesse per questi temi, i modelli di produzione restano tuttavia, nella maggior parte dei casi, sottospecificati a questi livelli a causa delle difficoltà metodologiche che si incontrano nello studio on-line di questi processi (Dell, 1986; Caramazza, 1997). Uno dei paradigmi al momento più usati per indagare il corso dei processi lessicali per classi di parole quali i nomi e i verbi è il picture-word interference. Il compito consiste nel denominare delle figure il più velocemente ed accuratamente possibile ignorando dei distrattori parola che compaiono sotto o sopra la figura. Alcuni studi hanno mostrato che quando il distrattore ha una relazione semantica e/o sintattica con la figura, la latenza di inizio risposta è più lunga rispetto a quando non esiste alcuna relazione(Glaser & Dungelhoff, 1984; Schriefers, 1993). Nella lingua olandese, lungo queste linee, sono stati trovati sia effetti semantici di appartenenza categoriale sia effetti sintattici legati al genere grammaticale per i nomi (Roelofs, 1992; Schriefers, 1993)che sono stati però solo parzialmente replicati in italiano (Caramazza e Miozzo, 1998). Per ciò che riguarda i verbi gli unici effetti evidenziati sono di natura semantica (Roelofs, 1993). I pochi dati presenti e i diversi risultati ottenuti rendono il quadro di difficile interpretazione. In questo studio abbiamo cercato di chiarire il ruolo che le informazioni sintattiche e semantiche dei nomi e dei verbi hanno nel processo di produzione in italiano.

Nel primo esperimento abbiamo considerato i processi sintattici e semantico-lessicali coinvolti nella produzione di sintagmi nominali articolo + nome. Sono stati selezionati nomi, metà di genere grammaticale maschile e metà femminile, appartenenti a cinque diverse categorie semantiche. Per ciascun nome è stata costruita una figura che compariva in quattro diverse condizioni: 1)congruenza di genere e relazione semantica tra figura e distrattore (ad es. gatto-lupo) 2) incongruenza di genere e relazione semantica tra figura e distrattore (gatto-capra) 3) congruenza di genere ma diversa categoria semantica (gatto-collo), 4)incongruenza di genere e diversa categoria semantica (gatto-bocca). I partecipanti dovevano produrre il sintagma nominale articolo + nome (ad es. il gatto) ignorando la parola distrattore (ad es. lupo). La variabile dipendente considerata era la latenza di inizio risposta.

Nel secondo esperimento abbiamo replicato in italiano lo studio condotto da Roelofs (1993) sugli effetti semantici dei verbi. In questo caso la figura, che rappresentava l’azione denotata dal verbo, era presentata in due diverse condizioni: 1)figura e distrattore avevano una relazione semantica (ad es. rotolare-scivolare) 2) figura e distrattore non avevano relazione semantica (ad es. rotolare-cavalcare). La procedura sperimentale era la stessa del precedente esperimento.

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Nel terzo esperimento abbiamo invece cercato di estendere lo studio sugli effetti sintattici    trovati nei nomi alla categoria dei verbi indagando i processi relativi alla selezione dell’ausiliare (essere vs avere). In questo caso i partecipanti dovevano denominare la figura producendo il passato prossimo del verbo (ad es. ha corso). Il distrattore, presentato anch’esso nella forma passata, poteva o prendere lo stesso ausiliare del verbo da denominare(ha dormito) oppure ausiliare diverso (è esploso). La procedura sperimentale era la stessa usata nei precedenti esperimenti.

I risultati ottenuti indicano che esistono effetti di interferenza per le diverse classi di parole studiate, ma evidenziano anche come il paradigma sperimentale utilizzato sia solo parzialmente sensibile nello studio di questi diversi aspetti (Caramazza & Miozzo, 1998). Ulteriori analisi sono in corso. Le implicazioni per gli attuali modelli di produzione e le future linee di ricerca sono al momento in discussione.

Riferimenti bibliograficiCaramazza, A. (1997). How many levels of processing are there inlexical access? Cognitive

Neuropsychology, 14, 177-208.Dell, G. S. (1986). A spreading activation theory of retrieval insentence production.

Psychological Review, 97, 332-361.Glaser, W. R., & Dungelhoff, F. (1984).The time course ofpicture-word interference.

Journal of Experimental Psychology:Human Perception and Performance, 10, 640-654.

Levelt, W. J. M., Roelofs, A., Meyer, A. S. (in stampa). A theory oflexical access in speech production. Behavioural and Brain Science.

Miozzo, M., & Caramazza, A. (1998). The selection of lexical-syntactic features: Evidence from the picture-word interference paradigm. Paper presented at the Psychonomics Society, Dallas,November 1998.

Roelofs, A. (1992). A spreading activation theory of lemma retrievalin speaking. Cognition, 42, 107-142.

Roelofs, A. (1993). Testing a non-decompositional theory of lemmaretrieval in speaking: Retrieval of verbs. Cognition,47, 59-87.

Schriefers, H. (1993). Syntactic processes in the production of nounphrases. Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory and Cognition, 19, 841-850.

COMPRENSIONE DI FRASI INTERROGATIVE IN BAMBINI DAI 3 AGLI 11 ANNI.

Marica De Vincenzi*, Lisa Arduino**, Laura Ciccarelli***, Remo Job**** Università di Chieti e Istituto di Psicologia del CNR, Roma** Università “La Sapienza” e Istituto di Psicologia del CNR, Roma*** Università di Padova

La frase interrogativa è una delle strutture più comuni e fondamentali del linguaggio. In questo lavoro ci concentriamo su un tipo particolare di frasi interrogative:

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quelle introdotte dai pronomi interrogativi CHI/QUALE, che possono avere il ruolo di oggetto o soggetto della frase. Prendiamo ad esempio la frase (1):

Chi ha chiamato la vecchietta?Questa frase può essere interpretata con il pronome CHI come soggetto oppure

come oggetto del verbo CHIAMARE. Le nostre conoscenze pragmatiche o il contesto nel quale la frase è inserita permettono di disambiguare questa frase che, presa isolatamente, è di per sé ambigua.

Un altro fattore di disambiguazione è rappresentato dall’accordo morfologico di numero tra il soggetto e il verbo. In (2) il CHI è soggetto, ma in (3) il CHI è oggetto, in quanto il verbo plurale concorda con il nome post-verbale CANI:(1) Chi inseguiva i cani?(2) Chi inseguivano i cani?

In ambito psicolinguistico, diversi lavori hanno dimostrato che le frasi interrogative impegnano in maniera considerevole l’analizzatore del linguaggio, in quanto il pronome interrogativo deve essere tenuto in memoria fino a che non si arrivi ad una interpretazione univoca del suo ruolo all’interno della frase. Il Principio di Catena Minima (De Vincenzi, 1991) prevede che, data la struttura Pronome Interrogativo – Verbo – Nome, l’analisi preferita è quella con il pronome interrogativo interpretato come soggetto. Questa ipotesi di scelta immediata di una interpretazione è stata confermata sperimentalmente su soggetti adulti italiani (De Vincenzi, 1991) e per lingue diverse dall’Italiano (es. Frazier, Clifton, 1989; Frazier, Flores D’Arcais, 1989) in compiti che ponevano il soggetto in condizioni di pressione temporale.

Scopo di questo lavoro è stato di indagare il comportamento di soggetti in età evolutiva, in modo da valutare a quale età le diverse interpretazioni delle frasi interrogative Soggetto/Oggetto vengano correttamente comprese.

L’ipotesi sperimentale è che i bambini, così come gli adulti sotto pressione temporale, risentano delle limitate capacità della memoria di lavoro e pertanto mostrino di preferire l’interpretazione del pronome interrogativo come soggetto, nonostante conoscano già l’accordo soggetto-verbo.

Tale ipotesi è stata confermata in uno studio precedente (De Vincenzi, Rellini, e Arduino, 1997) condotto su un campione di 176 bambini dai 3 agli 11 anni, della città di Roma. Ai bambini è stato somministrato un test (De Vincenzi, 1996) composto da 72 frasi, di cui 36 sperimentali e 36 fillers. Abbiamo utilizzato i pronomi interrogativi CHI e QUALE+NOME in frasi come:(3) a. Chi sta inseguendo i gatti? (CHI Soggetto)

b. Chi stanno inseguendo i gatti? (CHI Oggetto)c. Quale cane sta inseguendo i gatti? (QUALE Soggetto)d. Quale cane stanno inseguendo i gatti? (QUALE Oggetto)Compito del bambino era di indicare la risposta corretta su un disegno che illustra i

personaggi dell’azione. I risultati hanno confermato le nostre predizioni; per tutte le fasce d’età risulta significativo il ruolo grammaticale: i bambini commettono più errori nell’interpretare il pronome interrogativo quando riveste il ruolo di “oggetto” della frase interrogativa. Un secondo risultato riguarda i bambini fino ai 6 anni d’età: la comprensione della frase interrogativa, quando il pronome è “oggetto” della frase, risulta significativamente più difficile in presenza del QUALE+NOME.

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Il presente lavoro ha avuto lo scopo di estendere lo studio precedentemente compiuto, in modo da valutare la persistenza dei risultati ottenuti, estendendo il campione ad altre città e quindi ad un gruppo numericamente più consistente e rappresentativo della popolazione nazionale. La prova è stata infatti somministrata a 300 bambini delle città di Padova e Palermo.

Verranno discussi i dati relativi al confronto tra i campioni esaminati.

Riferimenti bibliograficiDe Vincenzi, M. (1991). Syntactic Parsing Strategies in Italian. Kluwer Academic.

Dordrecht: The Netherlands.De Vincenzi, M., (1996). Test di Comprensione delle frasi Interrogative Soggetto/Oggetto

in Italiano. Istituto di Psicologia del CNR, Roma.De Vincenzi, M., Rellini, E., Arduino, L. La comprensione delle frasi interrogative.

Relazione presentata al Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, 22-24 settembre 1997, Capri, Italia.

Frazier, L., & Clifton, C. (1989). Successive cyclicity in the grammar and the parser. Language and Cognitive Processes, 4, 2, 93-126.

Frazier, L., & Flores D’Arcais, G.B. (1989). Filler-driven parsing: A study of gap-filling in Dutch. Journal of Memory and Language, 28, 331-344.

LE RAPPRESENTAZIONI SEMANTICO-LESSICALI NELL’ELABORAZIONE DELLA PAROLA SCRITTA

Massimo Girelli, Remo JobDPSS, Università di Padova

Rispetto all’organizzazione del lessico mentale, molte teorie sulla produzione del linguaggio convergono su due punti fondamentali: primo, le informazioni semantiche, morfo-sintattiche, fonologiche di una parola sono rappresentate autonomamente: la semantica (il significato della parola) è codificata nel sistema concettuale, la sintassi e la fonologia sono codificate nel magazzino lessicale. Secondo, l’accesso a tali informazioni avviene in maniera sequenziale.

L’ipotesi di un’ulteriore distinzione tra rappresentazione della morfo-sintassi e della fonologia all’interno del lessico è sostenuta da evidenze provenienti dall’analisi degli errori linguistici, dalla neuropsicologia, dai dati sperimentali in prove di decisione lessicale e di denominazione di figure, dallo studio di fenomeni che occorrono nel linguaggio normale (“la parola sulla punta della lingua”). Nel processo di produzione del linguaggio vengono selezionate inizialmente le proprietà sintattiche della parola, il lemma, e successivamente viene recuperata la struttura fonologica dell’item lessicale, il lessema (Levelt, Roelofs & Meyer 1999).

La nostra ricerca indaga i processi di recupero dell’informazione semantica, grammaticale e fonologica a partire da una parola presentata visivamente. Considerando l’autonomia delle rappresentazioni cognitive all’interno del lessico mentale, avanziamo

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l’ipotesi che si possano distinguere tre diversi stadi di elaborazione anche in compiti che prevedono l’analisi di un input ortografico. Dal punto di vista sperimentale, si può assumere che la fase di recupero della semantica sia computazionalmente autonoma dal recupero della sintassi; é possibile affrontare questo aspetto osservando se la manipolazione di una proprietà semantica (es. la prototipicità) influisce su un giudizio di categorizzazione semantica, ma non su una prova di attribuzione del genere grammaticale. In due diversi esperimenti sono stati scelti compiti sperimentali che indagano selettivamente i processi di recupero dei livelli di rappresentazione semantici, sintattici e fonologici della parola. Nel primo esperimento veniva usato un compito di categorizzazione (oggetto biologico vs. manufatto) e un compito di assegnazione dell’articolo determinativo, (articolo “il” vs. articolo “la”). Le parole differivano per il grado di tipicità rispetto alla categoria di appartenenza (alto vs. basso) e per la trasparenza morfologica (opaca vs. trasparente). I tempi di risposta agli stimoli sperimentali (N=64) di 24 soggetti sono stati sottoposti ad analisi della varianza, considerando i seguenti fattori: compito, prototipicità e morfologia. I risultati mostrano un effetto di interazione tra il tipo di compito e il tipo di variabile linguistica manipolata: nella categorizzazione semantica si osserva un effetto della prototipicità ma non della morfologia, nell’assegnazione dell’articolo determinativo si osserva il pattern opposto.

Nel secondo esperimento abbiamo verificato l’ipotesi della distinzione lemma-lessema utilizzando compiti e modalità di registrazione della risposta differenti rispetto al primo esperimento: in una condizione, i soggetti eseguivano una prova di lettura e la risposta veniva registrata mediante voice-key. La seconda condizione consisteva nella produzione del sintagma nominale (articolo determinativo + sostantivo). Sono state manipolate la morfologia (vedi sopra) e la struttura dell’accento (regolare: sulla penultima sillaba vs. irregolare: sull’antepenultima sillaba), in base all’assunzione che questa caratteristica influenzi la velocità di lettura. In entrambe le prove sullo schermo compariva la parola-stimolo costituita dal solo sostantivo. L’analisi della varianza (fattori: compito, tipo di accento e morfologia) ha dato i seguenti risultati: nella produzione del sintagma nominale è significativa la morfologia, ma non il tipo di accento. Nella prova di lettura invece non si osserva né un effetto della morfologia, né un effetto dell’accento. Complessivamente i risultati dei due esperimenti sembrano sostenere l’ipotesi che esistano tre stadi distinti di elaborazione dell’input ortografico. È interessante sottolineare che anche nell’elaborazione di una parola scritta si possa identificare una fase di recupero della rappresentazione cognitiva del genere grammaticale distinta dal recupero della semantica e della fonologia della parola. Resta da chiarire se il lemma svolge un ruolo di mediazione tra semantica e fonologia, come nella produzione del linguaggio (vedi però Caramazza 1997) e in quali situazioni sperimentali - ad es. lettura di singoli sostantivi - si possa prevedere un’attivazione dell’informazione contenuta nel lemma. Ulteriori studi in questa direzione consentirebbero di definire la sequenza di attivazione delle rappresentazioni cognitive all’interno del lessico e della memoria concettuale.

Riferimenti bibliograficiCaramazza, A. (1997). How many levels of processing are there in lexical access?

Cognitive Neuropsychology, 14, 177-208.Levelt, J. M., Roelofs, A. & Meyer, A. S. (1999). A theory of lexical access in speech

production. Behavioral and Brain Sciences (in press).

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EFFETTI DI PRIMING INTRA-LESSICALE NELLA COMPRENSIONE DEI NOMI PROPRI

Corrado Lo Priore, Tim Brennen°Istituto di Psicologia, Università di Pavia°Dipartimento di Psicologia, Università di Tromsø, Norvegia

La comprensione di un nome scritto in termini cognitivi viene identificata nel processo tramite il quale un soggetto che legge un nome proprio a lui noto, riesce dal codice visivo di input ad attivare la rappresentazione semantica della persona (o del luogo, del mese, dell’opera ecc.) corrispondente.

Il primo modello funzionale del riconoscimento di volti e nomi è stato proposto da Valentine et al. (1991). Questo modello definisce esplicitamente una analogia fra il riconoscimento dei nomi propri scritti ed il riconoscimento di altre parole; in specifico vengono postulate delle word recognition units (WRUs) che identificano le parole all’interno dei codici visivi di input e delle name recognition units (NRUs) che tra le parole identificano i nomi propri conosciuti.

Nel 1996 Valentine, Brennen & Brédart operano una generale revisione del modello (Fig. 1).

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Figura 1 La struttura interna del lessico semantico (adattato da Valentine, Brennen & Brédart, 1996)

Relativamente alla comprensione di parole scritte e alla produzione di nomi, questi autori introducono e motivano i seguenti aggiustamenti al modello: alle NRUs vengono sostituiti i lemmi, unità linguistiche non specificate fonologicamente, comuni ai lessici di input e output; i lessici di input ed output vengono entrambi frazionati in un lessico fonologico (WRUs per l’input e lessemi per l’output) ed un lessico semantico (lemmi); all’interno del lessico semantico comune i lemmi per i nomi propri vengono organizzati secondo la struttura proposta da Burke et al. (1991), ovvero con i lemmi per il nome completo (primo nome + cognome oppure iniziale + cognome) sovraordinati ai lemmi per i primi nomi ed ai lemmi per i cognomi.

In particolare si noti che le connessioni tra le WRUs e i lemmi sono bidirezionali, così come le connessioni tra lemmi per nomi o cognomi e lemmi per nomi completi. Questa assunzione del modello implica la possibilità di osservare effetti di priming top-down nel processo di comprensione dei nomi scritti. Abbiamo esplorato questa possibilità tramite due esperimenti.

L’esperimento 1 intende verificare la presenza di un effetto facilitante da parte dei lemmi per i nomi completi sulla velocità di attivazione dei lemmi per i primi nomi e per i cognomi. È stato utilizzato un paradigma sperimentale di decisione lessicale: a 30 soggetti norvegesi sono stati presentati su un monitor dei nomi propri completi (primo nome + cognome). Sia i primi nomi che i cognomi utilizzati erano molto comuni in Norvegia, in metà dei trials però uno di questi conteneva un errore (sostituzione di una lettera). Il compito del soggetto era quello di giudicare la correttezza di entrambi i nomi (ad es. Roald Hansen = ‘Si’, Poald Hansen = ‘No’) tramite tastiera ed il tempo di reazione di scelta veniva registrato.

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In realtà metà dei trials “corretti” (risposta ‘Sì) contenevano delle associazioni di nome e cognome corrispondenti a noti personaggi norvegesi (ad es. Bjørn Dæhlie, Morten Harket), mentre nell’altra metà di trials erano stati accostati gli stessi nomi, ma in associazioni non esistenti nella realtà (Bjørn Harket, Morten Dæhlie). Nonostante il fatto che non fosse richiesto ai soggetti alcun giudizio di familiarità sui nomi, il tempo di scelta medio per i nomi di persone famose è stato di 997 msec (SD=293), rispetto ad un tempo medio di 1200 msec (SD=347) per le associazioni inesistenti degli stessi componenti. La differenza di 203 msec è significativa al t-test (p<.001).

Si conclude che, in linea con quanto previsto dal modello, la familiarità con un nome completo (ovvero la presenza di un relativo lemma nel lessico semantico) esercita un effetto facilitante sulla velocità di elaborazione dei suoi componenti.

L’esperimento 2 utilizza un paradigma di decisione lessicale simile al precedente per verificare la presenza di un effetto facilitante sulla velocità di attivazione delle WRUs da parte dei lemmi del lessico semantico. Gli stessi 30 soggetti dovevano decidere se fosse possibile dividere le parole che venivano presentate sullo schermo in altre due parole norvegesi esistenti.

In realtà metà dei trials “scomponibili” (risposta ‘Si’) era costituita da parole che sono anche cognomi norvegesi molto noti (ad es. Båtnes, Forberg), mentre le altre parole, pur essendo costituite dagli stessi componenti, non erano note (Båtberg, Fornes). Nonostante il fatto che non fosse richiesto ai soggetti alcun giudizio di familiarità sulle parole, il tempo di scelta medio per i cognomi di persone famose è stato di 1022 msec (SD=378), rispetto ad un tempo medio di 1081 msec (SD=422) per le parole ignote. La differenza di 59 msec è significativa al t-test (p<.05).

Si conclude che, in linea con quanto previsto dal modello, la familiarità con un cognome (ovvero la presenza di un relativo lemma nel lessico semantico) esercita un effetto facilitante sulla velocità di elaborazione dei suoi componenti.

In conclusione i nostri due esperimenti, rilevando effetti intra-lessicali di priming top-down, supportano l’organizzazione del lessico proposta nel modello di Valentine, Brennen & Brédart (1996). Saranno inoltre discusse le implicazioni che i nostri dati possono avere in relazione alla ‘summation hypothesis’ di Hillis & Caramazza (1991) e ad una possibile interpretazione della ‘arbitrariness hypothesis’ di Cohen (1990).

Riferimenti bibliograficiBurke, D., MacKay, D., Worthley, J., & Wade, E. (1991). On the Tip of the Tongue: What

causes word finding failure in young and older adults? Journal of Memory and Language, 30, 542-579.

Cohen, G. (1990). Why is it difficult to put names to faces? British Journal of Psychology, 81, 287-297.

Hillis, A.E., & Caramazza, A. (1991). Mechanisms for accessing lexical representations for output: Evidence from a category-specific semantic deficit. Brain & Language, 40, 106-144.

Valentine, T., Brédart, S., Lawson, R., & Ward, G. (1991). What’s in a name? Access to information from peoplès names. European Journal of Cognitive Psychology, 3 (1), 147-176.

Valentine, T., Brennen, T., & Brédart, S. (1996). The Cognitive Psychology of Proper Names. London: Routledge.

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NUMEROSITÀ DI FORME FLESSE E PROCESSO DI RICONOSCIMENTO DI PAROLE PRESENTATE

VISIVAMENTE

Daniela Traficante*, Cristina Burani ** * Dipartimento di Psicologia, Università Cattolica di Milano** Istituto di Psicologia del C.N.R., Roma

Scopo del lavoro è valutare se la numerosità delle forme flesse legate alla stessa radice (es. cammin-are, cammin-iamo, cammin-ate, cammin-ano ecc.) (inflectional family size) influenza le modalità di rappresentazione e le procedure di riconoscimento delle parole che contengono tale radice.

Si può ipotizzare che quando una radice compare in molte forme flesse sia più probabile che essa si configuri come un’unità d’accesso facilmente isolabile dai suffissi a cui è collegata. Per questo motivo il riconoscimento di ciascuna forma flessa potrebbe avvenire perlopiù mediante scomposizione morfemica.

Per il riconoscimento di una parola con elevata inflectional family size, la procedura di scomposizione e l’accesso mediante la rappresentazione della radice può comportare sia dei vantaggi che degli svantaggi. Da un lato, l’accesso mediante la radice (es. cammin-) potrebbe risultare più vantaggioso, in quanto verrebbe utilizzata una rappresentazione d’accesso con una frequenza di attivazione che, rispecchiando la frequenza cumulata della radice, risulta molto maggiore rispetto a quella corrispondente alla parola intera (es. camminano). D’altro lato, però, l’accesso tramite la radice potrebbe comportare dei processi di scomposizione prelessicale e di ricomposizione postlessicale che aumenterebbero il tempo necessario al riconoscimento della parola presentata, come viene illustrato dal modello di Baayen, Dijkstra & Schreuder (1997) (si veda anche, per l’italiano, Baayen, Burani e Schreuder, 1997).

Per valutare l’effetto della numerosità delle forme flesse sui processi di riconoscimento delle parole e coglierne la direzione (cioè se esso comporti un rallentamento o una facilitazione del processo), sono stati predisposti due esperimenti: uno di decisione lessicale visiva e uno di riconoscimento percettivo tramite la procedura del progressive demasking.

Esperimento 1Metodo

Partecipanti. 40 studenti dell’Università Cattolica di Milano.Stimoli. Utilizzando il BDVDB di Thornton, Iacobini e Burani (1997), sono stati selezionati 28 verbi e 28 aggettivi con struttura morfologica semplice. Queste due categorie lessicali sono state scelte in quanto sono pareggiabili per le principali variabili psicolinguistiche, pur essendo molto diverse per la numerosità di forme flesse. I verbi sono stati presentati nelle persone singolari dell’indicativo per pareggiarli per lunghezza della parola e della flessione con gli aggettivi.

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Procedura. È stato utilizzato un compito di decisone lessicale, in cui gli stimoli, presentati in ordine randomizzato, insieme a parole-filler e a non-parole, permanevano sullo schermo fino alla risposta del soggetto e, comunque, per un tempo massimo di 1000 msec.Risultati.È risultata una differenza altamente significativa tra i due gruppi di stimoli. I verbi hanno prodotto tempi di reazione e un numero di errori significativamente superiori agli aggettivi [tempi di reazione: minF’(1,78) = 10.83, p < .001; errori: F1(1,39) = 15.44, p < .001, F2 (1,54) = 4.61, p < .05).

Esperimento 2 MetodoPartecipanti. 26 studenti dell’Università Cattolica di Milano.Stimoli. Gli stimoli erano le parole dell’esperimento precedente.Metodo. Le parole sono state presentate contemporaneamente ad un mascheramento (####). Il tempo di esposizione del mascheramento decresceva progressivamente fino a consentire l’identificazione della parola presentata.RisultatiÈ nuovamente emersa una differenza significativa tra verbi e aggettivi nei tempi di reazione, con una netta penalizzazione per i primi [minF’(1,63) = 3.75; p < 0.05].

DiscussioneIl risultato principale emerso da entrambi gli esperimenti è che l’alta numerosità

delle forme flesse comporta un sostanziale rallentamento del processo. In base al modello di Baayen et al. (1997), questi dati sembrano indicare che per gli aggettivi potrebbe prevalere una modalità di riconoscimento basata essenzialmente sulla forma globale della parola, più rapida, mentre nel caso dei verbi verrebbe maggiormente utilizzata una procedura di scomposizione morfemica, più lenta. Ulteriori esperimenti e simulazioni verranno condotti per chiarire il ruolo delle variabili psicolinguistiche considerate.

Riferimenti bibliograficiBaayen, R. H., Burani, C. & Schreuder, R. (1997). Effects of semantic markedness in the

processing of regular nominal singulars and plurals in Italian. In: Booij, G. E. & Marle, J. V. (Eds.), Yearbook of Morphology 1996. Kluwer Academic Pubhlishers, Dordrecht. pp. 55-72.

Baayen, R. H., Dijkstra, T. & Schreuder, R. (1997). Singulars and plurals in Dutch: evidence for a parallel dual-route model. Journal of Memory and Language, 37, 94-117.

Thornton, A. M., Iacobini, C. & Burani, C. (1997). Una base di dati sul vocabolario di base della lingua italiana. Bulzoni Editore, Roma.

PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

MODELLI ANIMALI PER LO STUDIO DELLA RISPOSTA AL DOLORE: EFFETTI DELLA

STIMOLAZIONE DEI RECETTORI PER L’ADENOSINA

Valentina Borghi, Flaminia Pavone*Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”*Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia del CNR, Roma

Una caratteristica fondamentale del sistema nocicettivo e la plasticità dell’organizzazione funzionale. Sia le modificazioni dell’attività dei neuroni del S.N.C. che l’effetto analgesico dei farmaci appaiono infatti in relazione a diversi fattori come il tipo, l’intensità, la durata e la sede di applicazione degli stimoli nocivi, oltre che all’integrità delle strutture nervose periferiche e centrali (Wall & Melzack, 1994).

Per comprendere i meccanismi fisiopatologici sottostanti al dolore acuto e cronico nell’uomo è quindi indispensabile utilizzare modelli sperimentali animali che ci consentono di quantificare il dolore provato dall’animale al variare di diversi parametri.

I tests sperimentali che permettono di studiare non solo i processi nocicettivi, ma anche l’efficacia di nuovi analgesici, si dividono in due gruppi in base alla durata dell’esperienza nocicettiva a cui viene sottoposto l’animale. Si distinguono così tests nocicettivi che misurano la latenza delle risposte comportamentali a stimoli nocivi di breve durata o “di tipo fasico” (Tail Flick, Paw Pressure, Hot Plate e Pinch Test) e tests nocicettivi che misurano la latenza delle risposte comportamentali a stimoli nocivi di lunga durata o “di tipo tonico” (Test della Formalina e Writhing Test). Trattamenti con sostanze in grado di antagonizzare la risposta nocicettiva, come ad esempio l’utilizzo di oppioidi, hanno dato effetti differenti a seconda dei tests utilizzati. Per ottenere quindi un quadro completo circa gli effetti analgesici di una data sostanza è necessario utilizzare modelli animali che differiscono tra loro per qualità, intensità e durata dello stimolo nocicettivo applicato.

Tra le molecole maggiormente studiate per il loro coinvolgimento nella modulazione della risposta al dolore vi sono gli Oppioidi, la sostanza P, l’Acetilcolina, il Glutammato, la Serotonina, la Noradrenalina, il GABA, ecc.

Un numero sempre più consistente di dati in questi ultimi anni ha inoltre attribuito un ruolo importante anche all’Adenosina, appartenente alla famiglia delle “Purine”, nel controllo della nocicezione. I recettori purinergici sono suddivisi in 2 sottotipi recettoriali P l

e P2. L’Adenosina ed i suoi composti si legano al recettore di tipo P l (Ralevic & Burnstock, 1998), ulteriormente suddiviso in 4 diversi sottotipi : Al, A2A, A2B e A3. Tra questi, i recettori Al e A2A sono quelli che sembrano maggiormente influenzare la trasmissione del dolore sia a livello periferico che spinale (Sawynok, 1998).

Lo scopo del nostro lavoro e stato quello di valutare gli effetti di un agonista molto selettivo per il recettore Al, la CPA (N6-Cyclopentyladenosina), sulla nocicezione e di investigare se esistono delle differenze dipendenti dalla natura dello stimolo nocicettivo (termico o chimico) e dal tipo di dolore elicitato (fasico o tonico).

A questo scopo sono state somministrate per via intraperitoneale 6 diverse dosi di CPA (da 0,015 a 0,3 mg/Kg) a topi maschi CD1 e sono state misurate le risposte comportamentali nei tests del Tail Flick, della Formalina e del Writhing che misurano

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

risposte a stimoli nocivi di diversa natura. I dati sono stati poi analizzati mediante l’Analisi della Varianza.

I risultati indicano che la CPA ha un effetto analgesico in tutti i tests utilizzati e che questi effetti sono dose- e    tempo-dipendenti.

In conclusione, questo studio conferma l’azione analgesica dell’attivazione dei recettori Al dell’Adenosina e dimostra che tale effetto analgesico e osservabile in tests sia di dolore fasico che tonico.

Riferimenti bibliograficiHerrick-Davis K., Chippari S., Luttinger D., Ward S. (1989). Evaluation of Adenosine as

potential analgesics. Eur. J. of Pharmacology, 162,365-369.Ralevic V., Bumstock G. (1998). Receptors for Purines and Pyrimidines. Pharmacological

Reviews, 50,3,413-492.Sawynock J. (1998). Adenosine receptor activation and nociception. Eur. J. of

Pharmacology, 317,1-11.Wall P., Melzack R. (1994). Textbook of Pain, 3rd ed. Edinburgh: Churchill Livingstone.

DISTURBI COMPORTAMENTALI E NEUROTRASMETTITORIALI IN TOPI PAH ENU-2: UN

MODELLO PRECLINICO DI FENILCHETONURIA

Tiziana Pascucci1,2*, Rossella Ventura1,2, Simona Cabib1,2, Francesco Calì3, Valentino Romano3, Stefano Puglisi-Allegra1

1 Dip. di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”2 Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia (C. N. R.), Roma3 OASI Maria SS. Troina, Italia

La fenilchetonuria (PKU) è un disturbo autosomale recessivo causato da mutazioni nel gene che codifica per la fenilalanina idrossilasi (Pah), l’enzima che converte la fenilalanina (Phe) in tirosina. Tali mutazioni producono un’assenza o una riduzione dell’attività della Pah nel fegato che porta ad un accumulo di Phe nel plasma accompagnato da una riduzione dei livelli di tirosina. Questo disturbo genetico, se non trattato, può produrre danno cerebrale e grave ritardo mentale. Il trattamento della PKU consiste nel sottoporre, fin dai primi mesi di vita e per tutta l’adolescenza, i pazienti fenilchetonurici ad una dieta a basso contenuto di Phe. Tuttavia in adolescenti e giovani adulti con PKU precocemente trattata ma in modo discontinuo sono stati recentemente osservati disturbi di tipo emotivo, inclusi ansia, depressione, impoverimento    dei rapporti sociali e suscettibilità emotiva, disturbi del pensiero e della personalità (Waisbren e Levy, 1991; Waisbren e Zaff, 1994). Negli ultimi anni, utilizzando un    mutageno chimico, l’N-ethyl-N-nitrosurea (ENU), nella linea germinale del topo è stato possibile indurre mutazioni nel locus per la Pah del topo; la mutazione PAH ENU-2 (ENU2) è quella che ha esibito le caratteristiche fenotipiche presenti nella PKU classica osservata nell’uomo (Shedlovsky e al.,

1993).

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Gli esperimenti qui riportati hanno valutato i livelli delle amine in tre strutture cerebrali (corteccia prefrontale, nucleus accumbens e caudatus-putamen), il disturbo cognitivo e le reazioni emozionali nei topi ENU-2 rispetto ai wild-type.

I topi ENU-2 hanno mostrato un forte disturbo di apprendimento nel test dell’active avoidance. Inoltre hanno esibito un profilo comportamentale simil-depressivo nel test del nuoto forzato. La quantificazione delle amine cerebrali in questi animali ha rivelato una riduzione significativa dei livelli di dopamina (DA) e dei suoi metaboliti, acido diidrossifenilacetico (DOPAC) e acido omovanillico (HVA), così come della serotonina (5-HT) e del suo metabolita, l’acido idrossiindolacetico (5-HIIA), in tutte e tre le strutture esaminate. Per quanto riguarda la noradrenalina (NE), invece, si è osservata una riduzione dei suoi livelli solo nella pFC.

Questi risultati mostrano un grave deficit cognitivo e disturbi emozionali, come pure deficit nel funzionamento dei neurotrasmettitori cerebrali nei topi ENU-2, supportando l’uso di questi animali come modello preclinico della PKU umana.

Riferimenti bibliograficiShedlovsky, A., McDonald, J. D., Symula, D., e Dove, W. F. Mouse models of human

phenylketonuria. Genetics 134: 1205-1210 (1993).Waisbren, S. E. e Levy, H. L. Agoraphobia in phenylketonuria. Journal of Inherited

Metabolic Desease 14: 755-764 (1991).Waisbren, S. E. e Zaff, j. Personality disorder in young women with treated

phenylketonuria. Journal of Inherited Metabolic Desease 17: 584-592 (1994).

RUOLO DELL’INTERAZIONE TRA IL SISTEMA DOPAMINERGICO MESOCORTICALE E

MESOLIMBICO NELL’ADATTAMENTO ALLO STRESS CON RIFERIMENTO A MODELLI SPERIMENTALI DI

PSICOPATOLOGIE

°*Rossella Ventura, °Stefano Puglisi-Allegra, °*Simona Cabib °Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”*Istituto di Psicobiologia e Psicofarmacologia (C. N. R.), Roma

Negli ultimi anni, un numero crescente di studi ha indicato il sistema dopaminergico Mesocorticolimbico come uno dei possibili circuiti neuronali implicati nella patogenesi di patologie associate con disfunzioni Daergiche corticali o sottocorticali, come la depressione e la schizofrenia. L’ipotesi prevalente è quella di una relazione inversa tra la trasmissione Daergica nella corteccia prefrontale (pFC) e nelle aree striatali sottocorticali, come il nucleus accumbens (NAS). Se una “ipofrontalità” DAergica (a cui corrisponde un aumento dell’attività sottocorticale) è una delle ipotesi proposte per la schizofrenia, una “iperfrontalità”, con conseguente inibizione della trasmissione mesolimbica, é stata avanzata come possibile modello eziologico di alcune forme di depressione. È ormai noto

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

che l’adattamento a fattori ambientali stressanti agisce sui sistemi mesocorticale e mesolimbico promuovendo alterazioni del funzionamento Daergico. È possibile quindi che in individui intatti e non trattati farmacologicamente, l’adattamento ad eventi ambientali stressanti promuova una “rottura” dell’interazione funzionale tra questi due sistemi portando ad una alterata risposta a successivi fattori stressanti. Per testare questa ipotesi topi del ceppo DBA sono stati sottoposti ad un paradigma di stress cronico (restrizione alimentare); i livelli di DA e dei suoi metaboliti sono stati quantificati nella pFC e nel NAS di questi topi in risposta alla successiva esposizione a stress da immobilizzazione. La condizione di stress cronico produce una profonda iporesponività DAergica mesocorticale allo stress acuto e una sensibilizzazione mesoaccumbens. Tuttavia se è vero che le esperienze stressanti possono costituire un fattore determinante nel produrre un quadro patologico, lo sviluppo e l’espressione di una psicopatologia é strettamente dipendente dalle differenze individuali tra organismi caratterizzati da un diverso assetto genotipico. Per valutare il ruolo dei fattori genetici nella risposta DAergica ad eventi ambientali stressanti abbiamo sottoposto due diversi ceppi inincrociati di topi, C57 e DBA, a stress da immobilizzazione e al test di “Porsolt”. I due ceppi rispondono    con un opposto adattamento del sistema mesocorticolimbico ad entrambi i tipi di stress e mostrano un diverso profilo comportamentale al test di Porsolt. Inoltre, la rapida e sostenuta attivazione corticale e la inibizione sottocorticale osservata nei C57 durante il Porsolt ricordano l’ipotesi della “iperfrontalità” proposta come modello eziologico della depressione. Anche il profilo comportamentale, caratterizzato dalla prevalenza di comportamenti “inattivi”, osservato in questo ceppo, presenta le caratteristiche di quello che Porsolt ha definito stato di “Behavioural Dispair”, una risposta classicamente associata, nei roditori, ad uno stato depressivo. Per validare il nostro modello di depressione abbiamo perciò sottoposto i C57 ad un trattamento cronico con un antidepressivo comunemente usato nell’uomo, la clomipramina. Il trattamento farmacologico attenua l’inibizione mesolimbica, osservata negli animali di controllo, probabilmente riducendo l’eccessiva attivazione corticale che caratterizza la risposta centrale di questo ceppo alla situazione stressante. Il ristabilito equilibrio funzionale tra il sistema mesocorticale e mesolimbico si accompagna ad una riduzione dei comportamenti inattivi durante il test. Per confermare l’ipotesi della iperfrontalità come causa del quadro patologico osservato in questo ceppo nel test di Porsolt, abbiamo sottoposto i C57 ad una lesione della pFC con 6-OHDA, una neurotossina delle terminazioni dopaminergiche: gli animali lesi mostrano un miglioramento del pattern comportamentale e una riduzione della inibizione mesolimbica rispetto ai controlli.

I risultati di questi esperimenti supportano l’ipotesi di una relazione inversa tra la trasmissione Daergica corticale e sottocorticale e indicano nella “rottura” dell’equilibrio funzionale tra queste due strutture uno dei possibili fattori responsabili della insorgenza o dell’espressione di diverse psicopatologie.

Riferimenti bibliograficiCabib S. e Puglisi-Allegra S. Stress, depression and mesolimbic dopamine system;

Psychopharmacology, 126: 331-343 (1996).

PSICOLOGIA FISIOLOGICA

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

RIORGANIZZAZIONE CORTICALE DEL LINGUAGGIO IN PAZIENTI AFASICI: MAPPATURA DEI POTENZIALI

CORTICALI LENTI

Alessandro Angrilli1, Rita Minghetti1, Stefano Cusumano2, Luciano Stegagno1, Thomas Elbert3

1Dipartimento di Psicologia Generale, Padova2Ospedale Regionale di Treviso3Università di Costanza, Germania

IntroduzioneLo studio della riorganizzazione corticale in pazienti che hanno recuperato da una

lesione corticale ha avuto un notevole sviluppo negli ultimi anni, grazie anche alla maggiore disponibilità di tecniche di “Brain imaging” capaci cioè di misurare l’attività cerebrale in vivo. Il recupero delle funzioni cognitive colpite è spesso associato ad uno spostamento dell’attività dalla zona lesionata ad aree adiacenti, o ad aree relativamente lontane (spostamento su un altro lobo o su un altro emisfero). Una delle conseguenze più frequenti in pazienti colpiti da un ictus, come è noto è l’afasia. Poche ricerche tuttavia hanno indagato in maniera sistematica la riorganizzazione corticale in seguito a parziale recupero in questi pazienti. Una difficoltà consiste nella varietà dei danni e dei disturbi afasici. È necessario restringere l’indagine a gruppi relativamente omogenei, e possibilmente in associazione con informazioni anatomico-strutturali sulle aree cerebrali lesionate. La presente ricerca ha indagato la riorganizzazione corticale in un gruppo di afasici di Broca mediante la registrazione dei potenziali corticali lenti durante compiti linguistici differenziati.

MetodoHanno partecipato all’esperimento due gruppi di soggetti. Un gruppo di 10 pazienti

afasici, classificati come afasici di Broca in base all’AAT (Aachen Aphasie Test), ed un gruppo di 14 pazienti di controllo. I soggetti dovevano effettuare 2 compiti linguistici diversi uno fonologico e l’altro di classificazione semantica. Il compito consisteva nel leggere una parola presentata per 1 secondo, e dopo un intervallo di 2 secondi, leggere una seconda parola, alla quale rispondere premendo un pulsante. Il soggetto doveva confrontare le due parole in base al criterio che facessero rima (compito fonologico), o fossero della stessa classe semantica (compito semantico). Sono state registrate le percentuali d’errore, i tempi di reazione al secondo stimolo, ed i potenziali evocati (Variazione Contingente Negativa) misurati nell’intervallo di 2 s tra gli stimoli. Tali potenziali sono stati registrati da 26 elettrodi situati sullo scalpo allo scopo di poter effettuare una mappatura dell’attività elettrica evocata. Per l’analisi statistica gli elettrodi sono stati raggruppati in quattro quadranti: anteriore sinistro, anteriore destro, posteriore sinistro, posteriore destro, ottenendo così la combinazione dei due fattori: lateralizzazione (destro vs. sinistro) e gradiente antero-posteriore (anteriore vs. posteriore). Altre variabili incluse nelle statistiche erano Gruppo (afasici vs. controlli) e Compito (fonologico vs. semantico).

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

RisultatiGli indici comportamentali hanno mostrato un significativo aumento di errori e dei

tempi di reazione nei pazienti afasici rispetto ai controlli. Questo è un risultato abbastanza tipico nei pazienti neurologici in generale. I tempi di reazione erano significativamente più lunghi nel compito semantico rispetto a quello fonologico, in entrambi i gruppi, mostrando una lieve maggiore difficoltà del compito semantico. L’assenza di interazione tra compito e gruppo indica, comunque, che per i due gruppi i compiti avevano la stessa difficoltà relativa.

L’analisi dei potenziali evocati ha mostrato una differenza significativa tra aree anteriori e posteriori con una maggiore negatività nelle ultime. Nei compiti utilizzati ci si aspetta una maggiore attivazione posteriore (occipitale) visto che i soggetti elaboravano ed attendevano stimoli visivi. Anche la tripla interazione Gruppo x Lateralizzazione x Compito è risultata significativa, mostrando una maggiore asimmetria nei siti frontali (maggiore attivazione nel lobo frontale sinistro) durante il compito fonologico nei controlli, mentre negli afasici tale asimmetria era assente. In base all’interazione tripla Gruppo x Lateralizzazione x Gradiente, l’asimmetria destro-sinistro era assente nelle aree posteriori dei controlli, mentre invece presente degli afasici con un massimo proprio nell’area parietale sinistra.

ConclusioniI risultati di questo studio indicano che i pazienti afasici mancano dell’asimmetria

frontale tipicamente indotta da compiti fonologici nei controlli, facendo ipotizzare un relativo aumento di attivazione corticale nelle aree frontali destre. Più in generale, gli afasici mostrano una maggiore attivazione delle aree posteriori sinistre durante compiti linguistici. Questi dati fanno pensare che pazienti con afasia di Broca, spesso colpiti da lesioni frontali sinistre, riorganizzano il linguaggio in parte nelle aree posteriori sinistre ed in parte nelle aree anteriori destre.

DISSOCIAZIONE EMISFERICA NELLA LATENZA D’ADDORMENTAMENTO: CONVERGENZA TRA

INDICATORI COMPORTAMENTALI ED ELETTROENCEFALOGRAFICI

Maria Casagrande, Giuseppe CurcioDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneNegli ultimi anni sia dati comportamentali che elettroencefalografici hanno

evidenziato delle stabili variazioni del pattern emisferico durante l’addormentamento (ADD). Nel primo minuto di stadio 1 si è osservato un significativo decremento della coerenza interemisferica per le bande EEG alfa e beta nelle regioni temporali e frontali (1).

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Questo pattern emisferico è coerente con quello evidenziato mediante strategie comportamentali. Infatti, con l’esecuzione di un Finger Tapping Task (FTT) o di un compito di tempi di reazione (TR) semplici a stimoli acustici durante la transizione veglia-sonno (W-S) si è evidenziata una cessazione di risposta più precoce per la mano destra, suggerendo per la prima volta la presenza di un’asimmetria emisferica nella latenza d’ADD (2). Dati successivi, analizzando le prestazioni bimanuali in un FTT eseguito nel corso di tre ADD collocati in momenti diversi di una stessa notte, hanno confermato una variazione del pattern emisferico durante le transizioni W-S, che è risultata indipendente dal momento circadiano in cui l’ADD si realizzava. Poiché la diminuzione del tasso di risposta nel FTT è associata a una riduzione del ritmo alfa (4) e data la stretta corrispondenza tra cessazione di risposta nel FTT e occorrenza dello stadio 1 (5), abbiamo valutato le asimmetrie emisferiche durante l’ADD considerando sia la latenza di intervalli inter-tapping (IIT) ³ 2.5 sec. nella mano destra e nella mano sinistra, sia la latenza del primo episodio di ritmo theta di durata ≥ 2.5 sec. in derivazioni omologhe dei due emisferi (C3 e C4).

MetodoHanno partecipato all’esperimento 16 studenti, destrimani, normodormienti.

Ciascuno ha trascorso sei notti consecutive nel laboratorio del sonno con polisonnografia standard. Nella sesta notte i soggetti sono stati sottoposti a una batteria di test cognitivi (per una durata complessiva di 45 min) immediatamente prima dell’ADD; la stessa batteria di test veniva ripresentata due volte nel corso della notte. Il primo risveglio era per metà dei soggetti nello stadio 2 e per l’altra metà nello stadio REM (2° ciclo NREM-REM); il secondo risveglio era per metà dei soggetti nello stadio REM e per l’altra metà nello stadio 2 (rispettivamente 3° e 4° ciclo NREM-REM). Dopo il completamento dei test i soggetti si addormentavano eseguendo bimanualmente il FTT. Le prestazioni nel FTT venivano acquisite da un personal computer, che per ciascuna mano registrava tutti gli IIT. Per ciascun ADD due siglatori esperti hanno indipendentemente valutato la latenza dei treni di onde theta ³ 2.5 sec nelle derivazioni C3 e C4. Per ciascuna mano si è anche calcolata latenza del primo IIT³ 2.5 sec.

RisultatiUn’ANOVA: Addormentamento (Primo, Secondo, Terzo) x Misura (EEG, FTT) x

Emisfero (Destro, Sinistro) condotta sui dati sottoposti a una trasformazione logaritmica (ln) ha evidenziato un effetto significativo per la Misura (F1,15= 16.66; p< .001) che ha indicato che il FTT (latenza d’ADD: 3 min) consente di ottenere un indicatore d’ADD più precoce della misura EEG (latenza d’ADD: 10 min). Si è inoltre osservato un effetto significativo per il fattore Emisfero (F1,15= 8.78; p<.01), che ha indicato che la latenza d’ADD è minore nell’emisfero sinistro (media= 385.26 sec) rispetto al destro (media= 399.90 sec). Nessun altro effetto o interazione sono risultati significativi.

ConclusioniI risultati confermano il pattern asimmetrico precedentemente osservato nella

transizione W-S con dati comportamentali (2) ed evidenziano che l’asimmetria emisferica nella latenza del sonno è presente anche quando si considera un indicatore d’ADD molto precoce (IIT³ 2.5 sec). Per la prima volta l’asimmetria emisferica nella latenza d’ADD viene osservata mediante un’analisi visuo-ispettiva del tracciato EEG. Questo risultato

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

conferma la stretta relazione tra prestazioni nel FTT e attività EEG (4,5). Infine, questo studio conferma che le variazioni del pattern emisferico durante l’ADD rappresentano una caratteristica stabile della transizione W-S che non appare influenzata da fattori circadiani e omeostatici, ma sembra dipendere dalla lateralizzazione emisferica nel controllo della vigilanza.

Riferimenti bibliograficiAnliker J (1963) Variations in alpha voltage of the electroencephalogram and time

perception. Science, 140: 1307-1309.Casagrande M, Bertini M (1998) Brain hemispheres functional asimmetry across wake-

sleep-wake states. Journal of Sleep Research, 7 (Suppl. 2), 80: 40.Casagrande M, De Gennaro L, Violani C, Braibanti P, Bertini M (1997) A Finger Tapping

Task and Reaction Time Tasks as behavioral measures of the transition from wakefulness to sleep: which task interferes less with the sleep onset process? Sleep, 20 (4): 301-312.

Casagrande M, Violani C, De Gennaro L, Braibanti P, Bertini M (1995) Which hemisphere falls asleep first? Neuropsychologia, 33 (7): 815-822.

Wright KP, Badia P, Wauquier A (1995) Topographical and temporal patterns of brain activity during the transition from wakefulness to sleep. Sleep, 18: 880-889.

EFFETTI DELLA DEPRIVAZIONE DI SONNO SULL’ATTENZIONE SPAZIALE STUDIATA ATTRAVERSO IL PARADIGMA DI POSNER

Corrado Cavallero, Francesco Versace, Alice Conte, Valter Tucci*Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

IntroduzioneIl tema degli effetti della deprivazione di sonno sulle prestazioni cognitive è

probabilmente uno dei più studiati dalla psicofisiologia del sonno, anche in considerazione della sua rilevanza applicativa: molti incidenti, anche gravi, avvenuti nel corso della notte sono stati messi in relazione a errori commessi da operatori in debito di sonno; l’alto numero di incidenti automobilistici che si verifica tra le 3 e le 5 antimeridiane, nonostante il basso numero di veicoli presenti sulla strada, spesso è stato utilizzato come prova dell’importanza del ruolo giocato dalla sonnolenza nella esecuzione di compiti complessi (Horne and Reyner, 1995). Per valutare sperimentalmente le modificazioni delle prestazioni cognitive sono stati utilizzati per lo più compiti semplici e di lunga durata (i tempi di reazione semplici ne sono un esempio classico) in quanto si è notato come questi risultassero i più sensibili nell’evidenziare le conseguenze delle manipolazioni sperimentali (Dinges and Barone Kribbs, 1991). Purtroppo alla sensibilità di queste misure non corrisponde una sufficiente raffinatezza in quanto, di fatto, sono rappresentative solo delle modificazioni a carico della attenzione sostenuta nel tempo che, pur rivestendo un ruolo

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

importante in molti contesti anche ecologicamente significativi, non può essere fatta coincidere con il funzionamento cognitivo in generale. La psicologia cognitivista, d’altra parte, ha evidenziato come, attraverso adeguati paradigmi sperimentali, sia possibile individuare diverse sottocomponenti isolabili all’interno di ciascun processo cognitivo. Purtroppo questi paradigmi sono rimasti per lo più ignorati nell’area della psicofisiologia del sonno che ha invece di solito utilizzato compiti alla cui risposta contribuiscono più processi cognitivi il cui apporto differenziale non può essere quantificato. Il presente esperimento si propone di valutare gli effetti della riduzione del tempo di sonno sull’attenzione spaziale attraverso un paradigma divenuto ormai classico: il Paradigma di Posner (Posner, 1980).

MetodoOtto soggetti hanno trascorso, nel corso di tre settimane, cinque notti presso il

laboratorio di psicofisiologia del sonno della facoltà di Psicologia dell’Università di Padova secondo il seguente schema: prima settimana una notte di adattamento; seconda settimana una notte di baseline seguita da una notte in cui il sonno veniva interrotto nel corso della seconda fase REM; terza settimana una notte di baseline seguita da una notte in cui il sonno veniva interrotto nel corso dello stadio 2 che precede la seconda fase REM. Ciascuna notte era seguita da una giornata in cui, a intervalli regolari, venivano misurate le prestazioni a un compito di tempi di reazione semplici, al Grammatical Transformation Test (Baddeley, 1968) e al test di Posner con cue periferico. La giornata che seguiva la notte di adattamento era dedicata all’apprendimento dei test, mentre nelle altre condizioni le sessioni di test avvenivano immediatamente dopo il risveglio e successivamente ogni tre ore (8, 11, 14, 17, 20, 23), inoltre, quando il tempo di sonno veniva ridotto, erano previste, per le prime due ore che seguivano il risveglio, delle ulteriori sessioni di prova ogni 30 minuti.

RisultatiPer quanto riguarda gli effetti della deprivazione di sonno sulle prestazioni al test

di Posner i risultati verranno interpretati alla luce di due ipotesi alternative: l’ipotesi della riduzione delle risorse prevede che dopo la deprivazione di sonno i tempi di reazione siano significativamente più lenti rispetto alla condizione di baseline in tutti i tipi di prova (valide, invalide e neutre), si dovrebbero mantenere, quindi, gli effetti dovuti all’orientamento corretto o errato dell’attenzione (“benefici” e “costi”); alternativamente, se la deprivazione di sonno producesse un cambiamento nella strategia adottata dal soggetto nella esecuzione del compito (se ad esempio non venisse considerata la probabilità con cui il cue indica correttamente la posizione di apparizione del target) dovrebbero modificarsi gli effetti solitamente osservati in seguito all’orientamento corretto o errato del focus attentivo. I dati, al momento analizzati solo parzialmente, sembrano indicare come corretta la prima delle due ipotesi, dal momento che i costi e i benefici derivanti dall’orientamento del focus attentivo si mantengono, seppure con entità diverse, nella maggior parte delle sessioni effettuate. Se questi dati venissero confermati potrebbero fornire suggerimenti utili per comprendere più specificatamente gli effetti dovuti alla riduzione di sonno sulle componenti attentive.

Riferimenti bibliografici

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Baddeley, A., D. (1968). A 3 min reasoning test based on grammatical transformation. Psychonomic Science, 10 (10) 341-342.

Dinges D., F., and Barone Kribbs, N. (1991). Performing while sleepy: effects of experimentally-induced sleepiness. In: T.H. Monk (Ed.) Sleep, Sleepiness and Performance. John Wiley & Sons, N.Y.

Horne, J. A., and Reyner, L., A. (1995).Driver sleepiness. Journal of Sleep Research, 4(2) 23-29.

Posner, M., I. (1980). Orienting of attention. Quarterly Journal of Experimental Psychology, 32, 3-25.

LA STABILITÀ DELLA REATTIVITÀ PSICOFISIOLOGICA A STIMOLI VISIVI CON DIVERSO

CONTENUTO SEMANTICO

Maurizio Codispoti, Michela Mazzetti, Chiara Mattei, Giovanni Tuozzi, Bruno BaldaroDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

Una consuetudine consolidata nella ricerca psicologica consiste nel valutare la fedeltà degli strumenti psicometrici. Gli studi che hanno maggiormente aderito a tale consuetudine concernono questionari di autovalutazione. Rarissime sono le ricerche che abbiano indagato la fedeltà delle misure di laboratorio utilizzate in psicologia sperimentale. La contrapposizione misura soggettiva vs. misura oggettiva deve in primo luogo confrontarsi con il problema delle qualità psicometriche degli strumenti.

Inoltre, l’utilizzo di un paradigma test-retest è particolarmente rilevante nella valutazione dell’efficacia di differenti trattamenti terapeutici. A questo riguardo è interessante notare che le ricerche sull’impatto di terapie farmacologiche e/o psicologiche si avvalgono prevalentemente di misure soggettive.

Lo scopo di questo lavoro era quello di valutare la fedeltà di alcuni indici fisiologici periferici utilizzati in uno dei paradigmi maggiormente consolidati all’interno della ricerca psicofisiologica: la visione di immagini a diverso contenuto semantico ed emozionale.

MetodoIn due sessioni sperimentali, a distanza di una settimana, sono state presentate a

100 partecipanti 72 diapositive, raggruppabili in nove categorie (coppie erotiche, nudi maschili, avventura, famiglia, oggetti domestici, immagini disgustose, animali che attaccano, uomini che attaccano e corpi mutilati). Due differenti set di 36 diapositive sono stati presentati nelle due sessioni sperimentali in ordine controbilanciato. Ciascun set comprendeva quattro stimoli di ogni categoria. Ciascuna immagine veniva mostrata per sei secondi. Nei cinque minuti precedenti ciascuna sessione sperimentale e durante la visione delle diapositive sono stati registrati i seguenti indici fisiologici: frequenza cardiaca, conduttanza cutanea e attività elettromiografica del muscolo corrugatore.

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Risultati e conclusioniPer tutti gli indici fisiologici considerati, i risultati relativi all’andamento delle

diverse categorie nelle due sessioni sperimentali indicano pattern di risposta sovrapponibili. Al contrario, le correlazioni tra le due sessioni sperimentali mostrano risultati differenti in funzione delle categorie considerate. Emerge una chiara dissociazione tra le due analisi che suggerisce la necessità di effettuare studi che considerino le risposte di gruppi di soggetti nelle ricerche che intendono valutare l’effetto di interventi terapeutici.

INDICI COMPORTAMENTALI E FISIOLOGICI NELLO STUDIO DELLA RELAZIONE TRA PROCESSI

MOTIVAZIONALI E ATTENTIVI

Maurizio Codispoti, Michela Mazzetti, Ornella Montebarocci, Daniela Palomba*Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna *Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Sussistono diversi argomenti che suggeriscono quanto sia rilevante indagare la modulazione motivazionale (con particolare riferimento alla motivazione emozionale) dei processi attentivi.

In primo luogo, la psicologia dell’attenzione e la psicologia delle emozioni condividono il fondamentale costrutto teorico di arousal, che attraversa trasversalmente i due settori di ricerca.

Secondariamente, pare fondamentale rendere conto di come il processamento attenzionale sia sostanzialmente mirato alla elaborazione di stimoli rilevanti e significativi. A questo proposito, si ricordi come nel dibattito inerente la possibilità di processare semanticamente stimoli al di fuori del focus attentivo si siano dimostrate determinanti quelle ricerche che hanno utilizzato stimoli significativi per il soggetto (cioè a contenuto motivazionale).

Infine, se l’obiettivo della biopsicologia consiste nello spiegare il i meccanismi biologici del comportamento, ci pare indispensabile indagare il comportamento attentivo in un contesto motivazionale, per estendere all’uomo quei medesimi paradigmi ampiamente consolidati nella ricerca animale.

Definiti questi presupposti teorici, rimane da chiarire il vantaggio fornito dall’utilizzo di indici fisiologici: esso consiste nel fatto che, a differenza di quanto si verifica per misure comportamentali volontarie, gli indici fisiologici centrali e periferici non competono per le risorse o, meglio, non alterano il processo indagato.

Lo scopo del presente studio è quello di indagare come stimoli visivi a differente contenuto semantico ed emozionale modulino il processamento attentivo. Si è osservato in precedenti ricerche (Bradley et al., 1996; Mazzetti et al., 1998; Sarlo et al., 1998) che stimoli spiacevoli e piacevoli ad alto arousal determinano una più ampia decelerazione cardiaca, una maggiore risposta di conduttanza cutanea e più lenti tempi di reazione

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secondari rispetto a stimoli a basso arousal, suggerendo una maggiore allocazione di risorse attentive sui primi rispetto ai secondi. In particolare, è stata riscontrata una correlazione significativa tra tempi di reazione secondari e risposta di conduttanza cutanea, ad indicare un effetto dell’arousal dello stimolo sul processamento attentivo.

Nella ricerca qui presentata sono stati utilizzati indici centrali al fine di verificare se sussista o meno una differente modulazione attentiva in funzione della valenza emotiva, della rilevanza motivazionale e del contenuto semantico degli stimoli, a parità di livello di arousal (definito operativamente attraverso la risposta di conduttanza cutanea). Come indici del processamento attentivo sono stati considerati i potenziali evento-correlati (in particolare la componente tardiva positiva P300, con latenza di circa 350 ms) e il riflesso di allarme (o trasalimento) ad uno stimolo acustico aversivo presentato in concomitanza alla visione della diapositiva. Il primo di tali indici varia in funzione dell’arousal e dell’attenzione prestata agli stimoli; il secondo presenta una modulazione attentiva e motivazionale, variando in funzione della valenza dello stimolo visivo, che, a parità di risorse attentive richieste, inibisce o facilita (se piacevole o spiacevole rispettivamente) il sistema motivazionale aversivo che verrà attivato dalla comparsa dello stimolo acustico disturbante (Codispoti et al., 1998).

MetodoA 40 partecipanti sono state mostrate 96 diapositive, raggruppabili in otto categorie

differenti per contenuto semantico (nudi eterosessuali, coppie erotiche, oggetti domestici, volti neutri, scene di aggressioni, corpi mutilati, diapositive colorate senza contenuto e diapositive grigie senza contenuto). Ciascuna diapositiva è stata presentata per sei secondi e a diversi intervalli dalla comparsa della diapositiva (300ms, 1500ms, 3500ms, 4500ms) è stato somministrato uno stimolo acustico elicitante il riflesso di trasalimento (rumore bianco 98 dbi, tempo di salita istantaneo, durata 50 ms). Il riflesso di trasalimento è stato registrato attraverso la risposta elettromiografica del muscolo orbicolare dell’occhio. Inoltre, sono stati registrati i potenziali evento-correlati (rilevati alla comparsa di ciascuna diapositiva e alla presentazione dello stimolo acustico) e la risposta di conduttanza cutanea.

Risultati e conclusioniAlla comparsa della diapositiva, stimoli emotigeni producono maggiore positività

corticale (in generale legata al processamento dell’informazione) rispetto a stimoli neutri; la maggiore positività corticale si ottiene per le immagini erotiche, seguite dalle mutilazioni e dalle scene di aggressioni. Alla comparsa del rumore bianco, stimoli neutri sono correlati ad una più ampia P300 rispetto agli emotigeni, a testimonianza, nel primo caso, di una minor quota di risorse attentive allocate sulla diapositiva e di più risorse disponibili per il processamento dello stimolo acustico; tra le diapositive ad alto arousal, la minore P300 si ottiene, in linea col dato precedente, per le immagini erotiche, che risultano dunque gli stimoli su cui viene allocata l’attenzione maggiore, seguite dalle mutilazioni e dalle aggressioni.

Il riflesso di trasalimento risulta inibito per gli stimoli piacevoli e potenziato per gli stimoli spiacevoli, senza una differenziazione significativa tra mutilazioni e aggressioni. Oltre al coerente risultato di un processamento più consistente associato ad una inibizione della risposta d’allarme per le immagini a contenuto erotico, è possibile ipotizzare, per la risposta agli stimoli spiacevoli, una interazione tra attivazione del sistema motivazionale

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aversivo e richieste attentive: a fronte di maggiori risorse attentive richieste dalle immagini raffiguranti corpi mutilati (come è testimoniato dai dati di precedenti ricerche e di quelli inerenti i potenziali evento-correlati), è plausibile che non si ottenga per questi stimoli una risposta maggiormente inibita rispetto alle aggressioni a causa della maggiore spiacevolezza dei primi rispetto ai secondi, che provocherebbe una maggiore pre-attivazione del sistema motivazionale aversivo.

Nel complesso, i dati sembrano suggerire che la modulazione attentiva di stimoli visivi emotigeni non sia esclusiva funzione dell’arousal, ma che l’allocazione delle risorse attentive varii al variare del contenuto semantico e motivazionale delle immagini presentate. Emerge inoltre una diversa sensibilità degli indici fisiologici considerati nel mettere in rilievo il processamento attentivo alle diverse categorie di stimoli; in particolare, nella modulazione del riflesso di trasalimento paiono inscindibili gli effetti dovuti alla allocazione delle risorse attentive e quelli attribuibili al processamento motivazionale degli stimoli.

Riferimenti bibliograficiBradley, M.M., Drobes, D., & Lang, P.J. (1996). A probe for all reasons: Reflex and RT

masures in perception. Annual Meeting of the Society for the Psychophysiological Research. Psychophysiology, 33 (suppl. 1), S25 (abstract).

Codispoti, M., Bradley, M.M., Cuthbert, B.N., Montebarocci, O., & Lang, P.J. (1998). Stimulus complexity and affective contents: startle reactivity over time. Annual Meeting of the Society for the Psychophysiological Research. Psychophysiology, 35 (suppl. 1), S25 (abstract).

Mazzetti, M., Palomba, D., Tuozzi, G., e Suzzi, E. (1998). Tempi di reazione complessi e variazioni psicofisiologiche per stimoli visivi emozionali: richieste attentive e tendenza all’azione. Congresso Nazionale della sezione di Psicologia Sperimentale, 28-30 Settembre, Firenze (abstract, pp.126-127).

Sarlo, M., Palomba, D., e Buodo, G. (1998). Correlati vegetativi e attenzionali del processamento emozionale. Congresso Nazionale della sezione di Psicologia Sperimentale, 28-30 Settembre, Firenze (abstract, pp.52-53).

DIFFERENZE FRA MASCHI E FEMMINE NELLA VALUTAZIONE DI NUDI, IMMAGINI SPIACEVOLI E NEUTRE MEDIANTE VALUTAZIONI SOGGETTIVE,

TEMPI DI VISIONE E RIFLESSO DI STARTLE

Marco Costa, Pio Enrico Ricci BittiDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneVi è sempre più evidenza sperimentale che dimostra diversità nell’intensità e

nell’elaborazione emozionale fra maschi e femmine (vedi per una rassegna Brody e Hall,

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1993), anche per stimoli elementari come semplici ricordi (Costa, Ricci Bitti e Bonfiglioli, in press). La maggioranza di questi studi, tuttavia, è basata su resoconti soggettivi o dati comportamentali e non sulle risposte fisiologiche a stimoli emotigeni. Risulta perciò necessario verificare fino a che punto queste differenze di genere sono presenti anche a livello fisiologico o se viceversa sono apprezzabili solo a livello soggettivo. A questo scopo sono state svolte due ricerche le quali hanno indagato i rapporti fra valutazioni soggettive e tempi di visione misurati con i movimenti oculari orizzontali (I esperimento) e le modulazioni del riflesso di startle (II esperimento).

