salvatore scibona, "la fine", rassegna stampa monografica

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Salvatore Scibona La fine Rassegna stampa di Alessia Caputo scibona_la-fine_mono_ott11:rs 09/11/2011 13.59 Pagina 1

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La rassegna stampa monografica di "La fine" di Salvatore Scibona, pubblicato in Italia da 66thand2nd.

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Salvatore ScibonaLa fine

Rassegna stampa di Alessia Caputo

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Salvatore Scibona, La fineRassegna stampa di Alessia Caputo© Oblique Studio, ottobre 2011

Impaginazione di Isabella Zilahi de GyurgyokaiFont utilizzate: Adobe Garamond Pro, Helvetica e Helvetica Condensed Light

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e presente, come quella del panettiere Rocco, che dopoquarant’anni si ritrova completamente solo, quelladella vedova Marini, che pratica aborti o quella delgioielliere che colleziona lettere di soldati e vive con lasorella. Tutti personaggi, che nella loro semplicità, sifanno portatori di pensieri e ricordi complessi, tuttiassieme, tutti nello stesso giorno, quello della festadell’Assunta.Scibona che ha impiegato dieci anni per scrivere que-sto romanzo, giungendo esauso alla sua fine, ne parlacon trasporto come di un qualcosa che per quantonon racconti la vera storia della sua famiglia, ne è statoprotagonista legandosi ad essa profondamente.La fine – amato dalla stampa estera e da quella italiana– è stato definito da Le Monde: «un’esperienza sen-suale potente». La rassegna che segue, ordinata cro-nologicamente, ripropone i principali articoli e recen-sioni che hanno riguardato l’uscita di questo romanzoe la sua fortuna critica.

Salvatore Scibona è nato a Cleveland, Ohio nel 1975.Nel giugno del 2010 è stato incluso dal New Yorkernella lista dei «20 under 40», ovvero l’elenco dei ventimigliori narratori americani sotto i quarant’anni. Ilsuo romanzo d’esordio, The End, uscito in Americanel 2008, classificatosi tra i finalisti al National BookAward, vincitore, l’anno successivo dello Young LionsFiction Award, del Whiting Writers’ Award e del Nor-man Mailer Cape Cod Award for Exceptional Wri-ting, è stato pubblicato in Italia col titolo La fine nelmese di maggio 2011 dalla casa editrice romana66thand2nd. Scibona entra a pieno titolo nella lista del New Yorker– stilata l’ultima volta nel ’99 e che in quella occasioneaveva ospitato tra gli altri Franzen e Wallace – ci entracon il suo romanzo, che interroga la memoria degliitaliani emigrati verso il Nuovo Mondo, ma lo fa dal-l’interno, dal piccolo quartiere di Elephant Park, dovesi intrecciano tante storie diverse raccontate tra passato

Premessa

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«Ecco dunque la nostra meta finale, il sogno di un bambino che si compie.Una volta che cominciamo a cadere e a dimenarci in aria di paura, la nostra volontà ci appare chiara; voltiamo la faccia verso il basso; non diciamo “cadere”, ma “tuffarsi”; osserviamo la terra che corre verso di noi a incontrare i nostri occhi. Eccola. Non è uno schianto.Siamo una linea che interseca un piano.Ci passiamo attraverso come proiettili»

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Angela Manganaro, Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2010

sempre vitale della letteratura nordamericana. «Ero unragazzo quando la mia famiglia ha lasciato l’Unione So-vietica – racconta uno dei 20, lo scrittore e filmakerDavid Bezmozgis – Siamo arrivati in Canada con nullain mano e i miei genitori non avevano mai sentito par-lare del New Yorker o di qualsiasi altra cosa del genere.È strano e significativo per me ritrovarmi dopo 30 anniin questa lista».

La Top 20

Chimamanda Ngozi Adichie, 32Chris Adrian, 39Daniel Alarcón, 33 David Bezmozgis, 37Sarah Shun-lien Bynum, 38Joshua Ferris, 35Jonathan Safran Foer, 33 Nell Freudenberger, 35Rivka Galchen, 34Nicole Krauss, 35Dinaw Mengestu, 31Philipp Meyer, 36C.E Morgan, 33Téa Obreht, 24Yiyun Li, 37 ZZ Packer, 37Karen Russell, 28 Salvatore Scibona, 35Gary Shteyngart, 37Wells Tower, 37

Era dal 1999 che non lo faceva, adesso è sembrato il mo-mento di aggiornare l’elenco. Il New Yorker ha stilato lanuova classifica dei 20 scrittori sotto i 40 anni che«hanno guadagnato l’invidia di tutti gli altri», scrive ilNew York Times. Oltre l’invidia, di solito si guadagna unarisonanza enorme, l’ingresso in un club esclusivo che as-sicura protezione e promozione oltre i confini americani.Il direttore del New Yorker David Remnick assicura chela scelta non è estetica, non v’è omogeneità, insommanon c’è cricca. «Abbiamo scelto un gruppo di promesse,di enormi promesse. Alcuni hanno un approccio narra-tivo molto convenzionale, altri sono molto originali, altriancora ci dicono qualcosa di nuovo su altre culture».Questi scrittori sono uniti da tre cose: sono nati dopoil 1970, vivono in Nord America e nei prossimi anniverranno letti. Al di là del blasone della rivista, dei gustie della passione americana per le classifiche, la lista èda scorrere bene perché New Yorker ha avuto sempreun certo occhio. Quella di undici anni fa contenevanomi che si sono affermati, prima intercettati da pic-cole e medie case editrici europee, poi finiti sui como-dini dei giovani Erasmus: David Foster Wallace,Jhumpa Lahiri, Jeffrey Eugenides erano fra gli under40 del 1999. Andando indietro nel tempo, nel 1983New Yorker aveva fatto tre nomi di giovani scrittori bri-tannici: Martin Amis, Ian McEwan, Julian Barnes.I nuovi «20 sotto i 40» sono dieci donne e dieci uomini.I redattori del New Yorker hanno mischiato nomi giàconosciuti come Jonathan Safran Foer e la moglie Ni-cole Krauss con Téa Obreht, 24 anni, che pubblicheràil suo primo romanzo il prossimo anno. I nomi confer-mano la forza del melting pot: la migrazione come linfa

Il New Yorker ha stilato la nuova classifica dei 20 scrittorisotto i 40 anni

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Incontri: l’esordiente che il New Yorker mette tra i miglioriunder 40

«Racconto l’anima dei miserabili»Salvatore Scibona: «Cerco le radici, grazie a DeLillo»

Alessandra Farkas, Corriere della Sera, 12 giugno 2010

sussidio Fulbright. «Era la prima volta che mettevopiede fuori dall’America» precisa. «Per moltissimi ita-loamericani il Bel Paese è un luogo mitico che esistesolo nella fantasia». Dopo quattro mesi a Roma è an-dato in pellegrinaggio a Mirabella Imbaccari, il pae-sino in provincia di Catania dove nacquero i suoi bi-snonni. «La mia famiglia ha talmente rimosso laparabola migratoria che in casa storpiavamo persinoil cognome, che pronunciavamo Schibona, all’ameri-cana. Io sono il primo Scibona ad aver messo piedein Sicilia, da ben quattro generazioni». Eppure è stataproprio la Sicilia rurale dell’Ottocento a spingerloverso la scrittura. «Ogni settimana facevo un tuffo in-dietro nel tempo, visitando la mia bisnonna Dome-nica Spriglione con i miei fratelli e sorelle nella suamitica fattoria sperduta dell’Ohio». «Era lei la ma-triarca del clan e la mia grande musa» incalza,«un’analfabeta intelligentissima e spirituale, che in-dossò il lutto dalla morte del marito nel 1952 fino allapropria nel 1994». Anche la maggior parte dei perso-naggi di The End sono analfabeti o con scarsa istru-zione alle spalle. «La sfida maggiore del mio libro èstata articolare tensioni metafisiche dal punto di vistadi persone che non possiedono il vocabolario adattoper esprimerle». Anche se parla un inglese sganghe-rato, Rocco, il panettiere del romanzo, ha una vita in-teriore profonda. «Volevo ribaltare il pregiudizio dif-fuso tra le élite culturali Usa, secondo cui per porsiquesiti metafisici devi avere un master». A dire il verolui il master ce l’ha. Dal prestigioso Iowa Writers’Workshop dove ha studiato con la grande MarilynneRobinson. «Come scrittore, sei sempre ciò che mangi»

NEW YORK – Dopo essere stato nel 2008 tra i fina-listi del National Book Award, il più importante pre-mio letterario Usa, Salvatore Scibona è l’unico italoa-mericano incluso nella seconda edizione dellaprestigiosa «top 20 sotto i 40» appena pubblicata dalNew Yorker, la stessa che 11 anni fa lanciò future star,allora poco note, quali Jonathan Franzen, Jhumpa La-hiri e Nathan Englander. Quasi un miracolo per ilgiovane scrittore nato 35 anni fa a Cleveland, in Ohio,reso possibile dalla straordinaria accoglienza riservataal suo romanzo d’esordio, The End, che dopo il de-butto in Francia e Germania sarà pubblicato in Italiail prossimo maggio dalle edizioni 66thand2nd con latraduzione di Beniamino Ambrosi. Attraverso glieventi di un singolo giorno – la sagra organizzata aFerragosto del 1953 nella Little Italy di Cleveland Ele-phant Park, quaranta righe di incipit che gli sono co-state cinque anni di lavoro – Scibona racconta mezzosecolo d’immigrazione italiana in America. Sacrifici,dolori, pregiudizi razziali (un odio contro i neri chenel 1966 portò ai famigerati tumulti di Cleveland) etensioni morali di un gruppo di espatriati tra cui unfornaio che rifiuta di accettare la morte del figlio nellaguerra di Corea, una vedova che procura aborti incantina, un gioielliere appassionato di storia, simpa-tizzanti del KKK che durante le processioni religiosereggono la Madonna. «Mio nonno era muratore, miopadre metalmeccanico: entrambi marine, veterani delSud Pacifico e del Vietnam», racconta lo scrittore, sor-seggiando un cappuccino al Fairway Café sulla Bro-adway. Parla un ottimo italiano, imparato durante unsoggiorno di nove mesi in Italia, nel 1999, grazie al

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Scibona | La fine

America continuano a essere rari? «La nostra è unacultura più visiva e musicale» ribatte Scibona. «Hol-lywood e i teatri d’opera sono strapieni di italiani». Ilfatto che lo stereotipo «italiani-mafia» continui a im-perversare nello showbiz non lo disturba affatto. «Ilgenere ha una sua dignità artistica come fiction pura.I Sopranos sono una serie geniale, ma di pura fantasia.Io non ho mai incontrato un mafioso in vita mia e,infatti, nel mio libro non ce n’è neppure uno perchépreferisco parlare di gente vera». Anticipiamo l’incipit di The End, in uscita a maggio2011 nella collana Bazar di 66thand2nd, casa editricenata a novembre da un’idea di Tomaso Cenci e Isa-bella Ferretti (il nome indica l’indirizzo newyorchesedove la casa editrice prese corpo). Due le collane:Bazar sull’incrocio di culture e Attese, che ospita ro-manzi sullo sport. In catalogo, tra gli altri: W.P. Kin-sella, il Pulitzer M. Shaara, il ghanese Nasseehu Ali,definito da David Remnick «uno degli autori più im-portanti della prossima generazione», e, tra poco in li-breria, J.S. Hirsch con Hurricane.

scherza. «Oltre alla Robinson io ho divorato Faulkner,Toni Morrison, Virginia Woolf, Freud, George Eliote Saul Bellow, che nel 1998 pubblicò il mio primoracconto nella sua rivista News from the Republic ofLetters». Tra le sue passioni c’è anche il Nobel HalldórLaxness. «L’estate scorsa ho visitato la sua casa natalein Islanda e ho annusato le sue cravatte». Ma il suogrande idolo resta Don DeLillo. «Fu lui a salvarmi lavita quando, a Roma, mi sentivo solo e depresso per-ché non parlavo una parola d’italiano e riuscii a trovareuna copia di Libra in lingua originale». Più tardi gliscrisse per ringraziarlo e DeLillo gli ha persino risposto:«Ho incorniciato la sua lettera», confessa arrossendo.Ma il suo debito di riconoscenza con l’autore di Un-derworld va oltre: «Sono stati scrittori come DeLillo eRichard Russo a spianarci la strada» dice, «la loro operatesa all’assimilazione e alla cancellazione delle radici hapermesso alla mia generazione di tornare indietro neltempo, senza timori e vergogna». Come si spiega, al-lora, che, mentre la letteratura ebraica americana containnumerevoli voci, gli scrittori di origine italiana in

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«Il panificatore di Elephant Park; un imprenditore senza ambizioni;

un’anima che la fortuna e un’autodisciplina conquistata

nel tempo avevano liberato dalle preoccupazioni

materiali»

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dalle sigarette, tra le otto e le due; possessore di un so-pracciglio spesso e senza interruzioni e di una testa dilucidi capelli neri e ondulati, gli occhi stolidi, di unpallido blu innaturale, incassati nel cranio tra sacchegonfie, grigie come nubi, gli occhi di un avvelenatoda piombo, uno che in tutta la sua vita non ha mairivolto uno straccio di discorso a più di due personealla volta; un osservatore che ti guarda dritto dentro,se gli prende lo sfizio, come un vecchio gatto, abituatoa soffrire la compagnia altrui eppure sempre in cercadi un momento privato; il panificatore di ElephantPark; un imprenditore senza ambizioni; un’anima chela fortuna e un’autodisciplina conquistata nel tempoavevano liberato dalle preoccupazioni materiali; ungenitore dal cuore tenero che risparmiava la cinghiaai suoi ragazzi; un bevitore misurato di liquori cheogni giorno pregava per la salvezza dei suoi figli e disua moglie; un fumatore, eppure immune da raffred-dori e influenze; indifferente alla pioggia e al sereno;un lavoratore che amava le strisce senza soste, soddi-sfatto e compassionevole; un cristiano come tanti.(Traduzione di Beniamino Ambrosi)

L’INCIPITIl panificatore senza pretese. Arrivava a stento a un metro e sessanta con le scarpeda passeggio, aveva la faccia rotonda e le ganasce diun orso, petto e spalle nerborute e la vita quasi altret-tanto tarchiata, ma era vuoto sulle anche, e privo diun posteriore degno di questo nome su cui sedersi(non che fosse noto come uno che passava moltotempo seduto), ed era debole di caviglia, con minu-scoli piedini da ragazza, un uomo a forma di lampa-dina. Di carnagione pallida e verdognola, i gomiti e ilcavo dietro alle ginocchia segnati dalla psoriasi, leguance rasate senza cicatrici di alcun tipo, fedele finoallo stremo alle fatiche quotidiane, senza astio verso ilmondo maledetto, e grato, perfino; un panificatore dipani con e senza semi, torte senza pretese, e dolcettiglassati di stagione; fornitore di tutto il quartiere e diavventori occasionali; un lettore del giornale nell’edi-zione del pomeriggio, il momento di tutte le sue atti-vità d’elezione, nato il giorno della festa di Santa Luciadel 1895; un orgoglioso cittadino dell’Ohio; un suc-chiatore di stecche di caramello quando si asteneva

Oblique Studio | ottobre 2011

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«The End è una riflessionesul sogno di ricchezza che spinse milioni di persone a emigrare»

Lara Crinò, il venerdì di Repubblica, 18 giugno 2010

Il suo nome italianissimo è finito nella lista dei «20scrittori sotto i 40 anni» migliori d’America del NewYorker. Così ora Salvatore Scibona, classe 1975, siedenell’Olimpo dei giovani talenti Usa accanto a starcome Jonathan Safran Foer o Nicole Krauss.Il suo romanzo d’esordio, The End (sarà in Italia nel2011, pubblicato dalla nuova casa editrice romana66thand2nd) rievoca il mondo degli immigrati ita-liani nella fredda Cleveland tra gli anni Venti e Cin-quanta, ed è ispirato alla storia dei suoi bisnonni, ca-tapultati in Ohio dalla Sicilia. L’italiano con cuicondisce le sue risposte l’ha imparato invece dainonni, a Cleveland, e a Mirabella Imbaccari, vicinoCaltagirone, quando è tornato a cercare le sue origini.

The End è davvero la storia degli Scibona?La mia bisnonna arrivò in Ohio ai primi del Nove-cento. Ci restò per tutta la vita senza mai impararel’inglese, isolata dalla società. E così il mio bisnonno.The End è una riflessione sul sogno di ricchezza chespinse milioni di persone a emigrare.

Storia di fallimenti?Volevo restituire agli analfabeti e a chi è arrivato dalontano la possibilità di esprimersi, di rado si cerca unlinguaggio per raccontare il mondo.

Perché i romanzi italoamericani hanno poca eco in Italia?Le prime generazioni di italiani in Usa non andavanoal college, e non scrivevano. Le cose sono cambiate,ma in Italia gli editori non se ne sono ancora accorti.

Nella classifica del New Yorker. Racconta i bisnonni siciliani, in Usasenza parlare inglese

Scibona, l’«italiano» nella Top 20 dei giovani scrittori americani

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Gian Paolo Serino, D della Repubblica, 30 ottobre 2010

poteva anche parlare in lettone. Ma quando si era ma-terializzato al C3, l’aereo da Riga aveva già fatto ma-novra allontanandosi dal terminal e non erano rimastiimpiegati al banco dell’Air Baltic né in altra partedell’area di transito. Lui guardava in su verso gli assi-stenti di volo dietro il banco, mentre esponeva il suocaso in maniera incomprensibile, e duecento passeg-geri osservavano, incantati, in attesa del Lufthansa531 per Amsterdam. Poteva essere lituano. Di lì apoco il bambino fu appena in grado di balbettarequalche parola; si limitava a indicare nella direzionedei gate C1 e C2. Ma l’accompagnatore che unamezza dozzina di impiegati della Lufthansa e i passeg-geri avevano cominciato a cercare nelle salette per fu-matori e nei bagni, e che l’altoparlante dell’aeroportoaveva chiamato in tedesco, non si trovava da nessunaparte in quel capo dell’area di transito. Nessuno riu-sciva a fargli svelare qualcosa che somigliasse a unnome, e qualcuno tra gli adulti che lo circondavanocominciò a pensare che la loro sollecitudine stesse soloaccrescendo la sua angoscia. A ogni nuova domandacorrispondeva una reazione più debole. Un’infermieradel Kazakistan si inginocchiò vicino al bambino, ac-carezzandogli i capelli, ma lui insisteva nel suo pianto.Il cappotto del bambino calzava male: i polsini rag-giungevano a stento i polsi. Brandelli di imbottiturafacevano capolino dai buchi della fodera esterna, chequalcuno aveva cercato di rammendare con del nastroisolante. Un’impiegata della Lufthansa ‒ a cui l’età(all’incirca sessant’anni) e l’ampia acconciatura me-chata parevano conferire un ruolo di responsabilità ‒

Un racconto che ha incantato i lettori americani: TheKid, che qui presentiamo in una edizione curata di-rettamente dal suo autore. Salvatore Scibona, 35enneitaloamericano, è il caso letterario dell’anno: dopo lapubblicazione del suo romanzo d’esordio The End, inuscita in questi giorni in Inghilterra e a dicembre inItalia (per la casa editrice 66thand2nd), è diventatouno scrittore di culto: scoperto da Saul Bellow, è statoincluso dal New Yorker tra i venti migliori talenti nar-rativi under 40 degli ultimi anni. Nel romanzo rac-conta l’alienazione dell’essere emigranti italiani nel-l’America del Midwest: ai tempi della GrandeDepressione quando il pericolo maggiore non era eco-nomico, ma quello di estraniarsi da sé stessi e dalleproprie radici.

Il bambino portava un parka nero, un berretto damontagna dello stesso colore, jeans e scarpe da ginna-stica; pareva avere cinque anni; e piangeva. Stava inpiedi di fronte al gate C3 dell’aeroporto di Amburgo-Fuhlsbüttel, le braccia nel giubbino imbottito mollilungo i fianchi. Parlava tra i singulti ‒ non gridava nésupplicava, si limitava a parlare con un assistente dopol’altro ‒ ma nessuno riusciva a capire che lingua par-lasse. Sembrava, a occhio e croce, polacco. Il dialettospurio di un villaggio che dieci imperi diversi avevanoassoggettato nella loro marcia verso qualche altroposto. Meno di un’ora prima, un volo della Air Balticaveva espulso dalle sue fauci i passeggeri al gate lì ac-canto. Poiché il volo proveniva da Riga, il bambino

Un racconto inedito di Salvatore Scibona, l’italoamericano che col suo ro-manzo d’esordio (The End, in Italia a dicembre) è «quasi impazzito», e poiha conquistato l’America

The Kid il bambino venuto da dove?

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«Quel suo tenere per sé il nome

era l’unica cosa che lo teneva

ancorato al ciglio dell’abisso

in cui era scivolato»

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Scibona | La fine

scatto quando cercavano di prenderla, e indicava inuna direzione, poi nell’altra, fino a che cominciaronoa rendersi conto che dopotutto non stava tornandosui suoi passi. Stava andando a tentoni in un labirinto.Alla ricerca di un genitore. Non voleva che nessunadi queste strane donne lo aiutasse. Ma sperava che ri-manessero lì vicino a lui.Subito dopo che Elroy Heflin si arruolò nell’esercito,fu assegnato a un comando militare che dipendevadall’ambasciata americana di Riga, in Lettonia, nel mo-mento in cui il paese si preparava a unirsi alla Nato.Erano giorni memorabili. Tutti i ragazzi acquartieratiin un hotel a tre stelle ‒ un palazzo del diciottesimo se-colo, da poco restaurato con capitali svedesi ‒ che l’Ar-mata Rossa aveva usato come caserma per cinquan-t’anni. Il suo superiore disse: «Lascia che ti faccia ilquadro generale. Da dove vieni, Heflin?». «Da ognidove», disse Elroy. «Las Cruces, Albuquerque, RadiumSprings, Vado». «Pensa a una base russa nel centro diAlbuquerque. Ragazzi di campagna in uniformi sovie-tiche che pranzano da Lot-a-burger. Tu sei uno di loro.I tuoi hanno vinto la Guerra Fredda senza sparare uncolpo. Come ti senti?». «Il gallo nel pollaio, signore». «Ene hai tutto il diritto». Le ragazze del posto si sarebbero

provò a usare inglese, russo e olandese per strappargliun nome. Eppure all’infermiera kazaka pareva che ilbambino sapesse che stavano chiedendo il suo nome;e nell’incubo del momento presente, quel suo tenereper sé il nome era l’unica cosa che lo teneva ancoratoal ciglio dell’abisso in cui era scivolato. Puntava un di-tino curvo verso il labirinto del resto dell’aeroporto,come in cerca del punto in cui aveva sbagliato strada.Permise all’infermiera di tenergli la manina coperta dimoccio. Condusse lei e l’impiegata per il corridoiobrulicante. Un giovane americano che diceva di essereun paramedico gli chiese: «Ma non è che per caso ilbambino vuole respirare in questa busta? Quieres ha-blar conmigo, hermano?» L’impiegata disse con enfasi:«No, è un Estländer». Ma era solo una supposizione.L’altoparlante ripeteva in inglese: «Terminal 1, bam-bino smarrito», mentre il piccolo continuava ad affret-tarsi, senza motivo: un corpo automatizzato con unobiettivo, come se avvicinandosi quanto basta si po-tessero sentire gli ingranaggi in moto. Eppure, sottoil berretto messo di traverso, la sua faccia era una ba-bele di battiti spasmodici di ciglia e un continuo tiraresu col naso. Il petto si sollevava e si abbassava sotto ilcappottino. L’infermiera cercò di slacciarglielo. Pen-sava che il bambino dovesse avere un caldo terribile.Ma lui si divincolò quando lo toccò. Si stentava a cre-dere che quella testa potesse contenere tanto liquido;era ormai da un po’ che piangeva senza aver bevutonulla. L’infermiera e l’impiegata lo portarono nelbagno delle signore per dargli qualche fazzolettino dicarta. Quando uscirono lui non volle che nessunadelle due donne gli tenesse la mano. La ritirava di

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«Se i suoi sentimenti dovevano uscire proprio ora allo scoperto, benissimo.