I esperimentoIl tempo di visione di diapositive emozionali è stato associato alle valutazioni di

interesse, arousal e risposta di conduttanza cutanea (Lang, Greenwald, Bradley e Hamm, 1993). Fino ad ora questa misura è stata usata in relazione ad una singola diapositiva mentre in questo studio è stata adottata una nuova metodologia che permette di studiare il comportamento di scelta fra due diapositive presentate contemporaneamente. Il materiale era costituito da 43 coppie di diapositive tratte dallo IAPS (International Affective Picture System, Lang, Öhman e Vaitl, 1988) che comprendevano nudi maschili e femminili, immagini a valenza negativa ed immagini neutre. Ciascuna coppia era presentata in modo concorrente per 8 s su due schermi separati posti a 35° sul lato destro e sinistro mentre la testa del soggetto era fissata su una mentoniera, ed un led rosso posto davanti alla testa costituita il punto di fissazione nei periodi fra le successive proiezioni. Sono stati rilevati i movimenti oculari orizzontali e successivamente si è calcolato ed analizzato la percentuale di tempo, fra gli 8 s disponibili, dedicata all’esplorazione di ciascuna diapositiva. Hanno partecipato all’esperimento 16 femmine ed 11 maschi. La differenza fra maschi e femmine è risultata critica nei seguenti casi: a) i maschi guardavano significativamente di più i nudi femminili (58%) rispetto a quelli maschili (33%), mentre le femmine vedevano esattamente per la stessa durata nudi maschili e femminili (44% e 43%); b) i maschi guardavano per tempi maggiori immagini a valenza negativa (49%) rispetto alle femmine (39%); c) le immagini a valenza negativa e ad alto arousal come mutilazioni, scene di mafia o guerra erano evitate dalle femmine che le guardavano per un tempo non significativamente diverso dalle immagini neutre (40% vs. 51%) mentre i maschi mostravano una forte preferenza per queste immagini (25% vs. 66%); d) diapositive che rappresentavano neonati, bambini o coppie formate da un adulto più un bambino risultavano altamente preferite rispetto ad immagini neutre dalle femmine (28% vs. 60%) ma non dai maschi che guardano i due tipi di immagini per la stessa durata (42% vs. 43%). Confrontando i dati dei tempi di visione con i dati soggettivi di Lang (Lang, Öhman e Vaitl, 1988) sulla valenza, arousal e dominanza è risultata una significativa correlazione per l’arousal (.67 per i maschi e .48 per le femmine) e, solo per i maschi, una correlazione negativa con la dominanza (-.37).

II esperimentoLo scopo di questo secondo studio è stato quello di studiare le differenze fra

maschi e femmine in risposta alle stesse categorie di stimoli usate nel I esperimento ma adottando come variabile dipendente le variazioni del riflesso di startle usato come stimolo-test (probe), per il quale vi è solida evidenza sperimentale di una sua sensibilità alla valenza (inibizione per stimoli piacevoli ed incremento per stimoli spiacevoli). Il riflesso veniva elicitato in modo randomizzato da 1 a 4 s dopo la comparsa della diapositiva. Sono state

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utilizzate 8 diapositive per ciascuna categoria (nudi maschili, nudi femminili, immagini spiacevoli, immagini neutre) mentre 8 riflessi sono stati scatenati nel periodo fra due successive diapositive come controllo. I partecipanti sono stati 41 (26 femmine e 15 maschi). I risultati sono stati i seguenti: a) lo startle era significativamente inibito in risposta ai nudi femminili e maschili senza differenza fra le due categorie; b) l’inibizione del riflesso nei maschi non era maggiore per i nudi femminili rispetto a quelli maschili e lo stesso per le femmine; c) nelle femmine le valutazioni soggettive rispecchiavano i dati fisiologici non differenziando le risposte per le due categorie di nudi mentre i maschi si esprimevano con una netta preferenza per i nudi femminili; d) i nudi maschili, sul piano delle valutazioni soggettive, sono stati valutati per la valenza da maschi e femmine in modo non significativamente diverso dalle immagini neutre mentre sul piano fisiologico erano accompagnati da una forte e significativa riduzione del riflesso di startle; e) le femmine hanno valutato i nudi femminili come neutri sul piano della valenza mentre i dati sullo startle dimostrano una marcata inibizione; f) maschi e femmine hanno presentato lo stesso andamento nelle valutazioni soggettive e nelle modificazioni del riflesso di startle per le immagini spiacevoli.

ConclusioniQueste ricerche hanno voluto essere un contributo per dimostrare che ad uguali

domande di natura prettamente psicologica come ad esempio quali sono le valutazioni di piacevolezza e spiacevolezza di nudi, immagini spiacevoli e neutre si ottengono risposte diverse a seconda che si incentri la metodologia su risposte soggettive, comportamentali o fisiologiche. Nel particolare questo scollamento lo si è dimostrato nelle valutazioni di valenza delle immagini di nudi che entrano sovente come ingrediente di immagini piacevoli negli studi sperimentali sulle emozioni.

Riferimenti bibliograficiBrody, L.R. e Hall, J.A. (1993). Gender and emotion. In Lewis, M. e Haviland, J.M. (Eds.)

Handbook of Emotions. New York: Guilford Press. Costa, M., Ricci Bitti, P.E., e Bonfiglioli, L. (in press). Psychological connotation of

harmonic musical intervals. Psychology of Music. Lang, P., Greenwald, M.K., Bradley, M., e Hamm, A.O. (1993). Looking at pictures:

Affective, facial, visceral, and behavioral reactions. Psychophysiology, 30, 261-273.

Lang, P., Öhman, A., e Vaitl, D. (1988). The International Affective Picture System. Gainesville: Center for Research in Psychophysiology, University of Florida.

FREQUENZA DELL’ATTIVITÀ OCULARE RAPIDA E SONNO A ONDE LENTE (SWS) IN SEGUITO A

DEPRIVAZIONE SELETTIVA DI SWS

Luigi De Gennaro, Michele Ferrara, Giuseppina CerritelliDipartimento di Psicologia, Università degli Studi “La Sapienza”

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IntroduzioneNelle notti di recupero successive a deprivazioni parziali o totali di sonno è stato

più volte evidenziato un decremento della frequenza dei movimenti oculari rapidi (REMs) durante il sonno REM (Lucidi F. et al., 1996). Il fenomeno è stato alternativamente interpretato come l’espressione di una relazione fra decremento dell’attività oculare rapida e aumento del “bisogno di sonno” o della sua “profondità”, che caratterizzano le notti di recupero. Il presente esperimento si è posto l’obiettivo di valutare il contributo di queste due componenti mediante un disegno sperimentale che non alteri il bisogno di sonno (cioè che non manipoli la lunghezza delle notti di sonno), ma che determini ugualmente un incremento della profondità di sonno. A queste esigenze risponde un paradigma che consente di deprivare selettivamente di sonno a onde lente (SWS) senza influenzare il tempo totale di sonno e che, con una concomitante valutazione delle soglie uditive durante le notti di base e di recupero, fornisca una misura diretta della profondità del sonno. Si ipotizza, pertanto, che in conseguenza di una deprivazione selettiva di SWS che determini un incremento della quantità di SWS e l’elevazione delle soglie di risveglio nelle notti di recupero, si riscontri un parallelo decremento della frequenza dei REMs. Inoltre, con un approccio di regressione multipla, si valuterà se questo decremento dei REMs sia ascrivibile principalmente alla maggiore profondità del sonno (espressa dalle soglie di risveglio) o all’aumentata quantità di SWS.

Metodo10 soggetti maschi hanno partecipato a 6 notti consecutive in laboratorio: 1)

Adattamento, 2) Baseline (BSL), 3) Baseline con Risvegli (BSLR), 4-5) Deprivazione SWS

1-2 , 6) Recupero (REC). Nel corso della 4a e 5a notte i soggetti sono stati pressoché completamente deprivati di SWS (stadi 3+4) mediante la somministrazione di stimoli acustici di intensità variabile (40-105 db). Tale procedura ha determinato nella notte di recupero un rebound della quantità di SWS e un accorciamento della sua latenza (Ferrara M. et al., 1999). Nelle ultime 4 notti i soggetti sono stati anche risvegliati nello stadio 2 rispettivamente dopo 2, 5 e 7.5 ore di sonno mediante l’invio di stimoli acustici a 1000 Hz di frequenza. L’intensità degli stimoli aumentava progressivamente di 5 db, dai 40 fino ai 110 db, finché i soggetti non presentavano almeno 10 sec di ritmo alfa EEG (criterio di definizione delle soglie uditive di risveglio).

L’EEG (C3-A2 e C4-A1) e l’EMG sono stati registrati secondo criteri standard. L’EOG bipolare orizzontale è stato utilizzato per la siglatura dei REMs maggiori di 50°/sec (De Gennaro L. et al., 1995). La frequenza dei REMs è stata calcolata come rapporto tra il numero di REMs e la durata complessiva delle fasi di sonno REM.

Risultati e conclusioniL’aumentata quantità di SWS conseguente alla deprivazione selettiva ha

determinato un significativo aumento (F1,9= 11.24; p=.008) delle soglie di risveglio nelle notti di recupero (63.0 db) rispetto a quelle di baseline (48.8 db).

Un’ANOVA 2x4, NOTTE (baseline vs. recupero) x PERIODO REM (1° vs. 2° vs. 3° vs. 4°) sui valori trasformati in logaritmo della frequenza dei REMs ha evidenziato una loro significativa riduzione (F1,9=12.57; p=.006) nella notte di recupero rispetto alla

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baseline e un significativo incremento dal primo ai successivi periodi REM (F3,27=8.00; p=.0006).

Per chiarire se l’effetto ipotizzato sia spiegato principalmente dall’aumento della profondità del sonno o della quantità di SWS nella notte di recupero, è stata eseguita una regressione stepwise che ha considerato come predittori, rispettivamente l’entità del recupero di SWS e dell’elevazione delle soglie di risveglio, mentre l’entità del decremento della frequenza dei REMs è stato considerato come variabile criterio. I risultati indicano una correlazione multipla di .76 (R2= .58) e l’entrata della sola variabile “entità del recupero di SWS” nell’equazione di regressione (F1,8= 10.98).

I risultati suggeriscono, pertanto, che la diminuzione della frequenza dei REMs non dipenda dall’aumentato bisogno di sonno (tenuto costante nel presente disegno), ma prioritariamente dall’ammontare del recupero del SWS rispetto all’aumento della profondità del sonno.

Riferimenti bibliograficiDe Gennaro L, Casagrande M, Di Giovanni M, Violani C, Herman J, Bertini M (1995) The

complementary relationship between wake and REM sleep in the oculomotor system. EEG clin. Neurophysiol. 95: 252-256.

Ferrara, M., De Gennaro, L. and Bertini, M. (1999) Selective slow-wave sleep (SWS) deprivation and SWS rebound: do we need a fixed SWS amount per night? Sleep Res. Online    2: 15-19.

Lucidi, F., Devoto, A., Violani, C., De Gennaro, L., Mastracci, P. and Bertini, M. (1996) Rapid eye movements density as a measure of sleep need. EEG clin. Neurophysiol. 99: 556-561.

ATTIVITÀ MUSCOLARE FASICA NEL SONNO REM SUCCESSIVO A DEPRIVAZIONE TOTALE DI SONNO

Luigi De Gennaro, Francesca Anzidei, Simona Baldanza, Irene LorussoDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneSullo sfondo della generale atonia muscolare che caratterizza la fase REM del

sonno si riscontrano una serie di attività muscolari di tipo fasico che non determinano interruzione del sonno: i movimenti oculari rapidi (REMs), le contrazioni dei muscoli dell’orecchio medio (MEMA) e i burst di attività EMG localizzata in un muscolo (TWITCH). La ricerca in psicofisiologia del sonno si è occupata lungamente di questi eventi fasici (soprattutto dei REMs), senza peraltro pervenire a conclusioni definitive sulla loro funzione all’interno del sonno REM. Una delle ipotesi avanzate propone che essi siano una risposta di startle controllata da un centro unico di controllo motorio (e.g., 1). L’ipotesi del centro unico di controllo motorio non è stata, però, mai valutata direttamente e gli unici

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riscontri sono di tipo correlazionale, indicando una debole associazione tra i tre tipi di attività muscolare fasica (e.g., 2).

Un approccio più diretto al problema potrebbe essere fornito dall’effetto, più volte replicato, di riduzione dei REMs nelle notti di recupero dopo deprivazioni totali o parziali di sonno (e.g., 3). Nell’ipotesi di un unico meccanismo centrale che controlli l’attività muscolare fasica del sonno REM, si ipotizza, quindi, che nelle notti di recupero in seguito a una deprivazione totale di sonno si riscontri un decremento di tutte le attività muscolari fasiche del sonno REM.

Metodo10 soggetti maschi hanno partecipato a 3 notti nel laboratorio del sonno: 1)

Adattamento, 2) Baseline (BSL), 3) Recupero (REC); le notti BSL e REC erano separate da un intervallo di 40 ore di veglia trascorse nel laboratorio sotto il controllo di almeno uno sperimentatore.

La registrazione notturna prevedeva un montaggio EEG (C3-A2 e C4-A1), EMG standard e una registrazione EOG sia orizzontale che verticale. Per la registrazione dei MEMA è stato utilizzato un trasduttore di pressione (inserito a tenuta pneumatica nel condotto uditivo esterno) sviluppato ad hoc. Per escludere artefatti muscolari, fonatori, da movimenti corporei o della testa sono stati utilizzati due EMG dei muscoli masseteri destro e sinistro, un EMG laringeo e uno strain gauge collegato all’apparato di trasduzione dei MEMA.

Per la siglatura dei REMs è stato utilizzato l’EOG orizzontale e per quella dei TWITCH l’EMG sottomentoniero. La frequenza dei REMs, dei MEMA e dei TWITCH è stata calcolata come rapporto tra il numero di eventi fasici e la durata complessiva delle fasi di sonno REM.

Risultati e conclusioniI dati relativi alla frequenza dei tre eventi fasici sono stati sottoposti a una

MANOVA a una via che ha confrontato le notti BSL con quelle REC. L’analisi ha evidenziato una diminuzione delle attività muscolari fasiche in seguito a deprivazione totale di sonno (Wilk’s Lambda=.048; p=.0002). Le analisi univariate suggeriscono, però, che l’effetto complessivo di riduzione dell’attività fasica interessa solo la frequenza dei REMs (F=33.06; p=.0004), che diminuisce significativamente nella REC (M=11.51) rispetto alla BSL (M=16.53), e la frequenza dei TWITCH (F=3.98; p=08), che presenta una tendenza a diminuire nella REC (M=.32) rispetto alla REC (M=.42). Al contrario la frequenza MEMA non presenta variazioni significative (F=.39; p=.55).

I risultati indicano, quindi, che nelle notti di recupero successive a deprivazione di sonno si verifica una diminuzione dell’attività muscolare fasica del sonno REM. La verifica dell’ipotesi di un centro unico di controllo motorio dell’attività fasica durante il sonno REM appare, però, limitata ai REMs e ai TWITCH, dal momento che i MEMA non presentano alcuna variazione apprezzabile. A conferma di questa dissociazione tra gli eventi fasici del sonno REM, le intercorrelazioni tra REMs e MEMA indicano una relazione di tipo negativo nelle notti BSL (r=-.63), mentre tra REMs e MEMA la relazione è positiva (r=.45).

Infine, per quanto riguarda l’interpretazione dell’effetto di riduzione dell’attività fasica, i dati suggeriscono una relazione negativa con la quantità di sonno a onde lente (SWS). Infatti, regressioni multiple stepwise hanno evidenziato una relazione significativa

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degli eventi fasici con la durata del SWS, sia in BSL che in REC (RBSL=.67; RREC=.60). In entrambi casi l’unica variabile che entra nell’equazione di regressione è la frequenza dei REMs.

Riferimenti bibliograficiGeisler, P. Meier-Ewert, K., Matsubayshi, K. Rapid eye movements, muscle twitches and

sawtooth waves in the sleep of narcoleptic patients and controls. EEG clin. Neurophysiol., 1987, 67: 499-507.

Lucidi, F., Devoto, A., Violani, C., De Gennaro, L., Mastracci, P., Bertini, M. Rapid eye movements density as a measure of sleep need. EEG clin. Neurophysiol., 1996, 99: 556-561.

Morrison AR, Sanford LD, Ball WA, Mann GL, Ross RJ. Stimulus-elicited behavior in rapid eye movement sleep without atonia. Behav Neurosci. 1995, 109: 972-979.

POTENZIALI EVENTO-CORRELATI SOMATOSENSORIALI (SERP) E RISPOSTE DI

CONDUTTANZA CUTANEA (SC) ELICITATI DA STIMOLI DOLORIFICI: EFFETTI DI DIFFERENTI

SUGGESTIONI DI ANALGESIA IN IPNOSI

Vilfredo De Pascalis, Maria R. Magurano, Anna BellusciDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

In questo studio vengono valutati gli effetti di differenti suggestioni di analgesia ipnotica considerando il recente modello costruttivistico della coscienza di Chapman e Nakamura (1998). Questo modello sostiene che il cervello costruisce gli elementi dell’esperienza dolorifica e li inserisce nel flusso di coscienza. Secondo questo modello le suggestioni di analgesia ipnotica riducono la percezione dolorifica quando generano ‘schemi dominanti’ che influenzano la costruzione della coscienza in corso. Scopo principale di questo lavoro è di valutare se l’analgesia ipnotica è il prodotto di un singolo schema dominante e se una suggestione di analgesia ipnotica diventa efficace quando è in grado di attivare tale schema. Sono stati registrati la percezione dolorifica, i potenziali SERP e le risposte della SC a stimoli nocicettivi durante le seguenti suggestioni in ipnosi: Rilassamento Profondo, Immaginazione Dissociativa, Analgesia Focalizzata, Placebo. Una condizione di Riposo, nello stato di veglia, è stata utilizzata come baseline. Le risposte fisiologiche sono state evocate mediante impulsi elettrici al polso destro, somministrati utilizzando il paradigma ‘odd-ball’. I potenziali evento-correlati sono stati registrati dalle regioni dello scalpo F3, F4, T3, T4, C3, C4, P3 e P4. Hanno partecipato all’esperimento soggetti destrimani: 10 donne con alto livello di ipnotizzabilità, 9 con medio e 10 con basso livello di ipnotizzabilità. Sono state misurate: 1) tolleranza al dolore e alla sofferenza; 2) soglia sensoriale dolorifica; 3) ampiezza di picco delle componenti SERP N2 (280 + 11 ms) e P3 (405 + 19 ms); 4) numero di risposte SC evocate; 5) indice di abituazione della SC; 6)

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tempo di reazione agli stimoli target e numero di risposte omesse. Tutti i soggetti hanno mostrato riduzioni significative dei livelli di autovalutazione del dolore e della sofferenza nelle condizioni di Rilassamento Profondo, Immaginazione Dissociativa e Analgesia Focalizzata in ipnosi, rispetto alla condizione di Riposo in veglia.. Il gruppo con alta ipnotizzabilità, rispetto agli altri gruppi, ha mostrato più marcate riduzioni della sofferenza nelle condizioni di Immaginazione Dissociativa, di Analgesia Focalizzata e, in minor misura, in quella di Rilassamento Profondo. Nella condizione di Placebo non sono state osservate differenze significative tra i gruppi. Il livello di percezione del dolore è risultato significativamente ridotto nei soggetti con alta ipnotizzabilità nelle condizioni di Immaginazione Dissociativa e di Analgesia Focalizzata in ipnosi, mentre nelle altre condizioni non è stata riscontrata una differenza significativa tra i gruppi. Tutti i soggetti hanno mostrato significative riduzioni del picco P3 in tutte le condizioni ipnotiche rispetto alla condizione di Riposo in veglia, sebbene tale riduzione nella condizione di Placebo risulta meno accentuata. Le regioni corticali temporali sono state le più sensibili a differenziare le risposte SERP tra i gruppi. Sui siti di registrazione T3 e T4 i soggetti del gruppo con alta ipnotizzabilità, rispetto agli altri gruppi, hanno mostrato picchi della componente P3 significativamente più piccoli e picchi N2 più grandi durante la condizione di Analgesia Focalizzata. In questa condizione, tali soggetti, hanno anche riportato il maggior numero di risposte omesse, minori tempi di reazione, più piccole e meno numerose risposte SC di orientamento. Non è stata trovata alcuna relazione tra livello di ipnotizzabilità e la vividezza dell’immagine mentale e tra quest’ultima e le valutazioni di dolore riferito. I risultati sono stati discussi mettendo in evidenza che ogni suggestione di analgesia è il prodotto di differenti processi neurofisiologici che accompagnano le differenti strategie cognitive utilizzate per la produzione dell’effetto analgesico. Quando l’effetto analgesico è in atto esso diventa il risultato di processi inibitori che caratterizzano l’attenzione focalizzata. Tali processi sono il prodotto dell’attività di un sistema sopraordinato localizzato nella corteccia fronto-temporale che interagisce con la formazione reticolare limbica e con le regioni corticali posteriori, per modulare l’input sensoriale specifico ai sistemi corticali posteriori (Pribram, 1991). Tali sistemi, secondo Chapman e Nakamura (1998) produrrebbero un nuovo schema dominante nel contenuto della coscienza individuale.

Riferimenti bibliograficiChapman, C.R. & Nakamura, Y. (1998). Hypnotic analgesia: A constructivistic framework.

The International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis, 1, 6-27.Pribram, K.H. (1991). Brain perception: Holonomy and structure in Figural Processing.

Hillsdale, N.Y.: Erlbaum.

VARIAZIONI NELL’AMPIEZZA DELLA P300 IN FUNZIONE DELLA QUALITÀ DEL SONNO

Alessandra Devoto, Cristiano ViolaniDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

IntroduzioneAlcuni studi indicano che gli insonni primari, caratterizzati da un disturbo di inizio

e mantenimento del sonno indipendente da altri problemi psicologici o medici, hanno un livello eccessivo di arousal che potrebbe interferire con il loro sonno (e.g., 1). Tuttavia, i dati a favore di questa ipotesi sono controversi (e.g., 2, 3). È possibile che il contrasto tra i risultati dipenda anche dal fatto che la maggior parte delle ricerche assumono che l’eccessiva attivazione degli insonni sia una caratteristica di tratto stabile. Tuttavia, l’iperarousal degli insonni potrebbe essere una caratteristica di stato, modulata dalla variabilità tra notti “disturbate” e notti “normali” caratteristica di questo disturbo (e.g., 4).

Scopo di questo studio è stato quello di valutare l’ipotesi dell’iperarausal, considerando il possibile effetto della qualità della notte precedente. In un gruppo di insonni primari è stato, quindi, confrontato il livello di arousal corticale dopo una notte con disturbi del sonno (N-) e dopo una notte senza disturbi di sonno (N+). Come indice di attivazione corticale è stata considerata l’ampiezza della P300 in un gruppo di giovani soggetti con insonnia e di controllo. In base a precedenti studi sui potenziali evento correlati (ERPs; e.g., 5) è stato ipotizzato che l’ampiezza della P300 fosse maggiore negli insonni dopo la notte (N-). In entrambi i gruppi, in seguito alle due notti considerate, sono stati valutati anche i tempi di reazione al compito di discriminazione acustica utilizzato per la registrazione della P300.

Metodo11 studenti universitari con insonnia primaria in base ai criteri del DSM-IV, inseriti

in un programma di valutazione e trattamento non-farmacologico dell’insonnia, hanno costituito il gruppo “insonni”; 11 studenti, con una latenza di addormentamento <15’, senza risvegli notturni e/o risveglio precoce hanno partecipato come controlli. Le caratteristiche di personalità e del sonno di entrambi i gruppi sono state valutate, rispettivamente, mediante il MMPI e un’intervista strutturata sui disturbi del sonno.

La selezione delle notti precedenti alle registrazioni della P300 è avvenuta mediante una rilevazione giornaliera dei parametri del sonno su diari. In seguito a una N+ e a una N- per gli insonni e a due notti di sonno abituale per i controlli, la P300 è stata rilevata, con un montaggio standard, dalle derivazioni Fz, Cz, e Pz referenziate ai mastoidi A1 e A2. Il segnale EEG è stato registrato, amplificato, mediato e memorizzato con un sistema digitalizzato (Brain-Quick, Micromed). Per la rilevazione della P300 è stato utilizzato un compito di discriminazione di stimoli acustici (Paradigma Oddball). I soggetti dovevano rispondere solo ai suoni di altezza tonale elevata (target), premendo il tasto di un joystick. La prova (della durata di circa 15 minuti) veniva effettuata in laboratorio con il soggetto accomodato su una poltrona a occhi chiusi.

Analisi dei datiLe medie dei principali parametri della qualità del sonno (latenza di

addormentamento, veglia intranotturna e indice di efficienza del sonno) della N+ e della N- degli insonni e delle due notti normali dei controlli sono state sottoposte separatamente ad ANOVA fattoriali considerando come fattori il GRUPPO (insonni vs. controlli) e la NOTTE (N+ vs. N-). Le medesime analisi della varianza sono state condotte anche sulle

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

ampiezze medie della P300 (per ciascuna delle tre derivazioni corticali FZ, CZ e PZ) e sulle medie dei tempi di reazione alle prove di discriminazione degli stimoli.

RisultatiI risultati sui parametri del sonno indicano che negli insonni solo la N- è

caratterizzata da parametri del sonno peggiori rispetto ai controlli. La ampiezza della P300 registrata da FZ mostra un’interazione significativa (F1,20=4.50, p=.046) GRUPPO X NOTTE. I post-hoc (test di Duncan) sulle ampiezze medie dell’interazione indicano che negli insonni vi è una maggiore attivazione corticale solo dopo la N-, mentre nei controlli non vi sono variazioni.

Nessun altro effetto è risultato significativo.

ConclusioniI risultati mostrano che l’ampiezza media della P300 degli insonni è

significativamente maggiore dopo la N- rispetto alla N+, suggerendo che la maggiore attivazione corticale degli insonni dipende soprattutto dalla qualità della notte precedente. Future ricerche che valutino il livello di arousal prima e dopo notti di diversa qualità potranno verificare questa ipotesi.

Riferimenti bibliograficiBonnet M.H. & Arand D.L. (1996). Insomnia -nocturnal sleep disruption-daytime fatigue;

the consequence of a week of insomnia. Sleep, 18: 581-588.Lichstein L., Wilson N., Noe S., Aguillard R., Bellur S. (1994). Daytime sleepiness in

insomnia: behavioural, biological and subjective indices. Sleep; 17(8):693-702.Gross R.T. & Borkovec T.D. (1982) Effects of cognitive intrusion manipulation on sleep-

onset latency of good sleepers. Behavior Therapy, 13: 112-116.Reite M., Buysse D., Reynolds C. & Mendelson W. (1995). The use of polisomnography in

the evaluation of insomnia. Sleep, 18(1):58-70.Harsh J., Voss U., Hull J., Schepfer S. & Badia P. (1994). ERPs and behavioural changes

during wake/sleep transition. Psychophysiology, 31:244-252.

DINAMICA DEL LIVELLO DELL’ATTIVITÀ EEG DI FONDO DURANTE IL SONNO NREM NEL CORSO DI DUE EPISODI DI SONNO NOTTURNO IN LATTANTI

Igino Fagioli1, Piero Salzarulo21Dipartimento di Teoria, Storia e Ricerca Sociale, Università di Trento2Dipartimento di Psicologia generale, dei processi di sviluppo e di socializzazione, Università di Firenze.

Il modello di regolazione dei ritmi veglia-sonno (Borbély, 1982; Daan, Beersma, Borbély, 1984) è basato sull’interazione tra due processi tra loro indipendenti, il processo

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omeostatico S (che aumenta durante la veglia e diminuisce durante il sonno) e il processo circadiano C (il cui andamento oscilla tra un minimo nelle prime ore del mattino e un massimo nel pomeriggio). L’andamento del processo C regola il livello di due soglie: la soglia minima L (quando durante il sonno il processo S scende al livello di questa soglia, il soggetto tende a svegliarsi spontaneamente) e la soglia massima H (quando durante la veglia il processo S aumenta fino a raggiungere il livello di questa soglia, il soggetto tende ad addormentarsi spontaneamente). I dati empirici alla base di tale modello, ricavati da soggetti adulti che dormivano normalmente soltanto la notte (ritmo veglia-sonno monofasico), hanno utilizzato come indicatore del livello del processo S le misure quantificate con l’analisi spettrale dell’attività elettroencefalografica di fondo (EEG).

Poiché nel corso del primo anno di vita è ancora molto frequente osservare interruzioni del sonno notturno anche di lunga durata, la presente ricerca su 12 lattanti di età compresa tra 9 e 47 settimane, il cui sonno era caratterizzato dalla presenza di almeno due episodi di sonno separati da uno di veglia si è proposta di verificare:

a) la comparsa precoce (fin dai primi mesi di vita) dei meccanismi di regolazione del sonno previsti dal modello omeostatico, accertando il ruolo della durata della veglia spontanea notturna sulle caratteristiche dell’EEG del sonno successivo;

b) se durante il primo anno di vita la dinamica dell’attività EEG durante il sonno NREM, che mostra un andamento decrescente all’interno del primo episodio di sonno (Fagioli, Bess, Peirano, Salzarulo, 1995), abbia le stesse caratteristiche oppure ne assuma di diverse negli episodi di sonno notturno successivi.

Per i primi due periodi di sonno NREM di ciascuno dei due episodi di sonno successivi sono stati calcolati tre indicatori dell’andamento temporale di un parametro, ottenuto con tecniche di analisi automatica (Fagioli, Salzarulo, 1998), che riflette il livello di sincronizzazione dell’EEG (intendendo per sincronizzazione dell’EEG la prevalenza di onde di elevata ampiezza e bassa frequenza su quelle di bassa ampiezza e di elevata frequenza): i) l’ampiezza dell’escursione del parametro (differenza tra i valori del parametro EEG massimo e minimo), ii) la latenza del valore di massima sincronizzazione (intervallo tra inizio del sonno NREM e momento di massima sincronizzazione), e iii) la velocità di sincronizzazione (ampiezza/latenza).

a) I tre indicatori dell’andamento temporale dell’attività EEG di fondo nel corso del sonno NREM successivo alla veglia notturno sono stati presi come variabili dipendenti in altrettanti modelli di regressione multipla, nella quale le variabili indipendenti erano l’età e la durata della veglia precedente (dopo trasformazione logaritmica, in quanto il modello prevede un andamento temporale esponenziale del processo S, tanto durante la veglia che durante il sonno). L’ampiezza dell’escursione del parametro è risultata correlata con il logaritmo della durata della veglia precedente (p=.011); la latenza del valore di massima sincronizzazione (p=.048) e la velocità di sincronizzazione (p=.013) erano invece correlati solo con l’età rispettivamente positivamente e negativamente. La relazione tra la durata della veglia precedente e l’ampiezza di escursione del parametro durante il sonno successivo è una ulteriore conferma della precoce emergenza della regolazione omeostatica del sonno; la fisiologica notevole diminuzione della velocità di sincronizzazione nel corso del primo anno di vita (Fagioli, Bess, Peirano, Salzarulo, 1995) potrebbe invece aver mascherato la sua probabile correlazione con la durata della veglia precedente (Fagioli, Salzarulo, 1998).

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b) Tutti e tre gli indicatori sono risultati diversi tra il primo periodo di sonno NREM e il secondo in entrambi gli episodi di sonno (rispettivamente p=.021, p=.004 e p<.001), indipendentemente dall’età, confermando un andamento discendente del processo S all’interno anche degli episodi di sonno successivi al primo. Inoltre, la velocità di sincronizzazione (ma non l’ampiezza dell’escursione del parametro e la latenza del valore di massima sincronizzazione) è risultata più elevata nel primo episodio di sonno che nel secondo (p=.016), mostrando pertanto, fin da età molto precoci, un andamento temporale decrescente del processo S, non solo all’interno di ciascun episodio di sonno, ma anche nel corso di episodi di sonno successivi nell’arco della stessa notte (Fagioli, Salzarulo, 1997).

Riferimenti bibliograficiBorbély AA. A two process model of sleep regulation. Hum Neurobiol 1 (1982) 195-204.Daan S, Beersma DGM, Borbély AA. Timing of human sleep: recovery process gated by a

circadian pacemaker. Am J Physiol 246 (1984) R161-R178.Fagioli I, Bes F, Peirano P, Salzarulo P. Dynamics of EEG background activity level within

quiet sleep in successive cycles in infants Electroenceph Clin Neurophysiol 94 (1995) 6-11.

Fagioli I, Salzarulo P. Dynamics of EEG background activity level during quiet sleep in multiple nocturnal sleep episodes in infants Electroenceph Clin Neurophysiol 103 (1997) 6-11.

Fagioli I, Salzarulo P. Prior spontaneous nocturnal waking duration and EEG during quiet sleep in infants: an automatic analysis approach Behav Brain Res 91 (1998) 23-28.

VARIAZIONI STAGIONALI DELL’UMORE E TIPOLOGIA CIRCADIANA

Paolo Scapellato, Vincenzo NataleDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

Attualmente suscitano molto interesse le ricerche sulle variazioni stagionali del tono dell’umore, soprattutto dopo la descrizione, da parte di Rosenthal e coll. (1984), di una vera e propria “sindrome stagionale”. Questa sindrome, chiamata Disturbo Affettivo Stagionale (DAS), presenta caratteristiche proprie oltre al corteo sintomatologico classico della depressione, ed è per questo motivo che molti vorrebbero dare autonomia a questa diagnosi. Il DSM IV, in effetti, riconosce l’andamento stagionale di alcune forme di disturbi, ma lo considera come sottotipo della depressione maggiore e dei disturbi bipolari I e II. Il DAS può manifestarsi con fasi depressive invernali (winter blues), che rappresenta la forma classica; esiste poi una sindrome DAS-tipo estate con episodi depressivi in questa stagione e, infine, una forma più leggera, considerata prodromica, che prende il nome di Subsindrome-DAS. Il disturbo stagionale compare in genere tra i 20 e i 30 anni, e l’età dei pazienti con DAS conclamato è tra i 30 e i 40 anni. Le femmine sono le più colpite con un rapporto col sesso maschile di circa 4 a 1.

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Il presupposto è che le variazioni stagionali dell’umore siano causate dall’effetto dei mutamenti ambientali, in particolare il fotoperiodo, sull’organismo. Tali variazioni sono presenti, seppure in misura più lieve, anche nei soggetti normali. È possibile che, oltre alle differenze di genere, anche altre caratteristiche individuali possano modulare l’interazione uomo-ambiente, come ad esempio la tipologia circadiana (mattutini-intermedi-serotini). I tipi mattutini sono caratterizzati da un ciclo veglia-sonno più regolare e preferiscono svolgere le proprie attività in orario diurno (luce). Al contrario, i tipi serotini mostrano un ciclo veglia-sonno più flessibile e sono prevalentemente attivi nella seconda parte della giornata (buio) È possibile quindi ipotizzare un differente effetto delle variazioni stagionali del fotoperiodo nelle due tipologie circadiane estreme. In particolare, ci aspettiamo di trovare una maggiore sensibilità alle variazioni stagionali nei tipi mattutini.

MetodoCampione

Per questa ricerca è stato utilizzato un campione formato da 18 soggetti, 9 maschi e 9 femmine (età media 22.22 anni e DS = 2.73). Questo gruppo è stato selezionato da una popolazione di 63 soggetti, studenti o lavoratori, in base al risultato ottenuto al Morningness-Eveningness Questionnaire (MEQ) che indica la tipologia circadiana di appartenenza. Costituiscono quindi il campione 3 maschi e 3 femmine per ognuna delle tre tipologie.Materiali

Per misurare l’umore è stata usata la versione italiana del Profile of Mood States (POMS) (Farnè, Sebellico, Gnugnoli e Corallo, 1989). I soggetti sono stati selezionati con la versione italiana del MEQ (Mecacci e Zani, 1983). Infine i 18 soggetti hanno compilato la versione italiana del Seasonal Pattern Assessment Questionnaire (SPAQ) (Ficca, Barbato, Beatrice e Muscettola, 1996), un questionario di autovalutazione sulla sensibilità ai cambiamenti stagionali.Disegno sperimentale

Si è adottato un disegno a modello misto a misure ripetute. Per ogni soggetto era prevista una somministrazione a intervallo mensile del POMS per la durata di un anno.

RisultatiPer quanto riguarda il punteggio dello SPAQ, le femmine hanno ottenuto un

punteggio significativamente più alto (11.22) rispetto ai maschi (7.77) (test di Mann-Whitney; p<.05). Inoltre, solo il 22.22% dei maschi valuta come problematiche le variazioni stagionali contro l’88.88% delle femmine (c2

1=5.55; p<.01).La tipologia circadiana risulta, con i dati del POMS, una variabile importante.

L’analisi della varianza, tra tipologia (3 livelli: serotini, mattutini, intermedi) e mesi dell’anno (12 livelli), presenta un’interazione significativa (F22,165=1.65, p<.04). I serotini e i mattutini si differenziano soprattutto in estate, dove si registra il livello maggiore di benessere per i primi e il peggiore per i secondi.

ConclusioniIl risultato della maggior sensibilità ai cambiamenti stagionali nelle donne è in

linea con quanto descritto in letteratura.

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

Dalle analisi sulla tipologia circadiana, emerge che sono i serotini a migliorare molto con l’estate, mentre i mattutini sembrano stare meglio nelle stagioni di passaggio (primavera e autunno). Gli intermedi mostrano, come ci si poteva attendere, un ritmo con valori centrali rispetto alle altre due tipologie.

Possiamo provvisoriamente concludere che entrambi i gruppi mostrano una certa sensibilità alle variazioni stagionali, ma in modo diverso: i mattutini preferiscono i periodi in cui le condizioni ambientali non raggiungono valori estremi, i serotini, al contrario, stanno meglio con l’aumentare del fotoperiodo. In altre parole, i serotini, che tendono a non rispettare il ciclo luce-buio, si trovano meglio in estate grazie al maggior periodo di luce che riduce lo sfasamento degli orologi interni con quelli esterni; i mattutini invece risentono delle modificazioni estreme, sia in inverno che in estate, e i loro ritmi si adeguano meglio ai valori intermedi del fotoperiodo.

Riferimenti bibliograficiFarnè M., Sebellico A., Gnugnoli D. & Corallo A. (1989). POMS, Profile of Mood States,

Manuale OS, Firenze.Ficca G., Barbato G., Beatrice M. & Muscettola G. (1996). Prevalenza dei disturbi affettivi

stagionali: confronto fra centri a differente profilo socioculturale. Rivista Sperimentale di Freniatria, CXX (4), 657-671.

Mecacci L. & Zani A. (1983). Morningness-Eveningness preferences and sleep-waking diary data of morning and evening types in student and worker samples. Ergonomics, 26, 1147-1153.

Rosenthal N.E., Sack D.A., Gillin J.C. & coll. (1984). Seasonal Affective Disorder. A description of the syndrome and preliminary findings with light-therapy. Archives General Psychiatry, 41, 72-80.

RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI

IL DILEMMA DEL COMMESSO VIAGGIATORE: UNO STUDIO COMPUTERIZZATO

D. Basso, Patrizia S. BisiacchiDipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

IntroduzioneLa ricerca si propone di studiare l’abilità di pianificazione attraverso un

esperimento computerizzato che propone ai soggetti delle situazioni rappresentanti il classico “dilemma del commesso viaggiatore”, noto in letteratura con la sigla T.S.P. (da Traveling Salesman Problem, Cadwallader, 1975). Il compito del soggetto è di organizzare un itinerario passando attraverso dei punti prefissati nello spazio, in modo tale da ottimizzare il percorso e il tempo impiegato. Il modello proposto da Gärling e collaboratori (Gärling et al. 1986, Hirtle e Gärling, 1992): prevede che la formazione di un piano sia un

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

processo cognitivo soggetto a limitazioni da parte della capacità della memoria a breve termine. Ne deriva che, in un compito quale l’organizzazione di un viaggio di lavoro da parte di un rappresentante, il primo stadio nella formazione di un piano consisterà nella lista delle commissioni da eseguire. In seguito, dalla mappa cognitiva si deriveranno le localizzazioni dei luoghi. Seguirà uno stadio decisionale riguardante l’ordine in cui eseguire le varie commissioni. Infine, si avranno le decisioni su quale percorso seguire. Nelle decisioni sul percorso da eseguire i soggetti sembrano utilizzare alcuni criteri ricorrenti: gli autori individuano una strategia globale, una strategia di ordinamento in gruppi di mete (clusters) con successiva localizzazione all’interno di ciascuno di questi cluster e sono concordi sulla presenza della strategia della distanza minima locale.

Inoltre, per formulare un piano adeguato, occorre includere anche un processo di decisione riguardo a quale azione eseguire. Tale decisione necessita la messa in atto di processi anticipatori, in parte non consapevoli, che permettono di estrapolare o anticipare il possibile risultato dell’azione. Tali processi anticipatori vengono realizzati sulla base delle informazioni accessibili al momento e delle esperienze immagazzinate dal soggetto precedentemente

Studi precedenti come Hayes-Roth & Hayes-Roth (1979), Gärling et al. (1986), Hirtle & Gärling (1992), Sgaramella, Bisiacchi e Falchero (1995) hanno studiato la pianificazione utilizzando o l’ordine delle tappe raggiunte, o la lunghezza del percorso, o entrambi, ma mai misurando, parallelamente a questi, i tempi parziali e totali utilizzati per risolvere il problema. La ricerca, studiando i tempi di reazione delle varie componenti, si propone di verificare se la pianificazione sia un processo ‘a cascata’, che continua anche durante la risoluzione del compito oppure se sia un processo predeterminato.

Materiali e metodoAll’esperimento hanno preso parte 52 studenti della Facoltà di Psicologia

dell’Università di Padova (26 maschi e 26 femmine, di età media 20,3 anni). I soggetti si sedevano davanti ad uno schermo di computer e venivano loro presentate le seguenti parti:

1- 4 prove di tempi di reazione (15 stimoli x 4 tipi di TR);2- 6 situazioni-test per il tipo di compito ‘con scia’;3- 6 situazioni-test per il tipo di compito ‘colori’.Ogni sessione richiedeva circa 25-30 minuti.Ogni situazione-test era composta da una griglia di 7 colonne e 5 righe ordinate in

modo da formare una serie di 35 incroci. Compito dei soggetti era di muovere una silhouette attraverso i tasti freccia dalla tappa di partenza (un quadrato blu nell’incrocio in alto a sinistra) alla tappa di arrivo (un quadrato rosso in basso a destra), toccando tutte le tappe intermedie presenti (posizionate solamente sugli incroci). La silhouette lasciava, al suo passaggio, una traccia sullo schermo.

Nel tipo di compito ‘con scia’ era possibile raggiungere tutte le tappe nell’ordine preferito; le sei situazioni differiscono tra loro nel numero di tappe presenti: nel livello di difficoltà più basso le tappe erano 4+l’arrivo, nel sesto e ultimo livello esse erano 9+l’arrivo.

Nel tipo di compito ‘colori’ alcune tappe erano di colori differenti e potevano essere raggiunte solamente nell’ordine descritto da una sequenza illustrata a fianco; tutte le situazioni contenevano 9 tappe + l’arrivo e i livelli di difficoltà rappresentavano la quantità

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

di tappe “vincolate” presenti (difficoltà 1 aveva 7 tappe libere + 2 vincolate; difficoltà 6 aveva 2 tappe libere + 7 vincolate).

Sono state prese le seguenti misure: 1- il tempo per cominciare la prova; 2- il tempo e il numero di mosse richieste per raggiungere ogni tappa fino alla tappa finale; 3- l’ordine nel quale sono state raggiunte le tappe; 4- tempi di reazione e numero di errori delle quattro prove di TR.

Per analizzare i percorsi prodotti dai soggetti sono stati definiti 4 tipi di strategie visuospaziali e, solamente per il tipo di compito ‘colori’, 3 tipi di strategie con vincoli: ad ogni percorso veniva attribuito l’uso di una (o più) strategie se l’ordine, nel quale venivano raggiunte le tappe, ne soddisfava i requisiti. È stato infine calcolato un ‘indice di programmazione’ (filtrando la distanza delle tappe e le caratteristiche individuali dei soggetti dai tempi intermedi alle tappe), che rappresenta un modo per confrontare la programmazione richiesta per scegliere via via le tappe da raggiungere.

Risultati e conclusioniÈ stata eseguita un’ANOVA sul ‘tempo di programmazione’, ossia sul tempo che

intercorre tra la comparsa delle tappe ed il primo spostamento effettuato, senza riportare differenze per i 6 livelli di difficoltà (con scia: F(5,311)=0,96; colori: F(5,311)=1,45). L’analisi della varianza è risultata significativa, rispetto al livello di difficoltà (com’era lecito aspettarsi), sia per il tempo di esecuzione (con scia: F(5,311)=8,24; colori: F(5,311)=6,31) che per il numero di passi (con scia: F(5,311)=88,57; colori: F(5,311)=18,64).

L’analisi delle strategie del tipo ‘con scia’, attraverso l’indice rho di Spearman, ha dimostrato che i soggetti preferiscono usare una stessa strategia dall’inizio alla fine del percorso quando esso è composto da poche tappe, mentre quando il numero aumenta, essi tendono ad operare dei cambi di strategia durante la sua realizzazione (rho(306)=.44; sig.<0.001). L’indice rho di Spearman, applicato alle strategie del tipo ‘colori’, indica che i soggetti, quando ci sono poche tappe vincolate, applicano una strategia combinata visuospaziale e con vincoli, mentre all’aumentare del numero di tappe vincolate, tende a sparire l’uso di strategie visuospaziali (rho(.52; sig.<0,001).

I dati precedentemente citati indicano che la programmazione iniziale non è sufficiente per coprire tutto il compito e tendono a confermare l’ipotesi che essa continua durante il percorso. Questa supposizione trova un’ulteriore conferma con l’analisi dell’indice di programmazione: è stata condotta una serie di t-test a coppie per verificare la significatività delle medie dell’indice. Per entrambi i compiti risultano differenti i valori dell’indice nella prima tappa (perché la programmazione è avvenuta prima della partenza) e nell’ultima (non occorre effettuare una scelta se essa è l’ultima tappa che rimane da toccare). I valori delle altre tappe, per quel che riguarda il tipo ‘con scia’, non sono differenti l’uno dall’altro e formano, nei grafici, una zona ‘in piano’: ciò viene attribuito ad una programmazione in quanto nel primo e nell’ultimo tratto (quando a ragione la p. non dovrebbe esserci) i valori sono minori, e tende a conferma di una quantità limitata di risorse cognitive deputate dal soggetto per la risoluzione del compito. Per quel che riguarda invece il compito ‘colori’, si assiste ad un accrescimento globale dei valori intermedi (dovuto alla relativa maggiore difficoltà del compito per il soggetto che, per una pianificazione proficua, deve tener conto anche delle tappe vincolate), e specialmente per i primi 4 valori con una differenza significativa riscontrata tra la 4a e la 5 a tappa (giustificata dalla memorizzazione

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

no ancora completata ed il mantenimento in memoria a breve termine dell’ordine delle tappe vincolate).

Lo studio ha dimostrato che la programmazione non è un processo che si esplica una tantum prima di partire, ma, una volta che il soggetto ha programmato una certa quantità, egli parte e prosegue la programmazione della traiettoria restante durante la realizzazione stessa del percorso.

Inoltre il test computerizzato PIANTINE si propone come un valido sussidio per lo studio della pianificazione nei dettagli; non solo nella popolazione normale, ma anche per la valutazione dei traumatizzati cranici frontali, i quali mostrano deficit in questa funzione cognitiva.

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STRATEGIE AUTO RIFERITE NELLA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO.

STUDIO DEI CORRELATI COGNITIVI

Andrea BoscoDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

Lawton (1994, 1996), sulla base delle autovalutazioni di soggetti impegnati in compito di ritrovamento di una strada, ha individuato due strategie di recupero delle informazioni dalla memoria basate su rappresentazioni mentali in prospettiva egocentrica, che l’autore definisce route strategy o in prospettiva eterocentrica, orientation strategy. Il presente lavoro si propone di indagare i correlati cognitivi delle strategie di rappresentazione mentale dello spazio mediante uno strumento di recente costruzione (Questionario Situazionale d’Orientamento Spaziale – QSOS; e.g. Bosco, 1999) in grado di

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fornire una misura auto riferita dell’uso di strategie dei due tipi: a) route e b) survey. La presente ricerca è tesa alla verifica sperimentale delle seguenti ipotesi:

1) è possibile identificare soggetti con preferenza per l’una o l’altra strategia di rappresentazione mentale dello spazio ma anche soggetti che mostrano “passaggi” dall’una all’altra strategia secondo diversi fattori;

2) se la survey knowledge rappresenta il più efficiente livello di conoscenza dello spazio, chi usa preminentemente la strategia survey dovrebbe pure essere più abile rispetto ad altri in compiti cognitivi spaziali semplici e complessi;

3) i soggetti con preferenza della strategia route, più ancorati cioè alla route knowledge, dovrebbero essere più abili dei soggetti appartenenti agli altri gruppi nei compiti di ricordo di un percorso noto;

4) se vi sono soggetti che passano dall’una all’altra rappresentazione mentale agevolmente, tale competenza potrebbe essere legata all’abilità in compiti cognitivi semplici.

MetodoLa misura che si ottiene dal questionario consiste nella frequenza d’uso di tre

strategie: due di tipo spaziale (route e survey) e una non spaziale. Il questionario è stato somministrato a 413 soggetti. Mediante analisi dei cluster abbiamo ottenuto un modello a sei gruppi Nella seconda fase 117 soggetti, ripartiti in cinque dei sei gruppi, sono stati sottoposti alla somministrazione di una batteria di prove cognitive spaziali:

1) compito di scansione dello spazio (labirinto);2) compito di rotazione mentale, (mani destre e sinistre);3) span di Corsi;4) memoria a lungo termine;5) Compito di ricostruzione di una mappa della città di appartenenza;6) Compito di ricordo di un percorso molto noto della città di appartenenza.

RisultatiI Indagine

Analisi dei tre gruppi “preferenza ” (survey, Route I e Route II). La struttura fattoriale indica che il predittore più rilevante della prima funzione discriminante è il compito di ricostruzione di mappa (peso fattoriale: -0,57), ove il gruppo “preferenza survey” mostra la migliore prestazione. Il predittore più rilevante della seconda funzione discriminante è il compito di memoria a lungo termine (peso fattoriale: 0,57), ove il gruppo “preferenza route I” mostra la peggiore prestazione.

Analisi sui due gruppi “congruenza” (con il compito, con la conoscenza). Dalla struttura fattoriale emerge che il predittore con il maggiore contributo alla discriminazione dei due gruppi è la prova di span visuo-spaziale (peso fattoriale: 0,47) mediante il Corsi Block Test. La direzione dell’effetto è in termini di una migliore prestazione del gruppo “congruente con il compito” rispetto all’altro.II indagine

Una seconda analisi è stata condotta su una nuova batteria di prove:1) Mental Rotation Test (Vandenberg & Kuse, 1978);2) Digit span in avanti e indietro Le prova di span di cifre del WAIS;3) una prova sulle strategie di ragionamento;

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4) una prova di discriminazione di figure e parole che indicano direzione;5) indice dell’“effetto destra-sinistra”.Tale analisi comprendeva esclusivamente soggetti, del campione dei 117, di età

compresa tra 21 e 34 anni, che mostravano le distanze di Mahalanobis più piccole dal proprio centroide di gruppo. Le analisi condotte su questi nuovi gruppi confermano e ampliano i risultati ottenuti nella prima indagine.

Conclusioni1) Vi sono sia gruppi con preferenza per una strategia di rappresentazione mentale dello spazio, sia gruppi con una modalità di rappresentazione che varia al variare di un fattore rilevante.2) L’uso predominante della strategia survey, sembra effettivamente identificare soggetti meglio dotati sul piano tanto delle competenze di base, quanto dei compiti complessi: a) di ricostruzione di mappe (compito survey per eccellenza), b) di ricostruzione di un percorso noto.3) I soggetti con preferenza della strategia route, non mostrano maggiore perizia dei soggetti con preferenza survey nei compiti di ricostruzione di un percorso noto.4) I soggetti “congruenti con il compito” e “congruenti con la conoscenza” si differenziano tra di loro solo sulla base di prove molto semplici come la prova di Span visuo-spaziale e di riconoscimento di etichette verbali di direzione, in entrambi i casi a favore dei “congruenti con il compito”. Ricerche future saranno volte alla selezione di nuovi predittori per definire meglio le caratteristiche dei gruppi secondo un modello multifattoriale che dovrebbe comprendere prove di intelligenza fluida, di intelligenza cristallizzata e di rapidità percettiva.

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COSA CI INSEGNANO LE INFERENZE ILLUSORIE RELATIVAMENTE ALLA COMPRENSIONE DEI

CONDIZIONALI

Paolo CherubiniUniversità di Padova

IntroduzioneLe “inferenze illusorie” sono una classe di problemi deduttivi che la quasi totalità

degli individui risolve fornendo una risposta apparentemente ovvia (“illusoria”) ma assolutamente erronea dal punto di vista logico. La possibilità di inferenze illusorie è una diretta conseguenza della teoria dei modelli mentali (Johnson-Laird e Savary, 1996). Un esempio di “inferenza illusoria” è il seguente (Johnson-Laird e Savary, 1996, 1998; Johnson-Laird, Legrenzi, Girotto, Sonino-Legrenzi, Caverni, 1998):

1. Solo una delle due seguenti frasi si applica ad una specifica mano di carte (che non puoi vedere):

2. Se nella mano c’è un Re, allora c’è anche un Asso.3. Se nella mano c’è una Regina, allora c’è anche un Asso.

Gli individui tipicamente concludono che nella mano di carte è senz’altro possibile la presenza dell’Asso, ad anzi esso è più probabile sia del Re sia della Regina (xxx). Da un punto di vista logico, la presenza dell’Asso nella mano è impossibile. Le condizioni di verità logiche di una frase condizionale sono le seguenti:

antecedente (p) conseguente (q) SE p ALLORA q

vero vero verovero falso falsofalso vero verofalso falso vero

In altri termini, una frase condizionale è falsa se e solo se il suo antecedente è vero ed il suo conseguente è FALSO. Dato che la premessa 1 stabilisce esplicitamente che una delle due premesse 2 e 3 è falsa, ne segue che l’asso non può essere presente nella mano.

Una previsione diretta della spiegazione offerta dalla teoria dei modelli mentali per tali fenomeni è che, facilitando la focalizzazione sulle “condizioni di falsità”, le risposte illusorie dovrebbero ridursi (Newsome e Johnson-Laird, 1996; Johnson-Laird e Goldvarg, 1997). Un’ipotesi alternativa è che gli individui siano in grado di rappresentare le condizioni di falsità, ma che queste siano differenti da quelle previste dalla logica. Nel corso di tre esperimenti esplorerò queste ipotesi, per cercare di appurare i processi mentali soggiacenti le inferenze illusorie e la comprensione delle frasi condizionali.

In un primo esperimento si manipola il contesto di presentazione dei problemi illusori. I risultati (analizzati con statistiche loglineari) evidenziano un’interazione: un contesto che enfatizzi la rappresentazione del “falso” riduce l’illusione solo nei problemi che non contengono premesse condizionali.

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In un secondo esperimento, chiedendo la valutazione vero/falso di diverse premesse condizionali e disgiuntive alla luce di diverse possibili situazioni di riferimento, si trova che mentre le frasi disgiuntive sono comprese secondo la loro tavola di verità standard, le frasi condizionali vengono valutate con condizioni di verità differenti da quelle logiche; in particolare, sembra che gli individui applichino ad esse una tavola di verità congiuntiva (ovvero: un condizionale si rivela vero solo quando sia il suo antecedente sia il suo conseguente sono veri). In forza di queste condizioni di verità, le risposte illusorie non possono più essere considerate erronee.

Viene quindi avanzata un’ipotesi per spiegare perché, in questi problemi, i condizionali vengano interpretati come congiunzioni. Si ipotizza che la valutazione di un condizionale avvenga in due stadi:1. stadio pragmatico: si valuta la possibilità dell’antecedente nel dominio di riferimento

della frase; se l’antecedente è impossibile (falso in tutti i “mondi possibili” che compongono il dominio) la frase viene valutata automaticamente falsa, e non si procede al passo successivo; se l’antecedente è possibile (vero in almeno un “mondo possibile” del dominio) si procede allo stadio logico;

2. stadio logico: la frase viene valutata secondo le condizioni di verità standard: risulta vera se non vengono osservati casi in cui l’antecedente é vero e il conseguente è falso, falsa se vengono osservati tali casi.

In altri termini, dire “Se p allora q” non significa solo “q è vero in ogni situazione in cui p è vero”, ma, più esaustivamente, “p è possibile; inoltre, q è vero in ogni situazione in cui p è vero”.

Il modello è stato formalizzato, ed è possibile dimostrare come esso sia potenzialmente in grado di rendere conto di note anomalie del ragionamento condizionale come le “tavole di verità difettive” (Wason e Johnson-Laird, 1972) e l’esito del compito di selezione di Wason (Wason, 1968); ovviamente, esso rende anche conto delle “tavole di verità congiuntive” osservate nell’esperimento 2.

Alla luce dell’ipotesi fatta, nel terzo esperimento si presenta un’illusione composta da premesse condizionali in un contesto in cui le condizioni pragmatiche di verità di tali frasi sono soddisfatte (contesto “logico”; 20 soggetti), e la si pone a confronto con la medesima illusione presentata in un contesto dove le condizioni pragmatiche di verità delle frasi non sono state soddisfatte    (contesto “pragmatico”). L’analisi dei risultati (chi-square) mostra come le risposte illusorie siano significativamente superiori nel contesto pragmatico, mentre le risposte logicamente corrette siano significativamente superiori nel contesto logico.

In breve, la facilitazione nei problemi illusori contenenti frasi condizionali non discende tanto dall’ “enfasi sul falso”, ma piuttosto dal fornire proposizioni pragmaticamente plausibili.

ConclusioniAlla luce delle ricerche eseguite si conclude che la spiegazione offerta dai modelli

mentali relativamente alle inferenze illusorie non è completa. Sembra, infatti, che esse non compaiano per una “difficoltà” nel rappresentarsi la falsità logica delle premesse. Piuttosto, sono dovute alla rappresentazione di “condizioni di falsità” differenti, pragmaticamente orientate. Qualora si impedisca l’uso di tali “condizioni di falsità” pragmatiche, offrendo premesse pragmaticamente plausibili, i soggetti si mostrano in grado di fornire le risposte

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logicamente corrette (sono quindi in grado di usare le corrette condizioni di verità logiche).

Il modello a “due stadi” proposto per la comprensione delle frasi condizionali introdotto in questo studio mostra un elevato potere esplicativo nei confronti di molti fenomeni del ragionamento proposizionale finora studiati. Inoltre, esso costituisce una possibile base per    gettare le fondamenta di quell’ “anello mancante” tra teorie del ragionamento proposizionale e teorie pragmatiche del linguaggio di cui da tempo si sentiva la necessità.

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EFFETTO DELL’INVARIANZA NEL RISCHIO

Alessandro Couyoumdjian Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”ECONA, Centro Interuniversitario per la Ricerca sull’Elaborazione Cognitiva nei Sistemi Naturali e Artificiali

In letteratura la ricerca sulla psicologia del rischio è principalmente connessa allo studio della valutazione soggettiva che gli individui fanno riguardo a particolari eventi e alle differenze individuali relative all’attuazione di comportamenti rischiosi. Raramente vengono prese in considerazione le componenti cognitive alla base sia della percezione del rischio sia del comportamento rischioso. Questo stato di cose rispecchia forse la difficoltà di inquadrare e caratterizzare il concetto di rischio a livello dell’elaborazione cognitiva. Potrebbe sembrare inadeguato, infatti, parlare di rischio dal punto di vista della percezione psichica in quelle attività in cui non è richiesta una esplicita valutazione dei rischi, e quindi

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della probabilità di occorrenza di un evento e della entità del danno che tale evento potrebbe arrecare verificandosi. In questi casi, come ad esempio sciare, guidare un autoveicolo, o lavorare ad una pressa, sembra importante individuare e comprendere i fattori che inducono errori sistematici nell’elaborazione cognitiva della situazione.

In qualsiasi attività rischiosa che si protrae nel tempo è plausibile ipotizzare che il comportamento dell’individuo sia influenzato, oltre che dalle informazioni ambientali, dalla “struttura” degli eventi o degli esiti passati relativi all’attività stessa. In particolare, nel presente studio, svolto in collaborazione con Marta Olivetti Belardinelli, viene indagato l’effetto sul comportamento di rischio di una condizione di invarianza, in cui la persona esperisce una serie consecutiva di successi. Si ipotizza che più questa condizione di invarianza perdura nel tempo, meno l’individuo è in grado di elaborare e affrontare efficacemente la situazione.

Per verificare l’ipotesi è stato sviluppato un programma informatico in cui i soggetti (N=72) dovevano cercare di acquisire il maggior numero di punti bloccando una sequenza di carte, rosse o blu, sulla carta su cui avevano puntato. I soggetti dovevano eseguire il compito 140 volte. All’inizio di ogni prova la composizione del mazzo (ossia la proporzione di carte rosse e blu) veniva cambiata e controllata sperimentalmente. In base a tale composizione i soggetti avevano la possibilità di scegliere tra due strategie di rischio: una conservativa, a rischio minore; l’altra d’azzardo, a rischio maggiore. Al di sotto dell’esperimento vi era un inganno, in quanto i soggetti non avevano alcuna influenza sull’esito di ciascuna prova. Le vincite e le perdite erano infatti controllate sperimentalmente in modo da costituire 14 blocchi da 10 prove ciascuno in cui all’inizio si avevano o 2 vittorie (condizione di invarianza breve) o 4 vittorie (condizione di invarianza lunga). Per controllare un possibile effetto della frequenza le vincite e le perdite avevano la stessa probabilità di occorrenza.

Per l’analisi dei dati sono stati considerati i tempi di reazione per ciascuna prova e il tipo di strategia utilizzata (rischio alto, rischio basso). Se la condizione di invarianza influenzasse l’elaborazione cognitiva e il comportamento, si dovrebbe evidenziare una differenza significativa dei tempi di reazione della strategia di rischio per le condizioni sperimentali considerate. Sono stati utilizzati, oltre all’analisi della varianza, i metodi di analisi delle serie temporali (auto-correlazione, cross-correlazione, analisi di Fourier), le analisi per l’attendibilità del test (split-half) e i test bayesiani per la verifica delle ipotesi. I risultati confermano l’ipotesi secondo la quale una struttura invariante degli eventi precedenti determina un ottundimento della percezione degli indizi di rischio provenienti dall’ambiente.

GLI EFFETTI DELLA DEPRIVAZIONE VISIVA NELLA COSTRUZIONE DEI CONCETTI

Dario Galati* Carla Tinti°, Mauro Adenzato°* Dipartimento di Psicologia, Università di Torino° Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

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IntroduzioneCos’è un albero? Se si pone questa domanda a qualcuno si otterrà una definizione

simile a questa: “un organismo composto da un tronco allungato che generalmente è di colore marrone, dei rami più o meno fitti, delle foglie spesso verdi, radici più o meno profonde e frutti di vari colori”. Una simile risposta è tipica di una persona priva di deficit sensoriali. Dall’analisi del contenuto di una tale definizione emerge la presenza di attributi fondamentalmente appartenenti alle categorie della forma e del colore, e ciò non è certo casuale se pensiamo che la maggior parte delle informazioni che dall’esterno giungono ai nostri apparati percettivi, e che da qui vanno ad informare il nostro sistema mente/cervello, provengono dai canali visivo ed acustico. In particolare, per quanto riguarda le informazioni visive, la definizione di albero riportata evidenzia l’importanza che queste informazioni rivestono per la costruzione dei concetti. Data l’importanza di una tale fonte di informazioni, una domanda che appare legittimo porsi è: che cosa può accadere quando queste informazioni sono assenti? Come vengono costruiti ed organizzati i concetti e i significati delle parole in queste condizioni di deprivazione sensoriale?

Per rispondere a queste domande abbiamo analizzato la prestazione fornita da soggetti ciechi congeniti ed acquisiti ad un compito sperimentale da noi appositamente ideato allo scopo di poter comprendere come i processi di significazione si organizzino quando l’informazione visiva, a causa della cecità, è isolata.

L’ipotesi è che tanto più la comprensione di un termine richieda un riferimento alla percezione visiva, tanto maggiore sarà la differenza tra ciechi e vedenti nella costruzione dei significati, lasciando all’analisi dei dati la spiegazione di tali differenze.

MetodoSoggetti

Il campione sperimentale era composto da 40 ciechi di cui 23 maschi e 17 femmine (età media 42;3 anni). Ventidue di loro erano ciechi congeniti e 18 ciechi tardivi. Il gruppo di controllo era composto da 40 persone vedenti confrontabili per età, sesso e scolarità al gruppo sperimentale.Materiale

Il questionario era formato da 15 termini il cui significato implicava in gradi diversi riferimenti a informazioni di carattere percettivo in generale o specificatamente visivo. Venivano inoltre presentati 5 nomi di categorie sovraordinate (fiori, veicoli, verdure, frutta e vestiario). Procedura

I soggetti venivano testati individualmente. Lo sperimentatore leggeva loro un item alla volta. La somministrazione degli item era randomizzata. Per ognuno dei termini veniva chiesto sia di indicarne le caratteristiche essenziali che di darne una definizione. Si presentavano poi tutti i termini in coppia l’uno con l’altro e per ciascuna coppia il soggetto doveva indicare il grado di somiglianza. Per queste prove non si poneva limite di tempo. Un ulteriore compito consisteva nel presentare una categoria sovraordinata e nel chiedere al soggetto di elencare tutti i nomi che riusciva ad associare a tale categoria. Il tempo a disposizione per quest’ultima prova era di 1 minuto e mezzo.

Risultati

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

I risultati sono in corso di elaborazione. Sulla base dei risultati finora acquisiti emergono alcune interessanti differenze tra ciechi congeniti e vedenti.

RAPPRESENTAZIONI DIAGRAMMATICHE NELLA SOLUZIONE DI PROBLEMI PER ANALOGIA

Francesco Saverio Marucci, Roberto PedoneUniversità di Roma “La Sapienza”

Studi precedenti sulla soluzione dei problemi per analogia hanno mostrato che le analogie-sorgente possono essere utilizzate in modo efficace dai soggetti sia quando venivano mostrate loro in forma verbale (Gick e Holyoak, 1980, 1983; Keane, 1988; Holyoak e Thagrad 1995; Warthon et al. 1996) che in forma di rappresentazioni visivo-figurale, come disegni, figure o diagrammi (Gick e Holyoak, 1980, 1983; Gick, 1985; Beveridge e Parkins, 1987; Goswami, 1989, 1992; Thagard, Gochfeld e Hardy, 1992). Inoltre, in modo indipendente dalla forma in cui le analogie vengono presentate, il ragionamento per analogia spesso coinvolge rappresentazioni visive-mentali specialmente quando viene usato in problemi di natura spaziale (Driestadt, 1969; Beck 1978, Chafe, 1976; Kosslyn, 1975,Shepard, 1975).

Nell’ambito dello studio dei processi cognitivi implicati nella soluzione dei problemi tramite analogia, abbiamo condotto una serie di esperimenti che hanno fatto uso di rappresentazioni diagrammatiche presentate visivamente sullo schermo di un computer in condizione di staticità e in condizione di movimento dinamico. I risultati degli esperimenti condotti hanno dimostrato gli effetti delle proprietà percettive dei diagrammi e la loro efficacia come analogie sorgenti per la soluzione del problema delle radiazioni di Dunker (1945) espresso in forma verbale. I diagrammi presentati in condizione statica che rappresentavano lo stato problemico iniziale (una grande forza diretta su un bersaglio) e lo stato finale che rappresentava la soluzione di convergenza (forze convergenti multiple) non venivano richiamati spontaneamente dai soggetti, ma venivano utilizzati con successo quando il richiamo delle configurazioni diagrammatiche era favorito dallo sperimentatore attraverso un suggerimento aspecifico. L’efficacia dei diagrammi presentati in condizione statica come analogie-sorgente non migliorava quando si utilizzavano un numero maggiore di diagrammi, ma il richiamo spontaneo ed il successivo mapping analogico poteva essere facilitato quando insieme ai diagrammi veniva fornita ai soggetti una descrizione verbale del principio di convergenza .

Il risultato di maggior rilievo è stato che il richiamo spontaneo poteva essere notevolmente migliorato quando ai soggetti venivano mostrate le configurazioni diagrammatiche in movimento; ciò facilitava la codifica delle frecce rappresentate nei diagrammi come ‘movimento verso un obiettivò. Il vantaggio dei diagrammi presentati in condizione dinamica rispetto a quelli presentati in condizione statica è stato ottenuto sia quando i diagrammi rappresentavano frecce orientate, sia quando rappresentavano blocchi rettangolari che a differenza delle frecce non mostravano alcun orientamento spaziale. Il trasferimento analogico della soluzione di convergenza ottenuto mediante l’utilizzo dei

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diagrammi dinamici è stato migliore di quello specificamente osservato quando sono state utilizzate analogie espresse in forma verbale (Gigk e Holyoak, 1980,1983, Keane, 1988, Warthon et al., 1996). Inoltre, né i diagrammi presentati in condizione statica, né quelli presentati in condizione dinamica sono stati in grado di facilitare il trasferimento analogico della soluzione quando in essi erano rappresentate frecce divergenti.

Ci possono essere diverse spiegazioni possibili per gli effetti di facilitazione dimostrati dalle configurazioni diagrammatiche dinamiche. La prima riguarda il fatto che con l’aiuto del movimento, le persone possono essere guidate a codificare i diagrammi come schemi astratti di convergenza (Catrambone e Holyoak 1989;Gick e Holyoak, 1983). La seconda spiegazione, che non esclude la precedente, potrebbe essere riferita al fatto che la soluzione di convergenza dipende, in senso stretto, dalla comprensione della realtà percettiva e fisica delle forze dinamiche convergenti; questo tipo di comprensione poteva essere meglio ottenuta a partire dalla codifica di rappresentazioni diagrammatiche visivo-figurali in movimento (Beveridge e Parkins 1987).

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LA RAPPRESENTAZIONE SPAZIALE DELL’AMBIENTE NEL NON-VEDENTE

Carla Tinti°, Dario Galati** Dipartimento di Psicologia, Università di Torino° Centro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

IntroduzionePer orientarsi efficacemente nell’ambiente si possono utilizzare due tipi strategie

che consistono nell’utilizzo di due diverse rappresentazioni: route o survey (ÒKeefe e Nadel, 1978). Il primo tipo di rappresentazione è basata sull’individuazione di alcuni punti di riferimento lungo un percorso e da una sequenza di azioni che guidano il cammino. Le informazioni sul percorso sono organizzate serialmente e non possono venire riorganizzate, ragion per cui se ne manca una il tragitto non può essere completato. Lo schema di riferimento nel procedere é egocentrico e nell’insieme la rappresentazione risulta priva di plasticità. La rappresentazione di tipo survey, invece, implica l’elaborazione delle relazioni di direzione e distanza tra luoghi, indipendentemente dalla posizione del soggetto. Lo schema di riferimento infatti non é centrato sulla persona ma è assoluto e costruito sulla base di indizi distali. Nell’insieme, queste caratteristiche rendono questo tipo di rappresentazione molto plastica. L’esplorazione dell’ambiente circostante verrebbe cioè guidata da una “mappa cognitiva” (Neisser, 1976).

I due tipi di rappresentazione ipotizzate vengono usate entrambe dalle persone vedenti a seconda della situazione. La rappresentazione di tipo route sarebbe sufficiente nel percorrere luoghi molto familiari, qualora non vi siano impedimenti lungo il cammino; quella di tipo survey sarebbe invece importante per stimare la direzione di luoghi al di fuori del campo visivo come quando si deve individuare la direzione di un certo luogo immaginando di essere in un altro, o laddove insorgano degli ostacoli durante il percorso che costringono ad una deviazione.

Lo scopo del presente lavoro è quello di capire in che modo le persone non-vedenti si rappresentino ed elaborino l’informazione spaziale e, in particolare, di capire se anche in assenza della vista si possa riuscire ad utilizzare una rappresentazione di tipo survey. Da un lato questo può risultare estremamente utile alla ricerca sulla riabilitazione dell’orientamento e delle capacità di movimento autonomo. Dall’altro studiare il tipo di rappresentazione e di elaborazione spaziale nei ciechi, capire quale informazione viene

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COMUNICAZIONI - ERGONOMIA

persa in assenza della visione e come questa informazione può essere sostituita da altre modalità sensoriali, permette di chiarire il ruolo della visione nei processi rappresentazionali e di elaborazione stessi.

MetodoSoggetti

Il campione sperimentale era composto da 34 ciechi di cui 20 maschi e 14 femmine (età media 42 anni). Venti di loro erano ciechi congeniti, mentre 14 avevano perso la vista in età adulta. Tutti i partecipanti si trovavano nelle condizioni fisiche per poter svolgere i compiti proposti, ciascuno di loro era inoltre in grado di muoversi nella città da solo con l’aiuto del bastone. Il gruppo di controllo era composto da 60 persone normovedenti comparabili per età e scolarità al gruppo sperimentale.Materiale

L’esperimento è stato effettuato in una sala molto spaziosa nella quale erano stato costruiti due percorsi che differivano per lunghezza e complessità. Il percorso più semplice era formato da 4 tratti rettilinei lunghi 1.55; 2.60; 4.70 e 1.70 m rispettivamente e da 4 angoli di 90°. Il tragitto complessivo che i soggetti dovevano compiere era complessivamente di 10.5 m. Il secondo percorso era più lungo e comprendeva due svolte in più. I tratti rettilinei da percorrere erano 6 di lunghezza pari a 1,57; 1,90; 2,00; 2,60; 4,70 e 1,70 m. Il tragitto complessivo da percorrere era dunque di 14, 47 m e, anche in questo caso, gli angoli erano tutti di 90°. Procedura

Il compito dei soggetti consisteva nel completare i percorsi e successivamente di rispondere a delle domande sui percorsi stessi. I soggetti vedenti eseguivano l’intera prova bendati. Le domande che venivano loro poste riguardavano la direzione e la distanza che intercorreva da dei punti precedentemente stabiliti ed erano studiate in modo tale che per rispondere il soggetto doveva fare riferimento ad una rappresentazione spaziale di tipo survey. La parte finale della prova consisteva nel far disegnare a ciascuno il percorso fatto.

RisultatiI risultati sono in corso di elaborazione. È stata confrontata la prestazione dei

soggetti ciechi congeniti sia con quelli vedenti che con quelli tardivi. Dalle analisi preliminari si rileva che i ciechi congeniti hanno delle prestazioni equivalenti e, in certi casi, migliori, rispetto ai ciechi tardivi e ai vedenti. Sembra quindi che i soggetti ciechi siano in grado di formarsi una rappresentazione di tipo survey di un percorso fatto per la prima volta in modo non significativamente diverso rispetto ai soggetti vedenti

Riferimenti bibliograficiNeisser, U. (1976). Cognition and reality. San Francisco: Freeman.ÒKeefe, J., e Nadel, L. (1978). The hippocampus as a cognitive map. London: Oxford

University Press.

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STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI

INTERAZIONI, REGRESSIONI, LISREL: ALCUNI RECENTI SVILUPPI NELL’ANALISI CONFERMATIVA

DELLE RELAZIONI MOLTIPLICATIVE

Luigi LeoneFacoltà di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneLe ipotesi riguardanti interazioni fra variabili rivestono grande utilità scientifica:

esse consentono di superare l’ambiguità o banalità di interpretazioni basate su soli effetti principali e favoriscono una maggiore articolazione delle teorie. Nella psicologia sperimentale, la ricerca di interazioni si è spesso tradotta empiricamente nella verifica di un modello ANOVA fattoriale Tuttavia, qualora le variabili siano misurate su scale a intervalli può risultare più appropriato ricorrere a modelli di regressione gerarchica al fine di testare gli effetti interattivi (Jaccard, Turrisi e Wan, 1990). Purtroppo, i modelli di regressione includenti termini interattivi vanno incontro ad alcune difficoltà che ne limitano l’utilizzo: 1) l’uso di variabili-prodotto si traduce nella violazione delle assunzioni del modello; 2) il termine moltiplicativo risulta spesso poco attendibile e gravato da una forte componente di errore; 3) ne risulta che il test dell’effetto interattivo risente di scarso potere statistico. Nel tentativo di porre rimedio alle limitazioni elencate, Kenny e Judd (1984) hanno proposto un modello confermativo a variabili latenti includente interazioni. L’uso di variabili latenti e la modellizzazione della varianza di errore avrebbero dovuto migliorare il potere statistico del test riguardante l’interazione. Jaccard e Wan (1995) hanno sviluppato una possibile implementazione del modello di Kenny e Judd. Recentemente il modello Kenny-Judd è stato però criticato sia per l’eccessiva complessità del modello, sia per la mancata presa in considerazione delle medie delle variabili, le quali sono anche funzione dell’interazione. Joreskog e Yang (1996) hanno quindi proposto parametrizzazioni alternative, relativamente più semplici e statisticamente più corrette. L’obiettivo della presentazione è la descrizione dei modelli Kenny-Judd nella nuova parametrizzazione proposta da Joreskog e Yang (1996) e l’esposizione di un esempio di ricerca, nel quale i risultati ottenuti tramite la semplice regressione gerarchica vengono confrontati con quelli offerti dall’implementazione delle strategie confermative.

MetodoI diversi modelli sono stati esemplificati applicandoli ai dati di una ricerca sugli

atteggiamenti verso “seguire una dieta dimagrante”. Il campione constava di 609 soggetti. L’ipotesi principale riguardava un effetto interattivo fra le norme soggettive e le percezioni di auto efficacia nella predizione dell’intenzione di seguire la dieta. Le norme soggettive, le

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percezioni di auto efficacia e le intenzioni comportamentali sono state misurate rispettivamente tramite 3, 14 e 2 item. In primo luogo è stata calcolata un’equazione di regressione gerarchica per la predizione delle intenzioni includente l’interazione. I risultati sono stati confrontati con quelli emersi dall’analisi di tre modelli confermativi (Joreskog e Yang, 1996), che differivano fra loro principalmente per il numero di prodotti utilizzati per specificare l’interazione (un solo prodotto, 2 prodotti, 4 prodotti).

RisultatiI risultati offerti dalla regressione gerarchica indicano l’assoluta mancanza di

significatività dell’interazione (t<1). Al contrario, nei modelli confermativi il coefficiente relativo all’interazione risulta molto vicino alla soglia di significatività ([email protected]). I modelli mostrano buoni indici di fit complessivi e valori R2 generalmente più elevati rispetto a quello offerto dalla regressione gerarchica.

ConclusioniI risultati confermano i limiti dell’approccio di regressione gerarchica: l’errore

contenuto nella variabile-prodotto riduce notevolmente il potere statistico del test dell’interazione. I modelli confermativi offrono una soluzione soddisfacente a tale difficoltà. I diversi modelli testati convergono nel segnalare la presenza di un effetto interattivo non trascurabile. I modelli con un solo prodotto sono di più semplice implementazione, e consigliabili nel caso i campioni a disposizione non siamo grandi. Con campioni numerosi è consigliabile analizzare anche i modelli includenti 2 o 4 indicatori-prodotto. È comunque sempre opportuno confrontare i risultati ottenuti tramite i modelli confermativi con quelli ricavati da tecniche più semplici.

Riferimenti bibliograficiJaccard, J. e Wan, C. K. (1995). Measurement error in the analysis of interaction effects

between continuous predictors using multiple regression: Multiple indicator and structural equation approaches. Psychological Bulletin, 117, 348-357.

Jaccard, J., Turrisi, R. e Wan, C. K. (1990). Interaction Effects in Multiple Regression. London: Sage Pubblications.

Joreskog, K. G., e Yang, F. (1996). Non-linear structural equation models: The Kenny-Judd model with interaction effects. In G.A Marcoulides e R. E. Shumacker (Eds.), Advanced Structural Equation Models: Isuess and techniques (pagg. 153-166). NJ: Lawrence Erlbaum.

Kenny, D. A. e Judd, C. M. (1984). Estimating the nonlinear and interactive effects of latent variables. Psychological Bulletin, 96, 201-210.

SPERIMENTAZIONE PSICOLOGICA IN INTERNET: VANTAGGI E LIMITI DELLA RICERCA ON-LINE

Luigi Lombardi, Donatella PaganiDipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

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Il dibattito sui vantaggi e i limiti della sperimentazione psicologica attraverso Internet ha assunto in questi ultimi anni una certa rilevanza grazie soprattutto ai contributi di alcuni pionieri della ricerca psicologica in rete (Reips, 1997, 1998, 1999; Krantz e Dalal, 1999; Krantz, Ballard e Scher, 1997; Pagani e Lombardi, 1999). Nei lavori di questi autori il problema metodologico della validità della conduzione di esperimenti in Internet è stato affrontata sotto diverse ottiche:

a) definizione della validità espressa in termini di corrispondenza dei risultati di uno stesso esperimento condotto sia in laboratorio che in rete (replica lab – online lab) attraverso opportune strategie di misura della concordanza dei dati (Krantz, Ballard e Scher, 1997);

b) progettazione di esperimenti in rete che consentissero di verificare, attraverso il controllo di alcuni parametri, l’effetto della variabilità prodotta dall’insieme dei molteplici setting che concretamente possono realizzarsi da partecipante a partecipante (Pagani e Lombardi, 1999);

c) discussione teorica dei vantaggi rappresentati dalla scelta di Internet come ambiente di ricerca sotto forma di: i. accesso a campioni internazionali, ii. assenza del bias dello sperimentatore, iii. garanzia di campionamenti dalle dimensioni elevate, iv. possibili vantaggi in termini di costi economici e di tempo.

Questo contributo vuole affrontare il problema della organizzazione logica della struttura di un esperimento in rete. I vantaggi e i limiti della ricerca on-line sono come conseguenza ridefiniti all’interno di una concettualizzazione di ordine generale.

Solitamente in un laboratorio tradizionale il setting sperimentale è immerso in un ambiente che appare in un contesto “asettico” e fortemente controllato dalla pianificazione dello sperimentatore. Al contrario, un esperimento condotto in Internet possiede una struttura e organizzazione più complessa. Il contesto associato ad un laboratorio on-line possiede due distinte componenti. La prima è caratterizzata dalla specifica realizzazione del laboratorio on-line in termini di fattori associati alla human-computer interaction, la seconda da un contesto reale o fisico nel quale il partecipante è di fatto situato (es. ufficio, casa, scuola, ecc.). Mentre la prima componente può essere in linea di principio controllata dal setting sperimentale, l’altra è di fatto un oggetto che non può essere direttamente gestito dal ricercatore.

In termini formali un disegno sperimentale misto on-line (on-line mixed experimental design (OEX)) può essere insiemisticamente rappresentato con (1):

(1) OEX={Q1={Qc,Qw,Qb1,Qb1},Q2={Q2a,Qb2,Qb2}}; dove

Q1 : la componente logica direttamente controllata dallo sperimentatore;Qc : la componente costante in Q1 del disegno sperimentale;Qw : la componente within-subjects in Q1 del disegno sperimentale;Qb1 : la componente between-subjects in Q1 che definisce i parametri del setting on-line;Qb1 : la componente between-subjects in Q1 che definisce i parametri associati alle variabili demografiche del partecipante;

Q2 : la componente logica non direttamente controllata dallo sperimentatore;Q2a : la componente in Q2 totalmente ignorata dallo sperimentatore;

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Qb2 : la componente between-subjects in Q2 che definisce i parametri del setting on-line;Qb2 : la componente between-subjects in Q2 che definisce i parametri associati alle variabili demografiche del partecipante;

Dalla rappresentazione insiemistica è possibile rilevare:a) la componente {Qb1,Qb2} logicamente è esclusiva della sola sperimentazione on-

line, in quanto è norma nella ricerca di laboratorio tradizionale definire il setting come oggetto costante;

b) la componente generale between-subjects {Qb1,Qb1,Qb2,Qb2} può essere concettualmente interpretata come unione di parte deterministica {Qb1,Qb1} e di parte non deterministica {Qb2,Qb2}. Ciò conduce ad un paradosso secondo la teoria dei disegni sperimentali che assume la componente between-subjects come appartenente alla struttura deterministica del modello;

c) da b per implicazione si ha che la componente generale between-subjects deve essere intesa come entità spuria, o più semplicemente come variabile probabilistica multidimensionale, inoltre, deve essere interpretata come classificatore probabilistico (la classificazione dei soggetti e del setting è possibile solo a posteriori in funzione delle informazioni liberamente comunicate dai partecipanti all’esperimento).

d) da b & c per implicazione la componente spuria between-subjects può teoricamente produrre seri problemi associati all’interpretazione statistica dei risultati.

Per i punti sopra elencati è necessario dunque valutare l’uso di speciali statistiche e procedure euristiche che permettano di affrontare creativamente da un punto di vista metodologico i nuovi problemi posti in essere dalla ricerca condotta in Internet. Inoltre, noi crediamo che la futura sperimentazione on-line richiederà non solo la creazione e introduzione di nuove strategie metodologiche, ma anche e soprattutto la nascita di una adeguata epistemologia per la definizione precisa del concetto di soggetto virtuale o soggetto Internet.

Riferimenti bibliograficiKrantz, J. H. & Dalal, R. (1999). Validity of Web-based Psychological Research. In M.

Birnbaum (Ed.): Psychological Experiments on the Internet. Academic Press, New York (in stampa).

Krantz, J. H., Ballard, J., e Scher J. (1997). Comparing the results of laboratory and World-Wide Web samples on the determinants of female attractiveness. Behavior Research Methods, Instruments & Computers, 29, 264-269.

Pagani, D. & Lombardi, L. (1999). An Intercultural examination of Facial Features Communicating Surprise. In M. Birnbaum (Ed.): Psychological Experiments on the Internet. Academic Press, New York (in stampa).

Reips, U. D. (1997). Das psychologische Experimentieren im Internet. In B. Batinic (Ed.): Internet für Psychologen. Göttingen, Germany: Hogrefe.

Reips, U. D. (1998). Theorie und Techniken des Web-Experimentierens. In B. Batinic, L. Gräf, A. Werner e W. Bandilla (Eds.): Online Research. Göttingen, Germany: Hogrefe.

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Reips, U. D. (1999). The Web Experiment Method: Advantages, Disadvantages, and Solutions. In M. Birnbaum (Ed.): Psychological Experiments on the Internet. Academic Press, New York (in stampa).

UNA ANALISI DELLA SODDISFAZIONE RESIDENZIALE CONDOTTA NELLA CITTÀ DI

ORVIETO

Fabio Lucidi, Maria Pia Gagliardi, Marta Maria Rosati, Marino Bonaiuto, Mario BertiniDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneAllo scopo di misurare i diversi aspetti relativi alla relazione tra i residenti e il loro

contesto residenziale sono state recentemente proposte due diverse scale: la Scala di soddisfazione residenziale (RSS) e quella di attaccamento al vicinato (SAV) (Bonnes et al., 1997).    La prima misura si riferisce alla percezione di specifici aspetti della qualità ambientale urbana; la seconda, invece, valuta gli aspetti globali della soddisfazione che le persone esprimono rispetto al loro quartiere di residenza.    In sostanza la (RSS) si basa su un costrutto multidimensionale che valuta la percezione soggettiva dei diversi aspetti dell’ambiente residenziale; la (SAV) si propone di misurare, in senso generale, il legame affettivo delle persone con il loro ambiente residenziale. I dati di validazione di queste due scale si riferiscono alla loro applicazione in un contesto urbano ampio come quello romano (Bonnes et al., 1997). La presente ricerca si è proposta di valutare le caratteristiche di queste due scale in un contesto abitativo più ristretto come quello della città di Orvieto.

MetodoLa RSS e la SAV sono state somministrate ad un campione di 200 abitanti estratti

casualmente a gruppi di 50 per ciascuno dei quattro quartieri della città di Orvieto (Orvieto, Orvieto Scalo, Ciconia, Sferracavallo).

Analisi dei dati e risultatiIl primo passo della presente ricerca è stato quello di valutare se la RSS e la SAV,

laddove applicate al contesto di Orvieto, mantenessero la stessa struttura fattoriale rilevata nella città di Roma. La struttura fattoriale della RSS è stata analizzata attraverso una serie di analisi delle componenti principali (PCA). Le PCA sono state condotte separatamente sugli items relativi a ciascuna delle 11 aree generative del questionario, e per ciascuna PCA, il numero dei fattori estratti è stato determinato attraverso lo Scree-test.

Le PCA hanno sostanzialmente confermato i risultati rilevati sul campione romano. Anche gli items della SAV sono stati sottoposti a PCA che ha confermato la struttura unifattoriale della scala.

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A partire da queste analisi, per ciascun fattore emerso da ogni area generativa, sono stati calcolati i punteggi fattoriali dei singoli soggetti, che sono stati utilizzati come variabili dipendenti nelle successive analisi.

La ricerca si è proposta anche di valutare se i punteggi alla scala SAV riescono a discriminare i differenti livelli di attaccamento al proprio quartiere tra gli abitanti delle quattro diverse zone che compongono la città di Orvieto (Orvieto centro storico; Orvieto Scalo; Ciconia; Sferracavallo). A questo scopo i punteggi fattoriali dei 200 soggetti sulla Scala di Attaccamento al Vicinato (SAV) sono stati sottoposti a una Analisi della covarianza per gruppi indipendenti (2x4), considerando come fattori il sesso e il Quartiere di residenza (Orvieto centro storico; Orvieto Scalo; Ciconia; Sferracavallo), e come covariata il livello socioeconomico. È stato rilevato un effetto principale significativo per il fattore Quartiere di residenza (F 3, 192 = 7,86; p<0,001). I confronti post hoc indicano che i punteggi di attaccamento al vicinato sono significativamente più alti nel centro storico di Orvieto rispetto ai quartieri fuori le mura.

Allo scopo di identificare gli aspetti della soddisfazione residenziale che differenziano i vissuti degli abitanti delle quattro diverse zone della città di Orvieto, i dati sono stati sottoposti ad una analisi discriminante considerando come variabile di gruppo la zona di residenza e come variabili discriminative le scale del RSS e le variabili socio-demografiche rilevate tramite un’intervista strutturata. L’analisi discriminante, sulla base di queste variabili, ha evidenziato le 3 funzioni discriminanti capaci di distinguere i quattro gruppi di residenti nei diversi quartieri. Le tre funzioni spiegano rispettivamente 52,73%; il 35,13%, e il 12,15% della varianza del modello, e complessivamente permettono di classificare correttamente il 95,98 dei soggetti nei quattro gruppi.

La prima funzione permette di discriminare Orvieto centro dagli altri tre quartieri e, da sola spiega il 52, 73% della varianza. Le medie delle variabili che entrano nella funzione indicano che, a differenza degli abitanti dei quartieri “fuori le mura”, i residenti al centro di Orvieto sono soddisfatti della piacevolezza estetica dei loro edifici, dei collegamenti con le altre zone della città (gli item che saturano su questo fattore si riferiscono principalmente ai collegamenti con il centro) dei servizi culturali e dei luoghi d’incontro a loro disposizione e non lamentano alti livelli d’inquinamento acustico e ambientale.

ConclusioniI risultati del presente studio suggeriscono confermano la struttura fattoriale delle

due scale emersa nello studio condotto a Roma. Inoltre i punteggi alla scala di soddisfazione residenziale permettono di identificare dei profili omogenei relativi a richieste circosritte e diversificate tra i singoli quartieri, che sono alla base dei livelli generali dell’attaccamento al quartiere di residenza in un contesto abitativo di dimensioni limitate. Tali profili possono essere utili per indirizzare in modo mirato gli interventi istituzionali per il miglioramento della qualità ambientale urbana nella direzione delle esigenze espresse dai cittadini.

Riferimenti bibliograficiBonnes M., Bonaiuto M., Aiello A., Perugini M., Ercolani A.P. 1997. A transactional

perspective on residential satifaction. A study in Rome, Italy. In: Housing Survey; Deprès & Pichè (74-99).

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ADATTAMENTO DEL GROUP ENVIRONMENT QUESTIONNAIRE ALL’AMBITO SCOLASTICO:

QUALITÀ PSICOMETRICHE

Annalisa Pelosi, Marina Pinelli, Raffaele TucciUniversità degli studi di Modena, Dipartimento di Scienze Biomediche

IntroduzioneIntento della nostra ricerca è quello di sviluppare uno strumento

psicometricamente affidabile e pratico per la misurazione della coesione, intesa come processo dinamico che si riflette nella tendenza di un gruppo ad unirsi e a rimanere insieme allo scopo di raggiungere mete ed obiettivi (Carron, 1982). Ciò è stato fatto in ambito sportivo con la costruzione del Group Environment Questionnaire (G.E.Q.) da parte di Carron (1985) allo scopo di sostituire il sociogramma di Moreno (1964): viene data maggior evidenza alla natura multidimensionale della coesione attraverso una misura più articolata e oggettiva. Tale necessità si avverte anche nel campo delle relazioni scolastiche (Hallinan, 1978), in cui la coesione è dimostrato avere un ruolo importante nella modulazione degli atteggiamenti verso la scuola (Kafer, 1976) e sulle performance di pensiero divergente (Stam e Stam, 1977).

MetodoIl campione è costituito da 636 studenti di scuola media superiore (463 maschi -

73,7% - e 165 femmine -26,3% -), di età media 16.7 anni. Ad essi è stato somministrato durante il normale orario scolastico, in forma

collettiva e anonima, dagli insegnanti stessi, il questionario elaborato sul G.E.Q.: sono state mantenute tre delle quattro dimensioni previste dallo strumento. Due scale rilevano l’attrazione dello studente verso il gruppo-classe, ovvero le credenze personali e le percezioni su ciò che attrae la persona verso il gruppo: una di esse riguarda i sentimenti sul coinvolgimento personale, sul desiderio di accettazione e sulle interazioni sociali del gruppo (attrazione individuale per il gruppo focalizzata ai rapporti Sociali - AGS-), l’altra misura i sentimenti dei singoli sul proprio coinvolgimento nel compito, sulla produttività, sulle mete e sugli obiettivi (attrazione individuale per il gruppo focalizzata. sul compito - AGC -). La terza scala prende in esame l’integrazione del gruppo, cioè le idee e le percezioni che i membri possiedono sul gruppo come totalità, allo scopo di rilevare quanto il gruppo si senta unito e integrato socialmente (Integrazione del Gruppo focalizzata ai rapporti Sociali -IGS-).

Non si è ritenuto opportuno inserire la quarta scala relativa all’integrazione del gruppo focalizzata sul compito (IGC) in quanto a nostro parere non applicabile all’ambito scolastico, dato che nell’attuale ordinamento scolastico non sono previste valutazioni per la performance del gruppo. Sono stati inoltre aggiunti items inerenti a tre nuove dimensioni: la solidarietà di classe, la coesione rispetto al genere (maschio vs femmina) e la solidarietà di ruolo (studente vs insegnante). Lo strumento è risultato così composto da un totale di 25

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items, su scala Likert da 1 a 5 (da assolutamente vero a assolutamente falso). Al fine di avere un criterio di verifica indipendente, ai 32 insegnanti presenti durante la compilazione è stato richiesto di compilare una versione ridotta (12 items) del questionario, relativa agli stessi domini. Infine, è stato utilizzato uno strumento discriminante (Kellman, 1993) volto ad evidenziare le relazioni interpersonali, composto da 10 items. Il tempo di somministrazione previsto è di 20 minuti ca.

RisultatiI dati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale esplorativa (metodo delle

Componenti Principali, rotazione Oblimin diretto) e confermativa (metodo della Massima Verosimiglianza) che hanno dimostrato l’emergenza dei cinque fattori previsti, fuorché la solidarietà di ruolo, i cui items si sono disposti su un unico fattore non saturato con la scala totale del nuovo strumento. Il coefficiente di correlazione di Cronbach di ogni scala è risultato tra un minimo di .31 (coesione rispetto al genere) e un massimo di .68 (AGS); il coefficiente a del test nel suo complesso è di .77. Il metodo split-half ha fornito un coefficiente di Guttman uguale .78.

La correlazione tramite il test di Pearson con il questionario ridotto fornito agli insegnanti dimostra che i due strumenti sono indipendenti in tutte le scale e nel loro complesso. Lo strumento mostra infine una correlazione trascurabile (.142) con il test sulle relazioni interpersonali che indica una buona validità discriminante del questionario.

ConclusioniLo strumento così costruito, composto da 22 items, sembra soddisfare i criteri di

economicità, attendibilità e validità auspicabili. È perciò proponibile all’interno delle scuole superiori come test di facile utilizzo, spoglio e comprensione anche da parte di insegnanti non esperti in tecniche psicometriche, per la gestione di classi che presentino difficoltà di comportamento e di inserimento di alunni. Il test fornisce un giudizio obiettivo da parte dei ragazzi, diverso da quello che verrebbe espresso da parte di osservatori e insegnanti.

Riferimenti bibliografici Carron, A.V., Chelladurai, P. (1982). Cohesiveness as a factor in sport performance .

International Review of Sport Sociology, 3: 84-91.Carron, A.V., Widmeyer, W.N., Brawley, L.R. (1985). The development of an instrument to

assess cohesion in sport teams: the Group Environment Questionnaire. Journal of Sport Psychology, 7: 244-266.

Moreno, J.L. (1964). Principi di sociometria, di psicoterapia di gruppo e sociodramma. Milano: Etas Kompass.

Hallinan, M.T., Tuma, N.B. (1978). Classroom effects on change in children’s friendships. Sociology of Education, 51,4: 270-282.

Kafer, N.F.(1976). Friendship choice and attitudes to school. Australian Journal of Education, 20,3: 278-284.

Stam, P.J., Stam, J.C. (1977). The effect of sociometric grouping on task performance in the classroom. Education, 98,2: 246-252.

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ATTENDIBILITÀ E VALIDITÀ FATTORIALE DELLA WECHSLER ADULT INTELLIGENCE SCALE- EDIZIONE RIVEDUTA NELLA POPOLAZIONE

ANZIANA: RISULTATI PRELIMINARI

Aristide Saggino*, Caterina Laicardi**, Anna Grieco*, Michela Balsamo**Seconda Università degli studi di Napoli**Università “La Sapienza” Roma

IntroduzioneLa Scala di Intelligenza Wechsler per Adulti Edizione Riveduta (WAIS-R;

Wechsler, 1981), recentemente disponibile nel nostro paese (Orsini e Laicardi, 1997), rappresenta il test di abilità generale più utilizzato a livello internazionale. Il campione di taratura americano non supera i 74 anni di età, laddove quello italiano non va al di là dei 64 anni. Per tale ragione, può essere particolarmente utile studiare l’attendibilità e la validità di questo strumento in campioni italiani di età superiore ai 64 anni.

L’obiettivo principale di questo lavoro consiste nello studiare la struttura fattoriale della WAIS- R dai 65 anni di età in poi. Un secondo obiettivo consiste nel verificare se effettivamente, come è riportato da Orsini e Laicardi (1997), la percentuale di varianza attribuibile al fattore di intelligenza generale (fattore g) aumenta con l’avanzare dell’età. Si vuole, infine, verificare l’attendibilità della WAIS-R nei campioni esaminati.

SoggettiIn questa ricerca sono stati utilizzati due campioni. Il primo è costituito da 100

anziani normali dai 65 ai 74 anni di età (57 femmine e 43 maschi) con un’età media di 68.69 anni (DS= 2.55). L’età media dei maschi è di 68.42 anni (DS= 2.72), quella delle femmine è di 68.89 anni (DS= 2.42). La media degli anni di istruzione è di 5.09 anni (DS= 2.47). La media degli anni di studio dei maschi è di 5.74 (DS= 2.28), quella delle femmine è di 4.60 anni (DS= 2.51).

Il secondo campione è costituito da 100 anziani normali dai 75 anni di età in su (55 femmine e 45 maschi) con un’età media di 78.61 anni (DS= 4.73). L’età media del maschi è 79.09 anni (DS= 5.01), quella delle femmine è di 78.22 anni (DS= 4.49). La media degli anni di istruzione dell’intero campione è di 5.81 anni (DS= 3.70). La media degli anni di studio dei maschi è di 6.02 (DS= 3.90), quella delle femmine è di 5.64 anni (DS= 3.56).

La selezione dei soggetti è avvenuta attraverso un colloquio preliminare teso ad accertare l’assenza di deficit di natura psichiatrica o neurologica nonché l’eventuale uso di psicofarmaci.

Entrambi i campioni sono costituiti quasi completamente da pensionati e casalinghe.

MetodoA tutti i soggetti è stata somministrata la WAIS- R. A 63 soggetti del primo gruppo

e 60 del secondo sono stati risomministrati i subtest Memoria di Cifre ed Associazioni di Simboli a Numeri a distanza di 5-15 giorni allo scopo di studiare la attendibilità dello

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strumento. Ai soggetti di entrambi i campioni sono stati somministrati altri test che non verranno considerati in questa sede.

Risultati e conclusioni Le attendibilità della WAIS- R appaiono in entrambi i campioni sufficienti essendo

in quasi in tutti i casi maggiori di .70 e spesso maggiori di .80. L’analisi delle componenti principali rivela due fattori per l’età 65-74 anni (che

spiegano il 62.979% della varianza) ed uno per le età dai 75 anni in poi, che spiega il 59.253% della varianza. I due fattori del primo campione sembrano corrispondere rispettivamente ai fattori di Comprensione Verbale ed Organizzazione Percettiva solitamente riscontrati nelle analisi fattoriali della WAIS-R. L’eccezione maggiore è rappresentata dal subtest di Riordinamento di Storie Figurate che satura maggiormente sul fattore verbale. Pertanto, ci troviamo di fronte ai classici fattori di intelligenza cristallizzata ed intelligenza fluida (Horn e Cattell, 1966). In ogni caso, i subtest tendono ad avere quasi sempre saturazioni elevate su entrambi i fattori, lasciando intendere che nella fascia di età 65-74 anni la WAIS- R sia soprattutto un test di intelligenza generale. Ciò, ovviamente, appare ancora più vero per il campione dai 75 anni in poi.

Si è anche cercato di stimare il fattore g utilizzando le saturazioni del primo fattore principale non ruotato (Kaufman, 1990). Con questo metodo si ricava che il 51% della varianza degli 11 subtest è attribuibile all’intelligenza generale nel campione di 65-74 anni. Tale percentuale sale al 59% nel campione dai 75 anni in su, rappresentando pertanto il valore più elevato riscontrato in campioni italiani. Appare quindi confermata l’ipotesi riportata da Orsini e Laicardi (1997), secondo la quale la percentuale di varianza attribuibile all’intelligenza generale (fattore g) tenderebbe ad aumentare con l’avanzare dell’età, il che significa che la WAIS- R diventa sempre di più un test di fattore g a mano a mano che aumenta l’età dei soggetti.

Riferimenti bibliograficiHorn, J. e Cattell, R. B. (1966). Refinement and test of the theory of fluid and crystallised

intelligence. Journal of Educational Psychology, 57, 253-270.Kaufman, A. S. (1990). Assessing adolescent and adult intelligence. Allyn and Bacon,

Boston.Orsini, A. e Laicardi, C. (1997). WAIS- R: contributo alla taratura italiana. Organizzazioni

Speciali, Firenze.Wechsler, D. (1981). Manual for the Wechsler Adult Intelligence Scale- Revised.

Psychological Corporation, San Antonio, TX. Ed. It.: Manuale della Scala di Intelligenza Wechsler per Adulti Riveduta (adattamento italiano a cura di C. Laicardi e A. Orsini). Organizzazioni Speciali, Firenze, 1997.

LA ROME SLEEPINESS SCALE: VALUTAZIONE PSICOMETRICA DI UNA SCALA DI MISURA DELLA

SONNOLENZA DIURNA

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Cristiano Violani, Alessandra Devoto, Fabio LucidiDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzionePer misurare la sonnolenza soggettiva sono stati proposti diversi questionari. Per la

sua semplicità e rapidità di compilazione, in questi ultimi anni si è particolarmente affermata la Epworth Sleepiness Scale (ESS, 1). La ESS si compone di 8 item in cui i soggetti valutano la propria probabilità di addormentarsi in diverse situazioni di vita quotidiana, su una scala di frequenza a quattro punti (da mai=0 a molto spesso=3). Nello studio di validazione della ESS (2) viene riportata una alfa di Cronbach di 0.88 su pazienti con disturbi di eccessiva sonnolenza diurna e di 0.73 per i soggetti normali. Dal 1992 ad oggi la ESS è stata utilizzata in oltre 40 studi pubblicati, alcuni dei quali specificamente mirati alla valutazione delle caratteristiche di validità e attendibilità dello strumento. Alcuni autori hanno recentemente mosso delle critiche alla validità della ESS, sottolineando che la scala esibisce correlazioni moderate o nulle con indici di disturbo respiratorio in pazienti con sindromi apneiche (3). Questo criterio di validazione appare però troppo severo, considerando che la gravità del problema respiratorio non è necessariamente correlata al livello di severità della sonnolenza diurna (p.e. 3).

Gli studi che hanno considerato valutato la coerenza interna della scala (p.e.4), hanno rilevato alfa di Cronbach molto elevati, coerenti con l’idea che la scala misuri un unico tratto. Tuttavia gli studi che hanno valutato la dimensionalità della scala mediante analisi delle componenti principali, pur evidenziando un fattore primario capace di spiegare una ampia quota di variabilità (dal 44 al 57%), suggeriscono la presenza di un secondo fattore (p.e.2). Dall’analisi degli item marker i due fattori sembrerebbero riferirsi rispettivamente a situazioni in cui un eventuale è appropriato (p.e. “Sdraiato e rilassato nel pomeriggio, quando le circostanze lo permettono”) e a situazioni in cui l’addormentamento è inappropriato (p.e.”In auto, bloccato dal traffico da alcuni minuti”). La presenza di due fattori nella scala potrebbe essere spiegata da due possibilità alternative: 1) gli item della ESS potrebbero riferirsi a due dimensioni qualitativamente differenti della sonnolenza, relative l’una alla sleep-ability, ovvero alla capacità di un individuo di addormentarsi quando le circostanze lo permettono, e l’altra alla sleep-resistance, ovvero alla capacità di resistere all’addormentamento in circostanze inadeguate. Questo secondo fattore potrebbe non emergere chiaramente perché rappresentato unicamente da due item nella scala. 2) La formulazione della Epworth, che non esplicita nelle istruzioni se il soggetto debba stimare la probabilità di addormentarsi volontariamente o di incorrere in un colpo di sonno, potrebbe determinare una situazione ambigua nella quale alcuni item vengono interpretati in una direzione e altri nell’altra. Scopo dello studio è quello di confrontare la struttura fattoriale della ESS con quella di una scala di resistenza alla sonnolenza (RSS), che si differenzia dalla prima perché: 1) nelle istruzioni viene chiaramente esplicitato che il soggetto deve sempre stimare la probabilità di incorrere in un addormentamento involontario; 2) i dodici item della scala rappresentano in misura adeguata sia situazioni in cui l’addormentamento ha conseguenze negative che situazioni senza conseguenze.

Metodo126 pazienti, (età media = 49; da 18 a 71 anni), con vari disturbi del sonno

(Insonnia e Parasonnie, non caratterizzate da eccessiva sonnolenza diurna, N=37;

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Narcolessia, Ipersonnia e Apnea, caratterizzate invece da eccessiva sonnolenza, N= 89) hanno compilato le scale ESS e RSS presso un centro del sonno.

Analisi dei datiLa struttura fattoriale delle due scale è stata analizzata mediante differenti analisi

delle componenti principali. La consistenza interna di ognuna delle due scale è stata valutata mediante item analysis e la valutazione del coefficiente alfa di Cronbach. Inoltre, i punteggi della ESS e della RSS sono stati sottoposti a una analisi della varianza One-way considerando il fattore GRUPPO a due livelli (non sonnolenti vs. sonnolenti); per ognuna delle analisi è stata computata l’eta quadrato come indice della dimensione dell’effetto.

RisultatiLa analisi delle componenti principali sugli item della ESS ha evidenziato due

fattori con autovalore superiore a 1, che spiegano rispettivamente il 52, 9 e il 12,9% della varianza. Gli item marker dei due fattori dopo rotazione obliqua si riferiscono rispettivamente alle situazioni in cui l’addormentamento è appropriato e a quelle in cui è inappropriato. L’alfa per la ESS è pari a 0.866. La medesima analisi condotta sugli item della RSS evidenzia una struttura monofattoriale capace di spiegare il 59,6 % della varianza. L’alfa è pari a 0.941. Il coefficiente alfa che si sarebbe raggiunto aggiungendo 4 item alla ESS (stimato con la formula profetica di Spearman Brown) è pari a 0.909. Per raggiungere la coerenza interna della RSS, alla ESS occorrerebbe aggiungere 11 item simili. Le ANOVA sui punteggi delle due scale mostrano una differenza significativa tra le medie dei due gruppi nella direzione attesa sia per la ESS (F1,124=30.5; p<.0001; eta square= 0.20) che per la RSS (F1,124=38.2; p<.0001; eta square= 0.23).

DiscussioneI risultati indicano che, aumentando il numero di situazioni e specificando che la

valutazione si riferisce a un addormentamento involontario la scala assume una più chiara struttura unifattoriale. Questo determina un incremento della coerenza interna della RSS rispetto alla ESS, che non può essere spiegato solo considerando l’aumento del numero degli item.

Riferimenti bibliograficiChevrin R.D., Aldrich M.S. Neurology, 1999, 52:125-131.Johns M.W. Sleep, 1991, 14 (16):540-545.Johns M.W. Sleep, 1992, 15 (4):376-381.Kingshott R., Douglas N., Deary I. Journal of Sleep Research, 1998, 7:293-294.

POSTER

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ATTENZIONE

LA SUZIONE NON NUTRITIVA E L’ATTIVITÀ MOTORIA: RISPOSTE COMPORTAMENTALI

NEONATALI DI FRONTE A STIMOLI ACUSTICI

Giuliana Giovanelli, Ida Callegati, Alessandra Sansavini, Giovanni TuozziDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

Introduzione Nello studio delle capacità neonatali di discriminazione e preferenza degli stimoli

acustici, una risposta comportamentale frequentemente utilizzata è la suzione non nutritiva (SNN), perché è costituita da uno schema ritmico individuale sufficientemente stabile e modificabile in funzione degli stimoli uditi (DeCasper e Sigafoos, 1983). In assenza di altre misure comportamentali, un indice di discriminazione e preferenza è risultato essere anche l’attività motoria (AM) che è organizzata in schemi già dal quinto mese di gravidanza ed è la prima a svilupparsi (Hepper et al., 1993). In ricerche precedenti abbiamo impiegato la SNN e l’AM separatamente di fronte al battito cardiaco materno ed estraneo presentato in due versioni, una strutturata e una ritmica. Si è mostrato che la SNN è un indice di discriminazione tra i due stimoli in entrambe le versioni e di preferenza dello stimolo materno strutturato (Giovanelli et al., 1999). L’AM, d’altra parte, costituisce un indice di discriminazione tra i due stimoli strutturati e di preferenza di quello materno (Giovanelli et al., 1998). Non esistono tuttavia studi che abbiano analizzato l’AM quando è presente la SNN. Questa ricerca intende quindi verificare se l’AM, in presenza della SNN, costituisce un indice di discriminazione tra il battito cardiaco materno ed estraneo.

MetodologiaSoggetti

Sei neonati a termine sono stati esaminati durante il sonno attivo nel terzo giorno di vita. Stimoli

Gli stimoli erano costituiti dal battito cardiaco della madre (BCM) e di un’estranea (BCE), presentati in due versioni: la prima strutturata (S) (battito cardiaco con componenti ritmiche e timbriche) e la seconda ritmica (R) (battito cardiaco trasformato in un tono puro che ne conservava il ritmo). Procedura

Sia lo stimolo materno che quello estraneo erano preceduti da un periodo di baseline di silenzio di 60 s, ed erano inviati in cuffia in tempo reale in due versioni successive, la prima strutturata e la seconda ritmica. Ciascuna versione durava 180 s. e la durata totale dell’esperimento era di 14 minuti. È stata videoregistrata l’AM e contemporaneamente rilevata la SNN.

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Codifica dell’attività motoria Per codificare l’AM abbiamo costruito una griglia che comprende le seguenti

categorie di movimenti: movimenti della testa, degli arti superiori, delle mani, degli arti inferiori, dei piedi, del viso, del tronco e quelli generalizzati del corpo. Le categorie individuate sono mutualmente esclusive. Per la codifica della SNN e i relativi risultati si veda, Giovanelli et al., 1999.

RisultatiPer l’analisi dell’AM sono stati analizzati per ogni minuto: il numero complessivo

di movimenti di fronte a ciascuno stimolo, e il numero di movimenti nelle categorie relative agli arti superiori e mani, agli arti inferiori e piedi e al viso. Non si sono rilevate differenze significative tra la baseline precedente lo stimolo materno e quella precedente lo stimolo estraneo in nessuna categoria di movimenti. Per ciascuna categoria di movimenti sono state inoltre effettuate: l’analisi della varianza a tre fattori within (fonte dello stimolo: materno/estraneo, tipo di stimolo: strutturato/ritmico e andamento temporale: tre periodi di 60 s.) e l’analisi della varianza a due fattori within (fonte dello stimolo: materno/estraneo e andamento temporale: baseline 60 s/ stimolo strutturato primi 60 s). È risultato significativo il fattore andamento temporale nelle seguenti categorie:

a) movimenti totali (ANOVA a due fattori, F= 9,41; gl= 1,5; p= .02): di fronte al battito strutturato, sia materno che estraneo, i movimenti totali aumentano significativamente dalla baseline al primo minuto del test;

b) movimenti degli arti inferiori e dei piedi (ANOVA a due fattori, F= 9,33; gl= 1,5; p= .02): di fronte al battito strutturato, sia materno che estraneo, i movimenti degli arti inferiori e dei piedi aumentano significativamente dalla baseline al primo minuto del test;

c) movimenti del viso (ANOVA a tre fattori, F= 3,93; gl = 2, 10; p= .05): i movimenti del viso hanno lo stesso andamento temporale di iniziale reazione alla novità e successiva abituazione di fronte ai due stimoli.

DiscussioneI dati mostrano che l’AM in presenza della SNN costituisce un indice di reattività

al battito cardiaco sia materno che estraneo, in quanto i movimenti aumentano significativamente dalla baseline al primo minuto del test di fronte a entrambi gli stimoli, ma non un indice di discriminazione tra i due stimoli né tra la versione strutturata e quella ritmica, come invece è sia la SNN sia l’AM in assenza della SNN. Si può ipotizzare che, quando sono presenti contemporaneamente la SNN e l’AM, la SNN, il cui ritmo è modificabile in funzione degli stimoli ed è probabilmente controllato in parte da meccanismi corticali, assuma un ruolo organizzatore primario rispetto all’AM, più globale e controllata da meccanismi sottocorticali, e che quindi l’AM ne sia influenzata.

Riferimenti bibliograficiDeCasper, A.J. & Sigafoos, A.D. (1983). The intrauterine heartbeat: A potent reinforcer for

newborns. Infant Behavior and Development, 6, 19-25.Giovanelli, G., Callegati, I., Sansavini, A. e Tuozzi, G. (1998). La risposta motoria nel

neonato di fronte al battito cardiaco materno ed estraneo. XII Congresso Nazionale di Psicologia dello Sviluppo. Bressanone 5-7 dicembre, pp. 201-204.

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Giovanelli, G., Callegati, I., Sansavini, A. e Tuozzi, G. (1999). Risposte comportamentali e fisiologiche neonatali di fronte al battito cardiaco della madre e di un’estranea. Giornale Italiano di Psicologia, 2, 339-357.

Hepper, P. G., Scott, D. e Shahidullah, S. (1993). Newborn and fetal response to maternal voice. Journal of Reproductive and Infant Psychology, 11, 147-173.

COSTI E BENEFICI NELL’ELABORAZIONE ATTENTIVA DI OGGETTI

Mapelli Daniela, Paolo Cherubini Università di Padova

IntroduzioneLe attuali teorie relative all’attenzione spaziale possono essere distinte in due

grandi famiglie (Lauwereyns, 1998): 1. le teorie “space-based” sostengono che l’attenzione visiva viene diretta verso

specifiche posizioni nello spazio percettivo;2. le teorie “object-based" suggeriscono che l’attenzione viene diretta verso oggetti

presenti nel campo percettivo, e solo indirettamente si riferisce allo “spazio che gli oggetti occupano”.La nostra ricerca si inserisce nella seconda classe di famiglie teoriche. Un risultato

critico a sostegno dell’approccio “object-based” è che gli individui mostrano un costo nell’accuratezza e nel tempo di reazione quando devono confrontare due caratteristiche che appartengono a due differenti oggetti rispetto a quando le stesse caratteristiche appartengono ad un singolo oggetto. (Baylis e Driver, 1993; Duncan, 1984; Kramer e Watson, 1995; Vecera e Farah, 1994; Behrmann, Zemel, Mozer, 1998). Se è ormai accertato che la presenza di due oggetti possa essere considerata un costo, non è invece chiaro se la presenza di un singolo oggetto possa essere considerata un minor costo oppure un beneficio: chiarire questo punto è l’obiettivo della nostra ricerca.

Se la presenza di un oggetto costituisse un beneficio, allora il confronto tra due caratteristiche presentate al di fuori di qualsiasi oggetto dovrebbe richiedere più tempo del confronto delle stesse caratteristiche presentate nello spazio occupato da un oggetto.

Viceversa, se la presenza di un oggetto potesse essere intesa come minor costo, il confronto tra due caratteristiche presentate al di fuori di qualsiasi oggetto dovrebbe richiedere meno tempo rispetto al confronto delle stesse caratteristiche presentate sull’oggetto.

Come terza alternativa, un oggetto potrebbe rivelarsi un beneficio quando il compito è eseguibile mantenendo l’attenzione distribuita sull’intero oggetto, ed un minor costo quando il compito richiede la focalizzazione attentiva sui singoli target.

MetodoIn tutti gli esperimenti eseguiti si utilizza lo stesso metodo: ai soggetti    vengono

presentate alcune configurazioni sullo schermo di un computer; nella configurazione

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compaiono due caratteristiche target. Compito del soggetto è confrontare le due caratteristiche e stabilire se esse sono uguali o diverse. Viene registrato il tempo di reazione per le risposte corrette. Le tre configurazioni base utilizzate sono:

1. i target compaiono sui due lati più corti di un rettangolo (condizione “1 oggetto”)2. i target compaiono su due lati opposti di due quadrati (condizione “2 oggetti”)3. i target compaiono in assenza di qualsiasi altra figura (condizione “target isolati”)

Nell’esperimento 1, i target sono due linee composte da tre o quattro tratteggi. Il compito richiede focalizzazione attentiva sui singoli target. I risultati, sottoposti ad ANOVA, confermano che la condizione “1 oggetto” è più veloce della condizione 2 oggetti; la condizione “target isolati” si rivela la più veloce in assoluto. Questo risultato sembra supportare l’ipotesi del “costo minore”.

Nell’esperimento 2 cerchiamo una replica dell’esperimento 1 che elimini il possibile confounding legato alla presenza di un processo di conteggio nel confronto tra i due target. I target presentati sono segmenti di colore uguale o diverso. I risultati mostrano lo stesso andamento osservato nell’esperimento 1.

Nell’esperimento 3 i target sono costituiti da protuberanze di forma emirettangolare o emicircolare. Il loro confronto nella condizione “1 oggetto” può essere portato a termine mantenendo l’attenzione distribuita sull’oggetto (con target uguali, l’oggetto è simmetrico; con target diversi, è asimmetrico). I risultati, sottoposti ad ANOVA, evidenziano come, in questo caso, la condizione “1 oggetto” sia la più veloce in assoluto, mentre la condizione “target isolati” e “2 oggetti” non mostrano differenze statisticamente significative.

ConclusioniLa focalizzazione automatica dell’attenzione spaziale sugli oggetti si rivela un

beneficio quando il compito può essere portato a termine processando le caratteristiche figurali globali dell’oggetto stesso (esperimento 3). Quando invece l’elaborazione delle caratteristiche globali non consente di eseguire il compito, la presenza di un oggetto si rivela un potenziale costo (pur sempre inferiore al costo legato alla presenza di due oggetti). Tale costo è probabilmente connesso alla necessità di rifocalizzare l’attenzione, già catturata dall’oggetto, sulle sue componenti; o, in altri termini, dalla necessità di “estrarre” percettivamente le componenti dalla configurazione globale dell’oggetto.

Riferimenti bibliograficiBaylis, G.C. & Driver, J. (1993). Visual attention and objects: evidence for hierarchical

coding of location. Journal of Experimental Psychology: Human perception and performance, 19, 451-470.

Behrmann, M., Zemel, R.S. & Mozer, M.C. (1998). Object-based attention and occlusion: evidence from normal participants and a computational model. Journal of experimental psychology: human perception and performance, 24, 1-27.

Duncan, J. (1984). Selected attention and the organization of visual information. Journal of experimental psychology: general, 113, 501-517.

Kramer, A.F. & Watson, S.E. (1995). Object-based visual selection and the principle of uniform connectedness. In A.F. Kramer, M.G.H. Coles & G.D. Logan (eds.), Converging operations in the study of visual selected attention. Washington, D.C.: A.P.A. Press.

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Lauwereyns, J. (1998). Exogenous / endogenous control of space-based / object-based attention: four types of visual selection?. European journal of cognitive psychology, 10, 41-74.

Vecera, S.P. & Farah, M.J. (1994). Does visual attention select object or locations? Journal of experimental psychology: general, 123, 146-160.

SUPERIORITÀ DELLA CODIFICA SPAZIALE ORIZZONTALE SU QUELLA VERTICALE

Sandro Rubichi, Roberto Nicoletti°Istituto di Psicologia, Università di Urbino°Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

Nel compito di compatibilità spaziale l’informazione rilevante è la posizione dello stimolo (destra o sinistra), e la risposta consiste nella pressione di uno fra due pulsanti collocati a destra e a sinistra. Alla comparsa dello stimolo (ad es., a destra), è richiesta una risposta compatibile (pulsante di destra) o incompatibile (pulsante di sinistra). La risposta compatibile genera una prestazione più veloce ed accurata. L’effetto di compatibilità spaziale si verifica anche quando stimoli e risposte sono organizzati verticalmente (Nicoletti e Umiltà, 1984). È stato dimostrato che quando la codifica spaziale è effettuabile contemporaneamente per la dimensione orizzontale e per quella verticale, l’effetto di compatibilità spaziale si verifica solo per la dimensione orizzontale (Nicoletti e Umiltà, 1984; 1985). Di recente, Hommel (1996) ha sostenuto che l’effetto di superiorità della codifica orizzontale è un artefatto dovuto all’utilizzo di effettori codificabili in base alla dimensione orizzontale (mano e piede controlaterale). Utilizzando un singolo effettore, Hommel (1996) ha trovato l’effetto di compatibilità spaziale S-R in entrambe le dimensioni. Tuttavia questi risultati non sono definitivi in quanto il numero di effettori è una variabile importante nella modulazione degli effetti di compatibilità spaziale (Stins e Michaels, 1997).

Allo scopo di valutare la superiorità della codifica orizzontale alla luce delle critiche di Hommel (1996), sono stati condotti tre esperimenti in cui gli effettori erano inequivocabilmente codificabili solo per una dimensione spaziale.

MetodoSoggetti

I soggetti che hanno preso parte agli esperimenti erano rispettivamente 16 nel primo (8 per l’esperimento 1A e 8 per l’esperimento 1B), 8 nel secondo e 16 nel terzo.Materiale e procedura

Il display dei tre esperimenti consisteva in uno stimolo visivo che appariva casualmente in una di quattro posizioni collocate in prossimità degli angoli dello schermo del computer. Le risposte erano fornite tramite due pulsanti per gli effettori superiori e due pedali per gli effettori inferiori. Nell’esperimento 1A i soggetti rispondevano con effettori orizzontali (mani o piedi) e le istruzioni descrivevano l’accoppiamento S-R in termini

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orizzontali, mentre nell’esperimento 1B gli effettori erano verticali (mano e piede ipsilaterale) e l’accoppiamento S-R era in termini verticali. Nell’esperimento 2 gli effettori erano orizzontali e l’accoppiamento S-R descriveva gli stimoli in termini verticali (ad es.: se lo stimolo è in alto premi il pulsante di destra). Nell’esperimento 3 gli effettori erano verticali e le istruzioni descrivevano gli stimoli in termini orizzontali (ad es.: se lo stimolo è a destra premi il pulsante in alto). Di conseguenza ogni accoppiamento S-R poteva essere definito sulla base di entrambi gli effetti di compatibilità per tutti gli esperimenti. La coppia di effettori utilizzati (mani o piedi negli esperimenti 1A e 2; arti di destra o di sinistra negli esperimenti 1B e 3) e l’accoppiamento compatibile o incompatibile sono stati bilanciati entro i soggetti.

Risultati e conclusioniI tempi di reazione corretti sono stati sottoposti a quattro analisi della varianza con

due fattori entro i soggetti: compatibilità orizzontale (compatibili vs. incompatibili) e compatibilità verticale (compatibili vs. incompatibili).

Nell’esperimento 1A è risultato significativo il fattore compatibilità orizzontale (p<.0001, 49 msec.) e nell’esperimento 1B il fattore compatibilità verticale (p<.005, 55 msec.). Nell’esperimento 2 è risultato significativo il fattore compatibilità orizzontale (p<.001, 36 msec.), mentre nell’esperimento 3 sono risultati significativi sia il fattore compatibilità orizzontale (p<.05, 19 msec.), sia il fattore compatibilità verticale (p<.001, 18 msec.).

I risultati dell’esperimento 1 hanno dimostrato che quando gli effettori e l’accoppiamento S-R si basano su una dimensione, l’effetto di compatibilità spaziale si manifesta solo in quella dimensione (orizzontale nell’esperimento 1A e verticale nell’esperimento 1B). Il confronto tra l’esperimento 2 e l’esperimento 3, in cui l’accoppiamento S-R si basa su entrambe le dimensioni spaziali, permette di affermare che ci sia un effetto di superiorità della codifica orizzontale. Infatti, con effettori orizzontali l’effetto di compatibilità spaziale si manifesta solo per la dimensione orizzontale (esperimento 2), mentre con effettori verticali è presente in entrambe le dimensioni (esperimento 3). È possibile che la superiorità della codifica orizzontale abbia luogo in quanto sull’asse orizzontale la codifica è basata su coordinate assolute (asse corporeo) e su coordinate relative (posizione relativa degli stimoli), mentre sull’asse verticale solo su coordinate relative.

Riferimenti bibliograficiHommel, B. (1996). No prevalence of right-left over top-bottom spatial codes. Perception

& Psychophysics, 58, 102-110.Nicoletti, R., Umiltà, C. (1984). Right-left prevalence in spatial compatibility. Perception &

Psychophysics, 35, 333-343.Nicoletti, R., Umiltà, C. (1985). Responding with hand and foot: The right-left prevalence

in spatial compatibility is still present. Perception & Psychophysics, 38, 211-216.Stins, J.F., Michaels, C.F. (1997). Stimulus-target compatibility for reaching movements.

Journal of Experimental Psychology: Human Perception & Performance, 23, 756-767.

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

INTOLLERANZA DELL’INCONGRUITÀ ED EMOZIONE ESTETICA NEL RAPPORTO CON IMMAGINI

PITTORICHE

Valeria Biasi, Paolo BonaiutoDipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneRaffigurazioni di situazioni conflittuali o armoniche sono state ottenute in vari

modi nella storia della pittura. Il denominatore comune di quelle conflittuali è dato dalla contraddizione vistosa di aspettative. Di solito ciò viene realizzato mantenendo riconoscibili personaggi, oggetti, ambienti, ma introducendo alcune varianti rispetto a schemi mentali corrispondenti; così da consentire sia l’esperienza del riconoscimento, sia (per contrasto) quella dell’anomalia. Nell’arte moderna il ricorso a simili incongruità è divenuto frequente, dopo i portati della pittura metafisica, del surrealismo, del dadaismo, ecc., fino a quelli più recenti della pop art e poi del graffitismo. La contraddizione delle aspettative aveva avuto luogo classicamente con una procedura apparentemente diversa, ma affine: raffigurando molto realisticamente situazioni che sono conflittuali in quanto basate, in generale, su violazioni di norme ed esigenze umane fondamentali. Ne sono esempi le frequenti raffigurazioni dell’uccisione di persone o animali, e di torture, violenze, sacrifici, dannazioni, incendi, guerre, duelli, ecc. (Bonaiuto, 1983). In indagini precedenti il nostro gruppo di ricerca aveva già potuto stabilire significative correlazioni fra il tipo e l’intensità di emozioni estetiche favorite da raffigurazioni intensamente conflittuali o armoniche, e determinati indicatori personali di atteggiamenti difensivi o favorevoli verso il conflitto; quali l’indice individuale di “intolleranza dell’incongruità”, ottenuto mediante il cosiddetto Building Inclination Test (BIT). Si tratta d’una procedura veloce che consente, fra l’altro, di selezionare persone con livelli molto elevati o molto bassi di intolleranza delle anomalie e dei conflitti. A tali livelli (compresi fra punti 14 e 0) corrispondono costellazioni contrapposte dei tratti di personalità e dell’assetto motivazionale (in funzione del carico attuale e/o pregresso di esperienze conflittuali; Bonaiuto, Giannini, Bonaiuto, 1987; Bonaiuto, Giannini, Biasi, Bartoli, 1996; Giannini, Bonaiuto, 1997). Riferiamo qui su nuovi esperimenti specifici.

MetodoDopo prove preliminari, sono state scelte 16 riproduzioni a colori di dipinti classici

o moderni, fra cui 8 intensamente conflittuali (da Bosch e Goya a Picasso, Bacon, Botero) e 8 palesemente armonici (da Raffaello, Caravaggio e ancora Goya, a Hayez e Renoir). Con il BIT sono stati selezionati 48 giovani adulti (studenti in età dai 19 ai 39 a., equamente distribuiti per generi), di cui 24 molto intolleranti dell’incongruità    (indice oltre punti 11.30) e 24 molto tolleranti dell’incongruità (indice inferiore a 8.30). Ciascuno è stato esaminato individualmente, anche con inventari di personalità. Per le valutazioni estetiche sono state impiegate scale bipolari a 7 passi, fra cui la scala “Bella / Brutta”, esponendo

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ciascuna tavola su apposito leggio. Le cautele hanno comportato la condizione di “doppio cieco”, intervalli di riposo, rotazioni sistematiche delle immagini, dei vari item e dell’ordine delle prove.

Risultati, discussione, prospettiveL’esperimento ha sviluppato su scala molto più ampia le informazioni ottenute con

le precedenti indagini. In generale, le immagini armoniche hanno suscitato il vissuto del bello in misura significativamente più accentuata (t 47 = 4.37; p < 0.001). Le differenze fra i due gruppi sperimentali sono tuttavia cospicue e decorrono nel modo previsto, risultando significative a livello di entrambi i gruppi di immagini. I soggetti molto intolleranti dell’incongruità hanno largamente svalutato le immagini conflittuali, vissute in media come “brutte”; mentre i tolleranti sono risultati discretamente accettanti al riguardo (t 46 = 2.15; p < 0.02). Gli intolleranti hanno esaltato le immagini armoniche; che i tolleranti hanno apprezzato moderatamente (t 46 = 2.43; p < 0.01). Ulteriori analisi confermano la relativa equivalenza fra immagini classiche o moderne e la contrapposizione, piuttosto, delle conflittuali rispetto alle armoniche. Fra le prospettive di sviluppo sembrano meritevoli le repliche dell’indagine con dipinti originali; anche se l’impiego di riproduzioni per valutazioni estetiche concernenti forme e colori si è dimostrato adeguato alla luce di lavori recenti di Locher e altri (1999). Inoltre sarà interessante studiare i risultati ottenibili con soggetti e con tavole di tipo intermedio; nonché prevedere e controllare il contributo di singoli fattori fra quelli in grado di determinare l’emozione estetica, accentuando o attenuando le differenze fra i gruppi.

Riferimenti bibliograficiBonaiuto, P. (1983). Processi cognitivi e significati nelle arti visive. Relazione al Convegno

“Linguaggi Visivi, Storia dell’Arte, Psicologia della percezione”, Roma. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, G. Bartoli, A. M. Giannini (a cura di), Contributi di psicologia dell’arte e dell’esperienza estetica. Vol. 1 (pp. 39-84). Roma: Ed. Psicologia, 1994.

Bonaiuto, P., Giannini, A. M., Biasi, V., Bartoli, G. (1996). Stili cognitivi, intolleranza dell’incongruità e atteggiamenti verso le trasgressioni di regole sportive. In G. V. Caprara, G. P. Lombardo (a cura di), Temi di Psicologia e Sport (pp. 57-93). Roma: C. O. N. I. & Univ. degli Studi di Roma “La Sapienza”.

Bonaiuto, P., Giannini, A. M., Bonaiuto, M. (1987). Piloting mental schemata on building images. Relazione presentata alla 3rd Italian-Polish Conference of Psychology, Cassino. Pubbl. anche in A. Fusco, F. Battisti, R. Tomassoni (Eds.), Recent experiences in general and social psychology in Italy and Poland (pp. 85-129). Milano: Angeli, 1990.

Giannini, A. M., Bonaiuto, P. (1997). Incongruity intolerance and the aesthetic evaluation of devitalized or realistic human figure representations. In L. Dorfman, C. Martindale, D. Leontiev, G. Cupchik, V. Petrov, P. Machotka (Eds.), Emotion, Creativity and Art. Vol. 2 (pp. 21-44). Perm: Perm State Institute of Arts & Culture.

Locher, P., Smith, L., Smith, J. (1999). Original paintings versus slide and computer reproductions: A comparison of viewer responses. Empirical Studies of the Arts, 17 (2, Special Issue).

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GIOVANI E RAPPRESENTAZIONE DELLA VIOLENZA

Maria Vittoria CarbonaraDipartimento di Scienze dell’EducazioneUniversità degli studi di Salerno

IntroduzioneQuotidiani fatti di cronaca ampiamente diffusi dai mass media, osservazioni

personali sulle interazioni familiari e sociali in genere, confidenze raccolte presso il servizio di aiuto psicologico della Università, mi hanno spinta a intraprendere questo lavoro di ricerca che è ancora in corso e di cui qui presento i primi risultati.