Ma non era necessario che accadesse su un palcoscenico»

mandato qui a stuprarti e a bruciarti la casa». «Scemo»,fece lei, sfogliando una rivista di viaggi. «Non ce l’ave-vamo una casa». Si svegliava nel monolocale di lei e latrovava a pulirgli le scarpe con lo sputo e un vecchiocalzino. Lei si era offerta diverse volte di lavargli i ve-stiti, ma lui non avrebbe mai potuto prenderla in pa-rola. Faceva il bucato e si faceva da mangiare da solofin da quando aveva undici anni, fatta eccezione perquando era in servizio. Vento fradicio di umidità, poinevischio. Comprò due ombrelli. Camminavano peril quartiere Art Nouveau e lei gli indicava le tormentatefacce di pietra sul cornicione della facoltà di Giurispru-denza. Era domenica. Erano capitati in una chiesa cat-tolica durante la messa, e per fare uno scherzo di cattivogusto avevano preso entrambi la comunione, malgradol’attività fisica della notte precedente. Lui non sapevaquello che diceva il prete, salvo che per lo più lo sapeva

crociera. Chiese consiglio al suo superiore. Era unabuona idea, perché cosa poteva succedere se poi qual-cuno intercettava il messaggio e si procurava il numerodella sua carta di credito? Il suo superiore disse: «Sol-dato Heflin, una crociera del cazzo?». Le scrisse chenon avrebbe pagato la crociera, e non ebbe sue notizieper qualche mese, allora per forzarle la mano smise dimandarle soldi. Poi, mentre si trovava a casa in licenza,ricevette una mail che spiegava come a causa di recentiavvenimenti nella sua vita privata, Evija si stava pertrasferire in Spagna; non avrebbe portato il bambinocon sé; né la sua famiglia se ne sarebbe occupata; e lolasciava a Elroy; allora quando veniva a prendere ilbambino, Janis; e tante scuse per tutta questa fretta,ma entro la fine del mese? L’esercito aveva promossoElroy caporale. Era diventato più robusto, più selva-tico. Il suo scheletro era cresciuto dell’ultimo paio di

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bene. La messa era comune in ogni posto. Alzò losguardo verso i pipistrelli appesi alle alte travi di legnoe parlò con il Dio del luogo. Chiese di conoscere i suoigenitori, ma erano morti. Evija era il nome di lei. Vo-leva suggerirle di andarci più piano col trucco; a ognimodo, lui rispettava le altre culture. Prima della finedella missione, la mise incinta. Lui voleva sposarsi. Malei no, non ancora. E in qualche modo, passando peruna catena di decisioni ‒ nessuna delle quali sembrò talesul momento, ma pareva solo di fare quello che glieventi dettavano ‒ si ritrovò, mentre era accampato nelnord dell’Afghanistan, a mandare un terzo della sua pagaa una banca nell’ex Unione Sovietica per il manteni-mento di un bambino che gli era dato vedere soltantouna volta l’anno. Nel frattempo, Evija usciva con un tea-trante russo, un finocchio, e scriveva a Elroy mail deltipo, «posso avere il numero della tua carta di credito?»,voleva portare il ragazzo a fare il giro della Norvegia in

vestite da sgualdrine. La truppa non doveva farsi ideesbagliate. Per la truppa quella tenuta significava «an-diamo a farci un giro». Per le ragazze significava «è cosìche si vestono le vere europee, no?». Quindi mani aposto. Sei qui solo per otto mesi. Le ragazze lettoni vo-gliono sposarsi, come tutte. Questa a Elroy non eraparsa una cattiva idea. Immaginava di essere un tipoda matrimonio. E nel giro di un paio di mesi aveva unaragazza fissa. Era così facile. Non come a casa. Era abere con altri ragazzi nella Città Vecchia, dentro uncaffè in una stradina di ciottoli larga appena da lasciarpassare un grosso cavallo. E la cameriera era stata gen-tile con lui. Voleva fare pratica d’inglese. A letto gliaveva chiesto: «Com’è che ti piace tanto il mio orec-chio?». Aveva un sapore strano. Non si era sforzata poitanto nel lavarlo. Aveva un pezzetto di Unione Sovie-tica in bocca. Sapeva di sudore, sebo, e profumo di fioridi limone. «Vent’anni fa», disse lui, «mi avrebbero

Oblique Studio | ottobre 2011

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«Il cane dietro di lei era Janis, che faticava a trascinare oltre la soglia una sacca con le rotelle

adatta a un bambino molto più grande di lui»

tavolo e gli scaricò addosso un fiume di lettone. Lui re-plicò con una frase che Evija gli aveva insegnato ad ar-ticolare senza mangiarsi le parole: «Mi occorre un mo-mento per riflettere, per cortesia». Evija sarebbe entratacon il bambino. E poi? Elroy non lo sapeva. La sua po-stazione in un angolo del caffè gli permetteva sia di te-nere sott’occhio il vestibolo a vetri da cui entravano iclienti, sia di ripararsi dagli sguardi indiscreti della salaprincipale del ristorante. Se i suoi sentimenti dovevanouscire proprio ora allo scoperto, benissimo. Ma nonera necessario che accadesse su un palcoscenico. Ri-mase seduto immobile, le mani giunte sotto il tavolo,in attesa. Non aveva dormito su nessuno degli aerei néin nessuno degli aeroporti, nel viaggio dal New Me-xico verso est, e il suo incarnato era punteggiato di pic-coli sfoghi cutanei. Gli occhi erano secchi per l’ariadegli aerei. Non era necessario che i suoi sentimentiuscissero allo scoperto su un palcoscenico. Ma se fos-sero venuti fuori come razzi dal suo tronco encefalicoe avessero cominciato a rimbalzare come proiettili im-

punto Elroy finì faccia a terra. Il sedere era ancora sullasedia ma le mani toccavano il pavimento, la testa erapiegata sotto il tavolo. Il pavimento di legno luccicavadi cera. Non riusciva a respirare bene. Gli pareva diaver visto qualcosa senza esserne ancora reso conto.Allo stesso modo in cui ritrai la mano da una padellabollente prima di avvertire il bruciore. Aveva colpitodai quattro ai sette nemici insorti senza mai imbattersinel terrore privo di pensieri del momento presente. In-fine, si obbligò a sollevarsi. La donna si aggiustò loscialle liso, guardandosi intorno. Il cane dietro di leiera Janis, che faticava a trascinare oltre la soglia unasacca con le rotelle adatta a un bambino molto piùgrande di lui. Elroy disse in lettone, «Madame?», e lefece segno di avvicinarsi. Evija non era venuta. Avevamandato un emissario, questa befana. Se fosse dipesodalla donna e da Janis, l’operazione avrebbe richiestoquindici secondi. Guardò la fotografia ‒ di Janis edElroy quasi nudi in spiaggia a Jurmala l’anno prece-dente ‒ e disse al bambino di andarsi a sedere al tavolo.

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Scibona | La fine

pazziti contro la sua calotta cranica, sarebbe stato cosìinfantile desiderare una donna accanto a sé, che lo aiu-tasse a non distogliere lo sguardo? Controllò l’orologio.Aveva pensato di corrompere Evija con dei fiori, maquello che voleva da lei non poteva comprarlo. A menoche lei non lo offrisse liberamente, sarebbe stato piùche inutile. Indicando il menu ordinò un bicchiere diseltz, e quando glielo portarono si accovacciò dietro unvaso di ficus, si versò un po’ d’acqua sulla mano e poise la gettò sugli occhi e dietro le orecchie. Si rimise asedere, composto, speranzoso. Elroy stava ordinandoun piatto di fegatini di pollo quando una megera entròdal vestibolo dell’ingresso, parlando con tono severo aquello che si sarebbe detto un cane al suo seguito, seb-bene fosse nascosto da un gruppo di tavolinetti. La ca-meriera si allontanò. La megera abbassò lo sguardo perguardare una fotografia ed esaminò la sala. A quel

centimetri. Era seduto al computer nel complesso re-sidenziale per pensionati dove il padre si era trasferitoa Los Alamos, e mangiava una prugna. La prugna eraesplosa tra i denti di Elroy e aveva schizzato tutta la ca-micia di succo. Non ci aveva fatto caso. Perdeva lacrime‒ di cosa? di gratitudine? Voleva che fossero lacrime digratitudine, sì. E rise, liberamente e a voce alta. Alloschermo che riluceva di fronte disse: «Che io sia dan-nato». Due giorni dopo ‒ senza un chiaro piano su chisi sarebbe occupato di Janis una volta che Elroy fossedi nuovo partito in missione, e senza aver preso inesame il problema dello stato di immigrato del ragazzo,e senza nemmeno possedere un materasso gonfiabilesu cui farlo dormire ‒ Elroy si trovava seduto nel vec-chio posticino suo e di Evija, un caffè sulla Stabu iela,in attesa. Aveva le fattezze bionde e gli occhi piccolidella gente del posto, e la cameriera gettò i menu sul

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«Io volevo scrivere, ma non ho mai desiderato essere uno scrittore. Per qualche ragione, era una distinzione importante per me»

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NONNI, VALORI, ORTI E CLICHÉ (ITALIANI)

Scibona, quando ha capito che voleva essere uno scrittore?Io volevo scrivere, ma non ho mai desiderato essereuno scrittore. Per qualche ragione, era una distin-zione importante per me. Non volevo indossare ladivisa dello scrittore o adottare un’identità, o fareil mio ingresso in una categoria professionale. Vo-levo scrivere e basta. Ho capito presto che il desi-derio di diventare scrittori è un ostacolo alla scrit-tura stessa.

Quindi la sua è stata una sfida?Sin da ragazzo, l’obiettivo di «essere qualcosa» piut-tosto che «fare» un qualche tipo di lavoro mi sem-brava una frode. Mio padre lavorava in uno stabili-mento di produzione di parti di ricambio per auto;mio nonno lavorava nel settore delle costruzioni.Una persona era il proprio lavoro. E credo che unadelle cose che continuo ad ammirare di più dellacultura nella quale sono cresciuto è che nessuno ve-niva amato o rispettato più di qualcun altro a se-conda di quale fosse il suo lavoro. Contava soloquanto lo facesse bene.

Ma lui si era già avvicinato al padre e si stava arrampi-cando sul posto accanto al suo. Il bambino disse in let-tone alla donna che se ne poteva andare ora. Ma Elroyvoleva che gli dicesse cosa fare. «Non ha niente dadarmi?», chiese. La donna ammonì il bambino, e ilbambino disse: «Ok, lo so». E quando Elroy glielochiese, il bambino tradusse con un sussurro che ladonna stava dicendo che non doveva dimenticarsi dellecarte conservate nella sua sacca. Elroy guardò la donnaandarsene, e sentì una cosa calda sulla gamba. Era lamano sinistra del bambino. Con l’altra mano, il bam-bino sfogliava il menu mentre guardava le foto del cibo.Elroy annullò i fegatini e se ne andarono senza man-giare. Presero l’autobus fino all’aeroporto. Allacciò lacintura di Janis nel suo sedile sul volo per Amburgo.Dal New Mexico Elroy aveva portato un libro da co-lorare e un pastello. Il bambino chiuse subito le ditaintorno al pastello, mentre Elroy gli insegnava a pre-mere con delicatezza per risparmiare la cera. Eppure,in pochi istanti, il pastello si spezzò nel pugno del bam-bino. E il bambino alzò lo sguardo con la paura sullabocca tremante, come se stesse per essere colpito.(Estratto da The Kid di Salvatore Scibona, pubblicatoper la prima volta dal New Yorker, 14 luglio 2010).

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«The End era diventato la mia vita stessa.Quando l’ho terminato ero esausto. E solo.

Avevo bisogno di lavorare a qualcos’altro per sgombrare la testa, ma doveva essere

qualcosa che non fosse la scrittura»16

Scibona | La fine

tutta la mia attenzione all’orto. Strano, e difficile, chéla cittadina in cui vivo è una specie di cava di sabbia.Niente verde, niente terra. Ho acquistato la terra el’ho fatta scaricare, poi l’ho concimata e ho seminato.Ho creato dal nulla un giardino, il mio giardino.

Un giardino di «famiglia»?Senza dubbio, perché nel giardino – in qualche modo– ci sono la mia bisnonna, mio nonno e anche miopadre: tutti loro mi hanno infatti tramandato qual-cosa. E credo che il cliché sugli italiani corrisponda alvero: dovunque vanno, coltivano il proprio cibo. Eroossessionato: accarezzavo le piante, parlavo con lorocome se fossero bimbi bisognosi di incoraggiamento.Ora mi è chiaro che avevo trascorso tutta la mia vitaadulta dentro la testa dei personaggi di The End e inquel momento, in quel giardino, potevo finalmentedistaccarmene. O forse sono impazzito…

Ma The End è anche un romanzo sui valori italiani.I miei nonni erano tutti vivi quando iniziai a scrivere,ma al termine erano tutti morti. Il giardino è stato perme un modo di mettere in pratica quello che loro miavevano insegnato. Non mi rendevo conto di quantopotessi ricordare del lavoro fatto con loro alla fattoria,quando ero piccolo. Qui in America i miei nonnihanno lavorato 25 anni per mettere da parte i soldiper comprarsi un pezzo di terra. E, a dispetto di tuttii miei sforzi di fare qualcosa di nuovo, mi sono ritro-vato a volere le stesse cose che avevano voluto loro.

Un universo che lei racconta in The End.Sì, ma la sfida è stata ritrovarmi a scrivere dal puntodi vista di persone prive di un’istruzione formale:molte di loro non sapevano nemmeno leggere. E ionon volevo soffocare del tutto le mie questioni esi-stenziali, nonostante i personaggi non possedessero ilvocabolario di chi ha fatto l’università.

L’ha influenzata qualche scrittore italiano?Senza dubbio Giovanni Verga: i personaggi de I Ma-lavoglia sono così profondi, umani e letterari, ma nonc’è bisogno di essere degli accademici per capirne, in-terpretarne la complessità. Io credo che la letteraturapossa occuparsi di tutto e di tutti, senza essere inu-tilmente elitaria. La mia bisnonna è nata in Sicilia nel1899: emigrata in America a 19 anni, morì nella fat-toria di famiglia, in Ohio, a 94; non ha mai imparatoa leggere, né l’italiano, né l’inglese. Ma non ho co-nosciuto nessuno che abbia stimolato di più la miaimmaginazione letteraria. Lei possedeva una saggezzaantica. E aveva in sé la scintilla della vita.

Durante questi anni ha lavorato soltanto a questo ro-manzo? Mi sono sforzato di non impegnarmi seriamente innessun’altra attività. Perché The End era diventato lamia vita stessa. Quando l’ho terminato ero esausto. Esolo. Avevo bisogno di lavorare a qualcos’altro persgombrare la testa, ma doveva essere qualcosa che nonfosse la scrittura. Mi sono ritrovato così a dedicare

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Lara Ricci, Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2010

miei nonni sono cresciuti parlando in casa italiano, si-ciliano o polacco (mia madre è di origine polacca). Miononno, morto un paio di anni fa, non andò mai in Eu-ropa. Ma la sua lingua madre era il dialetto siciliano».«Sono cresciuti con il momento presente, gli impor-tava vivere la vita per quello che era, non gli interes-sava il contesto storico in cui si muovevano. Così,quando ho deciso di scrivere un romanzo, ho cercatodi assumere il loro punto di vista». Il migrante abita,più di altri, l’immediato. «È povero e la sua prima pre-occupazione è come trovare lavoro o più denaro. Solole generazioni successive si possono permettere il lussodi cercare il loro posto nella storia. Ciò che ho volutoche fosse chiaro nel libro è che l’autore fosse consape-vole del contesto storico in cui si muoveva la vicendanarrata, ma i personaggi no. E sono stato felicequando il mio editor ha osservato che i personaggierano tutti all’interno di un grande romanzo, ma nonlo sapevano».Scibona arrivò a Roma dieci anni fa con una borsaFulbright. Voleva imparare l’italiano per usarlo nelromanzo (ma ha cambiato idea). «Sapevo solo unpo’ di dialetto». Poi scese più a Sud. «Quando hoincontrato i miei parenti, non posso descriverlequanto è stato commovente. I miei cugini sono per-sone moderne, vivono in un piccolo paese della Si-cilia, ma con uno stile di vita comune a tutti i paesioccidentali. Però abitano nella stessa casa dove ilpadre del mio trisnonno era nato. Loro davvero ap-partengono a quel posto. Sanno dove sono e da dovevengono. Questo è davvero raro per un americano.

Si può scrivere un’epica della gente comune? Narrarel’epopea di un popolo di emigranti senza eroi, né gestagloriose? Nella penna di Salvatore Scibona le vicendeordinarie di tre generazioni di ex-italiani di Cleveland,Ohio, intrecciate nello spazio e nel tempo, assumonouna portata grandiosa e raggiungono vertici di purapoesia. È la metamorfosi dell’Italia contadina dei no-stri bisnonni, rimasta isolata e inalterata nel tempo,che entra in contatto con un contesto più grande: ilNuovo Mondo. Uno stato di transizione perenne traterra d’origine e d’approdo, tra il vincolo delle radiciche si sfaldano e la formazione di una nuova identità,che assurge a metafora della vita stessa. I personaggisi muovono attorno a un baratro esistenziale che se-para ciò che è ideale da ciò che è reale, ciò che è, inpotenza, e ciò che non è più. Soffrono una culturafondata sul desiderio e solo in attimi di epifania rie-scono a fermare l’esistenza che gli passa accanto.Salvatore Scibona ha solo 35 anni e il suo cognome lopronuncia Skibona. Col suo primo romanzo, The End(La fine, in Italia arriverà la prossima primavera, con66thand2nd) è stato selezionato tra i 20 più grandiautori di lingua inglese sotto i 40 anni d’età dal NewYorker. Il celebre settimanale letterario non stila spessoclassifiche: l’ultima fu nel ’99 e lanciò talenti scono-sciuti come Jhumpa Lahiri e Jonathan Franzen, o ap-pena più noti come David Foster Wallace.Trovatosi un lavoro part time, Scibona ha speso la gio-vinezza nella stesura del libro, ambientato nella cittàdove è nato e da quattro generazioni si è stabilita la suafamiglia. «I miei bisnonni erano tutti immigrati, e i

Epopea italiana: nel romanzo The End generazioni di migranti

Under 40 d’America: Salvatore Scibona

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«I miei cugini sono persone moderne, vivono in un piccolo paese della Sicilia,

ma con uno stile di vita comune a tutti i paesi occidentali.

Però abitano nella stessa casa dove il padre del mio trisnonno era nato.

Loro davvero appartengono a quel posto.Sanno dove sono e da dove vengono»

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Scibona | La fine

l’angolo e vollero vedermi. Entusiasta, incontrai unadonna che viveva nella casa in cui nacque la mia bi-snonna. Era sua nipote. Aveva circa 85 anni. Suo figliotraduceva in italiano, perché lei parlava dialetto. Mimostrò vecchie foto della mia bisnonna in Ohio. Leinon l’aveva mai incontrata, nacque dopo la sua par-tenza. Presto sua madre, sorella della mia bisnonna,morì. Così la mia bisnonna, anche se era poverissima,mandò soldi e cibo a questa bambina, durante lagrande depressione. Loro pensavano a lei come a unadonna meravigliosa, perché li aveva aiutati in un pe-riodo tanto difficile. Allora volli descriverle com’era,ma mi resi conto che non ci capivamo più, come senella traduzione si fosse perso qualcosa. Poi esclamò:“Ma è impossibile, tu non puoi averla conosciuta!”.“Certo che l’ho conosciuta” risposi allibito “è mortaquando avevo 12 anni”. Quando negli anni 50 suomarito morì, si trovò in miseria e smise di inviare soldi:loro credettero che fosse morta. Lo credettero per 50anni. La mia prozia era distrutta: sua zia era stata vivatutto quel tempo, in condizioni tanto difficili, e lei nonaveva più tenuto i contatti pensandola morta».

Noi ci spostiamo moltissimo, ci sentiamo dislocati.Questo ci toglie qualcosa».«Una delle fonti di ispirazione per La fine è stata lamia bisnonna, che conoscevo molto bene. Venne inAmerica quando aveva 18 anni e vi morì a 94 anni.Quando avevo 6-7 anni, aveva vissuto qui 70 anni enon sapeva quasi l’inglese». Allora Scibona pensavache mai avrebbe potuto fare come lei, «prendere unabarca, abbandonare il luogo di cui conosceva la lin-gua, lasciare la madre, il padre, i fratelli e le sorelle pernon vederli mai più. Trovavo sbalorditivo fare tuttoquesto e farlo di proposito! Così mi interessai alle per-sone che intrapresero quest’esperienza così radicale:recidere tutta la propria vita passata, tutto ciò che siconosceva, era per me una specie di suicidio».Molti italiani seppero da un telegramma la morte diun parente partito mezzo secolo prima senza più fareritorno, osservo. La voce di Scibona si carica di emo-zione: «Devo raccontare una storia molto triste.Quando andai a Mirabella Imbaccari, paese d’originedella mia famiglia paterna, visitai i parenti del bi-snonno. I discendenti della bisnonna abitavano dietro

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Antonio Carlucci, l’Espresso, 14 dicembre 2010

ricevuto solo gli elogi del New Yorker. Nel 2009 ha ri-cevuto il Whiting Writers’ Award per la fiction con unaserata di gala nel grande salone di New York. E l’annoprima era uno dei finalisti del National Book Award. Afargli vincere entrambi i premi è stato The End (saràpubblicato in primavera in Italia dall’editore66thand2nd), romanzo che naviga attraverso varie ge-nerazioni e che prende avvio il 15 agosto del 1953 dallascelta di Rocco LaGrassa di chiudere per la prima voltain 29 anni il suo negozio di panettiere alla notizia che ilfiglio era morto in un campo di prigionia in Corea. Ilromanzo mette a confronto diverse generazioni di emi-grati, è intriso dell’esperienza familiare dell’autore, ilquale assicura di «non aver trasferito direttamente parolee gesti appresi nel corso degli anni da nonni e genitori».Anche se poi gran parte delle sue ricerche le ha compiutein Italia grazie a una borsa del Fulbright Program.

«Ho impiegato dieci anni a scrivere The End», rac-conta Salvatore Scibona all’Espresso il giorno dopoaver presenziato all’edizione 2010 del National BookAward. Un tempo che non gli consente di vivere coni proventi del romanzo e dei racconti fino a oggi pro-dotti. Scibona lo sa benissimo, ma gli piace prendersitutto il tempo necessario a raggiungere il risultatoche cerca e così ha organizzato la vita in modo da

Il sogno è cominciato all’età di dieci anni. Fantasticavadi scrivere un libro, anzi un romanzo, di mandarlo inlettura a un editore che lo avrebbe approvato senza sa-pere e accorgersi che era frutto del lavoro di un bam-bino. Salvatore Scibona, 35 anni, americano, scrittore,celebrato e premiato come uno dei giovani e più pro-mettenti autori di fiction della scena statunitense, rac-conta con assoluto candore come è cominciato il suorapporto con la scrittura. Come un sogno, appunto, chelui ha perseguito ostinatamente per i successivi 25 anni.E nel suo caso, il risveglio dal sogno, ovvero la realtàdi oggi, racconta una storia di successo. Che cos’altroè se non il raggiungimento di un traguardo la dichia-razione di amore che il prestigioso The New Yorker hafatto il 14 giugno 2010 nei confronti di Salvatore Sci-bona? Lo ha inserito tra i migliori 20 autori di fictionsotto i 40 anni. Una scelta, scrivono i grandi capi delNew Yorker «che può apparire arbitraria o assurda»,ma che ha il solo scopo di offrire «un focus sui talentiche germogliano e fioriscono attorno a noi». Di Sci-bona la rivista newyorkese elogia «il lirico realismo»della sua narrazione e ha pubblicato il racconto breveThe Kid, il bambino, storia di un fanciullo solo nel-l’aeroporto di Amsterdam.L’autore americano di origine italiana (quarta genera-zione proveniente dall’unione di una famiglia sicilianae una polacca emigrate a Cleveland, in Ohio) non ha

Per il New Yorker è tra i più promettenti giovani autori americani.Si chiama Salvatore Scibona e le storie che racconta sono anche le nostre

Scrittori emergenti: la fiction è sogno

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«Celebrato e premiato comeuno dei giovani

e più promettenti autori di fiction della scena

statunitense, racconta con assoluto candore

come è cominciato il suo rapporto

con la scrittura. Come un sogno, appunto, che lui

ha perseguito ostinatamente

per i successivi 25 anni»

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Un’organizzazione di vita perfetta, oggi che ha co-minciato un nuovo romanzo di cui non vuole forniredettagli. Non tanto per il gusto di mantenere segretal’idea e la trama, ma soprattutto perché quello che hascritto ieri forse domani finirà nel cestino. Scibonausa una macchina da scrivere e solo dopo infinite re-visioni il testo finisce su un computer. Usa dueesempi per descrivere la difficoltà della scrittura:«Come una balena che dorme: non può mai del tuttoaddormentarsi, perché ogni tanto deve salire a gallaper respirare». Oppure: «È come guidare su unalunga strada dritta di notte con i fari che illuminanodavanti a te per 30 metri: tu sai dove finisce la stradama non puoi vedere il punto finale. Solo scoprirlapezzo dopo pezzo».

garantirsi l’autonomia finanziaria per potersi dedi-care alla scrittura. Da Cleveland, città pesantementecolpita dalla recessione nel 2008 (anche il padre e lamadre dello scrittore hanno perso il lavoro), dopo unbreve passaggio a New York dove poteva scrivere soloalzandosi alle 4 del mattino dovendo poi lavorare, Sci-bona è approdato a Provincetown, un delizioso paesinodel Massachusetts che si trova sulla punta della penisoladi Cape Cod. Lavora part time presso il Fine Arts WorkCenter, una organizzazione no profit che si occupa disostenere giovani scrittori e giovani talenti nelle arti vi-sive. «Io organizzo il lavoro di selezione del materiale,tengo i contatti, preparo le letture pubbliche, mantengoi rapporti con i partecipanti», racconta Scibona. Questogli lascia libera l’intera mattina per la scrittura.

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Gian Paolo Serino, il Giornale, 19 dicembre 2010

memoria delle proprie origini e il desiderio del ri-scatto sociale. Di stringente attualità nell’Americamultietnica di Obama, dove i conflitti razziali nonsembrano diminuire malgrado le aspettative, La fineha le qualità per riscuotere un grandissimo successoanche in Italia. Corteggiatissimo dai media Scibona,carattere solare ma restio alle dichiarazioni, ha con-fessato come per scrivere il proprio romanzo abbiaimpiegato dieci anni e ben 5 per le 40 righe dell’in-cipit. Anni di ricerca, tanto per descrivere mezzo se-colo di immigrazione italoamericana ha soggiornatomolto tempo a Roma e in Sicilia. E a proposito dellescoperte letterarie a stelle e strisce regala al Giornaleil suo consiglio di lettura direttamente dall’Americadi Obama: « Secondo me da non perdere è The lordof Misrule di Jaimy Gordon. Ambientato nel mondodelle corse dei cavalli, l’autrice segue 5 fantini – traquesti anche una donna – nello spazio di un annodi corse, svelando il cinismo e la durezza di unosport un tempo riservato ai re. La prima stesura delromanzo risale al 2001 ma Jaimy Gordon, autrice dialtri due romanzi, non è riuscita a trovare un editorefino alla sua recente vittoria ai National BookAwards. Da leggere spassionatamente». Dopo TheEnd, naturalmente.

È un italoamericano lo scrittore che sta facendo im-pazzire gli Stati Uniti: Salvatore Scibona, 35 anni,nato a Cleveland, Ohio, ma originario di Catania. Ilsuo romanzo The End, che verrà pubblicato in prima-vera da 66thand2nd con il titolo La fine, negli StatiUniti è stato un caso letterario. Uscito nel 2008 è statofinalista al National Book Award, ha vinto nel 2009il Young Lions Fiction Award e il Whiting Writers’Award. Nel giugno 2010 il New Yorker ha inserito Sci-bona tra i 20 migliori scrittori americani sotto i qua-rant’anni. Diventato un romanzo di culto, da pochigiorni edito anche in Inghilterra, La fine è un’epicadell’emigrazione sulla «nobiltà dei miserabili».La trama indubbiamente complessa diventa il puntodi forza del romanzo grazie a una scrittura ipnotica,che coniuga l’andamento narrativo da passo cinema-tografico al respiro del classico. Si raccontano le vi-cende di Rocco, fornaio della Littel Italy di ElephantPark, che il 15 agosto del 1953 riceve la notizia dellamorte del figlio in Corea. Decide di partire con glialtri 2 figli alla ricerca di una moglie che lo aveva ab-bandonato da anni. Ne nasce un’odissea geograficaed esistenziale che Scibona tratteggia con passaggiche spesso diventano autentica poesia. C’è tutto ilmondo dei perdenti, di chi non ha nulla se non la

Nuovi talenti: la promessa Usa viene da Catania e si chiama Salvatore Scibona

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Antonio Monda, la Repubblica, 12 gennaio 2011

Sin da quanto ero in prima elementare leggevo nellabiblioteca della scuola, e a dieci anni ho costretto imiei genitori ad acquistarmi una macchina da scri-vere. Vivo confinato all’interno del mio mondo equando non scrivo mi sento depresso, ma voglio ag-giungere che ho sempre voluto scrivere, ma mai di-ventare uno scrittore.

Qual è la differenza?Chi scrive obbedisce a una necessità e una passione,lo scrittore a una convenzione e una qualifica. E trovoche sia un atteggiamento prezioso, malgrado il rischiodi intellettualismo e snobismo.

Il suo romanzo racconta la comunità nella quale è cre-sciuto: è inevitabile partire dalla realtà più vicina?Nel libro, che ho impiegato dieci anni a scrivere, c’èmolto meno della mia vita di quanto si possa imma-ginare. E nel rispondere alla domanda mi viene inmente un racconto di Annie Dillard: un eschimese di-sperso in una zona deserta, per potersi cibare taglia unpezzo della propria coscia, ne mangia una piccolaparte e usa il resto come esca per pescare. Ritengo chequesto metodo di sopravvivenza sia una metaforadella scrittura: si inizia sempre con il proprio corpo epoi tutto prende vita. Tuttavia rimane il rischio dell’eccessiva vicinanza.