Il moltiplicarsi negli ultimi anni di studi e ricerche (Olweus, 1993; Caffo, 1994; Montecchi, 1994; Attili, 1996; Caprara, 1996; Di Blasio, 1996; Fonzi, 1997; Aleni-Sestito, 1997; Bacchini, Bolzan e Valerio, 1997; Mazzoni, 1999) su argomenti apparentemente molto diversi, ma sostanzialmente e per alcuni versi assimilabili fra loro, come l’abuso sessuale, il maltrattamento dei minori, il bullismo, la camorra, ecc., sta a testimoniare la grande attenzione della psicologia dello sviluppo al fenomeno della prevaricazione nelle sue diverse forme e alle diverse età della vita. Tali studi stanno ampliando le nostre conoscenze sulle dinamiche psicologiche che sottostanno al comportamento violento e sugli effetti che esso produce in coloro cui capita di esserne “vittima”.

A questo punto sorge una domanda: quali rappresentazioni si producono nella mente di chi, pur non essendo necessariamente coinvolto in prima persona in episodi specifici di violenza, tuttavia cresce e vive in un contesto in cui tali episodi sono all’ordine del giorno?

MetodoIl presente studio, che fa parte di un progetto di ricerca più ampio, costituisce un

tentativo di fornire una risposta a tale quesito. Esso intende cogliere alcuni aspetti della rappresentazione sociale (Moscovici, 1989) della violenza nelle persone giovani.

I soggetti sono studenti del Corso di laurea in Scienze dell’educazione dell’Università di Salerno, frequentanti un primo e un secondo corso di lezioni di Psicologia dello sviluppo. I risultati che qui vengono presentati si riferiscono a 300 studentesse di ceto sociale medio e di età compresa fra i 20 e i 25 anni. I dati sono stati analizzati suddividendo il campione in due fasce di età (20-22, 23-25) al fine di porle a confronto.

Sono state condotte delle interviste collettive, impiegando una tecnica proiettiva originale che richiedeva l’esecuzione di un disegno su tema e la risposta ad alcune domande di un breve questionario. Tanto nella consegna del tema del disegno, quanto nelle domande del questionario, non veniva fatto alcun riferimento esplicito alla violenza.

RisultatiSui dati è stata condotta un’analisi qualitativa e quantitativa. Erano state

preventivamente selezionate delle categorie di osservazione tanto del contenuto dei disegni

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quanto delle risposte al questionario. Di ciascuna categoria se ne è calcolata la frequenza nelle due fasce di età e successivamente alle frequenze è stato applicato il test del c2 per valutarne la significatività delle differenze.I risultati mostrano una precisa tendenza verso una differenziazione nel contenuto delle rappresentazioni col crescere dell’età. Tale differenziazione si nota non solo nei personaggi coinvolti e nel tipo di prevaricazione immaginata, ma anche nella descrizione del contesto in cui avviene l’episodio di violenza rappresentato.

ConclusioniI risultati ottenuti incoraggiano verso un proseguimento della ricerca che coinvolga

anche altre età. Sarebbe interessante poter ottenere una mappa delle diverse rappresentazioni della violenza nel corso della vita, articolata per età e per sesso.

Tale mappa potrebbe fornire indicazioni utili per eventuali progetti volti alla individuazione di strategie finalizzate alla prevenzione della violenza e da attuare in diversi contesti educativi, in particolar modo nella scuola.

Riferimenti bibliograficiAleni Sestito, L. (1997). La camorra e i bambini. Un’indagine nel contesto scolastico

napoletano. Milano: Edizioni Unicopli.Attili, G. (1996). Il nemico ha la coda. Psicologia Contemporanea, 134, 4-10.Bacchini, D., Bolzan, M., Valerio, P. (1997, settembre). Il fenomeno del bullyng nella città

di Napoli. Lavoro presentato al Convegno A.I.P., X Congresso Nazionale della Divisione di Psicologia dello Sviluppo, Capri.

Caffo, E. (a cura di), (1994). L’ascolto del bambino. Nuove prospettive di intervento sull’infanzia in difficoltà.. Milano: Guerini e associati.

Caprara, G.V. (1996). Addio alunni crudeli. Psicologia Contemporanea, 138, 44-48.Di Blasio, P. (1996). Bambini violati: la paura, la vergogna, il silenzio. Psicologia

Contemporanea, 137, 28-37.Fonzi, A. (a cura di), (1997). Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal

Piemonte alla Sicilia. Firenze: Giunti.Mazzoni, G. (1999). Abusi sessuali: i bambini raccontano. Psicologia Contemporanea, 151,

4-11.Montecchi, F. (a cura di), (1994). Gli abusi all’infanzia. Dalla ricerca all’intervento clinico.

Roma: La Nuova Italia Scientifica.Moscovici, S. (1989). Des représentations collectives aux representations sociales. In: D.

Jodelet (ed.), Les representations sociales. Paris: PUF.Olweus, D. (1993). Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono. Giunti,

Firenze, 1996.

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CAPIRE LE EMOZIONI DALLE ESPRESSIONI DEL VISO: BAMBINI AUTISTICI E BAMBINI SENZA

DISTURBI EVOLUTIVI

Fulvia CastelliUniversity College London, Institute of Cognitive Neuroscience

IntroduzioneLe emozioni si possono facilmente leggere dalle espressioni facciali.    Si

distinguono due categorie di emozioni: “semplici” e “cognitive”. Le prime riguardano le emozioni causate dalle situazioni contingenti, le seconde dalle credenze. Questa distinzione è di particolare interesse se applicata allo studio delle emozioni negli individui con Autismo, in quanto è stato ampiamente dimostrato che questi individui presentano una difficoltà cognitiva nel comprendere che le persone possano avere delle false credenze, o possano cambiarle, o possano avere delle credenze che vengono contraddette dalla realtà (Frith, 1989).

Precedenti indagini hanno dimostrato che i bambini autistici hanno difficoltà nel distinguere la sorpresa rispetto alla gioia e alla tristezza (Baron-Cohen et al., 1993), mentre gli adulti con Autismo e Sindrome di Asperger hanno difficoltà nel distinguere espressioni emotive più complesse rispetto alle espressione semplici (Baron-Cohen et al., 1997).

Il presente studio indaga l’abilità dei bambini affetti da Autismo, rispetto a bambini senza disturbi evolutivi, nel distinguere e denominare sei emozioni fondamentali - gioia, tristezza, rabbia, disgusto, paura e sorpresa. Lo studio consiste in tre prove basate unicamente su fotografie del viso di persone adulte che esprimono emozioni semplici (Ekman&Friesen, 1976). Il primo esperimento analizza la capacità discriminatoria relativa alle differenze morfologiche fra le espressione delle sei emozioni. Il secondo e terzo esperimento indagano la capacità semantica relativa alle espressioni emotive.

In accordo con il risultato di Baron-Cohen (1993) si è predetto che i bambini autistici avessero maggiori difficoltà’ rispetto al gruppo di controllo, nel distinguere e denominare l’espressione della sorpresa, ma non le altre emozioni.

MetodoIl gruppo di soggetti con autismo comprende 20 bambini che frequentano una

scuola speciale. L’età cronologica media è di 12 anni (9.10-16.6 anni), e l’età verbale media (WISC IQ-test) è di 9.5 anni (6.7-13.2 anni). Il gruppo di controllo consiste in 20 bambini che frequentano una scuola elementare. L’età cronologica media è di 9.5 anni (6.8-13 anni), e l’età verbale è in linea con il loro sviluppo (BPVS-test di conoscenza del vocabolario inglese punteggio = 106.6 dev.st. = 8.3).Test 1 e 3 - Distinguere e denominare emozioni con diversi livelli di intensità

Si sono impiegate immagini fotografiche derivate dalla manipolazione computerizzata dei tratti del viso caratteristici delle emozioni-base della serie di Ekman&Friesen (1976).    Ogni espressione appartiene ad un continuum di tre livelli di intensità (90%, 70% e 50%) derivato dalla combinazione di due distinte emozioni (per esempio: da gioia a rabbia). Le fotografie sono presentate sotto forma di schede plastificate.

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Le schede-stimolo rappresentano il viso di un uomo, mentre le schede-obiettivo il viso di donne. La prova consiste in due blocchi uguali con 60 schede.

Il compito richiesto nel test di distinzione morfologica (1) consiste nel collocare una per volta le fotografie in sei scatole su cui è incollata l’emozione-obiettivo (matching task). Prima che la prova inizi, le schede-obiettivo sono mostrate al bambino e viene chiesto di dire che tipo di emozione sia espressa, e di fornire un esempio. Alla fine della prova le schede contenute in ogni vengono contate.

Il test di denominazione (3) consiste nel presentare lo stesso set di fotografie – sei emozioni- ma con soli due livelli di intensità (90% e 70%). Al bambino si chiede di dire che tipo di emozione è espressa dal viso del modello.    Le risposte vengono scritte e codificate come corrette e incorrette tenendo conto delle risposte verbali individuali fornite durante l’introduzione delle espressioni-obiettivo del test 1.Test 2 - Denominare emozioni espresse da diversi individui:

Si sono impiegate immagini fotografiche di sette espressioni di cui sei emotive e una neutra, derivate dalla serie Ekman&Friesen (1976).    Le fotografie rappresentano le espressioni naturali di dieci modelli, uomini e donne, per un totale di 70 schede. Il procedimento è identico al test di denominazione descritto sopra.

Risultati e conclusioniI risultati indicano che sia i bambini con autismo sia i bambini senza problemi

evolutivi non dimostrano particolari difficoltà’ nel distinguere e denominare l’espressione facciale della sorpresa. L’unico significativa differenza tra i due gruppi riguarda la capacità di denominare le emozioni, con un punteggio per tristezza e disgusto significativamente inferiori nei bambini con Autismo.    Le espressioni di disgusto sono confuse dai bambini autistici anche nel compito di distinzione morfologica.

Rispetto all’unico precedente lavoro (Baron-Cohen, 1993) che ha osservato una difficoltà’ nel distinguere la sorpresa dalla gioia e tristezza, il presente studio ha utilizzato materiale fotografico molto particolareggiato, confrontando un’ampia gamma di emozioni. La scelta tra più espressioni emotive può aver favorito la distinzione tra l’una e l’altra. Inoltre, gli esempi spontanei forniti dai bambini di entrambi i gruppi durante l’introduzione del materiale fotografico riguardanti la sorpresa indicano che l’associazione più frequente è con la festa di compleanno, o con i regali di natale. Sembra dunque che, per un bambino, la sorpresa riguardi una situazione contingente, e non la violazione di una credenza.

Riferimenti bibliograficiFrith, U. (1989) Autism: explaining the enigma. Oxford: Basil Blackwell.Baron-Cohen S., Spitz A., Cross P. (1993) Do children with Autism recognise surprise? A

research note. Cognition and Emotion, 7 (6): 507-516.Baron-Cohen S., Wheelewright S., Jolliffe T. (1997) Is there a “Language of the eyes?”

Evidence from normal adults with Autism and Asperger Syndrome. Visual Cognition, 4 (3): 311-331.

Ekman P. and Friesen W.V. (1976) Pictures of facial effect. Palo Alto, CA: Consulting Psychologists Press.

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IL CORPO CHE VORREI: DONNE CHE INVECCHIANO

Maria Teresa Cattaneo, Elisa Frigerio, Milena Peverelli, Annapaola PrimavesiIstituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università di Milano

L’invecchiamento procede secondo ritmi e modalità differenti, in relazione alle caratteristiche individuali, ai diversi stili di vita e alle differenze di genere. I dati, infatti, non solo rivelano una diversa aspettativa di vita a favore delle donne, ma indicano anche differenze che influenzano rispettivamente la mortalità negli uomini e la morbilità nell’altro (Vergani, 1997; Cesa-Bianchi, Vecchi, 1998).

Le modificazioni che intervengono durante il processo di invecchiamento richiedono aggiustamenti, che possono investire anche la rappresentazione del proprio corpo: l’immagine corporea costituisce un elemento centrale ed è in stretto rapporto con il livello di autostima, l’identità sessuale e le relazioni interpersonali. Le donne, la cui vita è cadenzata da tappe biologiche precise e non eludibili, si trovano con un corpo mutato da un punto di vista estetico e funzionale: il corpo diviene l’ostacolo da superare.

Nell’ambito di un approccio multidisciplinare allo studio delle modificazione dell’invecchiamento (Annoni, Cattaneo, 1997), una delle ricerche ha inteso verificare se e come l’immagine corporea delle donne si modifichi con il passare dell’età. La ricerca è stata effettuata su un campione di 800 donne di età compresa tra 20 e 89 anni: 355 giovani e 445 con più di 60 anni.

È stato somministrato un questionario relativo all’immagine corporea. La prima domanda indaga la percezione del proprio corpo attraverso queste opzioni: snello, appesantito, slanciato, tozzo, normale, altro. La seconda valuta il desiderio di cambiare una o più parti del proprio corpo. Le ultime due domande costituiscono il test delle silhouette di Stukard, Soreson, Schulsinger (1983).

I dati relativi alla prima domanda indicano che non esiste differenza significativa nella percezione del proprio corpo tra donne giovani e vecchie. Donne di diversa età scelgono gli stessi termini per definire la propria immagine corporea: il 34% si definisce snella, il 50% appesantita, il 7% slanciata, il 3% tozza ed il 6% normale.

Le analisi sui dati della seconda domanda (c2= 24,4, p<.001) illustrano la tendenza da parte delle giovani a voler cambiare maggiormente parti del proprio corpo rispetto a quelle anziane: 61% contro il 43%: si osserva, infatti, un progressivo aumento dei soggetti che, con il crescere dell’età, non vogliono cambiare parti del proprio corpo. Si passa dal 25% di donne tra 20 e 29 anni che scelgono ‘niente’, al 50% di quelle tra 50 e 59, al 68% di quelle tra 70 e 79 anni (c2= 63,9, p< .001). Le parti del corpo differiscono in funzione dell’età (c2= 61,9, p< .001); le giovani vorrebbero cambiare più frequentemente la statura, le gambe, il viso, il seno o tutto, mentre le donne con più di 60 anni optano per “dimagrire”, “salute” e “età”.

Il test delle silhouette si riferisce all’immagine effettiva e all’immagine ideale dei soggetti. La moda e la mediana dell’immagine effettiva per le giovani corrisponde a 4, mentre per le anziane è 5. La moda e la mediana dell’immagine desiderata per le giovani corrisponde a 3, mentre per le anziane a 4. L’applicazione del test Mann–Whitney ha mostrato differenze altamente significative tra giovani e anziane sia nell’immagine reale (U = 57010,5, p< .001) sia nell’immagine ideale (U = 47932, p<.001).

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I risultati della ricerca sembrano evidenziare alcune differenze: in particolare i dati ricavati dall’esame dell’immagine corporea sembrerebbero confermare una progressiva modificazione dei criteri utilizzati nella percezione del proprio corpo: le donne anziane, pur scegliendo silhouette più grosse rispetto alle giovani nell’immagine reale non si definiscono come più appesantite o tozze; inoltre tendono a modificare meno parti del proprio corpo orientando la loro scelta nei confronti di elementi funzionali. Si potrebbe ipotizzare che la persona anziana, a differenza di una giovane, abbia ‘imparato’ ad accettare, con il passare dell’età alcuni ‘difetti estetici’ (la bassa statura, ecc.) per concentrarsi sulla funzionalità.

Il processo di costruzione dell’immagine corporea è mediato da schemi emozionali ed è influenzato da fluttuazioni dipendenti dal contesto; entrambi queste variabili giocano, quindi, un ruolo importante nel favorire o ostacolare la ristrutturazione cognitiva che rende possibile l’attribuzione di significato e l’adattamento a fronte di cambiamenti di diverso genere.

Riferimenti bibliograficiAnnoni G, Cattaneo MT, 1997. Affettività ed invecchiamento: l’esigenza di un approccio

multidisciplinare. Ricerche di Psicologia, 4/1, 305-313. Cesa-Bianchi M, Vecchi T, (eds), 1998. Elementi di psicogerontologia. Milano: Franco

Angeli.Stukard AJ, Sorenson T, Schulsinger F, 1983. Use of Danish adoption registrer for the study

of obesity and thinnes. In: The genetic of neurological and psychiatric disorders, Kety S (ed). New York: Raven Press.

Vergani C, 1997. La nuova longevità. Milano: Mondadori.

INFLUENZA DEL TEMPO DI ESPOSIZIONE SULLA CATEGORIZZAZIONE DELLE ESPRESSIONI FACCIALI

DELLE EMOZIONI IN BAMBINI TRA 6 E 12 ANNI DI ETÀ

Giorgio Celani, Letizia ArcidiaconoDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneIl riconoscimento dell’espressione facciale di un’emozione può essere reso

possibile da due modalità di elaborazione cognitiva: la decodifica analitica, o tratto-per-tratto, delle singole componenti del volto, che richiede l’attività prevalente dell’emisfero sinistro e la percezione gestaltica, più dipendente dall’emisfero destro e dalle strutture sub-corticali appartenenti al sistema limbico, in cui il volto è direttamente visto come una totalità. Ricerche in cui a bambini era richiesto di categorizzare espressioni facciali delle emozioni, presentate in una configurazione normale o riarrangiata del volto (situazione quest’ultima in cui la percezione gestaltica è ostacolata dal fatto che, pur non modificandosi le singole componenti dello stimolo, ne viene alterata la struttura complessiva), hanno

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indicato che, per questa tipologia di soggetti, l’effetto di ‘superiorità configurazionale è minore quando il tempo di esposizione dello stimolo è uguale o superiore ad 1 secondo, e che con una presentazione inferiore o uguale a 150msec la loro risposta è a livello casuale (cfr. Teunisse, 1996). L’esposizione sub-ottimale di un’espressione emotiva facciale (< 1sec nel caso dei bambini) potrebbe rendere più difficoltosa la sua decodifica analitica, permettendo di “cogliere in azione” la percezione gestaltica, che sembra necessitare di tempi di esposizione più bassi, purché superiori, in età evolutiva, a 150msec.

MetodoHanno partecipato alla ricerca 32 bambini con sviluppo nella norma equamente

distribuiti, per numero e sesso, in due classi di età, corrispondenti ad un gruppo dei piccoli (GP: 6-9 anni) e ad un gruppo dei grandi (GG: 9-12 anni). A tutti i soggetti è stata somministrata una prova di categorizzazione differita, in cui era loro richiesto di classificare stimoli basandosi o sull’espressione emotiva facciale (condizione EF), o sull’identità del volto di un personaggio (condizione ID), oppure in base a caratteristiche puramente geometriche (condizione RV, matrici di Raven). Il punteggio massimo era pari ad 8 in ognuna delle tre condizioni, che erano controbilanciate tra i soggetti dei due gruppi. Sono stati adottati due tempi di esposizione dello stimolo campione, rispetto al quale era richiesto di effettuare la categorizzazione: sub-ottimale (200msec) e ottimale (1sec), precedendo sempre il test con tempo di esposizione minore quello con esposizione maggiore. L’ipotesi nulla (H0) prevede che le prestazioni dei soggetti nella categorizzazione dell’identità di un volto e dell’espressione emotiva facciale non si differenzino significativamente all’interno e tra i due tempi di esposizione in nessuno dei due gruppi di età. L’ipotesi alternativa (H1) può essere così scomposta: a) la prestazione nella categorizzazione delle espressioni facciali delle emozioni è significativamente migliore di quella basata sull’identità del personaggio quando il tempo di esposizione è sub-ottimale, ed è invece simile o peggiore quando esso è di 1sec; b) la prestazione nella categorizzazione delle espressioni emotive facciali è significativamente migliore di quella basata sull’identità del volto sia a 200msec che con il tempo di esposizione ottimale; c) la prestazione nella categorizzazione dell’identità del volto è significativamente migliore di quella delle espressioni emotive facciali con 200msec di esposizione dello stimolo. Un risultato favorevole all’ipotesi alternativa H1a suggerisce la presenza nei bambini di una efficace percezione gestaltica delle espressioni facciali delle emozioni dai sei anni (se il risultato è rilevato in entrambi i gruppi di età) o dai nove (se è riscontrato solo nei grandi), oppure una maggiore efficienza di questa modalità di elaborazione, per uno stimolo emotigeno veicolato attraverso il volto, nelle prime fasi dello sviluppo (se il risultato è rilevabile solo nel gruppo dei piccoli). Al contrario, un risultato conforme alle ipotesi alternative H1b o H1c non è compatibile con la presenza nei bambini di una efficiente percezione gestaltica delle espressioni facciali delle emozioni.

RisultatiLa coerenza interna della prova, considerando il basso numero di ripetizioni, è

risultata accettabile per ciascuna delle tre condizioni: EF, Cronbach a = .27; ID, a = .29; RV, a = .31 (sempre N = 32, 8 item). Una batteria di quattro ANOVA ad una via, una per ogni gruppo con ciascun tempo di esposizione, ha rivelato che le medie dei punteggi nelle

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tre condizioni sono risultate per il GG significativamente diverse con il tempo di esposizione sub-ottimale e simili con quello ottimale. Differenze significative tra le condizioni sono riscontrabili invece per il GP sia con 200msec che con 1sec di esposizione. Le medie dei punteggi in ciascuna condizione ed i risultati delle singole analisi della varianza sono mostrate nella Tabella 1. I relativi confronti post hoc (Scheffès test) hanno dato i seguenti risultati. Sia nel GP che nel GG con un tempo di esposizione di 200msec la media dei punteggi nella condizione ID è risultata significativamente più bassa rispetto alle medie delle condizioni RV ed EF, che non differiscono significativamente tra loro. Al contrario nel GP con 1sec di esposizione si è riscontrata una media significativamente maggiore nella condizione RV rispetto alle altre due condizioni (ID, EF), che presentano punteggi medi simili. Non sono state rilevate differenze significative nel GG tra le medie delle tre condizioni con il tempo di esposizione ottimale.

Tabella 1Tempo di esposizione

200msec 1secGruppo

CondizioneMedia (d.s.) F (2, 45), p Media (d.s.) F (2, 45), p

Gruppo piccoliRaven

IdentitàEspressione emotiva

6.62 (1.14)5.00 (1.09)6.25 (1.39)

7.80, < .017.75 (0.44)6.40 (0.96)6.60 (0.89)

13.10, < .001

Gruppo grandiRaven

IdentitàEspressione emotiva

7.18 (1.16)5.43 (0.96)6.90 (0.99)

13.05, < .0017.56 (0.62)6.99 (0.85)7.12 (0.80)

2.78, n.s.

ConclusioniL’ipotesi nulla (H0) è falsificata dai risultati. La prestazione di tutti i bambini nella

categorizzazione delle espressioni emotive facciali non è diversa da quella ottenuta con le matrici di Raven, e significativamente migliore della categorizzazione in base all’identità, quando il tempo di esposizione del volto bersaglio è di 200msec. La presentazione ottimale (1sec) della faccia felice o triste, rispetto cui è richiesto di effettuare la categorizzazione, non aggiunge nulla alla loro prestazione: i risultati di tutti i bambini nelle condizioni ID ed EF non differiscono. È quindi corroborata l’ipotesi alternativa H1a, mentre i risultati contrastano con le ipotesi alternative H1b e H1c. L’unico effetto rilevabile con 1sec di esposizione del volto bersaglio, felice o triste, è relativo all’influenza positiva dell’età sulla categorizzazione delle espressioni facciali delle emozioni. Un’analoga influenza dell’età sulla prestazione dei soggetti non è osservabile con il tempo di esposizione sub-ottimale. Pur con la cautela dovuta alle situazioni in cui, come in questo caso, sia saggiata una procedura sperimentale non consolidata, sembra possibile interpretare l’insieme di questi risultati attribuendo ai bambini, almeno dai sei anni di età, la capacità di percepire efficacemente le espressioni facciali di felicità e tristezza come totalità gestaltiche, cogliendone immediatamente il significato emozionale.

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Riferimenti bibliograficiTeunisse J.P. (1996). Face processing strategies in autistic individuals. 5th Congress

Autism-Europe, Barcelona, May 3-4-5.

IMMAGINI DELL’ANZIANO: RISULTATI DI UNA RICERCA

Carlo Angelo Cristini, Giovanni Cesa-Bianchi, *Daniela Calasso, *Patrizia PiraniIstituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università degli Studi di Milano*Istituto di Psicologia, Scienze della Formazione, Università di Urbino

IntroduzioneIl fenomeno dell’invecchiamento delle società occidentali congiuntamente

all’incedere del progresso tecnologico incrementa il numero degli anziani che subiscono un processo di marginalizzazione. Il tempo corrente ha rinforzato antichi preconcetti e ne ha prodotto di nuovi. I vecchi vengono sospinti ai confini della società dell’automazione, dell’informatica e della comunicazione satellitare, lontani dai modelli decantati di successo e di affermazione. Le immagini, le opinioni che i vecchi nutrono dell’epoca vissuta e del loro modo di essere, gli atteggiamenti che sanno interpretare, riproducono esperienze, storia e cultura, costituiscono un patrimonio di conoscenza che libera dall’interno la prigione del pregiudizio.

MetodologiaLa ricerca si è proposta di esaminare la condizione dell’anziano inserito in uno

specifico contesto socio-culturale, il suo peculiare modo di percepirsi, il senso del suo essere vecchio, le immagini che porta con sé, il suo stile di vita. Sono stati studiate 60 persone anziane (30 F., 30 M.), suddivisi in tre fasce di età: 65-74, 75-84 e dagli 85 anni in poi, residenti nel Salento, specificamente in due comuni: Copertino (15 F., 15 M.) e Leverano (15 F., 15 M.), il primo di maggior estensione e densità. Come strumenti della ricerca sono stati utilizzati: A) un questionario, applicato mediante un’intervista semistrutturata, comprendente più aree di indagine B) un test di personalità, l’Adjective Check List (A.C.L.), composto da 300 items, raggruppati in 5 clusters omogenei. È stato applicato anche il calcolo del chi quadrato (g.l. 1).

RisultatiI dati anagrafico-sociali della ricerca riflettono i valori nazionali. I coniugati sono

soprattutto maschi, X=11.2806 *****p<.001, le donne hanno un minor livello di istruzione, X=8.2971 ****p<.005, e sono più sole, X=5.4545 **p<.025, specie dopo i 75 anni. Il 76.67% degli anziani intervistati si dice soddisfatto della propria salute, specie gli uomini che esprimono una miglior qualità del loro sonno, X=8.2971 ****p<.005, mentre l’80.00% rivela il timore di ammalarsi che aumenta con l’età e solamente il 53.54% si dichiara contento dell’assistenza sanitaria ricevuta. La vita di relazione appare soddisfacente con una

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

prevalenza significativa negli uomini riguardo ai rapporti amicali, X=4.2857 *p<.05. Il 90.00% del campione si ritiene soddisfatto sia della situazione economica che abitativa. Il 35.00% lamenta un peggioramento della qualità della vita dopo il pensionamento ed il 33.33% delle donne riferisce un declino della salute dopo la menopausa. Il 50.00% ha un’immagine positiva del proprio corpo, soprattutto gli uomini, di cui il 16.67% si percepisce come “forte”, mentre tra le connotazioni negative complessivamente riferite spicca “decadente” (15.00%), nelle donne prevale l’attribuzione “pesante” (23.33%). Anche le immagini di sé riflettono valenze positive, in lieve prevalenza negli uomini, tra quelle negative predomina “triste” (15.00%), specie nelle donne. Il 66.67% si sente utile, il 70.00% attivo, soprattutto nel comune di Leverano, il 53.33% soffre di solitudine ed il 58.33% di noia, il 56.67% teme di essere aggredito, in particolare le donne dopo i 75 anni e nel comune di maggior estensione.

Il test A.C.L. ha complessivamente evidenziato una propensione all’apertura ed all’espressività (m=57.48), maggiore nelle donne e nel comune di Copertino, con una tendenza alla riservatezza (m=49.10) dopo gli 85 anni. Inoltre gli anziani esaminati descrivono, attraverso il test, una buona considerazione di sé (m=54.85) che declina con l’età, mentre aumentano pessimismo e perplessità. Essi si trovano a loro agio nei rapporti interpersonali (m=53.55); le donne dimostrano maggior senso del dovere (m=58.96), stabilità, obiettività e miglior capacità di comprensione (ds=9.33), di tutela (m=58.18), di adattamento (m=59.76) e di fiducia in se stesse (ds=11.62). Scarse le richieste (ds=6.64) e prevalenti i desideri di prolungata autonomia; le necessità di supporto incrementano con il progredire degli anni e si verificano soprattutto negli uomini (m=46.06). Gli anziani appaiono concilianti, specie a Copertino, propendono ad evitare le conflittualità manifeste (m=54.15), in prevalenza le donne, e ricercano nell’ambiente di abituale convivenza sicurezza e continuità, affettiva e relazionale.

ConclusioniLa persona anziana esaminata presenta un profilo generalmente soddisfacente. Le

iniziali condizioni socio-culturali poco favorevoli e gli eventi negativi successivamente sofferti non sembrano aver inciso irreversibilmente sulla qualità della vita e sulle immagini positive di sé. Le donne riferiscono una corporeità vissuta che pare riflettere le conseguenze della menopausa, ma nel contempo esprimono la volontà di realizzarsi. Gli uomini presentano una migliore immagine di sé, ma anche una maggior vulnerabilità. In sintesi gli anziani esaminati vivono le ripercussioni del cambiamento, interpretano nella mediazione l’esperienza acquisita, promuovono un’immagine positiva di sé, intendono essere protagonisti ed auspicano nella longevità riferimenti rassicuranti.

Riferimenti bibliograficiAveni Casucci, M.A. (1992). Psicogerontologia e ciclo di vita. Mursia, Milano. Cesa-Bianchi, M. (1987). Psicologia dell’invecchiamento: caratteristiche e problemi. La

Nuova Italia Scientifica, Roma. Cesa-Bianchi, M. (1998). Giovani per sempre? L’arte di invecchiare. Laterza, Roma. Cesa-Bianchi, M., Vecchi, T. (1998). Elementi di Psicogerontologia. FrancoAngeli, Milano.

Laicardi C., Piperno A. (1987). La qualità della vita nella terza età. Borla, Roma.

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MULTIETNICITÀ ED EDUCAZIONE INTERCULTURALE: L'IDENTITÀ ETNICA COME

FATTORE D'INTEGRAZIONE SCOLASTICA

Maria D'Alessio, Simona De Stasio Facoltà di Psicologia, Dipartimento di Psicologia, Università “La Sapienza” di Roma

PremessaIn un contesto europeo dove la maggior parte dei Paesi sono interessati da flussi

migratori diventa essenziale cogliere l'impatto psicologico di tale diversità interetnica.Da un'attenta analisi della letteratura psicologica di questi ultimi anni emerge come

l'interesse dei ricercatori si sia focalizzato per lo più sugli atteggiamenti dei componenti dei gruppi etnici dominanti rispetto alle minoranze etniche. Un aspetto meno indagato sembra essere l'appartenenza etnica dei componenti di minoranze etniche: la relazione che questi elementi hanno con il loro gruppo di provenienza, identità etnica.

L'atteggiamento mentale rispetto alla propria etnicità diventa centrale nel funzionamento psicologico di chi vive in un Paese in cui il suo gruppo etnico è poco rappresentato o peggio discriminato (Phinney, 1990).

Nasce proprio da qui l'interesse di questa ricerca sulla problematica dell'integrazione scolastica dei bambini stranieri in Italia.

La ricercaLa ricerca si prefigge di evidenziare i possibili percorsi di costruzione dell’identità

etnica nei diversi gruppi presenti all'interno della classe, in una fascia di età che permetta di intervenire per tutelare il processo evolutivo di ogni bambino in quanto tale.

MetodologiaI gruppi interessati alla ricerca sono stati reperiti tra soggetti frequentanti classi

multietniche (gruppo sperimentale) e classi formate da bambini autoctoni (gruppo di controllo). Tutta la popolazione è composta complessivamente da 637 soggetti, di età compresa tra gli 8 e i 14 frequentanti le classi del secondo ciclo della scuola elementare.

L’indagine è stata effettuata utilizzando il Q.I.M.b (Questionario di Identità Multietnica per bambini) uno strumento elaborato dal nostro gruppo di ricerca riferendosi agli studi condotti da Phinney (1990), Luhtanen e Crocker (1992), che hanno ampiamente analizzato il concetto di identità etnica e di appartenenza nella popolazione americana.

Il suddetto strumento vede l'identità etnica riflessa da tre fattori: il senso d'appartenenza al proprio gruppo etnico, la curiosità e l'apertura verso altri gruppi etnici, l'atteggiamento democratico, non razzista.

Analisi e interpretazione dei datiI dati raccolti sono stati sottoposti a tecniche statistiche di analisi parametriche e

non parametriche. Sebbene l'interpretazione dei risultati sia in corso è possibile avanzare alcune considerazioni generali.

Il riconoscimento della propria identità etnica sembra essere un facilitatore nell'integrazione sociale di bambini appartenenti a diverse etnie.

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

La costruzione dell'identità si configura come elemento fondamentale nello sviluppo del bambino, si pone come necessario nell'interazione sociale e imprescindibile nell'apertura verso altre etnie. Il riconoscimento ed il rispetto delle diversità etniche deve necessariamente passare attraverso un processo di recupero della propria etnicità che radichi il Sé alla metrica culturale di origine e delinei una continuità del proprio essere ed esistere in funzione dei significati dominanti nelle varie esperienze vissute.

Riferimenti bibliograficiLuhtanen, R.; Crocker J., (1992), A collective self esteem sca1e: self-eva1uation of one's

socia1 identity. P.S.P.B., vol. 18, N°3, pp 302-318.Harter, S. (1967) Competence as dimension of self evoluation: Toward a comprehensive

model of self-worth. In R. Lehay (a cura di) The development of the self, New York, Academic.

Phinney, J. (1990),Ethnic identity in adolescents and adults: review of research. Psychologica1 Bulletin ,vol 108, N°3, pp 499-514.

PSICOLOGIA CULTURALE, APPRENDIMENTO ED EMOZIONI IN CONTESTO EDUCATIVO

Antonio Iannaccone, Giovanna Celia, Pina MarsicoUniversità degli Studi di Salerno

L’orientamento ermeneutico delle scienze sociali contemporanee (Boggi –Cavallo, 1996) ha messo in luce la complessità della dimensione interattivo-costruttivista nei processi di sviluppo e di apprendimento. In particolare, a fronte di un indirizzo empirico specificatamente dedicato all’indagine delle dimensioni cognitive dell’apprendimento, il costruzionismo sociale ed il contestualismo in psicologia, hanno, ormai da tempo, avviato un programma di ricerche empiriche che hanno consentito di approfondire la conoscenza di importanti aspetti complementari a queste dimensioni. È divenuto progressivamente più evidente come l’attività cognitiva sia strettamente ed indissolubilmente intricata con le dimensioni sociali ed emozionali degli scambi che caratterizzano la vita quotidiana. In questa prospettiva lo studio della dimensione emozionale assume un rilievo specifico nella comprensione delle dinamiche che caratterizzano le interazioni in ambito educativo, in linea con la proposta di superamento della concezione diadica dei rapporti tra razionalità ed emozione che è stata, nel tempo ampiamente dibattuta e che trova in Oatley (1992) un ulteriore approfondimento.

L’apprendere, diversamente dalla visione cognitivista di trasmissione ed elaborazione di informazioni, viene inteso come processo di interpretazione di accadimenti socialmente connotati. Non a caso, questa prospettiva teorica ed empirica si trova ad essere largamente rappresentata nel modello di “psicologia culturale”, recentemente proposto da Bruner (1997), uno dei più interessanti e fecondi orientamenti per la comprensione dei sistemi di insegnamento-apprendimento. La presente ricerca intende esplorare il grado di competenza emozionale degli insegnanti in connessione con le proprie rappresentazioni

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

dell’apprendimento e dell’intelligenza e con il proprio livello di stress socio professionale, con l’obiettivo di indagare il tipo di relazione che intercorre tra di essi. E ciò perché lo studio della competenza emozionale assume un rilievo specifico nella comprensione delle dinamiche che caratterizzano le interazioni in ambito educativo.

MetodologiaIl campione è costituito da 300 insegnanti distinti in tre gruppi composti da docenti

di scuole elementare, scuole medie inferiori e medie superiori. Gli strumenti di indagine utilizzati indagano l’area relativa alle competenze emozionali e l’area delle rappresentazioni sociali dell’intelligenza e dell’apprendimento. Il grado di competenza emozionale viene rilevato attraverso due strumenti: il primo consistente in una lista di 92 etichette emozionali (E. Gius; A. Cozzi; D. Spagotto; A. Villa, 1992), che richiede il riconoscimento da parte degli insegnanti delle emozioni vissute nel corso di un intero anno scolastico e rispetto alle quali devono indicare la frequenza con cui queste si sono presentate; il secondo costituito dalla scala Maslach Burnout Inventory (MBI). L’area delle rappresentazioni sociali dell’intelligenza e dell’apprendimento viene indagata attraverso un questionario di 66 affermazioni tratto da F.Carugati e G. Mugny (1988) comunemente utilizzate per definire l’intelligenza e l’apprendimento rispetto alle quali si richiede di esprimere il grado di accordo.

RisultatiI risultati sembrerebbero confermare l’ipotesi che la dimensione emozionale sia in

relazione con la rappresentazione dell’intelligenza e dell’apprendimento degli insegnanti e con il loro grado di stress socio-professionale. Lo studio, che necessita di ulteriori e più approfondite analisi statistiche dei dati, apre la strada ad una possibile integrazione della dimensione cognitiva ed emozionale nella complessa dinamica della trasmissione delle conoscenze in classe.

LA VERSIONE ITALIANA DELLA ‘REVISED CHEEK & BUSS SHYNESS SCALE’: LA “SCALA DELLA

TIMIDEZZA”

Roberto MarconeCorso di laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli

IntroduzioneLa timidezza è un’emozione – e per taluni un tratto di personalità – che si

sperimenta in presenza di altre persone e in tutte quelle situazioni in cui un soggetto prova ansia e inibizione. I correlati sintomatologici della timidezza possono essere raggruppati in tre cluster: sintomi fisiologici; sintomi cognitivi; sintomi comportamentali (Briggs, Cheek, Jones, 1986; B. Azar, 1995; Cheek, Melchior, Carpentieri, 1986; Buss, 1980). Tratto sicuramente non desiderato, la timidezza può interferire nell’instaurazione e nel

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mantenimento dei rapporti sociali e ridurre le capacità attentive e comunicative soprattutto in situazioni francamente ansiogene, quali, ad esempio, gli esami e i colloqui di lavoro.

Tra strumenti messi a punto per misurare la timidezza, la Revised Cheek & Buss Shyness Scale (RCBS 14-Item) (Cheek, Briggs, 1990) sembra offrire garanzie particolari in termini di validità e affidabilità, dal momento che le altre misure disponibili in letteratura sono contrassegnate da una serie di limiti riconducibili soprattutto al fatto che esse forniscono parametri troppo ampi e non necessariamente caratteristici della persona timida (Cattell et al., 1970; Watson, Friend, 1969; Izard, 1971; Leary, 1983; Morris, 1984). La RCBS, inoltre, è una misura self-report di agile somministrazione e di veloce scoring.

Obiettivi della ricercaLo scopo del presente lavoro è quello di illustrare le caratteristiche psicometriche

della versione italiana della RCBS 14-Item. La versione italiana della scala si compone di 14 item, di cui 4 reversed, presentati in formato Likert a cinque punti, che confluiscono in tre aree specifiche: sintomi somatici, cognitivi e comportamentali (Buss, 1984).

MetodoLa versione italiana della RCBS 14-Item è stata somministrata ad un campione di

300 soggetti (131 maschi e 169 femmine) di età compresa tra i 18 ed i 30 anni (con un’età media pari a 22.45). Trattandosi di una scala a punteggi sommati, il punteggio teorico minimo corrisponde a 14, il punteggio teorico massimo a 70. La media dei punteggi totali ottenuti sul campione combinato è risultata pari a 30.25 con una deviazione standard di 8.6. La correlazione media item-totale è risultata pari a .40 e l’a di Cronbach, ha assunto il valore di .79. La fedeltà dello strumento è stata stimata ricorrendo al metodo dello split-half. La correlazione tra la prima e la seconda metà della scala ha assunto il valore di .78, la correlazione tra item pari e item dispari è risultata pari a .82. successivamente i 14 item sono stati sottoposti ad analisi fattoriale. L’analisi ha posto in luce 4 fattori con autovalore maggiore di uno che spiegano insieme il 54.3% della varianza totale. A questi fattori è stata applicata la rotazione Varimax. Sul primo fattore hanno alta saturazione gli item che fanno riferimento alla tensione e al disagio che si sperimentano nelle relazioni sociali. Il secondo fattore raggruppa gli item che chiamano in causa la preoccupazione di essere valutato negativamente (accentuata autoconsapevolezza). Sul terzo fattore hanno alta saturazione tutti gli item reversed e che si riferiscono ad una marcata disinvoltura nei rapporti con gli altri. Infine, sul quarto fattore ha alta saturazione un solo item che chiama in causa la tensione ed il nervosismo che le relazioni asimmetriche generano.   

Nel loro complesso i risultati ottenuti confermano la buona tenuta dello strumento che sembra offrire sufficienti garanzie in termini di attendibilità e validità.

Riferimenti bibliograficiAzar, B. (1995). When self-awareness works overtime. APA Monitor.Briggs, S.R., Cheek, J.M., Jones, W.H. (1986). Introduction. In W.H. Jones, J.M. Cheek,

S.R. Briggs (Eds.), Shyness: Perspectives on research and treatment, pp. 1-14. New York, Plenum Press.

Buss, A.H. (1980). Self-counsciouness and social anxiety. San Francisco, Freeman.Buss, A.H. (1984). A Conception of Shyness. In J.A. Daly, J.C. McCroskey (Eds.), Avoiding

communication: Shyness, reticence, and communication apprehension. Beverly

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Hills, CA, Sage.Cattell, R.B., Eber, H.W., Tatsuoka, M.M. (1970). The 16-Factor Personality Questionaire,

IPAT.Cheek, J.M., Briggs, S.R. (1990). Shyness as a personality trait. In W.R. Crozier (ed.).

Shyness and Embarassement. Cambrige, Cambrige University Press, pp. 314-337.Cheek, J.M., Buss, A.H. (1981). Shyness and Sociability. Journal of Personality and Social

Psychology, 41, 330-339.Izard, C.E. (1971). The Face of Emotion. New York, Appleton-Century-Crofts.Leary, M.R. (1983). Social Anxiousness: The Construct and Its Measurement. Journal of

Personality Assessment, 47, 66-75.Morris, C.G. (1984). Assessment of Shyness. University of Michigan, Unpublisched.Watson, D., Friend, R. (1969). Measurement of Social Evaluative Anxiety. Journal of

Consulting and Clinical Psychology, 33, 448-457.

I PROCESSI ASSIMILATIVI ED ADATTIVI NELLE STRATEGIE DI COPING

Carla Poderico Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli

Nell’ambito della psicologia gerontologica il tema del coping, ovvero delle risposte consce da elaborare per risolvere il disagio che deriva da situazioni di stress costituisce, di certo, uno degli argomenti su cui si è maggiormente concentrata la riflessione teorica e la ricerca. Che una situazione di stress dia origine ad uno stato patologico o meno dipenderà dalle capacità del soggetto di fare fronte all’evento stressante e di adattarsi ad una nuova condizione, vale a dire dalle sue strategie di coping. Con il termine coping - per dirla con Lazarus (1993)- ci si riferisce agli sforzi cognitivi e comportamentali orientati alla gestione di specifiche richieste esterne o interne percepite dal soggetto come eccessivamente gravose ed eccedenti le risorse personali.

Le risposte allo stress, e questo indipendentemente dalle prospettive teoriche dalle quali il tema del coping è stato affrontato, vengono convenzionalmente raggruppate in due ampie classi: si parla infatti di un coping focalizzato sul problema (problem focused) contrapposto ad un coping focalizzato sull’emozione (emotion-focused). Il primo implica un orientamento al compito e si riferisce alle strategie impiegate per risolvere un problema, per riconcettualizzarlo cognitivamente o per ridurne gli effetti; il secondo è diretto alla regolazione della risposta emozionale alla situazione stressante, ai tentativi, cioè, di ridurre il disagio e il disturbo prodotti dalla risposta emotiva stessa.

Quanto questa distinzione sia rilevante nella letteratura sul coping è dimostrato, tra l’altro, dalla centralità che essa ha assunto nella messa a punto degli strumenti di misurazione del coping. Infatti tutte le misure che fino ad oggi sono state elaborate includono direttamente o indirettamente queste due classi di risposta.

Sebbene gli sforzi che comporta il ripristino dell’omeostasi, caratterizzino tutto l’arco dello sviluppo, di certo essi risultano più gravosi in alcune epoche    della vita    e di

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certo l’età anziana è da considerarsi periodo “critico” nella vita della maggior parte delle persone.

Che le risorse adattive dell’anziano siano notevoli è dimostrato fra l’altro    anche dagli studi di Jochen Brandstädter. Le sue indagini confermano che esistono variazioni interindividuali nei pattern e negli stili di adattamento agli eventi negativi che segnano l’età anziana. In più esse pongono in luce come l’anziano sia in grado di far fronte a situazioni di stress prolungato in una maniera molto più efficace di quanto si presumesse in passato. Brandstädter parla di un modo essenziale di far fronte allo stress che chiama in causa due processi fondamentali, denominati rispettivamente assimilativi e adattivi. I processi assimilativi e quelli accomodativi non si escludono vicendevolmente, essi sono piuttosto modalità di adattamento complementari che designano tappe successive del coping nell’anziano. A parere di Brandstädter (Brandstädter et alii, 1993) col passare del tempo si assiste ad una progressiva variazione nell’organizzazione delle risposte allo stress: nel tempo decresce la tendenza all’ostinazione nel perseguimento dei fini    ed aumenta la flessibilità nell’adattarsi all’obiettivo.

Lo scopo del presente lavoro è di analizzare la relazione tra stili di personalità adattivi e assimilativi e la scelta di specifiche strategie di coping. Recenti ricerche sull’argomento (Brandstädter e Renner,    1990; Brandstädter, Wentura e Greve, 1993) hanno posto in luce che le cosiddette variabili di personalità, non diversamente della natura dello stressore, modulano la scelta delle strategie di coping. Tuttavia i risultati ottenuti lasciano aperta la questione relativa a quanta parte della varianza del fenomeno possa essere ascritta alle prime e quanta parte invece sia possibile spiegare attraverso l’analisi delle situazioni di stress.

MetodoPer analizzare la relazione tra i processi assimilativi/accomodativi e il coping ad un

campione di 100 anziani non istituzionalizzati (39 maschi e 61 femmine) di età compresa tra 65 e 87 anni (età media = 69,64), sono stati somministrati, in ordine bilanciato, la versione italiana sperimentale del Coping Inventory for Stressfull Situation (CISS) di Endler e Parker (1990), messa a punto da Sirigatti, Stefanile (in corso di stampa) e la versione italiana del Tenacious Goal Pursuit and Flexible Goal Adjustment di Brandstädter e Renner (1990)    (Poderico, in corso di stampa).

Il CISS è una misura self-report che si articola in tre subscale deputate rispettivamente alla misurazione di tre specifiche strategie di coping, denominate rispettivamente: Task, Emotion    e Avoidance. La scala dell’Avoidance    si articola, a sua volta, in due sottoscale: la Distraction Scale (D) e la Social Diversion Scale (SD) entrambe volte a rilevare quali strategie il soggetto utilizza per alleviare lo stress. La Tenacious Goal Pursuit (TGP) and Flexible Goal Adjustment (FGA) è anch’essa un questionario self-report che misura le risposte allo stress di tipo accomodativo o di tipo assimilativo.

RisultatiPreliminarmente si è proceduto al calcolo dei coefficienti di correlazione tra i

punteggi riportati dai soggetti alle sottoscale delle due misure utilizzate. Correlazioni significative positive si sono osservate tra la strategia di coping Task-oriented e la Flessibilità (r=.2750, p =.006) e la Tenacia (r=.3858, p =.000). È stata osservata poi una correlazione significativa negativa tra la strategia di coping Emotion e la Tenacia (r =

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

-.2766, p =.005). Non sono risultate significative le correlazioni fra l’Avoidance e la Flessibilità e Tenacia. All’interno dell’Avoidance, però, è stata osservata una correlazione significativa fra il Diversivo Sociale e la Tenacia (r =.2181, p =.029),    questo dato farebbe pensare che nelle situazioni in cui c’è un forte stress i soggetti anziani maschi (r= .3243, p =.044) tendano a cercare diversivi sociali.

Per accertare in che misura la Flessibilità o la Tenacia potrebbero essere considerate predittori nella organizzazione delle risposte allo stress, si è proceduto al confronto tra gruppi-criterio. Per ciascuna dimensione (Flessibilità e Tenacia) i soggetti sono stati divisi in due gruppi: il primo costituito da coloro che avevano riportato un punteggio al di sotto del 25° percentile, il secondo costituito da coloro che avevano riportato un punteggio che cadeva al di sopra del 75° percentile: bassa Flessibilità versus alta Flessibilità; bassa Tenacia versus alta Tenacia. Si è poi proceduto al confronto tra le medie dei punteggi del CISS riportati dai soggetti collocati nei gruppi così definiti. Il confronto tra i due gruppi (bassa Flessibilità versus alta Flessibilità) non ha segnalato differenze significative nei punteggi riportati sulle tre dimensioni del coping. È stato invece osservato che i punteggi di bassa Tenacia sono significativamente più bassi di quelli collocati nell’alta Tenacia relativamente alle dimensioni del Task (t54 = 2.99, p = .004) e dell’Emotion (t54= 2.34, p =.023).

In conclusione sembra che la Tenacia, quale stile di personalità di tipo adattivo, possa essere considerata un buon predittore di risposte di coping come del resto è riportato in letteratura.

Riferimenti bibliograficiBrandstädter J. e Renner G.(1990) Tenacious Goal Pursuit and Flexible Goal Adjustment:

Esplication and Age-Related Analysis of Assimilative and Accomodative Strategies of coping. Psychology and Aging, 5, 1, 58-67.

Brandstädter J., Wentura D. e Greve W. (1993) Adaptive Resources of the Aging Self: Outline of an Emergent Perspective. International Journal of Behavioral Development, 16, 2, 323-349.

Lazarus R.S. (1993) Coping Theory And Research: Past, Present and Future. Psychosomatic medicine, 55, 234-247.

Sirigatti S., Stefanile C. e Toselli M. (1996) Una misura per il coping: il Coping Inventory for Stressful Situations (CISS). Bollettino di Psicologia Applicata, 218, 45-47.

Endler N.S. e Parker J.D.A. (1990a) Coping Inventory for Stressful Situations (CISS): Manual. Multi-Health Systems, Toronto.

IDENTITÀ E PROCESSI DI INTEGRAZIONE IN DONNE IMMIGRATE EXTRA-COMUNITARIE

Lidia Provenzano, Valeria Schimmenti, Laura PerniceUniversità “La Sapienza” di Roma

Introduzione

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Il fenomeno delle migrazioni ha influito sempre fortemente sullo sviluppo di ogni civiltà del passato, e altrettanto sta accadendo oggi con aspetti variegati: la nostra società si trasforma in direzione multietnica.

Ma contemporaneamente la nostra società si arricchisce grazie alla convivenza di più culture, che comportano ricchezza umana e fonti di creatività. (Bergnach L., Sussi E., 1993, Di Micco V., Martelli, 1993, Favara M.G., Natale M., Pompeo F., 1995, Macioti M.I., Pugliese E., 1991, Macioti M.I., 1995). Da molte ricerche emerge un segno significativo del processo di trasformazione sociale in atto in Italia ( e altrove) che può essere indicato nelle immigrazioni femminili, una sfaccettatura nuova rispetto ai precedenti percorsi migratori. La donna immigrata non è più né soltanto isolata e subalterna: rompe i legami familiari, divorzia, cerca di accrescere la sua cultura e la sua professionalità con il “mito del ritorno” ma in vista di un nuovo progetto di vita. Si è voluto quindi approfondire questo fenomeno in modo particolare negli aspetti psicologici per restituire (o costituire?) un volto e una storia alla donna immigrata.

ScopoObiettivo principale della ricerca è stato quello di cercare di individuare come

l’identità culturale di una donna immigrata ( nel contesto socioeconomico-culturale campano) possa favorire o meno la sua integrazione con altri gruppi etnici, tenendo conto in modo particolare della percezione di sé all’interno del proprio gruppo etnico e come percepisce gli altri gruppi etnici attraverso il questionario Ethnic Identity Scale (Phinney, 1990) modificato per adulti.

MetodoL’indagine è stata condotta su gruppi di donne immigrate provenienti dalla

Somalia, dal Marocco, dal Senegal, da Capo Verde, dalla Repubblica Domenicana e dalle Filippine alle quali è stato sottoposto il questionario di Phinney e sono stati chiesti alcuni dati anamnestici.

RisultatiLe analisi effettuate sul gruppo totale e sui sottogruppi (con vari tests statistici:

varianza, analisi fattoriale, correlazione B-P) permettono di evidenziare quanto la solida identità culturale del proprio gruppo etnico favorisca l’integrazione    con altri gruppi e il grado generale di integrazione raggiunto dai soggetti. Pur si evidenziano tratti e modalità differenti a seconda delle diverse matrici culturali.

Riferimenti bibliograficiBergnach L., Sussi E., (a cura di), Minoranze etniche ed immigrazione. La sfida del

pluralismo culturale, F. Angeli, Milano, 1993.Di Micco V., Martelli. (a cura di) Passaggi di confine Etnopsichiatria e migrazioni, Liguori

Editori, Napoli, 1993.Favaro G., Ometto L., Donne filippine in Italia. Una storia per immagini e parole, ICEI,

Milano, 1993.Macioti M.I., Pugliese E., Gli immigrati in Italia, Latenza, Bari, 1991.Macioti M.I., Per una società multiculturale, Liguori, Napoli, 1995.

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POSTER - EMOZIONI, MOTIVAZIONE, PERSONALITÀ

Phinney J., & Traver S., Etnhic identity search and committment in Black and White eight graders, Journal of Early Adolescence 1988. 8, 256-277 Sommerland E., & Berry J., The role of etnhicidentication in distiguishing between attitudes towards assimilation and integration of a minority racial group. Human relation, 7, 21-23, 1970.

Phinney J., Stages of etnhic identity in minority group adolescents. Journal of early, 1989.Phinney J., The Multigroup Etnhic Identity Measure. A new scale for use with adolescents

and adults from diverse group, 1990.Sussi E., I bisogni formativi degli immigrati, F.Angeli, Milano, 1991.

LA CATEGORIZZAZIONE DEI TERMINI EMOTIVI NEL LESSICO ITALIANO

Vanda Lucia Zammuner*Università di Padova

IntroduzioneLe emozioni umane sono un fenomeno complesso e multicomponenziale,

paragonabile ad un complicato mosaico composto di moltissimi tasselli; il loro studio ha quindi dato origine a diverse prospettive di indagine, ognuna delle quali ha tentato di comprenderne alcuni aspetti (ad es., neurofisiologici, comportamentali e cognitivi). La presente ricerca si inserisce in un filone teorico che affronta lo studio delle emozioni a partire dal linguaggio, in base all’ipotesi che, pur non essendo il linguaggio isomorfo all’esperienza emotiva, la sua organizzazione sottintenda una corrispondente organizzazione dei concetti a livello cognitivo. Più in particolare, si ipotizza che i concetti emozionali siano organizzati, seguendo il modello categoriale di E. Rosch (1973), in sistemi categoriali a due dimensioni, una verticale riguardante la relazione gerarchica tra categorie, e una orizzontale riguardante la distinzione tra categorie allo stesso livello di inclusività. Le emozioni sarebbero organizzate orizzontalmente in categorie dai confini sfumati, composte da membri accomunati da una “somiglianza di famiglia” con l’elemento centrale più tipico (il prototipo), e verticalmente in tre livelli: superordinato, basico e subordinato. In particolare, il livello basico permetterebbe di fare distinzioni più precise rispetto ai concetti superordinati di emozione, pur senza essere troppo dettagliato, offrendo quindi un buon compromesso tra informatività ed economia cognitiva, il che lo renderebbe molto utile nella comunicazione quotidiana; il livello subordinato veicolerebbe invece informazioni più specifiche, relative ad esempio ad aspetti quali l’intensità delle emozioni, la loro durata, o il contesto in cui vengono provate. L’ottica prototipica ha generato moltissime ricerche che ne hanno verificato, e confermato, l’applicabilità al dominio emozionale. La ricerca qui presentata si inserisce in questo filone ed ha lo scopo di verificare quale è l’organizzazione concettuale dei termini emozionali dell’italiano, verificando anche i risultati ottenuti in precedenti ricerche condotte sia in altre culture linguistiche, sia in Italia.

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MetodoLa ricerca è stata condotta con 140 studenti universitari (65 maschi e 75 femmine)

di età compresa tra i 19 ed i 30 anni, di varie facoltà dell’Università di Padova e dell’Università di Milano ai quali, seguendo la procedura di Agnoli et al. (1989) che replicava, per il lessico italiano, quella adottata da Shaver et al. (1987) per l’inglese, fu chiesto di raggruppare in base alla loro somiglianza 153 termini emotivi loro presentati - “... vorremmo vedere quali emozioni le persone pensano che siano simili tra loro (quali “vanno insieme”) e quali ritengono diverse e perciò appartenenti a differenti categorie... devi classificare le emozioni in base alla somiglianza, e non ad altri criteri (potresti mettere insieme emozioni che possono far parte di una stessa esperienza ma che non sono propriamente simili, come ad es. amore - delusione, oppure odio - amore per la stessa persona ... ”. La lista dei 153 termini era composta da vocaboli attentamente prescelti onde garantirne la rappresentatività rispetto al lessico emozionale e facilitare il confronto con i risultati ottenuti in ricerche precedenti - per es., la lista comprende la maggior parte dei termini usati da Agnoli et al. (1989), da Ortony et al. (1987), da Van Goozen e Frijda (1993), da Galati (1986). Inoltre, su questi 153 termini ricerche parallele hanno fornito dati descrittivi di vario tipo attinenti dimensioni dell’esperienza designata quali l’intensità e il tono edonico, la durata, la frequenza, il grado di “leggittimità” sociale (e.g., Zammuner, 1994, 1998). I termini furono presentati ai soggetti singolarmente, stampati su cartoncini di piccole dimensioni che riportavano anche un numero identificativo dell’emozione, usato dai soggetti per compiere i raggruppamenti, senza alcun limite nel loro numero. Il tempo per l’esecuzione variò da circa quaranta minuti a più di un’ora e mezza, con una media di un’ora e dieci minuti.

I raggruppamenti effettuati dai soggetti furono tabulati in una matrice di co-occorrenza 153x153 che fu sottoposta ad analisi gerarchica dei cluster (programma PSS-X di Hierarchical Cluster Analysis)

RisultatiIl numero di raggruppamenti effettuati dai soggetti, analogamente a quanto

riscontrato in ricerche precedenti (per es., Shaver et al. 1987), variò da un minimo di 3 (un solo soggetto) ad un massimo di 72, con una media di 37,6; anche il numero di termini contenuti in ogni categoria fu variabile, oscillando da un minimo di 1 ad un massimo di 63. I risultati ottenuti analisi gerarchica dei cluster confermano la validità dell’ipotesi che i concetti emozionali sono rappresentati categorialmente. Tuttavia, rispetto ai risultati ottenuti in ricerche precedenti, sia l’articolazione verticale che quella orizzontale presentano alcune differenze degne di nota. In particolare, al livello basico è possibile individuare dieci grossi raggruppamenti, denominati gioia, amore, calma, compassione, ansia, noia, tristezza, sorpresa, paura e rabbia; al livello superordinato la gioia da un lato e la rabbia dall’altro si contrappongono a tutte le altre emozioni, distinte tra loro ad un livello più basso in tre grandi gruppi: amore, calma e compassione, distinti da ansia noia e tristezza da un lato, e sorpresa e paura dall’altro; al livello subordinato infine si trovano 28 raggruppamenti, che evidenziano affinità di natura più specifica tra le emozioni - per es., esultanza, euforia, entusiasmo, esaltazione, trionfo; imbarazzo, vergogna, timido, disagio; gelosia, invidia; indignazione, sdegno, disprezzo; collera, rabbia, furia, rancore, vendetta, odio - i risultati ottenuti a questo livello possono essere utili per decidere quali termini presentano le maggiori affinità concettuali.

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In sintesi, al livello superordinato la distinzione non sembra essere tanto tra emozioni positive e negative, ma tra emozioni particolarmente “attivate” (gioia e rabbia) e altre più ‘quiete’, e il livello basico presenta un’articolazione maggiore di quella trovata in studi precedenti (per es., Shaver et al. 1987). Rispetto alla ricerca sull’italiano di Agnoli et al. (1989), la diversità dei risultati potrebbe essere imputabile al fatto che (a) la lista sperimentale in questa ricerca includeva un maggior numero di termini, e (b) i termini prescelti erano stati scelti in base a molteplici criteri invece di essere semplicemente la traduzione di termini significativi per la cultura statunitense. Più in generale, i risultati ottenuti testimoniano la presenza di una struttura concettuale piuttosto ‘raffinata’ (struttura che può essere utilizzata anche nella discussione dell’annoso problema di quali emozioni possono essere considerate “di base”, primarie, o universali), e sono coerenti con quelli di altre ricerche che mostrano come gli italiani posseggano un lessico ‘attivò emozionale più ampio di quello di persone appartenenti ad altre culture (Van Goozen e Frijda 1993; Zammuner e Galli 1999). Infine, nonostante questo tipo di studi sul lessico emozionale non vada esente da critiche (in particolare, l’ampio grado di soggettività nell’interpretazione ed ‘etichettare’ i risultati di una analisi dei cluster), i risultati ottenuti, soprattutto al livello subordinato, si possono prestare quali strumenti utili in ambito di ricerca - ad esempio, nell’interpretare eventuali differenze transculturali riscontrate, o nel disegnare un set di stimoli emozionali sperimentali.

Scopo di ulteriori ricerche potrà essere quello di verificare se tale struttura concettuale è stabile o non si modifichi invece funzione di variabili sociodemografiche e intraculturali (per es., la regione di provenienza), come essa venga acquisita, e, per quanto riguarda il prototipo di ciascun gruppo, quali ne sono gli elementi caratterizzanti e quali sono i termini che meglio lo designano.

* Ringraziamenti. I dati qui riportati sono stati raccolti ed analizzati con il competente aiuto di Giorgio Tricarico.

Riferimenti bibliograficiAgnoli , F. , Kirson , D. , Wu , S. e Shaver , P. (1989). Hierarchical analysis of the emotion

lexicon in English , Italian and Chinese. Paper presented at the Meeting of the International Society for Research on Emotion, Paris.

Shaver , P. , Schwartz , J. , Kirson , D. e ÒConnor , C. (1987). Emotion Knowledge: further exploration of a prototype approach. Journal of Personality and Social Psicology , 52 , 1061-1086.

Zammuner, V.L. (1998). Concepts of emotion: ‘Emotionness’, and dimensional ratings of Italian emotion words. Cognition and Emotion, 12, 243-272.

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POSTER - ERGONOMIA

ERGONOMIA

LAVORO A TURNI E DISAGIO FISICO E PSICOLOGICO. INDAGINE PRELIMINARE SU UN

CAMPIONE DI 270 INFERMIERI

Francesco Versace, Corrado Cavallero, Romina CurtoDipartimento di Psicologia, Università di Trieste

Al momento attuale la figura dell’infermiere è interessata da numerosi cambiamenti sia a livello legislativo sia a livello operativo (ad es. abolizione del “mansionario”, istituzione del Corso di Diploma ecc.) che stanno conducendo a una modificazione delle responsabilità e dei compiti affidati all’interno degli ospedali a questa figura professionale. In questo clima di cambiamento un notevole interesse da parte del personale infermieristico è indirizzato non solo verso la individuazione delle specifiche mansioni di competenza e dei carichi di lavoro, ma anche verso i problemi della organizzazione del lavoro in generale (ruolo più attivo e collaborazione con il personale medico), della qualità del servizio erogato, della sicurezza e della salute sia a breve sia a lungo termine. A questa tendenza già in atto si sono affiancate, nell’ambito dell’igiene e della sicurezza sul lavoro, le nuove norme introdotte dalla legge “626”. Il singolo operatore non viene più considerato solo come destinatario “passivo” dei provvedimenti riguardanti la sicurezza elaborati dal datore di lavoro, ma come una figura attiva sia nella fase di individuazione dei fattori di rischio sia nella fase operativa di realizzazione di contromisure volte alla riduzione dei rischi (Gabassi, De Tina, Perin, 1998). Questo nuovo approccio alla sicurezza ha suscitato notevole interesse da parte del personale infermieristico verso aspetti legati alla salute che solitamente sono stati trascurati da parte di chi fino ad ora ha gestito l’organizzazione del lavoro. In particolare l’area connessa al regime di turnazione viene indicata come “critica” non solo per quanto riguarda gli aspetti strettamente ergonomici (ad esempio maggior probabilità di errori nel corso del turno notturno), ma anche per le potenziali conseguenze negative sulla vita sociale e sulla salute del personale impegnato in turni notturni. Purtroppo le connessioni che esistono tra fattori biologici, sociali, ergonomici e variabili di personalità rendono difficoltosa l’indagine in questo settore mascherando e confondendo gli effetti negativi dovuti al regime di turnazione in sé. Inoltre le differenze degli strumenti di indagine utilizzati, spesso orientati all’indagine solo di aspetti specifici del problema (ad es. incidenza dei disturbi fisici o psicologici in funzione della anzianità di servizio; misurazione di variabili fisiologiche in funzione delle caratteristiche del turno; caratteristiche di personalità e grado di adattamento al lavoro notturno), hanno reso difficoltoso il confronto e la condivisione dei risultati ottenuti dai diversi gruppi di ricerca producendo una fotografia frammentaria del tema in esame. Recentemente è stato introdotto un nuovo strumento di indagine che negli intenti dei ricercatori che l’hanno messo a punto dovrebbe consentire il superamento sia dei problemi psicometrici sia della parzialità dei risultati ottenuti attraverso i questionari fino ad ora utilizzati: lo Standard Shiftwork Index (Barton, Spelten, Totterdell, Smith, Folkard e Costa, 1995). Dell’originale in lingua inglese

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POSTER - ERGONOMIA

sono state effettuate traduzioni in diverse lingue e in questo lavoro si è fatto riferimento alla versione in italiano curata da Martoni e Natale. Lo SSI che, in generale, si ispira al modello a tre fattori di Monk (1988) (il “disagio” dovuto al lavoro a turni emergerebbe dalla interazione di fattori circadiani, fattori riguardanti il sonno e fattori socio-familiari, mediati dallo stile di coping specifico del soggetto preso in esame e si esprimerebbe con disturbi riguardanti queste specifiche aree e attraverso sintomi di disagio fisico e psicologico) indaga attraverso scale specifiche e con buone caratteristiche psicometriche l’area del sonno e dei suoi disturbi, l’area riguardante i ritmi circadiani, lo stato di benessere psicofisico, la situazione sociale e familiare del turnista, i fattori di personalità e le strategie di coping, oltre che, naturalmente, le caratteristiche del regime di turni in cui il soggetto è impiegato.

La presente ricerca ha coinvolto il personale infermieristico impegnato in turni notturni di due ospedali facenti capo alla stessa Azienda Sanitaria Locale. Sono stati distribuiti in 20 reparti 550 questionari dei quali ne sono stati restituiti 270. Per ogni soggetto sono stati calcolati i punteggi di ogni sottoscala e questi valori sono stati utilizzati per condurre le analisi statistiche miranti a indagare le conseguenze a breve e a lungo termine dei diversi tipi di turno di lavoro e a valutare l’esistenza di correlazioni significative tra le variabili indagate. I risultati emersi hanno fornito non solo dei dati utili all’acquisizione di un insieme di valori normativi riguardo un campione italiano, ma anche hanno fatto emergere la necessità, nella situazione specifica analizzata, di tenere maggiormente in considerazione, al momento della programmazione dei turni di lavoro, le caratteristiche del sistema circadiano umano (ad es. rotazione dei turni in senso orario anziché antiorario come adottato in entrambi gli ospedali, regolarità dei cicli di turni ecc.) e di fornire al personale impegnato un adeguato supporto clinico e una adeguata quantità di informazione riguardo, ad esempio, l’igiene del sonno. Anche in questo caso, come suggerito da Monk (1997) emerge la necessità della presenza di una figura specifica in grado sia di fornire un adeguato supporto sia clinico sia informativo ai turnisti sia di elaborare e mettere a punto soluzioni adeguate per quanto riguarda la gestione del personale e del lavoro.

Riferimenti bibliograficiBarton, J., Spelten, E., Totterdell, P., Smith, L., Folkard, S., Costa, G. (1995). The Standard

Shiftwork Index: a battery of questionnaires for assessing shiftwork-related problems. Work and Stress, 9 (1) 4-30.

Gabassi, P. G., De Tina, M., Perin, G. (1998). Comportamenti lavorativi a “rischio” e sicurezza lavorativa nella prospettiva ergonomica. Aspetti psicologici e giuridici. Edizioni Goliardiche, Trieste.

Monk, T. H. (1988). How to make shift work safe and productive, Des Plaines, III. American Society of Safety Engineers. Citato in: Monk, T.H. e Folkard, S. (1992). Making Shiftwork Tolerable. Taylor & Francis, London.

Monk, T.H. (1997). Shift Work. In: M. Pressman e W. Orr (Eds.) Understanding Sleep. American Psychological Association Washington.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E MODELLI CONNESSIONISTICI

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POSTER - ERGONOMIA

EVOLUZIONE DI DIFFERENTI FORME DI MODULARITÀ IN SISTEMI NEURALI

Andrea Di Ferdinando, Raffaele CalabrettaIstituto di Psicologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma

La ricerca nel campo delle neuroscienze sembra avere oramai riconosciuto il fatto che i processi cognitivi umani vengono realizzati mediante l’uso di moduli specializzati (vedi, ad esempio, Moscovitch e Umiltà, 1990) e pertanto la modularità della mente viene considerata come uno degli assunti fondamentali del cognitivismo (Fodor, 1983).

Ci sono numerose prove empiriche del fatto che l’informazione che entra nel nostro sistema nervoso passa attraverso diverse “vie” neurali, e dunque diverse strutture nervose, dove viene sottoposta a differenti tipi di elaborazione. Il cervello non sembra essere, quindi, un sistema unico ed omogeneo bensì un insieme di “moduli” ognuno specializzatosi nel trattare uno specifico tipo di informazione. Per esempio, il fenomeno delle afasie dimostra che ci sono diverse aree di competenza linguistica nel cervello, ognuna abbastanza indipendente dalle altre al punto che in caso di lesioni il danno può essere limitato a certi aspetti della nostra competenza linguistica e non ad altri. Tuttavia, nonostante ci siano oggi numerose prove empiriche a favore di questa modularità neurale, l’analisi volta a stabilire perché essa si sia evoluta è un’analisi di tipo fondamentalmente computazionale. Si tratta, infatti, di stabilire qual è il vantaggio evolutivo di tale caratteristica e, se consideriamo il cervello come un sistema di elaborazione dell’informazione, questo vantaggio non può che essere di tipo computazionale.

Nell’affrontare tale problema abbiamo fatto uso di una metodologia che permette la simulazione al computer del sistema nervoso: i modelli connessionisti o reti neurali (Rumelhart et al., 1986). In questo quadro teorico, studiare la modularità significa in pratica concentrarsi sul pattern di connettività tra le unità che costituiscono la rete neurale. Sebbene anche all’interno del quadro teorico connessionista sia difficile trovare una definizione univoca di modularità, è possibile tuttavia esaminare alcuni modi diversi con cui si è soliti riferirsi ad essa e tentare di capire quali siano le caratteristiche comuni ai diversi tipi di modularità neurale. Abbiamo analizzato, in particolare, due tipi di modularità neurale che possono essere implementati nei modelli connessionisti e a cui ci riferiremo con il nome di modularità temporale e modularità spaziale. Queste due diverse forme di modularità hanno in comune la caratteristica che ad un certo punto, lungo il percorso neurale che va dagli input sensoriali agli output motori, “l’autostrada” dell’informazione si divide in due o più strade differenti. Mentre nel primo caso ciò avviene in momenti diversi, tutta l’informazione, cioè, passa o per una strada o per l’altra a seconda della situazione, nel secondo caso l’informazione prende sempre tutte le direzioni possibili. In altre parole, mentre i moduli temporali sono alternativi, ed è quindi necessario un qualche meccanismo di selezione che decida dove far passare l’informazione, i moduli spaziali sono complementari, nel senso che sono tutti necessari per risolvere un determinato compito.

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POSTER - ERGONOMIA

Facendo uso di algoritmi genetici (Holland, 1975), ossia di algoritmi che usano modelli computazionali di alcuni dei meccanismi dell’evoluzione, abbiamo eseguito una serie di simulazioni che prendevano in considerazione l’evoluzione della modularità nei due diversi casi. L’apparato metodologico costituito dai modelli connessionisti e dall’uso di algoritmi che si ispirano a fenomeni biologici quali gli algoritmi genetici, è secondo noi di notevole utilità se non si vogliono trascurare, come invece è stato fatto finora, i diversi livelli di analisi che appaiono essere fondamentali per lo studio della mente in generale e della sua evoluzione in particolare. Ci riferiamo soprattutto al livello comportamentale e a quello genetico che, qualora si volesse arrivare a capire la mente umana nella sua interezza, andrebbero studiati insieme a quello neurofisiologico. L’approccio della Vita Artificiale sembra permettere oggi questo studio integrato (Langton, 1989).

Facendo uso di tale approccio, abbiamo cercato di stabilire quali sono i legami tra i vari livelli coinvolti nell’evoluzione della modularità. In particolare, gli studi sulla modularità spaziale hanno suggerito un ruolo fondamentale esercitato dall’apprendimento individuale per l’evoluzione di tale caratteristica (Di Ferdinando & Parisi, 1999), mentre le ricerche sulla modularità temporale hanno evidenziato l’importanza di operatori genetici quali la duplicazione per l’evoluzione della specializzazione funzionale dei moduli (Calabretta et al., 1998). È nostra convinzione che dalla comparazione dei risultati ottenuti mediante le simulazioni delle diverse forme di modularità sarà possibile estrapolare importanti informazioni circa la natura e i vantaggi computazionali della organizzazione modulare, nonché suggerimenti sulle modalità con cui tale caratteristica si è di fatto evoluta negli organismi complessi.

Riferimenti bibliograficiCalabretta, R., Nolfi, S., Parisi, D. & Wagner G.P. (1998). A case study of the evolution of

modularity: towards a bridge between evolutionary biology, artificial life, neuro- and cognitive science. In Adami, C., Belew, R., Kitano, H. and Taylor, C. (eds.), Proceedings of the Sixth International Conference on Artificial Life. Cambridge, MA: MIT Press.

Di Ferdinando, A. & Parisi, D. (1999). Evolution of modularity in a vision task. In preparazione.

Fodor, J. (1983). Modularity of mind. Cambridge, MA: MIT Press.Holland J.H. (1975). Adaptation in natural and artificial systems. Ann Arbor, MI: The

University of Michigan Press (Second edition: Cambridge, MA: MIT Press, 1992).Langton, C.G. (1989). Artificial Life. Reading, MA: Addison Wesley.Moscovitch, M., & Umiltà, C. (1990). Modularity and neuropsychology: implications for

the organization of attention and memory in normal and brain-demaged people. In Schwartz, M. F. (ed.), Modular Deficits in Alzheimer-type dementia. Cambridge, MA: MIT Press.

Rumelhart D. and McClelland J. (1986). Parallel distributed processing: explorations in the microstructure of cognition. Cambridge, MA: MIT Press.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

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POSTER - ERGONOMIA

GLI STATI MENTALI DELL’INGANNATO

Mauro AdenzatoCentro di Scienza Cognitiva, Università di Torino

IntroduzioneL’inganno è un complesso fenomeno il cui studio richiede di integrare differenti

approcci concettuali. Adottando l’approccio evoluzionistico è stato possibile evidenziare come l’inganno possa essere studiato in riferimento al tipo di organizzazione sociale che ha caratterizzato la storia evolutiva del genere Homo(Adenzato e Ardito, 1999). Nel presente lavoro l’ottica adottata è di tipo cognitivo e l’attenzione viene posta sugli stati mentali esperiti da un individuo che riconosce un tentativo di inganno.

Riferimento teoricoLa teoria di riferimento della ricerca è la Pragmatica cognitiva (Airenti, Bara e

Colombetti, 1993). Secondo questa teoria due interlocutori possono comunicare efficacemente solo se le loro azioni sono condivise sulla base di un piano finalizzato al raggiungimento di un obiettivo comune, piano chiamato gioco comportamentale. Il gioco comportamentale è una struttura di comprensione grazie alla quale vengono di volta in volta selezionati i significati corretti da attribuire ad ogni mossa comunicativa. Un altro concetto proposto dalla Pragmatica cognitiva è la credenza condivisa, da intendersi come una credenza che un individuo ritiene soggettivamente di condividere con il proprio interlocutore. Le credenze condivise sono stati mentali che permettono ad ogni partecipante ad un’interazione comunicativa di dare per scontata la condivisione di una serie di credenze con il proprio interlocutore e di usare questo retroterra per aggiungerne altre. All’interno di questo quadro teorico, l’inganno è definibile come la rottura intenzionale delle regole che governano la sincerità in un gioco comportamentale, rottura finalizzata al raggiungimento di un obiettivo privato.

Obiettivo della ricercaLa ricerca parte dalla constatazione che durante un’interazione comunicativa tra A

e B, se B riconosce il tentativo da parte di A di ingannarlo, si possono verificare almeno tre differenti situazioni (le situazioni b-d successivamente descritte). In un’altra situazione (a) l’inganno non è propriamente riconosciuto, ma B lo fa comunque fallire. Queste quattro situazioni corrispondono a stati mentali distinti di B:

a) inganno non riuscito, ma neppure scoperto: B non crede a quanto detto da A, ma pensa che A ci creda.

b) inganno scoperto: tuttavia, B non crede che A si sia accorto che l’inganno è stato scoperto.

c) inganno scoperto: B pensa che A sia consapevole che l’inganno è stato scoperto, ma che non abbia capito che B sa che A se ne è accorto.

d) inganno scoperto: B pensa che A abbia capito non solo che l’inganno è stato scoperto, ma anche che B si è accorto che A è consapevole di essere stato smascherato.

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POSTER - ERGONOMIA

In linea di principio sono possibili altre situazioni: a livello competenziale non c’è limite alla complessità rappresentabile. A livello prestazionale, tuttavia, gli esseri umani sono incapaci di gestire situazioni che vanno oltre un limitato livello di complessità.

Seguendo l’approccio della Pragmatica cognitiva, le situazioni a-d possano essere descritte nei termini dell’incassamento dell’operatore di credenza condivisa all’interno di una sequenza alternata di operatori di credenza semplici. L’ipotesi sviluppata in questo lavoro è che tra le situazioni a-d esista un trend di difficoltà crescente.

Metodologia sperimentaleSoggetti: hanno partecipato alla ricerca tre diversi campioni sperimentali: 30

bambini (7-11 anni), 30 adulti (21-27 anni) e 30 anziani (65-88 anni).Materiale: il protocollo sperimentale si compone di otto storie, ognuna di otto

scenette disegnate. Le storie narrano di eventi quotidiani e sono ambientate in contesti familiari. Per ogni storia K stata ideata una serie di domande volte ad accertare la comprensione, da parte del soggetto sperimentale, degli stati mentali dei protagonisti delle vicende narrate.

Il numero complessivo di domande poste ad ogni soggetto è di 32.Procedura: ai soggetti veniva letta la consegna. Successivamente si chiedeva al

soggetto se pensava di aver compreso la vicenda o se voleva rivederla. Quindi si passava alle domande previste dal protocollo. L’ordine di somministrazione delle otto storie è stato randomizzato. Le risposte dei soggetti sono state audioregistrate e successivamente trascritte. La valutazione delle risposte è stata data indipendentemente da due sperimentatori all’oscuro dell’ipotesi di lavoro.

Risultati e discussioneI risultati confermano l’ipotesi di lavoro. Esiste un trend di difficoltà crescente tra

le situazioni a-d precedentemente descritte (p< .01). Il risultato conferma come la teoria della pragmatica cognitiva possa fare delle previsioni sul livello di complessità di un inganno, determinando tale complessità in funzione dell’incassamento dell’operatore di credenza condivisa all’interno di una sequenza alternata di operatori di credenza semplici.

Riferimenti bibliograficiAdenzato M. e Ardito R.B. 1999. The role of theory of mind and deontic reasoning in the

evolution of deception. Proceedings of the XXI Conference of the Cognitive Science Society.

Airenti G., Bara B.G. e Colombetti M. 1993. Conversation and behavior games in the pragmatics of dialogue. Cognitive Science, 17, 2, 197-256.

INTEGRAZIONE AUDIOVISIVA E CONTESTO COMUNICATIVO: EFFETTO MCGURK NELLA

COMPRENSIONE DEL DISCORSO

Silvana Contento

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POSTER - ERGONOMIA

Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna

PremessaCome noto, l’effetto McGurk (fenomeno di fusione visivo-uditiva sincronica e

conflittuale), è stato testato in recenti esperimenti di laboratorio (Dekle, Fowler, Funnell, 1992; Green, Gerdman, 1995; Walker, Bruce, ÒMalley, 1996). Questi lavori mostrano che le informazioni visive integrano contestualmente quelle provenienti da fonti acustiche indicando che la percezione dei suoni del parlato dipende da un insieme complesso di indici anche non verbali.

In quale misura però, in condizioni naturali di ascolto, comprensione e ricordo di un messaggio variano in funzione delle componenti non verbali espresse dai locutori? L’ipotesi è che elaboriamo dei significati sulla base di rappresentazioni complesse che ci formiamo a partire dal contenuto verbale del discorso, ma anche dall’incidenza di un insieme di indici non verbali che accompagnano il parlato.

MaterialiAbbiamo scelto, da un dibattito televisivo sulla situazione algerina, una sequenza

di 4 minuti e 30 secondi (Testo O), che rappresentava il momento più intenso del conflitto tra due interlocutori B (rappresentante di un movimento non governativo algerino) e L (giornalista americano rappresentante dell’Associated Press in Italia). Il dibattito era condotto da S (giornalista italiano). Sono stati contati i tempi dei primi piani (B:77 sec., L:22 sec.,S:13 sec.) e dei piani americani (B:27 sec.; L:10 sec.; S: 5sec.). L’analisi testuale del dibattito ha evidenziato 8 fasi tematiche o sottodiscorsi (<1/>5 turni brevi) dalle quali sono state estratte 21 brevi citazioni corrispondenti a turni di parola dei tre interlocutori.

Il filmato è stato importato su Pentium 200 con Targa 1000 True Vision, digitalizzato e rimontato utilizzando i programmi Photo Shop et Adobe Première. Abbiamo così prodotto un testo modificato6 (Testo M) in cui parte dei primi piani dei tre locutori è stato sostituito con fotogrammi “neutri” della medesima trasmissione (primi piani di spettatori, campi medi, panoramiche, ecc) conservando però, come in Testo O, per ogni turno di parola corrispondente ad ogni singola citazione, il primo piano del locutore per un tempo inferiore a 5 secondi. Nelle due versioni del testo l’audio è stato mantenuto inalterato.

Soggetti e compitoSoggetti: due gruppi di 28 e 35 studenti dell’Università di Bologna. Al primo

gruppo (CE) è stato mostrato il filmato originale (Testo O). Al secondo gruppo (BO) è stato mostrato il filmato manipolato (Testo M).

Compito: subito dopo la visione del filmato è stato chiesto ai soggetti di indicare, su scala visuo-analogica, quanto ricordassero di aver udito ognuna delle 21 citazioni.

Risultati e discussioneNell’insieme i due gruppi CE e BO non hanno mostrato differenze significative

nella quantità di ricordo delle citazioni, anche se coloro che hanno visto il Testo 0 (gruppo CE) hanno mostrato una prestazione superiore. Una analisi più attenta al rapporto specifico

6 Il montaggio del filmato è stato effettuato da Mirko Ferrari

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dei contenuti verbali e visivi dei turni di parola mostra invece differenze significative rispetto a particolari citazioni:

Frasi 7-9: Audio: S chiede a L di spiegare perché la stampa americana considera l’opposizione algerina non democratica. Video: la telecamera riprende L che commenta non verbalmente la domanda con atteggiamento di disapprovazione. L’analisi delle differenze tra CE e BO è risultata significativa: F(1,60) = 6.46; p <.01. L’interazione per le 4 variabili è significativa: F(3,180) = 3,79; p <.01.

Frasi 16-20: Audio: B accusa la stampa internazionale di disinteresse sulla questione algerina. Video: L si mostra irritato e commenta con lo sguardo, i gesti, la cinesica del volto quanto dice l’interlocutore. Anche in questo caso la differenza tra BO e CE è significativa: F(1,59) = 7.41; p <.008.

In entrambi i casi il contenuto verbale non è illustrato da immagini che riprendono lo stesso locutore. Al contrario il filmato presenta un contenuto visivo che si dissocia da quanto elaborato linguisticamente. Colui che è ripreso esprime non verbalmente dei contenuti metacomunicativi su quanto lo spettatore sta ascoltando. Il ricordo delle citazioni aumenta quindi in funzione dell’interazione delle due fonti del messaggio come recentemente confermato (Patterson, 1995) circa la qualità dei processi percettivi del non verbale in una prospettiva funzionale.

Considerazioni conclusiveLe discrepanze cross-modali nell’integrazione dell’informazione verbale

modificano l’elaborazione dei contenuti del discorso. I soggetti colgono la mediazione cognitiva che i locutori operano nella comunicazione del contenuto ideativo e delle emozioni (Arndt, Janney, 1991) e nella negoziazione dell’attività interpersonale. Gli aspetti non verbali, prosodici, cinesici e paralinguistici partecipano e integrano l’attività verbale (Ford, Fox, Thompson, 1996) in una ottica multimodale della comunicazione. Ciò apre interessanti prospettive nell’ambito della ricerca sia sulla comprensione sia sulla produzione del linguaggio in situazioni naturali seppure controllate.

Riferimenti bibliograficiArndt H., Janney R.W.(1991) Verbal, prosodic and kinesic emotive contrasts on speech.

Journal of Pragmatics 15(6): 521-549.Dekle D., J., Fowler C.A., Funnell M.G. (1992) Audiovisual integration in perception of

real words, Perception and Psychophysics, 51(4), 355-362.Ford C.E., Fox. B. A., Thompson S.A. (1996) Practices in the Construction of Turns: The

“TCU” Revisited. Pragmatics 6, 3: 427-454.Green, K., Gerdman, A (1995). Cross-modal discrepancies in coarticulation and the

integration of speech information. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, vol 21(6), 1409-1426.

Patterson M. L. (1995) A parallel process model of non verbal communication. Journal of Nonverbal Behavior 19(1): 3-29.

Walker S:, Bruce V., ÒMalley C. (1995). Facial identity and facial speech processing: familiar faces and voices in the McGurk effect. Perception and Psychophysics, 57 (8), 1124-1133.

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PERCORSI INFERENZIALI PER LA COMPRENSIONE DELL’INTENZIONE COMUNICATIVA: UNO STUDIO

SUL TRAUMA CRANICO

Ilaria Cutica, Maurizio TirassaCentro di Scienza Cognitiva, Università e Politecnico di Torino

IntroduzioneScopo del lavoro è indagare il processo di comprensione dell’intenzione

comunicativa di un attore. Secondo la teoria della pragmatica cognitiva di Airenti, Bara e Colombetti (1993), tale processo si svolge attraverso due fasi consecutive:

1. Riconoscimento dell’atto espressivo. Il partner analizza l’atto comunicativo nei termini del suo contenuto proposizionale, ossia del significato convenzionalmente associato ad esso;

2. Riconoscimento del significato del parlante. Il partner ricostruisce le intenzioni comunicative dell’attore a partire dall’atto espressivo tramite una serie di inferenze che si svolgono nello spazio di conoscenza condivisa.

Per ciascuna fase esiste un insieme specifico di regole inferenziali di livello base che definisce le inferenze dipendenti dal dominio che possono essere compiute, e che si attiva per default. Le inferenze per default possono essere bloccate qualora le conclusioni raggiunte risultino incompatibili con il significato espresso, o con la conoscenza condivisa, o con il gioco comportamentale in atto. In questi casi interviene un metalivello inferenziale, che respinge la conclusione incongruente raggiunta e attiva la ricerca di una nuova conclusione. Il processo di comprensione che segue la via inferenziale di default viene detto percorso standard; quello in cui deve invece intervenire il metalivello inferenziale, viene detto percorso non standard.

Una popolazione neurologica, i pazienti con esito di trauma cranio-encefalico, è particolarmente adatta allo studio di fenomeni pragmatici: ad un’abilità linguistica buona si sovrappone un’importante difficoltà a utilizzare efficacemente il linguaggio (Groher, 1983). Tali pazienti hanno inoltre, per i deficit del pensiero astratto, difficoltà nei compiti che richiedono di assemblare informazioni provenienti da fonti differenti per trarne una conclusione unitaria. In virtù di tali caratteristiche ci è parso utile indagare in questo tipo di pazienti le differenze tra la comprensione di atti comunicativi standard e non standard. Abbiamo scelto di indagare non la comunicazione linguistica ma quella extra-linguistica (Bara e Tirassa, in corso di stampa): escludere il linguaggio dal protocollo permette di testare la competenza comunicativa anche in quei pazienti che presentavano deficit di linguaggio (forme, anche lievi, di afasia). In questo modo è stato possibile lavorare sul deficit pragmatico.

MetodoIl protocollo era composto da 16 scenette videoregistrate che mostravano due o più

attori intrattenere brevi interazioni comunicative; sono state create tre scenette per ciascun tipo di atto pragmatico indagato (atti standard semplici, atti standard complessi, inganni, ironie). Al temine di ciascuna scena, lo sperimentatore mostrava al paziente una grande fotografia (formato 21 x 29.5) che rappresentava l’ultimo fotogramma della scena appena

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vista. A uno dei personaggi della fotografia era stata apposta una nuvoletta bianca come quelle dei fumetti, che ne rappresentava il pensiero; compito dei pazienti era attribuire a quel personaggio l’intenzione comunicativa sottostante il comportamento visto nella scena. I pazienti rispondevano scegliendo l’intenzione comunicativa tra quattro alternative presentate dallo sperimentatore: le alternative erano quattro piccole fotografie che mostravano ciascuna un’intenzione comunicativa agita dal personaggio in questione. I pazienti dovevano sceglierne una e collocarla nella nuvoletta bianca all’interno della foto grande.

SoggettiSono stati testati individualmente 30 pazienti con esito di trauma cranio-encefalico

-21 maschi e 9 femmine- di età compresa tra i 17 e i 40 anni, ricoverati presso un centro riabilitativo, in un momento prossimo alla dimissione. È stato sottoposto al test anche un gruppo di controllo comparabile per età, sesso e scolarità.

RisultatiI soggetti sperimentali ottengono una percentuale di risposte corrette pari al 92%

negli atti standard semplici e al 90% ai complessi, non evidenziando alcuna differenza statisticamente significativa rispetto al gruppo di controllo. La loro prestazione decade invece nella comunicazione non standard, in cui ottengono il 71% di risposte corrette per gli inganni e il 44% per le ironie. In entrambi i casi la differenza rispetto ai controlli è altamente significativa (p(.0001 al Mann-Whitney test). All’interno del percorso standard, si prevedeva che gli atti comunicativi semplici fossero più facili dei complessi; all’interno della comunicazione non standard, si prevedeva che l’inganno fosse più facile dell’ironia. Infatti l’ironia è un fenomeno pragmatico strettamente dipendente dal linguaggio: parte del suo significato viene veicolato dal mezzo linguistico stesso (si pensi all’intonazione, o alla scelta delle sfumature delle parole, tutte finezze scarsamente presenti nel mezzo extra-linguistico). Il trend previsto era dunque il seguente: atti comunicativi semplici ( atti comunicativi complessi    (inganni, ironia). Questa ipotesi è stata confermata attraverso il test L-Page (p(.01). Non è stato invece evidenziato alcun trend nella prestazione dei soggetti di controllo che, pur seguendo lo stesso andamento dei pazienti (considerando i valori espressi in percentuale), presenta una prestazione più omogenea nelle diverse prove.

ConclusioniI risultati, confermando la differenza tra comunicazione standard e non standard,

portano evidenza a favore dell’ipotesi che il gradiente di difficoltà tra i due tipi di comunicazione non sia graduale, ma dicotomico. I pazienti non trovano difficoltà nell’applicare regole inferenziali di default, per complesse che siano; tuttavia la prestazione deficitaria riscontrata nella comunicazione non standard conferma la necessità dell’intervento di un livello inferenziale qualitativamente diverso. I pazienti non si dimostrano in grado di gestire le differenze che possono emergere tra informazioni contrastati; ne è prova la loro prestazione alle prove di ironia. A fronte del 44% di risposte corrette, abbiamo ottenuto un 40% di risposte letterali, ossia che indicavano l’interpretazione ‘letteralè del gesto comunicativo, a dispetto del contesto ironico (gli errori casuali, per non comprensione della scena, erano limitati al restante 16%). I pazienti cioè si

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fermavano alla comprensione dell’atto espressivo (prima fase del processo di comprensione), senza compiere le integrazioni successive.

Riferimenti bibliograficiAirenti G., Bara B. G., Colombetti M., (1993): Conversation and behavior games in the

pragmatics of dialogue. Cognitive Science, 17: 197-256.Bara B. G., Tirassa M., (in corso di stampa): Communicative meaning in linguistic and

extra-linguistic communication.Groher M. (1983): Communication disorders. In Rosenthal M. et al., Rehabilitation of the

head injured adult. FA Davis Company, Philadelphia.

LA PRAGMATICA METACOGNITIVA DEL SELF TALK

Giuseppe MininniDipartimento di Psicologia, Università di Bari

Com’è noto, l’universo dei fenomeni di comunicazione è così sconfinato da richiedere molteplici ottiche di analisi. Un settore in cui il punto di vista della psicologia è senz’altro decisivo è etichettato come “comunicazione intrapersonale”, che però ha uno statuto incerto nella letteratura (Aitken e Shedletsky 1995), giacché gli si può riconoscere sia il carattere dell’autoevidenza e della massima distribuzione (McQuail 1994), sia il carattere della paradossalità e del vuoto concettuale (Cunningham 1989; 1992). Si tratta di un’area di ricerca minata dal paradosso, perché da una parte è difficile negare l’esperienza di un “dialogo interiore”, tant’è che sarebbe persino possibile calcolarne la consistenza (Korba 1990); dall’altra, sembra controintuitivo immaginare un processo di comunicazione che non coinvolga (almeno) due esteriorità. Invero una tale incertezza    non è affatto sorprendente, in quanto le molteplici componenti semantiche evocate dall’espressione suddetta – Sé, mente, significato, comunicazione, coscienza – sono già di per sé complesse e controverse. Pertanto, una psicologia della comunicazione (Anolli e Ciceri 1996) ha il compito primario di elaborare modelli esplicativi di tutto ciò che si può profilare come “interazione semiotica tra Sé e Sé”. Ove ci si impegni a estendere il paradigma della psicologia del linguaggio in modo da renderla in sintonia con l’epistemologia postmoderna, può tornare utile, come suggerisce Forrester (1996: 16), inquadrare lo studio dei rapporti tra pensiero e linguaggio in termini di “Self-communication”.

Verrà proposta una rassegna delle principali posizioni recentemente emerse nel dibattito sulla “comunicazione intrapersonale”, che verrà documentato anche mediante l’analisi dei contributi inviati a una Newsgroup su tale argomento (nel settembre 1996). L’obiettivo di tale rassegna è mostrare come l’adozione di molteplici etichette per identificare il fenomeno –“inner speech”, “inner dialogue”, “private speech”, “Self talk”—comporta l’adesione a diverse prospettive teoriche e, di conseguenza, una differente valorizzazione dei processi verificabili a tale livello di comunicazione, che si apre a molteplici modalità “applicative” (Goss 1995).

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Nel paradigma di psicologia discorsiva qui adottato, il Self Talk può rendere operativo un piano plurisfaccettato di costruzione dell’intenzionalità. La natura dialogica del parlarsi evidenzia che l’intenzionalità propria del linguaggio è primariamente di ordine collettivo (Searle 1991). Evidenziare che, per avere il valore psicologico di risorsa per il sé, il linguaggio interiore deve strutturarsi conversazionalmente (o dialogicamente) significa immettere le poste in gioco dei contratti di comunicazione nel cuore intenzionale dell’uomo, là dove si fabbricano memorie e progetti, ogniqualvolta cioè si elaborano interpretazioni del mondo (fisico e/o sociale). La contrattazione intrapersonale svolge diverse funzioni, come dimostra il diverso uso che della “stream of consciousness” si è fatto sul piano letterario e paraletterario (cfr. Mininni 1992).

La portata intenzionale dei processi della comunicazione intrapersonale trapela allorché alcuni suoi segmenti si materializzano in una catena sonora, sfuggendo al controllo inibitorio della coscienza. Infatti, in certe situazioni di enunciazione a forte salienza emotiva, il Self talk può esteriorizzarsi e rivelare le diverse funzioni dei processi di comunicazione intrapersonale che danno corpo alle molteplici voci che ci abitano normalmente e che esibiscono una loro radicale differenza rispetto al progetto di interazione socio-comunicativa in cui siamo impegnati.

L’analisi verte su alcuni enunciati autodiretti prodotti dagli studenti nella situazione di esame (orale), che sono stati da me annotati nell’arco dei 18 appelli di Psicolinguistica e Psicologia delle comunicazioni sociali degli ultimi due anni accademici. Il corpus di tali “capta” discorsivi e situati è composto da 45 segmenti di risposte elaborate dagli studenti. Naturalmente, alla fine dell’esame, ho segnalato allo studente la mia annotazione e ho ottenuto il suo consenso allo studio del fenomeno, di cui egli/ella era stato/a, senza saperlo, soggetto partecipante.

Verrà presentata un’analisi funzionale di tali enunciati tesa a rintracciare l’ordito mobile dei posizionamenti con cui i parlanti costruiscono il loro Sé personale e ne controllano l’accettabilità mediante un’ininterrotta attività metacognitiva.

Riferimenti bibliograficiAitken, J.; Shedletsky, L.J. (eds.) (1995). Intrapersonal Communication Processes,

Westland (Michigan): Speech Communication Association and Midnight Oil Multimedia, Inc.

Anolli, L.; Ciceri, R. (a cura di) (1996). Elementi di psicologia della comunicazione , Milano: LED

Cunningham, S.B. (1992). “Intrapersonal communication. A review and a critique”. In: S.A. Deetz (ed.), Communication Yearbook 15, 597 – 620.Newbury Park: Sage.

Forrester, M.A. (1996). Psychology of language. A critical introduction, London: Sage.Goss, B. (1995). The psychology of human communication, Prospect Height (Illinois):

Waveland Press.Korba, R.J. (1990). “The rate of inner speech”, Perceptual and motor skills, 71 (3)Pt 1.

1043 – 1052.McQuail, D. (1994). Mass Communication Theory : An introduction, London: Sage (tr. it.

di G. Mazzoleni, Sociologia dei media, Bologna: Il Mulino).Mininni, G. (1992). Diatesti. Napoli: Liguori.Vocate, D.R. (ed.) (1994). Intrapersonal communication. Different voices, different minds,

Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates.

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L’INTERAZIONE COMUNICATIVA TRA INFERMIERE E PAZIENTE

Giulia SavareseDipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno

PresentazioneLe relazioni sociali sono sempre indispensabili e complicate per i molteplici aspetti

relazionali e comunicativi che le compenetrano. Una relazione particolare, di aiuto, tra infermiere e paziente presenta molte problematiche inerenti tali aspetti, complicate dall’instabilità emotiva che la malattia crea al paziente e dal ruolo “camice” che l’infermiere deve istituzionalmente sostenere nella sua professione.

A questo proposito, anche in vista di una riforma del curriculum della scuola per infermieri, si è condotto uno studio con allievi infermieri, tirocinanti ed infermieri professionali. Attraverso un questionario con domande aperte e chiuse, ispirato ad alcuni esercizi di valutazione di Carpineta (1992), si sono cercate di valutare le componenti comunicative e interazionali della relazione tra paziente e l’infermiere, tra paziente e tirocinanti e tra paziente ed allievi infermieri.

Scopi dello studioNel complesso, si vuole verificare se la pratica lavorativa ed il contatto quotidiano

con i pazienti ospedalizzati mutino l’immagine idealizzata che, in genere, come attestato anche dalla letteratura esistente, gli allievi posseggono al momento di iscriversi ai corsi di formazione per infermieri professionali. Un mutamento in negativo significherebbe, tra l’altro, un insufficiente possesso, in fase formativa, di conoscenze e tecniche sulla comunicazione-interazione con il paziente.

MetodoSoggetti

I soggetti sono 69 così suddivisi: – un gruppo costituito da 14 allievi infermieri di età compresa tra i 19 ed i 36 anni

di età, frequentanti il primo anno della scuola per infermiere professionale di Torre Annunziata, in provincia di Napoli;

– lo stesso gruppo di allievi (ridotti nel numero a 11 unità per trasferimenti vari) a cui è stato somministrato il test nuovamente dopo quattro mesi intensivi di tirocinio pratico presso l’ospedale di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli;

– un gruppo di 55 infermieri professionali di età compresa tra i 28 e i 59 anni di età operanti presso l’ospedale di Castellammare di Stabia.Strumento

Lo strumento consiste in un questionario ispirato ad alcuni esercizi di valutazione della comunicazione infermiere-paziente di Carpineta (1992). Le domande, 40 in totale, sono 32 di tipo chiuso ed 8 di tipo aperto, raggruppate per insiemi tematici. Si è adottata,

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come strumento per l’esame del questionario, l’analisi delle corrispondenze (AC), in grado di dare la migliore rappresentazione simultanea di un insieme di variabili qualitative, ciascuna con più modalità.

RisultatiI risultati mostrano che l’attesa degli allievi di un paziente pulito, curato, di un

contesto sereno e di una comunicazione efficace sfuma anche solo dopo pochi mesi di tirocinio. Gli infermieri, poi, appaiono addirittura demotivati e particolarmente negativi nella valutazione della relazione con il paziente.

Ci siamo resi conto, così, che anche, e solo, quattro mesi di tirocinio pratico bastano a far mutare quanto creduto, e forse sperato, prima di entrare a contatto diretto con i malati. Il lavoro di tanti anni, poi, rende, ed è il caso degli infermieri professionali, troppo esperti nella pratica clinica e poco nell’interazione umana. Infatti ciò che maggiormente appare chiaro dall’analisi delle corrispondenze è proprio questa opposizione tra allievo/uomo e paziente ed infermiere/tecnico e paziente. Vogliamo dire in pratica che abbiamo notato come l’avere a che fare giorno dopo giorno con la malattia renda gli infermieri poco inclini al dialogo con il paziente, poco attenti all’umore o al linguaggio analogico del paziente, ma attentissimi agli sbalzi di temperatura o al lavaggio che è prossimo a terminare.

ConclusioniAuspicheremmo, in clima di riforma, un potenziamento delle problematiche

comunicative nell’iter didattico: i nuovi futuri infermieri dovrebbero poter essere istruiti e comunque aggiornati costantemente con nozioni riguardanti: a) la programmazione neurolinguistica, cioè il modo in cui strutturare delle domande sul modello terapeutico; b) il metodo CCRT, “Core Conflict Relational Theme”, atto a modificare gli schemi rigidi di relazione presenti in genere nelle    patologie; c) la medicina patient centered, cioè un completamento della funzione diagnostica, una integrazione del modello biomedico, tradizionale, con una attenzione particolare ai sentimenti del paziente;    d) la pragmatica della comunicazione e cioè il modo in cui la comunicazione a tutti i livelli, verbale, paraverbale e nonverbale, influenza il comportamento.

Riferimenti bibliograficiAgostini A., Poletti P., Zanotti R. e Vian F. (1989), Perché si iscrivono alla scuola per

infermieri? Rivista dell’infermiere, 1, 28-37.Bellelli G. e Iacono G. (1979), Lo psicologo e l’ospedale come processo organizzativo. In:

Cesa-Bianchi M. (a cura di), op. cit.Capello C. e Fenoglio M. T. (1992), Perchè mai mi curo di te. Rosenberg & Sellier, Torino.Carpineta S. (1992), La comunicazione infermiere-paziente. Nis, Roma, 1993.Ceroni C. et al. (1989), Rapportarsi ai pazienti: valenza e significato delle abilità sociali

del nursing. Rivista dell’infermiere, 1, 6-11.Di Giulio P. (1987), I problemi dei pazienti: percezione da parte degli infermieri e dei

pazienti. Rivista dell’infermiere, 2, 103-106.Giovannini D. (1982), Quali abilità sociali per l’infermiere? Rivista dell’infermiere, 1, 40-

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Marchi M.R., Pierallini M. e Rossi F. (1987), Un corso di formazione sulla comunicazione non verbale. Rivista dell’infermiere, 6, 107-113.

Mosa E. A. e Vegni E. (1997), La comunicazione e la relazione fra medico e paziente e la medicina patient centered. “Ricerche di Psicologia”, 4, 441-445.

PROBLEMI DELLA DECODIFICAZIONE DEL MESSAGGIO PUBBLICITARIO

Giovanni Sprini, Stefania GrifòDipartimento di psicologia, Università di Palermo

IntroduzioneLa consapevolezza della complessità ed ambiguità che caratterizza spesso il

linguaggio pubblicitario ed il grado con cui può dare adito ad incongruenze tra significati originari di un messaggio e quelli attribuitigli da chi lo riceve rappresentano una continua sfida per la ricerca volta a verificare l’efficacia persuasiva della pubblicità. La presente ricerca assume come base la teoria di Quillian (1969) sui processi di elaborazione semantica per diffusione di attivazione che si basa su un modello a rete di memoria i cui nodi e le cui connessioni rappresentano rispettivamente i concetti e le loro relazioni. Assumendo questi presupposti teorici e con l’ausilio del paradigma di decisione lessicale (vedi Meyer e Schvaneveldt 1971) la ricerca si propone di verificare la comprensibilità dei contenuti linguistici di alcuni spot pubblicitari selezionati per l’ambiguità e complessità dei loro testi. La variabile dipendente è qui rappresentata dall’andamento dei tempi di reazione al compito che, sulla base dell’assunto ipotizzato da Quillian, saranno brevi in caso di associabilità semantica tra le informazioni in ingresso e lunghi nel caso contrario.

MetodologiaLa ricerca si articola in tre fasi:

somministrazione di un filmato montato ad hoc contenente gli spot oggetto di studio;

somministrazione del compito di decisione lessicale via computer con rilevazione dei tempi di reazione delle risposte;

somministrazione di un questionario aperto formulato allo scopo di ottenere informazioni supplementari sugli spot.Ha avuto come destinatario un gruppo di 80 matricole (47 F, 33 M) dell’anno

accademico 1997/98 estratte dalla popolazione dei corsi di laurea in Lettere ed in Economia che abbiamo assunto come ragionevolmente rappresentativo dell’universo.

Analisi ed interpretazione dei datiÈ stata effettuata un’analisi multivariata della varianza a cinque fattori, due fattori

between (sesso, facoltà e condizione) e due fattori within (prime e associabilità). Sebbene vi siano dati significativi in quanto ad attivazione semantica dei contenuti degli spot, questi non sembrano attribuibili alle parole chiave oggetto di studio.

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ConclusioniQuesta attivazione suffraga la comprensibilità dei contenuti dei testi studiati,

tuttavia non si può attribuire una funzione facilitante il processo di elaborazione di significato alle parole chiave usate dagli autori dei testi. Resta aperto l’interrogativo su quale possa essere stato il fattore scatenante l’attivazione riscontrata in tutte le campagne analizzate. Su questo si intende continuare ad indagare, e più in generale si nutrono buone speranze sulla applicabilità di questa metodologia che con successivi approfondimenti ed adeguamenti potrebbe costituire un nuovo canale di comunicazione tra due mondi analogamente affascinanti e ricchi di risorse: mondo pubblicitario e mondo psicologico.

Riferimenti bibliograficiMeyer D. e Schvaneveldt R. (1971). Facilitation in recognizing pairs of words: evidence of

a dependence between retrieval operations. Journal of Experimental Psychology, vol.90, 2, 227-284.

Quillian M.R. e Collins A.M. (1969). Retrieval time from semantic memory. Journal of Verbal learning and Verbal behavior, 8, 240-248.

MEMORIA E APPRENDIMENTO

INTERFERENZA E INIBIZIONE IN MEMORIA DI LAVORO VISUO-SPAZIALE

Cesare Cornoldi, Rossana De Beni, Paola Palladino, Tomaso VecchiDipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Numerose ricerche hanno recentemente messo in luce l’importanza di analizzare la struttura della memoria di lavoro non solo sulla base di dissociazioni legate al tipo di informazioni che vengono elaborate (e.g., visive vs. spaziali vs. verbali) ma anche in relazione al tipo di elaborazione che viene richiesta dal compito. In particolare, la distinzione tra processi passivi di ricordo e processi attivi di elaborazione sembra essere particolarmente rilevante per interpretare le differenze individuali nelle abilità visuo-spaziali e si è rivelata adeguata a spiegare il decadimento cognitivo collegato all’invecchiamento (Vecchi & Cornoldi, 1999): i soggetti anziani presentano un decadimento significativamente più marcato nei processi attivi di elaborazione in confronto ai processi passivi di ricordo che rimangono pressoché inalterati al crescere dell’età. I meccanismi inibitori, sottostanti la capacità di inibire le informazioni che non sono rilevanti per lo svolgimento del compito, sono una componente essenziale dei processi attivi di elaborazione ed il loro studio permette di specificare in maggior dettaglio struttura e funzioni della memoria di lavoro. Inoltre, è stato ripetutamente ipotizzato (e.g., Hasher & Zacks, 1988) che un deficit dei meccanismi inibitori sia alla base del calo cognitivo legato all’invecchiamento.

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In questo studio abbiamo focalizzato la nostra attenzione sullo studio dei processi visuo-spaziali e sulla capacità di selezionare le informazioni rilevanti per lo svolgimento del compito da parte di soggetti di 4 fasce di età (giovani, giovani anziani, anziani, vecchi anziani). Per studiare in maggior dettaglio l’utilizzo del meccanismi inibitori abbiamo utilizzato una metodologia sperimentale che permetteva di confrontare l’inibizione di stimoli irrilevanti nella fase di codifica, durante il mantenimento, o al momento del ricordo delle informazioni. Ai soggetti venivano mostrate delle matrici bidimensionali (4x4 o 5x5) al cui interno vi erano un numero variabile di posizioni spaziali contrassegnate da cerchi colorati rossi e verdi. Stimoli rossi e verdi potevano servire alternativamente da posizioni da ricordare, targets, o da stimoli irrilevanti da inibire. Le istruzioni che permettevano la selezione del materiale venivano fornite (1) durante la presentazione del materiale, oppure (2) durante la fase di mantenimento - 10 secondi - che precedeva il ricordo. Inoltre al momento del ricordo, ai soggetti poteva essere richiesto di indicare le posizioni targets su matrici bianche oppure in cui erano evidenziate delle posizioni spaziali dello stesso colore di cui era stata precedentemente richiesta l’inibizione.

I risultati hanno mostrato come la possibilità di inibire le informazioni al momento della codifica permetta di migliorare significativamente la prestazione, rispetto al caso in cui la selezione avviene durante la fase di mantenimento. Inoltre la presentazione di stimoli irrilevanti al momento del ricordo non ha determinato effetti di interferenza ma, al contrario, soprattutto nel caso dei pattern più complessi, ha determinato un miglioramento nella prestazione, fornendo un utile cue per il ricordo. Gli anziani hanno mostrato un calo costante al crescere dell’età e l’analisi della loro prestazione è stata particolarmente interessante nel caso delle intrusioni, ovvero degli errori che vengono commessi dai soggetti ricordando stimoli che invece dovevano essere inibiti. Il numero di intrusioni cresceva significativamente con l’età. Inoltre, i soggetti più giovani mostrano la presenza di intrusioni solo nel caso in cui la selezione degli stimoli era avvenuta durante il mantenimento mentre gli anziani mostrano progressivamente un numero maggiore di intrusioni anche nel caso in cui la selezione delle informazioni era avvenuta al momento della codifica.

I processi di selezione ed inibizione delle informazioni sono quindi dipendenti dal momento in cui vengono messi in atto: in particolare, sembra che si possa parlare di processi di inibizione tra loro almeno parzialmente diversi nel caso in cui essi debbano essere utilizzati    al momento della codifica delle informazioni (fase di generazione della rappresentazione mentale) o durante il mantenimento (processo attivo di trasformazione e manipolazione di una rappresentazione già generata). I giovani sembrano più capaci di selezionare gli stimoli correttamente e quindi di generare la rappresentazione mentale più adatta allo svolgimento del compito.

Questi risultati permettono di chiarire la natura della riduzione di efficienza dei meccanismi inibitori al crescere dell’età e di studiare le diverse caratteristiche dei processi di selezione delle informazioni. Inoltre, il confronto con i risultati di ricerche precedenti che hanno studiato i meccanismi di inibizione legati alla presentazione di materiale verbale (De Beni, Palladino, Pazzaglia & Cornoldi, 1998)    permette di trarre inferenze più significative per la comprensione dei processi attivi di elaborazione che caratterizzano il funzionamento della memoria di lavoro.

Riferimenti bibliografici

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POSTER - ERGONOMIA

De Beni, R., Palladino, P., Pazzaglia, P., & Cornoldi, C. (1998). Increases in intrusion errors and working memory deficit of poor comprehenders. Quarterly Journal of Experimental Psychology, 51A, 305-320.

Hasher, L., & Zacks, R.T. (1988). Working memory, comprehension, and aging: A review and a new view. In G.H. Bower (Ed.), The psychology of learning and motivation, vol. 22. San Diego, CA, Academic Press.

Vecchi, T., & Cornoldi, C. (1999). Passive storage and active manipulation in visuo-spatial working memory: Further evidence from the study of age differences. European Journal of Cognitive Psychology, 11.

I FALSI RICORDI: UNO STUDIO SPERIMENTALE

Andrea GaggioliFraunhofer Institut für Arbeitswirtschaft und Organization

IntroduzioneI falsi ricordi sono memorie di eventi non realmente accaduti. Un numero

consistente di ricerche effettuate negli ultimi tre decenni sull’argomento ha messo in luce che le persone possono riferire di aver percepito informazioni che non sono state effettivamente percepite (Norman e Schacter, 1997). Sebbene siano state anche sviluppate delle tecniche per indurre i testimoni oculari a creare ricordi di esperienze mai vissute (Loftus, 1979), il meccanismo cognitivo responsabile di tali errori di memoria è ancora largamente controverso. Nel presente studio è stato proposto che i falsi ricordi, rappresentati nel caso specifico da falsi riconoscimenti di informazioni presentate nella modalità visiva, possono essere indotti aumentando la difficoltà del processo metamnestico di Reality Monitoring (Johnson e Raye, 1981), cioè della funzione di memoria che consente di ricostruire la fonte di un ricordo.

In secondo luogo, si è cercato di verificare se i falsi riconoscimenti erano più frequentemente associati ad una generica sensazione di familiarità o ad una esperienza di consapevolezza di tipo episodico, facendo riferimento alla corrispondente distinzione proposta da Tulving (1985) tra esperienza di knowing ed esperienza di remembering nel recupero della traccia mnestica.

MetodoL’esperimento principale ha coinvolto un campione di trenta studenti (età media 22

anni). Ai soggetti è stata presentata sequenzialmente, sullo schermo di un computer, una lista composta per metà da nomi e per metà da fotografie, in ordine randomizzato. La consegna era di apprendere le parole creando un’immagine mentale visiva dell’oggetto da esse designato e memorizzare le fotografie ripetendo a voce alta il nome di ciò che rappresentavano. Dopo un intervallo di quindici minuti, tutti i soggetti sono stati sottoposti ad un test di riconoscimento su una nuova lista. Essa era composta per un terzo da parole e fotografie già presentate nella lista-studio e per due terzi da distrattori, cioè da parole e fotografie non presentate nella lista-studio. I distrattori erano suddivisi in due tipi:

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confondenti e non confondenti. I distrattori confondenti avevano lo scopo di aumentare la difficoltà del Reality Monitoring ed erano costituiti da parole che nella lista-studio erano state presentate come fotografie e fotografie che nella lista studio erano state presentate come parole. I distrattori non confondenti fungevano da condizione di controllo ed erano costituiti da parole e fotografie completamente inedite. Il compito assegnato ai soggetti era quello di riconoscere gli items precedentemente presentati e specificare, per ogni item riconosciuto, se di esso avevano un ricordo di tipo episodico o una generica sensazione di familiarità. La previsione formulata in base all´ipotesi sperimentale era che i distrattori confondenti, aumentando la difficoltà del Reality Monitoring, avrebbero indotto un maggior numero di falsi riconoscimenti rispetto ai distrattori non confondenti. Tutti i confronti statistici sono stati effettuati applicando il test t di Student.

RisultatiIl numero di falsi riconoscimenti determinati dai distrattori confondenti è risultato

essere significativamente superiore al numero di falsi riconoscimenti dovuti ai distrattori non confondenti (T=3.326; p<0.005). L’analisi dei responsi (sensazione di familiarità/ricordo episodico) nei falsi riconoscimenti non ha messo in luce una differenza significativa. Lo stesso confronto effettuato nei riconoscimenti corretti è risultato invece significativo, con una netta prevalenza dei responsi dei ricordi di tipo episodico sulle sensazioni di familiarità (T=15.07 p<0.01).

ConclusioniConformemente a quanto previsto dall’ipotesi sperimentale, è stato trovato che i

distrattori confondenti hanno determinato il maggior numero di falsi riconoscimenti, confermando che ad un incremento della difficoltà del processo metamnestico di Reality Monitoring corrisponde un incremento della probabilità di creazione di false memorie. L’analisi dei responsi ha evidenziato inoltre che i falsi riconoscimenti registrati non erano prevalentemente associati a sensazioni di familiarità. Questo significa che i falsi riconoscimenti possono essere soggettivamente esperiti come veri e propri ricordi episodici, vale a dire come vivide memorie di percezioni avvenute in un contesto spaziale e temporale definito. I risultati esposti suggeriscono la possibilità di ulteriori approfondimenti del ruolo svolto dalla funzione metamnestica di Reality Monitoring nella creazione di false memorie. In particolare, potrebbe essere interessante verificare quali altre condizioni di codifica e di recupero della traccia mnestica (eventualmente estendendo la sperimentazione dalla memoria di riconoscimento ai processi di rievocazione) aumentano la vulnerabilità del Reality Monitoring ad attuare confusioni di sorgente del ricordo e favoriscono la formazione di memorie illusorie.

Riferimenti bibliograficiJohnson, M. K., Raye, C.L. (1981). Reality Monitoring, in Psychological Review, 88 (1),

pp. 67-85.Loftus, E.F. (1979). Eyewitness testimony. Cambridge, Mass., Harvard University Press.Norman, K., Schacter, D.L. (1997). False recognitions in younger and old adults: exploring

the characteristics of illusory memories, in Memory and Cognition, 25, pp. 838-848.

Tulving, E. (1985). Memory and consciousness, in Canadian Psychologist, 26, pp. 1-12.

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ORGANIZZAZIONE E RICORDO DI EVENTI AUTOBIOGRAFICI

Miranda OcchioneroDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneLe ricerche sulla memoria autobiografica condotte negli ultimi decenni,

utilizzando il paradigma dell’everyday memory, ovvero un criterio ecologico di acquisizione di dati appartenenti all’esperienza quotidiana dei soggetti, hanno permesso di far luce su alcune importanti questioni riguardanti la natura, l’organizzazione e i processi di rievocazione degli eventi che costituiscono l’esperienza personale di ciascuno.

Un primo dato emerso è che un evento è costituito da un insieme complesso di informazioni con un differente grado di accessibilità. In letteratura è ormai classica la suddivisione di un evento secondo informazioni che si organizzano essenzialmente attorno ai quattro nuclei tematici del “dove”, “quando”, “cosa”, “chi”. Diversi autori hanno inoltre sottolineato l’importanza di queste dimensioni, sia in relazione ai differenti contenuti da esse specificati che in funzione degli schemi generali di conoscenze semantiche all’interno dei quali si organizzano.

L’ipotesi di questa ricerca è che il ricordo di un evento personalmente esperito non possa essere inteso come una semplice ricerca che attiva tracce mnestiche dal sistema episodico per consentire l’accesso ad una data informazione; la complessità dell’elaborazione dell’informazione autobiografica chiama in causa sia processi operanti all’interno del sistema episodico sia processi di natura inferenziale di tipo semantico che, pur non consentendo l’accesso diretto all’informazione cercata, ne favoriscono l’identificazione e il riconoscimento.

Per verificare questa ipotesi sono stati messi a confronto due tipi di eventi che per le loro caratteristiche di struttura si prestavano bene a questo tipo di osservazione, ovvero eventi autobiografici costituenti le routine quotidiane, e perciò ad elevato grado di invarianza, ed eventi autobiografici inconsueti con caratteristiche di salienza ed unicità.

A questo scopo sono stati condotti due studi. Primo studio. Si proponeva di analizzare le caratteristiche generali degli eventi (Inconsueti/Routine) esaminando le seguenti dimensioni: lunghezza dell’evento, frequenza dei differenti contenuti (attività, personaggi, localizzazione spazio-temporale). Secondo studio. Si proponeva di analizzare le caratteristiche del ricordo differito di un mese mediante due strategie di cued recall, una che utilizzava un indizio specifico (cue episodico) e l’altra che utilizzava un indizio costituito da una descrizione categoriale che descrivesse le caratteristiche generali dell’evento (cue semantico).

MetodoHanno partecipato all’esperimento 12 soggetti, studenti universitari, di età

compresa tra i 22 e i 26 anni.

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Primo StudioCiascun soggetto doveva compilare un diario quotidiano per 12 giorni consecutivi

trascrivendo 4 eventi occorsi durante la giornata, 2 inconsueti e 2 di routine, per un totale di 48 eventi per soggetto. Alla fine della descrizione il soggetto doveva indicare la categoria di appartenenza dell’evento fornendo una sorta di etichetta che consentisse di collocare quello specifico evento all’interno di una classe più ampia che lo potesse descrivere. Le categorie ottenute sono state classificate dallo sperimentatore secondo tre livelli: livello basso (descrizioni che rimanevano molto ancorate all’evento e che contenevano ancora informazioni specifiche - es. assistere ad uno spettacolo teatrale); livello intermedio (descrizioni che corrispondevano ad eventi generali - es. lezioni universitarie); livello alto (descrizioni categoriali molto generiche es. attività ricreative). Per ciascun evento veniva alla fine richiesto di indicare la frequenza di occorrenza di ogni contenuto (“che cosa”, “chi”, “dove”, “quando”). Questa variabile è stata valutata su una scala a 6 punti (una volta al giorno / una volta alla settimana/ una volta al mese / una-due volte all’anno / qualche volta nella vita / una sola volta nella vita).

Il campione ottenuto è stato di 576 eventi (288 inconsueti, 288 routine).Secondo Studio

Il campione utilizzato per le prove di ricordo era costituito dagli eventi raccolti ed analizzati dal primo studio. Come già detto sono state utilizzate due strategie di ricordo: 1) a partire da uno o più indizi specifici, secondo differenti combinazioni (“che cosa”, “chi”, “dove”, “quando”); 2) a partire dalla descrizione generale dell’evento. I soggetti hanno perciò rievocato    288 eventi con una strategia e 288 eventi con l’altra.

Risultati e discussionePrimo Studio

La lunghezza media (valutata attraverso il conteggio di parole) degli eventi inconsueti è risultata essere significativamente più elevata degli eventi di routine (58.52 vs. 45.97; p<.0001). L’evento di routine, avendo più caratteristiche invarianti, probabilmente utilizza schemi descrittivi consolidati che prescindono dalla specificità dei dettagli. Per quanto riguarda i tre livelli di categorizzazione essi hanno percentuali simili con una lieve prevalenza del livello basso per gli eventi inconsueti (38.81%) e del livello intermedio (35.64%) per le routine. È possibile che questa tendenza rifletta una maggiore difficoltà di trovare categorie sovraordinate per eventi che per definizione hanno una qualche caratteristica di salienza. Inoltre i dati sembrano confermare che un aspetto predominante della organizzazione degli eventi singoli è quello della loro assimilazione all’interno di classi di eventi con uno schema generale comune. La frequenza di occorrenza dei diversi ambiti di contenuto è stata valutata separatamente per ciascuna informazione (“che cosa”, “chi”, “dove”, “quando”). I confronti Inconsueto/Routine sono risultati tutti significativi.Secondo Studio

Per entrambe le tipologie di eventi la strategia di ricordo guidato dall’indizio specifico si è rivelata migliore consentendo il recupero di più del 90% degli eventi. Inoltre l’indizio che specificava la dimensione “che cosa” è risultato il più efficace nell’innescare il ricordo in modo particolare per gli eventi inconsueti. Mediamente gli eventi di routine hanno avuto bisogno di un numero maggiore di indizi, confermando l’ipotesi che il ricordo di eventi quotidiani senza particolari caratteristiche di salienza è stato più difficoltoso quando i soggetti disponevano di poche informazioni. Per quanto riguarda la strategia di

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ricordo guidato dall’indizio categoriale, essa non si è dimostrata molto efficace; tuttavia aver organizzato gli eventi ad un livello basso ha consentito un recupero significativamente maggiore in entrambe le tipologie di eventi esaminate.

Conclusioni I risultati ottenuti in questa ricerca forniscono dati a favore di una organizzazione

multisistemica delle memorie autobiografiche che non può essere confinata al sistema episodico ma che, specie nella ricostruzione di un evento routinario, chiama in causa un’attività inferenziale che integra gli aspetti episodici di un evento con le conoscenze concettuali appartenenti al sistema semantico.    In questa ottica le routine quotidiane hanno la funzione di creare una trama narrativa che, in virtù della sua invarianza e continuità, integra le proprie esperienze all’interno delle conoscenze generali semantiche, mentre gli eventi specifici avrebbero la funzione di discriminare e di mantenere una organizzazione delle proprie esperienze all’interno di una contestualizzazione spazio-temporale soggettiva.

Riferimenti bibliograficiLancaster J. L. e Barsalou L. W. (1997). Multiple organization of events in memory.

Memory, 5 (5), 569-599.Neisser U. (1981). Memory observed: remembering in natural contexts. San Francisco: W.

H. Freeman & Co.Wagenaar W. A. (1986). My memory: A study of autobiographical memory over six years.

Cognitive Psychology, 18, 225-252.

RICONOSCIMENTO OLFATTIVO NEONATO-MADRE NELLE PRIME ORE DI VITA IN FUNZIONE DEL TIPO

DI STIMOLO (LATTE MATERNO, SECRETO ASCELLARE, LATTE ARTIFICIALE) E DEL TIPO DI

PARTO (NATURALE O CESAREO)

Gesualdo Zucco, Lucia GrassiDipartimento di Scienze pedagogiche e psicologiche, Università di Lecce

La letteratura psicologica sul riconoscimento di tipo olfattivo neonato-madre sebbene non sia carente di contributi è tuttora un settore i cui risultati non sono univoci. Ad esempio, non sempre vi è accordo in relazione al momento in cui i comportamenti di riconoscimento hanno luogo (se nelle prime ore e giorni di vita o dopo alcune settimane) e ciò potrebbe però essere dovuto alle diverse procedure sperimentali adottate (cfr. ad esempio: Mc Farlane, 1975; Russel, 1976; Schaal, 1988; Varendi, Porter e Winberg, 1998; Zucco, 1994). Un ulteriore dato che necessita di essere esaminato in modo più approfondito riguarda, invece, l’eventuale comparsa (e il momento di comparsa) di una    reazione di riconoscimento da parte dei neonati a stimoli olfattivi diversi dal latte materno (ad es.

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secreto ascellare, liquido amniotico, latte artificiale e così via; cfr. le rassegne di Porter, 1991 e di Varendi et al., 1998).

In questo lavoro, abbiamo esposto 18 neonati (di età media 18 ore di vita) nati per via naturale (9) e cesarea (9) a quattro tipi di stimolazione olfattiva: latte materno, secreto ascellare materno, latte artificiale, e ad un tampone neutro. I neonati sono stati esposti agli odori    (uno alla volta, in ordine casuale, in un ambiente controllato) in fase di addormentamento. Le due sostanze naturali usate erano state ottenute previa richiesta alle madri di tenere sotto le ascelle e sul seno, per alcune ore, dei tamponi di garza. Tre giudici indipendenti hanno, quindi, valutato le reazioni dei neonati agli stimoli (gli indicatori considerati    erano quelli classici comportamentali, legati a piacere/dispiacere). Ai fini delle successive analisi statistiche sono state considerate solo le codifiche delle reazioni su cui i giudici avevano espresso una concordanza del 100%.

I risultati evidenziano, non soltanto la capacità di risposta da parte dei neonati a stimoli significativi (soprattutto al latte materno e al secreto ascellare, piuttosto che al latte artificiale), ma anche risposte differenziate a seconda del tipo di parto subito (cesareo o naturale). Ad esempio i soggetti del gruppo “naturale” forniscono prestazioni significativamente migliori di quelle del gruppo “cesareo” agli stimoli latte materno e latte artificiale.

I risultati vengono discussi alla luce delle conoscenze acquisite sull’argomento.

Riferimenti bibliograficiMc Farlane H. (1975), Olfaction in the development of social preferences in the human

neonate. In R. Porter e M. ÒConnor (a cura di), Parent-infant interaction. Ciba Foundation Symposium, Amsterdam, Am. Els.

Porter R. (1991), Human reproduction and mother-infant relationship: the role of odours. In T. Getchell, L. Bartoshuk, R. Doty e J. Snow (a cura di), Smell and taste in health and disease. New York, Raven press.

Rusell M. (1976), Human olfactory communication. Nature, 260, pp. 520-522.Schaal B. (1988), Olfaction in infants and children: developmental and functional

perspectives. Chemical Senses, 13, pp. 145-190.Varendi H., Porter R., Winberg    J. (1998), Natural odour preferences of newborn infants

change over time. Acta Pediatrica, 87, pp. 6-10.Zucco G. (1994), Il Sistema Olfattivo. In A. Dellantonio (a cura di), Fisiologia e Psicologia

delle Sensazioni. Roma, La Nuova Italia ed.

NEUROPSICOLOGIA

LATERALIZZAZIONE EMISFERICA DEL LINGUAGGIO IN BAMBINI CON LESIONE CEREBRALE CONGENITA

UNILATERALE

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Daniela Brizzolara, Chiara Pecini, Giovanni Ferretti, Paola Brovedani, Paola CiprianiIRCCS Stella Maris - Divisione di Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa

I bambini che hanno sofferto di un danno cerebrale precoce unilaterale offrono l’opportunità di studiare lo sviluppo di funzioni cerebrali lateralizzate in rapporto alla sede della lesione. I risultati ottenuti da uno studio effettuato presso il nostro laboratorio evidenziano, in accordo con la letteratura, che lesioni con del linguaggio che non sembra tuttavia avere le caratteristiche di un disturbo specifico di sviluppo. Questo pattern potrebbe essere l’effetto di meccanismi di recupero legati alla plasticità cerebrale che comportano eventi compensatori di riorganizzazione del substrato neurobiologico e delle funzioni comportamentali. Se la vicarianza del linguaggio avvenga per sostituzione funzionale intraemisferica o per intervento di aree dell’emisfero controlaterale è tuttora controverso. La nostra ricerca si situa all’interno di questo problema, proponendosi di verificare, in un gruppo di bambini con lesione cerebrale congenita unilaterale documentata neuroradiologicamente, se la riorganizzazione del substrato funzionale del linguaggio è intra o interemisferica. Per questo scopo è stato utilizzato il paradigma sperimentale di ascolto dicotico “dichotic fused words test” che, rispetto alla versione tradizionale del test, presenta maggiore validità per la misura della lateralizzazione cerebrale del linguaggio.   

MetodologiaSoggetti: 20 bambini emiplegici (range 4;3 e 13;10 anni) con lesione focale

cerebrale congenita documentata alla RMN.I criteri di inclusione prevedevano prestazioni intellettive superiori a - 2 d.s. a test psicometrici (Griffiths, WPPSI e WISC/R), assenza di disturbi sensoriali o della personalità.

ProceduraGli stimoli utilizzati sono costituiti da 55 parole bisillabiche ad alta frequenza di

occorrenza nel vocabolario della lingua scritta per la scuola elementare (frequenza media: 110.66, Marconi, Ott, Pesenti, Ratti, Tavella; 1994). In base alla struttura sillabica le parole sono così suddivise: 24 CVCV, e 26 CVCCV, di cui 14 con doppia e 12 con gruppo consonantico. Le parole, pronunciate da una voce femminile, sono state registrate con modalità Dat all’interno di una camera antiriverberante. Ciascuna parola è stata campionata su una scheda audio digitale in ambiente HardDiskRecording su PC. Il campionamento è stato effettuato in modo tale che le parole che costituiscono la coppia dicotica siano sincronizzate sia per l’attacco della consonante iniziale che per la durata di alcuni tratti interni (in special modo nei punti dove si trova l’accento rafforzativo della parola). La presentazione degli stimoli è stata effettuata tramite un programma di ascolto dicotico, prodotto con la consulenza dell’IEI-CNR di Pisa. Il test prevede quattro prove di cui due di ascolto monoaurale e due di ascolto dicotico. Le prove di ascolto dicotico consistono nella presentazione di 30 coppie di parole di cui 25 diverse per la prima consonante (es. cane-pane) e 5 diverse per la prima vocale (es. luna-lana). Il bambino, testato individualmente, viene istruito a ripetere, immediatamente dopo la presentazione, ciascuna parola udita.