È importante per lei essere italoamericano?L’America è un paese caratterizzato dalla cittadi-nanza: se sei cittadino sei anche americano. Non ho

A poche settimane dal trentacinquesimo compleannoSalvatore Scibona è stato inserito nella lista dei ventimigliori scrittori sotto i quaranta anni compilata dalNew Yorker. Con un solo romanzo, intitolato The End,e qualche racconto pubblicato su riviste quali il Three-penny Review, l’autore si è affermato come una dellevoci più significative della sua generazione, tanto da es-sere paragonato a Faulkner. Italiano di terza genera-zione nato e cresciuto a Cleveland, Scibona ha raccon-tato nel suo romanzo, che uscirà in Italia dall’editore66thand2nd, una saga ispirata a quella della propria fa-miglia, originaria di varie zone del nostro Paese: Cam-pania, Sicilia (da cui proviene la maggioranza dei suoiparenti) e Abruzzo. Il libro, definito da Publisher Wee-kly, un «debutto eccezionale» è ambientato nella comu-nità italiana di Cleveland, e racconta una serie di storieintrecciate in un periodo di tempo che va dall’inizio delsecolo scorso al 1953. Scibona, finalista del NationalBook Award, si rivela un virtuoso della lingua e dellacostruzione narrativa, ma il suo più grande talento ènel creare personaggi memorabili, che rielabora da espe-rienze conosciute da vicino e nel mescolare episodi dicronaca con altri completamente romanzati. «È un ap-proccio naturale», racconta nel suo ufficio di Province-town, «la letteratura viene dalla vita, e non potrebbeesistere diversamente, con il rispetto e la celebrazionedelle fragilità e le grandezze degli esseri umani».

Perché ha deciso di cominciare a scrivere?Scrivo perché non posso fare altrimenti. Per me sitratta di una necessità ancora prima che una scelta.

L’intervista: lo scrittore di origine siciliana racconta il suo romanzo premiato negli Stati Uniti

Salvatore Scibona: «La mia Little Italy ha sedotto l’America»

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«Non ho mai vissutoin una nazione

in cui l’etnia e la cittadinanza

coincidono, e quando mi capita

di venire in Italiasono sempre

divertito e frastornato quando

i miei parenti mi presentano

dicendo “è americano,

ma in realtà è italiano”»

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lavorata, non è l’inglese, ma l’americano e, grazie aquesto uomo, severo come un monaco, ho capito ilrapporto tra l’anima e il modo in cui ti esprimi. Epoi, ovviamente, voglio citare Bellow: un gigantedella letteratura. Basterebbe citare il finale del Donodi Humboldt, in cui si parla di fiori al funerale delprotagonista. Un momento di realismo e di assolutaaudacia narrativa.

Lei si è laureato allo Iowa Writers Workshop e ora lavorapresso il Fine Arts Work Center di Provincetown: servonoe sono importanti le scuole di scrittura?È un argomento controverso. A mio avviso pos-sono essere utili per far risparmiare tempo. Se

mai vissuto in una nazione in cui l’etnia e la cittadi-nanza coincidono, e quando mi capita di venire inItalia sono sempre divertito e frastornato quando imiei parenti mi presentano dicendo «è americano,ma in realtà è italiano».

Si è mai sentito straniero in America?No, anzi mi succede sempre di scoprire cosa sia l’Ame-rica ogni volta che vado all’estero. Mi accade invecedi sentirmi straniero quando vengo in Italia, puramandola profondamente. Anche quando ho visitatocittà moderne ho avuto la sensazione di vivere in unluogo che apparteneva al mio passato.

Perché ha scelto di raccontare una storia ambientata nelpassato?Il romanzo tende a usare il passato, perché implica chesi ha la visione complessiva di tutti gli elementi, e chela storia è stata elaborata per poter raccontare ciò chesi ha bisogno di dire.

Tra i grandi scrittori del passato c’è qualcuno che consi-dera un modello?Non ho un modello ma una dieta: so cosa mi piacemangiare, e quello che mi fa crescere nasce da lì. I mieiprimi riferimenti sono Fauklner, Virginia Woolf e Bel-low, e mi rendo conto di quanto siano diversi. ConBellow ho un rapporto particolare: ha pubblicato unodei miei primi racconti sulla rivista News from the Re-public of Letters. Ritengo che non bisogna aver pauradi farsi influenzare, e incoraggio me stesso e i futuriscrittori a leggere molto.

Quali autori preferisce leggere di solito?Sono un monogamo seriale. Nel senso che mi inna-moro perdutamente di un autore e cerco di conoscereogni cosa che ha scritto. Ora è la volta di Halldór Lax-ness: credo di non aver mai amato nessuno in egualmodo. Tra gli americani il più grande a mio avviso èDon DeLillo. L’ho scoperto quando ho passato seimesi a Roma: non sapevo parlare l’italiano e acquistaiin una libreria internazionale dei libri che mi hannocambiato la vita. La sua lingua, straordinariamente

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Hemingway e Fitzgerald scrivevano sul Saturday Eve-ning Post si raggiungeva un pubblico ampio.

È vero che lei scrive su una macchina da scrivere?Sì, perché il computer è un apparecchio che distrae, eche aiuta nella funzionalità, un elemento opposto aquello di cui ha bisogno lo scrittore, che invece ha biso-gno di concentrazione. Qui a Provincetown dobbiamoselezionare 700 domande per 8 posti. È un processo cheprende almeno 5 mesi e che invade i nostri uffici di ma-noscritti. Sarebbe molto più facile chiedere di mandarciil «pdf», ma insieme agli altri giurati ci siamo resi contoche non leggeremmo con la stessa concentrazione.

«Chi scrive obbedisce a una necessità e una passione, lo scrittore a una convenzione e una qualifica»

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Scibona | La fine

avessi venticinque anni e non avessi ancora scrittonulla, ci metterei molto di più a realizzare qualcosadi compiuto. Oltre ad aiutarti sul piano struttu-rale, un buon docente può farti notare i tuoi tic discrittura, o ad esempio che i tuoi personaggi fem-minili sono tutti simili. C’è però il rischio di crearescrittori timidi, omologati.

E le riviste letterarie oggi hanno un ruolo?Un ruolo fondamentale, di sopravvivenza. Sono rivi-ste che non nascono certo per far soldi, e sono ilmodo più diretto che ha uno scrittore per farsi cono-scere. Con la consapevolezza che solo all’epoca in cui

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quartiere di Elephant Park. Rivalità, gelosie e segretiinconfessati prendono forma mentre in strada la pro-cessione di ferragosto ha il sapore della rivolta.Scibona è nato a Cleveland nel 1975. La fine è il suoprimo romanzo. Nel giugno del 2010 il New Yorkerlo ha incluso nella lista dei 20 Under 40 che com-prende i migliori autori americani sotto i quarant’anni.

«Se l’avesse detto a qualcuno, l’avrebbero rinchiusa… Non li vedrò mai più.

Non vedrò mai più questi luoghi, mai più»

Sandra Bardotti, wuz.it, 24 febbraio 2011

«Alla stazione, nel 1879, con una valigia, una bottigliad’acqua, aspettava il treno, guardava l’aperta campagna,le colline terrazzate, i vigneti nel pianoro. Se l’avessedetto a qualcuno, l’avrebbero rinchiusa… Non li vedròmai più. Non vedrò mai più questi luoghi, mai più».Cleveland, Ohio, 15 agosto 1953. In un ritmo serratole vite di cinque immigrati italiani si intrecciano nel

Salvatore Scibona – La fine

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«Senza andare troppo lontano nel tempo anche Salvatore Scibona

e Dinaw Mengestu raccontano la fatica, lo sforzo, il riscatto che passa attraverso la magnitudo fisica»

Cristina Battocletti, Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2011

2008, in mezzo alla disoccupazione, la paura, la labilitàdegli equilibri internazionali, si rivolge alla forza primi-genia dei pionieri, che nell’incertezza assoluta si basa-rono sulla propria prestanza, robustezza, coraggio percostruire il futuro.Una durezza indotta, d’amo e di gesti, che investechiunque, donne comprese. La Ree (Jennifer Lawrence,un Oscar mancato), protagonista di Un gelido invernodi Debra Granik, recide la sua adolescenza con lo stessopragmatismo delle femmine consumate e brutali, che lapicchiano a sangue. Con lo sguardo di una bellezza ru-vida e impaurita insieme, insegna alla piccola sorellaAshlee (Ashlee Thompson) a imbracciare il fucile e pre-mere il grilletto contro uno scoiattolo. E mentre gli altribambini lo disegnano e lo guardano animarsi nei car-toon, Ashlee è costretta da Ree a infilare le sue ditinaper strappargli le budella, per imparare a sopravvivere.Ree ricorda l’Antonia di Willa Cather (La mia Antonia,La Tartaruga, ’91), protagonista indomita tra i pionieriboemi del romanzo scritto nel 1918 dal premio Pulitzer.Ma senza andare troppo lontano nel tempo anche Sal-vatore Scibona e Dinaw Mengestu, due scrittori indicatidal New Yorker nella top 20 degli autori under 40, rac-

Con i muscoli lucenti, gonfi e tesi sulle braccia ripiegatea riparare la cassa toracica, la testa ritirata e appoggiataai guantoni, Micky Ward (Mark Wahlberg) è una tar-taruga rincagnata nel suo guscio, mentre incassa unascarica di pugni dall’avversario.«Testa, corpo, testa. Testa, corpo, testa». si ripete comeuna nenia il protagonista di The fighter di David O. Rus-sell, mentre riposa tra un round e l’altro. Ma quando èsul ring per il titolo mondiale, il riscatto morale dell’umi-liato e offeso, quello che il fratellastro Diky (il premioOscar Christian Bale) gli instilla, sobillandolo, ricordan-dogli i soprusi della vita, trasforma l’emarginazione inun fascio di nervi. Quando sul finale si allontana dallecorde e si avventa sull’avversario, Micky è scatto ferino,desiderio animale di sopraffazione, forza pura. Un ele-mento corporale preponderante, che sbuca a Hollywoode nella letteratura yankee, come un fiume carsico rimastosottotraccia per anni.Ethan Coen, alla Berlinale per presentare assieme al fra-tello Il grinta, tra le risposte beffarde, ne ha data una il-luminante circa le innumerevoli dita troncate, testemozzate, impiccagioni senza lacrime, galoppi strematidi cavalli da western. L’America confusa dalla crisi del

Cinema e letteratura statunitensi riscoprono il valore della fatica, per rialzarsi dalla crisi

Forza da veri pionieri americani

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che impersona Aron Ralston in 127 ore di Danny Boyle,che si basa su una storia realmente accaduta. Sono i pol-pacci possenti a portarlo nell’isolamento totale del BIueJohn Canion nello Utah. Sono le dita sicure che solle-vano il corpo verso l’alto delle pareti verticali rosse. Unpo’ di tracotanza, un po’ di incoscienza rendono specialela sua vita da eremita del weekend.L’imprevisto, la solitudine è una benzina di cui nonpuò fare a meno. Quando un masso gli blocca ilbraccio saprà resistere cinque giorni, fino a esporrelo spettatore a un lungo taglio dell’arto con un col-tellino. Un logorio molto simile alla mortificazionecorporale e autodistruttiva a cui la ballerina Nina(Natalie Portman) sottopone il proprio fisico inestenuanti esercizi alla sbarra nel Cigno nero di Dar-ren Aronofsky. Nina di quella forza estrema rimanevittima. L’America si augura di trovarvi l’occasioneper rialzarsi.

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contano la fatica, lo sforzo, il riscatto che passa attraversola magnitudo fisica. Scibona, 35enne americano di ori-gine italiana, nel suo The End − che in Italia uscirà amaggio per le edizioni 66thand2nd con il titolo La fine– ritrae Rocco, panettiere immigrato, che impasta,cuoce e vende giorno e notte, natale e capodanno, e soloquando viene a sapere che suo figlio è morto in uncampo di prigionia in Corea, il 15 agosto del 1953 perla prima volta in 29 anni chiude il negozio.Mengestu, nato ad Addis Abeba ed emigrato negliStates, profila in The Beautihl Things that HeavenBears, pubblicato da Penguin Riverhead nel 2007, leperipezie di un etiope, rifugiato a Washington, pro-strato dal lavoro della drogheria e dai colpi violentidelle schermaglie razziali.Lavorare su sé stessi, per ritrovare sé stessi quando ilmondo fuori dà risposte poco confortanti. Pura potenzae concentrazione sul proprio corpo e il James Franco

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«Sono cresciuti con il momento presente, gli importava vivere la vita per quello che era,

non gli interessava il contesto storico in cui si muovevano»

Red., libon.wordpress.com, 20 marzo 2011

Un’anziana che procura aborti clandestini, un adole-scente che si interroga sull’esistenza di Dio, una sartache lavora a cottimo, un gioielliere che colleziona letteredei soldati confederati e si macchia di un crimine in-spiegabile. Persone ordinarie, dall’esistenza semplice,di cui l’autore rivela la complessità di pensiero e svelail più intimo sentire nella cornice di una trama avvin-cente. In questo romanzo è ritratta l’umanità intera: ivizi, le virtù, i colpi d’ala e le bassezze d’animo di cui ècostellata la ricerca interiore di ogni individuo.I miei bisnonni erano tutti immigrati, e i miei nonnisono cresciuti parlando italiano, siciliano e polacco(mia madre è di origine polacca). Mio nonno, mortoun paio di anni fa, non andò mai in Europa. Ma lasua lingua madre è il dialetto siciliano […]. Sono cre-sciuti con il momento presente, gli importava viverela vita per quello che era, non gli interessava il conte-sto storico in cui si muovevano. Così, quando ho de-ciso di scrivere un romanzo, ho cercato di assumere illoro punto di vista.

Nella penna di Salvatore Scibona si intrecciano le vi-cende ordinarie e straordinarie di tre generazioni diitaliani emigrati a Cleveland, Ohio. Prende forma larinascita di un’Italia contadina rimasta confinata e im-mutata nel tempo che entra in contatto con il NuovoMondo. I personaggi si muovono tra passato e futuro;le radici, sradicate, si sfaldano e una nuova identitànasce e preme per consolidarsi. La dimensione è undoloroso e perenne presente.La fine. Cleveland, 15 agosto 1953. La Little Italydi Elephant Park è in subbuglio per la festa dell’As-sunta. Rocco, il fornaio del quartiere, riceve una let-tera che lo informa della morte del figlio in Corea edecide di tentare un viaggio per ritrovare la moglieche lo aveva abbandonato molti anni prima, por-tando con sé due dei loro tre figli. Da qui prendel’avvio un romanzo corale in cui tutti i personaggicercano disperatamente di riannodare i fili spezzatidel passato per trovare un senso nel viaggio che li haportati dall’altra parte del mondo.

I personaggi di Scibona: la loro dimensione è un perennepresente

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Salvatore Falzone, la Repubblica (Palermo), 29 aprile 2011

ha nulla a che fare con la valigia di cartone e gli emi-granti ammassati a Ellis Island, né tantomeno con gliindistruttibili stereotipi siciliani.«È davvero ridicolo» dice Scibona, che a maggio saràospite del Salone del Libro di Torino e a settembredel Festival della letteratura di Mantova «che uno nonpossa parlare dei siciliani in America senza parlare dipizza e di mafia. The Sopranos è uno splendido diver-timento, i film di Scorsese e Coppola sono tremendi».

È stato difficile raccontare la Little Italy americana?In verità è stato molto facile per me scrivere a propo-sito di questo milieu. Sui milioni di italiani venuti inAmerica potevo a stento pensare di scrivere un ro-manzo che ne parlasse come se fossero i primi e i piùimportanti esseri umani, non delinquenti o membridi un particolare gruppo etnico. Per me è stata unaregola ferrea: i personaggi sono innanzitutto esseriumani con un’anima inimitabile. Il loro paese d’ori-gine, le loro etnie, l’insieme di fattori sociologicifanno semplicemente parte del background.

Ma saranno siciliani anche i personaggi dei suoi prossimiromanzi?Non lo so. Il personaggio entra nel mio studio e si pre-senta. Se viene dalla Sicilia o va in Sicilia, devo se-guirlo.

Dopo anni di fatica Scibona, che insegna scritturacreativa a Provincetown, è felice: «Questo romanzo»confessa «è tutto quello che volevo fare, tutto quello

La fine è anche l’inizio di uno straordinario successoletterario. Col romanzo d’esordio The End, SalvatoreScibona, trentacinquenne scrittore americano di ori-gini siciliane, è stato incluso dal New Yorker nella listadei «20 under 40», i venti più grandi autori di linguainglese sotto i quarant’anni. Scoperto da Saul Bellowalla fine degli anni Novanta, accostato dalla critica adautori come Cormac McCarthy e Don DeLillo, ac-colto con tutti gli onori dalla stampa internazionale,Scibona siede già nell’Olimpo letterario Usa. Dopo iltrionfo dell’edizione americana, l’opera è stata pub-blicata in Francia e in Inghilterra. E a giorni sarà nellelibrerie italiane per conto della 66thand2nd, una gio-vane casa editrice indipendente romana che prende ilnome dall’incrocio newyorkese tra la Sessantesimastrada e la Seconda Avenue.La storia comincia nel 1953, nel giorno della festa del-l’Assunta, a Cleveland, Ohio, quando Rocco, il for-naio del quartiere, riceve una lettera che lo informadella morte del figlio in Corea e decide di mettersi inviaggio per ritrovare la moglie che lo aveva abbando-nato molti anni prima, portando con sé due dei trefigli. Ma la vicenda di Rocco diventa subito il rac-conto corale di un nugolo di personaggi che cercanodisperatamente il proprio passato per dare un sensoal viaggio che li ha catapultati dall’altra parte delmondo. Le vicende di tre generazioni di italiani emi-grati s’intrecciano e diventano il simbolo di un’Italiacontadina, di una Sicilia rimasta immutata, che va asbattere con il Nuovo Mondo. In quasi quattrocentopagine vengono rievocate le tappe di una saga che non

Sta per uscire in Italia The End, libro d’esordio dello scrittore statunitenseche ha radici a Mirabella Imbaccari e che il New Yorker ha inserito tra i migliori under 40 degli States

Il romanzo di Little Italy: Scibona racconta i sicilianid’America

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«È davvero ridicolo che uno non possa parlare dei siciliani in America senza parlare

di pizza e di mafia»

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frammenti di cibo che raccolgo e getto in un mucchiodi concime: prima di poterlo usare, si deve decom-porre. Una volta che il terreno è pronto, allora possopiantarvi qualcosa e vederla crescere.

Lo scrittore siciliano più amato?Giovanni Verga perché si fida della ragione piuttostoche dell’agenda. Il rischio che si corre quando si scriveun romanzo del genere è quello di mitizzare perso-naggi di modeste condizioni. Ma Verga rende i suoipersonaggi non migliori né peggiori di quelli chesono. Rimane fedele alle sue creature e al loro mondo.Così il lettore si abbandona con totale fiducia alloscrittore. Una volta pranzavo con uno studente di unaclasse in cui insegnavo, e con sua madre, una formi-dabile donna d’affari del Taiwan. Era molto arrab-biata col figlio, lo aveva mandato nella nostra scuolaper farlo svegliare. Quando ho chiesto al ragazzo diparlarmi del suo quartiere, ha risposto annoiato: «Nonlo so». Allora la donna ha detto con rabbia: «Descriviciò che vedi». Ho voluto baciarla. Descrivi ciò chevedi: è proprio quello che fa Verga.

Ed è proprio quello che ha provato a fare Scibona: de-scrivere la Little Italy che ha visto coni suoi occhi. Econ quelli di sua nonna, che gli ha riempito la testadi storie e che ha vissuto ottant’anni negli States senzaspiccicare una parola d’inglese.

che ho davvero fatto, per più di dieci anni. Quandoho finito di scrivere, ho dovuto trovare un altro mododi spendere il mio tempo. Ne ho trascorso molto nelmio giardino, negli aeroporti, a leggere, chiedendomiche cosa fare adesso».I suoi bisnonni emigrarono da Mirabella Imbaccaridopo la prima guerra mondiale. Suo nonno, che sichiamava Salvatore come lui, nacque nell’Ohio, mafino a sei anni parlò solo in «mirabelese».«Potete immaginare» continua Scibona «la mia inge-nua meraviglia quando nel 1999 ho preso il traghettoda Reggio Calabria e ho scoperto che la Sicilia esistevaancora. Ero davvero sbalordito».Nell’isola Scibona è rimasto un bel pezzo durante ilperiodo di stesura del romanzo (il nome di Cataniacompare nelle primissime pagine del libro), ospitedei suoi cugini, che ancora vivono a Mirabella nellacasa dove nacque il suo bisnonno («senza il loroaiuto sarei morto di fame o diventato pazzo per lasolitudine»).

Ma La fine è la storia della sua famiglia? No. Non mi interessa parlare di me stesso o dellamia famiglia.

E perché? Perché è noioso. Meglio stare alla larga dall’autobio-grafia. Ciò che nel romanzo viene fuori dalla vitaviene fuori solo per caso. Penso alla mia vita come a

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«Se diventasse un film dovrebbe girarlo

Quentin Tarantino»

Gabriele Romagnoli, la Repubblica, 30 aprile 2011

tutto: virtuosi, a volte artificiali. Scrittori di pancia,che semplicemente esondano da sé alla pagina: ge-nuini, limitati dall’autoreferenzialità. E scrittori dimano, come Scibona. Intagliatori, se un altro mestierefosse loro attribuibile. Dieci anni per scrivere questoromanzo. Un tempo infinito, per l’epoca editoriale incui viviamo. Dilatato dall’impegno, dalla percepibilecocciutaggine con cui ha scelto ogni vocabolo, ognisegno di punteggiatura, scavato nei caratteri, precisatogli aspetti. Non un tempo, in realtà, ma una «striscia»,come ama dire Rocco il panettiere. Una unità di mi-sura (fuori misura) molto americana: la «striscia» vin-cente di una squadra di basket, quella di battute validedi un giocatore di baseball, la «striscia» di giorni inin-terrotti in cui il forno è rimasto aperto, sfidando ognifesta: 10.685. E i dieci anni in cui Scibona ha lavoratoa La fine. Con quale intento? Lo stesso che il panet-tiere aveva per i suoi figli: «sperava che i ragazzi, di-ventando uomini, si indurissero». Così, l’autore: spe-rava in un romanzo duro. E puro. Fatto di cristalli,lavorati e non trovati in natura. L’ha ottenuto? Quasicompletamente. Da tempo chi sui giornali si occupadi romanzi dedica l’attenzione alla trama, rifilando ai

La fine comincia così: «Era alto un metro e cinquan-taquattro con le scarpe da passeggio, sembrava un orsocon quella faccia rotonda dalla mascella prominente,petto e spalle di proporzioni esorbitanti, vita quasi al-trettanto massiccia, ma scavato alle anche, e privo diun didietro adeguato su cui sedersi (anche se non eracerto noto per stare spesso seduto), e debole di cavi-glia, e con due piedi minuscoli da ragazza, un uomoa forma di lampadina». Punto fermo, ma si riparte su-bito, per altre ventotto righe senza sosta in cui si sco-pre che il personaggio è «fedele allo stremo alle fatichequotidiane», «avido mangiatore di caramelle mounell’intervallo in cui si asteneva dalle sigarette, tra leotto e le dieci», «uno che in tutta la vita non si è mairivolto a più di due persone alla volta», «un uomo cheignorava la pioggia e il sereno», «un cristiano cometanti». Ecco a voi Rocco, «il panettiere di ElephantPark», immaginaria cittadina dell’Ohio. Ma soprat-tutto ecco a voi Salvatore Scibona, esordiente, inseritonella lista dei migliori 20 sotto i 40 del New Yorker,corrispondente di Don DeLillo, paragonato (tra glialtri) a Saul Bellow e Graham Greene, autore di unarinomata zuppa di cetrioli, creatore di neologismi chepossono sembrare parole perdute e capaci di far smar-rire il traduttore (ma non questo Beniamino Ambrosiche si è cimentato per e con gli editori di66thand2nd), punteggiatore a pioggia, non uno scrit-tore come tanti. Che cos’hanno in comune Rocco ilpanettiere (nonché molti, quasi tutti, i personaggi deLa fine) e Scibona? Fanno un lavoro manuale. Ci sonoscrittori di testa, per cui gli snodi della trama sono

Le «strisce» del panettiere Rocco non sono solo forma, ma sostanza

Tra neologismi e iperpunteggiatura, l’universalità è la forza del testo

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«Autore di una rinomata zuppa di cetrioli, creatore di neologismi che possono sembrare

parole perdute e capaci di far smarrire il traduttore, punteggiatore a pioggia, non uno scrittore come tanti»

abbagliare, ma stringete gli occhi: dietro c’è sostanza.Per vederla occorre lasciasi trasportare in quell’ andi-rivieni spazio-temporale che fa dire all’autore: «Se di-ventasse un film dovrebbe girarlo Quentin Taran-tino». Non farsi distrarre dalla cornice del paesino,della comunità di immigrati, dall’eco lontana dellaguerra, dal nodo di violenza che unisce tutti i perso-naggi in un passato sempre meno implicito. Di checosa parla allora questo romanzo? Di uno stupro? Diuna fuga e di molte fughe? Del dolore di molti e dimolti dolori? Di donne forti e uomini che semplice-mente reggono? Di segreti svelati in un gioco di ri-mandi, specchi e voci? Di tutto questo, certo. Poi c’èla cosa sopra tutte le altre: quella soggettiva, messa lì,coscientemente o no, per arrivare al cuore di chi legge.Indicarla è sempre un rischio nei confronti dell’autoree un disvelamento di sé. Eppure: questo romanzoparla dell’accettazione. Della sublime capacità di ac-cettare la vita, il dono, la riproduzione. Di quel cheaccade a chi ci riesce e a chi non è in grado. Nel rac-conto The Kid, pubblicato nell’antologia del New Yor-ker, sempre a questo Scibona tornava, con infinita-mente superiore semplicità. La fine è un romanzo che

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si dipana e facendolo si scioglie. Soffre, certo, delladeità dell’autore, del suo farsi voce dentro ogni perso-naggio, dando a ciascuno il proprio tormento di uomoprima che di scrittore: la ricerca della propria essenza.Nel fare questo sovraccarica vite all’osso di polpe signi-ficanti, dà profondità psicologica anche a scelte senzamediazione, diventa autore di testa per personaggi dipancia. Ma se è vero, come scrive, che per i bambini lanotte è un luogo e non un tempo, per i lettori un ro-manzo non è una parentesi, ma la vita stessa. E questache ci regala, così dura, anche e proprio quando im-pura, è un dono da accettare con gratitudine.

lettori sinossi rivelatrici condite da giudizi a pallini.Nessun torto più grande potrebbe essere fatto a Lafine. Qui, il mezzo è il messaggio. Questo libro, po-tendo, andrebbe letto due volte: in originale e poinella traduzione. Come Il discorso del re andava vistoin inglese per apprezzare i gloglotii di Colin Firth e initaliano per capire la bravura dei doppiatori. Altret-tanto riduttivo sarebbe inserire Scibona nel filonedella letteratura italoamericana. Ci sono i nomi, levigne, i pudori e i rancori, ma non è questo il punto.La forza del testo, oltreché nella scrittura, risiede nellasua universalità. È vero, la forma è tanto curata da

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«Sono molto attaccato alla forma tradizionale del romanzo; il racconto autobiografico non mi interessa,

crea una distanza col lettore»

La fine dipinge un universo di vite precarie, che abban-donano e che sono abbandonate. C’è molta malinconiadietro il tono apparentemente gioioso della narrazione.La solitudine è tipica del migrante e più in generaledi noi americani. E non solo perché il nostro passato,in un certo senso, non ci appartiene, ma perché an-cora oggi siamo un popolo abituato a muoverci incontinuazione. Difficilmente l’americano adulto vivenella stessa città dove è nato. Per questo motivo l’exi-stential homelessness, l’essere senza fissa dimora comecondizione esistenziale, è un tema che ritorna spessonella narrativa statunitense.