Risultati

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Nel campione sin qui testato tutti i bambini con lesione cerebrale destra presentano un effetto REA, a sottintendere una lateralizzazione del linguaggio nell’emisfero sinistro, mentre dei 15 bambini con lesione sinistra, 10 presentano un effetto LEA, espressivo di una lateralizzazione atipica del linguaggio nell’emisfero destro, e solo 5 invece un normale effetto REA. Una percentuale così elevata (66%) di soggetti con vantaggio dell’orecchio sinistro (a fronte di una frequenza del 9% da noi rilevata in un campione di 134 bambini normali, dati in corso di pubblicazione), può essere interpretata come un indice consistente della riorganizzazione del linguaggio nell’emisfero destro, a seguito di una lesione congenita dell’emisfero sinistro, geneticamente programmato per il linguaggio. Un dato da sottolineare, infine, è che l’asimmetria percettiva è tale da configurare un fenomeno di estinzione dell’orecchio ipsilaterale alla lesione.

Riferimenti bibliograficiBrizzolara, D, Ferretti, G., Brovedani, P., Casalini, C., Sbrana, B. (1994). Is

interhemispheric transfer related to age? A developmental study. Behav. Brain. Res., 64(1-2): 179-187.

Hugdahl, K., Carlsson, G. (1994). Dichotic listening and focused attention in children with hemiplegic cerebral palsy. Journal of Clinical and Experimental Neuropsychology, 16 (1), 84-92.

Isaacs, E. , Christie, D., Vargha-Khadem. F., Mishkin, M. (1995). Effects of hemispheric side of injury, age at injury, and presence of seizure disorder on functional ear and hand asymmetries in hemiplegic children. Neuropsychologia, vol 34, n.2, 127-137.

Nass, R., Abigail, E.S., Sidtis, J. (1992). Differential effects of congenital versus acquired unilateral brain injury on dichotic listening performance. Neurology, 1992, vol. 42 1960-1965.

Wexler, B. E., Halwes, T. (1983). Increasing the power of dichotic methods: the fused rhymed words test. Neuropsychologia, Vol. 21, n 1, pp 59-66.

Zatorre, R. J. (1989). Perceptual asymmetry on the dichotic fused words test and cerebral speech lateralization determined by the carotid sodium amytal test. Neuropsychologia, Vol. 27, n 10, pp 1207-1219.

INFLUENZA DEL CONTESTO VISIVO SULL’ORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO

Sergio Chieffi, Massimiliano Conson, Alessandro Iavarone Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli

IntroduzioneQuando un soggetto esegue un movimento della mano diretto ad un punto nello

spazio, la traiettoria del movimento è diritta o leggermente curva (Abend et al., 1982). La programmazione di un movimento di pointing richiede la computazione sia della posizione del target sia della posizione iniziale della mano. La localizzazione del target può essere definita sia rispetto alla posizione del proprio corpo (sistema di riferimento egocentrico), sia

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rispetto all’ambiente circostante (sistema di riferimento allocentrico) (Bridgeman et al., 1981; Paillard, 1991; Gentilucci et al., 1995).

Nel presente studio abbiamo esaminato se i movimenti della mano diretti ad un punto nello spazio siano influenzati dalla presenza di distrattori posti nell’ambiente circostante. Si è assunta come ipotesi di lavoro che l’influenza del distrattore sulla cinematica del movimento sia compatibile con un’organizzazione del movimento stesso basata su di un sistema di riferimento allocentrico.

MetodoAllo studio hanno partecipato 12 soggetti (7 donne e 5 uomini; età media di 26.1

anni, DS 2.9). Ciascuno stimolo era. formato da un foglio bianco (A4) su cui erano disegnati due cerchietti neri non collegati (P) o collegati da una linea retta (Lr), o da una linea curva con convessità a sinistra (Ls) o a destra (Ld). I due cerchietti distavano 15 cm. I soggetti erano seduti di fronte ad un tavolo sulla cui superficie era collocata una tavoletta grafica. Lo sperimentatore poneva ciascuno stimolo sulla tavoletta. Il soggetto doveva eseguire un movimento con la penna grafica, a velocità naturale, dal punto prossimale al punto distale, lungo l’asse sagittale mediano. Inoltre, al soggetto era chiesto di eseguire il movimento con una traiettoria quanto più rettilinea possibile. I movimenti erano eseguiti senza la visione della mano. A tale proposito è stato costruito un sistema di specchi che impediva la visione della mano, consentendo tuttavia la percezione visiva dello stimolo. Ciascun soggetto eseguiva 24 movimenti (6 movimenti per ciascuna condizione sperimentale). Le variabili misurate erano: durata del movimento; velocità media del movimento; deviazione della traiettoria del movimento dall’asse sagittale, misurata a 15, 30 e 60 mm dalla posizione di partenza. A deviazioni della traiettoria a destra dell’asse sagittale mediano era assegnato un valore positivo, a deviazioni a sinistra un valore negativo. Per ogni condizione e per ciascun soggetto sono stati calcolati i valori medi di ognuna delle suddette variabili. Tali valori sono stati sottoposti ad una ANOVA a due vie e a misure ripetute, i cui fattori principali erano: Condizione (P vs Lr vs Ls vs Ld) e Distanza (15 mm vs 30 mm vs 60 mm). I confronti post-hoc sono stati eseguiti secondo la procedura di Newman-Keuls. Inoltre, per esaminare la deviazione della traiettoria dall’asse sagittale mediano, i valori di tale paran1etro sono stati confrontati con lo zero (asse sagittale mediano; t-test per dati appaiati).

RisultatiDal confronto dei valori di deviazione della traiettoria dall’asse sagittale n1ediano

(t-test), i risultati hanno mostrato che, in tutte le condizioni sperimentali, era presente una significativa deviazione del movimento verso sinistra. Inoltre, i risultati della ANOVA hanno mostrato che la deviazione della traiettoria era significativamente influenzata dalla Condizione (F(3,33)=4.18, p<0.002) e dalla Distanza (F(2,22)=9.80, p<0.001). Vi era anche una significativa interazione tra Condizione e Distanza (F(6,66)=2.96, p<0.02). Dai confronti post-hoc è emerso che la deviazione della traiettoria verso sinistra era maggiore in Ls rispetto alle altre condizioni; ed in P e Lr rispetto a Ld. Queste differenze tendevano ad aumentare con la distanza.

Conclusioni

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I movimenti dei soggetti, in assenza della visione della mano, presentano una traiettoria curvilinea e convessa a sinistra. La deviazione della traiettoria verso sinistra, dall’asse sagittale mediano, è significativa già a 15 mm dalla posizione di partenza. Inoltre la presenza del distrattore influenza in modo specifico la traiettoria del movimento. Quando tra il punto di partenza ed il punto di arrivo è presente una linea curva e convessa verso sinistra, si osserva una maggiore deviazione della traiettoria a sinistra; quando è presente una linea curva e convessa verso destra, si osserva una minore deviazione della traiettoria a sinistra.

I risultati sono compatibili con l’ipotesi che l’organizzazione del movimento avvenga in un sistema di riferimento allocentrico.

Riferimenti bibliograficiAbend W., Bizzi E., Morasso P. (1982) Human arm trajectory formation. Brain, 105, 331-

348.Bridgeman B., Kirch M., Sperling A. (1981) Segregation of cognitive and motor aspects of

visual function using induced motion. Percept Psychoph, 29, 336-342.Gentilucci M., Chieffi S., Daprati E., Saetti M.C., Toni I. (1996) Perception and visuo-

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space. Oxford University Press, Oxford, pp.163-182.

CORTECCIA PREFRONTALE, PROGETTAZIONE DEL FUTURO ED ANOSOGNOSIA

Francesca FrassinettiDipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna

L’osservazione clinica dei pazienti con lesione a carico dell’emisfero destro suggerisce che i pazienti anosognosici non solo negano il proprio deficit ma, anche quando, in alcune circostanze, emerge la consapevolezza della malattia, tendono a sottovalutare le conseguenze del proprio deficit motorio. Infatti mentre il paziente con paresi non anosognosico è preoccupato delle ripercussioni che il proprio limite funzionale avrà sulla sua vita futura familiare e lavorativa, il paziente con grado più o meno severo di anosognosia non prende mai in considerazione questo aspetto del problema.

Shallice (1982) attribuisce la capacità, di prevedere le conseguenze delle azioni e la capacità di valutare quando un’azione è adeguata al raggiungimento di uno scopo, alla corteccia prefrontale.

Recentemente Berti e coll. (in corso di preparazione) hanno condotto una ricerca su un gruppo di pazienti cerebrolesi destri con emiparesi sinistra ed hanno messo in evidenza una maggiore incidenza di lesioni nel lobo frontale e dei gangli della base rispetto ai pazienti non anosognosici.

Con il test messo a punto per questo studio si è voluto dimostrare che:

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POSTER - ERGONOMIA

1) i pazienti anosognosici sovrastimano le loro capacità motorie residue e sottostimano le conseguenze del loro deficit e quelle di altri pazienti con un deficit motorio paragonabile al proprio;

2) la compromissione della capacità di programmazione e pianificazione, entrambe funzioni del lobo frontale, hanno un ruolo nella patogenesi dell’anosognosia.

Per questo un gruppo di pazienti cerebrolesi destri con emiparesi sinistra ed un gruppo di soggetti di controllo sono stati sottoposti:

1) al Mini Mental State Examination (Folstein e coll., 1975);2) ai tests per la valutazione del neglect personale ed extrapersonale;3) ad una serie di tests che valutano le funzioni del lobo frontale come lo Stroop

(Stroop, 1935), il Wisconsin card sorting test (Milner , 1963) e la Fluenza Fonemica (Milner , 1964);

4) ad un’intervista, articolata in 4 fasi, per valutare la capacità dei pazienti di valutare l’entità e le conseguenze del proprio deficit e quello di un altro paziente.

In questo test ai pazienti venivano presentate, una alla volta, 5 figure che rappresentavano persone con deficit motori (un ragazzo con un braccio ingessato, un ragazzo in carrozzina, un uomo con un deambulatore, una ragazza con una gamba ingessata, un uomo con una gamba amputata).

Nella fase 1, descrittiva, il paziente era invitato a descrivere la figura. Nella fase 2, dell’intervista, al paziente erano poste una serie di domande riguardo

la capacità dei soggetti illustrati in figura di compiere una serie di azioni (a ciascuna risposta veniva attribuito un punteggio).

Nella fase 3, definita riflessiva, il paziente, attraverso le stesse domande poste nella fase dell’intervista, veniva invitato a valutare le proprie capacità motorie.

La fase 4, a risposta multipla, costituiva un controllo delle risposte date dal paziente nella fase 2.

Nella fase 5 ai pazienti venivano mostrate tutte le figure dei soggetti con deficit motorio ed altre due figure, l’uno rappresentante un uomo sano e l’altra un atleta. Al paziente era chiesto con quale delle 7 figure si identificasse.

I risultati conseguiti al nostro test dai pazienti anosognosici differiscono da quelli ottenuti dai pazienti senza anosognosia e dai soggetti di controllo.

Nella fase dell’intervista i pazienti anosognosici raggiungono un punteggio più elevato rispetto al punteggio maggiore di un soggetto di controllo. Per la modalità stessa con cui sono stati calcolati i punteggi, questo risultato può essere interpretato solo nel senso di una sottostima da parte del paziente del deficit del soggetto rappresentato nell’immagine.

Nella fase riflessiva, in cui i pazienti venivano invitati a valutare le loro capacità motorie residue, i pazienti non anosognosici mostrano una perfetta aderenza tra capacità reali (valutate dall’esaminatore) e le capacità stimate. I pazienti anosognosici raggiungono in questa fase punteggi molto elevati, mostrando di pensare di poter fare senza aiuto ciò che in realtà non sono in grado di fare.

Nella fase a risposta multipla, si confermano, nonostante la diversa modalità di risposta i risultati conseguiti nella fase 2.

Nella fase di identificazione i pazienti non anosognosici si identificano effettivamente con la figura che rappresenta il deficit più simile alla propria situazione e, sorprendentemente, alcuni dei pazienti gravemente anosognosici tendono ad identificarsi con l’immagine che rappresenta un deficit motorio molto simile al proprio.

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I risultati suggeriscono che l’anosognosia non riguarda solo la negazione da parte del paziente anosognosico del proprio deficit ma è un problema di valutazione del deficit motorio e delle sue conseguenze, non solo in riferimento alla propria persona ma esteso anche ad altri pazienti.

Le domande dell’intervista fanno esplicitamente riferimento ad azioni che i pazienti esaminati, ed i pazienti rappresentati in figura, non sono in gran parte in grado di eseguire. Il fatto che, queste stesse azioni, vengano giudicate “fattibili”, evidenzia un deficit di “pianificazione” inteso come capacità di prevedere le conseguenze delle azioni e di valutare se si sia in grado di eseguire un’azione.

Riferimenti bibliograficiFolstein M.F., Folstein S.E., Mc Hugh P.R. (1975), “Mini-mental state”: a practical method

for grading the cognitive state of patients for the clinician. Journal of Psychiatric Research, 12:189-198.

Millner B. (1963), Effects of different brain lesions on card sorting. Archives of Neurology, 9:90-100.

Millner B. (1964), Some effecs of frontal lobectomy in man. In Warren J.M., Akert K. (eds.), The frontal granular cortex and behavior, New York: Mc Graw Hill, pp.313-334.

Shallice T. (1982), Specific impairment of planning. Philosophical Transactions of the Royal Society, London: B 298: pp.199-209.

Stroop J.R. (1935), Sudies of interference in serial verbal reactions. Journal of experimental psychology, 18:643-662.

VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA DELL’ENCEFALOPATIA EPATICA SUBCLINICA:

EFFETTI DEL TRAPIANTO DI FEGATO

Katia Mattarozzi°, Luca Vignatelli*, Andrea Stracciari*°Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Bologna*Servizio di Neurologia, Ospedale M. Malpighi di Bologna

IntroduzioneLe forme croniche di insufficienza epatica sono spesso accompagnate, 30% dei

casi circa , da un complesso quadro neuropsichico a cui si fa riferimento con il termine Encefalopatia Epatica. Tale sindrome è sostanzialmente caratterizzata da disordini dei processi mentali, delle funzioni neuromuscolari e della coscienza. Nella pratica clinica l’Encefalopatia viene suddivisa in quattro stadi a carattere ingravescente. Tale gradazione esclude quella condizione in cui non sono presenti manifestazioni rilevabili clinicamente o tramite Elettro Encefalo Gramma (Tarter, 1992), ma che può essere messa in evidenza da strumenti più sensibili al disturbo cognitivo come i Test Psicometrici (Schomerus,1993). La forma Subclinica si caratterizza per un disordine prevalente del dominio attentivo (McCrea, 1996) che, nonostante sia meno evidente rispetto alla sindrome conclamata, va comunque ad influenzare le funzioni psicosociali dell’individuo ed in generale la sua qualità di vita

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(Amodio,1998; Groeneweg,1998). Oggi il principale approccio terapeutico all’epatopatia non responsiva al trattamento farmacologico è il Trapianto di Fegato. L’effetto che tale intervento ha sulla salute mentale del paziente è ancora incerto. In letteratura troviamo pochissimi studi prospettici che indagano questo aspetto (Reither, 1992; Tarter, 1988).

Scopo della ricercaLo scopo del presente lavoro è quello di valutare gli effetti del trapianto di fegato

sui disturbi cognitivi che l’epatopatia comporta anche in assenza di un quadro di Encefalopatia conclamato. La nostra ipotesi prevede che il trapianto di fegato possa correggere le anomalie cognitive in virtù della risoluzione dell’epatopatia stessa.

Materiali e metodiDa una popolazione di pazienti candidati al trapianto di fegato, affetti da cirrosi

epatica ad eziologia varia ma non a carattere alcolico, sono stati selezionati 60 soggetti in base ai seguenti criteri: a) assenza di segni obiettivi neurologici di encefalopatia; b) assenza di disordini psichiatrici pregressi all’esordio di epatopatia; c) assenza di altre malattie croniche potenzialmente responsabili di deficit cognitivi; d) assenza di terapia farmacologica con effetti sul SNC. Dei suddetti pazienti, 5 sono stati sottoposti a trapianto ortotopico di fegato. Sono stati inoltre reclutati come controlli, bilanciati per età, scolarità e sesso, 5 soggetti affetti da patologie gastroenteriche non responsabili di disturbi del SNC, oltre che nel rispetto dei criteri di cui al punto b), c), d).

I due gruppi sono stati valutati dal punto di vista cognitivo utilizzando una batteria di 29 test neuropsicologici. Sono state esplorate diverse dimensioni: attenzione, memoria nelle sue componenti a breve e a lungo termine, linguaggio, cognizione spaziale e percezione visiva. Il disegno sperimentale prevedeva, per il gruppo degli epatopatici, una prima valutazione (V1) alla candidatura per il potenziale intervento ed una seconda (V2) trascorsi sei mesi dal trapianto. Abbiamo confrontato le performance (V1 vs V2 e V1 vs controlli) con un’analisi statistica non parametrica: il Test dei Segni per Ranghi di Wilcoxon.

RisultatiNella condizione pre-operatoria (V1) i 5 pazienti, confrontati con il gruppo di

controllo, presentavano un rallentamento significativo in alcune prove attenzionali: Trail Making B (127.6 vs 58.4), Digit Symbol Substitution (34.4 vs 61.6) e Tempi di Reazione Acustici (219.2 vs 170.2). Le differenze nelle abilità strumentali di linguaggio e di cognizione spaziale e nella memoria non raggiungono invece la significatività statistica. Rispetto alla valutazione pre-trapianto (V1) in quella post-operatoria (V2) si registra un significativo miglioramento proprio nelle stesse prove attenzionali che risultavano essere inferiori rispetto al gruppo di controllo (Trail Making B, DSS e Tempi di Reazione Acustici). La performance in altri test non si modifica.

ConclusioniA seguito del trapianto è stata individuata una tendenza al miglioramento in alcuni

test attenzionali, gli stessi nei quali si evidenziava un impedimento significativo prima dell’intervento. Tali prove vengono indicate in letteratura come le più sensibili al quadro encefalopatico (Rikkers, 1978; Gilberstadt, 1980). Questi risultati sembrano suggerire che

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un quadro subclinico di encefalopatia è potenzialmente reversibile a seguito del trapianto. Un fattore che in un qualche modo sembra rafforzare la nostra ipotesi è rappresentato dal fatto che i pazienti migliorano nonostante non sia trascorso molto tempo dal trauma dell’intervento (sei mesi) e soprattutto nonostante siano sottoposti ad una terapia immunosoppressiva a forte azione neurotossica. È comunque con estrema cautela che ci avviciniamo a qualsiasi conclusione, consapevoli del limitato numero di soggetti a cui i risultati si riferiscono e della possibile incidenza di un effetto, non valutato quantitativamente nel nostro studio, legato alla pratica derivante dall’iterazione dei test. Il proseguire dello studio ci darà la possibilità di aumentare il campione sperimentale e di valutare l’incidenza dell’effetto pratica sulla performance post-trapianto.

Riferimenti bibliograficiMcCrea M., Cordoba J., et al., (1996). Neuropsychological characterization and detection

of subclinical hepatic encephalophaty. Archchives Neurological, 53, 758-63.Reither A.M., Smith S., et al., (1992). Quality of life changes and psychiatric and

neurocognitive outcome after heart and liver transplantation. Transplantation, 54, 444-50.

Schomerus H., Hamster H., et al., (1981). Nature of cerebral function defects and their effect on fitness to drive. Digestive Disease Scientific, 26, 622-30.

Tarter R.E., Moss H.B., et al., (1992). Subclinical epatic encephalophaty relationschip between neupsychological deficits and standard laboratory tests assessing hepatic status. Archives of Clinical Neuropsychology, 7,419-29.

Tarter R.E., Van Thiel D., et al., (1988). The quality of life following liver transplantation: a preliminary report. Gastroenterology Clinics of North America, 17, 207-17.

PERCEZIONE

LA PERCEZIONE DELLA DIREZIONE DELLO SGUARDO E DEL CONTATTO VISIVO

E. Musso, Natale Stucchi*, Claudio de’Sperati***Dipartimento di Psicologia Università di Torino**LAPCO, Dipartimento di Scienze Cognitive, Università S. Raffaele Milano

IntroduzioneL’uso dei prodotti cosmetici per truccare gli occhi, che ha origini molto remote e

un carattere transculturale, sembra avere l’intento di creare un forte contrasto tra gli occhi e le parti del viso ad essi adiacenti. Recentemente è stato rilevato da Kobayashi e Kohshima (1997) che tra tutti i primati l’uomo è la specie in cui è maggiore il rapporto tra larghezza e altezza dell’apertura delle palpebre: questo permette una maggiore escursione orizzontale dei movimenti oculari utili per la visione, ma facilita anche la valutazione da parte degli altri della direzione del proprio sguardo.    Altri due fatti sembrano confermare questa

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possibilità: l’uomo è tra i primati quello che ha la maggiore superficie di sclera oculare visibile ed è l’unico ad avere un sclera di colore bianco e quindi fortemente contrastata con l’iride e con le palpebre. Sembrerebbe ragionevole quindi ritenere che la percezione della direzione dello sguardo abbia un valore adattivo ed un significato evolutivo. Per la specie umana potrebbe essere estremamente importante utilizzare lo sguardo come possibile canale di comunicazione ad esempio per far capire ad un altro che ci si è accorti della sua presenza o per rilevare un interesse nei nostri confronti.

Per confermare questa ipotesi, prima di affrontare direttamente lo studio del valore comunicativo dello sguardo nelle interazioni sociali, è necessario sapere    quanto siamo accurati e quanto siamo precisi nel valutare dove sta guardando un altro.    Negli ultimi 50 anni, per misurare quanto siamo efficaci nel percepire la direzione dello sguardo degli altri sono stati effettuati diversi studi (per una rassegna vedi Masame, 1990) che tuttavia presentano    limitazioni metodologiche e sperimentali, per cui abbiamo deciso di affrontare nuovamente il problema in condizioni sperimentali più controllate.

MetodoSono stati effettuati due esperimenti a cui hanno partecipato 40 soggetti (20 in

ciascun esperimento): il primo con lo scopo di misurare la precisione (cioè la nostra sensibilità che si riflette nella    dispersione delle risposte, convenzionalmente denominata soglia differenziale o jnd) in funzione dell’eccentricità dello sguardo dell’osservatore e il secondo con lo scopo di misurare l’accuratezza (cioè la deviazione tra direzione effettiva e direzione stimata dello sguardo, convenzionalmente chiamata Errore Costante o CE) in funzione della vergenza oculare (cioè della distanza tra bersaglio    e osservatore) e della distanza tra osservatore e soggetto. L’osservatore corrisponde allo stimolo che nel nostro caso era costituito da una porzione di viso (comprendente parte della fronte e il naso)    i cui occhi potevano mirare 11 bersagli (tra ±20° di escursione orizzontale dall’asse sagittale)    a diverse distanze (5 livelli di vergenza, cioè .5,1, 1.5, 2 e 2.5 m, per 3 livelli di distanza osservatore/soggetto, cioè 1, 2 e 3 m).    Gli stimoli erano presentati sullo schermo di un computer.    Il soggetto sperimentale doveva indicare su una sbarra graduata di 4.2 m e con l’ausilio di un puntatore laser dove l’osservatore stava guardando.

Risultati e discussioneI risultati dei due esperimenti mostrano che 1) nella zona corrispondente allo

sguardo diretto (±5° di escursione orizzontale dall’asse sagittale) la precisione è attorno a 1-2° di angolo visivo e l’accuratezza è quasi perfetta (CE=1° con un’asimmetria sistematica verso sinistra); 2) l’accuratezza diminuisce in funzione dell’eccentricità dello sguardo (i soggetti sovrastimano l’eccentricità dello sguardo con un errore costante che può giungere fino a 30° ), ma non la precisione che diminuisce solo di poco rispetto allo sguardo diretto (5° di angolo visivo); 3) l’accuratezza    non dipende dalla distanza tra osservatore e soggetto; 4) la vergenza peggiora l’accuratezza (siamo migliori quando    gli occhi dell’osservatore siano paralleli). In sintesi, da questi dati sembra confermata la possibilità che la direzione dello sguardo abbia una valenza comunicativa. In particolare la massima efficienza sembra raggiunta a circa 3 m dall’osservatore (cioè al di fuori dello spazio di contatto fisico).

Riferimenti bibliografici

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POSTER - ERGONOMIA

Kobayashy H & Kohshima s., 1997. Unique morphology of human eye. Nature, 337.Masame, k., 1990. Perception of where a person is looking:Overesimation and

underestimation of gaze direction. Tohoku Psychologica Folia, 49, 33-41.

PERCEZIONE DI DURATA DI EVENTI COMPLESSI

Lucia TomatDipartimento di Psicologia generale, Università di Padova

Nell’ambito della percezione della durata vi sono due teorie contrapposte: secondo Piaget (1966, 1981) il dato primario è quello della velocità, ed il tempo è una costruzione derivata; secondo Fraisse (1967, 1984) l’esperienza della durata è derivata, ma il dato primario è quello del numero degli oggetti o dei cambiamenti osservati. Il problema che sta alla base della controversia è la diversa concezione del tempo psicologico: per Piaget, il tempo è “coordinazione della velocità”, ed è indebitato con l’intelligenza e con il pensiero, per Fraisse invece il tempo è una intuizione pura della durata che non dipende da processi mentali. Dai numerosi lavori sperimentali di Piaget e di Fraisse emergono perlomeno due problemi. Il primo, è che è impossibile trattare il tempo, la velocità, la frequenza e la grandezza del campo di osservazione come variabili indipendenti. La velocità si converte in frequenza, ma se si modifica la grandezza dello schermo, viene alterata la velocità soggettiva, e così via. Il secondo problema è la povertà di contenuti percettivi: la situazione sperimentale è troppo povera per rivelare le interdipendenze tra le variabili fenomeniche oltre che le meglio conosciute relazioni tra le variabili fisiche.

Nel presente lavoro sono state utilizzate situazioni sperimentali più ricche di movimenti percepiti di quelle utilizzate da Fraisse e da Piaget, nel tentativo di dirimere perlomeno la seconda questione.

Soggetti, materiale, procedura e analisi dei datiHanno partecipato all’esperimento 14 soggetti, con età compresa tra i 19 e i 22

anni, con vista normale o corretta da lenti. Ognuno di loro osservava alcuni filmati a colori e privi di sonoro riprodotti da un monitor di 21’’ operante a 24 frames/sec (VHS).I film erano le variazioni in accelerazione ed in decelerazione di 3 scene principali che duravano 15 sec ciascuna.

Le scene principali erano: [M] - lo stralcio di una gara di maratona maschile, in cui si vedeva correre un gruppo comprendente circa una decina di atleti;[C] - lo stralcio di una gara di equitazione, in cui si vedeva entrare in campo un cavallo cavalcato dal suo fantino;

[D] - lo stralcio della ripresa di una donna intenta a lavare delle stoviglie.La differenza tra le scene principali è che gli indici di movimento sono molto

numerosi in M, sono invece meno numerosi in C, e ancor meno numerosi in D . Ad ogni singolo soggetto venivano presentati con il metodo dei limiti 42 film privi

di sonoro risultanti dalle 13 variazioni delle 3 scene principali: -30, -25, -20, -15, -10, -5, 0, +5, +10, +15, +20, +25, +30 %, dove i segni “-” e “+” si riferiscono a decelerazioni a ad

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accelerazioni; 0 è la scena con velocità normale. Dopo ogni prova, ad ogni soggetto veniva chiesto di riprodurre la durata del filmato premendo un tasto.

Sui dati sono state effettuate 3 analisi di regressione ed alcune ANOVA con disegno within, sui fattori film, e tipo della variazione.

Risultati e commenti I risultati indicano che la velocità alterata dei movimenti visti nelle scene non

influenza la accuratezza della stima temporale (scena M: R = 0.97, con una curva = 0.94, p < .0001; scena C: R = 0.981, con una curva = 0.89, p < .0001; scena D: R = 0.97, con una curva = 0.80, p < .0001). Per quanto riguarda la maggiore o minore presenza di elementi degli eventi (M parecchi movimenti; C movimenti meno numerosi; D pochi movimenti), solo le decelerazioni differenziano statisticamente i risultati, (F2,26 = 5.22, p = .012; accelerazioni: F2,26 = 2.67, n.s.).

I risultati del presente esperimento non supportano né il punto di vista di Piaget né quello di Fraisse. Probabilmente il problema non è la situazione sperimentale, o l’impossibilità pratica di trattare indipendentemente le variabili in gioco, ma la assunzione non legittima che tra gli aspetti dimensionali della durata fenomenica (distanza ricoperta, velocità dei movimenti, frequenza dei cambiamenti, e così via), valgano le stesse relazioni che conosciamo tra gli eventi fisici. È questo il tipico errore dello stimolo, ed i risultati potrebbero essere interpretati come una falsificazione dell’ipotesi della costanza (vedi Vicario, 1992). Ciò sembra rinforzare la conclusione tratta da Vicario (1998) circa la necessità di trattare i problemi del tempo psicologico al di fuori del quadro di riferimento dei concetti fisici.   

È possibile che la serie di alterazioni esaminate (da -30% a +30% della velocità) sia troppo limitata per permettere alla velocità dei movimenti percepiti di esercitare una qualsivoglia influenza sulla stima delle durate. Linee di ricerca future potrebbero esplorare gli alti gradi delle accelerazioni e delle decelerazioni.

Riferimenti bibliograficiFraisse, P. (1967). Psychologie du temps. Presses Universitaires de France, Paris 1967.Fraisse, P. (1984). Perception and estimation of time. Annual Review of Psychology, 35, 1-

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Press, Amherst, pp. 202-216.Vicario, G. B. (1992). L’ipotesi della costanza in Psicologia. In Piaia, G. (ed), I volti

dell’uomo: scritti in onore di P. G. Nonis. Lint, Trieste, pp. 575-590.Vicario, G. B. (1998). Time in physics and psychological time. Teorie e modelli, 1998, 3,

59-87.

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POSTER - ERGONOMIA

APPARENTE DISLOCAZIONE IN PROFONDITÀ DI UN RETTANGOLO SOGGETTO A CONTRAZIONE E

TRASLAZIONE SUL PIANO FRONTALE

Mario Zanforlin, Elisabetta Xausa, Luigi Beghi*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova*Dipartimento di Matematica Pura e Applicata, Università di Padova

Il problema della impressione di tridimensionalità prodotto da una configurazione bidimensionale in movimento è stato tradizionalmente affrontato con l’ipotesi della “tendenza alla costanza di grandezza” e matematicamente con “l’assunto di rigidità”. Tali ipotesi non permettono di spiegare vari fenomeni di percezione della profondità dal movimento, ad esempio il caso che è stato considerato da Tampieri (1959, 1964) in cui una barra si contrae e simultaneamente si disloca lateralmente sul piano frontale. Dalle nostre osservazioni risulta che tale dislocazione in profondità si verifica anche con un rettangolo sottoposto agli stessi movimenti della barra che mantiene costante la sua larghezza.

Secondo l’ipotesi di rigidità (Ullman, 1984) e secondo la legge della prospettiva, si dovrebbe percepire una figura piana che ruota in profondità muovendosi lateralmente sul piano frontale. Abbiamo sottoposto a soggetti “ingenui” la configurazione di rettangoli, prodotta sul video di un calcolatore, di varia larghezza, che periodicamente si contraevano in altezza e simultaneamente si spostavano lateralmente e viceversa, mantenendo costante la larghezza. Nelle configurazioni presentate tutti i soggetti hanno percepito una simultanea rotazione e dislocazione in profondità dei rettangoli, contrariamente ai risultati previsti dall’ipotesi di rigidità e della prospettiva. Tali risultati vengono interpretati secondo una ipotesi alternativa basata su un principio di “minimizzazione delle differenze di velocità” dei punti del pattern (Zanforlin, 1988; Beghi et al. 1997; Xausa et al., 1997).

I risultati sperimentali sono in buon accordo con quelli teorici ottenuti dal modello matematico basato sul suddetto principio di minimizzazione delle velocità.

Riferimenti bibliograficiBeghi L., Xausa E., Zanforlin M.(1997), Mathematical model of the depth effect in the

translatory alternating movement. Part B: “swinging gate” phenomenon. In C. Taddei-Ferretti (ed.) Biocybernetics of vision: integrative mechanisms and cognitive processes, World Scientific, New.York, Singapore, Hong Kong.

Tampieri, G. (1959). Movimenti fenomenici di allontanamento ed inclinazione in rapporto a differenze nelle condizioni di stimolazione. Rivista di Psicologia, 53, 17-26.

Tampieri, G. (1964). Rapporti tra movimenti fenomenici e modificazioni dell’immagine retinica. Rivista di Psicologia, 58, 93-131.

Ullman, S. (1984).Maximizing rigidity: the incremental recovery of 3-D structure from rigid and nonrigid motion. Perception, 13, 255-274.

Xausa, E., Beghi, L., & Zanforlin, M. (1997). Mathematical model of the depth effect in the translatory alternating movement. Part A: 3-D perception of length amplification. In C. Taddei-Ferretti (ed.) Biocybernetics of vision: integrative mechanisms and cognitive processes, World Scientific, New York, Singapore, Hong Kong.

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POSTER - ERGONOMIA

Zanforlin, M. (1988a). The heigth of a stereokinetic cone:a quantitative determination of a 3D effect from a 2D moving pattern without a “rigidity assumption”. Psychological Research, 50, 162-172.

Zanforlin, M. (1988b). Stereokinetic phenomena as good Gestalts: The minimum principle applied to circles and ellipses in rotation; a quantitative analysis and a theoretical discussion. Gestalt theory, 10, 187-214.

PSICOLINGUISTICA

LA FREQUENZA NON È TUTTO: DIFFERENZE TRA NOMI PROPRI E NOMI COMUNI

Francesca Peressotti, Roberto Cubelli, Marco Cova, Remo JobDPSS, Università di Padova

Nel presente lavoro confrontiamo gli effetti della frequenza d’uso di un gruppo di nomi propri e di un gruppo di nomi comuni in un compito di decisione lessicale. Lo scopo degli esperimenti è duplice. Da un lato volevamo replicare l’effetto di superiorità dei nomi propri sui nomi comuni, già evidenziato in precedenza (Peressotti, Job, Cubelli, 1998), tale per cui a parità di altre condizioni, i nomi propri scritti con la prima lettera maiuscola vengono riconosciuti più velocemente dei nomi comuni, qualsiasi sia il carattere con cui sono scritti.). Dall’altro lato volevamo verificare se l’effetto di superiorità dei nomi propri interagisse con, oppure risultasse additivo rispetto a, l’effetto di frequenza. Le risposte a questo quesito presentano rilevanti implicazioni per i processi di accesso al lessico postulati dai diversi modelli di lettura. Infatti, un effetto additivo della frequenza è maggiormente congruente con modelli ad attivazione. Al contrario, secondo i modelli a ricerca attiva, l’effetto della frequenza dovrebbe essere maggiore per i nomi comuni che per i nomi propri.

Si sono selezionati un gruppo di nomi propri e un gruppo di nomi comuni comparabili per familiarità, lunghezza e numero di categorie di appartenenza. Gli stimoli inoltre variavano per il carattere ortografico in cui erano scritti. In una condizione comparivano in maiuscolo (per esempio: ANTONIO, ARMADIO) e nell’altra condizione in minuscolo (per esempio: antonio, armadio). La lista sperimentale conteneva anche due gruppi di non-parole derivanti da parole che appartenevano alle stesse categorie semantiche dei nomi sperimentali e ai partecipanti veniva chiesto di eseguire un compito di decisione lessicale. I risultati ottenuti sono chiaramente a favore dei modelli ad attivazione e vengono discussi in riferimento al dibattito teorico attualmente in corso nell’ambito del riconoscimento di parole.

Riferimenti bibliograficiPeressotti, F., Job, R., e Cubelli, R. (1998). How we recognize proper names: Does the

capital letter matter? Lavoro presentato a Xth ESCOP Meeting, Gerusalemme.

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VALIDAZIONE DI UN TEST SULLA COMPRENSIONE DELLE PREPOSIZIONI LOCATIVE IN ETÀ

PRESCOLARE

Claudia Pizzoli*, Roberta Lorenzetti***Centro regionale per le disabilità linguistiche e cognitive in età evolutiva, ASL Bologna**Dipartimento di discipline della comunicazione, Università di Bologna

IntroduzioneLa stretta relazione tra sviluppo di strutture cognitive e acquisizione del linguaggio

costituisce il tema di vasta parte della ricerca psicologica contemporanea. Secondo alcuni autori (Johnston, 1985) è possibile differenziare ipotesi cognitive “forti” e ipotesi cognitive “deboli”. Le prime si caratterizzano per l’assunzione che i dati dello sviluppo cognitivo, ovvero costrutti non-linguistici, sono sufficienti per spiegare l’apprendimento linguistico; le seconde, d’altro canto, assumono che i fatti dello sviluppo cognitivo possono spiegare l’apprendimento linguistico solo parzialmente.

Il dibattito recente sembra orientarsi all’identificazione di specifiche situazioni in cui appaia evidente come lo sviluppo di costrutti non-linguistici intervenga nel determinare il corso dell’acquisizione linguistica. Un ambito di indagine particolarmente esemplificativo sembra essere quello dell’acquisizione delle relazioni spaziali (costrutti non-linguistici) e dell’uso delle preposizioni locative (elementi linguistici) (Cipriani, Chilosi, Bottari, Pfanner, 1993).

Infatti, il punto di vista secondo cui il pensiero costituisce il contenuto del linguaggio (ipotesi cognitiva forte) sostiene che l’acquisizione del linguaggio è vincolata dalla conoscenza concettuale e fattuale del bambino. Così, il bambino che non ha acquisito la relazione spaziale di supporto o di prossimità non dovrebbe essere in grado di capire che cosa significhino le preposizioni locative “in” o “vicino a” perché non può interpretare una configurazione di oggetti in questi termini (Slobin, 1985).

ObiettiviLo scopo del presente lavoro è quello di validare un test sulla comprensione delle

preposizioni locative della lingua italiana in età prescolare (Cresti, Moneglia, 1993; Emiliani, McKee, 1994); si intende, inoltre, controllare il tipo di relazione pragmatica-contestuale, i.e. la relazione di plausibilità e realisticità, intercorrente tra gli oggetti menzionati nelle frasi del test e presentati nelle corrispondenti tavole. Si ritiene, infatti, che l’indagine dei diversi livelli di acquisizione dei locativi, distinti nella loro occorrenza in riferimento a oggetti astratti e in relazione di congruità o incongruità tra loro, sia rilevante da un lato, rispetto allo studio psicologico del complesso rapporto tra rappresentazioni cognitive e linguaggio, dall’altro, rispetto alla diagnosi precoce di disturbi di comprensione.

MetodoSoggetti

350 bambini di età compresa tra i 4.1 e i 4.11.

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Materiale e proceduraPartendo dai risultati ottenuti in un’indagine preliminare (Lorenzetti, Pizzoli,

Zoppello, 1998) volta a determinare una scelta di metodo (test a scelta multipla vs. test di giudizio vero-falso), si è utilizzato: a) un test di denominazione lessicale (per tutti gli oggetti usati nel test sperimentale); b) un test a scelta multipla su 11 preposizioni locative (sopra, sotto, vicino, lontano, nello/a/in, dentro, sullo/a, davanti, dietro, tra, fuori) x 3 condizioni di presentazione(astratto, congruo, incongruo) (i.e., una batteria di 33 tavole con 4 figure ciascuna relative a 33 corrispondenti frasi, più 2 tavole e 2 frasi di addestramento). La presentazione del test a scelta multipla è stata controllata mediante un quadrato latino bilanciato.

RisultatiI dati raccolti sono tuttora in fase di elaborazione. Sembra, comunque, possibile

affermare che: il test rivela differenze di comprensione in diversi intervalli di età; il test discrimina opportunamente la comprensione delle preposizioni locative rispetto alla astrattezza degli oggetti utilizzati nelle frasi-tavole del test, e rispetto alla relazione di congruità e incongruità degli oggetti tra loro. In particolare si osserva che solo due preposizioni locative “tra” e “davanti” ottengono un numero elevato di risposte errate in tutte e tre le condizioni del materiale presentato, mentre le preposizioni “dietro”, “sul”, “dentro”, “lontano” presentano un numero elevato di risposte errate solo nella condizione di astrattezza. Per altre preposizioni (nello/a/in; davanti) si rileva un effetto marcato legato alla condizione di incongruità, che rimane in ogni caso un fattore che aumenta sensibilmente la difficoltà di comprensione dei locativi in generale.

Il test, dunque, sembra individuare la difficoltà di rappresentazione cognitiva di alcune relazioni spaziali, e la corrispondente difficoltà di comprensione delle preposizioni locative che le esprimono, indipendentemente dalle condizioni di presentazione del materiale (tra, davanti); inoltre, il test rileva anche la difficoltà di rappresentazione cognitiva di determinati costrutti locativi (dietro, sul, dentro, lontano; in, davanti) in dipendenza dal tipo di oggetti e di relazione pragmatica-contestuale in cui essi si presentano (astrattezza, in/congruità).

Riferimenti bibliograficiCresti, E., Moneglia, M. (a cura di) (1993). Ricerche sull’acquisizione dell’italiano. Roma:

Bulzoni.Cipriani, P., Chilosi, A.M., Bottari, P., Pfanner, L.(1993). L’acquisizione della morfosintassi

in italiano. Fasi e processi. Pisa: Unipress.Emiliani, M., McKee, C.(1994). Utilizzazione clinica di alcune metodologie sperimentali

per l’analisi di competenze morfo-sintattiche nella prima infanzia. In S. Frasson, L. Lena, P. Zottis (a cura di), Diagnosi precoce e prevenzione dei disturbi del linguaggio e della comunicazione. Padova: Edizioni Del Cerro.

Johnston, J.R.(1985). Cognitive prerequisites: the evidence from children learning english. In D.I.Slobin (ed.) The crosslinguistic study of language acquisition, Vol. 2: Theoretical issues. Hillsdale, N.J.: LEA, 961-1004.

Lorenzetti, R., Pizzoli, C., Zoppello, M. (1998). La comprensione delle preposizioni locative in compiti di giudizio vero/falso: un’indagine preliminare. Congresso

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nazionale AIP della sezione di psicologia sperimentale, Firenze, 28-30 settembre.Slobin, D.I.(1985). Crosslinguistic evidence for the language-making capacity.    In

D.I.Slobin (ed.) The crosslinguistic study of language acquisition, Vol. 2: Theoretical issues. Hillsdale, N.J.: LEA, 1157-1256.

PSICOLOGIA ANIMALE E COMPARATA

COME DIVERSE CONDIZIONI D’ILLUMINAZIONE INFLUENZANO IL RITMO BRAC NEI TOPI

Valeria Carola, Francesca D’OlimpioDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzioneÈ noto che i ritmi comportamentali si manifestano con pattern correlati alle

condizioni di illuminazione in cui vengono posti i soggetti: in condizione di buio continuo (BB) il periodo del ritmo circadiano d’attività motoria di roditori subisce un accorciamento (Possidente e Stephan, 1987) rispetto alla condizione di luce/buio (LB) mentre in condizioni di luce continua (LL) si ha un allungamento dello stesso (Hofstetter e al., 1995)

Lo stesso pattern è stato osservato relativamente ai ritmi ultradiani lenti, con periodi di circa di 200 minuti in LB, di circa 330 minuti in LL e di circa 120 minuti in BB sia nei ratti (Deprés-Brummer et al., 1995) che nei topi (D’Olimpio et al., 1996). Il ritmo ultradiano più importante da un punto di vista adattivo è il ritmo brac, che sembrerebbe essere addetto ad attività di recupero delle energie ed è presente, almeno nei roditori, sin dalle prime fasi di vita (D’Olimpio et al, 1998). Uno dei problemi maggiori relativi la manifestazione del brac consiste nella individuazione delle strutture anatomiche addette alla regolazione di questo ritmo. Gerkema (1993) ha indicato come possibili regolatori dei ritmi ultradiani l’area retrochiasmatica e il nucleo arcuato. Sulla base dei precedenti lavori lo scopo del presente lavoro consiste nel valutare la possibile influenza delle condizioni di illuminazione sul periodo del ritmo brac di topi dba/2 (il cui periodo, in condizioni di LB, è di circa 15 minuti), al fine di evidenziare un ruolo delle strutture nervose addette alla ricezione ed elaborazione degli stimoli luminosi nella generazione e modulazione del ritmo brac.

MetodoA questo scopo sono stati utilizzati 48 topi maschi del ceppo dba, assegnati a tre

gruppi, ognuno dei quali è stato sottoposto a tre diverse condizioni di illuminazione (LB 12-12, LL, BB). Ogni animale ha svolto sessioni di 130 prove (65 minuti) di shuttle box. In seguito al raggiungimento del criterio (il 98% di risposte corrette, 127 evitamenti) gli animali sono stati sottoposti a sessioni di 400 prove (200 minuti). Nel compito di shuttle box nelle condizioni di LL e LB è stato utilizzato come segnale di preavviso una luce (10W) e come stimolo avversivo uno shock elettrico, mentre nella condizione di BB la luce

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veniva sostituita da un suono (3000hz). Dai tempi di reazione forniti da ogni singolo topo alle prove successive al raggiungimento del criterio sono state analizzate le sequenze temporali tramite Discrete Fourier Transform.

RisultatiI risultati mostrano la presenza sia di un ritmo dominante con un periodo compreso

tra gli 8 e i 28 minuti (LB 8-22 minuti, BB 8-28 minuti) che di un ritmo con periodo tra i 66 e i 100 minuti sia nelle condizioni di LB che di BB, mentre in condizioni di LL si presenta un solo ritmo con un periodo variabile tra i 27 e i 54 minuti.

ConclusioniL’allungamento del periodo brac in LL sembrerebbe confermare l’ipotesi

dell’influenza dei fattori d’illuminazione sulla modulazione di tale ritmo. La similarità di periodo osservata in condizioni di LB e di BB, potrebbe essere spiegata ipotizzando che i soggetti siano in entrambi i casi sincronizzati a fattori ambientali: nella condizione di LB l’alternanza di luce-buio svolge il ruolo di sincronizzatore, mentre in BB il compito d’attività nella shuttle box potrebbe assumere tale ruolo (D’Olimpio e al., 1997). Questo dato sembrerebbe confermato anche dalla presenza della componente di 100 minuti in entrambe le condizioni. I dati dell’influenza della luce (LL) e dell’attività motoria (BB) sul ritmo brac fanno ipotizzare l’implicazione del tratto genicolo-ipotalamico nella modulazione dei ritmi brevi per la peculiarità della funzione di tale tratto che sembra mediare non solo la trasmissione d’informazioni luminose, ma anche quella di informazione sull’attività motoria svolta dall’animale, al pacemaker circadiano.

Riferimenti bibliograficiD’Olimpio, F., Carola, V., Rubeis, N. & Renzi, P. (1998). L’attività come modificatore

dell’espressione dei ritmi circadiani del topo. Atti Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale. Firenze.

D’Olimpio, F., Conte, S. & Renzi, P. (1996). Ritmi ultradiani di attività motoria in topi tenuti in condizioni di luce alternata e luce continua. Atti Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale. Capri.

D’Olimpio, F. & Renzi, P. (1998). Ultradian rhythms in young and adult mice:further support for the basic rest-activity cycle. Physiology & Behavior Vol.64, No5, pp697-701.

Deprés-Brummer, P., Levi, F., Metzger, G. & Touitou, Y. (1995). Light-induced suppression of the rat circadian system. American Journal Physiology, 268: R1111-R1116.

Gerkema, M. P., Gross, G. A. & Daan, S. (1990). Differential elimination of circadian and ultradian rhythmicity by hypothalamic lesions in the common vole, Microtus arvalis. Journal    of Biological Rhythms, Vol. 5, No 2,,pp 81-95.

Hofstetter, J. R., Mayeda, A. R., Possidente, B. & Nurnberger J. (1995). Quantitative trait loci (QTL) for circadian rhythms of activity in mice. Behavior genetics, Vol.25, No. 6.

Possidente, B & Stephan, F. K. (1988). Circadian period in mice: analysis of genetic and maternal contributions to inbred strain diffeences. Behavior genetics, Vol 18 N1.

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PSICOLOGIA FISIOLOGICA

UN TEST DI CANCELLAZIONE DI LETTERE (TCL) PER VALUTARE LE VARIAZIONI DIURNE DELLA

VIGILANZA: EFFETTI DELL’ADDESTRAMENTO

Maria Casagrande1,2, G. Curcio1,2, L. Urbani2, S. Porcù21Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza” 2C.SV., Reparto Medicina Aeronautica e Spaziale, Pratica di Mare, Pomezia (Roma)

L’uso di brevi test “carta e matita” autosomministrabili facilita la valutazione della vigilanza in contesti ecologici. Infatti, test con tali caratteristiche non richiedono né apparati sperimentali, né sperimentatori e la loro rapidità di esecuzione consente di limitare le interferenze con l’attività svolta e di minimizzare gli effetti prodotti dalla stessa misurazione. Inoltre, in alcuni casi (ad es. ricerche militari sul campo), l’uso di questo tipo di test risulta essere l’unica possibilità per valutare le variazioni della vigilanza.

Superata ormai la convinzione che un compito debba essere necessariamente lungo per essere sensibile alle variazioni della vigilanza, rimane ancora aperto il problema dell’effetto pratica o apprendimento che è presente in molti compiti e può oscurare la possibilità di rilevare le variazioni della vigilanza. Questo è quanto si verifica in quasi tutti i compiti, sia cognitivi che psicomotori, nei quali la prestazione assume un andamento curvilineo mascherando i veri effetti della sonnolenza. L’effetto confondente dell’apprendimento può essere limitato da un addestramento tale da assicurare una prestazione stabile; ma per essere adeguato deve anche tener conto del possibile intervento di eventuali effetti di apprendimento stato-dipendenti. Risulta importante pertanto valutare quale forma di addestramento (numero di prove eseguite e orari di esecuzione) riesca a minimizzare tutti i possibili effetti apprendimento.

Recentemente abbiamo proposto un breve test “carta e matita” autosomministrabile, che richiede la ricerca e la cancellazione di stimoli visivi predefiniti all’interno di una matrice costituita da stimoli simili (TCL), che è risultato sensibile a rilevare le variazioni diurne della vigilanza e i decrementi di vigilanza dovuti a deprivazione di sonno o ad assunzione di benzodiazepine (Casagrande et al., 1997; Casagrande et al., 1999a; Casagrande et al., 1999b).

Poiché l’uso del TCL può risultare particolarmente vantaggioso nella rilevazione della vigilanza in contesti ecologici, abbiamo valutato gli effetti sulla prestazione di sette differenti forme di addestramento.

MetodoHanno partecipato allo studio 126 militari, sani e senza disturbi del sonno.

Ciascuno di loro ha eseguito un TCL, che richiedeva la ricerca di due lettere target con un tempo di completamento libero, 9 volte (7.00, 9.00, 11.00, 13.00, 15.00, 17.00, 19.00, 21.00, 23.00) nell’arco di una giornata, dopo una normale notte di sonno. Una settimana

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prima della giornata sperimentale, tutti i soggetti venivano sottoposti a una sessione di addestramento, che prevedeva l’esecuzione di due diverse forme di TCL. A questo punto i soggetti erano suddivisi in 7 gruppi (G), ciascuno dei quali era sottoposto a una differente forma di addestramento, come di seguito specificato. G1: nessuna ulteriore forma di addestramento; G2: esecuzione del TCL per 3 volte (9.00, 15.00, 21.00) in una giornata; G 3: stesso addestramento di G2, ripetuto per due giornate consecutive; G4: esecuzione del TCL per 5 volte (7.00, 11.00, 15.00, 19.00, 23.00); G5: stesso addestramento di G4, ripetuto per due giornate consecutive; G6: esecuzione del TCL per 9 volte (7.00, 9.00, 11.00, 13.00, 15.00, 17.00, 19.00, 21.00, 23.00); G7: stesso addestramento di G6, ripetuto per due giornate consecutive. Ogni soggetto indossava un orologio multiallarme che segnalava l’orario di esecuzione del test e il tempo di completamento.

RisultatiAnalisi (ANOVA Gruppo x Orario sui dati della giornata sperimentale) preliminari

condotte su 63 soggetti hanno evidenziato un’interazione significativa (p<.00001) per il tempo di completamento, che ha indicato un rallentamento della prestazione alle 7.00, alle 15.00 e alle 23.00 e un suo miglioramento alle 19.00 nei gruppi 4 e 5, che non sono risultati tra loro differenti. Analogamente si è evidenziata un’interazione significativa (p<.00001) per il numero di risposte corrette, con risultati del tutto simili a quelli osservati per il tempo di completamento.

ConclusioniI risultati preliminari suggeriscono che la prestazione nel TCL è influenzata dal

numero di prove eseguito all’interno della stessa giornata, infatti solo tale caratteristica dell’addestramento sembra incrementare la sensibilità del test alle variazioni diurne della vigilanza.

Riferimenti bibliograficiCasagrande M, Violani C, Curcio G, Bertini M (1997) Assessing vigilance through a brief

pencil Letter Cancellation Task (LCT): effects of one night of sleep deprivation and of the time of day. Ergonomics, 40 (6), 613-630.

Casagrande M, Curcio G, Tricarico M, Ferrara M, Porcù S, Bertini M (1999a) Un Test di Cancellazione di Lettere (TCL) per valutare le variazioni diurne della vigilanza: effetti del carico attentivo e della durata del compito. Giornale Italiano di Psicologia. In stampa.

Casagrande M, Ferrara M, Curcio G, Porcù S (1999b) Assessing night-time vigilance through a 3-Letter Cancellation Task (3-LCT): effects of a daytime sleep with temazepam or placebo. Physiology and Behavior. In stampa.

EFFETTI DELLA TURNAZIONE SUL CICLO ATTIVITÀ-RIPOSO

PierCarla Cicogna, Vincenzo Natale, Monica Martoni, Antonella Alzani

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Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna7

Gli errori nelle prestazioni (ad esempio incidenti stradali, incidenti sul lavoro) presentano una distribuzione bimodale con un picco maggiore nelle prime ore del mattino (04-05) ed uno minore nel primo pomeriggio (14-16), vale a dire negli orari di massima propensione al sonno (Mitler et al., 1988). In condizioni di deprivazione di sonno (ad esempio lavoro notturno o lavoro a turni) la probabilità di commettere errori in concomitanza dei due picchi negativi della vigilanza aumenta ulteriormente.

Lo studio delle variazioni dei livelli di vigilanza e sonnolenza è particolarmente rilevante per il personale turnista sottoposto a variazioni del ciclo attività-riposo, e, in generale, per tutti gli operatori impegnati in attività lavorative protratte e/o monotone. In questo contesto rientrano alcuni studi (Luna et al., 1997; Mollard et al., 1997) condotti su campioni di controllori del traffico aereo volti ad indagare gli effetti della turnazione sul ciclo veglia-sonno, con particolare riferimento alle variazioni della vigilanza nell’arco delle 24 ore. Nicoletti et al. (1998) hanno riscontrato un andamento circadiano della vigilanza che si discosta da quello fisiologico durante i turni di lavoro: viene sottolineata la capacità degli operatori di mantenere un livello di vigilanza pressoché costante nell’arco delle 24 ore. Inoltre, l’andamento circadiano della vigilanza soggettiva dei controllori di volo non sembra neppure influenzato, durante i turni di lavoro, dalla tipologia circadiana (Cicogna et al., 1998).

Lo scopo di questo lavoro è stato quello di verificare i pattern dei risultati sopra citati, ottenuti mediante l’impiego di scale di autovalutazione, facendo ricorso a misure oggettive dei livelli di vigilanza, mediante l’impiego di attigrafi in operatori del traffico aereo nell’arco delle 24 ore, sia durante il lavoro, sia durante i giorni di riposo. La registrazione attigrafica ha permesso di valutare gli effetti della turnazione anche nei giorni di riposo, e inoltre di evidenziare le strategie di coping messe in atto per far fronte alle richieste imposte dall’attività lavorativa.

MetodoHanno partecipato alla ricerca 16 soggetti di un aeroporto di medie dimensioni

situato nel Nord dell’Italia. L’età media del campione era 34.00 anni, con un intervallo di variazione compreso tra 22 e 49 anni. I controllori erano impegnati in un sistema di turnazione ultrarapido (super rapid rotation), all’indietro (backward rotation): pomeriggio (13:00-20:00), mattino (7:00-13:00), notte (20:00-7:00), 3 giorni di riposo.

Ad ogni controllore si chiedeva di indossare un attigrafo (frequenza di campionamento: 60 secondi) in modo continuo per 6 giorni. L’analisi dei dati attigrafici è stata condotta con 2 diversi programmi di software: Action3 e Action-W. L’utilizzo del software Action3 ha permesso di scomporre la registrazione attigrafica delle 24 ore in intervalli di 2 ore, e di calcolare l’attività media del soggetto in corrispondenza di questi intervalli. Action-W ha consentito di identificare degli intervalli “up” (alta attività motoria o veglia) e degli intervalli “down” (bassa attività motoria o sonno) nell’arco delle 24 ore. Per determinare la tipologia circadiana è stata utilizzata la versione italiana del Morningness-Eveningness Questionnaire (Horne e Östberg, 1976): 4 soggetti sono risultati mattutini, 10 intermedi e 2 serotini.

7 Ricerca eseguita con il contributo MURST ex 40% ‘97

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RisultatiPer ciascun turno l’indice di “attività media” è stato sottoposto a un’analisi della

varianza a due fattori (within): ora del giorno (a 4 livelli per il turno del mattino e del pomeriggio, a 5 livelli per il turno di notte) e condizione lavorativa (a 2 livelli, lavoro e riposo). Il fattore ora del giorno è risultato significativo nel turno del mattino (F3,36=14.31; p<.01) e della notte (F4,40=27.86; p<.01). L’interazione fra il fattore ora del giorno e condizione lavorativa è risultata significativa sia nell’intervallo tra le 7:00 e le 13:00 (F3,36=11.45; p<.01), che nell’intervallo tra le 13:00 e le 20:00 (F3,36=2.58; p=.06). In particolare le analisi post hoc (test di Scheffè) mostrano come alle ore 7:00 l’attività media sia significativamente maggiore se i soggetti lavorano, rispetto a quando sono a riposo (p<.01). Per quanto riguarda l’intervallo tra le 13:00 e le 20:00, si può rilevare come solamente durante i giorni di riposo, tra le 13:00 e le 15:00, risulti evidente un calo fisiologico di attività.

Per quanto riguarda i dati ricavati con Action-W, è risultato significativamente diverso il momento di occorrenza del primo intervallo “down” (bassa attività motoria o sonno) dopo il turno di notte [chi-Sqr (N=10; df=2)=6.80; p=.05]. Mentre i soggetti serotini recuperano il sonno poco dopo la fine del turno, i soggetti mattutini aspettano invece la notte successiva.

ConclusioniI dati ottenuti con misure oggettive confermano quelli ottenuti mediante l’impiego

di scale di autovalutazione. In altre parole risulta confermato un andamento circadiano della vigilanza che si discosta da quello fisiologico durante i turni di lavoro. Questo risultato potrebbe essere attribuito al tipo di lavoro, caratterizzato da un alto grado di responsabilità e per questo altamente attivante. È però interessante notare come durante i giorni di riposo riemerga l’andamento fisiologico della vigilanza nelle 24 ore, differenziato per tipologia circadiana. In particolare i tipi serotini confermano una maggiore flessibilità del ciclo veglia/sonno.

Riferimenti bibliograficiCicogna P.C., Nicoletti R., Alzani A., Iani C., & Natale V. (1998). Livelli di vigilanza

soggettiva e tipologia circadiana nel controllo del traffico aereo. 6° Convegno Nazionale della Società Italiana di Cronobiologia, 27-28 novembre, Chianciano: 87.

Horne J., & Östberg O. (1976). A self-assessment questionnaire to determine morningness-eveningness in human circadian rhythms. International Journal of Chronobiology, 4, 97-110.

Luna T.D., French J., & Mitcha J.L. (1997). A study of USAF air traffic controller shiftwork: sleep, fatigue, activity and mood analyses. Aviation, Space, and Environmental Medicine, 68, 18-23.

Mitler M.M., Carskadon M.A., Czeisler C.A., Dement W.C., Dinges D.F., & Graeber R.C. (1988). Catastrophes, sleep and public policy: Consensus Report. Sleep, 11, 1, 100-109.

Mollard R., Bougrine S., Cabon P., Cointot B., & Martel A. (1997). Analysis of sleep, sleepiness and fatigue of air traffic controllers working with different work schedules. Chronobiology International, 14, Supplement 1, 117.

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Nicoletti R., Alzani A., Depolo M., Iani C., & Scozzari V. (1998). Livelli di vigilanza nel controllo del traffico aereo. AIP, Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, 28-30 settembre, Firenze: 200-202.

PRESUPPOSTI MOTIVAZIONALI DELLE REAZIONI PSICOFISIOLOGICHE ASSOCIATE AL

PROCESSAMENTO DI IMMAGINI SPIACEVOLI

Daniela Palomba, Giulia Buodo, Michela Sarlo*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

Numerose ricerche hanno messo in evidenza che stimoli spiacevoli o minacciosi per l’individuo producono una risposta psicofisiologica definita come “reazione di difesa”, caratterizzata da un aumento dell’attività cardiaca e dell’afflusso sanguigno ai muscoli e funzionale a preparare l’organismo all’attacco o alla fuga. Accanto alla reazione di difesa è stato osservato un diverso pattern di risposte, caratterizzato da decelerazione cardiaca, decremento dell’attività motoria e vasocostrizione muscolare. È stato ipotizzato che la funzione di questo insieme di risposte sia quella di aumentare la disponibilità di risorse attentive verso lo stimolo aversivo, dal momento che la decelerazione cardiaca faciliterebbe l’elaborazione centrale delle informazioni sensoriali in entrata.

Diversi studi hanno evidenziato che alcune classi di stimoli emotigeni spiacevoli, presentati visivamente, producono una marcata decelerazione cardiaca. In particolare, immagini raffiguranti sangue o ferite aperte inducono una decelerazione cardiaca maggiore rispetto ad altri contenuti aversivi, quali situazioni di minaccia, aggressione ecc. (Angrilli et al., 1994). Utilizzando stimoli filmici, la più ampia decelerazione cardiaca osservata per immagini di ferite o sangue era anche associata ad una maggiore inibizione del riflesso di ammiccamento (indice di maggiore impegno attentivo), confermando l’ipotesi di una associazione tra decelerazione cardiaca e aumentato processamento dello stimolo (Palomba et al., 1995). Le modificazioni fisiologiche, assieme a quelle attentive, metterebbero quindi in luce le disposizioni motivazionali che modulano il processamento di particolari classi di stimoli aversivi.

Questi quesiti sono stati affrontati in fasi successive di ricerca. In uno primo studio abbiamo selezionato 15 diapositive raffiguranti due classi di stimoli a contenuto emotigeno aversivo (minaccia/attacco e ferite/sangue), confrontate con immagini neutre (oggetti domestici), e le abbiamo presentate a 46 soggetti registrando le modificazioni vegetative prodotte (conduttanza cutanea, frequenza cardiaca, tono vagale e pressione arteriosa). I risultati hanno confermato che la decelerazione cardiaca è consistentemente maggiore per gli stimoli raffiguranti ferite o sangue, ma hanno anche evidenziato che questi stimoli producono la maggior attivazione simpatica (conduttanza cutanea) e sono più sensibili alla modulazione del tono vagale (RSA). Le due diverse situazioni spiacevoli producono quindi due pattern psicofisiologici distinti di cui quello che si osserva di fronte a stimoli raffiguranti ferite o sangue, pur estremamente attivante (maggior incremento di conduttanza

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cutanea), sembra poco funzionale ad una risposta comportamentale di fuga e più indicativo di una persistenza nell’elaborazione dello stimolo.

In una seconda fase dello studio abbiamo quindi utilizzato una misura più diretta di allocazione delle risorse attentive: i tempi di reazione in un paradigma del doppio compito durante la visione di immagini appartenenti alle stesse classi emotigene spiacevoli (in numero di 8 per classe). Abbiamo anche valutato la memoria delle immagini come indice del processo di elaborazione degli stimoli. In linea con i risultati precedenti si ipotizzava che la categoria “sangue/ferite” avrebbe ottenuto tempi di reazione più lenti, avrebbe prodotto il ricordo di un maggior numero di item rispetto alla categoria “minacce” e che tale effetto potesse essere modulato dal tono vagale. I risultati hanno mostrato tempi di reazione significativamente maggiori per le immagini di ferite/sangue, rispetto sia alle situazioni di minaccia che neutre. Le immagini raffiguranti sangue o ferite venivano anche ricordate meglio confermando un privilegio nella loro elaborazione rispetto alle situazioni di minaccia.

In un’ultima fase, abbiamo voluto indagare se tale meccanismo di processamento per stimoli aversivi potesse essere influenzato dal livello d’ansia individuale. È noto infatti che l’ansia costituisce uno stato motivazionale che tende a favorire l’elaborazione di stimoli spiacevoli, ma non è chiaro se tale aspetto sia selettivo per alcune classi di stimoli o indifferenziato. Abbiamo pertanto individuato tra i 49 soggetti partecipanti allo studio, in base ai punteggi ottenuti allo STAI per l’ansia di tratto, 12 soggetti con alta (al di sopra del 75° percentile) e 13 con bassa ansia (al di sotto del 25° percentile). I soggetti ad alta ansia producono tempi di reazione più lenti, rispetto ai soggetti a bassa ansia, solo per la categoria mutilazioni, mentre non è significativa la differenza tra i due gruppi di fronte agli stimoli di minaccia o neutri. Ancora una volta si dimostra peculiare e selettiva l’elaborazione di stimoli raffiguranti sangue o ferite.

Riferimenti bibliograficiAngrilli, A., Palomba, D. e Stegagno, L. (1994). Modulazione psicofisiologica delle

emozioni indotte da stimoli visivi. Giornale Italiano di Psicologia, XXI (5), 833-856.

Palomba, D. Mini, A. e Sarlo, M. (1995). Risposte emozionali a stimoli visivi spiacevoli: fattori psicofisiologici di mediazione. Riassunti I Congresso Nazionale della Divisione AIP Ricerca di Base in Psicologia, Rivista di Psicologia, LXXX (1), 115-116.

RAGIONAMENTO E IMMAGINI MENTALI

MANCATA CONFERMA DELL’EFFETTO DISGIUNZIONE NELLE SCELTE IN CONDIZIONE DI

INCERTEZZA

Maria Bagassi, Maria Grazia Serafini, Laura Macchi, Giuseppe MosconiDipartimento di Psicologia, Facoltà di Psicologia, Università degli Studi di Milano-

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Bicocca

Tversky e Shafir (1992) sottoposero a tre gruppi di soggetti, in un disegno sperimentale between-subjects, il problema “Vacanze” e il problema “Scommessa” formulati per lo studio dei processi decisionali in condizione di incertezza.

Oggetto di analisi della presente ricerca è solo il secondo, essendo stato il primo già da noi analizzato in due ricerche, presentate in recenti Congressi di Psicologia Sperimentale (Cesena, 1995; Capri, 1997).

T. e S. chiedevano ai Ss. del problema “Scommessa” di decidere se accettare o no una scommessa alle stesse condizioni di una appena fatta sapendo, rispetto alla precedente, a) di aver vinto $ 200 (vers. WON), b) di aver perso $100 (vers. LOST), c) non sapendo se si è vinto o perso (vers. DISJUNCTIVE). Mentre più della metà dei Ss. accetta di fare una scommessa, quando è noto l’esito della prima, solo poco più di un terzo accetta di scommettere ancora, quando non sa se la prima volta ha vinto o ha perso. Secondo gli autori, i Ss. violano il Principio della cosa sicura di Savage. Essi spiegano così il fenomeno (disjunction effect ): in condizione di incertezza “viene a mancare una chiara ragione per giocare una seconda volta e diventa più difficile considerare le implicazioni di ciascun risultato”.

A nostro parere, invece, responsabile dell’effetto è il testo stesso della versione disgiuntiva utilizzato dagli autori, malformato da un punto di vista psicoretorico. Precisamente, il dire “ La moneta è stata lanciata, ma non saprai se hai vinto o perso finché non avrai deciso se accettare o rifiutare una seconda scommessa alle stesse condizioni “ induce la decodificazione errata che si gioca una seconda volta per sapere come è andata la prima, trasformando lo scopo della seconda scommessa da giocare per vincere (ancora o per rifarsi della perdita), in giocare per sapere. Tale interpretazione parrebbe ottenere conferma da un esperimento nel quale abbiamo sottoposto a quattro gruppi di Ss. le tre versioni di T. e S. e una vers. Disg. “depurata”, in cui la scelta di giocare non è finalizzata alla conoscenza dell’esito della prima scommessa: “ La moneta è stata lanciata, ma non sai se hai vinto o perso. Ora, puoi giocare una seconda volta alle stesse condizioni”. Il 60% dei Ss. accetta la seconda scommessa sia nella vers. WON, sia nella versione Disg. “depurata”, rispetto al 41% della vers. Disg. di controllo, senza distinzione, quindi, tra la situazione di conoscenza dell’esito della prima scommessa e quella di incertezza.

Come già avevamo rilevato con il problema “Vacanze” (Mosconi et al., 1995), anche con il problema “Scommessa” si assiste alla scomparsa dell’effetto disgiunzione e di una qualsivoglia violazione del principio della cosa sicura, a condizione che il problema non si trasformi da “giocare per vincere” in un oneroso “giocare per sapere”. Contrariamente a quanto sostengono T. e S., “l’incertezza relativa alla prima scommessa” non “rende più difficile considerare le implicazioni di ogni esito”. A nostro parere, l’incertezza non riguarda la decisione in sé, ma solo la possibile giustificazione della decisione.

Abbiamo così sottoposto ad altri tre gruppi di Ss. le tre versioni WON LOST e Disg. “depurata”, in ognuna delle quali i Ss. potevano scegliere tra: a) accettare, b) rifiutare e c) pensarci e rimandare la decisione a domani [solo per la versione Disg.:(quando ti sarà reso noto l’esito della prima scommessa)]. Nessun soggetto rimanda la decisione con le versioni WON e LOST, mentre la rimanda il 45% dei soggetti della vers. Disg., creando così un fittizio effetto disgiunzione.

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Secondo la nostra interpretazione, ciò è dovuto alla normale impossibilità di attivare congiuntamente, in vista della giustificazione, due principi comportamentali incompatibili (“ restare in vantaggio” in caso di vincita, “ uscire dal rosso” in caso di perdita); cosicché i Ss., in situazione di incertezza, se hanno la possibilità di rimandare la decisione a quando sapranno come giustificarla, scelgono di rimandare; se, invece, sono costretti a scegliere, scelgono di giocare.

Riferimenti bibliograficiMosconi, G. (1990). Discorso e pensiero, Il Mulino, Bologna, capp. IV e X.Mosconi, G. Bagassi, M. Macchi L.(1995).Effetto Disgiunzione: Ragioni poco chiare o

ragioni incompatibili?, Ricerca di Base in Psicologia. Congresso Nazionale, Cesena.

Mosconi, G. Bagassi, M., Macchi L. e Serafini M.G. (1997). Mancata conferma dell’effetto disgiunzione nelle scelte in condizione di incertezza. Ricerca di Base in Psicologia. Congresso Nazionale, Capri.

Shafir, E.(1994). Uncertainty and the difficulty of thinking through disjunctions, Cognition, 50, 403-430.

Tversky, A. Shafir, E. (1992). The disjunction effect in choice under uncertainty, Psychological Science, 3, 5, 305-309.

L’EFFETTO CONTESTO LEGATO ALLA POSTURA DEL CORPO

Alessia Cadamuro, Fiorella GiusbertiDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneIn letteratura, ormai da diversi anni, si è giunti alla conclusione che il materiale

appreso in un particolare ambiente è difficile da rievocare quando il contesto è completamente diverso.

In uno studio condotto da Godden e Baddeley (1975) venivano fatte apprendere a subacquei delle liste di parole in 2 situazioni diverse: sulla spiaggia o in immersione, ed era di seguito chiesta la rievocazione nella stessa situazione di apprendimento o in quella alternativa. La ricerca ha evidenziato un chiaro effetto di dipendenza del contesto: nella situazione in cui imparavano la lista in una condizione ambientale    e la rievocavano nella situazione opposta i soggetti ricordavano il 40% in meno rispetto a    quando la fase di apprendimento e di rievocazione erano effettuate nello stesso contesto ambientale.

Usando lo stesso schema sperimentale Goodwin et al. (1969) studiarono gli effetti dell’alcool sulle prestazioni di memoria: ciò che i soggetti imparavano sotto l’effetto dell’alcool veniva ricordato meglio nella medesima situazione, cioè quando si trovavano in stato di ebbrezza, che non quando erano sobri.

Un altro effetto ampiamente riconosciuto è quello della “specificità di codifica” (Tulving 1978), secondo cui gli stimoli presenti al momento in cui si sta apprendendo

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qualcosa tendono ad essere dei buoni facilitatori o indici di richiamo di ciò che deve essere rievocato.

Il fatto che degli stimoli contigui o accoppiati ripetutamente costituiscono l’uno un buon indice di richiamo dell’altro spiega il fenomeno dell’apprendimento dipendente dalla situazione: ciò che viene appreso in un particolare ambiente o in una particolare condizione fisiologica tende ad essere ricordato meglio nello stesso ambiente o nella stessa condizione. Per Reed (1988) il sopracitato effetto dà ragione del fatto che i soggetti possono fornire una prestazione migliore se vengono “calati” in un contesto il più vicino e simile possibile a quello di acquisizione; è come se fosse difficile compiere un trasferimento di comportamenti cognitivi e motori da un contesto ad un altro.

La nostra intenzione era, dunque, quella di appurare se questo effetto, legato al contesto di apprendimento, fosse riscontrabile anche nel caso si faccia apprendere il materiale al soggetto in certe posture del corpo, per poi testarlo nella stessa posizione o in una alternativa (seduto vs. coricato).

MetodoHanno preso parte all’esperimento 20 studenti universitari che sono stati sottoposti

a 2 sessioni sperimentali, ad una settimana di distanza. Il compito consisteva nell’apprendere una serie di figure omogenee per difficoltà, frequenza d’uso e nominabilità, tratte da una lista standardizzata (Snodgrass e Vanderwart, 1980).

Metà dei soggetti sperimentali apprendevano la lista da seduti, l’altra metà da coricati. Tutti comunque rievocavano la lista di figure da seduti e da coricati. Durante la prima sessione facevamo apprendere al soggetto la prima lista di figure in una postura e, dopo un compito matematico interferente, chiedevamo la rievocazione libera nella stessa postura o in quella alternativa. Nella seconda sessione facevamo apprendere una seconda lista di figure, analoga alla prima, e ne chiedevamo, poi ai soggetti, la rievocazione nella posizione opposta a quella in cui era stata rievocata durante la prima sessione sperimentale.

In questo modo era possibile effettuare per ciascun soggetto un confronto qualitativo tra la rievocazione prodotta nella postura analoga a quella dell’apprendimento e in quella opposta (seduta/coricata).

RisultatiI dati raccolti sono ancora in fase di elaborazione.

Riferimenti bibliograficiGodden D., Baddeley A. D. (1975). Context-dependent memory in two natural

environments: On land and under water. British Journal of Psychology, (71) 99-104.

Goodwin D. W., Powell B., Bremer D., Hoine H., Stern J. (1969). Alcohol and recall: State dependent effects effects in man. Science, (163), 1358.

Reed H, Jayne A, Eugene S. (1986). Shared and item-specific information in memory for event descriptions. Memory-and-Cognition. (14) 49-54.

Snodgrass J. G., Vanderwart N. (1980). A standardized set of 260 pictures: norms for name agreement, image agreement, familiarity and visual complexity. Journal of Experimental Psychology, (6), 174-215.

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POSTER - ERGONOMIA

Tulving E. (1978). Relation between encoding specificity and levels of processing and human memory. A cura di Cermak L. S. e Craick F. I. M., Hillsdale, Erlbaum.

IL METAPHORIC TRIADS TASK DI KOGAN: IL RUOLO DELLE ETICHETTE VERBALI NELLA

COMPRENSIONE DELLE METAFORE VISIVE

Marco Papotti, Dolores Rollo, Silvia PeriniIstituto di Psicologia, Università degli Studi di Parma

IntroduzioneLa metafora può essere espressa in diverse forme, alcune delle quali sembrano di

più facile comprensione rispetto alle altre; una prima grande distinzione riguarda il tipo di input linguistico e nonlinguistico (Vosniadou, 1984).    La letteratura recente è ormai concorde nell’affermare che sia i bambini che gli adulti sono più sensibili ad elaborare input di tipi visivo che non verbali. Le potenzialità in questo campo offerte dall’utilizzo di misure nonverbali furono colte da alcuni autori (Kogan, Chadrow, 1986), che discostandosi da un ambito puramente linguistico, contribuirono alla definizione di metafora in termini di concettualizzazione. Kogan et al. (1980), misero a punto un compito sperimentale costituito da 29 triadi di disegni, suddivise in due set equivalenti per complessità (metafore percettive e concettuali) denominato Metaphoric Triads Task (MTT). Tra i maggiori pregi dell’MTT ricordiamo la facilità con il quale può essere somministrato anche a gruppi di soggetti, la semplicità della consegna, le diverse possibilità di utilizzo rispetto alle diverse dimensioni della metafora.

D’altra parte, in coerenza con una linea teorica ecologico-funzionale, la metafora viene spiegata come un’estensione categoriale, e cioè come la capacità di applicare l’etichetta verbale convenzionalmente attribuita ad una specifica classe di oggetti/eventi agli elementi di un’altra classe-stimolo, in virtù di una o più somiglianze percettive e/o funzionali tra gli oggetti o eventi. E anche questa capacità, come la concettualizzazione di base, trae vantaggio dalla presenza di stimoli linguistici aggiuntivi (Perini, Rollo, 1997).

ScopoIl presente lavoro si propone di offrire un ulteriore apporto allo studio della

metafora nella sua duplice dimensione, linguisitco-cognitivo e funzionale. In particolare, mediante l’utilizzo dell’MTT, si cercherà di mettere in evidenza 1) il ruolo dell’etichetta verbale e, perciò, il grado di comprensione della metafora in rapporto alla quantità ed al tipo di suggerimento verbale associato allo stimolo; per questo motivo si provvederà a diverse modalità di somministrazione: (a) disegni con etichette verbali associate significativamente ai disegni, (b) disegni senza etichette verbali, (c) disegni identificati da etichette verbali generiche. 2) Si intende inoltre verificare la relazione tra modalità di presentazione del materiale e la suddivisione del materiale stesso (items) in metafore percettive e concettuali in rapporto all’età.

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MetodoIl campione è costituito da 8 gruppi di soggetti di pari età compresi tra i 15 ed i 19

anni. Il disegno sperimentale è un fattoriale 4 (età) x 3 (tipo di somministrazione) x 2

(set di items) di cui l’ultima variabile a misure ripetute.

Riferimenti bibliograficiGlucksberg, S., (1991). Beyond literal meaning: the psychological of allusion.

Psychological Science, 2, 146-152.Kogan, N., Chadrow, M., (1986). Children’s comprehension of metaphor in the pictorial

and verbal modality. International Journal of Behavioral Development, 9, 285-295.

Kogan, N., Connor, K., Gross, A.,    Fava, D., (1980). Understanding visual metaphor; developmental and individual differences. Monographs of the Society for Research in Child Development, 45,1 Serial n.183.

Rollo, D., Pinelli, M., Pelosi, A. (1997). Interazione linguistica ed organizzazione concettuale. Studi di Psicologia dell’Educazione, , XVI, 3, 67-83.

Vosniadou, S., (1987). Children and Metaphors. Child Development, 58, 870-885.Winner, E., (1988). The points of words. Cambridge, Harvard University Press,

Massachussetts.

IDENTIFICAZIONE DELLE CARATTERISTICHE DELLA SINDROME NON VERBALE IN ALUNNI CON

DISABILITÀ MATEMATICHE

Maria Chiara Passolunghi*, Linda Siegel *** Università di Trieste, Facoltà di Psicologia** University of British Columbia, Canada

Alcune caratteristiche della Sindrome Non Verbale, identificata da Rourke (1988, 1989, 1995), sono: deficit di tipo visuo spaziale, difficoltà nella coordinazione percettivo-motoria e difficoltà di problem solving non verbale. Gli studi su tale problematica sono però ancora scarsamente sistematici e non vi è ancora una chiara ed univoca definizione di questa sindrome (cfr. Semrud-Clikerman & Hynd, 1990).

Scopo di questa ricerca è quello di esaminare le abilità cognitive di soggetti con deficit nell’area matematica (calcolo e/o soluzione di problemi) prendendo in particolare in esame le abilità di memoria verbale e visiva e le abilità di tipo visuo-spaziale. Si è voluto verificare se i soggetti con deficit nell’area matematica presentino, e in che misura, oltre a difficoltà relative alla memoria di lavoro verbale (cfr. Passolunghi, Cornoldi, De Liberto, in press), anche deficit nell’ambito della memoria di lavoro visiva e delle abilità visuo-spaziali.

Sono stati esaminati alunni frequentanti la seconda classe della scuola media, ripartiti in due gruppi: gruppo DA (alunni con disabilità nell’area matematica) e gruppo di

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controllo. La selezione è avvenuta a seguito di un screeening su 150 alunni. I risultati hanno messo in luce una prestazione carente dei DA sia nei compiti

relativi alla memoria di lavoro verbale e spaziale, sia nel caso di prove che richiedono una abilità di imagery e rappresentazione visuo-spaziale.

Riferimento bibliograficiPassolunghi, M.C., Cornoldi, C., De Liberto, S. (in press). Working memory and inhibition

of irrelevant information in poor problem solvers, Memory and Cognition.Rourke, B.P. (1988).Socio-emotional disturbancies of learning disabled children. Journal of

Consulting and Clinical Psychology, 56, 801-810.Rourke, B.P. (1989). Non verbal learning disabilities: the sindrome and the model. New

York: The Guilford Press. Rourke, B.P. (1995). Syndrome of nonverbal learning disabilities: neurodevelopmental

manifestations. New York: The Guilford Press.Semrud-Clikerman, M., Hynd, G.W. (1990). Right hemispheric disfunction in nonverbal

learning disabilities: social, academic, and adaptive functioning in adults and children, Psychological Bullettin, 197, 2, 196-209.

PSICOLOGIA DEL PENSIERO: PROBLEM SOLVING E RAGIONAMETO

Maria Grazia Serafini, Maria Bagassi, Laura Macchi, Giuseppe MosconiDipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Questa comunicazione fa seguito a quella presentata lo scorso anno che sottolineava come la scomparsa del Problem solving dalle aree tematiche proposte per il Congresso fosse non giustificata e fuorviante o, quanto meno, necessitasse di una preliminare discussione che ne desse conto.

Temi quali il ruolo del Problem Solving nella Psicologia del pensiero, il rapporto tra Problem Solving e Ragionamento, la peculiarità della ricerca sul Ragionamento, la profonda trasformazione della Psicologia del pensiero derivante dal trascurare il contributo del Problem Solving rimangono argomenti di oggettiva rilevanza teorica che non possono essere dati per risolti senza un approfondimento critico. (Mosconi 97, Mosconi et al. 1998)

Basta considerare le differenze, rilevate dall’intervento dello scorso anno, tra il costrutto di euristica come concepito nelle ricerche sul Problem Solving (Polya, Dunker, Newell e Simon) e come concepito in quelle sul Ragionamento (da Wason a Kahneman e Tversky), o i problemi lasciati aperti sugli insight-problems, (Kaplan e Simon, Sternberg) per constatare che l’argomento non possa essere archiviato.

Ferme restando le argomentazioni già indicate, ora ci proponiamo di verificare se la riduzione di quest’area a Ragionamento e Immagini mentali risponda almeno di fatto ad una tendenza o ad una linea presente nella letteratura internazionale.

Abbiamo utilizzato come banca dati bibliografica PsycLIT, in quanto garantiva per la letteratura psicologica autorevolezza e la più ampia copertura. La ricerca è stata

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POSTER - ERGONOMIA

impostata in modo tale da garantire la massima omogeneità tra i termini trattati: si è tenuto conto dei records apparsi nelle stesse aree tematiche prese negli ultimi dieci anni. I dati sono stati aggiornati al giorno 13. 5. 1999; la chiave di entrata alla ricerca era problem solving e reasoning trattate separatamente e performate ambedue alla ricerca su: titolo, abstracts, indice se trattasi di volume ed identificatori di ricerca, con la limitazione sul periodo dal 1989 al 1999. La caratteristica del primo dato esaminato è quella di riferirsi alle ricerche dei diversi settori della psicologia. Il secondo dato, che ci interessa più da vicino, si riferisce invece alla letteratura riguardante i processi cognitivi nell’ambito della psicologia sperimentale umana contraddistinta dal codice di classificazione del sistema n. 2340.

chiavi di ricerca nn. records presenti dagli anni 1989-99

records presenti con la limitazione c.c 2340

problem solving 7339 906reasoning 4903 961

La prima considerazione che si può fare è quella di prendere atto che la ricerca

psicologica, almeno quantitativamente, continua a considerare questi due temi di ricerca, Problem Solving e Reasoning, come due argomenti ugualmente degni di attenzione. Se vogliamo considerare i risultati della ricerca riguardante le immagini mentali (mental imagery) notiamo un notevole sviluppo di questo argomento (439 records). Tuttavia, se introduciamo la limitazione al campo dei processi cognitivi, analogamente a quanto è stato fatto con problem solving e reasoning, si manifesta la particolarità e specificità dell’argomento in corrispondenza del numero dei records: solo 97.

La nostra ricerca ha anche evidenziato la stabilità quantitativa nel decennio della letteratura sul problem solving mentre permette di registrare una tendenza all’aumento delle ricerche, riferite sempre a questi ultimi dieci anni, sul Ragionamento.

Riferimenti bibliograficiDunker, K. (1935), Zur Psychologie des produktive Denkens, Berlin, Denkens Springer;

trad. it. La psicologia del pensiero produttivo, Giunti-Barbera. Firenze, 1969.Mosconi, G. (1997), Euristiche e bias come indicatori di concezione del pensiero, in F.

Czerwinsky Domenis (a cura di), Obiettivo bambino. Scritti in onore di G. Tampieri, F. Angeli, Milano.

Mosconi G.- Bagassi M.- Macchi L.- Serafini M.G. (1998), Problem solving e psicologia del pensiero, in Firenze 98, Riassunti, AIP Associazione Italiana di Psicologia, Congresso Nazionale della sezione di Psicologia Sperimentale, Firenze 28-30 sett. 1998.

Newell, A. e Simon, H. A. (1972), Human problem solving, Englewood Cliffs (N.J.), Prentice-Hall.

Polya, G. (1945), How to solve it., Princeton (NJ), Princeton Universit Press, trad. it. Come risolvere i problemi di matematica, Feltrinelli,Milano, 1967.   

Simon, H.A. e Kaplan, C.A. (1990), In Search of Insight, in Cognitive Psychology, 22, pp. 374-419.

Tverski, A. e Kahneman, D. (1974). Judgment under uncertainty: Heuristics and biases. Science, 185, 1124-1131

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Wason, P.C. (1983), Realism and rationality in the selection task. In J. St B.T. Evans (a cura di), Thinking and reasoning. Rutledge e Kegan P., London.

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STRUMENTI DI MISURA E MODELLI DI ANALISI DEI DATI

VALIDAZIONE CON CRITERI ESTERNI DELLA COMPOSITE SCALE OF MORNINGNESS

Antonella Alzani, Monica MartoniDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

Uno degli obiettivi della cronopsicologia consiste nel tentare di far luce sull’organizzazione dei ritmi delle funzioni psicologiche, sulla loro interazione con i ritmi biologici e sociali e nell’individuare strategie atte a ottimizzare l’organizzazione ritmica del comportamento (Cicogna e Natale, 1997). Attualmente le differenze individuali nell’organizzazione circadiana del ciclo attività-riposo costituiscono un problema centrale della cronopsicologia. La distinzione in cronotipi (mattutini, intermedi e serotini) suggerisce profili differenziati in relazione alla capacità di adattamento e di tolleranza a modificazioni del ciclo veglia-sonno. Si ritiene che i soggetti serotini si adattino più facilmente a cambiamenti del ritmo veglia-sonno (Honma, Ishihara e Miyake, 1992) e, conseguentemente, ad attività lavorative che prevedano regimi di turnazione (per una rassegna v. Härmä, 1993).

A causa delle evidenti ricadute applicative di questo settore di studio, è risultato utile mettere a punto misure di facile impiego atte a classificare gli individui in base alla tipologia circadiana. Nel tentativo di mettere a punto una misura che offrisse maggiori garanzie in termini di affidabilità e di validità, Smith, Reilly e Midkiff (1989) hanno pubblicato la Composite Scale of Morningness (CS). Questo questionario prende il suo nome dal fatto che discende da un’accurata analisi di tre precedenti questionari e deriva da una selezione dei “migliori” item tratti da questi.

Un problema, di tipo operativo, probabilmente ha limitato fino ad ora la diffusione di questo strumento. Il problema è legato ai criteri di cut-off (10° e 90° percentile) che ne limita l’uso per piccoli gruppi o individuale. Per eliminare questo problema, Alzani e Natale (1998) hanno recentemente suggerito di adottare dei valori fissi di cut-off indipendenti dal campione. I risultati ottenuti somministrando il questionario a due differenti campioni, studenti universitari e lavoratori a turni diurni, hanno confortato l’adozione di questi nuovi criteri. Lo scopo di questo lavoro è di verificare la validità dei nuovi criteri di cut-off indipendenti dal campione utilizzando criteri esterni, quali la temperatura corporea e i livelli di vigilanza. Questo permetterà di ricavare anche una validazione con criteri esterni (indici psicofisiologici) della Composite Scale. Si è preferito utilizzare una popolazione di studenti universitari in quanto più liberi di seguire i propri ritmi perché meno vincolati ai ritmi sociali.

MetodoHanno partecipato all’esperimento 45 soggetti retribuiti, studenti universitari, 15

maschi e 30 femmine, di età compresa tra i 20 e i 27 anni. I soggetti dovevano presentarsi in

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laboratorio alle ore 08:00, 14:00 e 23:00. Dieci minuti dopo il loro arrivo veniva registrata, con un termometro digitale posto nel cavo ascellare (Adan, 1991), la temperatura corporea e, con una scala visuo-analogica (la Global Vigor-Affect Scale - GVA) (Monk, 1989), il livello soggettivo di vigilanza e del tono dell’umore. L’ora di inizio è stata bilanciata. Nell’intervallo tra ogni sessione i soggetti erano liberi di lasciare il laboratorio e svolgere le consuete attività. Al termine dell’ultima sessione sperimentale i soggetti hanno compilato la versione italiana della Composite Scale of Morningness (Alzani e Natale, 1998). In base al punteggio ottenuto i soggetti sono stati assegnati, utilizzando i nuovi criteri di cut-off (13-26 serotini; 27-41 intermedi; 42-55 mattutini), ad uno dei tre gruppi: mattutini (n=4), intermedi (n=32) e serotini (n=9). Per tutti e tre gli indici raccolti (temperatura, vigilanza soggettiva e tono dell’umore) i dati sono stati trasformati in punteggi z per ciascun soggetto. Sui dati così trasformati è stata poi effettuata un’analisi della varianza a due fattori: tipologia circadiana (a tre livelli: mattutino, intermedio, serotino) (between) e ora del giorno (a tre livelli: 08:00, 14:00 e 23:00) (within).

RisultatiPer quanto riguarda la temperatura corporea il fattore ora del giorno è risultato

significativo (F2,84=3.60; p<.05). Per tutte e tre le tipologie i valori più bassi della temperatura corporea si osservano alle ore 08:00. L’ampiezza, cioè l’intervallo tra il valore minimo e massimo, risulta progressivamente maggiore dalla tipologia mattutina alla tipologia serotina (.31°C per i mattutini, .39°C per gli intermedi e .44°C per i serotini).

Per quanto riguarda la vigilanza soggettiva il fattore ora del giorno è risultato significativo (F2,84=6.08; p<.005). Anche l’interazione ora del giorno e tipologia circadiana è risultata significativa (F4,84=3.97; p<.005). Le curve della vigilanza soggettiva delle tre tipologie differiscono essenzialmente nell’ora del giorno in cui la curva raggiunge i valori minimi, alle 23:00 per i mattutini e gli intermedi, alle 08:00 per i serotini.

Per quanto riguarda il tono dell’umore non si sono osservate variazioni significative. Per tutte e tre le tipologie si osserva un andamento piuttosto stabile nell’arco della giornata.

ConclusioniLa scelta del campione si è rivelata buona. Infatti la distribuzione percentuale dei

soggetti nelle tre tipologie (mattutini=8.89%; intermedi=71.11%; serotini=20.00%) replica quella ottenuta su un campione più vasto (Alzani e Natale, 1998).

Il potere discriminativo della Composite Scale è stato replicato utilizzando criteri esterni. Inoltre la scelta dei nuovi criteri di cut-off sembra confermarsi corretta. È possibile concludere che la versione italiana della CS può essere utilmente impiegata per individuare le tipologie circadiane sia nell’ambito della ricerca sperimentale sia nell’ambito della psicologia applicata.

Riferimenti bibliograficiAdan A. (1991). Axillary temperature measure as a biological rhythm marker. A diurnal

Study. Medical Science Research, 19, 735-736.Alzani A. & Natale V. (1998). Uno strumento per la valutazione delle differenze individuali

nei ritmi circadiani: una versione italiana della Composite Scale of Morningness. Testing Psicometria Metodologia, 5(1), 19-31.

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Cicogna P.C. & Natale V. (1997). Elementi di cronopsicologia. Napoli: Gnocchi.Härmä M. (1993). Individual differences in tolerance to shiftwork: a review. Ergonomics,

36, 101-109.Honma Y., Ishihara K. & Miyake S. (1992). Circadian rhythms of activity in morning and

evening types. Japanese Journal of Physiological Psychology and Psychophysiology, 10 (1), 35-43.

Monk T.H. (1989). A visual analogue scale technique to measure global vigor and affect. Psychiatry Research, 27, 89-99.

Smith C.S., Reilly C. & Midkiff K. (1989). Evaluation of three circadian rhythm questionnaires with suggestions for an improved measure of morningness. Journal of Applied Psychology, 74 (5), 728-738.

VERIFICA DELLA VALIDITÀ DI COSTRUTTO CON LA PROCEDURA MULTITRATTO-MULTIMETODO:

CONFRONTO FRA MODALITÀ DIVERSE DI ANALISI DELLA MATRICE

Giulia Balboni, Luigi PedrabissiDipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

IntroduzioneFra i vari metodi di verifica della validità di costrutto di un test negli ultimi anni ha

assunto una certa rilevanza la procedura multitratto-multimetodo, originariamente introdotta da Campbell e Fiske (1959). Secondo tali autori, disponendo di diverse misure di differenti tratti realizzate con metodi distinti, è possibile rilevare la validità convergente e discriminante dei metodi utilizzati attraverso molteplici confronti fra i coefficienti di correlazione ottenuti fra le varie misure considerate. Tale procedura però presuppone solo un confronto non statistico fra l’intensità dei coefficienti; inoltre non consente di individuare per ciascuna variabile osservata la porzione di varianza spiegata dal tratto e quella spiegata dai metodi (Bagozzi, 1978; Widaman, 1985). Per tali motivi si sono diffuse modalità alternative di analisi della matrice di correlazione, quale quella proposta da Keith Widaman (1985) e basata sui modelli di equazioni strutturali (Bagozzi, 1978). Secondo tale procedura la verifica della validità dei metodi viene realizzata confrontando la bontà di una serie di modelli “raggruppati”, che presuppongono progressivamente un maggior numero di variabili latenti corrispondenti a tratti o a metodi.

Con questa indagine si è voluto confrontare le due procedure di analisi proposte da Campbell e Fiske (C & F; 1959) e da Widaman (W; 1985) relativamente ad una matrice di correlazioni ottenuta dalla rilevazione dei tre tratti di comportamento adattivo “comunicazione”, “autonomie” e “socializzazione”, effettuata con due differenti scale di misura.

Metodo

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Soggetti. Il gruppo campione era costituito da 223 soggetti con diagnosi di ritardo mentale (RM), di età compresa fra i 5 e i 60 anni; provenivano da varie regioni italiane, vivevano in famiglia e frequentavano istituti scolastici o laboratori protetti per soggetti con RM.

Strumenti. I tre tratti di comportamento adattivo “comunicazione”, “autonomie” e “socializzazione” sono stati rilevati con le corrispondenti scale degli adattamenti italiani delle Vineland Adaptive Behavior Scales-Expanded Form (VABS; Sparrow, Balla, & Cicchetti, 1984) e dell’Adaptive Behavior Inventory-Versione Estesa (ABI; Brown & Leigh, 1987). Entrambi sono strumenti di misura utilizzabili con soggetti disabili di almeno cinque anni di età e compilabili intervistando una persona che conosca adeguatamente il soggetto considerato.

Procedura e analisi dei dati. Data la matrice di correlazioni fra le distribuzioni normalizzate dei punteggi grezzi, si è innanzitutto applicato la procedura di analisi C & F. In particolare è stato verificato se le scale utilizzate erano contraddistinte da buona validità convergente, ossia se le correlazioni fra le misure dei medesimi tratti effettuate mediante metodi diversi erano di intensità elevata. Quindi si è controllato se le scale erano caratterizzate anche da una buona validità discriminante, ossia se i coefficienti di correlazione fra le misure degli stessi tratti ottenute con metodi diversi erano superiori ai corrispondenti coefficienti ottenuti sia fra le misure di tratti distinti ricavate con metodi diversi sia fra le misure di tratti diversi realizzate con il medesimo metodo. Infine si è verificata l’assenza del bias del metodo, cioè se le correlazioni fra le misure di tratti distinti ottenute con un determinato test erano paragonabili alle corrispondenti correlazioni fra gli stessi tratti valutati con il secondo test.

Seguendo il metodo W è attualmente in corso la valutazione della bontà statistica dei seguenti modelli :

Struttura dei Struttura dei METODITRATTI A B C

1 Modello nullo m metodi ortogonali m metodi obliqui

2 t tratti ortogonali t tratti ortogonali + m metodi ortogonali

t tratti ortogonali + m metodi obliqui

3 t tratti obliqui t tratti obliqui + m metodi ortogonali

t tratti obliqui + m metodi obliqui

Individuato il modello che meglio spiega la matrice di correlazioni qui considerata, si procederà alla verifica della validità rilevando che tale modello sia migliore, per bontà statistica e pratica (Widaman, 1985), rispetto agli altri considerati. Nel caso della validità convergente, lo si dovrà confrontare con un altro modello avente la medesima struttura per i metodi, ma privo di variabili latenti per i tratti (possibili confronti: 3A vs. 1A; 3B vs. 1B; 3C vs. 1C). Nel caso della validità discriminante lo si dovrà confrontare con un altro modello avente la medesima struttura per i metodi, ma che presuppongono tratti indipendenti (possibili confronti: 3A vs. 2A; 3B vs. 2B; 3C vs. 2C). Per verificare l’assenza di bias del metodo si confronterà il modello considerato con un altro avente la medesima struttura per i tratti ma privo di variabili latenti per i metodi (possibili confronti: 3C vs. 3A; 3B vs. 3A).

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Risultati e conclusioniL’analisi secondo la metodologia C & F ha rilevato l’assenza del bias del metodo

ed una buona validità convergente e discriminante per le scale ABI e VABS della Comunicazione e dell’Autonomia. Quelle della Socializzazione invece, pur avendo una discreta validità convergente, non soddisfano appieno gli indici di quella discriminante.

L’analisi della matrice secondo il metodo W è tuttora in corso. I risultati consentiranno di controllare quanto già emerso, di rilevare se le scale della Socializzazione presentino effettivamente una validità non soddisfacente e soprattutto quale dei due test dimostra di essere più preciso nel misurare le varie dimensioni.

Riferimenti bibliograficiBagozzi, R. (1978). The constructe validity of the affective, behavioral, and cognitive

components of attitude by analysis of covariance structures. Multivariate Behavioral Research, 13, 9-31.

Brown, L., & Leigh, J. (1987). Adaptive Behaviour Inventory. Trento: Edizione Erickson.Campbell, D., & Fiske, D. (1959). Convergent and discriminant validation by the multitrit-

multimethod matrix. Psychological Bullettin, 56, 81-105.Sparrow, S., Balla, D., & Cicchetti, D. (1984). Vineland Adaptive Behavior Scales. Circle

Pines, MN: AGS.    Widaman, K. (1985). Hierarchically nested covariance structure models for multitrait-

multimethod data. Applied Psychological Measurement, 9, 1-26.

ELABORAZIONE DI UN MODELLO PER LO STUDIO DELLA GELOSIA MORBOSA E COSTRUZIONE DEL

RELATIVO STRUMENTO DI MISURA

Carla Dazzi*, Luigi Pedrabissi**, Alberto Corso, Francesca Tacconi*Dipartimento di Psicologia Generale**Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

La gelosia è un’esperienza comune e pressoché ubiquitaria che, in alcuni soggetti, può assumere connotazioni di tipo patologico. Il termine “morbosa” viene di solito utilizzato per descrivere queste condizioni anormali o estreme. Nonostante la rilevanza dell’argomento, la letteratura su questo tema è scarsa, i dati empirici sono frammentari e i confini tra “passione amorosa” e patologia rimangono molto labili.

Secondo una recente classificazione proposta da Lorenzi (Lorenzi e Ardito, 1997) nell’ambito della gelosia patologica possiamo individuare tre diverse declinazioni del fenomeno:

Idea prevalente (Iperestesia gelosa).Idea ossessiva (gelosia ossessiva).Idea delirante (gelosia delirante o sindrome di Otello).

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Il modello da noi adottato si propone di comprendere le dinamiche della gelosia morbosa non psicotica.

Definiamo la gelosia morbosa come un complesso emozionale multidimensionale, collegato al sospetto infondato di potenziali “rivali” e alla paura di perdere il partner che si manifesta mediante risposte relative ai domini cognitivo, emotivo e comportamentale (Tarrier, Beckett, Harwood & Bishay, 1990). I sospetti concernenti la fedeltà del partner non necessitano di un’evidenza attendibile per essere elicitati e mantenuti, ma nascono da pensieri irrazionali e infondati. La persona che sperimenta questi pensieri irrazionali reagisce ai pensieri stessi e non alla reale contingenza dei fatti. Di conseguenza le reazioni che ne derivano possono essere generalizzati a diverse situazioni, momenti e “rivali”. Quando questo succede le ruminazioni di gelosia, gli sconvolgimenti emozionali e gli eccessi comportamentali hanno gravi ripercussioni sulla vita del soggetto e sull’armonia della coppia. Per contrasto riteniamo che la gelosia normale sia: basata sulla realtà; specifica al partner, all’evento o al “rivale”; transitoria; inoltre è il comportamento del partner, e non la gelosia stessa, ad essere visto come problematico.

Lo scopo del presente lavoro è quello di elaborare un modello utile alla costruzione di uno strumento per l’assessment della gelosia morbosa. La formulazione che proponiamo è di tipo cognitivo-comportamentale e può essere assimilabile a quella proposta da Beck negli studi sulla depressione (Beck et al, 1979). Crediamo infatti che i soggetti in questione, a causa di un’interazione di fattori culturali, esperenziali e di personalità abbiano sviluppato uno schema cognitivo, basato su assunzioni erronee, che li porta a compiere distorsioni sistematiche nell’interpretazione degli eventi. Comportamenti neutrali del partner possono così essere percepiti come una minaccia alla relazione o come un’evidenza di infedeltà. Questi errori nei processi cognitivi ed inferenziali portano ad eccessive reazioni emozionali e comportamentali con gravi ripercussioni sul normale funzionamento dell’individuo e della coppia.

Sulla base di questo approccio (Bishay, Tarrier et al., 1996) abbiamo elaborato un test multidimensionale costituito da 64 item suddivisi in diverse sezioni. Anche altri autori (Pfeiffer & Wrong, 1989. Dolan & Bishay, 1996) avevano sottolineato l’importanza di creare uno strumento in grado di valutare i diversi aspetti cognitivi, emozionali e comportamentali che caratterizzano il vissuto di gelosia.

Lo strumento è strutturato in quattro sezioni.Prima sezione

(a) Scala cognitiva (15 item): ai soggetti viene chiesto di valutare, su di una scala tipo Likert a 4 punti, la frequenza di assunzioni/pensieri erronei concernenti il comportamento, l’attrattiva sessuale e la minaccia percepita; (b) Scala cognitiva (5 item): valuta la tendenza ad interpretare in maniera distorta 5 brevi situazioni di per se neutrali. Il soggetto deve scegliere tra 3 alternative di risposta (interpretazione neutrale, minaccia percepita, estremi di un pensiero di gelosia)Seconda sezione

Scala emozionale (18 item): valuta l’intensità delle emozioni sperimentate dal soggetto di fronte ad un’ipotetica situazione di minaccia alla relazione. Gli item rilevano, in accordo con quanto sostenuto da Sharpsteen (Sharpsteen, 1993, 1997) quelle che vengono considerate le 3 emozioni base della gelosia: paura, tristezza e rabbia.Terza sezione

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Scala comportamentale (17 item): ai soggetti viene chiesto di valutare la frequenza con cui si manifestano comportamenti investigativi e di conferma, comportamenti aggressivi contro il partner e/o potenziali “rivali”, comportamenti di evitamento.Quarta sezione

Scala che valuta la frequenza con cui le ruminazioni di gelosia si ripercuotono sulla vita del geloso e sull’armonia della coppia (9 item).

Lo strumento è stato somministrato ad un gruppo pilota che non ha mai ricorso a consulenze di tipo psicologico o psichiatrico, al fine di verificare la chiarezza e la comprensibilità (intesa come non equivocità semantica e concettuale) nella formulazione degli item. Un gruppo di esperti ha valutato, inoltre, la validità di contenuto dello strumento (Lawshe, 1975).

Il questionario è stato successivamente somministrato ad un adeguato gruppo campione di normodotati e di soggetti frequentanti centri di consultori, di terapia della coppia o che semplicemente si erano rivolti a psicoterapeuti privati.

I dati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale esplorativa e confermativa (Lisrel8, Jöreskog e Sörbom, 1993) per verificare la validità di costrutto dello strumento. L’omogeneità interna alle singole scale di cui è composto è stata controllata attraverso l’alpha di Crombach.

Ulteriori sviluppi della ricerca sono nella direzione di una taratura italiana dello strumento e di un suo utilizzo in ambito psicodiagnostico.

Riferimenti bibliograficiBeck, A.T., Rush, A.J., Shaw, B.F., & Emery, G. (1979). Cognitive therapy for depression.

New York: Guilford Press.Bishay, N.,Tarrier, N., Dolan, M., Beckett, R., & Harwood, S.(1996). Morbid jealousy: A

cognitive outlook. Journal of Cognitive Psychotherapy: An International Quarterly, 10 (1), 9-22.

Dolan, M. & Bishay, R. (1996). The role of the sexual behaviour/attractiveness schema in morbid jealousy. Journal of    Cognitive Psychotherapy: An International Quarterly, Vol.10 (1), 41-61.

Lawshe, C. H. (1975). A quantitative approach to content validity, Personnel Psychology, 28, 563-575.

Lorenzi, P., Ardito, M. (1997). La gelosia patologica e le sue espressioni cliniche. Rivista di Psichiatria, Vol.32 (3), 101-106.

Pfeiffer, S.M. & Wong, P.T.P. (1989). Multidimensional jealousy.Journal of Social and Personal Relationships , Vol.6, 181-196.

Sharpsteen, D.J. & Kirkpatric, L.A. (1997). Romantic jealousy and adult romantic attachment. Journal of Personality and Social Psychology, Vol.72 (3), 627-640.

Sharpsteen, D.J. (1993). Romantic jealousy as an emotion concept: a prototype analysis. Journal of Social and Personal Relationships, Vol.10, 69-82.

Tarrier, N., Beckett, R., Harwood, S., & Bishay, N. (1990). Morbid jealousy: A review of literature and a cognitive behavioural formulation. British Journal of Psichiatry, 157, 319-326.

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TONO DELL’UMORE E STRUMENTI PSICOMETRICIIN PSICOLOGIA DELLA MATERNITÀ

Pietro Grussu, Rosa Maria Quatraro, Maria Teresa Nasta, Mariapia Sichel, Ruggero CeruttiIstituto di Ginecologia e Ostetricia, Università di Padova

La gravidanza, il parto e il puerperio costituiscono un esempio interessante di fase di transizione del ciclo di vita femminile e la nascita di un figlio, soprattutto quando si ha a che fare con la prima gravidanza, favorisce in ciascuna donna una moltitudine di cambiamenti psicologici, biologici e sociali (Rutter e Rutter, 1992; Matlin, 1987).

Tale fase di transizione si caratterizza per le numerose relazioni esistenti tra alcuni aspetti psicologici rilevati in gravidanza e la successiva condizione psicologica e somatica presente dopo il parto (Grussu, Sichel, Nasta, Lorio e Cerutti, 1996; Grussu, Nasta, Quatraro, Geninatti Neni e Cerutti, 1997). Oltre alla rilevazione della sintomatologia gravidica di tipo ansioso e depressivo, che sono aspetti in prevalenza legati a condizioni di sofferenza psicologica, solo recentemente si è cercato di individuare degli strumenti psicometrici che permettano di studiare e valutare le emozioni in gravidanza e dopo il parto attraverso l’analisi degli aspetti soggettivi legati a sensazioni, affetti e umori. Individuando come strumento psicometrico il Profile of Mood States POMS (McNair, Lorr e Droppleman, 1981) è stato inizialmente portato a termine uno studio che, considerando longitudinalmente i primi 12 mesi successivi al parto, ha dimostrato nelle primipare la presenza di un maggior benessere emotivo e una minore sofferenza psicologica durante il 3° giorno dopo la nascita del bambino (Grussu, Nasta, Quatraro, Geninatti Neni, Sichel e Cerutti, 1998). In un secondo momento è stato invece indagato quanto lo stesso POMS somministrato in gravidanza potesse essere predittivo della condizione emotiva presente nel corso del 1° mese dopo il parto. Con tale intento è stato quindi portato a termine uno studio sperimentale che ha evidenziato quanto nelle donne gravide aventi un tono dell’umore caratterizzato da benessere emotivo siano presenti, in puerperio, lievi disturbi dell’umore (Quatraro, Nasta, Grussu, Geninatti Neni, Rudilosso, Sichel e Cerutti, 1998). Alla luce di questi ultimi risultati il presente lavoro di ricerca vuole individuare se il tono dell’umore rilevato in gravidanza risulta essere predittivo anche del tono dell’umore che manifesta la donna a 6 e a 12 mesi dopo il parto.

A tal fine è stato individuato un campione di 52 donne primigravide, coniugate, con gravidanza normale e parto eutocico a termine. Rispetto al campione iniziale composto da 60 soggetti, ben 8 donne hanno avuto un parto cesareo e sono state quindi escluse dalla presente ricerca.

Al 9° mese di gravidanza e successivamente a 6 e a 12 mesi dopo il parto ciascuna donna ha compilato il questionario di autovalutazione POMS.

L’analisi statistica condotta con il metodo ANOVA ha evidenziato che le donne con un moderato disturbo dell’umore in gravidanza presentano al 6° e al 12° mese dopo il parto dei disturbi dell’umore significativamente maggiori, con F(1, 48)=9.26 e p=.004, rispetto alle donne che in gravidanza dimostrano avere lievi disturbi dell’umore.

Questi risultati dimostrano che nella donna il tono dell’umore presente in gravidanza è strettamente legato alla condizione emotiva rilevata nel secondo semestre del

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dopo parto. In particolare, le donne gravide che manifestano un maggior benessere emotivo sono quelle che a 6 mesi e a 1 anno dalla nascita del proprio bambino presentano una minore sofferenza psicologica.

Il POMS si è inoltre rivelato uno strumento significativamente predittivo che, grazie alle sue caratteristiche psicometriche, può essere a nostro avviso utilizzato in diversi ambiti psicologici: in campo sperimentale può permettere di rilevare le variazioni del tono dell’umore in condizioni di normalità e in soggetti senza alcun disturbo psicopatologico; in campo applicativo, e specificatamente in psicoprofilassi ostetrica, può essere invece un utile strumento di indagine preliminare per poter individuare precocemente le donne che dopo il parto hanno un rischio maggiore di manifestare dei disturbi del tono dell’umore. Tutto questo si inserisce e sembra promettente nell’ambito del riconoscimento delle neomamme che potranno andare incontro alle depressioni puerperali.

Riferimenti bibliograficiGrussu P., Nasta M.T., Quatraro R.M., Geninatti Neni M., Sichel M., Cerutti R. (1997).

Depressione in gravidanza e condizione psicologica a 6 e a 12 mesi dal parto. Riassunti delle comunicazioni, pag. 196-198, Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri, 22 - 24 settembre.

Grussu P., Nasta M.T., Quatraro R.M., Geninatti Neni M., Sichel M., Cerutti R. (1998). Le modificazioni del tono dell’umore della donna nel 1° anno dopo il parto. Riassunti delle comunicazioni, pag.60-62, Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, Firenze, 28 - 30 settembre.

Grussu P., Sichel M., Nasta M.T., Cerutti R. (1996). Ansia di tratto e condizione psicologica puerperale. Giornale Italiano di Psicologia, 23, 493-505.

Matlin M.W. (1987). Pregnancy, childbirth, and Motherhood. In The Psychology of Women (pp.358-383). New York: Holt, Rinehart and Winston, Inc.

McNair D., Lorr M., Droppleman L.F. (1981). Manual for the Profile of Mood States. San Diego: EdITS. (adat. it., POMS: Profile of Mood States, eds M. Farnè, A. Sebellico, D. Gnugnoli e A. Corallo, Firenze: Organizzazioni Speciali, 1991).

Quatraro R.M., Nasta M.T., Grussu P., Geninatti Neni M.,    Rudilosso P., Sichel M., Cerutti R. (1998). Maternità e depressione. Libro degli Abstracts, pag. 22, Convegno Internazionale “Aggressività e disperazione nelle condotte suicidarie”, Abano Terme (PD), 4-6 giugno.

Rutter M., Rutter M. (1992). Developing minds. Harmondsworth: Penguin Group. (trad. it. L’arco della vita, Firenze: Giunti, 1995).

UN PROGRAMMA PER L’ANALISI DEI TESTI IN PSICOLOGIA: VERBUM 2.0

Fernando La GrecaDipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno

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Il programma VERBUM 2.0 - Analisi Testuale, adatto per PC con Windows (3.1, 95 e 98), è un “data base testuale” o “text processor”, per l’analisi di testi di ogni genere. Esso consente, a partire da un testo dato, una facile realizzazione di indici, concordanze, ricerche contestuali, e alcune analisi statistiche, di leggibilità, di significatività delle parole e delle frasi; crea inoltre delle tabelle parole-frequenza esportabili nei più comuni programmi di statistica avanzata tipo SPAD oppure SPSS. Il programma lavora secondo pre-codifiche e suddivisioni del testo impostate con un comune word processor tipo Word per Windows. Può essere d’ausilio allo studio critico della letteratura, ma l’impiego tipico è nell’elaborazione di questionari a risposte libere, di colloqui clinici, di sceneggiature cinematografiche e teatrali, nella “prova su strada” dei testi di facile lettura destinati alle scuole elementari, nell’auto-verifica del proprio stile di scrittura col word processor, e così via.

Il menù principale di VERBUM consente una serie di scelte, da 1 a 8.La prima procedura (Creazione archivi) crea un nuovo archivio a partire dal testo

in esame.La seconda procedura (Statistiche) visualizza, per l’intero testo o la sottoparte

scelta, alcuni dati statistici, tipo frequenza delle forme, medie, DS, indici di ricchezza lessicale; tipologia dei periodi e dei segni di punteggiatura; valore della formula di leggibilità Gulpease applicata al testo in esame.

La terza procedura (Rime) consente di elencare i versi (o i periodi, a scelta) dell’intero testo o di una sua sottoparte, ordinati secondo l’inverso dell’ultima parola, oppure secondo la prima parola. Si può scegliere di visualizzare solo la prima o l’ultima parola anziché tutto il verso o periodo. Si ricaverà pertanto un rimario completo dal testo di base.

La quarta procedura (Indici e Specificità) rimanda ad un menù secondario. Qui possiamo realizzare: a) un indice delle forme di tutto il testo, in ordine alfabetico normale o inverso; b) una tavola delle frequenze di tutto il testo, con le forme ordinate dalla frequenza più alta alla più bassa; c) indici delle forme e tavole di frequenza, come sopra, ma parziali, riguardanti una sottoparte del testo a scelta, con in più: - calcolo e visualizzazione delle “frasi modali”, ovvero quelle in cui compaiono le forme con frequenza più alta; - calcolo e visualizzazione delle specificità positive e negative, cioè delle forme caratteristiche della sottoparte di testo in esame; - calcolo e visualizzazione dei periodi più significativi in base alle specificità; d) altre analisi, che forniscono l’indice, la tavola di frequenza e le specificità delle forme selezionate con un incrocio tra due campi diversi; e) i segmenti ripetuti del testo in esame.

La quinta procedura (Co-occorrenze) visualizza l’indice contestuale di una forma data, da cercare in tutto il testo o in una sua sottoparte.

La sesta procedura (Tabella STAT) produce una tabella con in riga tutte le forme del testo in esame, e in colonna le sue sottoparti: all’incrocio è riportata la frequenza della forma x nella sottoparte y. Tale tabella potrà successivamente essere analizzata con software di statistica tipo SPSS, SPAD, SYSTAT e altri.

La settima procedura (Concordanze) prevede: a) concordanze di tipo KWIC (key word in context) su tutto il testo o una sua sottoparte; b) concordanza solo di una o più forme-target (possono essere cercate anche “substringhe”, cioè radici, desinenze, prefissi, sillabe, ecc.) in tutto il testo. Scegliendo due forme, è possibile avere una concordanza

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“doppia”, ovvero l’intero contesto nel quale le due forme sono “vicine” entro un range stabilito di x periodi o paragrafi/versi.

L’ottava procedura (Utilità) prevede: a) la visualizzazione di tutti i valori presenti nei campi, ovvero di tutte le codifiche effettuate, con la loro frequenza di comparizione; sono compresi i campi con i segni di punteggiatura e le posizioni delle forme nei periodi e nei paragrafi/versi; b) l’esportazione completa dei dati degli archivi creati in un formato leggibile dai fogli elettronici (ad es. EXCEL) e dai più comuni pacchetti di statistica (SPSS, SYSTAT, STATVIEW, ecc.), cioè con campi separati da tabulatori e return a fine record.

I risultati dell’analisi in corso vengono registrati su diversi file, uno per ogni procedura effettuata. Subito dopo ogni analisi è possibile aprire il file dei risultati con il word processor preferito sotto Windows, esaminare i dati, ed eventualmente ripetere la procedura.

Riferimenti bibliograficiLa Greca Fernando (1994), Un data-base per l’analisi dei testi: Verbum, “MC

Microcomputer”, n. 137, febbraio 1994, pp. 374-79.La Greca Fernando (1995), Ritorno all’ipertesto. Navigazioni antiche e nuove negli oceani

di parole, “Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione”, Università degli studi di Salerno, n. 1/1995, pp. 165-182.

MISURE DI ACCORDO SUL NOME, TIPICITÀ, FAMILIARITÀ, ETÀ DI ACQUISIZIONE E TEMPI DI

DENOMINAZIONE PER LE 266 FIGURE DEL SET PD/DPSS

Lorella Lotto, Roberto Dell’Acqua, Remo JobDipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

A fronte dei numerosi studi che utilizzano come stimoli sperimentali figure di oggetti per indagare i processi mentali coinvolti nell’elaborazione delle informazioni, pochi sono i set standardizzati e le basi di dati normativi a disposizione degli studiosi che lavorano in tale ambito.

Il lavoro pionieristico di Snodgrass e Vanderwart (1980) è stato fino a qualche anno fa l’unico strumento disponibile, utilizzato in numerosi lavori di psicologia sperimentale nonostante i dati normativi si riferissero ad un campione di studenti universitari nord-americani di lingua inglese.

Solo in tempi recenti, esso è stato standardizzato in altre lingue: olandese (Martein, 1995), spagnolo (Sanfeliu e Fernandez, 1996), inglese britannico (Barry, Morrison, e Ellis, 1997), italiano (Nisi, Longoni e Snodgrass, in stampa), francese (Alario e Ferrand, in stampa).

In questo lavoro presentiamo i dati normativi relativi ad un nuovo set di 266 figure e dei loro nomi raccolti nell’ambito del progetto PD/DPSS (Psycholinguistic

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Database/Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione) (Lotto, Dell’Acqua e Job, sottoposto a revisione). Per ciascuna delle 266 figure sono state considerate le seguenti variabili: (a) categoria di appartenenza; (b) grado di tipicità categoriale; (c) familiarità del concetto; (d) tempo di produzione del nome; (e) accordo sul nome; (f) accordo sul concetto; e, per quanto riguarda il nome della figura: (g) lunghezza in lettere; (h) lunghezza in sillabe; (i) frequenza; (l) età di acquisizione.

A tre gruppi diversi di soggetti, composti ciascuno da 30 studenti universitari, è stato richiesto di fornire i giudizi relativi ai fattori familiarità, tipicità e età di acquisizione. Al compito di denominazione, invece, hanno partecipato 84 studenti che avevano il compito di denominare ciascuna delle figure che appariva al centro dello schermo di un computer. I tempi di risposta sono stati registrati attraverso l’utilizzo di un voice-key.

Vengono presentati i risultati delle matrici di correlazione e della regressione lineare dalle quali emergono i fattori che contribuiscono in maniera significativa a determinare i tempi di denominazione. Inoltre, viene proposto un confronto tra i risultati del presente studio e quelli forniti dagli unici due studi stranieri che hanno preso in considerazione i tempi di reazione (Barry, Morrison, e Ellis, 1997 e Snodgrass e Yuditsky, 1996). Per finire, vengono riproposte alcune considerazioni di tipo statistico già discusse in Dell’Acqua, Lotto e Job (sottoposto a revisione).

Riferimenti bibliograficiAlario, F.-X., Ferrand, L. (in press). A set of 400 pictures standardized for French: norms

for name agreement, image agreement, familiarity, visual complexity, image variability, and age of acquisition. Behavior Research Methods, Instruments, & Computers.

Barry, C., Morrison, C.M., Ellis, A.W. (1997). Naming the Snodgrass and Vanderwart pictures: Effects of age of acquisition, frequency, and name agreement. Quarterly Journal of Experimental Psychology, 50A, 560-585.

Dell’Acqua, R., Lotto, L., e Job, R. (sottoposto a revisione). Naming times and standardized norms for the Italian PD/DPSS set of 266 pictures: Direct comparisons with American, English, French, and Spanish published databases.

Lotto, L., Dell’Acqua, R., Job, R. (sottoposto a revisione). Le figure PD/DPSS. Misure di accordo sul nome, tipicità, familiarità, età di acquisizione e tempi di denominazione per 266 figure. Giornale Italinao di Psicologia.

Martein, R. (1995). Norms for name and concept agreement, familiarity, visual complexity and image agreement on a set of 216 pictures. Psychologica Belgica, 35, 205-225.

Nisi, M., Longoni, A.M., Snodgrass, J.G. (in stampa). Misure italiane per l’accordo sul nome, familiarità ed età di acquisizione, per le 260 figure di Snodgrass e Vanderwart (1980), Giornale Italiano di Psicologia.

Sanfeliu, M.C., Fernandez, A. (1996). A set of 254 Snodgrass-Vanderwart pictures standardized for Spanish: Norms for name agreement, image agreement, familiarity, and visual complexity. Behavior Research Methods, Instruments, & Computers, 28, 537-555.

Snodgrass, J.G., Vanderwart, M. (1980). A standardized set of 260 pictures: Norms for name agreement, image agreement, familiarity, and visual complexity. Journal of Experimental Psychology: Human, Learning, and Memory, 6, 174-215.

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Snodgrass, J.G., Yuditsky, T. (1996). Naming times for the Snodgrass and Vanderwart pictures, Behavior Research Methods, Instruments, & Computers, 28, 516-536.

COSTRUZIONE E VALIDAZIONE DI UNO STRUMENTO PER L’ANALISI DEI PREREQUISITI SCOLASTICI

Antonino Miragliotta, Anna TerminelloDipartimento di Psicologia, Università degli studi di Palermo

La valutazione dei processi d’apprendimento tramite prove oggettive costituisce una delle esigenze fondamentali dell’attività didattica. Tale obiettivo può essere raggiunto solo se le prove oggettive proposte soddisfano i requisiti docimologici fondamentali di validità di contenuto, attendibilità, analisi delle caratteristiche dello strumento e degli item, standardizzazione e taratura.

Il presente lavoro ha come finalità la standardizzazione di una batteria di test che consenta di effettuare una analisi polivalente dell’alunno della scuola primaria (classe prima), permettendo di ottenere validi elementi di analisi per una diagnosi differenziata che tenga conto della molteplicità di fattori che intervengono nei processi di apprendimento.

La Batteria si articola in:- prove di livello, inserite in un test sulle abilità di base, che accertano la

presenza di prerequisiti indispensabili all’apprendimento scolastico;- prove motorie, all’interno di un “percorso ludico-motorio”, per la valutazione

dello sviluppo psico-motorio, essenziale per l’evoluzione di competenze che interessano più specificatamente la padronanza e la conoscenza del proprio corpo, ma si ripercuotono sullo sviluppo cognitivo e su quello relazionale del bambino;

- in domande, inserite in un questionario per la famiglia, per la raccolta di informazioni sullo sviluppo senso-motorio, del linguaggio, relazionale, motivazionale del bambino e del suo ambiente familiare.

In questa sede si farà riferimento al test sulle abilità di base. Dal momento che il test è di nuova elaborazione, è stato necessario affrontare l’excursus di validazione con le sue tappe specifiche: a) delimitazione dell’oggetto da analizzare (prerequisiti); b) descrizione dell’oggetto in questione; c) costruzione di prove che ne attestino la presenza; d) somministrazione ad un gruppo di soggetti al fine di ottenere un campione normativo; e) analisi degli item in termini di difficoltà delle prove e di discriminatività delle stesse; f) analisi delle caratteristiche metrologiche di validità ed attendibilità.

In prima elementare alcuni degli apprendimenti di base riguardano competenze cognitive quali: saper operare classificazioni , sapere ordinare in sequenze, eseguire operazioni elementari e concatenate (lettura, scrittura), definire un concetto, riconoscerlo ed esemplificarlo. L’acquisizione delle padronanze illustrate é dato dall’integrazione di fattori cognitivi, percettivi, psico-motori, motori, motivazionali.

In connessione con gli obiettivi formativi del primo anno della scuola elementare si é proceduto all’inserimento nel test di prove adeguate al loro accertamento. Pertanto il

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test risulta costituito da 7 aree: 1) Cv-m, coordinazione visuo-motoria; 2) Ss-t, sequenze spazio-temporali; 3) T, topologia; 4) RS, relazioni spaziali; 5) FF, figure di fondo; 6) P, partizione; 7) Rl-c, relazioni logico-causali.

Il campione, su cui è stata condotta l’indagine pilota, è costituito da 572 bambini appartenenti alla prima classe elementare di scuole statali del Comune di Avola (SR), e del Comune di Palermo, rispettivamente 337 e 245 soggetti equamente distribuiti tra maschi e femmine.

Il metodo da noi utilizzato per la lettura dei dati è quello probabilistico avendo effettuato una elaborazione statistica dei dati per la misurazione delle caratteristiche metrologiche della Batteria.

Dall’analisi dei risultati è stato possibile evidenziare una buona validità di contenuto del test sulle abilità di base (validità rispetto al criterio, coerenza interna, omogeneità degli item). Per la validità concorrente e predittiva si è proceduto correlando i punteggi totali al test con la valutazione degli insegnanti della scuola materna (validità concorrente), e con il punteggio ottenuto dagli stessi soggetti in una forma parallela ma più avanzata del test (validità predittiva). Si è infine analizzata la capacità discriminativa del test rispetto al sesso, al grado di istruzione, e al livello socio economico del padre dei soggetti esaminati.

La presenza di caratteristiche metrologiche valide ed attendibili, potrebbe consentire un utilizzo molteplice dello strumento, permettendo la delineazione di interventi efficaci per agire preventivamente e terapeuticamente su deficit riscontrati all’inizio del percorso scolastico.

Riferimenti bibliograficiAndreani-Dentici, O. (1971). B.A.S.E. Batteria per la Scuola Elementare.Anolli, L., Cigoli, V. (1978). Lo sviluppo della percezione visiva. Firenze: O.S.Cornoldi, C., Gruppo MT. La prevenzione e il trattamento delle difficoltà di lettura e

scrittura. Firenze, Ed. O.S.Moderato, P. (1989). Apprendimento e memoria. Questioni generali e nello sviluppo.

Milano. F. Angeli.

STUDIO PILOTA PER LA VALIDAZIONE DELLA SCALA DELLA TENDENZA AFFILIATIVA (MAFF)

Lidia Provenzano, Valeria Schimmenti, Leonardo MercuriUniversità “La Sapienza” di Roma

IntroduzioneIl concetto di empatia ha ricevuto un’attenzione sempre più crescente nella recente

letteratura psicologica. Due sono i filoni principali: da una parte coloro che hanno definito l’empatia come una speciale capacità di fondersi con l’altro e affermano che la sua origine risiede in certe condizioni ottimali durante la fase simbolica dello sviluppo infantile (Olden, 1953; Greenson, ,1960); dall’altra parte coloro che definiscono la capacità empatica come

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una forma di identificazione e situano il suo punto di origine ad uno stadio evolutivo più avanzato, quando il Sé e l’Oggetto sono più differenziati (Mahler & Bergmann, 1975; Winnicott, 1958,1965, 1945). Numerose e vaste sono state anche le definizioni e le descrizioni dell’utilità dell’uso dell’empatia nella pratica psicoanalitica (Freud, 1925; Bion, 1962; Meltzer, 1967; Kohut, 1971; Sandler, 1973,1988; Casement, 1985). Gli strumenti utilizzati per misurare la dimensione empatica fanno riferimento ai diversi orientamenti teorici che hanno definito il costrutto dell’empatia. Alcuni misurano la capacità di cognizione sociale (Borke, 1973), altri rilevano la condivisione dei sentimenti altrui (Strayer, 1987a, Feshbach, 1987), altri ancora si riferiscono alla dimensione affettiva e cognitiva (Hoffmann, 1982b). Albert Mehrabian (1994b) ha messo a punto attraverso numerose ricerche sull’intelligenza emozionale, alcuni strumenti in grado di indagare determinati aspetti della capacità empatica di un individuo. La scala della tendenza affiliativa (MAFF) è uno strumento realizzato per valutare la tendenza degli individui a desiderare scambi sociali positivi, piacevoli ed appaganti e a comportarsi in modo tale da favorirli.

ScopoL’obiettivo principale della ricerca nasce dall’ipotesi di potere operare una prima

forma di validazione della scala della tendenza affiliativa (MAFF) ritenuta un aspetto particolare dell’empatia.    Un secondo obiettivo si propone di operare un confronto tra il test MAFF e il Survay Interpersonal Values (S.I.V.) che presenta alcune caratteristiche legate al concetto di tendenza affiliativa. L’ipotesi operativa è che soggetti che ottengono certi punteggi nel test MAFF occuperanno una determinata posizione in alcune    scale del test S.I.V.

MetodoL’indagine è stata condotta su una popolazione di studenti della facoltà di

Psicologia di Roma. Ad ogni soggetto veniva fornita una busta contenente i due test presi in esame (MAFF e S.I.V.) e una scheda in cui venivano richiesti dati anamnestici.

RisultatiIl confronto tra le medie e le deviazioni standard condotto con la t di Student tra i

dati del nostro campione e quello di    A. Mehrabian non presenta differenze statisticamente significative. Al contrario, le correlazioni tra il test MAFF e le scale del test    S.I.V. presentano interessanti significatività: soggetti che ottenevano punteggi alti sulla scala della tendenza affiliativa ottenevano punteggi alti sulla subscala Benevolence del test S.I.V. e punteggi bassi sulla subscala Indipendence sempre del test    S.I.V. Indicazioni interessanti sono fornite anche dalle correlazioni con il sesso, e il titolo di studio del padre dei soggetti dello studio pilota     

Riferimenti bibliograficiBorke, H. (1973) The development of empathy in Chinese and American children between

three and six years of age: A cross-cultural study. Developmental Psychology, 9, 102-108.

Casement, P. (1985) Apprendere dal paziente. Raffaello Cortina Editore.

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Feshbach, N. (1987) Parental empathy and children adjustment/maladjustment. In: Eisenberg, N., Strayer, J. Empathy and its development. Cambridge university press, New York, 271-291.

Freud, S. (1925) Inibizione, sintomo e angoscia. Opere vol.10 Boringhieri.Greenson, R.R. (1960) Esplorazioni psicoanalitiche. Boringhieri.Hoffmann, M.L. (1982b) The measurement of empathy. In: Izard, C.E. Measuring emotions

in infant and children. Cambridge University Press, Cambridge 279-296.Kohut, H. (1971) Narcisismo e analisi del sè .Bollati Boringhieri, 1976.Mahler Schoenberger, M., Pine, F., Bergman, A. (1975) La nascita psicologica del

bambino. Boringhieri, 1978.Mehrabian, A. (1970) The development and validation of measures of affiliative tendency

and sensitivity to rejectio.    Educational and Psychological Measurement, 30, pp.417-428.