Nel romanzo è del tutto assente il clichè dell’italiano ma-fioso, un tema che all’americano piace molto. Perché?Premesso che lo considero un filone – della narrativae ancor più del cinema – di tutto rispetto, credo chesia piuttosto curioso che su una comunità di 70 mi-lioni di persone ci si soffermi a raccontare solo dimafia. I Sopranos, per esempio, sono una serie moltointeressante ma rispecchiano solo una parte del tutto.Mi premeva raccontare un’altra fetta di realtà: pos-siamo permetterci un altro punto di vista sugli italoa-mericani? Credo di si.

Con il suo primo romanzo su cinquant’anni d’immi-grazione italiana nel profondo Midwest, Salvatore Sci-bona ha conquistato l’America.La fine, nella short list del National Book Award e tra «itop 20 under 40» del New Yorker, racconta con grazia levite dei miserabili nella Cleveland di inizio Novecento.A Elephant Park, nel quartiere italiano della città, si in-trecciano le fragili esistenze di chi ha abbandonato ilVecchio per sbarcare nel Nuovo Mondo: c’è un panet-tiere che non crede alla morte del figlio soldato cadutoin Corea, una giovane moglie che sparisce lasciando distucco figli e marito, una vedova abortista, un gioiel-liere che commette un omicidio, ferventi cattolici se-dotti da KKK. Tra sacrifici, abbandoni e molta poesia.

Un ritorno alle origini?Non direi. La fine è una creazione di pure finzione. C’èuna sola persona della mia famiglia che rientra tra ipersonaggi. Sono molto attaccato alla forma tradizio-nale del romanzo; il racconto autobiografico non miinteressa, crea una distanza col lettore. Certo, comescrittore non posso non utilizzare l’esperienza, che inquesto caso è nata stando a contatto dei tanto italo-americani che abitano a Cleveland, parenti compresi.

Camilla Galaschi, D della Repubblica, 30 aprile 2011

C’era una volta a Cleveland

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Red., mondoeditoriale.com, 5 maggio 2011

15 agosto 1953, Cleveland, Ohio. La mattina dellafesta dell’Assunta, il fornaio di Elephant Park, RoccoLaGrassa, apprende della morte del figlio Mimmo inCorea. Sconvolto dalla tragica notizia, Rocco, per laprima volta dopo trent’anni di instancabile lavoro, de-cide di chiudere la panetteria per andare a cercare glialtri due figli e la moglie, che lo ha lasciato da dicias-sette anni.Ma il viaggio che dall’Ohio dovrebbe condurlo inNew Jersey segue strade imprevedibili, e Rocco si ri-trova ad ammirare le cascate del Niagara, poi rag-giunge il confine con il Canada e mette quasi i piedifuori dal suolo americano, dopo ben quarant’anni.Rocco, nello stato di confusione in cui si dibatte, è ilprimo di una serie di personaggi le cui storie trava-gliate si annodano come fili una dopo l’altra.Costanza Marini, è una vedova novantatreenne, im-migrata nel 1879, che pratica aborti clandestini e in-trattiene dialoghi a metà tra il sogno e la veglia colmarito scomparso.Con l’anziana donna vive il quindicenne Ciccio Maz-zone, un adolescente ribelle che ha perso prima lamadre, Lina, fuggita dalla città dopo aver subìto unaterribile violenza, e poi anche il padre, Enzo, mortoin un incidente stradale. E infine, un enigmatico gio-ielliere con una singolare passione per le vecchie let-tere dei soldati Confederati.Nel cuore del romanzo un crimine mai confessatos’insinua nelle vite di tutti…

La fine in pillole

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«In America c’è chi va – come gli antenati di Scibona – per cercare una possibilità di vita che il loro paese aveva

precluso. E dall’America c’è chi torna, come gli editori di 66thand2nd che nell’Italia di oggi, che rinnega la cultura,

fanno una scommessa sui libri»

Monica Capuani, Io donna, 7 maggio 2011

1953. Per la prima volta in trent’anni Rocco La-Grassa, infaticabile fornaio di Elephant Park, a Cle-veland, chiude la saracinesca della sua panetteria. Haricevuto la notizia della morte in Corea del figlioMimmo. Parte alla volta del New Jersey per comuni-carla agli altri due figli e alla moglie, che non vede da17 anni. Ma il suo sarà un viaggio impervio, pieno dideviazioni. Incontrerà Costanza Marini, una vecchiavedova, immigrata nel 1879, autrice di aborti clande-stini, in costante dialogo con il marito morto. E Cic-cio, un adolescente difficile dietro il quale si nascondeuna storia traumatica. Ma è impossibile e sconsigliatoraccontare la trama di un libro così complesso e mag-matico, che Le Monde ha definito «un’esperienza sen-suale potente». Non a caso. Perché Scibona ha dichia-rato che lavorando alle ultime bozze, gli è capitato dileggere Nel territorio del diavolo: sul mistero di scriveredi Flannery O’Connor. Ed è stato una folgorazione.«In quel saggio» dice Scibona, «la O’Connor ripeteall’infinito che il suo romanzo si fonda innanzituttoe soprattutto sull’esperienza sensoriale. Ho anche lettoil famoso saggio di T.S. Eliot sul “correlativo ogget-tivo”, cioè l’oggetto che in una poesia è alla base di

Sembra un personaggio, più che uno scrittore, Salva-tore Scibona. Ci ha messo dieci anni a scrivere il suoprimo pluripremiato romanzo, La fine, e il 14 giugno2010 The New Yorker lo ha incluso tra gli scrittoriunder 40 da tenere d’occhio. Non usa il computer,perché lo distrae, preferisce usare la penna, copiarequello che ha scritto con la macchina da scrivere, cor-reggere a mano, ricopiarlo a macchina. È italoameri-cano di quarta generazione, con una bisnonna grandeispiratrice di storie, che lasciò la Sicilia ventenne emorì a 94 anni a Cleveland, senza aver mai imparatoa parlare l’inglese. A New York Salvatore riusciva ascrivere solo in piena notte, così ha optato per Pro-vincetown, un paesino del Massachusetts, sulla puntadella penisola di Cape Cod, dove ha un lavoro parttime che gli consente di dedicarsi tutte le mattine allascrittura. E dopo il successo di La fine, per il quale icritici hanno speso paragoni altisonanti – VirginiaWoolf, Saul Bellow, Graham Greene – si è rifugiato acoltivare un orto nel quale rivivono, in forma vegetale,tutti i personaggi della sua famiglia e del romanzo,che hanno lavorato 25 anni per acquistare un pezzodi terra in America. La fine comincia il 15 agosto del

Una saga sui siciliani in America che ha fatto impazzire i critici. E che lui ha scritto a penna. Pensando alla bisnonna

La fine è il suo inizio: arriva in Italia il primo libro di Salvatore Scibona

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fino a qualche anno fa in ambienti legali e finanziari.Il desiderio di un figlio e la possibilità di adottarlo sol-tanto nel loro Paese li ha convinti a rientrare in Italia,a Roma. Dove è nata, nel 2009, anche la loro casa edi-trice che fino a oggi ha pubblicato in due collane – At-tese, dedicata alla grande letteratura sportiva, e Bazar,alla multietnicità del presente – romanzi preziosi e cu-ratissimi. Scibona sarà un «fuori collana» e rischia didiventare bestseller. Nell’ultima lista del New Yorker,del ’99, si citavano infatti nomi di sconosciuti del ca-libro di Jonathan Franzen, David Foster Wallace,Jhumpa Lahiri.Insomma, in America c’è chi va – come gli antenatidi Scibona – per cercare una possibilità di vita cheil loro paese aveva precluso. E dall’America c’è chitorna, come gli editori di 66thand2nd che nell’Italiadi oggi, che rinnega la cultura, fanno una scom-messa sui libri.

«Mi sono convinto che avrei potuto sostituire la maggior parte delle idee

e delle descrizioni dei sentimenti con riferimenti fisici, appunto oggettivi.Questa forse è la lezione numero uno

che tutti potrebbero imparare per cominciare un romanzo: scrivere con i cinque sensi,

ambientare l’azione nel mondo e non nella mente»

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Scibona | La fine

un’emozione. Mi sono convinto che avrei potuto so-stituire la maggior parte delle idee e delle descrizionidei sentimenti con riferimenti fisici, appunto ogget-tivi. Questa forse è la lezione numero uno che tuttipotrebbero imparare, per cominciare un romanzo:scrivere con i cinque sensi, ambientare l’azione nelmondo e non nella mente». Le letture di Scibona co-prono un vasto raggio, come ha dichiarato al The NewYorker: Saul Bellow, Don DeLillo, Annie Dillard,Gorge Eliot, Freud, Omero, Halldór Laxness, ViginiaWoolf.A metà maggio Salvatore Scibona sarà ospite del Sa-lone del Libro di Torino, per parlare del romanzo cheesce in Italia In questi giorni per le edizioni66thand2nd. Ed è una strana coincidenza di storieanche l’incontro con questo editore dallo strano nome,che in realtà è un indirizzo di New York. È là che abi-tavano Tomaso Cenci e Isabella Ferretti, impegnati

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«La progressione narrativa introduce

un volto, poi un altro,

un altro ancora prima di riportarci

a fattezze già note e sempre più a fuoco,

e c’è qualcosa di vertiginoso

in questo procedere»

Alessandro Mari, Tuttolibri della Stampa, 14 maggio 2011

quotidiane e la fede, il sentimento di una patrianuova e di una lontana, persino alcune pagine de-dicate all’Italia, eppure qui non ci muoviamo nellacosiddetta letteratura italoamericana; Scibona nesfrutta senz’altro temi e motivi ricorrenti, ma lipiega all’uso per costruire un’ «opera mondo» – so-prattutto interiore. Il romanzo è infatti un veracecorpo a corpo con la vita, arbitrato da un narratoreche per sondare i personaggi, sbobina i loro flussimentali e inoltre presta loro parole sue, zavorrandoogni stringa di pensieri con significazioni ulteriori euna complessità psicologica talvolta un po’ estranea

Si entra ne La fine come in uno spettacolo di maniche si sfiorano e ritraggono, di figure vorticantidelle quali, tuttavia, non godiamo d’una visioned’insieme. La progressione narrativa introduce unvolto, poi un altro, un altro ancora prima di ripor-tarci a fattezze già note e sempre più a fuoco, e c’èqualcosa di vertiginoso in questo procedere; un raf-finato avvicinamento ai protagonisti: «Il cono diluce sembrava espandersi, e quello che stavanoguardando, le figure, prevedevano sostanza, diven-tavano reali, come un ago quando buca la pelle».Chi affonda l’ago è lo statunitense d’origine sicilianaSalvatore Scibona, classe ’75, il quale ha dedicato diecianni a quella impresa – azzardo puro in un’editoria chebrucia libri con la furia di un inceneritore. Personal-mente non posso che provare simpatia per tanta audaciae per la qualità di questa audacia: per quel ferire i suoipersonaggi e darcene il sangue mentre esplora sé stesso.La fine non è affare di plot nonostante la presenzadi un mistero, quanto piuttosto un caleidoscopio dimenti e di corpi: Rocco il fornaio, lasciato da mogliee figli e presentato in un incipit di quelli che restanonegli occhi; l’anziana signora Marini, d’una pietà di-storta, abortista in lotta con fantasmi passati e fu-turi; la travagliata Lina e suo figlio Ciccio, adole-scente dapprima abbandonato e poi ritrovato… Ipersonaggi sono spinti sulla scena temporale del1953, durante la processione dell’Assunta nel quar-tiere italiano di Cleveland, Ohio: ci sono gli echitormentosi di chi è emigrato per fuggire la miseriao inseguire un sogno, i sapori e i riti, le asprezze

Scibona La fine: audace esordio dello scrittore di origine siciliana

Nell’Ohio la processione del migrante

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«Vogliono tempo, le pagine di questo romanzo, dove ogni visotorna solcato da nuove rughe e con occhi più veri,

specchio di un’anima sempre meno vaporosa, in una caduta trascinante per durezza e dolcezza»

torna solcato da nuove rughe e con occhi più veri,specchio di un’anima sempre meno vaporosa, in unacaduta trascinante per durezza e dolcezza: «Eccodunque la nostra meta finale, il sogno di un bam-bino che si compie. Una volta che cominciamo a ca-dere… la nostra volontà ci appare chiara; voltiamola faccia verso il basso; non diciamo “cadere”, ma“tuffarsi”; osserviamo la terra che corre verso di noia incontrare i nostri occhi. Non è uno schianto.Siamo una linea che interseca un piano. Ci passiamoattraverso come proiettili».Giro, girotondo, e tutti giù per terra: Scibona, isuoi personaggi e noi con loro, per attraversare quelpiano – la vita – come proiettili.

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Scibona | La fine

a Lina, Rocco e agli altri. Ma è difetto irrilevante, ilsovraccarico, perché qui è misura di uno scrivere en-tusiasta che non si risparmia neppure nello sforzoadamantino di lessico e sintassi – apprezzabile inforza della traduzione di Beniamino Ambrosi. Lafine, nel suo farsi, si rivela così un complesso susse-guirsi di rimandi e spoliazioni, meschinerie e miseririscatti – un umano girotondo che ruota attorno apochi accadimenti: la processione religiosa che in-vade le strade con un chiasso che non copre le vocidella guerra in Corea, un pranzo frugale e uno stu-pro, alcune fughe e ritorni, parole dette e altre, nondette, che fanno marcire o preservano. Voglionotempo, le pagine di questo romanzo, dove ogni viso

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Page 39: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«Ognuno, a suo modo,

è intrappolato in un presente

statico, granitico,

con alle spalle un passato

di solitudine e perdite dolorose,

un passato da emigranti»

Luigi Di Chiara, flanerí.com, 17 maggio 2011

persecuzione capace di passare giornate intere a smoc-colare contro le moolinyans («le melanzane», i neri).Da Ciccio, ragazzo rude ma di buon cuore che subiràl’abbandono della madre prima e la tragica morte delpadre poi, alla vedova Marini, vecchia megera coin-volta in strani armeggi e attorno alla quale ruotanotutti i personaggi: «Portava una borsa nera. Il vestito,ovviamente, era nero; tutti i suoi vestiti erano neri. Isandali aperti che prese dall’armadio – era indifferenteal freddo ora, voleva apparire sconsiderata e regale allostesso tempo, la regina dell’Inferno – erano neri. Nonmetteva piede fuori di casa vestita di un colore diversodal 1915».

Sulla scia del cinema di Scorsese e Coppola – unicinel loro genere –, anche nei libri pare sempre più diffi-cile rinunciare alla tentazione di attingere al ricco ser-batoio dei cliché per raccontare gli italiani d’America.Ci sono ancora scrittori, però, in grado di farlo. È ilcaso di Salvatore Scibona, trentacinquenne americanodi origini siciliane, e del suo La fine, originalissimoromanzo d’esordio che è valso all’autore l’inserimentoda parte del New Yorker nella lista dei «20 under 40»,i venti più importanti autori di lingua inglese sotto iquarant’anni.Cleveland, 15 agosto 1953. A Elephant Park, il quar-tiere italiano della città, si festeggia il giorno dell’As-sunta. Le strade di quella Little Italy in miniatura ven-gono invase da una marea insolita di gente, sudata edeccitata. Insolita per una città tutta cenere e fango che«faceva dimenticare la bellezza», «mastodontico muc-chio di spazzatura – perfino il lago era marrone –» incui «nessuno veniva a divertirsi. Era un posto per per-sone che avevano smesso di essere bambini». In unferragosto frenetico fluiscono le torbide vicende di unmanipolo di gente comune, rese scintillanti da unalingua capace di aderire alle cose – di catturarne suonie odori e restituirli in modo acceso e vivo –, ma ancheattraversata da squarci di visionaria, dolorosa poesia.Tre generazioni di migranti che, con continui flash-back, riavvolgono il nastro della memoria in un arcotemporale di mezzo secolo, attraversando tutti i primicinque decenni del Novecento: dal panettiere Roccoche rifiuta di accettare la morte del figlio nella guerradi Corea, al grasso Eddie, pensionato con manie di

I personaggi di Scibona tra fisicità e tensione spirituale

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«In un ferragosto frenetico fluiscono le torbide vicende di un manipolo di gente comune, rese scintillanti

da una lingua capace di aderire alle cose, ma anche attraversata da squarci di visionaria,

dolorosa poesia»

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Scibona | La fine

modellano già, volenti o nolenti, ogni attimo delle no-stre vite:«…possiamo percepire noi stessi come soggetti chevagano senza meta nello spazio, quando invece eventiremoti ci hanno lanciato per lunghe orbite ellittichecome quelle delle comete, lontano dalle nostre origini,e alla fine il nostro percorso si compirà e torneremoalle persone le cui vite ci hanno preceduto e hannodato origine alle nostre…».È racchiuso tutto qui questo romanzo corale e poli-fonico, a suo modo epico per il suo essere per lunghitratti antiepopea spietata e crudele: in un continuoandirivieni fra routine e fuga, immobilità e cambia-mento, tra un inizio e una fine che non è mai tale per-ché apre sempre a un nuovo inizio, con già dentro isegni premonitori di un’altra fine ancora. L’ennesima,non certo l’ultima.

Ogni personaggio ha, accanto a una spiccata fisicità –fanno tutti lavori manuali duri e pesanti, colti nel loroimpasto quotidiano di sudore e fatica – fortissime ten-sioni spirituali. Ognuno, a suo modo, è intrappolatoin un presente statico, granitico, con alle spalle un pas-sato di solitudine e perdite dolorose, un passato daemigranti, da existential homeless, e davanti un futuroincerto che fa tremare e induce alla rassegnazione e al-l’immobilismo. L’unico modo per non essere schiac-ciati sembrerebbe, per tutti, un verbo, un gestoestremo: fuggire, scappare a gambe levate senza voltarsiindietro, «per disfarsi del vecchio sé e fare finalmentequello per cui si è stati creati».Ma è forse una legge matematica quella di dover tor-nare, prima o poi, sui propri passi. Una di quelle sot-tese al funzionamento dell’universo, che si ricercanoaffannosamente come il Graal senza accorgerci che

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Claudia Rocco, Il Messaggero, 20 maggio 2011

il fatto che in tanti posti del mondo si usa una lingua el’altra contemporaneamente: ho inserito la sintassi e lagrammatica italiana nella lingua americana, per dare lasensazione di un nuovo linguaggio». Il romanzo nonnasce, almeno nel suo caso, da un’idea preconcetta: «Ioaspetto che sia il personaggio ad agire. Mi butto nellasua stona. Quando dopo 2 o 3 anni sono passato ad unsecondo personaggio, mi sono accorto che stavo riscri-vendo situazioni simili. Ho avuto paura di non averfantasia, di essere ridondante. Invece poi ho capito diaver scoperto il tema del libro. Il fatto che tutti i perso-naggi scendono e salgono dai treni è il punto d’unione.I miei personaggi sono in fuga, come tutti noi, chi inmaniera fisica, chi emotiva, chi filosofica. Quando haila sensazione che ti stai ripetendo, fai attenzione: forsehai trovato nella tua mente quell’elemento da cui nonti libererai mai. È oro». A chi chiede spiegazioni sul per-ché abbia preferito il treno all’aereo, e quindi sceltoun’ambientazione nel passato, funzionale a questomezzo-metafora, risponde: «In aereo ti spedisci in unaltro paese, ti trasformi in e-mail, non vedi nulla deiposti che attraversi. In treno invece vedi ogni dettaglioed è questo il lavoro dello scrittore: far vedere».Affezionato alla sua macchina da scrivere, spiega cheil lavoro di battere, correggere e ribattere è «un tipodi meditazione. Ogni tentativo di rendere la scritturapiù precisa mi ha aiutato a dar senso all’essereumano».

«Ho iniziato a scrivere perché volevo pensare meglio.Scrivere è questo: una forma di pensiero più concen-trato. Scrivo perché voglio essere sveglio, e questoporta trovare la parola giusta. Si è finalmente vigili,coscienti». Chiude così il suo incontro lo scrittore ita-loamericano Salvatore Scibona, invitato ieri a chiuderela prima edizione del master di scrittura creativa dellaLuiss: la Luiss Wnting School. Presentato da AlbertoCastelvecchi, docente del corso, Scibona, anche luiinsegnante di scrittura creativa, ha spiegato la genesidel suo libro, La fine e offerto suggerimenti al pub-blico in sala. Un’opera prima dal linguaggio ricercato– la stesura è durata dieci anni – e con una traina riccadi spunti: più storie che raccontano fughe, attraver-samenti di confine, alla ricerca del fine ultimo: delsenso della propria vita. «È la storia di una famiglia edi un gruppo di, persone di origine italiana tra Cle-veland e il New Jersey, ma non è un libro sull’emigra-zione» sintetizza Castelvecchi. «La trama a spirale siavvolge tra fine Ottocento e prima metà del Nove-cento, con vari protagonisti, uniti dal bisogno, im-provviso, di andar via».Scibona, emozionato nell’ascoltare brani del suo ro-manzo letti in italiano da alcuni studenti, spiega il suolavoro sulla lingua: «Odio quando nei testi si storpianole lingue per far capire la provenienza dei protagonistie si inseriscono singole parole dell’idioma madre. Hocercato di inventare una nuova maniera per esprimere

L’autore italoamericano alla Luiss

Scibona, l’oro della ripetizione

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Guido Caldiron, Liberazione, 22 maggio 2011

ha incluso Scibona nella lista dei 20 migliori scrittoriunder 40 del momento.«La mia famiglia ha talmente rimosso la parabola mi-gratoria che in casa storpiavamo persino il cognome,che pronunciavamo Schibona, all’americana. Io sonoil primo Scibona ad aver messo piede in Sicilia, da benquattro generazioni» racconta ora l’autore della fine cheaggiunge: «Era la prima volta che mettevo piede fuoridall’ America. Per moltissimi italoamericani il Bel Paeseè un luogo mitico che esiste solo nella fantasia».Eppure per Scibona ripercorrere a ritroso la storia cheaveva finito per condurre i suoi avi dal paesino di Mi-rabella Imbaccari, provincia di Catania, fino a Cle-veland, era l’unica strada per comprendere davverole proprie radici e poterle raccontare. Perché se il suoromanzo muove dagli avvenimenti di un solo giorno,la sagra organizzata a Ferragosto del 1953 nella LittleItaly di Cleveland Elephant Park, a essere narratesono in realtà le vicende che hanno accompagnatomezzo secolo d’immigrazione italiana negli StatiUniti. «Come ogni anno il quartiere si trasforma inun carnevale di venditori ambulanti, gente di ognicolore, infinite varietà di cibo, mirabolanti giostre perbambini. Tra la folla svettano i portatori della Verginecon le loro tonache immacolate, che contrastano conla pelle scura della statua di Maria. L’aria della seraestiva porta in sé il sentore di un presagio, e per unavolta tutto sarà diverso», scrive Scibona.I personaggi di La fine, le cui vicende si intreccianopagina dopo pagina, sono votati al compimento diun progetto, la loro «missione» personale che ha

I pochi dati disponibili in materia parlano di pocopiù di quindici milioni di persone, discendenti diquei quattro milioni di nostri concittadini che solonel periodo compreso tra il 1880 e il 1915 varcaronol’Oceano per tentare la sorte negli Stati Uniti. Il ri-tratto degli italoamericani è quello di una comunitàche ha mantenuto le proprie tradizioni, l’italiano è laquarta lingua più parlata nelle case degli Stati Uniti,ma si è integrata in modo sempre più forte, malgradogli stereotipi che spesso accompagnano ancora oggila descrizione dei loro costumi e del loro stile di vitapresso una parte della società statunitense. Dopo ilcinema, due scrittori, uno italoamericano, l’altro ca-labrese, sono tornati di recente a interrogare la me-moria che ha accompagnato l’epopea dell’emigra-zione italiana verso il Nuovo Mondo. Un’occasioneper tornare a fare i conti con una storia continua-mente rivisitata negli Stati Uniti e percepita invececome sempre più remota nel nostro paese.Classe 1975, Salvatore Scibona è nato in una famigliadi origine siciliana a Cleveland, in Ohio, e si è lau-reato all’università dell’Iowa in scrittura creativa,prima di lavorare presso il Fine Arts Work Center diProvincetown. Per scrivere La fine, il suo romanzod’esordio pluripremiato negli Usa e appena pubbli-cato dalla dinamica casa editrice romana 66thand2nd– «Sixtysixthandsecond», vale a dire l’indirizzo del-l’incrocio tra la Sessantaseiesima Strada e la SecondaAvenue di New York –, ha viaggiato a lungo in Italiaper conoscere il paese dei suoi antenati, la Sicilia, eimparare l’italiano. Nel giugno del 2010 il New Yorker

La memoria dell’emigrazione italiana negli UsaUn viaggio andata e ritorno

La fine di Salvatore Scibona e La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi

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Page 43: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

Feast of the Assumption parade in Cleveland’s Little Italy, ca. 1950

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chi otteneva il visto, la tragedia di un fallimento senzaappello per chi veniva respinto. La leggenda di fami-glia tramanda che il nonno, malato, riuscì a passaregrazie a una misteriosa apparizione. Una donna, forsela Madonna, si prese cura di lui, e lo condusse, comein un sogno o in un miracolo, di là dalla frontiera, interra americana».È trovando per caso tra le cose di famiglia il diariodi nonno Giuseppe che Gangemi, ingegnere cala-brese già autore del giudice meschino (Einaudi,2009), ha capito che doveva scrivere La signora diEllis Island, il romanzo uscito all’inizio dell’anno perla collana Stile libero di Einaudi. «Mi è parso cheraccontare questa vicenda familiare, così simile atante altre, servisse a lasciare una testimonianza ve-rosimile del peregrinare e delle sofferenze della miagente: mai davvero protagonista degli eventi e dellala storia, li subiva piuttosto», spiega ora Gangemipresentando questo romanzo che oltre all’emigra-zione verso gli Stati Uniti racconta l’Italia del Fasci-smo e delle colonie, delle guerre mondiali, della’ndrangheta delle origini, del passaggio epocale versola modernità e il progresso.

spesso a che fare con la chiusura di un cerchio sim-bolico con quel primo, fondativo, atto che è rappre-sentato dalla scelta compiuta dalla propria famigliadi traversare il mare in cerca di una nuova vita. Perquesto, attingere alla fonte di tutto ciò, è diventatala benzina della scrittura del giovane italoamericanodi Cleveland. «Ogni settimana» racconta ancora Sci-bona «facevo un tuffo indietro nel tempo, visitandola mia bisnonna Domenica Spriglione con i miei fra-telli e sorelle nella sua mitica fattoria sperduta del-l’Ohio. Era lei la matriarca del clan e la mia grandemusa: un’analfabeta intelligentissima e spirituale, cheindossò il lutto dalla morte del marito nel 1952 finoalla propria nel 1994».Se per Salvatore Scibona è verso l’Italia che si compieil viaggio alla ricerca di sé, per Mimmo Gangemi ènell’approdo in America che prende corpo la realiz-zazione del proprio destino: in realtà si tratta dei duevolti della stessa storia. «Cent’anni fa mio nonnoGiuseppe partì per la Merica, terra della speranza edella gloria, e approdò, insieme a tanti altri disperati,a Ellis Island. Era in quei tetri stanzoni che si deci-deva la sorte dei dannati della terra: il paradiso per

Oblique Studio | ottobre 2011

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Page 44: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«La narrazione si muove tra un pugno di personaggi le cui vite sono legate l’una all’altra da vincoli

al tempo stesso familiari e sinistri»

Olivia Laing, The Guardian pubblicato su Internazionale, 26 maggio 2011

stesso familiari e sinistri. Alcuni momenti chiave – unpranzo, una parata religiosa, uno stupro – sono rac-contati più volte da diversi punti di vista, tecnica chesi dimostra di grandissima efficacia. Ma per quantoScibona sia un narratore abile e intricato, il fulcro delsuo interesse sta chiaramente nelle vite interiori deisuoi personaggi, e nel senso che danno alla morte, allastoria e all’identità. Al di là della strabordante ric-chezza del linguaggio, a far andare avanti La fine è ilterribile thriller intorno al quale è intessuto. È qui chela somiglianza con Graham Green si fa evidente: nelmagistrale abbinamento di questioni esistenziali e diuna trama serrata che fa un uso quasi crudele dellecoincidenze.

Fin dalla virtuosistica prima frase, lunga quasi una pa-gina, La fine si presenta come un’opera che richiedeattenzione, dove la serietà della materia trattata sisposa all’estrema elaborazione della prosa. Quando èstato pubblicato in America, il libro ha suscitato pa-ragoni con Virginia Woolf, Saul Bellow e GrahamGreene, e anche se questo fa sorgere il sospetto del-l’iperbole, c’è un’intensità d’intenti nello sforzo di Sal-vatore Scibona decisamente insolita in un romanzod’esordio. Il romanzo è ambientato in larga parte nellacomunità di immigrati italiani nell’Ohio, l’immagi-nario Elephant Park, nell’arco di sattant’anni. La nar-razione si muove tra un pugno di personaggi le cuivite sono legate l’una all’altra da vincoli al tempo

Scibona come Green: questioni esistenziali e trama serrata avvicinano i due autori

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Page 45: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

Florinda Fiamma, vogue.it, 31 maggio 2011

Stavo seguendo un mistero che mi svelava la storia unpo’ alla volta, fino a quando ho sentito che era finito.

Rocco è un personaggio rude?È un uomo d’altri tempi: viso durissimo, manienormi e forti, occhi assolutamente calmi. Per lui par-lare o essere affettuoso è irrilevante. Rocco è come miononno, che non aveva bisogno di dire a sua moglie«Ti amo»: l’amava e basta. Il legame emotivo è moltopiù profondo dell’affettuosità. Rocco è legato ai suoifigli e a sua moglie in maniera spirituale e fisica, lisente come parte del proprio corpo, ma non ha biso-gno di comunicarglielo.

Alcuni personaggi nel romanzo sono alla ricerca di qual-cosa, quasi di un compimento. Altri, come Rocco, invecesembrano non riuscire ad accettare che esista un fine.Tutti noi abbiamo un obbiettivo, al lavoro, nei sen-timenti, qualcosa che sentiamo stia per terminare inun punto. Questa è la fine. Ma quel punto non esiste,la fine non esiste. Inseguire il proprio momento difelicità crea frustrazione, perché spesso è più breve einsignificante di ciò che si può immaginare. Roccotocca il suo momento di felicità e si scontra con lasua evanescenza.

Se La fine diventasse un film con chi lo farebbe?Emanuele Crialese potrebbe raccontare la mia storia.Il suo Nuovo mondo è un capolavoro, è capace di guar-dare negli occhi i personaggi liberandoli dai cliché ob-soleti sugli immigrati italoamericani.

Una trama densa e complessa, a tratti visionaria, incui si intrecciano le sorti di tre generazioni, dal 1895fino agli anni Cinquanta: è la saga italo-americana dicui racconta Salvatore Scibona nel suo romanzod’esordio, La fine (66thand2nd). Sebbene ci sia unacerta coralità (una comunità vitale – tra cui una ve-dova abortista e un adolescente timido – invischiatain un crimine misterioso) il perno del romanzo lo in-contriamo già dalla prima pagina.È Rocco, «l’uomo lampadina», il panettiere stacano-vista che vive a Elephant Park, il quartiere immagina-rio (ma verosimile) di una città dell’Ohio, in cui è im-migrato da Catania quando aveva vent’anni. PerRocco il lavoro è una religione, ma quando riceve lanotizia che suo figlio è morto nella guerra in Coreadecide di chiudere finalmente il forno, che era rimastoaperto ininterrottamente per 29 anni.Un’epopea in cui le storie dei singoli emergono dauno sfondo comune, il Nuovo Mondo, un’Americache appartiene a chi si è distaccato dalle proprie ra-dici per crearne di nuove, con tutte le forme meta-morfiche di passaggio. Il New Yorker ha selezionatoScibona tra i 20 migliori autori di lingua ingleseunder 40.

La fine è il frutto di dieci anni di lavoro, pazienza ededizione…Se avessi immaginato che avrei impiegato tutto que-sto tempo a scriverlo, non l’avrei nemmeno iniziato!In realtà mi sono ripromesso di non abbandonarequesto romanzo, non avevo fretta di completarlo.

Storie di ordinaria disperazione

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Page 46: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

Nostre Migrazioni: storie di avi nel racconto collettivo di un italoamericano

Il tempo, dopotutto, è solo un vetro da fare a pezzi.Per spaccarlo possono servire derive liriche, un amoresfrenato per i propri personaggi e una scrittura che,con la sua forza, allontani il fantasma del tic tac del-l’orologio. L’italoamericano Salvatore Scibona li usacome ingredienti nella Fine, tradotto da BeniaminoAmbrosi.Candidato al National Book Award, l’autore, classe1975, è per The New Yorker tra i 20 scrittori under 40su cui scommettere.Il libro tocca la storia di alcuni immigrati italiani diprima e seconda generazione e lo fa partendo dal 15agosto 1953, mentre la processione per l’Assunta per-corre le strade di Elephant Park in Ohio. Un’affollatascena madre che sarà attraversata, in un modo o nel-l’altro, da tutti i personaggi del romanzo: dal fornaioRocco LaGrassa, «un cristiano come tanti» che haperso un figlio in un campo di prigionia in Corea,

all’anziana signora Marini, crudele e imparruccata,ma affettuosa con Ciccio Mazzone, unico enigmaticoadolescente sulla scena, che non vede l’ora di scapparedal padre Vincenzo. Con Scibona si ride, si piange esi torna in un immaginario che negli Usa è statospesso attraversato da letture di genere, dove l’immi-grato si riscatta, magari in Cosa nostra o seguendol’american dream. Qui no, il sogno è lontano, ogni«striscia» di vita che l’autore descrive è fallimentare,ma aggiunge qualcosa al racconto di un’esperienzaantropologica: quella dell’immigrato che non parlauna parola del paese in cui approda, che del mondoche ha lasciato riceve scarse notizie per lettera, cheodia i «colorati» neri perché non li conosce. Scibona,di quell’epoca, dà una ricostruzione sentimentale inun nervoso equilibrio tra affetto e nostalgia. Non èun libro facile da leggere, ma i frammenti di quelvetro spaccato hanno un riflesso raro.

Alessandro Beretta, Rolling Stone, maggio 2011

«Con Scibona si ride, si piange e si torna in un immaginario che negli Usa è stato spesso

attraversato da letture di genere, dove l’immigrato si riscatta, magari in Cosa nostra o seguendo

l’american dream. Qui no»

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La fine: due recensioni

Siamo arrivati alla fine Letture per viaggiare o per sognare…

L’autore, Salvatore Scibona – ita-loamericano classe ’75 – ha dettoche le prime 40 righe gli sono co-state cinque anni di lavoro. D’al-tra parte è un colossal: un ro-manzo che racconta mezzo secolodi immigrazione italiana negliUsa – al centro la sagra del 15agosto 1953 a Cleveland – attra-verso cinque personaggi (e tre ge-nerazioni). Rocco LaGrassa, for-naio di Elephant Park, distruttodalla morte del figlio nella guerrain Corea. Una vedova novan-tenne che pratica aborti e parlacoi morti; un adolescente ribelle;una sarta che lavora a cottimo e un gioielliere checolleziona lettere dei soldati confederati. Con que-sto libro, il suo esordio, Scibona è stato consacratodal New Yorker tra i 20 migliori scrittori under 40.Ps: L’ultima volta che il magazine aveva stilato laclassifica era il ’99 e uno dei 20 era Franzen.

Marta Cervino, marie claire, maggio 2011 Daniela Liucci, suitecasemagazine.com, maggio 2011

Non capita spesso che il «severo» esnobetto New Yorker ti selezioni tra ipiù grandi autori di lingua inglesesotto i 40 anni. È un privilegio spet-tato, nel tempo, a pochi eletti comeJonathan Franzen e David FosterWallace. La ragione dell’ambito ri-conoscimento risiede in La fine,esordio di Salvatore Scibona, trenta-cinquenne italoamericano. Un’epo-pea che parla di immigrazione, radicie incroci sociali che, una prosa riccadi immagini e tradizioni italiane fil-trate dalla scoperta del NuovoMondo, riesce a far andare avanti edietro nel tempo, nei primi decenni

del XX secolo, ancorandola a un luogo e un giorno pre-ciso: Elephant Park, il «ghetto» italiano di Cleveland, il15 agosto del 1953, giorno in cui comincia l’invasioneafroamericana del quartiere. Nel mezzo, caduti in Corea,processioni, fornai in lutto, ostetriche improvvisate, ado-lescenti confuse, panettieri e una coloratissima umanità.

«Un’epopea che parla di immigrazione, radici e incroci sociali»

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«Un libro difficile, un libro per chi ha l’infinita pazienza

di tornare sulle pagine, di rileggere, di segnarsi dei punti di riferimento

per non perdere la bussola. Un romanzo troppo costruito»

Vera Gandi, linkiesta.it, 5 giugno 2011

opportuno leggerlo nella versione originale in inglese,riconoscendo la priorità del linguaggio rispetto allatrama (e sottintendendo che forse nella lingua originalela lettura sarebbe meno ostica). Io l’ho fatto e posso con-fermare che questo è un libro difficile, un libro per chiha l’infinita pazienza di tornare sulle pagine, di rileggere,di segnarsi dei punti di riferimento per non perdere labussola. Un romanzo troppo costruito, in cui l’autore-ferenzialità dello scrittore, il suo crogiolarsi sul piano lin-guistico, emerge in ogni personaggio, per quanto diversoe caratterizzato con maestria sul piano descrittivo: unpanettiere, un’anziana «mammana» e il marito, mortoda trent’anni, un adolescente a disagio con la propria si-tuazione familiare, un gioielliere, una coppia felicementescaturita da un matrimonio combinato ma condannataa separarsi. Personaggi pennellati sapientemente cheperò parlano e pensano come Scibona, al di là dei proprilimiti culturali e linguistici, e non acquistano l’indivi-dualità che contribuisce a tenerci attaccati alla storia. Equando finalmente, ostinatamente, arriviamo all’ultimapagina, ci chiediamo se davvero questa è la fine, o forsesiamo ancora nel mezzo o all’inizio.

La «fine» che dà il titolo al libro, non arriva alla conclu-sione del romanzo, ma ben prima, più o meno con leprime 100 pagine in cui si dipana la storia di Rocco La-Grassa, panettiere emigrato dall’Italia in America neiprimi anni del Novecento, nel quartiere italianizzato diElephant Park nello stato dell’Ohio. La sua storia malin-conica si evolve fino al 1953, nel giorno della grande pro-cessione per l’Assunzione. Poi lo scrittore torna indietronel tempo e riparte con le storie di altri sei-sette perso-naggi, tutti residenti a Elephant Park – storie che, puroscillando fra passato e presente, pur incrociandosi l’unacon l’altra, arrivano anch’esse a quella grande festa di fer-ragosto. E molto, troppo lentamente, ci si accorge che levicende di ognuno dei tanti personaggi girano intornoallo stesso nocciolo narrativo – nocciolo che Scibona siingegna sadicamente a nasconderci dietro a una spessacortina fumogena stilistica, dietro a un intarsio di paroleselezionate una ad una, in dieci anni di lavoro e di cer-tosina ricerca culminati in questo suo romanzo d’esordio.Ma per il lettore quale insopprimibile tentazione di mol-lare tutto! Nonostante la critica, che ha paragonato Sci-bona a Saul Bellow, Graham Greene e Virginia Woolf.E nonostante gli autorevoli premi ricevuti negli StatiUniti: nel 2008 lo scrittore è stato finalista del NationalBook Award, nel 2009 ha ricevuto il Young Lions Fic-tion Award e il Whiting Writers Award. Non solo: nel2010 è stato selezionato tra i 20 più grandi autori di lin-gua inglese sotto i 40 anni d’età dal New Yorker.Anche in Italia, dove La fine è stato appena pubblicatoda 66thand2nd, gli elogi sono risuonati in sedi autore-voli. Ma c’è chi, sottilmente, si è chiesto se non fosse

Quando la fine è solo l’inizio

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«La finenarra le vicende

dei suoi, dei nostri, emigrati come uno specchio

impolverato svela in profondità ciò

che siamo. In quello specchio,

oltre a vedere noi stessi,cogliamo i volti,

le espressioni, i tratti delle generazioni

che ci hanno preceduto»

Red., frammenti-e-pensieri-sparsi.over-blog.it, 6 giugno 2011

trascurabili perfino, ma resi indimenticabili dalla lorofede incrollabile nella ricerca del proprio compi-mento, nel realizzare quel determinato atto, quel par-ticolare progetto, con l’idea che al termine del per-corso sia possibile trovare la fine di tutto. SalvatoreScibona tesse una serrata trama di eventi, costellatadi indizi nascosti, ambientata negli anni Cinquantatra gli immigrati della comunità italoamericana diCleveland, Ohio, e segnata da un crimine mai svelatoche informa le vite dei protagonisti. Un’opera prima

Ieri (il 5 giugno 2011), mi è capitato di ascoltare inradio (Radio Capital) un progamma di recensioni let-terarie in cui si parlava del romanzo dell’americanostatunitense Salvatore Scibona (La fine), programmache si fondava anche su di un’intervista realizzata di-rettamente con l’autore, tra l’altro capace di esprimersicorrettamente in italiano. Ho trovato la presentazionedel romanzo estremamente interessante e sono andatoa documentarmi.Ecco il risultato della mia ricerca.

Nella Fine di Salvatore Scibona, americano e discen-dente proprio da quegli immigrati italiani che in partefecero l’America, viene raccontata – nel cuore imma-ginario del Cleveland – una storia di immigrati ita-liani: una storia di decisioni determinate e determi-nanti che tingono di nero le vite grigie dei personaggi.È un romanzo che viaggia sui binari temporali di unasola giornata, quella del 15 agosto del 1953. È la festadell’Assunta a Elephant Park e, come ogni anno, ilquartiere si trasforma in un carnevale di venditoriambulanti, gente di ogni colore, infinite varietà dicibo, mirabolanti giostre per bambini. Tra la follasvettano i portatori della Vergine con le loro tonacheimmacolate, che contrastano con la pelle scura dellastatua di Maria. L’aria della sera estiva porta in sé ilsentore di un presagio, e per una volta tutto sarà di-verso. Una vedova abortista, un adolescente intro-verso, un’enigmatica sartina, un marito abbando-nato, un gioielliere che colleziona lettere diconfederati e Rocco, il panettiere. Individui ordinari,

Nel romanzo dell’italoamericano Salvatore Scibona le nostre radici di migranti

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«Salvatore Scibona tesse una serrata trama di eventi, costellata di indizi nascosti, e segnata da un crimine mai svelato che informa

le vite dei protagonisti»

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Scibona | La fine

Writing School – il master di Scrittura Creativa dellaLuiss «Guido Carli» – ha organizzato una lecture conl’autore, dal titolo Italia-America solo andata, in oc-casione della presentazione del libro. L’evento, realiz-zato dagli allievi della scuola, si è tenuto alle ore 11nella sede di viale Pola della Luiss.Insieme all’autore, è intervenuto Alberto Castelvecchi.L’autore – questa è la cosa rimarchevole e curiosa, altempo stesso – ha realizzato la sua opera scrivendolainteramente a mano, attraverso una serie di riscritturesuccessive che hanno conferito alla sua prosa la qualitàdi un pregevole distillato.

che sfiora, con garbo e capacità di introspezione, igrandi temi della vita attraverso i pensieri e le rifles-sioni dei suoi personaggi, facendo scivolare il lettorenel puro piacere di un’avida lettura. La fine narra le vicende dei suoi, dei nostri, emigraticome uno specchio impolverato svela in profonditàciò che siamo.In quello specchio, oltre a vedere noi stessi, cogliamoi volti, le espressioni, i tratti delle generazioni che cihanno preceduto. Salvatore Scibona racconta unastoria che attraversa l’Italia da nord a sud e s’insinuatra le vie di paesi e province, e poi su, in qualchestanza abbandonata per cercar fortuna altrove. Ci ri-corda il nostro passato di migranti, mai davvero con-cluso e già dimenticato. Saranno state le origini ita-liane, e in particolare siciliane, ad aver spinto l’autorein una narrazione tanto articolata, che si chiude tut-tavia come un cerchio verso il principio di tutte lestorie: la vita.Nato a Cleveland, Ohio, Salvatore Scibona ha solotrentacinque anni e da quando ne aveva dieci ha de-ciso che nella vita avrebbe fatto lo scrittore.È diventato il caso letterario degli States e ora è prontoa conquistare l’Italia. Con il suo romanzo d’esordio,La fine, edito da 66thand2nd in lingua italiana, l’au-tore ha vinto nel 2009 il Young Lions Fiction Awarde il Whiting Writers Award, l’anno prima è stato fi-nalista del National Book Award. Non solo: è stato selezionato tra i 20 più grandi autoridi lingua inglese sotto i 40 anni d’età dal New Yorker.Docente nella scuola di scrittura Fine Arts Work Cen-ter di Provincetown nel Massachusetts, Scibona (il cuinome si pronuncia, in realtà, «Skibona») ha studiatoscrittura creativa con Marilynne Robinson all’IowaWriters’ Workshop. E proprio una scuola di scritturalo ha ospitato lo scorso 19 maggio, a Roma. La Luiss

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«Gli atti, le azioni degli uomini diventano oggetto di una ruminazione interiore, di una manipolazione

di acqua e farina spirituali da cui verrà fuori il pane dell’anima»

Red., soulfood-capital.blogautore.repubblica.it, 8 giugno 2011

Un elemento – questo della manualità – che in qual-che modo lascia traccia nella prosa che anche nella tra-duzione italiana di Beniamino Ambrosi riesce a ren-dere nella sua forza. Una potenza di penetrazione dellecose, di intaglio, di fisicità a cui i vari personaggi le-gano il loro peregrinare interiore di fronte agli eventie alle sorprese della vita che la nuova terra riserva loro.L’America li sottopone a choc culturali e interiori, litrasforma, cambia il loro punto di visione con unostrappo. Di questo dolore sono intessute le vicendedei personaggi chiave – come il fornaio Rocco chenon chiude mai la sua bottega e perderà il figlio inCorea, o la vedova Marini abortista che dialoga coisuoi fantasmi passati, dopo il suo arrivo giovanissimadal Lazio e un matrimonio per procura: oppure Linae suo figlio Ciccio, un adolescente inquieto abbando-nato, poi ripreso; o il gioielliere che ha un segreto ter-ribile da confessare. Le loro storie (con al centro unpranzo, uno stupro raccontati anche da diversi puntidi vista) si dipanano in capitoli e con ramificazioni trapassato e presente, dispiegando più un flusso di co-scienza che un racconto storico. È vero c’è un luogo

La fine di Salvatore Scibona, non è solo un romanzoin cui si intrecciano le storie di tre generazioni di im-migrati italiani la Cleveland, Ohio, tra inizio Nove-cento e una data (e un luogo o scena madre) diestrema catalizzazione di tutte le storie: il 15 agosto1953, alla processione dell’Assunta nel quartiere ita-liano della città. Con La fine Scibona ha costruito undispositivo linguistico capace di mettere atto attra-verso il linguaggio quella che è stata la sofferenza, ildolore e lo strappo di una mutazione antropologica.L’epopea della migrazione, che altri – il cinema o certanarrativa storica – ha raccontato secondo canoni pre-definiti, diventa nelle parole di Scibona, il magma diun’elaborazione interione ininterrotta, l’empatiaumana interire che l’autore mette in gioco creando eseguendo i suoi personaggi in vicende a dire il vero«ordinarie» come poteva esere ordinaria la vita di Leo-pold Bloom a Dublino.Scibona è un esordiente di 36 anni, ma ha lavoratoper dieci anni a questo libro, scrivendolo e riscriven-dolo, manualmente e poi copiandolo e ricopiandolocon una macchina da scrivere.

L’America si rivela un romanzo incompiuto… che cercacontinuamente la sua fine

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«Una potenza di penetrazione delle cose, di intaglio, di fisicità a cui i vari personaggi legano il loro peregrinare interiore

di fronte agli eventi e alle sorprese della vita che la nuova terra riserva loro»

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Scibona | La fine

critici – è fitta di controstorie, di anime frastagliateche albergano anche in poveri immigrati invisibili eapparentemente minuti.Da questo punto di vista è un romanzo dell’individua-lismo e dell’ombra, che si riallaccia alle tradizioni diDeLillo e che nell’essere inserito nella Top 20 degliunder 40 del NewYorker (come era accaduto a Wallacee Franzen al loro esordio) è stato accostato ai grandiautori del Novecento americano. Romanzo in cui lamigrazione diventa slittamento di punti di vista, radicirecuperate in una visione del presente è restituita nellaforza della tragedia sacra ed esistenziale che Scibona saestrarre dai suoi personaggi in un mix di eventi e di il-luminazioni. La vita è una «striscia», traccia madreper-lacea di lumaca, che usa il linguaggio come la vernicedelle icone, steso sulle cose della vita ne restituisce laloro sacralità nuda che ha tuttavia smarrito Dio.

convergente e c’è un segreto da svelare, ma gli atti, leazioni degli uomini diventano oggetto di una rumi-nazione interiore, di una manipolazione di acqua e fa-rina spirituali da cui verrà fuori il pane dell’anima,fino a costruire un elaborazione corale sul senso cheha l’identità, la storia, la morte. È una filosofia del-l’America, della promessa e della mancata redenzionequella che stritola i vari personaggi, riconsegnandolial presente della storia americana, in apparenza malatadi futuro, di promessa, ma che poi alla fine si rivela –a noi e a gli occhi dei tanti everyman (o detto all’ita-liana «un cristiano come tanti») della comunità ita-liana – un fallimento, un mancato compimento.L’America si rivela un romanzo incompiuto, un ro-manzo che cerca continuamente la sua fine. La storiaamericana – come insegna il maestro di Scibona chene è anche un degno e possibile erede secondo molti

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Salvatore Scibona, Jaimy Gordon, Corriere della Sera, 14 giugno 2011

il Fine Arts Work Center di Provincetown – l’istitutouniversitario che assegna borse di studio e residenze ascrittori e artisti emergenti. È lì che questa conversa-zione ha avuto luogo. Entrambi fanno parte della giu-ria del Work Center che assegna le borse di studio inscrittura creativa.

Salvatore Scibona: La prima volta che ho provato ascrivere un romanzo stavo cercando un modo per faresoldi. Avevo dieci anni. Ero americano, vivevo in pe-riferia, e non c’era nulla che volessi fare che non ri-chiedesse un po’ di soldi. Credo che uno dei motiviper cui ho continuato a gravitare attorno alla scrittura,dopo che ho smesso di considerarla stupidamenteun’attività redditizia, è che si trattava di qualcosa chepotevo fare senza tirare fuori un centesimo. Di cartaa casa ce n’era. Poi mi è balenata l’idea di procurarmiuna macchina per scrivere. Ho pregato i miei genitoridi comprarmela per tre o quattro anni. Andavo a casadi mia nonna, che ne aveva una. Penso fosse unaRoyal. Era bianca, elettrica. È stata lei a insegnarmi abattere sui tasti.Jaimy Gordon: Hai sempre sentito che avresti avutosuccesso, che in un modo o nell’altro ce l’avresti fatta?Salvatore Scibona: Ho iniziato da poco un raccontocon questa frase: «Non ho mai avuto alcuna speranzadi farcela. E questa grazia mi ha dato la salvezza». È laverità. Non avevo semplicemente dei dubbi. Ero si-curo di non avere alcuna speranza. Ma sentivo, perquanto sia banale dirlo, di avere una vocazione. Ora

Dialogo tra due scrittori di successo: Scibona a 36anni, la Gordon a 66. L’impronta del passato: «Leg-gendo il mio libro, la gente pensa che sia cresciuto inun quartiere italiano. Non è così, ma quelle sono lemie radici». Passioni estreme: «Sono una che passa lavita per strada in mezzo ai criminali e mi disgustal’educazione borghese che ho ricevuto».