Mehrabian, A. (1976) Questionnaire measures of affiliative tendency and sensitivity to rejection. Psychological Reports, 38, pp.199-209.

Mehrabian, A. (1994a) Evidence bearing on the Affiliative Tendency (MAFF) and Sensitivity to Rejection (MSR) scales. Current Psychology, 13, pp.97-116.

Mehrabian, A. (1994b) Manual for the Affiliative Tendency Scale (MAFF).    (c/o A.Mehrabian, 1130 Alta Mesa Road, Monterey, Ca, USA 93940).

Olden, C. (1953) Adult empathy with children.    Psychoanalitic study of the child.Sandler, J., Dare, C., Holder, A. (1973) Il paziente e l’analista: i fondamenti del processo

psicoanalitico. Boringhieri, 1983.Sandler, J. (1988) Proiezione, identificazione, identificazione proiettiva. Bollati BoringhieriStrayer, J. (1987a) Affective and cognitive perspectives on empathy. In: Eisenberg, N.,

Strayer, J. Empathy and its development. Cambridge university press, New York, 218-244.

Winnicott, D. (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze 1975.Winnicott, D. (1965) Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore, Roma 1970.Winnicott, D. (1945) Lo sviluppo emozionale primario. Martinelli.

IL SIGNIFICATO DEL PARAMETRO LAMBDA (L): IL RATING FORMULATION MODEL E IL DISPERTION LOCATION MODEL, DUE MODELLI A CONFRONTO

Vincenzo Paolo Senese*, Giovanna Nigro*, PierCarla Cicogna**, Francesca Cristante°, Egidio Robusto °°*Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli**Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna° Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova°° Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

Introduzione

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Negli ultimi decenni da parte degli psicometristi si è sviluppato un notevole interesse nei confronti di un modello in grado di supportare e colmare le lacune del modello classico del testing: il modello a tratti latenti (Mannarini, Cristante, 1994). Secondo tale modello la risposta di un soggetto ad un item può essere spiegata da una o più caratteristiche ovvero “tratti” non direttamente osservabili cui si accede definendo una relazione tra essi e il punteggio (manifesto) riportato su quell’item (Weiss, 1983).

Sotto l’etichetta “teoria dei tratti latenti” confluiscono una serie di modelli matematici. Questi modelli consentono di fare delle assunzioni circa le relazioni funzionali che si stabiliscono o si possono stabilire tra variabili direttamente osservabili e l’eventuale costrutto sottostante. In particolare entro la teoria dei tratti latenti una specifica classe di modelli, detta di “Rasch”, dal nome del suo ideatore, risulta particolarmente vantaggiosa per il trattamento di dati che si ritiene possano essere sottesi da un tratto unidimensionale. Secondo Rasch (1960/1980), nel caso di item dicotomici, la risposta di ciascun soggetto a ciascun item sarebbe influenzata in maniera probabilistica esclusivamente da due parametri: uno appartenente al soggetto (b), l’altro appartenente all’item (d). A partire dalla formulazione del Simple Logistic Model di Rasch, molteplici sono le ricerche che hanno contribuito ad estenderne il campo di applicazione. I modelli così derivati, essendo delle generalizzazioni del modello probabilistico semplice, condividono con questo le caratteristiche teoriche e misurative fondamentali. In caso di risposte fornite su scale di tipo Likert è necessario fare ricorso ai modelli sviluppati da Andrich: il Rating Formulation Model (Andrich, 1978) e il Dispertion Location Model (Andrich, 1985a; 1985b; 1988). Nel Dispertion Location Model l’aggiunta del parametro l consenta di accertare se la struttura teorica di soglie equidistanti della scala di valutazione di ciascun item è confermata dai dati e di valutare la dispersione delle risposte lungo il continuum della scala. Un’ulteriore peculiarità di questo modello è che, a seconda del valore assunto dal parametro l, la curva di distribuzione delle probabilità delle risposte viene differentemente rappresentata. In particolare, se l>0, la distribuzione è unimodale, se l=0, la distribuzione è condizionata dal valore del parametro di localizzazione, se l<0, allora la distribuzione è curvata ad U. È quindi possibile interpretare i dati in base alle differenti curve, ad esempio ipotizzare l’esistenza di ulteriori variabili in grado di influenzare la curvatura.

Obiettivo di questo lavoro è di porre in luce le differenze tra i due diversi modelli sviluppati da Andrich, entrambi applicabili nel caso in cui le risposte vengano fornite su una scala Likert, a partire dai dati raccolti attraverso un questionario di memoria prospettica. Nella fattispecie si voleva accertare con precisione il ruolo del parametro l nella determinazione delle caratteristiche degli item.

La ricercaAd un campione di 100 soggetti anziani è stato somministrato un questionario di

memoria prospettica, composto da 50 item presentati in formato Likert a 5 punti . Ai soggetti è stato chiesto di valutare la frequenza con cui accadeva loro di dimenticare gli impegni o le scadenze cui gli item facevano di volta in volta riferimento. Lo scoring prevedeva che si assegnasse 0 nel caso in cui l’impegno non venisse mai dimenticato e 4 nel caso in cui venisse sempre dimenticato. In questo modo si rispettava la monotonicità crescente.

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RisultatiL’applicazione delle due diverse procedure non ha posto in evidenza differenze

sostanziali almeno per ciò che concerne gli indici utili ai fini della selezione degli item da utilizzare per la messa a punto della versione definitiva del questionario di memoria prospettica. I diversi esiti delle due procedure vanno ricondotti alla differente modalità di considerare l’equidistanza tra le soglie.

Nel loro complesso i nostri risultati confermano quanto riportato in letteratura circa il ruolo del parametro l: l’aggiunta di un unità generale per la distanza tra le soglie rende l’analisi degli item meno artificiale e restrittiva (Andrich, 1982). L’introduzione di questo parametro – che va considerato un indice di dispersione – fornisce indicazioni utili nell’interpretazione corretta delle caratteristiche degli item.

Riferimenti bibliograficiAndrich, D. (1978). A rating formulation for ordered response categories. Psychometrika,

43, 581-594.Andrich, D. (1982). An extension of the Rasch model for ratings providing both location

and dispersion parameters. Psychometrika, 47, 105-113. Andrich, D. (1985a). An elaboration of Guttman scaling with Rasch models for

measurement. In N.B. Tuma (Ed.), Sociological methodology (pp. 38-80). San Francisco: Jossey-Bass.

Andrich, D. (1985b). A latent trait model for items with response dependencies: implication for test construction and analysis. In S. E. Embretson, Test design. Developments in psychology and psychometrics (pp. 245-275). Orlando :Academic Press.

Andrich, D. (1988). A general form of Rasch’s extended logistic model for partial credit scoring. Applied Measurement in Education, 1, 363-368.

Mannarini, S., Cristante, F. (1994). Analisi di un insieme di item, indicatori della dimensione “mental healt locus of origin”. Metodi della teoria classica e della teoria dei tratti latenti. TPM – Testing Psicometria Metodologia, vol. 1, n. 1, 21-32.

Rasch, G. (1960/1980). Probabilistic models for some intelligence and attainment tests. Chicago: The University of Chicago Press. (Lavoro originario pubblicato nel 1960).

Weiss, D. J. (Ed.) (1983). New horizons in testing. New York: Academic Press.

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SIMPOSI

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STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO

Simposio a cura di Remo Job

LINGUAGGIO E PENSIERO NELLA COMPRENSIONE DI DOVERE E POTERE

Elisabetta Bascelli, Luana Saetti, Maria Silvia BarbieriDipartimento di Psicologia, Università di Trieste

Il linguaggio viene usato nella comunicazione sociale sia per condividere conoscenze, sia per regolare il comportamento in base a regole e norme. Le nozioni modali di necessità, possibilità, certezza, incertezza, probabilità e il linguaggio che le esprime giocano quindi un ruolo importante sia nei nostri processi di conoscenza che in quelli comunicativi. La letteratura sullo sviluppo dei concetti modali e sulla comprensione del linguaggio modale in età evolutiva presenta tuttavia risultati contraddittori. Secondo Piéraut-Le Bonniec (1980) tanto il sistema epistemico quanto quello deontico si sviluppano da un sistema modale più primitivo e indifferenziato legato all’azione del bambino. Altre linee di ricerca, come la teoria piagetiana dello sviluppo cognitivo (Inhelder e Piaget, 1955), o recenti lavori sulla comprensione degli schemi pragmatici (Cummins, 1996) ritengono che il concetto di necessità deontica preceda quello di necessità logica. Ciò è confermato anche da studi sulla produzione spontanea dei modali in età evolutiva (Kuczaj e Maratsos, 1975; Bliss, 1988). Per contro, ricerche sulla comprensione dei modali in età prescolare (Hirst e Weil, 1982) sostengono che sia la modalità epistemica ad organizzarsi prima di quella deontica.

Questo lavoro discute i risultati di due studi sperimentali che hanno indagato lo sviluppo della comprensione di alcune forme dei verbi modali dovere e potere.

Al primo studio (Barbieri e Bascelli, in stampa), hanno partecipato 96 bambini suddivisi in quattro gruppi di età: 3.0-4.6; 4.7-5.10; 6.3-7.2; 8.3-9.2. Ciascun soggetto ha eseguito due compiti. Il primo valutava la comprensione di un’espressione modale per il dominio epistemico - ricerca di un oggetto sulla base delle informazioni offerte da una frase. Il secondo valutava la comprensione di tale espressione per il dominio deontico - agire sulla base di obblighi, permessi e proibizioni.

I risultati mostrano che la comprensione dei modali deontici precede la comprensione dei modali epistemici; che una piena differenziazione della forza delle diverse forme modali nei due domini non è raggiunta prima dei 9 anni; che la distinzione fra il significato deontico di dovere (obbligo) e quello di potere (permesso) compare dopo l’inizio dell’età scolare.

Il secondo studio si prefigge di controllare l’ipotesi che la capacità di distinguere tra ciò che è conveniente (vantaggio) e ciò che non lo è (svantaggio) sia la guida ad una più precisa specificazione semantica tra i modali dovere e potere nella loro funzione di

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SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO

regolazione del comportamento. Hanno partecipato a questo esperimento 100 bambini divisi in due gruppi di età: 4-5; 5-6, equamente suddivisi tra coloro che comprendevano e non comprendevano il vantaggio. La capacità di valutare il vantaggio nelle proprie strategie di azione è stata analizzata tramite un gioco in cui i bambini ricevevano degli ordini in forma positiva e negativa. La comprensione dei modali è stata valutata con il compito precedente.

I risultati mostrano che la comprensione del vantaggio non influisce sulla comprensione dei verbi modali nei soggetti più piccoli. Nel secondo gruppo di età, invece, i soggetti che comprendono il vantaggio mostrano anche una vistosa differenza nella distinzione fra devi e puoi rispetto a quelli che non lo comprendono. Questi risultati vengono discussi nell’ottica di una relazione dinamica fra pensiero e linguaggio, vi è infatti un’età in cui la capacità di anticipare le conseguenze vantaggiose o svantaggiose della propria azione si associa ad una più accurata comprensione dei vincoli imposti dal linguaggio modale sull’azione dell’ascoltatore.

Riferimenti bibliograficiBarbieri M.S., Bascelli E. (in stampa). La comprensione dei verbi modali epistemici e

deontici in età evolutiva. Giornale Italiano di Psicologia.Bliss L.S. (1988). Modal usage by preschool children. Journal of Applied Developmental

Psychology, 9, 369-387.Cummins D. (1996). Evidence of deontic reasoning in 3- and 4-year-old children. Memory

& Cognition, 24, 823-829.Hirst W., Weil J. (1982). Acquisition of epistemic and deontic meaning of modals. Journal

of Child Language, 9, 659-666.Inhelder B., Piaget J. (1955). De la logique de l’enfant à la logique de l’adolescent. Paris:

PUF; trad. it. Dalla logica del fanciullo alla logica dell’adolescente. Firenze: Giunti-Barbera, 1971.

Kuczaj S.A., Maratsos M.P. (1975). What children can say before they will. Merrill Palmer Quartely, 21, 89-111.

Piéraut-Le Bonniec G. (1980). The development of modal reasoning. Genesis of Necessity and Possibility Notions. New York: Academic Press.

L’ASSEMBLAGGIO DI CONSONANTI E VOCALI NELLA LETTURA DI PAROLE

Lucia Colombo*, Roberto Cubelli^ e Marco Zorzi*°Dipartimento di Psicologia Generale*Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione^Institute of Cognitive Neuroscience, University College, London, UK°

Secondo il modello a due cicli formulato da Berent e Perfetti (1995) l’attivazione fonologica di consonanti e vocali e il loro assemblaggio nella rappresentazione fonologica corrispondente ad una parola ha luogo in due stadi indipendenti. L’assemblaggio delle

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SIMPOSI - STUDI PSICOLINGUISTICI SUI DIVERSI LIVELLI DI RAPPRESENTAZIONE DEL LINGUAGGIO

consonanti viene eseguito durante il primo ciclo, seguito nel secondo ciclo dalla elaborazione della fonologia delle vocali. Possiamo considerare due tipi di ipotesi alternative, relativamente al modello a due cicli. Secondo la prima, l’emergere precoce del codice fonologico delle consonanti dipende da una priorità delle consonanti, definita linguisticamente, che è valida universalmente. Secondo la seconda ipotesi, l’elaborazione più rapida delle consonanti dipende dalle caratteristiche specifiche della corrispondenza segno-suono in inglese, che è fortemente irregolare.    In quest’ultimo caso, non ci si aspetterebbe lo stesso tipo di risultato anche in una lingua regolare come italiano.

Abbiamo sottoposto a verifica queste ipotesi in una serie di tre esperimenti in cui è stato utilizzato il paradigma di “backward masking” di Berent e Perfetti. Sono state utilizzate delle parole bisillabe e trisillabe, presentate sullo schermo di un computer per un intervallo variabile (16 ms, 33ms, 50 ms) seguite immediatamente da una nonparola mascheramento, che manteneva tutte le vocali, o tutte le consonanti della parola bersaglio, oppure era uno pseudomofono della parola bersaglio. Queste costituivano le condizioni sperimentali, da confrontare con una condizione di controllo in cui il mascheramento era formato da una nonparola che aveva solo il primo fonema in comune con la parola bersaglio. Il mascheramento era presentato per 33 ms, o 67 ms. Le condizioni di SOA tra parole bersaglio e mascheramenti erano date quindi dai seguenti intervalli: 16/33, 33/33, 50/33, 50/67.

Nel primo esperimento il compito richiesto al soggetto era di scrivere la parola che vedeva sullo schermo; nel secondo esperimento, di leggerla ad alta voce, e nel terzo esperimento di fare una decisione lessicale sulla parola bersaglio. Sono state utilizzate come variabili indipendenti “tipo di mascheramento” a 4 livelli, “lunghezza in sillabe” a due livelli, e “tipo di struttura della parola” a due livelli. Queste variabili erano a misure ripetute, mentre la variabile SOA era a gruppi indipendenti. La variabile dipendente era data dalla proporzione di risposte corrette.   

I risultati degli esperimenti 1 e 2 hanno mostrato che ad SOA brevi l’effetto di riduzione del mascheramento, cioè la differenza tra il controllo e le condizioni sperimentali, era maggiore per il mascheramento che conserva le vocali, rispetto a quello che conserva le consonanti, o rispetto allo pseudoomofono. L’effetto di riduzione del mascheramento era significativo anche per il mascheramento che mantiene le consonanti e per lo pseudoomofono. Quindi, contrariamente al risultato trovato da Berent e Perfetti (1995) per l’inglese, in italiano il mascheramento che conserva le vocali produce una maggiore accuratezza rispetto alle altre due condizioni. Ad SOA più lunghi, invece, l’effetto di riduzione del mascheramento era lo stesso nelle tre condizioni sperimentali.

Nell’esperimento di decisione lessicale, l’effetto di riduzione del mascheramento è risultato lo stesso per mascheramento stesse-consonanti e stesse-vocali, mentre lo pseudoomofono ha prodotto un’accuratezza minore.

I risultati sono compatibili con l’idea che l’assemblaggio della fonologia di consonanti e vocali sia davvero in qualche modo indipendente, come proposto da Berent e Perfetti, ma dipenda anche da caratteristiche specifiche della lingua. Inoltre, la differenza tra consonanti e vocali emergerebbe solo in compiti che richiedono l’assemblaggio della fonologia, come la lettura, e non in compiti che possono essere eseguiti sulla base della rappresentazione ortografica dello stimolo.

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LE RAPPRESENTAZIONI DEI CARATTERI LOGOGRAFICI E LA LORO IDENTIFICAZIONE

Giovanni B. Flores d’ArcaisDipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

Negli ultimi anni sono apparsi numerosi contributi sull’accesso lessicale e sulla forma delle rappresentazioni nel lessico mentale legate a parole scritte in sistemi logografici, in cui la relazione tra fonologia e ortografia è assolutamente diversa da quella che caratterizza sistemi di tipo alfabetico o anche sillabico.

Il lavoro presenta una sintesi e una discussione di dati ottenuti in una serie di esperimenti, che hanno mirato a porre in relazione alcune proprietà psicolinguistiche dell’elaborazione dei caratteri cinesi in Cina e Giappone, con importanti caratteristiche legate alle rappresentazioni dei caratteri nei sistemi logografici stessi. Uno degli argomenti riguarda la relazione tra la velocità di elaborazione delle componenti semantiche e fonologiche, che in non pochi caratteri tendono ad essere codificate separatamente in due diversi radicali, che insieme formano i caratteri, e la struttura dei caratteri nella lettura. Le ricerche hanno posto in evidenza come la velocità di elaborazione sia legata da una parte a caratteristiche differenziali degli elementi, nel senso che la componente fonologica risulta temporalmente favorita nell’elaborazione rispetto a quella semantica, dall’altra alla posizione dei radicali nei caratteri e alle loro proprietà di distribuzione statistica nell’ambito dei caratteri stessi. I lettori sembrano aver appreso ad usare molto bene nel riconoscimento queste proprietà statistiche, capaci di fornire un preciso elemento per l’identificazione dei caratteri.

Un secondo argomento riguarda invece altre proprietà dei radicali nell’identificazione dei caratteri. La frequenza di uso, cioè la frequenza con cui un radicale assume un determinato ruolo all’interno del carattere, come portatore di informazione fonologica o invece di informazione di tipo semantico, diviene un elemento importante nel mediare la corretta identificazione ortografica del carattere e quindi la sua facilità di lettura.

LA COMPETENZA CONVERSAZIONALE NEGLI ADULTI CON LESIONI CEREBRALI

Luca Surian, Silvia MariniDipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova

Abbiamo affrontato il problema delle basi neurali della competenza conversazionale esaminando la prestazione di 30 pazienti con lesioni cerebrali all’emisfero destro oppure a quello sinistro.    La valutazione dei pazienti è stata condotta per mezzo di compiti metalinguistici e di teoria della mente precedentemente utilizzati nelle ricerche sui deficit comunicativi dei bambini con autismo (Surian e Leslie, 1999; Surian, Baron-Cohen e van der Lely, 1996). Nei compiti metalinguistici ai pazienti è stato chiesto di identificare

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25 enunciati che violavano alcuni vincoli pragmatici o semantici. Nei compiti di teoria della mente si richiedeva l’attribuzione di stati mentali epistemici quali conoscenze e false credenze. I compiti di teoria della mente sono stati proposti in due versioni: con o senza informazioni visive. Nei risultati è emerso che sia i pazienti con danno all’emisfero sinistro sia quelli con danno all’emisfero destro superavano i compiti di valutazione di enunciati. I pazienti con lesioni sinistre eseguivano correttamente anche i compiti di teoria della mente. I pazienti con lesioni destre incontravano invece difficoltà nei compiti di teoria della mente, ma solo nella condizione senza supporto visivo.    Questi risultati gettano ulteriore luce sulle difficoltà pragmatiche dei pazienti con lesioni all’emisfero destro riportate in precedenti lavori (Siegal, Carrington e Radel, 1996). Queste difficoltà sembrano derivare da un deficit attentivo generale per dominio e non da una perdita dominio-specifica delle conoscenze che regolano la conversazione.

Riferimenti bibliograficiSiegal, M., Carrington, J e Radel, M. (1996). Theory of mind and pragmatic understanding

following right hemisphere damage. Brain and Language, 53, 40-50.Surian, L. e Leslie, A. (1999) Competence and performance in false belief understanding: A

comparison of autistic and three-year-old children. British Journal of Developmental Psychology, 17, 141-155.

Surian, L. Baron-Cohen e Van der Lely, H. (1996). Are children with autism deaf to Gricean maxims? Cognitive Neuropsychiatry, 1, 55-71.

IL RUOLO DELLA SILLABA NELLA PERCEZIONE DELL’ITALIANO.

Patrizia TabossiUniversità di Trieste

Secondo un’influente ipotesi, l’unità sublessicale usata dai parlanti delle lingue romanze, come l’italiano, per segmentare il discorso e accedere al lessico è la sillaba (Mehler, Dommergues, Frauenfelder, & Segui, 1981). Alla luce di numerosi dati che hanno mostrato discrepenze nella robustezza degli effetti sillabici nelle diverse lingue romanze, i sostenitori di questa ipotesi, pur mantenendo inalterato l’assunto fondamentale sul ruolo della sillaba nei meccanismi di percezione del linguaggio, hanno recentemente introdotto la nozione di trasparenza acustico/fonetica. Le lingue romanze, benché accomunate dal fatto di non avere il fenomeno dell’ambisillabicità, si differenziano nel grado di trasparenza delle loro fonologie, e quanto più sono trasparenti le fonologie, tanto più deboli sono gli effetti sillabici (Sebastian-Gallès, Dupoux, Segui, & Mehler, 1992). Lo scopo della ricerca riportata qui è di testare la validità di queste ipotesi per quanto concerne l’italiano. Nella prima serie di esperimenti, sfruttando la somiglianza dei sistemi fonologici dell’italiano e dello spagnolo, è stata testata la predizione che parlanti di lingue simili dovrebbero dar luogo in condizioni analoghe a effetti sillabici simili. Congruentemente con questa predizione, i risultati hanno mostrato che, come i parlanti dello spagnolo sillabici

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(Sebastian-Gallès et al, 1992), anche i parlanti dell’italiano non usano una strategia sillabica in un compito di segment monitoring (Frauenfelder & Kearns, 1996), mentre si basano su unità sillabiche quando devono identificare un fonema in un paradigma di monitoring attentivo (Pallier, Sebastian-Gallès, Feiguera, Christophe, & Mehler, 1993; Pitt e Samuel, 1990).

Nella seconda serie di esperimenti, è stato impiegato il paradigma cross-modale per testate le previsioni dell’ipotesi sillabica per quanto riguarda l’accesso lessicale. I partecipanti sentivano la frase “La prossima parola è ...” seguita da un frammento costituito dai tre fonemi iniziali di una parola.    Alla fine del frammento prime essi vedevano un target sul quale eseguivano un compito di decisione lessicale (ad es., MARE). Nella condizione associata, il prime derivava da una parola semanticamente relata al target (ad es., mon da montagna), mentre nella condizione non associata esso conteneva gli stessi fonemi del frammento associato, ma derivava da una parola che non era associata al target e la cui prima sillaba aveva una struttura diversa da quella della parola associata (ad es., mon da moneta). Infine, nella condizione di controllo il frammento prime derivava da una parola che non aveva alcuna relazione né con le parole delle altre condizioni, né col target (ad es., pat da patata). In accordo con le previsioni dell’ipotesi sillabica, le risposte dei partecipanti al target visivo sono risultate più veloci nella condizione associata che nella condizione non associata, che a sua volta non era significativamente diversa dalla condizione di controllo.

Benché congruenti con l’ipotesi sillabica, questi risultati non mostrano direttamente che sia la struttura sillabica a dare avvio al processo di accesso al lessico. L’ultima serie di esperimenti è stata condotta per testare direttamente questa ipotesi. I partecipanti, dopo aver ascoltato un prime costituito da una sillaba CV, vedevano un target sul quale eseguivano un compito di decisione lessicale. Il sillaba prime derivava da una parola che poteva essere accentata sulla prima sillaba oppure no e poteva essere relativamente lunga o breve (lunga accentata: > 300 ms; breve accentata: < 200 ms; lunga non accentata: > 190 ms; breve non accentata: < 130 ms). Nella condizione associata la parola da cui derivava il prime (ad es., sa da sale) era associata al target (ad es., PEPE), mentre nella condizione non associata non c’era relazione semantica fra prime e target. Contrariamente a quanto previsto dall’ipotesi sillabica, soltanto le sillabe accentate - lunghe e brevi - nella condizione associata hanno prodotto un effetto di facilitazione sul riconoscimento del target, suggerendo che non tutte le sillabe CV sono in grado di dare inizio al processo di accesso lessicale. Un successivo esperimento, infine, ha mostrato che l’incipit e il nucleo di una sillaba CVC sono sufficienti ad iniziare il processo di accesso, mandando attivazione a candidati la cui prima sillaba ha struttura CV.

Complessivamente, la ricerca getta seri dubbi sulla validità dell’ipotesi sillabica, almeno nella sua formulazione corrente, mostrando che l’aver ascoltato un’unità sillabica non costituisce una condizione né necessaria né sufficiente affinché un parlante dell’italiano dia inizio al processo che lo condurrà al riconoscimento delle parole che sente.

Riferimenti bibliograficiFrauenfelder, U., & Kearns, R. K. (1996). Sequence monitoring. Language and Cognitive

Processes, 11, 665-673.

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Mehler, J., Dommergues, J., Frauenfelder, U., & Segui, J. (1981). The syllables role in speech segmentation. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 20, 298-305.

Pallier, C., Sebastian-Gallès, N., Feiguera, T., Christophe, A., & Mehler, J. (1993). Attentional Allocation within the Syllabic Structure of Spoken Words. Journal of Memory and Language, 32, 373-389.

Pitt, M. A., & Samuel, A. G. (1990). Attentional Allocation during Speech Perception: How fine is the focus? Journal of Memory and Language, 29, 611-632.

Sebastian-Gallès, N., Dupoux, E., Segui, J., & Mehler, J. (1992). Contrasting syllabic effects in Catalan and Spanish. Journal of Memory and Language, 31, 18-32.

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LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIOSimposio a cura di Rossana De Beni

STRATEGIE AUTORIFERITE NELLA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO:

STUDI DEI CORRELATI COGNITIVI

Andrea BoscoDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

Lawton (1994, 1996), sulla base delle autovalutazioni di soggetti impegnati in compito di ritrovamento di una strada, ha individuato due strategie di recupero delle informazioni dalla memoria basate su rappresentazioni mentali in prospettiva egocentrica, che l’autore definisce route strategy o in prospettiva eterocentrica, orientation strategy. Il presente lavoro si propone di indagare i correlati cognitivi delle strategie di rappresentazione mentale dello spazio mediante uno strumento di recente costruzione (Questionario Situazionale d’Orientamento Spaziale – QSOS; e.g. Bosco, 1999) in grado di fornire una misura auto riferita dell’uso di strategie dei due tipi: a) route e b) survey. La presente ricerca è tesa alla verifica sperimentale delle seguenti ipotesi:

1) è possibile identificare soggetti con preferenza per l’una o l’altra strategia di rappresentazione mentale dello spazio ma anche soggetti che mostrano “passaggi” dall’una all’altra strategia secondo diversi fattori,

2) se la survey knowledge rappresenta il più efficiente livello di conoscenza dello spazio, chi usa preminentemente la strategia survey dovrebbe pure essere più abile rispetto ad altri in compiti cognitivi spaziali semplici e complessi;

3) i soggetti con preferenza della strategia route, più ancorati cioè alla route knowledge, dovrebbero essere più abili dei soggetti appartenenti agli altri gruppi nei compiti di ricordo di un percorso noto.

4) se vi sono soggetti che passano dall’una all’altra rappresentazione mentale agevolmente, tale competenza potrebbe essere legata all’abilità in compiti cognitivi semplici.

MetodoLa misura che si ottiene dal questionario consiste nella frequenza d’uso di tre

strategie: due di tipo spaziale (route e survey) e una non spaziale. Il questionario è stato somministrato a 413 soggetti. Mediante analisi dei cluster abbiamo ottenuto un modello a sei gruppi Nella seconda fase 117 soggetti, ripartiti in cinque dei sei gruppi, sono stati sottoposti alla somministrazione di una batteria di prove cognitive spaziali:

1) compito di scansione dello spazio (labirinto),2) compito di rotazione mentale, (mani destre e sinistre),3) span di Corsi,4) memoria a lungo termine,

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SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO

5) Compito di ricostruzione di una mappa della città di appartenenza,6) Compito di ricordo di un percorso molto noto della città di appartenenza,

RisultatiIa Indagine

Analisi dei tre gruppi “preferenza ” (survey, Route I e Route II). La struttura fattoriale indica che il predittore più rilevante della prima funzione discriminante è il compito di ricostruzione di mappa (peso fattoriale: -0,57), ove il gruppo “preferenza survey” mostra la migliore prestazione. il predittore più rilevante della seconda funzione discriminante è il compito di memoria a lungo termine (peso fattoriale: 0,57), ove il gruppo “preferenza route I” mostra la peggiore prestazione.

Analisi sui due gruppi “congruenza” (con il compito, con la conoscenza). Dalla struttura fattoriale emerge che il predittore con il maggiore contributo alla discriminazione dei due gruppi è la prova di span visuo-spaziale (peso fattoriale: 0,47) mediante il Corsi Block Test. La direzione dell’effetto è in termini di una migliore prestazione del gruppo “congruente con il compito” rispetto all’altro.IIa Indagine

Una seconda analisi è stata condotta su una nuova batteria di prove:1) Mental Rotation Test (Vandenberg & Kuse, 1978),2) Digit span in avanti e indietro Le prova di span di cifre del WAIS,3) una prova sulle strategie di ragionamento,4) una prova di discriminazione di figure e parole che indicano direzione,5) indice dell’“effetto destra-sinistra”.Tale analisi comprendeva esclusivamente soggetti, del campione dei 117, di età

compresa tra 21 e 34 anni, che mostravano le distanze di Mahalanobis più piccole dal proprio centroide di gruppo. Le analisi condotte su questi nuovi gruppi confermano e ampliano i risultati ottenuti nella prima indagine.

Conclusioni1) Vi sono sia gruppi con preferenza per una strategia di rappresentazione mentale

dello spazio, sia gruppi con una modalità di rappresentazione che varia al variare di un fattore rilevante

2) L’uso predominante della strategia survey, sembra effettivamente identificare soggetti meglio dotati sul piano tanto delle competenze di base, quanto dei compiti complessi: a) di ricostruzione di mappe (compito survey per eccellenza), b) di ricostruzione di un percorso noto.

3) i soggetti con preferenza della strategia route, non mostrano maggiore perizia dei soggetti con preferenza survey nei compiti di ricostruzione di un percorso noto.

4) I soggetti “congruenti con il compito” e “congruenti con la conoscenza” si differenziano tra di loro solo sulla base di prove molto semplici come la prova di Span visuo-spaziale e di riconoscimento di etichette verbali di direzione, in entrambi i casi a favore dei “congruenti con il compito”. Ricerche future saranno volte alla selezione di nuovi predittori per definire meglio le caratteristiche dei gruppi secondo un modello multifattoriale che dovrebbe comprendere prove di intelligenza fluida, di intelligenza cristallizzata e di rapidità percettiva.

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Riferimenti bibliograficiBosco, A. (1999). Abilità e strategie nelle rappresentazioni mentali dello spazio. Correlati

cognitivi e differenze individuali del “senso dell’orientamento”. Tesi di Dottorato non pubblicata.

Lawton, C. A. (1994). Gender differences in way-finding strategies: Relationship to spatial ability and spatial anxiety. Sex Role, 30, 765-779.

Lawton, C. A. (1996). Strategies for indoor wayfinding: The role of orientation. Journal of Environmental Psychology, 16.

Siegel, A.W., White, S.H. (1975). The development of spatial representations of large-scale environments. In H.W. Reese (Ed.), Advances in Child Development and Behavior. (Vol. 10, pp. 9-55). New York: Academic.

Vandenberg, S.G., Kuse, A.R. (1978). Mental rotations: A group test of three dimensional spatial visualization. Perceptual and Motor Skills. 47, 599-604.

Yoshino, R. (1991). A note on Cognitive maps: An optimal spatial knowledge representation. Journal of Mathematical Psychology, 35, 371-393.

RUOLO DELLA PREFERENZA SPAZIALE NELLA PRESTAZIONE IN COMPITI VISUOSPAZIALI E NEL

RICORDO DI DESCRIZIONI DI AMBIENTI

Francesca Pazzaglia, Rossana De BeniDipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

IntroduzioneLa letteratura sulle rappresentazioni spaziali e sulle descrizioni di ambienti

individua due modi sostanzialmente diversi di rappresentare e descrivere lo spazio (Tversky, 1991; 1996): da una prospettiva “entro il percorso” (route) o “dall’alto” (survey). Lo scopo della presente ricerca è di verificare se individui classificati come alti-spaziali e caratterizzati da una preferenza per una rappresentazione dello spazio di tipo survey dimostrino, confrontati a soggetti bassi-spaziali, una migliore prestazione in compiti di memoria visuospaziale e nel ricordo di descrizioni di ambienti da diverse prospettive.

MetodoSoggetti

Quarantotto studenti universitari, selezionati da un campione di 322 studenti sulla base delle risposte fornite ad un Questionario di Orientamento Spaziale (Pazzaglia, Cornoldi e De Beni, in corso di stampa). I partecipanti sono divisi in due gruppi (24 partecipanti per gruppo, 8 m. e 16 f.), rispettivamente con alta e bassa attitudine ad avere una rappresentazione spaziale di tipo survey. Materiali e procedura

Ad entrambi i gruppi sono state somministrate le seguenti prove visuospaziali: il Corsi Block Test (Milner, 1971), il Visual Pattern Test (Della Sala, Gray, Baddeley & Wilson, 1997), il Mental Rotation Test (Vanderberg & Kuse, 1978) e il Minnesota Paper

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Form Board (Likert & Quasha, 1941). Sono stati inoltre proposti uditivamente alcuni brani spaziali seguendo la procedura di Pazzaglia, Cornoldi e Longoni (1994), con una successiva prova di riconoscimento di informazioni spaziali e non contenute nel brano.Ipotesi

Si ipotizzava che i due gruppi si differenziassero nel Mental Rotation Test, che, tra quelle proposte, è la prova che richiede una rotazione attiva degli item anche nella terza dimensione e che viene considerata dalla letteratura come la più tipicamente spaziale (Linn e Petersen, 1986). Ci si aspettava inoltre che il gruppo di alti-spaziali ottenesse una migliore performance nella prova di riconoscimento di informazioni, con maggiore accuratezza e tempi più veloci nel rispondere, in particolare, alle domande riguardanti i brani da prospettiva survey.

Risultati I risultati confermano la differenza tra gruppi nel Mental Rotation Test a favore del

gruppo di alti-spaziali. Nel ricordo di brani l’attesa interazione tra prospettiva assunta dal brano e preferenza di rappresentazione spaziale non è stata individuata, né considerando l’accuratezza né i tempi di risposta. È risultata, invece, in generale una migliore prestazione degli individui alti-spaziali circoscritta alle informazioni di tipo spaziale e indipendente dal tipo di brano presentato. Non è stata trovata differenza nel riconoscimento di informazioni non spaziali contenute negli stessi testi.

ConclusioniI nostri dati confermano la relazione tra strategie spaziali di rappresentazione dello

spazio e compiti di memoria visuospaziale, confermando la validità dell’autovalutazione delle abilità di orientamento e di preferenza di rappresentazione spaziale. Si dimostra, inoltre, che individui con alta abilità spaziale hanno una migliore comprensione di brani spaziali, indipendentemente dalla prospettiva (route o survey) adottata nel brano.

Riferimenti bibliograficiDella Sala, S., Gray, C., Baddeley, A., Wilson, L. (1997). Visual patterns test: A new test of

short-term visual recall. Suffolk: Thames Valley Test Company. Linn, M. C., Petersen, A. C. (1985). Emergence and characterization of sex differences in

spatial ability: A meta-analysis. Child Development, 56, 1479-1498.Milner, B. (1971). Interhemispheric differences in the localization of psychological

processes in man. British Medical Bulletin, 27, 272-277. Pazzaglia, F., Cornoldi, C., De, Beni R. (in press). Differenze individuali nella

rappresentazione dello spazio: presentazione di un Questionario autovalutativo (Individual differences in spatial representation: An autovalutative questionnaire). Giornale Italiano di Psicologia.

Pazzaglia, F., Cornoldi, C., e Longoni, A. (1994). Limiti di memoria e specificità di rappresentazione nel ricordo di descrizioni spaziali “dall’alto” ed “entro il percorso”. Giornale Italiano di Psicologia, 21, 267-286.

Tversky, B. (1991). Spatial mental models. In G. H. Bower (Ed.), The psychology of learning and motivation: Advances in research and theory: Vol. 27 (pp. 109-145). New York: Academic Press.

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Tversky, B. (1996). Spatial perspective in descriptions. In P. Bloom, M. A. Peterson, L. Nadel, M. F. Garret (Eds.), Language and space (pp. 463-491). Cambridge, MA: The MIT Press.

Vanderberg, S. G. , Kuse, A. R. (1978). Mental rotations: A group test of three-dimensional spatial visualization. Perceptual and Motor Skills, 47, 599-604.

DISTANZE MENTALI E DISTANZE REALI

Tina Iachini, Fiorella GiusbertiDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneLo scopo di questo lavoro è quello di studiare in che modo la grandezza assoluta di

un percorso all’interno di un ambiente sia rappresentata immaginativamente. Un insieme molto ampio di ricerche ha affrontato l’argomento della distanza in relazione alle immagini mentali (ad es. Kosslyn, Ball e Reiser, 1978; Kosslyn, 1983). Queste ricerche intendevano dimostrare che le immagini mentali sono analoghe a rappresentazioni percettive e quindi hanno un’estensione, ossia una grandezza che funziona in modo simile alle distanze reali degli oggetti rappresentati. Più precisamente, tali ricerche hanno dimostrato che il tempo richiesto per esplorare l’immagine mentale di una mappa, ad esempio, aumenta linearmente all’aumentare della superficie esplorata (Kosslyn, Ball e Reiser, 1978). Questo risultato, di grande rilevanza teorica all’interno del dibattito analogico/proposizionale in corso negli anni ‘70, lasciava aperta la questione di quale relazione ci fosse tra le distanze reali e le distanze riprodotte immaginativamente. Assodato che le immagini mentali hanno una grandezza, lo scopo che si prefigge il nostro lavoro è di indagare come le immagini mentali riproducono le distanze reali. Sono sensibili alla grandezza assoluta di un percorso o la riducono ad una sorta di grandezza standard? È stato progettato un esperimento basato sul confronto diretto fra tre percorsi di diverse dimensioni, ognuno comprendente delle posizioni al suo interno. Venivano formulate due ipotesi: quella della grandezza standard secondo cui la prestazione è predetta dalle posizioni ma non dalle dimensioni metriche assolute; quella della grandezza assoluta secondo cui la prestazione è predetta dalle dimensioni metriche assolute ma non dalle posizioni.

Metodo 36 soggetti erano divisi in tre gruppi, a ciascuno dei quali era assegnato uno di tre

percorsi di diversa grandezza che misuravano complessivamente 3 m., 6 m. e 12 m. Ogni percorso comprendeva sei posizioni, indicate da un colore specifico, poste a distanze uguali l’una dall’altra, ossia rispettivamente 50 cm., 100 cm. e 200 cm. Nella fase di studio i soggetti dovevano memorizzare il percorso camminandoci sopra ed osservandolo, seguendo la direzione antioraria. Dovevano fare quattro volte il giro del percorso secondo la loro andatura e quindi senza limiti tempo. Nella fase di test, i soggetti devono esplorare mentalmente l’immagine che avevano elaborato del percorso a partire dalla posizione di

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SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO

partenza fino alle successive posizioni. La variabile dipendente era costituita dal tempo di scanning.

RisultatiSui tempi di scanning veniva effettuata un’analisi della varianza per disegni misti

(1 variabile between, 3 gruppi ed 1 variabile within, 6 posizioni) che non ha rivelato una differenza significativa fra i gruppi F (2,33)= 2.744, p< .074 né interazione tra gruppi e posizioni, ma un effetto significativo legato alle posizioni: F (5, 165)= 33.791, p< .000. Un’analisi della regressione multipla ha rivelato che all’interno di ogni condizione il tempo di scanning aumentava all’aumentare della distanza e che la relazione era spiegata da una significativa componente esponenziale ossia con X elevato a 5: gruppo 50 cm. F (1,70)= 44.718, p< .000, Beta= .624; gruppo 100 cm. F (1,70)= 20.412, p< .001, Beta= .475; gruppo 200 cm. F (1,70)= 18.960, p< .001, Beta= .462. Venivano effettuate ulteriori analisi per capire se i diversi tempi di studio avessero influenzato la prestazione. I tempi, infatti, variavano secondo un range da 22.53 sec. a 88.63 sec. Sono state individuate due classi di tempi: brevi e lunghi. Successivamente sono state effettuate delle analisi della varianza 3 X 6 (3 gruppi X 6 posizioni) all’interno di ciascuna classe di tempo. Nel tempo lungo si è trovata una significativa differenza tra i gruppi: F (2,19)= 4.355, p< .0278, che non si è invece ottenuta nel tempo breve.

ConclusioniI risultati confermano l’ipotesi relativa alla grandezza standard, secondo cui la

prestazione doveva essere predetta dalle posizioni ma non dalla grandezza metrica assoluta dei percorsi. In altre parole, la rappresentazione su cui si basa l’esplorazione mentale dello spazio è il risultato della codifica delle posizioni dislocate al suo interno e della riduzione delle sue dimensioni ad una sorta di grandezza standard. Le analisi esplorative condotte in base ai tempi di studio, tuttavia, suggeriscono che si verifica un effetto legato alla dimensione metrica assoluta quando i soggetti hanno più tempo a disposizione nella fase di codifica per studiare il percorso. In questo caso è possibile supporre che abbiano codificato sia le posizioni che le distanze fra di esse. Questo risultato, però, ha un valore puramente indicativo e costituisce la base per ulteriori indagini.

Riferimenti bibliograficiKosslyn, S.M., Ball, T.M. & Reiser, B.J. (1978). Visual images preserve metric spatial

information: Evidence from studies of image scanning. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 4, 47-60.

Kosslyn, S. M. (1983). Ghosts in the mind’s machine: creating and using mental images in the brain. New York Norton. Trad. it. Le imagini nella mente, Firenze: Giunti, 1989.

DIFFERENZE INDIVIDUALI NELL’EFFETTO ALLINEAMENTO

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SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO

Raffaella Nori, Fiorella GiusbertiDipartimento di Psicologia, Università di Bologna

IntroduzioneNel momento in cui dobbiamo effettuare un compito di wayfinding in un ambiente

geografico sconosciuto o non familiare siamo soliti consultare una mappa. La facilità con cui le persone possono muoversi nell’ambiente geografico circostante e raggiungere la meta desiderata, è determinata dal fatto che la mappa risulti allineata con l’ambiente esterno. Quando cioè, si verifica una corrispondenza tra la prospettiva indicata dalla mappa e quella dell’ambiente di fronte a noi, si effettuano meno errori (es. intraprendere strade sbagliate o che allunghino il percorso) rispetto a quando questa corrispondenza non si verifica (Warren e Scott, 1993). Risultati simili si evidenziano anche quando le persone riattivano e utilizzano rappresentazioni mentali o mappe cognitive dell’ambiente geografico circostante. Numerose ricerche sulla memoria spaziale hanno infatti evidenziato come le persone risultino più accurate e veloci, nell’effettuare giudizi di direzione, quando la prospettiva immaginata corrisponde alla prospettiva da cui l’informazione spaziale è stata appresa (effetto allineamento) (Presson, DeLange e Hazerlig, 1989). Un recente lavoro condotto da Rossano, Warren e Kenan (1995) ha però rilevato come questo effetto non risulti così generalizzabile come si poteva supporre. Nei tre esperimenti da loro condotti, gli autori hanno infatti osservato come una parte dei soggetti non presenti alcun effetto allineamento. Lo scopo del nostro studio è quello di rilevare la qualità delle differenze individuali ipotizzando che queste risiedano nella predisposizione soggettiva a focalizzare l’attenzione solo su alcune possibili informazioni fornite dall’ambiente. Questo porta inevitabilmente all’acquisizione di differenti forme di conoscenza ambientale: visivo (caratterizzata da un’acquisizione e conseguente rappresentazione mentale dell’ambiente basata solo ed esclusivamente sui punti di riferimento, cioè stimoli ambientali percettivamente vistosi o soggettivamente importati) route (caratterizzata da un’acquisizione e quindi rappresentazione mentale dell’ambiente basata, sia dalla presenza dei punti di riferimento che dai percorsi abitualmente effettuati per spostarsi da un punto di riferimento all’altro) e survey (caratterizzata da un’acquisizione e rappresentazione mentale dell’ambiente simile ad una mappa, basata su conoscenze configurazionali con punti di riferimento fissi e globali) (Pazzaglia, Cornoldi, De Beni in stampa). In particolare noi ipotizziamo che i soggetti che utilizzano una rappresentazione mentale dell’ambiente prevalentemente survey non presentino un effetto allineamento a differenza dei soggetti che utilizzano una rappresentazione mentale dell’ambiente prevalentemente route o visiva. Supponiamo inoltre che i soggetti che utilizzano una rappresentazione mentale dell’ambiente prevalentemente survey non risultino più rapidi nell’effettuare giudizi direzionali allineati rispetto a giudizi direzionali controlineati.

Metodo Soggetti

Hanno preso parte all’esperimento 60 soggetti (20 soggetti che utilizzano una strategia di acquisizione dell’informazione spaziale prevalentemente visiva, 20 soggetti che utilizzano una strategia di acquisizione dell’informazione spaziale prevalentemente route e 20 soggetti che utilizzano una strategia di acquisizione dell’informazione spaziale prevalentemente survey).

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SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO

ProceduraAllo scopo di differenziare lo stile cognitivo utilizzato nell’acquisizione

dell’informazione spaziale, abbiamo preliminarmente sottoposto il questionario di Pazzaglia e collaboratori ai nostri soggetti. Successivamente venivano mostrati 8 percorsi, uguali a quelli utilizzati da Presson e collaboratori (1989), costituiti da 4 segmenti sui quali erano indicate 4 posizioni con i relativi numeri. I soggetti avevano a disposizione 30 secondi di tempo, per ciascun percorso, per apprendere la disposizione delle 4 posizioni. Una volta appreso il percorso i soggetti dovevano effettuare 2 compiti di giudizio direzionale: allineato (la prospettiva immaginata corrispondeva alla prospettiva appresa) e controlineato (la prospettiva immaginata era diversa da quella appresa) per rilevare l’esistenza o meno dell’effetto allineamento. La prova avveniva individualmente alla sola presenza dello sperimentatore che registrava sia le risposte dei soggetti che il tempo utilizzato per effettuare ciascun giudizio direzionale.

RisultatiI risultati sono in corso di elaborazione. Da una prima analisi emergono

interessanti correlazioni significative tra le opinioni che i soggetti hanno relativamente alle proprie modalità di acquisizione e rappresentazione dell’informazione spaziale e la performance sui compiti di giudizio direzionale.

Riferimenti bibliografici Pazzaglia F., Cornoldi C., De Beni R. (in stampa). Differenze individuali nella

rappresentazione dello spazio: presentazione di un questionario autovalutativo. Presson C. C., DeLange N., Hazelrigg M. D. (1989). Orientation specificity in spatial

memory: what makes a path different from a map of a path. Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory and Cognition, 15, 887-897.

Rossano M. J., Warren D. W., Kenan A. (1995). Orientation specificity: how general is it? American Journal of Psychology, 108 (3), 359-380.

Warren D. H., Scott T. E. (1993). Map alignment in traveling multisegment routes. Environment and Behaviour, 25, 643-666.

DESCRIVERE LO SPAZIO: FREQUENZA D’USO ED ATTRIBUTI SEMANTICI DEI TERMINI DIREZIONALI IN TEMI DI BAMBINI DELLE SCUOLE ELEMENTARI

Anna M. Longoni, Clelia Rossi-ArnaudDipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza”

IntroduzionePer un osservatore canonico lo spazio è organizzato secondo una direzione

verticale denotata dai termini “sopra-sotto” e da due direzioni orizzontali denotate dai termini “davanti-dietro” e “destra-sinistra”. Ricerche precedenti (Franklin & Tversky, 1990), hanno mostrato che nella rappresentazione mentale di ambienti derivati da un testo

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SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO

scritto, oggetti posizionati lungo l’asse verticale sono più rapidamente accessibili di oggetti posizionati lungo gli assi orizzontali. Lo stesso trend è emerso nella frequenza d’uso dei termini direzionali, calcolata su un corpus di romanzi in lingua Spagnola (Rodrigo, De Vega, 1966).

Obiettivi e proceduraScopo della presente ricerca è quello di esaminare la distribuzione di frequenza e

gli attributi semantici dei termini direzionali: sotto-sopra; davanti-dietro; destra-sinistra in temi liberi scritti da un campione rappresentativo di bambini Italiani delle scuole elementari.

Il materiale su cui è basato questo studio, fornito da L. Marconi e D. Ratti, proviene dal corpus sul quale è stato costruito il Lessico elementare di Marconi et al. (1993). I temi hanno fornito 1095 frasi contenenti gli specificati termini direzionali. Ciascuna frase descriveva la relazione spaziale tra l’oggetto da posizionare (Figura) e l’oggetto di riferimento. Nel contesto della frase e in base alla situazione descritta ciascun termine direzionale veniva classificato da due giudici indipendenti in una delle seguenti categorie: evento statico (il termine veniva usato per descrivere la posizione di un oggetto rispetto ad un altro), evento di moto (il termine veniva usato per descrivere il movimento di un oggetto rispetto ad un altro) e metafora (il termine veniva usato per descrivere un concetto astratto).

Risultati e discussioneÈ stata condotta un’analisi loglineare per “selezione automatica del modello

migliore via eliminazione” con le seguenti variabili: Classe (dalla 2a alla 5a elementare), Parola (davanti, dietro, sopra, sotto) e Situazione (Statico e Moto). Le metafore e i termini relativi a uno degli assi orizzontali (destra-sinistra), essendo pochissimo utilizzati dai bambini, sono stati eliminati dalle analisi. I risultati evidenziano una leggera preferenza da parte dei bambini per l’uso di espressioni che descrivono relazioni statiche (54%) rispetto a situazioni di movimento (42%). Inoltre, nelle produzioni spontanee dei bambini di tutte le classi elementari è emerso un maggior uso dei termini legati all’asse verticale (“sopra-sotto”) rispetto a quelli relativi all’asse orizzontale (“davanti-dietro”); tale tendenza è più pronunciata nei bambini delle prime classi. Sono state inoltre analizzate le caratteristiche dell’oggetto figura e dell’oggetto di riferimento, utilizzando le seguenti categorie: Oggetto, Animale, Self, Persona. L’analisi loglineare condotta sui fattori Classe, Parola e Figura (a quattro livelli ciascuno) ha indicato un maggior uso della categoria Oggetto come figura rispetto alle altre categorie. Inoltre, con l’età, decresce l’uso di animali come oggetti figura, mentre aumenta il riferimento a se stessi. Allo stesso modo un’ulteriore analisi condotta sui fattori Classe, Parola e Oggetto di riferimento ha evidenziato che nel 78,5% delle osservazioni effettuate i bambini del campione preso in considerazione usano un Oggetto come oggetto di riferimento quando devono descrivere una relazione spaziale. Tale tendenza aumenta con l’età, mentre diminuisce l’uso della categoria animali. I risultati dell’analisi hanno inoltre indicato una tendenza ad associare esseri animati (animali, persone e self) all’asse orizzontale, mentre gli oggetti sono più spesso utilizzati con i termini “sopra” e “sotto”. I risultati di questa ricerca confermano infine la tendenza, emersa in precedenti lavori, ad utilizzare, indipendentemente dall’età del soggetto, l’oggetto più stabile e più grande come oggetto di riferimento.

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SIMPOSI - LA RAPPRESENTAZIONE MENTALE DELLO SPAZIO

Riferimenti bibliograficiFranklin, N., Tversky, B. (1990). Searching imagined environments. Journal of

Experimental Psychology, 119(1), 63-76.Marconi, L., Ott, M., Pesenti, E., Ratti, D., Tavella, M. (1994). Lessico elementare - Dati

statistici sull’italiano scritto e letto dai bambini delle elementari. Bologna, Zanichelli.

Rodrigo, M.J., De Vega, M. (1996). The use of direction terms in Spanish. Poster presentato al 37th Annual Meeting of the Psychonomic Society, Chicago, Novembre 1996.

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GLI PSICOLOGI E LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE

Simposio a cura di Domenico Parisi

PRESENTAZIONE DEL SIMPOSIO

Domenico ParisiIstituto di Psicologia del C.N.R., Roma

Le nuove tecnologie informatiche (multimediali, interattive, simulative, telematiche, realtà virtuale) sono oggi in grande sviluppo e invadono ogni aspetto della vita individuale e sociale (lavoro, formazione, intrattenimento, comunicazione, ecc.). Si tratta di tecnologie che hanno relazioni molto strette con la psicologia in quanto chiamano in causa in modo prioritario capacità cognitive, comunicative e espressive, influenzando lo sviluppo e l’esercizio di tali capacità e richiedendo una conoscenza di queste capacità nella loro progettazione e realizzazione. Tuttavia la psicologia, almeno in Italia, non ha investito finora in modo sufficiente in queste tecnologie. Ad esempio la formazione degli psicologi non prevede in genere corsi su queste tecnologie e sul contributo che la psicologia può dare per il loro sviluppo e il loro uso appropriato. In questo modo si perdono occasioni importanti sia sul piano culturale e sociale sia su quello degli sbocchi lavorativi dei laureati in psicologia.

BASI COGNITIVE DELLA REALTÀ VIRTUALE

Francesco AntinucciIstituto di Psicologia, CNR

La realtà virtuale è una applicazione delle tecnologie informatiche che consente all’utente di essere esposto a input sensoriali che variano in funzione dei movimenti della sua testa, occhi, mani, etc., in modo simile a quello che accade nella realtà “reale”. L’utente ha così una esperienza di trovarsi immerso in un ambiente fisico e di poter interagire con tale ambiente che è molto simile alla sua esperienza nell’ambiente fisico reale. La realtà virtuale si basa su principi familiari allo psicologo e offre nuovi problemi e possibilità di ricerca alla psicologia. Inoltre la realtà virtuale ha tutta una serie di applicazioni (da quelle in campo educativo, divulgativo e dell’intrattenimento, a quelle in campo tecnologico e produttivo, fino alle applicazioni come nuovo strumento di ricerca per lo stesso psicologo) per le quali la psicologia potrebbe portare contributi importanti.

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SIMPOSI – GLI PSICOLOGI E LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE

PSICOLOGI IN UN MONDO SENZA NOTTE

Walter GerbinoDipartimento di Psicologia, Università di Trieste

La formazione alla CMC (comunicazione mediata dal computer) apre allo psicologo un curioso ambito di intervento. Gli psicologi debbono interessarsi alla CMC per vari motivi: (i) per rendere più efficiente il loro lavoro, siano essi ricercatori o professionisti; (ii) per sperimentare una modalità comunicativa ricca di insidie; (iii) per capire come facilitare importanti processi individuali e sociali. Per ora lo psicologo è ancora troppo preso a contenere le frustrazioni derivanti dal divario tra aspettative ed effettivi benefici prodotti dalle tecnologie della comunicazione. Ma tra poco potrebbe ritrovarsi a fare qualcosa di più.

LE SIMULAZIONI COME AMBIENTI DI APPRENDIMENTO

Domenico ParisiIstituto di Psicologia del C.N.R., Roma

Le simulazioni sono un nuovo modo di formulare le teorie scientifiche esprimendole come programmi di computer. Quando la teoria-programma “gira” nel computer si può verificare se la teoria spiega effettivamente i fenomeni che intende spiegare controllando se la simulazione riproduce o no tali fenomeni. Inoltre la simulazione funziona come laboratorio sperimentale virtuale in cui il ricercatore può manipolare variabili e osservare i risultati delle sue manipolazioni. Oltre che come strumenti di ricerca la simulazioni possono funzionare come ambienti di apprendimento in cui lo studente può conoscere e capire i diversi aspetti della realtà (nel campo delle scienze, della storia, della geografia, delle scienze sociali, della matematica) interagendo con una simulazione come se facesse esperimenti in un laboratorio didattico. I vantaggi delle simulazioni sono che molti più aspetti della realtà possono essere simulati rispetto a quelli che si possono portare in un laboratorio reale, e che la comprensione non passa più esclusivamente attraverso il linguaggio verbale del libro di testo e delle lezioni dell’insegnante ma attraverso un apprendimento attivo dello studente e canali espressivo-comunicativi diversi dal linguaggio come le immagini visive, e si può far conto su motivazioni aggiuntive rispetto alla motivazione ad imparare come la motivazione a giocare, gareggiare, esplorare, e così via.

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SIMPOSI – GLI PSICOLOGI E LE NUOVE TECNOLOGIE INFORMATICHE

PROGETTARE L’INTERAZIONE: TRA USABILITÀ E COINVOLGIMENTO ESPERENZIALE

Antonio RizzoIstituto di Psicologia, Università di SienaIstituto di Psicologia CNR, Università di Roma

La progettazione e lo sviluppo di interfacce interattive è con ogni probabilità la parte di lavoro più intensa e difficile nel processo di sviluppo di strumenti informatici. Per avere una idea di ciò, basti pensare che oltre il 50% del codice di un software moderno è dedicato all’interfaccia e che il 75% delle revisioni di software riguardano l’interfaccia. Le principali ragioni di ciò risiedono nel fatto che progettare un interfaccia prevede una varietà di scelte e decisioni progettuali che coinvolgono gli utenti e le possibili attività che potranno essere svolte dall’uomo in interazione con le tecnologie informatiche, e che la gran parte delle conseguenze di queste decisioni sono impredicibili. È principalmente per questo che la progettazione di interfacce interattive è un’attività sperimentale per la quale sono state concepite metodologie di sviluppo, tecniche di valutazione e vengono costantemente proposti nuovi approcci alla progettazione. Fra questi, i più promettenti combinano l’usabilità con il coinvolgimento esperenziale anche in applicazioni per le quali la sicurezza e l’affidabilità sono fattori critici (ad es. i sistemi di trasporto).

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INDICE ANALITICO

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INDICE ANALITICOINDICE ANALITICO

A

Adenzato M............................163; 220Alzani A..................................261; 273Angeli V.............................................29Angrilli A........................................131Annoni G..........................................35Antinucci F.....................................312Anzidei F.........................................144Arcidiacono L................................198Arduino L...............................114; 117Argenton A.......................................73Attardi A...........................................66

B

Bacchini D........................................47Bagassi M...............................265; 270Balboni G........................................275Baldanza S......................................144Baldaro B........................................136Baldassi S............................................9Balsamo M......................................177Barbieri M.S...................................295Bascelli E........................................295Basso D...........................................154Beghi L............................................251Bellusci A........................................145Benso F..............................................26Bertini M........................................173Berto R..............................................21Biasi V.............................................191Bisiacchi P.S...................................154Boggi Cavallo P................................34Bonaiuto M.....................................173Bonaiuto P................................43; 191Bonfiglioli C.......................................8Borghi V..........................................126Bosco A...................................157; 302Bosco F.M.........................................75Brandimonte M.A............................88Brennen T.......................................121Brizzolara D...................................240Brovedani P....................................240Bucciarelli M....................................77Buodo G...................................61; 263

Burani C.................................114; 123Burr D.................................................9Burr D.C.........................................107

C

Cabib S...................................127; 128Cacciari C.........................................67Caci B................................................66Cadamuro A...................................266Calabretta R...................................217Calamari E.......................................83Calasso D........................................201Calì F...............................................127Callegati I.......................................184Cancian F........................................116Carbonara M.V..............................193Cardaci M..................................49; 66Carola V..........................................257Casagrande M.......................132; 259Casiglia A.C......................................66Castelli F...................................93; 195Caterina R........................................57Cattaneo M.T...........................35; 197Cavallero C............................134; 215Celani G..........................................198Celia G............................................204Cerritelli G.....................................142Cerutti R.........................................280Cesa-Bianchi G..............................201Checchi M........................................36Cherubini P............................159; 186Chieffi S..........................................242Ciccarelli L.....................................117Cicogna PC............................261; 289Cipriani P.......................................240Codispoti M...........................136; 137Colle L..............................................77Collina S..........................................116Colombo L......................................296Committeri G...................................95Conson M.......................................242Conte A...........................................134Contento S................................67; 222Cornoldi C...............................85; 232Corradini P.......................................67Corso A...........................................277

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INDICE ANALITICOINDICE ANALITICO

Costa M....................................38; 140Couyoumdjian A............................162Cova M...........................................253Cozzolino M.....................................34Cristante F......................................289Cristini C.A....................................201Cubelli R................................253; 296Curci A..............................................40Curcio G.................................132; 259Curto R...........................................215Cusumano S...................................131Cutica I...........................................224

D

D’Amato S..................................14; 42D’Ercole M.......................................43D’Olimpio F....................................257D'Alessio M....................................203Daniela M.......................................186Dazzi C............................................277De Beni R...............................232; 304De Gennaro L........................142; 144De Pascalis V..................................145De Stasio S......................................203De Vincenzi M................................117de’Sperati C...................................248Del Miglio C.....................................42Delbello R.......................................102Dell’Acqua R.........................103; 283Devoto A.................................147; 179di Benedetto V..................................53Di Ferdinando A............................217Di Matteo R....................................105Di Nocera F.......................................71Donato D....................................34; 49Driver J......................................20; 99Duncan J.............................................8

E

Elbert T...........................................131

F

Fagioli I...........................................149Ferlazzo F.........................................12Ferrara M.......................................142Ferretti G........................................240

Flores d’Arcais G.B.......................298Frassinetti F....................................243Frigerio E.................................35; 197Frith C..............................................93Frith U..............................................93

G

Gaggioli A.......................................233Gagliardi M.P.................................173Galati D..................................163; 167Galati G......................................95; 98Galatolo R........................................79Galfano G.........................................26Gerbino W..............................111; 313Giannini A.M...................................43Giovanelli G...................................184Girelli M.........................................119Giusberti F.....................266; 306; 308Grainger J......................................103Grassi L..........................................238Greci E..............................................45Grieco A..........................................177Grifò S............................................230Grussu P.........................................280Guariglia C.......................................98

H

Happè F.............................................93

I

Iachini T..........................................306Iannaccone A...........................34; 204IannacconeA.....................................34Iaria G..............................................98Iavarone A......................................242

J

Job R......................117; 119; 253; 283

L

La Greca F......................................282Laicardi C......................................177Leone L...........................................169Lo Priore C.....................................121Lombardi L..............................55; 170Longoni A.M..................................310

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INDICE ANALITICOINDICE ANALITICO

Lorenzetti R...................................253Lorusso I.........................................144Lotto L............................................283Lucidi F..................................173; 179Lucidi L............................................85

M

Macchi Cassia V...............................15Macchi L................................265; 270Magurano M.R..............................145Mapelli D..........................................17Marcone R......................................206Marini S..........................................298Marsico P........................................204Martoni M..............................261; 273Marucci F.S....................................164Matarazzo O....................................47Mattarozzi K..................................245Mattei C..........................................136Mazzetti M.............................136; 137Mercuri L.......................................287Metitieri T.........................................29Miceli S.............................................49Minghetti R....................................131Mininni G.......................................226Miragliotta A..................................285Misuraca R.......................................49Mizzau M..........................................79Mondini S.........................................85Montebarocci O.............................137Morra S......................................24; 51Morrone M.C.................................107Mosca F...........................................110Mosconi G..............................265; 270Musso E..........................................248

N

Nasta M.T.......................................280Natale V..................................151; 261Neri P..............................................107Nicoletti R................................67; 188Nigro G...........................................289Nori R.............................................308

O

Occhionero M................................235

Olivetti Belardinelli M..............12; 14

P

Pace F................................................53Pagani D...................................55; 170Palladino P...............................86; 232Palomba D..............................137; 263Panero T............................................81Papotti M........................................268Parisi D...................................312; 313Pascucci T.......................................127Passolunghi M.C.ù.........................269Patria F.............................................95Pavan T.............................................57Pavani F............................................20Pavone F.........................................126Pazzaglia F......................................304Pecini C...........................................240Pedone R.........................................164Pedrabissi L...........................275; 277Pelizzon L.........................................88Pelosi A.....................................59; 175Peressotti F.....................................253Perini S...........................................268Pernice L........................................210Peron E.............................................21Pestilli F............................................12Peverelli M...............................35; 197Pinelli M...................................59; 175Pini M...............................................83Pirani P...........................................201Pizzamiglio L.............................95; 98Pizzoli C..........................................253Plet S................................................111Poderico C......................................207Poggi I.........................................36; 45Porcù S............................................259Primavesi A....................................197Provenzano L.........................210; 287Puglisi-Allegra S....................127; 128Purcell T............................................21

Q

Quatraro R.M................................280

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INDICE ANALITICOINDICE ANALITICO

R

Ricci Bitti P.E.................................140Ricciardelli P....................................99Rimé B..............................................40Rizzo A............................................313Robusto E.......................................289Rollo D............................................268Romano V.......................................127Rorden C............................................8Rosati M.M.....................................173Rossi-Arnaud C.............................310Rubichi S........................................188

S

Saetti L............................................295Saggino A........................................177Salpietro R........................................71Salzarulo P......................................149Sansavini A.....................................184Sarlo M.....................................61; 263Savarese G......................................228Scapellato P....................................151Schimmenti V.........................210; 287Scotto F.............................................81Senese V.P.......................................289Serafini M.G..........................265; 270Sichel M..........................................280Siegel L...........................................269Simion F............................................15Spence C...........................................20Sprini G....................................53; 230Stablum F.........................................24Stegagno L......................................131Stracciari A....................................245Stucchi N........................................248Surian L..........................................298

T

Tabossi P.................................116; 299Tacconi F.........................................277Tagliabue M.....................................32Terminello A...................................285Tinti C....................................163; 167Tirassa M........................................224Tomat L..........................................249Traficante D...................................123Tucci R......................................59; 175Tucci V............................................134Tuozzi G.................................136; 184Turatto M.........................................26

U

Umiltà C...............................15; 17; 32Urbani L.........................................259Usai M.C...........................................90

V

Vecchi T..........................................232Ventura R...............................127; 128Versace F................................134; 215Vestri A.............................................29Vignatelli L.....................................245Violani C................................147; 179Viterbori P........................................90

X

Xausa E...........................................251

Z

Zammuner V.L.........................63; 211Zanforlin M....................................251Zorzi M.....................................32; 296Zucco G..........................................238