Il primo libro di Salvatore Scibona, La fine, appenapubblicato in Italia dalla casa editrice 66thand2nd(traduzione di Beniamino Ambrosi) è stato tra i fina-listi al National Book Award e ha vinto il Young LionsFiction Award della New York Public Library e il Nor-man Mailer Cape Cod Award for Exceptional Writing.Nel 2010 Scibona, nato il 2 giugno 1975, è stato in-cluso dal New Yorker tra i «20 under 40», la lista deimigliori scrittori d’America sotto i quarant’anni. Illibro è già stato pubblicato in Francia e Inghilterra euscirà nelle prossime settimane in Germania, Porto-gallo, Spagna e Croazia. Il romanzo di Jaimy GordonLord of Misrule, ambientato in un ippodromo del WestVirginia negli anni Settanta, ha vinto il National BookAward nel 2010. L’autrice – mai tradotta in italiano –ha scritto altri tre romanzi, Shamp of the City-Solo, SheDrove Without Stopping e Bogeywoman, incluso dal LosAngeles Times tra i migliori romanzi del 2000. Nata aBaltimora il 4 luglio 1944, la Gordon vive a Kalama-zoo, nel Michigan, e insegna alla Western MichiganUniversity oltre che per il Prague Summer Program forWriters. Sia Scibona che la Gordon hanno frequentato

Contaminazioni e incontri di civiltà mentre esce La fine, esordio dell’autoreitaloamericano

L’immigrazione dà vita alla cultura

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Scibona | La fine

del loro narcisismo». Preferisco la seconda. Rende ra-gione della nostra cattiveria, ma anche della capacità diandare oltre noi stessi. Ora però vorrei che rispondessia questa domanda. Ci sono degli scrittori che consi-derano la scrittura come una specie di tortura. E poici sono persone che descrivono la loro esperienza crea-tiva come un infinito giubilo. Tu da che parte stai?Jaimy Gordon: Scrivere, per quanto io ne abbia bisogno,e ami farlo, è una specie di sofferenza. Sono intellettualein maniera instancabile, ma sono anche una che passala vita per strada, tra i detenuti e i criminali. Non hovie di mezzo. A dire il vero, l’unica cosa che mi disgustaè l’educazione borghese che ho ricevuto. Era di unanoia mortale. E tu, in che posto sei cresciuto?Salvatore Scibona: Leggendo il mio libro, la gente pensache io sia cresciuto in un quartiere italiano. In realtànon è così. Però sono le mie origini profonde. Nelsenso che i miei nonni sono cresciuti in quei quartieri.Siamo noi a dover inventare il passato. I miei parentilavoravano nel campo delle costruzioni. Facevamo

però voglio dire io una cosa di te. Tu sei sempre statadevota alla scrittura, eppure il tuo magnifico lavoroera conosciuto solo da pochi lettori. Poi, all’età di 66anni, in circa tre secondi la tua vita è stata rivoluzio-nata e hai vinto il National Book Award. Sono statotestimone di quel momento e ho provato una gioiaassoluta. C’è una giustizia in questo mondo. Non tifa sentire orgogliosa?Jaimy Gordon: Direi sollevata. Sono contenta che lepersone che credevano in me abbiano finalmente rice-vuto una ricompensa. E tu che ne pensi dell’orgoglio?Salvatore Scibona: L’orgoglio in sé indurisce il cuore.Ma essere orgogliosi per qualcun altro è una gioiaimmensa.Jaimy Gordon: È vero. E quando ti senti sottovalutato,la giusta reazione è apprezzare il lavoro degli altri…Salvatore Scibona: Mi vengono in mente alcune affer-mazioni contraddittorie. Una è di Gore Vidal: «Ognivolta che un mio amico ha successo una parte di memuore». All’estremo opposto c’è Freud: «Coloro cheamano hanno dato, per così dire, in pegno una parte

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«Viene da chiedersi se quella specie di influenza mitica che deriva dall’avere più di una lingua in casa, non dia forma

all’esperienza che quello scrittore acquista del mondo»

chi». I miei nonni paterni, da bambini, per prima cosasi sentivano italiani; quelli materni si consideravanopolacchi. Era la lingua che parlavano a casa a determi-nare la loro identità. Frequentavano per la maggiorparte bianchi di altre etnie che a casa parlavano linguediverse. Ma poi per salire nella scala sociale, per diven-tare americani, dovevano prima di tutto essere bianchi.E per tali riuscivano a passare. E questo significava cre-dere alla storiella che fai parte del ceto medio, e che lepersone all’interno di quel ceto sono tutte uguali.Jaimy Gordon: Il tema dell’immigrazione è davvero in-teressante. La generazione successiva ai primi arrivatinel nostro paese, cioè la prima generazione nata inAmerica, è sempre stata incredibilmente produttiva ecreativa. Voglio dire, loro godono del beneficio dellacultura tradizionale, forse di una disciplina più dura,di una maggiore chiarezza circa la propria educazionee i relativi obiettivi. Devono scrollarsi di dosso la fe-deltà verso un simbolo, qualunque esso sia, la chiesacattolica, la sinagoga ortodossa. Ma allo stesso tempoquella generazione è sempre così creativa.

Ha continuato a mandare avanti la fattoria fino al-l’età di 85 anni. Ha guidato lei il trattore finché nonè stata costretta a letto.Jaimy Gordon: Ho paura quando la cultura americananon riceve nutrimento da una nuova generazione diimmigrati. Immigrati provenienti da qualunqueposto. Perché il problema della cultura americana èche crede così tanto nel fenomeno del momento cheè sempre focalizzata sull’ultima novità. Gli americanisono fantastici per il loro ottimismo, per come accol-gono ciò che arriva di nuovo. Ma è necessario fare in-nesti da una cultura più tradizionale perché vengafuori qualcosa di interessante.Salvatore Scibona: Noi americani abbiamo sempreconvissuto con l’idea che stavamo contribuendo alprogresso, a creare le premesse per una nuova era. Eabbiamo sempre convissuto anche con l’influenzacontinua di culture che erano decisamente più antichedella nostra.Jaimy Gordon: A prescindere dal tipo di cultura. Que-sta è la cosa interessante.

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Salvatore Scibona: Gli ultimi anni ci hanno regalatouna nuova esplosione di scrittori americani di primagenerazione, che hanno avuto un forte impatto sullanostra cultura. Viene da chiedersi se quella specie diinfluenza mitica che deriva dall’avere più di una lin-gua in casa, non dia forma all’esperienza che quelloscrittore acquista del mondo. In famiglia, la personapiù anziana che ho conosciuto era la mia bisnonna.Quando parlava non la capivo. Non parlava neancheitaliano. Parlava in dialetto, siciliano, e parlava que-sto inglese astruso che solo i suoi figli riuscivano acapire. La andavamo a trovare regolarmente nella suafattoria, in Ohio. Andare a casa di mia bisnonna eracome entrare nel diciassettesimo secolo. Il marito eramorto da 45 anni e lei continuava a vestirsi di nero.

parte del ceto medio, o così credevo; non conoscevonessuno che non appartenesse a quella classe. Il pe-riodo descritto nel mio libro coincide con l’inizio del-l’integrazione degli italiani emigrati in America. Esserebianchi significava appartenere alla classe media. E sei neri si trasferivano nel tuo quartiere, automatica-mente entravi anche tu a far parte dei ceti più umili.Perché essere nero significava appartenere alla classepovera. E tu dovevi starne fuori. Una volta hanno chie-sto a Toni Morrison come mai gli immigrati europeipotessero arrivare in America e, nel giro di due o tregenerazioni, entrare a far parte della classe media; men-tre i neri erano qui da quattrocento anni e non ci eranoancora riusciti. E lei ha risposto così: «Perché subitodopo il loro arrivo, quegli immigrati diventavano bian-

Oblique Studio | ottobre 2011

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Claudio D’Ambra, Solidarietà Come, 15 giugno 2011

il proverbiale zio d’America con la sua inaspettata ericca eredità. Ricordarlo ogni tanto aiuta a guardare«il nuovo arrivato» con meno pregiudizi.La fine, romanzo d’esordio del giovane scrittore italoamericano Salvatore Scibona, è ambientato propriotra gli emigrati italiani in America e racconta una sto-ria che però dall’elemento paese di origine non trae lapropria fonte ma solo il contesto in cui si sviluppa, ri-nunciando innanzi tutto alla tentazione di attingere aquella ricca riserva di cliché che si utilizzano comu-nemente per raccontare gli italiani d’America.L’autore, classe 1975, inserito dalla prestigiosa rivistaletteraria The New Yorker tra i «20 Fiction Writers toWatch under 40», muove le vicende dei suoi perso-naggi nelle strade di Elephant Park, un’immaginariaLittle Italy a Cleveland nell’Ohio. Con la tecnica delflashback, tre generazioni di migranti ripercorrono laloro storia lungo un arco temporale di mezzo secolo,attraversando i primi cinque decenni del Novecento.L’anziana vedova Costanza Marini, sempre vestita dinero, che pratica aborti clandestini e attorno a cuiruotano tutti gli altri personaggi. Ciccio Mazzone,adolescente ribelle ma di buon cuore, segnato dallaperdita della madre prima e del padre poi, che si in-terroga sull’esistenza di Dio.Eddie, grasso pensionato con manie di persecuzionee razzista.Un gioielliere che colleziona lettere di soldati confe-derati, colpevole di un orribile crimine.E avanti a tutti Rocco LaGrassa, panettiere, che rifiutadi accettare la morte del figlio nella guerra di Corea e

Quella del migrante non è certo una figura nuova,solo recentemente assurta agli onori della cronaca, fi-glia del «macluhaniano» villaggio globale, in terminilocali dei confini mobili dell’Unione europea, o piùbanalmente della maggiore facilità negli spostamentitout court. Secondo le statistiche, per ovvi motivi noncompletamente attendibili, tra il 1800 e il 1930 circa40 milioni di uomini sarebbero emigrati verso altricontinenti. In Italia il fenomeno si stima abbia rag-giunto il picco massimo nei primi anni del secoloscorso, seguito, durante il periodo fascista, da movi-menti interni che hanno anticipato la grande ondatadiretta verso le grandi fabbriche nelle città del Norddegli anni Cinquanta e Sessanta.Oggi il fenomeno, monitorato e analizzato con me-todo e precisione, viene universalmente consideratouna costante del panorama mondiale. Non un eventocontingente destinato in futuro a recedere ma una ca-ratteristica stabile e strutturale delle nostre società, neicui confronti l’unico atteggiamento realistico è l’im-pegno collettivo a governarlo. Si registrano migrantivolontari per necessità economiche o ragioni politichee migranti involontari, ancora per necessità economi-che o ragioni politiche, accanto a chi si muove per unricongiungimento famigliare o ancora a tutti coloroche attraversano un confine periodicamente come ilavoratori frontalieri o gli stagionali. In sintesi, i mi-granti non sono tutti e solo quelli che arrivano oggi aLampedusa o che si «fermano» tragicamente a metàstrada in acque internazionali. Migranti sono stati per-sino i nostri bisnonni, non si spigherebbe altrimenti

Nel romanzo dello scrittore italoamericano Salvatore Scibona si intrecciano le storie di tre generazioni di italiani emigrati

Migranti: la fine del viaggio

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«Il migrante, per necessità,vive nell’immediato:

la sua prima preoccupazione è trovare

lavoro e denaro. Solo le generazioni

successive si potranno poi permettere il lusso dicercare un proprio posto

nella storia»57

tra immobilità e profondo cambiamento. Il raccontoè allo stesso tempo epico, per l’impegno dei perso-naggi intenti a raccogliere i frammenti delle loro storiepersonali e a trovare un senso al viaggio che li ha por-tati da quest’altra parte del mondo, e antiepico inveceper la quotidianità dei fatti narrati. È un lavoro coralee polifonico dove ogni figura presenta tanto un’in-tensa fisicità quanto una forte tensione spirituale che,pagina dopo pagina, svela il proprio carattere intimoe complesso.L’autore infatti, attraverso un’attenta ricerca quasipoetica della singola parola, carica tutti questi suoi ca-ratteri sostanzialmente ordinari, di uno spessore psi-cologico anche quando forse non sarebbe necessario.Vuole la leggenda infatti che la stesura del romanzoabbia richiesto ben dieci anni e che sia stato scrittonon con il computer ma con la macchina da scrivereperché, secondo Scibona, favorisce una maggiore con-centrazione. Sono quasi 400 pagine cariche di inten-sità e di passione. Una lettura sì impegnativa ma che,proprio per questo, può dare una grande soddisfa-zione. Da tenere quest’estate, se non proprio sottol’ombrellone, almeno sul comodino accanto al lettoin albergo.

decide di chiudere il suo baker shop per andare a ri-trovare gli altri due figli e la moglie che lo hanno la-sciato molti anni prima.

IL VIAGGIOIl tema del viaggio ritorna. Non è più la migrazionecon i contorni dell’evento mitico, ma resta pur sempreun percorso di ricerca che con sé porta comunquetutte le insicurezze di chi sa che a breve non sarà più«a casa» là da dove è partito e che ancora non è «acasa» là dove è arrivato.Quella condizione, detta di «doppia assenza», per cuiil migrante, allo stesso tempo prigioniero di duemondi e alieno in entrambi, adotta comportamentiper salvaguardare la propria immagine del sé e strate-gie per difendere e rafforzare la propria identità, sce-gliendo per esempio di chiudersi, almeno in un primomomento, all’interno di una comunità circoscritta incui idealizzare il passato e rifiutare il presente.L’autore spiega che il migrante, per necessità, vivenell’immediato: la sua prima preoccupazione è trovarelavoro e denaro. Solo le generazioni successive si po-tranno poi permettere il lusso di cercare un proprioposto nella storia. Se la persona possiede sufficientistrumenti per elaborare l’esperienza: lo stato di tran-sizione tra la terra d’origine e quella di approdo, il sen-timento di perdita, la separazione e lo sradicamento,supera la crisi trasformando l’evento in un’evoluzionee in una nuova identità.«I miei bisnonni» racconta Scibona in un’intervista«erano tutti immigrati e sono cresciuti con il mo-mento presente, gli importava vivere la vita per quelloche era. Così, quando ho deciso di scrivere un ro-manzo, ho cercato di assumere il loro punto di vistaed essere quindi consapevole solo io, non i personaggi,del contesto storico in cui si muove la vicenda».Il romanzo in questo senso segue, in secondo pianoma con chiarezza, l’evoluzione di un angolo di quel-l’Italia contadina rimasta confinata e immutata neltempo che d’improvviso è entrata in contatto con ilpiù ampio contesto del Nuovo Mondo.La storia sviluppa un intreccio di episodi che attraver-sano spazio e tempo in continuo equilibrio precario

Oblique Studio | ottobre 2011

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«Tre generazioni narrate attraverso una scrittura

virtuosistica, di ascendenza

modernista, nella quale flusso

di coscienza e continui slittamenti temporali

danno vita a una narrazione

densa e complessa»

Sandra Bardotti, wuz.it, 17 giugno 2011

Rocco si rifiuta di credere alla notizia della morte delfiglio. Ma quel giorno, una tremenda angoscia lo as-sale e la sua routine viene sconvolta. Decide di tenerchiuso il negozio dopo tanti anni di lavoro ininter-rotto neppure per le feste, e partire in direzione delNew Jersey con l’intento di riportare a casa la moglieLoveypants e i suoi tre figli. Ma prima che parta lavecchia vedova Marini si presenta a casa sua per invi-tarlo a pranzo, e Rocco accetta. Troverà ad accoglierlola donna in compagnia di un giovane ragazzo, Ciccio,che la aiuta nelle faccende domestiche. A questopunto la storia inizia a muoversi vorticosamente avantie indietro nel tempo, rivelando progressivamente i

«E il giovane Rocco pensò “se riuscissi a compren-dere un solo attimo riuscirei a comprendere ogni at-timo”. Perché bisogna spiegare ogni cosa? Perchédobbiamo dire “perché”? Diamo un nome alle ra-gioni del nostro agire, raccontiamo a noi stessi que-ste favole personali, e sappiamo dall’inizio che nellamigliore delle ipotesi sono solo verità incomplete».

Arriva in Italia un esordio molto atteso, quello diSalvatore Scibona, scrittore italoamericano, classe1975, incluso dal New Yorker tra i 20 migliori nar-ratori under 40 americani. Ci sono voluti dieci annie molte ricerche in Italia per scrivere La fine, uscitoin America nel 2008, finalista al National BookAward e vincitore del Young Lions Fiction Award,del Whiting Writer’s Award e del Norman MailerCape Cod Award for Exeptional Writing.È difficile dire quale sia la trama di La fine di Sal-vatore Scibona. L’azione si concentra in un singologiorno, il 15 agosto 1953, festa dell’Assunta a Ele-phant Park, quartiere italiano nell’Ohio. Gente diogni tipo e colore festeggia per le strade e segue laprocessione della Vergine tra bancarelle ambulanti,cibarie, bambini che giocano. Da qui sei personaggiintrecceranno le loro vite e il loro passato: RoccoLaGrassa, il panettiere, che proprio in questo giornoviene a conoscenza che il figlio Mimmo è morto inCorea; Costanza Marini, una vedova abortista cheparla con i suoi fantasmi; Lina, una sarta, il marito,Vincenzo Mazzone, e il figlio, Ciccio; un gioielliereche colleziona lettere di confederati.

Per Scibona un esordio notevole ma immaturo

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«L’approfondimento psicologico non è sufficiente per farli emergere dallo sfondo e rendere la loro voce autonoma da quella dell’autore. La loro esperienza del mondo sembra a volte molto fragile, offuscata»

rapporti che legano la signora Marini e Ciccio. Co-stanza Marini pratica aborti clandestini nel seminter-rato di casa. Individuerà un successore nella sua pro-fessione in Lina Montanero, umile sarta, la più grandedelle figlie di Patrizia (che decenni prima si era avvalsadella consulenza di Costanza). La storia di Costanzasi intreccia anche con quella degli uomini della famigliadi Lina: Umberto, marito di Patrizia, e Vincenzo Maz-zone, marito di Lina (per il quale sviluppa una certapassione), e infine Ciccio, figlio di Lina e Vincenzo.Avanti e indietro nel tempo, attraverso il passato in-dividuale e familiare, ricostruiamo i rapporti tra ipersonaggi, intervallati da due misteriose sezioni incui a parlare è un gioielliere che svela un crimine in-confessato.La fine è l’epica di una comunità di immigrati italianiin Ohio che attraversa la prima metà del Novecento,dal 1913 al 1953. Un romanzo polifonico, nel qualesi intrecciano le voci dei personaggi, tracciati vivida-mente dalla penna dell’autore, uomini e donne incerca di un compimento – la fine, appunto – e delsenso della vita vissuta. Tre generazioni narrate attra-verso una scrittura virtuosistica, di ascendenza mo-dernista, nella quale flusso di coscienza e continui slit-tamenti temporali danno vita a una narrazione densae complessa. Ogni personaggio è descritto innanzi-tutto da una serie di dettagli fisici che insistono su unrealismo crudo e corporale, talvolta spietato. La de-scrizione del panettiere Rocco LaGrassa che apre il ro-manzo in un unico lungo periodo, ci fornisce unprimo folgorante assaggio della prosa di Scibona.

Nonostante questo, la narrazione di Scibona rimanespesso statica e poco brillante, e i continui cambi discena talvolta rendono faticoso riallacciare i fili so-spesi. Si avverte poi – e questo è il limite più evidentedel romanzo – che, a fronte di un’epica che si fondaquasi esclusivamente sui personaggi, mancandoun’azione o una trama che li sovrasta, l’approfondi-mento psicologico non è sufficiente per farli emergeredallo sfondo e rendere la loro voce autonoma daquella dell’autore. La loro esperienza del mondo sem-bra a volte molto fragile, offuscata, e non tanto per-ché alcuni grandi questioni come l’immigrazione,l’aborto, la discriminazione razziale non vengono af-frontate direttamente e diffusamente dai personaggi,bensì perché sembra che non siano state problema-tizzate e contestualizzate a priori. Per quanto sianovividi, insomma, essi non sono vivi, e i loro pensieri,i dubbi, le domande, appartengono sempre solo al-l’autore.La fine è un esordio notevole ma ancora non maturo,un progetto sicuramente ambizioso (e forse un po’pretenzioso) che tuttavia manca del senso di comples-sità palpitante del mondo capace di creare personaggie situazioni memorabili e della leggerezza che donaall’epica familiare americana l’ampio respiro deigrandi capolavori. Un buon libro d’esordio, insomma,per questo giovane scrittore italoamericano, uno dei20 migliori narratori under 40 americani secondo ilNew Yorker, che è in possesso di una ricchezza di lin-guaggio e di un’intensità che può mettere a frutto inmodo migliore.

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Marco Ciriello, Il Mattino, 19 giugno 2011

molti attimi d’irrealtà. Hanno tutti una colpa chediventa ferita e viceversa, c’è chi nega, chi nascondeabilmente, c’è chi torna per farsi perdonare, e chiprova a scappare. E lo scopo è imparare a vivere. Sci-bona ordina vite come soldi su un tavolo, con meti-colosità, accomuna per taglio, e aspetta. E come ognimoneta i suoi personaggi sono tondi, e i margini litracciano i loro pensieri. Ogni tanto entra qualcunoe aggiunge una moneta, che, però, prima di arrivareal suo posto, ruota, mostra la sua doppia faccia, avolte un giro vanesio a volte un giro che torna utile,e dopo viene impilata con le altre. È un amministra-tore di esistenze, che sa quando è il momento dismettere di contare e alzarsi, interrompere, cambiare.La storia seppure ambientata in America è spudora-tamente italiana, in tutto, dai preti che istruiscono ilragazzo Ciccio, alle paure e ai sogni. Ma non c’è l’ami-cizia fondante della storia americana di Leone e gliitaliani straccioni di Tornatore, no, c’è il piccolosogno, quello che parte da un individuo, passa per ilsuo opposto e dice: casa, famiglia, quiete. Ma non laracconta come un italiano, no, è qui che si capisce chesta dall’altra parte dell’Atlantico. Scibona ci mette ununico temporale per tutti, un’unica paura, che acco-muna i dolori ma non lava le coscienze. Perché ilmondo per alcuni si dischiude solo con la scomparsa,per altri è vita illuminata. E mentre cerchi di capirequale lato della medaglia ti è toccato, il tempo passa,la giostra finisce il suo giro, e devi scendere: col dub-bio o peggio col rimpianto.

C’è una giostra che gira e una voce che racconta. Iltempo è tondo, ma ogni storia ha un disco diverso.Intanto la giostra gira, i cavalli che sembrano muoversifanno divertire i bambini e i genitori che guardano,ma tutto è più complicato di come sembra. Anche im-mobile. O sommerso. È La fine di Salvatore Scibona,talento italoamericano, che sta dalle parti di DeLilloa sentire la critica statunitense, pubblicato in Italia da66thand2nd.Ogni ricordo di Scibona è un campo lungo, c’è dentromezzo mondo. È un dilatatore di tempo, che partecon le prime 89 pagine, tutta la storia di Rocco, ita-liano d’America, panettiere, sembra scritta al rallen-tatore, il lettore si sente in una scena sott’acqua conle voci lontane e ogni azione incollata all’altra nonsolo per la storia ma per una continuità temporale,nonostante la mole di pagine e di eventi, che è un mi-racolo di scrittura. Poi, nella seconda parte allunga, eallunga ancora, accelera e rallenta, per tornare sott’ac-qua con l’epilogo: il momento presente.Scibona, che sa tenere insieme una marea di dettaglie un pensiero di bambino, ti trascina con sé, e nonti molla, e tu sei contento di non essere mollato. Di-spiega esistenze. Quando ti perdi, lui torna indietroti rassicura, perché lo scopo del libro è arrivare allafine, di tutte le vite che contiene di tutti i tempi checi stanno e si sovrappongono, ogni singolo attimodi una comunità per lo più di italiani, in Ohio dal1913 al 1953 e ritorno al 1915. Una esplorazioneminuziosa dei loro animi e dei loro pensieri, con

L’autore italoamericano «ordina vite come soldi su un tavolo»

Tutte le vite di Scibona

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la moglie che lo ha lasciato 17 anni prima. Il rac-conto segue strade imprevedibili e incontra unaserie di personaggi le cui storie si legano una all’al-tra, mentre un crimine inconfessato si nasconde trale vite di tutti.Tra le pagine le vicende ordinarie e straordinarie di tregenerazioni di italiani emigrati negli Usa. Personesemplici, di cui l’autore rivela la complessità del sen-tire. Così è l’umanità intera, nei vizi e le virtù, nellaricerca interiore di ogni individuo. Il lettore può guar-dare nel cuore dei personaggi vivendo così l’epica stra-ordinaria della gente comune.

«La fine è un romanzo corale, i cui personaggi riallacciano i fili del passato per trovare il senso

del viaggio che li ha portati nel nuovo mondo»

Nicola Bultrini, Il Tempo, 19 giugno 2011

«Avere una famiglia è il contrario di morire», scriveSalvatore Scibona nel suo romanzo d’esordio, La fine(66thand2nd, 2011), con cui l’autore italoamericano,dopo dieci anni di lavoro, a 35 anni è già nell’ Olimpodei grandi scrittori amencani.Dice Scibona: «Il soggetto di un romanzo non èun’idea, un punto di vista o un’ideologia. Ma è lavita». E La fine è un romanzo corale, i cui perso-naggi riallacciano i fili del passato per trovare ilsenso del viaggio che li ha portati nel nuovo mondo.Rocco, appresa la morte di un figlio in Corea, dopo30 anni da fornaio, va a cercare gli altri due figli e

Storie e vita di immigrati a ferragosto

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Valentina Pigmei, Grazia, 20 giugno 2011

a 94, senza mai parlare un inglese ragionevole. Ha fattotanti mestieri, avuto sei figli. Quando è rimasta vedova,si è vestita di nero per 50 anni…

Crede che per gli immigrati sia più difficile innamorarsi ecrearsi una famiglia?Freud diceva che in ogni relazione ci sono almeno quat-tro persone: io, te, la persona che proietto su di te e lapersona che tu proietti su di me. Nella pratica però bi-sogna uccidere quei fantasmi. Gli immigrati idealizzanoil paese che li accoglie e scoprono presto che non è comel’avevano sognato: sono forse più forgiati di noi alle de-lusioni amorose.

A proposito, che cosa spinge la gente a lasciare tutto e an-darsene in posto che non conosce?Questa è la grande domanda del nostro tempo. Se si èpronti a barattare la propria famiglia e la propria vita,allora che cos’è che non si baratta? Ancora non riesco acapire come hanno fatto i miei bisnonni a lasciare i lorogenitori in Sicilia e non vederli mai più. Non è quasiuna forma di suicidio? E del resto, in America, ognunoviene da questo baratto, ed è un conto sempre aperto.È meglio essere liberi o essere amati?

Se il suo libro fosse un film…Posso dire che ho visto i film dell’italiano EmanueleCrialese (Respiro, Nuovomondo) e penso che sia un verocreatore di «scene visive» che sa trattare i suoi personaggicon una compassione profonda. A volte vorrei che lavita fosse un film di Crialese…

Salvatore Scibona ha trascorro la sua giovinezza a scrivereun romanzo.grazie a quel libro è stato selezionato tra i20 più grandi autori di lingua inglese sotto i 40 anni dallarivista New Yorker, classifica esclusiva in cui di solito com-paiono solo grandi promesse della letteratura. Quel ro-manzo s’intitola La fine ed è la storia di tre generazionidi immigrati nella «Little Italy» di Cleveland, nell’Ohio.Ma non fatevi ingannare, La fine è un romanzo unico,lontanissimo dal cliché italoamericano, è un’epopea mul-tiforme di gente comune, un racconto straordinario digente ordinaria: una vedova che pratica aborti clande-stini, un gioielliere collezionista di lettere di confederati,una sartina misteriosa, un marito abbandonato e, infine,l’indimenticabile Rocco LaGrassa, panettiere.

Ha trascorso i suoi anni migliori a… scrivere un libro?Sapevo solo cosa volevo fare un giorno: alzarmi, farmiun caffè, mangiare una ciotola d’avena (come i muli!) emettermi alla scrivania. Dovevo star lì, come un bambinocon la febbre che non può uscire finché non è guarito.

E come si manteneva durante questo periodo?Insegnate di algebra, barista (lo dice in italiano NdR),operaio addetto alla rimozione dell’amianto, parcheg-giatore, investigatore privato, cuoco, insegnate di scrit-tura, insegnante di filosofia e passacarte.

È vero che la sua bisnonna è stata la musa ispiratrice delsuo romanzo?Emilia Sbriglione ha ispirato tutta la mia vita di inven-tore di storie, è arrivata in America a 19 anni ed è morta

Segnalato tra i 20 giovani autori più promettenti dal New Yorker, lo scrittore italoamericano debutta con una saga familiare.«Mi ha ispirato mia nonna Emilia»

Il gioielliere, il panettiere e la sarta: vite di Little Italy

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Giuseppe Rizzo, l’Unità, 3 luglio 2011

Non c’è spazio neanche per la mafia – un soggetto chespesso, come un tic, fa capolino nei racconti dell’im-migrazione italiana…Ok, lo so. Ma Possiamo per favore parlare di cosereali? Secondo un censimento degli Stati Uniti nel2006 vi erano 17,8 milioni di italoamericani, cioè il6% dell’intera popolazione. Conosco molti di loro, enon ho mai neppur incontrato un mafioso per quantone so. Ne tanto meno alcuno dei miei amici ne cono-sce. La stragrande maggioranza degli italiani in Ame-rica non ha alcuna esperienza di sorta sulla mafia.Non sto cercando di correggere alcun pregiudizio, vo-glio solo essere una parte di quel mondo che è davverolì. La scrittrice americana Grace Paley chiedeva sem-pre un pezzo di narrativa, «Ma è vero?». Peraltro, perquanti decenni ancora dobbiamo sentire la stessa sto-ria stereotipata riguardo la stupida mafia? Il problemaprincipale di uno stereotipo è che è noioso. Quindiio non avevo bisogno di prendere una decisione mo-rale – cioè, non avevo bisogno di educare nessuno at-traverso la raffigurazione di un mondo di immigratiitaliani in cui la mafia non svolge alcun ruolo – è statosufficiente consultare il mio senso per ciò che è te-dioso. E c’è già abbastanza roba tediosa! Ci sono cosemolto più profonde di cui discutere.

Il tema delle «origini», delle «radici», che è naturale chesia presente in un libro come La fine, non sembra essereperò quello centrale. I personaggi sono proiettati verso laricerca di qualcos’altro, qualcosa che assomiglia al sensodelle proprie vite. Perché le interessava tanto questa ricerca?

Trantacinquenne, italoamericano, autore di un ro-manzo, La fine (edito in Italia da 66thand2nd), chegli è costato dieci anni di lavoro e lo ha fatto entrarenella prestigiosa lista dei 20 migliori scrittori statu-nitensi secondo il New Yorker, Salvatore Scibona, intempi in cui in Italia si grida alla morte della lette-ratura e si celebrano i funerali della figura dell’in-tellettuale un giorno sì e l’altro pure, ha le ideechiare su cosa possa o non possa fare l’arte – e ancheun po’ su cosa «debba» essere. Fedele alla linea diW.B. Yates, che scriveva: «Solo ciò che non vuoleinsegnare, far piangere, persuadere, accondiscen-dere, spiegare, è irresistibile».

Scibona, non c’è spazio per eroi ed eroismi, nel suo libro.Cosa voleva raccontare attraverso le vicende quotidianedelle sue vedove, dei suoi panettieri, dei suoi gioiellieri?Io tratto il lettore come un mio pari. Se creassi inten-zionalmente un eroe, un modello di comportamentomorale, in realtà starei predicando al lettore o agendoin qualità di una sua morale superiore. Non ho maivoluto farlo. Un personaggio può diventare un eroequando un lettore lo ammira liberamente. Il mio ruoloè solo quello di farli entrare in contatto nel modo piùchiaro possibile. Mi è capitato di inquadrare molti deimiei personaggi sotto alcuni punti di vista, e ho im-parato da loro. Tutti loro sanno come fare cose che ionon riesco a fare. Ma un romanzo non è un catechi-smo. Penso che il ruolo del romanziere sia invecequello di rendere possibile al lettore di avere una esau-stiva e consapevole esperienza del mondo reale.

L’epopea degli italiani in America nel libro di Scibona

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Scibona | La fine

tanti anni, e abbiamo la vertiginosa sensazione di es-sere momentaneamente trasportati in un altro tempo.Oppure vediamo da lontano un volto per strada, e perun attimo vediamo qualcuno che sappiamo esseremorto da tanto tempo. Evidentemente, la nostra realepercezione del tempo è un ciclo che si ripete con cam-biamenti decisivi. Detto questo, ho un profondo ri-spetto per la linearità. Appena possibile, racconto glieventi nell’ordine in cui comunemente avvengonoperché voglio essere il più chiaro possibile, pur rima-nendo fedele alla vita così come realmente la viviamo.Se il mondo è rotondo ma io dico che è piatto, o senascondo i paradossi e le stranezze, le contraddizionie le oscurità della bellezza della quotidianità con unlinguaggio banale perché penso che il lettore non ac-cetterà ciò che vedo, allora lo sto insultando terribil-mente. Il lettore è infinitamente più intelligente dime. Lo guardo dal basso verso l’alto, e non al contra-rio. Il lettore è capace di vedere – lo scrittore non deveavere paura che sia cieco.

«La politica, o la vita degli altri vissuta individual-mente, è il soggetto naturale della mente», scrive a p. 109

Bene, mi rende estremamente felice leggere questa do-manda. Mi interessa come può interessare a chiunquealtro della mia famiglia il nostro passato. Ma è un in-teresse privato, che non mi aspetto che il lettore con-divida. I miei personaggi sono invenzioni. Voglio chesiano vicini ai lettori così come lo sono per me, e que-sto sarebbe impossibile se fossero veramente basatisulle mie radici. Tutti noi sappiamo cos’è un’artetroppo privata. Chi vorrebbe guardare l’album di fa-miglia di un estraneo. Idealmente, i miei personaggisono liberi da me. Le loro scelte sono reali, non li hocostretti a fare quello che la trama gli richiedeva. Sonoloro che la determinano; il mio ruolo è quello di or-ganizzare una narrazione che contenga ciò che i per-sonaggi vivono liberamente. Niente di tutto ciò po-trebbe essere possibile se il mio interesse per loro fossesemplicemente l’interesse per il mio passato.

Non c’è nessuna concessione alla linearità della tramae alla semplicità del linguaggio. Non si è mai preoccu-pato che questo potesse allontanarla dai lettori?Non mi sembra che il tempo si muova in modo li-neare. Incontriamo un odore per la prima volta in

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«Io tratto il lettore come un mio pari. Se creassi intenzionalmente un eroe, un modello

di comportamento morale, in realtà starei predicando al lettore o agendo in qualità di una sua morale superiore»

Ha scritto: «In America, quelli della mia generazionesi aspettano il peggio dalle sorprese». Trentenni nevro-tici e impauriti. Cosa ha portato a tutto questo? Ecome se ne esce?Chiaramente mi stavo riferendo all’Undici settem-bre. È stato il più grave lutto della vita americana,concentrato in un singolo episodio, dopo la battagliadi Antietam, durante la guerra civile. La mia gene-razione non ha memoria del Vietnam o della Se-conda Guerra Mondiale. Eravamo del tutto inno-centi. Non eravamo abituati alla morte, tutto qui.È veramente semplice. Non siamo cresciuti con unamemoria vivida di minacce domestiche per le nostrevite. Così siamo tutti un po’ impreparati. La viad’uscita è difficile da capire. Come dice il gioiellierenella Fine, «la paura è una freccia puntata verso ilnulla». Tutti noi abbiamo una buona ragione per es-sere preparati alle minacce, e per difendercene. Ma

a cambiarla in meglio. In America gli intellettualivengono ascoltati, riescono ancora a influenzare la po-litica e l’opinione pubblica?In un romanzo di Denis Johnson, un personaggio os-serva: «Ho realizzato che ciò che pretendo da un’operad’arte è che il suo proposito – è questo il mondo chevoglio? – non includa me». Gli scrittori americani sonostati apertamente cauti nel prendere posizioni politi-che. Molti esclusivamente per timidezza, credendo chegli scrittori non siano qualificati a commentare que-stioni politiche. Con tutto il rispetto, credo che si sba-glino. Tutto sommato, gli scrittori sono qualificaticome chiunque altro, in una democrazia. Ma non do-vremmo parlare di qualifiche. Dovremmo invece par-lare del valore di quello che hanno da dire. Se unoscrittore riesce a esaminare e spiegare e illuminare unproblema politico, questo è inestimabile. Come hadetto Don DeLillo, che ha sempre parlato in maniera

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la paura è qualcos’altro. La paura è una battagliacontinua con un fantasma che vive nella mente, manon esiste all’esterno. Penso che la politica di questaAmministrazione sia immensamente migliore ri-spetto a quella precedente, in quanto il Presidenteha messo in evidenza il mondo come è realmente,piuttosto che quello che ci presentano le nostrepaure. I cosiddetti oggetti della paura non apparten-gono, per definizione (visto che la paura è uno statocognitivo), al mondo materiale. Pensiamo alle armidi distruzione di massa in Iraq, qualcosa che in re-altà ci aspettavamo di trovare proprio perché lapaura che ne avevamo nelle nostre menti era vera-mente intensa.

Da qualche tempo, in Italia, scrittori e intellettualitrenta-quarantenni riflettono sugli strumenti piùadatti per ritornare a incidere sulla realtà, provando

dell’edizione italiana. La figura degli amministratori,di uomini di potere, di politici tout court è però assentenel libro. Cos’è per lei la politica? Probabilmente è solo ciò che il personaggio della Si-gnora Marini definisce tale: «La vita degli altri vis-suta individualmente». Anche il Governo – e cioèl’amministrazione, gli uomini di potere, il lavorodei senatori – è politica. Ma io sto parlando, comesempre, delle cose che ognuno vive individualmentee quotidianamente. La politica ufficiale – come lapolitica elettorale – per me è una dipendenza. Hosprecato mesi della mia vita, ossessionato dalle pro-spettive elettorali di un singolo candidato al Con-gresso in un oscuro e periferico distretto. Ma i mieipersonaggi chiaramente non la vivono così comefaccio io. E va bene così. Ai miei personaggi nonpuò mai piacere tutto ciò che piace a me, nel modoin cui mi piace; non dovrebbero.

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«L’invenzione di un mondo in un romanzo è qualcosa di speciale. Lo scrittore, i personaggi e il lettore, vi sono ugualmente dentro, obbligati

a dare i propri giudizi»

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Scibona | La fine

No. Mi oppongo a questa idea. Penso che gli esseriumani siano in grado di cambiare la realtà. Non dob-biamo costringere le arti a mettersi a servizio della po-litica. Nell’arte ci troviamo su un terreno comune coni nostri avversari politici. E questo terreno comune èsacro. Non sto dicendo che i romanzieri debbano ta-cere sulle questioni politiche. Sto dicendo che l’inven-zione di un mondo in un romanzo è qualcosa di spe-ciale. Lo scrittore, i personaggi e il lettore, vi sonougualmente dentro, obbligati a dare i propri giudizi.Se uno scrittore sceglie, fuori dal suo lavoro artistico,di cambiare il mondo in cui vive, lo ammiro. Ma secerca di farlo usando l’arte per persuadere le personesu una questione politica, la mia esperienza mi dicenon che stia sacrificando la sua autorità, ma la fiduciae la libertà del lettore. L’intera macchina del romanzodipende strenuamente dal rispetto del romanziere perla totale libertà del lettore di fare le sue scelte. Quandouno scrittore esorta, sta solo manipolando. Sta diven-tando falso. Credo nella politica. Mi impegno in poli-tica. Sto sotto la pioggia per sostenere i candidati in cuicredo. E i miei personaggi sono liberi di fare lo stesso.

diretta e pubblica di questioni politiche, «scrivere è unaforma intensa del pensiero». Uno scrittore di fictionesercita un pensiero profondo. Se riesce a far sì che essoincida sui problemi politici della sua comunità, pensoche faccia un gran lavoro, che pochi altri riescono afare nella nostra cultura – che sembra valorizzare moltodi più il pensiero comune e sciatto. Ma tutti questi im-pegni politici prescindono il romanzo stesso. La miaresponsabilità come scrittore di fiction è di rispettarele posizioni politiche dei miei personaggi molto piùfedelmente di quanto non faccia con le mie. Il ro-manzo è poco adatto a creare cambiamenti politici.Perché è costretto a trattare in maniera sacra il voleredel lettore. Se cerca di convincere il lettore di qualcosa,ha rotto il patto. Il patto che dice: tu, scrittore, mi in-viterai a entrare, ma rispetterai la mia volontà mentresono a casa tua. Come ha scritto W.B. Yates, «solo ciòche non vuole insegnare, far piangere, persuadere, ac-condiscendere, spiegare, è irresistibile».

Lei crede che la letteratura sia in grado di cambiare larealtà?

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«Mi sento vicino a Verga e influenzato da autori moderni come Virginia

Woolf e Saul Bellow. Ma i personaggi

che loro descrivono devono avere

un’educazione per potersi porre

delle domande astratte»

Lara Ricci, Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2011

Perché ha scelto di parlare degli umili e di esistenzecomuni? Scibona, che incontriamo a Roma, a casa delsuo editore italiano, Isabella Ferretti, fondatrice con ilmarito Tomaso Cenci di 66thand2nd, non ha piùnulla dell’adolescente disorientato, inquieto, in fugadal suo mondo asfittico, dalla sua solitudine tossica.È un uomo caparbio, volitivo, che si ostina a voler par-lare in italiano e allo stesso tempo a non dire una solaparola che non abbia un significato scelto con cura.Strana combinazione di una personalità fortissima esorprendentemente gentile. «Non avevo mai cono-sciuto nessuno di importante, di eroico» risponde. «Lepersone più eroiche che ho incontrato erano mode-stissime. Mio nonno, o la mia bisnonna: una donnaanalfabeta emigrata negli Stati Uniti a 18 anni e mortaa 94 anni senza mai avere imparato l’inglese. Eppure

Salvatore Scibona era una causa persa persino ai suoistessi occhi. Al liceo non concludeva nulla di buono.Bruciò il suo libretto scolastico nel lavandino del fastfood KFC, dove scrostava il grasso carbonizzato dallecucine per 3,85 dollari l’ora. Sognava solo di andarsenedall’Ohio. Lì era nato pronipote di emigrati italiani epolacchi. A Cleveland, dove ha ambientato La fine, ilsuo primo romanzo che lo ha reso, a 36 anni, uno degliautori più interessanti degli Stati Uniti.L’antefatto non deve ingannare. Non è l’ormai logorastoria dello scrittore maledetto, con un biglietto di an-data e ritorno per gli inferi da cui riemerge con ungruzzolo di parole per i posteri e qualche neurone inmeno. Non molto tempo dopo il liberatorio falò, Sci-bona ha deciso di mollare i libri di testo, i «libri suilibri» e passare direttamente ai «libri libri». Ha lettoOmero, Kant, Einstein, Aristotele, Copernico, Dar-win, Hegel, Newton, Baudelaire. Per capirli ha stu-diato il francese e il greco antico, lingua che fino apoco prima neppure sapeva che esistesse ancora. «Lalettura? L’ho sposata» è solito dire, incurante delle am-miratrici. «Da allora è stata una sempre più intensa,enigmatica, gioia».Dai classici è tornato poi alle sue origini, raccon-tando le vicende di un gruppo di immigrati e di figlidi immigrati italiani. Vita ordinaria di gente ordi-naria, narrata con le parole semplici dei protagoni-sti, pensieri modellati sul lavoro manuale, metaforeprese a prestito dalle attività di un forno, o di uncantiere, eppure intrise dalle domande ultime esenza tempo dei grandi libri del passato.

Amo l’intensità degli umili

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«È un uomo caparbio, volitivo, che si ostina a voler parlare in ita-liano e allo stesso tempo a non dire una sola parola che non

abbia un significato scelto con cura. Strana combinazione di unapersonalità fortissima e sorprendentemente gentile»

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Scibona | La fine

sull’eternità solo perché non potevano leggere. Ho ri-scritto tutto».La fine è un racconto epico senza eroi né gesta memo-rabili. Dipinge la metamorfosi dell’Italia contadinadei nostri nonni quando entra in contatto con uncontesto più grande, sospesa in uno stato di transi-zione perenne tra terra d’origine e di approdo, tra ilvincolo delle radici che si sfaldano e la formazione diuna nuova identità. Un baratro esistenziale che puòessere metafora della vita stessa. I personaggi speranodi trovare il senso della vita vissuta e che questo infinedefinisca chi sono. «Anime vulnerabili», in divenire,«che non si sono ancora indurite come mattoni nellafornace», dice Rocco (parlando dei suoi figli). Indivi-dui alla ricerca del proprio compimento che, comeAchille che insegue la tartaruga nel paradosso di Ze-none, non lo raggiungeranno mai. Impossibile sentirsicompleti. È a questo a cui allude il titolo La fine.Trovare il senso del romanzo sta a chi lo legge: «illettore è sempre nel giusto, ha il suo punto di vistae basta», ma Scibona ci fornisce un indizio sul si-gnificato del titolo parlando di Ciccio, indimenti-cabile ritratto di un adolescente nell’atto di diven-tare adulto: spiega che «quando lui dice “eropotenziale puro, come un uovo”, ha quel desideriodi aprire la finestra e dal mondo della giovinezzapassare al mondo esteriore. Desiderio di dare corpoalla sostanza di cui è composto, di sentirsi una cosapiuttosto che un’idea. Penso che tutti cominciamoa volerlo a qualche punto della nostra giovinezza,ma continuiamo a volerlo per tutta la vita. Semprec’è qualcosa di più, qualcosa che sta al di fuori, chedesideriamo. È un’idea un po’ buddista, forse. Unpunto fuori del presente in cui diventeremo com-pleti. Un punto che non esiste. In un certo senso iltitolo è uno scherzo, perché è un obiettivo fanta-sma». Spiega Scibona, che ama i paradossi.

ha vissuto tutta una vita, ha avuto sei figli, una fattoria,senza saper leggere né scrivere, senza poter comunicarequasi con nessuno. Nella mia immaginazione i pro-blemi di persone modeste, “piccole”, sono problemigrandissimi. Non importa la cornice: se in un ro-manzo riesco a costruire un mondo in cui un uomoha perso un figlio, per quanto piccolo, per quanto li-mitato, questo sarà comunque un mondo enorme, incui lui è un uomo eroico».L’uomo che ha perso un figlio è l’infaticabile panettiereRocco. Dopo anni di titanica lotta per tenere in piedila misera panetteria, la chiude per la prima voltaquando viene a sapere che il figlio che tempo addietrolo aveva abbandonato insieme alla moglie, è morto inguerra in Corea, soldato americano arruolatosi volon-tario. Era italiano, Rocco. Ricorda i giorni in cui dabambino s’arrampicava sui faraglioni di basalto piantatinel mare di Aci Trezza. Gli stessi davanti cui si svolgonoI Malavoglia, di Giovanni Verga. Sente forse una con-tiguità con questo scrittore? «Non voglio essere immo-desto perché Verga è un grandissimo autore» rispondeScibona, che lo scoprì più di dieci anni fa quandovenne a Catania per lavorare al suo libro: abitava al 16di piazza Verga. «C’è però una differenza tra il suo me-todo e il mio. Lui ha scoperto l’eroismo dei poveri, dellepersone modeste. Io volevo anche scrivere un romanzodi idee, sulle questioni filosofiche che si trovano anchenella mente di persone senza educazione. Mi sento vi-cino a Verga e influenzato da autori moderni come Vir-ginia Woolf e Saul Bellow. Ma i personaggi che loro de-scrivono devono avere un’educazione per potersi porredelle domande astratte. All’inizio avevo impostato il ro-manzo con personaggi modesti e una voce narrativamolto sofisticata. Ma era sbagliato: non volevo avereuna voce esterna che sapeva di più rispetto a ciò che ipersonaggi conoscevano. Ed era un errore pensare chele persone non potessero porsi questioni sulla morte e

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Eva Brugnettini, loscirocco.it, 4 luglio 2011

Ne La fine si incrociano le vite di una serie di italianiemigrati, avanti e indietro nel tempo, da fine Otto-cento al 1953, sullo sfondo di un unico spazio: ilquartiere italiano di una città statunitense. C’è il pa-nettiere che non ha mai chiuso il forno in dieci anni,finché qualcosa in lui si spezza e si rende conto di es-sere solo. La vedova che una volta ha detto addio alsuo villaggio nel Lazio per seguire un uomo e unsogno, poi infranto. Una ragazza che sboccia con unmatrimonio combinato, che esaudisce il sogno delmarito a un prezzo talmente alto che la porterà a scap-pare. Un adolescente inquieto, spedito a studiare daigesuiti, che grazie allo studio comincia a dare nome,e un senso, a sé stesso. Storie di fughe principalmente:ognuno scappa con un’idea, e quasi tutti rimangonodelusi per la strada.L’idolo di Salvatore Scibona, italoamericano, è DonDeLillo, e chi conosce il gigante scrittore, non faticaa vederne l’impronta. C’è lo stesso lucido metodo en-tomologico nel sezionare le debolezze, nello snidaredettagli così umani che commuovono, nello stileasciutto pieno di implicazioni. È un libro che va lettocon pazienza, ma che svela una stratificazione che valel’impegno. Anche Scibona vede la parola come un’en-tità quasi sacra, con l’istruzione, nel senso canonicoma anche come Sapere, che ha il potere di dipanare ilcaos e definire identità, e fine, di ciascuno.

Il quartiere italiano di una città americana: le vite degliemigranti

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«La realtà esiste perché le idee

gli danno forma e le parole, intese

come lingua madre, che dà identità, la esprimono»

Carla De Caro, viadeiserpenti.it, 7 luglio 2011

potente creatore di immagini, uno stile insieme clas-sico, verboso, eppure cinematografico.La trama si concentra in un unico giorno, il 15 ago-sto 1953, a Cleveland, in un quartiere densamentepopolato da italoamericani. La data è particolar-mente significativa perché quello è il giorno dedicatoall’Assunzione della Madonna e l’intero quartiere èinvaso dalle folle festanti che quasi intasano le strade,mentre la processione della Santa, ingioiellata comeuna regina, fatica a procedere. Per qualcuno è unasemplice occasione di festa, per altri diventa un mo-mento per fare bilanci, riflessioni, ricordare le pro-prie origini e tirare le somme, scacciare il dubbioatroce che il sacrificio di essersi staccati dalle proprieradici non si sia risolto, alla fine, in un fallimento.Tra questi c’è il panettiere Rocco, la figura tratteg-giata all’inizio, che dopo quarant’anni di duro lavorosi ritrova solo, abbandonato dalla moglie e i figli. Apartire dalla sua storia si intrecciano, tra passato epresente, altre vite, altri racconti, tutti in qualche

«Ho iniziato a scrivere perché volevo pensare meglio»,è una delle affermazioni conclusive di Salvatore Sci-bona durante un seminario tenutosi a maggio all’Uni-versità Luiss di Roma. Leggendo il suo romanzod’esordio, La fine, dieci anni di gestazione, non si puòche dargli ragione. Scibona sembra aver riunito, com-pendiato, riordinato tutti i ricordi, le sensazioni, leimmagini, i personaggi dell’infanzia, i racconti smoz-zicati dei nonni, per poi fornirli di senso, comunicarcile sue conclusioni attraverso questo romanzo corale.Ma del resto: «Perché bisogna spiegare ogni cosa? Per-ché dobbiamo dire “perché”? Diamo un nome alle ra-gioni del nostro agire, raccontiamo a noi stessi questefavole personali, e sappiamo dall’inizio che nella mi-gliore delle ipotesi sono solo verità incomplete».Eppure Scibona ci prova a dar forma a queste verità,quelle dei suoi personaggi, o forse le sue. Ci prova cer-cando di fermare sulla pagina la realtà nel suo caoticofarsi, nei pensieri che si inseguono veloci o nelle im-magini che si imprimono nella mente. Forse citarel’incipit può spiegare meglio di ogni descrizione que-sto affollarsi di immagini che prendono forma: «Eraalto un metro e cinquantaquattro con le scarpe da pas-seggio, sembrava un orso con quella faccia rotondadalla mascella prominente, petto e spalle di propor-zioni esorbitanti, vita quasi altrettanto massiccia, mascavato alle anche, e privo di un didietro adeguato sucui sedersi (anche se non era certo noto per starespesso seduto), e debole di caviglia, e con due piediminuscoli da ragazza, un uomo a forma di lampa-dina». Qui c’è tutto Scibona, fine cesellatore di frasi e

Scibona, fine cesellatore di frasi

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Letture interrotte: La finedi Salvatore Scibona

Emanuela D’Alessio, viadeiserpenti.it, 7 luglio 2011

L’incipit del romanzo di esordio di Salvatore Scibona èdi quelli potenti, attirano come una calamita, susci-tano attenzione e stupore, intrigano.Una descrizione di rara bellezza, lieve e sofisticata. Unaparola alla volta Scibona tratteggia con straordinariaprecisione le caratteristiche fisiche e psicologiche delpersonaggio principale, creando un’aspettativa in-quieta su ciò che sta per iniziare. Ma il proseguimentodella storia vira inaspettatamente altrove, la tensionesi sperpera, la curiosità si stempera, si insinua il dub-bio, si perde il senso, subentra lo stupore, si procede afatica, si annaspa tra realtà e astrazione, la scrittura on-deggia tra l’onirico e la riflessione, tra il lento fluiredella storia e continue, incomprensibili digressioni.Dopo cento pagine sono prevalse spossatezza e noia,il cielo stellato di una notte d’estate ha quindi assor-bito gli ultimi residui di attenzione.

«Si procede a fatica, si annaspa tra realtà

e astrazione, la scrittura ondeggia tra l’onirico

e la riflessione»

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modo collegati tra loro: l’anziana vedova Marini chepratica aborti e fa da tutrice a un ragazzo adole-scente, una donna sfortunata che abbandona la fa-miglia, un gioielliere che colleziona lettere di soldatie vive con la sorella. Ciascuno si è costruito o sta cer-cando di costruirsi un’identità, tra vecchie tradizionie nuove usanze, ciascuno tenta di ritagliarsi un ruolonella Storia in modo coscienzioso, quasi che emigrarenel Nuovo Mondo lo avesse investito in qualchemodo di una missione, quella di preservare l’identità,di tramandarla, di conservarla pura nella mente onella parola. E sono le idee e le parole a prevalere in-fine sulla realtà stessa: la realtà esiste perché le ideegli danno forma e le parole, intese come linguamadre, che dà identità, la esprimono. Più che un sus-seguirsi di fatti il romanzo di Scibona è un filo inin-terrotto di pensieri, ricordi, fantasie dei personaggi,che ricorda a tratti lo stream of consciousness joyciano.Ma non per questo i personaggi perdono consi-stenza, tutt’altro: si stagliano sulla pagina con sor-prendente concretezza, grazie a una frase, un atteg-giamento, un tratto somatico descritto con nitidezza.Per raggiungere un risultato simile l’autore ha lavo-rato di cesello sulla lingua: «Ho cercato di inventareuna nuova maniera per esprimere il fatto che in tantiposti del mondo si usa una lingua e l’altra contem-poraneamente: ho inserito la sintassi e la grammaticaitaliana nella lingua americana». Una lingua dal-l’identità ibrida, dunque, come le sue creature. L’ap-prossimarsi della Fine sarà per alcuni una sorta di ac-cettazione del proprio destino, un compimento delpercorso; altri continueranno a fuggire, sempre in bi-lico su una linea di confine.Il libro è già diventato un cult negli Usa e ha permessoal suo autore di essere inserito dal New Yorker nellalista dei venti migliori scrittori americani sotto i qua-rant’anni. Riconoscimento senza dubbio meritato perun libro denso e sincero, che si fa rimproverare solo,a tratti, la presenza troppo ingombrante dell’autorenelle riflessioni e nei pensieri dei suoi personaggi; lamaniera di Scibona per dare voce e dignità letterariaa una folla opaca, una generazione di perdenti, chepure hanno fatto la Storia dell’America.

Oblique Studio | ottobre 2011

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Page 72: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«La fine è un romanzo quasi epico che unisce la leggibilità della grande narrativa

al respiro del classico»

Red., il Giornale, 16 luglio 2011

Malgrado in molti continuino a cercare la Libertànel nuovo romanzo di Jonathan Franzen – libroneda ultima spiaggia più che da ombrellone – senzadubbio il miglior romanzo americano uscito que-st’anno è Nemesi di Philip Roth (Einaudi): l’eternocandidato al Nobel è tornato ai vertici narratividegli esordi con una storia che, senza finti catastro-fismi alla McCarthy, riesce a consegnarci una po-tentissima metafora dei nostri giorni.Altro genio è Salvatore Scibona. In Italia un po’snobbato, il suo La fine (Edizioni 66thand2nd) èun romanzo quasi epico che unisce la leggibilitàdella grande narrativa al respiro del classico. Altrosottovalutato dai lettori italiani è Paul Harding conL’ultimo inverno (Neri Pozza): romanzo da non per-dere per maestria di una scrittura che chiede al let-tore lo sforzo più grande: entrare nella finzione nar-rativa per scoprire l’inesorabile trascorrere deltempo.

Un romanzo quasi epico

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Page 73: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

Rocco, Costanza, Lina, Enzo, Ciccio. Tre genera-zioni di italoamericani in un sobborgo di Cleveland,Ohio, alle prese con il Novecento. Come acqua ecalce, in una malta che dà forma al destino, scolpi-sce le facce, decide le vite, Scibona impasta la terra,la lingua, la fatica, il pane, il sangue, l’amore, la vio-lenza, il dolore. Figli morti, non morti, mai nati,mogli e mariti partiti col vento, defunti tornati piùloquaci che mai, eredi acquisiti e amati al di là delcertificato di nascita, parenti odiati, temuti, dimen-ticati. Persone normali del secolo scorso, nel paesegiusto con i nomi sbagliati, arrancano sulla strada.Sputano, inciampano, bestemmiano, ma vanno,mentre la tufa incolla i vestiti e la neve abbraccia leginocchia. Con la storia a fare da sfondo – presi-denti e guerre, tanto, sono tutti uguali – la famigliacova dolori e dispiaceri, arma le regole, fa marcirele voglie, nutre le attese, bagna i ritorni.Ospita tutto quello che va storto, lancia la corsa ditutto quello che deve essere, e in qualche modo sarà.«Erano americani dopotutto, provavano solo unsenso di insicurezza laddove le nazioni più vecchiesentivano paura, e un milione di possibili, elettricheidentità gli si affollavano intorno – implorando agran voce di essere prescelte». Da uno dei 20 scrit-tori under 40 che per il New Yorker vale la pena leg-gere, un affresco di uomini e donne, dai nove ai no-vant’anni, parrucche a coprire teste gialle o nasistorti a furia di incontrar nocche, che si fanno incammino. Sbattendoci la testa, leccandosi le ferite,imparando la lezione o raccontandosela un po’.

Persone normali del secolo scorso

Flavia Vadrucci, Pulp, luglio 2011

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Oblique Studio | ottobre 2011

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Page 74: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

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Scibona | La fine

«Come acqua e calce, in una malta che dà forma

al destino, scolpisce le facce, decide le vite,

Scibona impasta la terra, la lingua, la fatica,

il pane, il sangue, l’amore, la violenza, il dolore»

L’obiettivo perpetuo è divenire, o anche solo farselapassare. Provare a prendere la palla, se si riesce, op-pure uscire al terzo strike, con gli occhi che pian-gono l’aborto di un fuoricampo e l’uniforme sporcadi fango di chi ha lottato fino all’ultimo. Tanto allafine passa davvero, per tutti, per chi ha cercato diricucire i cocci col fil di ferro come per chi ci ha bal-lato sopra con le scarpe da tip tap. Passa e si portavia il sudore, l’affanno, le grida, la calca, i baffi e idolciumi, le biglie e le calze filate a mano. Passa e siporta via tutto. Proprio come la statua dell’Assunta,il giorno della festa.

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Page 75: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«Se uno scrittore teme di risultare

come una versione di basso profilo

dell’autore che ama, allora la soluzione è di leggere di più,

e con maggiore ampiezza»

Liborio Conca, Il Mucchio , luglio-agosto 2011

inizio con la carne e mi dirigo verso l’interno, alleossa. Un saggio, un libro di nonfiction, un manifesto;questi oggetti sono spesso sulle idee, e così per questogenere di cose ha senso iniziare proprio da esse. D’al-tro canto, il materiale della fiction non sono le idee,bensì la vita vissuta. Nella misura in cui le idee sonoparte della vita, allora entrano nel romanzo. Nella mi-sura in cui uno scrittore impone idee dal di fuori suun frammento di esperienza, allora sono letali. Ho ini-ziato dalle cose più piccole, per quanto possibile. InLa fine, era il suono dei piedi di un uomo nellatromba delle scale. Non sapevo nient’altro.

Davvero non pare il caso di perdersi in chiacchierequando abbiamo uno scrittore di grande talento cheha scritto un grande romanzo che ci ha fornito, nel-l’intervista qui sotto, risposte illuminanti e per nientebanali sulla scrittura, sull’importanza del linguaggio,sulla passione per la letteratura.

Questo libro ti è costato tanti anni di lavoro, oltre dieci.Qual è stata la motivazione che ti ha spinto a credere inquest’opera?Che posso fare solo oggi il lavoro di oggi. Come chiun-que altro, mi affeziono a un progetto e voglio portarloa termine, ma la mia attenzione principale è rivolta allavoro di ogni giorno. Dieci anni sono solo un giorno,iniziato e portato avanti qualche migliaio di volte. Dun-que, non è così difficile passare tanto tempo con unlibro. La maggior parte del lavoro emotivo e personaleconsiste solo nel mettermi alla mia scrivania, al mattino.Per un alcolizzato, ogni giorno senza bere è una vittoria.Ogni giorno in cui lavoro è un giorno in cui ho fattoquello che volevo, che è tanto. Scrivere mi dà una qual-cosa come una gioia straziante. Detto ciò, ho vissutoun profondo coinvolgimento emotivo con La fine, coni suoi personaggi eccetera, ma l’ho sentito con il miocuore e la mia mente, non con la mia volontà.

Qual era l’idea alla base del romanzo? È rimasta la stessanel corso della lavorazione, o si è evoluta via via, pren-dendo altre direzioni?Non lavoro mai a partire da un’idea. Non lavoro maicon un concept da rimpolpare. Invece diciamo che

Botta e risposta con Salvatore Scibona

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Page 76: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«Riteniamo che il tempo si muova su una linea diritta, ma centinaia di volte ci ritroviamo stretti nella morsa del passato»

«Come chiunque altro, mi affeziono

a un progetto e voglio portarlo a termine,

ma la mia attenzione principale è rivolta

al lavoro di ogni giorno»

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Scibona | La fine

In La fine assistiamo a un continuo alternarsi dello spa-zio temporale, hai una filosofia di fondo a cui hai attintooppure hai semplicemente adattato il tempo alle esigenzenarrative?Domanda affascinante. Una risposta piuttosto «a ro-vescio»: forse ho adattato il tempo alle esigenze dellanarrazione, come suggerisci, ma nel farlo ho trovatouna filosofia dello spazio-tempo di cui forse non eroabbastanza consapevole, conscio.Il libro mi ha insegnato una visione più precisa per os-servare l’avanzare del tempo e dello spazio. Riteniamoche il tempo si muova su una linea diritta, ma centinaiadi volte ci ritroviamo stretti nella morsa del passato. Ilmio personaggio Ciccio riflette che «eventi remoti cihanno lanciato per lunghe orbite ellittiche come quelledelle comete, lontano dalle nostre origini, e alla fine ilnostro percorso si compirà e torneremo alle persone lecui vite ci hanno preceduto e hanno dato origine allenostre. Possiamo riconoscerle immediatamente. Op-pure possiamo incontrare uno sconosciuto e, mentre glistringiamo la mano, provare la vivida sensazione cheun’antica promessa è stata infine mantenuta».

Ci sono scrittori italiani contemporanei che apprezzi par-ticolarmente?Verga, Sciascia, e Lampedusa. Tutti scrittori molto dif-ferenti, ma comunque umani e precisi, con una fedeverso la realtà del mondo che i loro personaggi intui-scono nel senso più ampio con i loro cuori, la loro im-maginazione, il proprio intelletto, e più semplice-mente, i propri sensi.

Il tuo stile è classicheggiante e allo stesso tempo sfuggente,riesce a catturare con spifferi di magia… ci sono autoriparticolari che ti hanno ispirato?Grazie, è molto gentile da parte tua. Ammiro SaulBellow, Virginia Woolf, Mark Twain, George Eliot,Lampedusa, Homer, Herman Melville, Toni Morri-son, Platone, Don DeLillo, Faulkner, Pascal, Freud(uno scrittore «letterario», davvero), il grande narra-tore islandese Halldór Laxness, tanti altri. Il mio prin-cipio è di non imitare mai, e mai di evitare d’essereinfluenzato. La speranza di chi legge è di essere in-fluenzati, di fare in modo che la tua vita, il tuo pen-siero, la tua percezione della lingua, possano essere ro-vesciati da un libro. Se uno scrittore teme di risultarecome una versione di basso profilo dell’autore cheama, allora la soluzione è di leggere di più, e con mag-giore ampiezza. Sento una specie di impulso morale autilizzare il linguaggio per quello che designa real-mente, non soltanto per quello che io vorrei signifi-casse. Uno scrittore deve rispettare l’accordo ‒ tra luie il lettore – che rende il linguaggio possibile. Quantopiù sarà fedele al significato letterale, più (strana-mente) potrà distendere il linguaggio oltre la propriapotenza letterale. Se scrivessi «tenebroso», vorrei cheil lettore sapesse che voglio dire esattamente quelloche si attende. E poi, in aggiunta, voglio che mi dial’ampiezza che consenta di estendere quella parola inun senso che non si aspettava. Laxness descrive ungatto sul davanzale mentre guarda alla gente sotto«con malizia soave». Parole assolutamente perfette. Leusa per quello che significano, e di più, e di più.

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Page 77: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«A volte scrive “troppo bene”

e lascia perplessi il fatto che trasferisca

con eccessiva disinvoltura la sua sintassi

a quella dei personaggi, almeno per ciò che attiene

ai loro pensieri»

Michele Lupo, liberolibro.it, 3 agosto 2011

Storia di emigranti ma senza nessun tono popolareo strappalacrime questo La fine di Salvatore Scibona(scrittore italoamericano, nato a Cleveland, insignitonel 2010 del Guggenheim Fellowship e incluso dalNew Yorker tra i 20 under 40, l’elenco dei venti mi-gliori scrittori americani sotto i quarant’anni).Uscito in America nel 2008, il romanzo sembrascritto piuttosto da un allievo di Don DeLillo ma,come dire, più figurativo. Racconta le vicende di unacomunità di italoamericani che si barcamena dalleparti di Elephant Park, Ohio, nel bel mezzo del se-colo ventesimo, secolo di grandi promesse per tuttie di immani tragedie per molti. Attraverso una storiache adombra facendolo crescere sottotraccia e lenta-mente un crimine nascosto, si squaderna davanti agliocchi del lettore un paesaggio di sentimenti acuti, ditormenti, di vite fatte come quella di ognuno di san-gue e fatica ma che non si esauriscono in un esitomateriale puro e semplice.Qui non è questione di mera sopravvivenza secondocanoniche vulgate di poveracci in trasferta perma-nente; nel romanzo di Scibona, trantacinquenne ita-loamericano di Cleveland, non bastano le sconfitte ole vittorie materiali a esaurire il significato di una vitao di una comunità. Dio, la Vergine, vedove, ragazziniproblematici, uomini sfigati; e poi il sudore, lo spettrodella fame, il Niagara o altre meraviglie del mondosognate in cartolina.Immaginario risaputo ma qui rivisto come mero ma-teriale di partenza per una destinazione d’uso inaspet-tata. La questione dirompente dell’identità di questa

Italiani d’America

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«Qui non è questione di mera sopravvivenza secondo canoniche vulgate di poveracci in trasferta permanente; nel romanzo di Scibona non bastano

le sconfitte o le vittorie materiali a esaurire il significato di una vita o di una comunità»

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Scibona | La fine

nella guerra di Corea e gioiellieri sinistri, mescola inun plot che sembra muoversi per cerchi concentricivicende di gente che ha bisogno di sentirsi a suo agiocon il mondo che li ospita e dal quale non torneranno.Ma non è per niente facile, per quanti sforzi faccianodi vivere nel presente.Scibona sembra conoscere bene il mondo che rac-conta, ha per così dire studiato la materia, ha soggior-nato in Italia. A volte scrive «troppo bene» e lascia per-plessi il fatto che trasferisca con eccessiva disinvolturala sua sintassi a quella dei personaggi, almeno per ciòche attiene ai loro pensieri. I dialoghi sono più misu-rati, non privi di acutezze. Il racconto a volte rallenta,sembra quasi avvitarsi su sé stesso per poi aprirsi inaccensioni luminose; ma chiama a sé lettori pazienti,di quelli che si innamorano di una prosa (almenoquella del traduttore! – Beniamino Ambrosi), di unosguardo più ancora che di una trama: lettori sedottida una specie di musica delle connessioni tra fatti,idee ed emozioni. Esordio certo molto interessante,La fine si è guadagnato la finale al National BookAward, e ha vinto il Young Lions Fiction Award, ilWhiting Writers’ Award e il Norman Mailer CapeCod Award for Exceptional Writing.

gente che cerca di mantenersi salda fuori dai propriconfini e teme, a ragione, di non farcela, investe unpiano più sottile e più alto, che è quello del «senso»:hanno bisogno, questi personaggi, di trovare una finema anche un fine probabilmente, un significato chedia ragione della loro esistenza. Scibona sembra in-cline tanto a sondare (con una sensibilità iperestesica,eccellente capacità di visione delle cose e dei pensieri)la vita interiore di chi anima le sue storie quanto a tra-sferirvi parte dei suoi tormenti, con il che emerge forseil punto di crisi di questa scrittura di indubbia sagacia:l’eccesso di cognizione intellettuale di personaggi chenon sembrerebbero disporre di certi strumenti, specielinguistici, e che finiscono con il pensare una linguache è quella del narratore. Un rischio che è parte del-l’avventura intrapresa da Scibona.La narrazione, consapevole della trama non lineare deltempo, all’inizio incentrata su Rocco, panettiere dallavita tribolata (il primo capitolo, tutto dedicato a lui, èin sé un romanzo in miniatura) pian piano coinvolgealtri personaggi e li avvita in un plot fatto di scartitemporali ripetuti, di digressioni, di avvicinamentigraduali. La storia, fra aborti clandestini e religiositàinquieta, figli di italiani che muoiono «da americani»

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Page 79: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

«Una bella impresa, cui manca per essere

memorabile il taglio del traguardo finale,

come quelle fughe di 200 km in solitario sulle Alpi o i Pirenei

dove si viene riacciuffati dal gruppo

a 900 m dall’arrivo»

Red., borislimpopo.wordpress.com, 4 agosto 2011

torrida, che seguiamo dall’alba a notte inoltrata, simuovono un manipolo di personaggi, tutti (fuorchéuno) di origine italiana e accomunati dalle loro storiedi emigrazione, sradicamento, speranze, spaesa-mento. Questo dà la possibilità a Scibona di muo-versi dal giorno e dal luogo della storia, allontanan-dosene nel tempo e nello spazio, fino all’Italiadell’inizio del Novecento. E gli dà anche modo – maquesto è un piccolo trucco del mestiere – di riportarele sue lunghe divagazioni al campo-base (ElephantPark 15 agosto 1953) facendoci vedere una scena giàdescritta con gli occhi di un personaggio diverso.

Strano romanzo d’esordio, questo The End di Salva-tore Scibona (non fatevi trarre in inganno dal nome,Scibona è born in the Usa e scrive in inglese, e il suoessere d’origine italiana non gli evita i piccoli erroritipici degli americani, come di scrivere Sienna perSiena e cose simili).Un romanzo importante per dimensioni (350 pagine)e per ambizioni (è stato segnalato dal New Yorker nelconcorso «20 under 40», i venti migliori giovani scrit-tori d’America).Un romanzo riuscito soltanto a metà, secondo me (lemie opinioni sono sempre personalissime e condizio-nate dagli umori prevalenti durante la lettura e soprat-tutto la stesura della recensione). Una bella impresa,cui manca per essere memorabile il taglio del tra-guardo finale, come quelle fughe di 200 km in solita-rio sulle Alpi o i Pirenei dove si viene riacciuffati dalgruppo a 900 m dall’arrivo.Scibona è molto consapevole dei suoi mezzi, e mi paresempre alla ricerca della bella frase, del termine ricer-cato, di una compiutezza formale; è anche consape-vole dei suoi debiti e delle sue ascendenze nobili, daJames Joyce, a Virginia Woolf, a Graham Greene(come peraltro hanno notato anche alcune recensioniche ho guardato dopo aver finito il libro).Di Joyce, direi, c’è soprattutto l’unità di tempo e dispazio. Il Bloomsday di The End è il 15 agosto 1953,festa dell’Assunta; al posto di Dublino c’è la nei-ghborhood di Elephant Park a Cleveland, una LittleItaly già assediata dalle avanguardie della penetra-zione afro-americana. Sullo sfondo di quella giornata

Storie di emigrazione, sradicamento, speranze, spaesamento

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«Scibona si muove dal giorno

e dal luogo della storia,

allontanandosene nel tempo

e nello spazio, fino all’Italia

dell’inizio del Novecento»

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Scibona | La fine

«It was only her own brain generating phantasmal se-nators to impede the exercise of her imperial rights».

«The new people had no politics. When Plato hadgone to Sicily, hoping to put his political ideas intopractice, the locals had sold him into slavery. As faras the new people cared, the body politic includedtheir blood relations and nobody else. Equally andoppositely depressing: The individual also includedthe blood relations. I was we».[Questa mi sembra invece una profondissima para-frasi dell’italico «familismo amorale»]

«Politics, or the life of others as lived by oneself, wasthe mind’s natural subject. Conversation was its na-tural sport».[Dalla politica al gossip: attualissimo]

«Agriculture was the domination of a landscape bythe hand of man».[Abbastanza scontato ma profondo e soprattutto «ci-tabile»]

Il romanzo è sostanzialmente un monologo interioredei diversi protagonisti ma – e qui Scibona mi sembrapiù vicino a Virginia Woolf che a James Joyce – piùche delle voci ben distinte dei singoli si tratta sempre,direi, di quella ben riconoscibile dell’autore, con tuttele sue ossessioni: il sé immutabile nei cambiamentiesteriori e interiori, i luoghi e la loro autocoscienza,l’inattingibilità della verità.Ma su questo tornerò tra poco con qualche citazione.Prima però vorrei candidamente confessare che mi èsfuggito – temo – il fatto, o meglio il misfatto, che tieneinsieme la storia e che, secondo le recensioni che holetto, la porta alla sua naturale conclusione. Certo, hoben colto la tensione, la cupa atmosfera di attesa e dinon detto (quella che fa pensare a Graham Greene),ma evidentemente il non detto era troppo profondoper la mia comprensione (naturalmente, non tutto miè sfuggito e ho delle mie ipotesi e persino qualche cer-tezza, ma non le scriverò qui per non togliervi il gustodi leggere The End come un thriller, se vi va).Ecco le citazioni (sono costretto a citare la posizione,avendolo letto sul Kindle):

«Europe was happening, right here, and it didn’t fit.This wasn’t the continent of the group, socialism, amillion jam-packed cities. This was the country of theparticular person, private enterprise, vast and emptygrassland counties, the Protestant Jesus who went byhis first name and saved souls one by one, dependingon Do you believe, in your private heart, or don’tyou? This crowd did not belong in this place».[Una bella riflessione sulla più profonda differenza cul-turale tra Stati Uniti ed Europa, tutt’ora valida]

«And young Rocco thought, If I could understandone moment I would understand all moments».

«Her mind was not a chamber in which a crowd oflawyers competed to direct and obstruct her will; itwas a forest, and deep inside, alone, in a cool pond,her I swam freely on its back and scrutinized the tan-gled canopy of thought overhead».

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«Più che delle voci ben distinte dei singoli si trattasempre di quella ben riconoscibile dell’autore,

con tutte le sue ossessioni»

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[Anche questa è molto felice; e nelle eredità joycianec’è anche un ritratto dell’artista da giovane, nel gio-vane Ciccio nelle mani dei gesuiti]

«They were killing him with work. He didn’t knowwhat they were trying to turn him into. But he didn’tknow what he was, either».

«But he felt a solace in this: that what is solemn tome can be laughable to you and still be no less so-lemn. Because the person he believed had laughed athim, or else had sung merrily along with him, wasstill, of necessity – he promised himself not to forget,but he did forget – looking right into him, apprehen-ding the self that he felt, that his name failed adequa-tely to name. As misery and mercy are the same, thefirst being what God wishes you to feel and the se-cond the version of empathy he feels for you whenyou are miserable».

«[…] the boy had two names, a first and a last, one forthe little self, one for the big self, the shared identityacross centuries and an ocean, a name that, when youspoke it, others connected you with a clan and a place».

«When being chased, avoid open places».

«Exhaust the enemy».

«Imagine a house repainted with a hundred thousandcoats, under which the original wood has rotted away;and yet the house still stands, composed now entirelyof paint».

«The way people didn’t mean the same thing whenthey said “location” as when they said “place.” Theysaid “place” meaning the self of the location».[Veramente profondissima]

«The way people said, “she,” “you,” “I,” and theydidn’t mean only bodies or faces, they meant her self,your self, my self. And she could tell they were doingthe same thing she was doing. They were looking forthe self behind her changed face, as she was lookingfor the selves behind their changed faces».

«There was an invisible membrane between a child’sworld and the world of grown people. The child’s washypothetical; the adult’s was actual».

Oblique Studio | ottobre 2011

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Altro che italiani d’America… Ora l’America èdegli italiani

La fine è un piccolo manifesto dell’evoluzione dell’italianità in America

Giuseppe De Bellis, il Giornale, 6 agosto 2011

Le miserabili vite degli italiani in America

Salvatore Scibona le racconta con grazia.Il trentacinquenne italoamericano, scavando in unpassato che parla della nostra storia come un registaalle prese con un film in costume (al lettore ricorderàil Nuovomondo di Crialese), trasfigura il quartiere ita-liano di Cleveland, Midwest, in un’epopea che è il ri-tratto ironico e commovente degli espatriati di inizio’90: c’è un panettiere che vive di ricordi, una giovanemoglie che lascia figlie e marito, una vedova abortista,un gioielliere omicida, ferventi cattolici sedotti dalKKK Tra sacrifici, abbandoni e molta poesia.

Camilla Gaiaschi, D della Repubblica, 6 agosto 2011

Una volta chiesero a Don DeLillo: perché non ha maiimparato l’italiano? «Non volevano i miei genitori.Dovevo crescere come un americano. Era meglio così,integrarsi e lasciare alle spalle il resto». Essere italoa-mericano, a New York, era un orgoglio da vivere insilenzio, al chiuso, in un quartiere, in un isolato.Ancor meglio in casa. Oggi puoi urlarlo. Ti riempi labocca: «Sono italiano». Lo dicono anche quelli che diitaliano hanno solo il cognome, quegli italoamericanidella stessa generazione dello scrittore di Underworld. C’è più Italia a New York che in molte altre città ita-liane. C’è più amore per l’Italia a Manhattan, Broo-klyn, Bronx, Queens e Staten Island che in moltiquartieri delle nostre metropoli. Lo capisci passandopersino da turista, lo vivi rimanendo anche solo perpoche settimane per lavoro, te ne accorgi leggendol’ultimo libro di Maurizio Molinari, Gli italiani diNew York (Laterza). È un almanacco vissuto, un re-portage attraverso i luoghi, le facce, le storie, le ideedegli italiani di New York. Quelli che ci sono nati equelli che ci sono arrivati. Attorno e dentro la GrandeMela ci sono tre milioni e mezzo di italiani: come sel’intera Roma avesse traslocato lì.Non sono più gli italiani d’America, perché questa èl’America degli italiani. Non c’è più nulla della dispera-zione degli immigrati che sbarcavano a Ellis Island. Nonc’è più neanche il riscatto e l’emancipazione. C’è tuttodella creatività, della forza, della capacità di essere italianicomunque. Perché i figli dei figli dei figli di quelli chefacevano la coda per entrare nel Nuovo Mondo hannogià svoltato: da Mario ed Andrew Cuomo, padre e figlio

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Page 83: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

governatori dello Stato di New York, dal sindaco d’Ame-rica Rudy Giuliani, da Carl Paladino che ha contesol’elezione a Cuomo Jr. l’affermazione pubblica dell’Italiaè diventata una certezza. Qui, in questa macrocategoria,ci sono anche i centinaia di nomi italiani di poliziotti opompieri morti o sopravvissuti l’11 settembre 2001. Ècome se quella data sia stata l’ultima porta per farci en-trare nella grande famiglia americana senza sentirci piùi fratelli sbagliati. Però la nostra New York non è soloquesto. Anzi forse non è più questo. È la città dell’ita-liano che la sceglie perché è il posto dove chiunque puòsentirsi se stesso e quindi anche italiano pur vivendo danewyorkese. È la Manhattan di Diego Piacentini, numero due diAmazon, dell’architetto e designer Gaetano Pesce, diLamberto Andreotti, il figlio di Giulio, che in Ame-rica ha trovato la sua strada fino ad arrivare a diventarenumero uno del colosso chimico-farmaceutico Bri-stol-Myers Squibb, di Renzo Piano che era già unastar, ma che a New York è diventato ancora piùgrande, del disegnatore-artista Matteo Pericoli che èentrato nelle case di una sessantina di «manhattanite»che contano, s’è affacciato alle loro finestre e ha dise-gnato la città che vedeva oltre i vetri: il libro che ne èvenuto fuori è una chicca che senza parole racconta ilnuovo italiano d’America. Quello che a New Yorkvive per trovare qualcosa che non c’è altrove: un’idea,uno slancio emotivo, una spinta a provarci, oppurepiù semplicemente il posto dove un’idea che già c’era

si può realizzare. C’è ancora quel senso di conquista,a New York. Banale, sì. Retorico, pure. Eppure incre-dibilmente reale.Pericoli s’è affacciato anche alla finestra del profes-sore-scrittore-regista-intellettuale Antonio Monda. Èun altro pezzo dell’Italia di New York. «È l’unico ita-liano capace di far conversare informalmente sotto lostesso tetto a Manhattan – come a Capri – registi, at-tori, scrittori e personaggi della cultura con le radicinei due universi a cui lui appartiene. Se la Book Re-view del New York Times gli ha dedicato un ritratto èperché nella sua casa Philip Roth ha incontrato Al Pa-cino, Salman Rushdie ha conosciuto Roberto Savianoe Renzo Piano ha pranzato con Meryl Streep. “Mipiace mettere assieme persone diverse […] mio padreDante diceva che se tu mi dai una cosa e io te ne doun’altra, alla fine dello scambio ne abbiamo una cia-scuna, invece se tu mi dai un’idea e io te ne do un’al-tra alla fine ne abbiamo due”».Un salotto d’Italia che vale un mondo. Mondo’sMonda era il titolo del ritratto della Book Review. Èun dettaglio, o forse no: anche la lingua racconta l’evo-luzione. L’italiano non è più broccolino. È diventatoun vezzo, a New York. Un segno di riconoscimento.Qualcosa di molto diverso da quello che i doppiaggidei «mafia movie» ci hanno insegnato. È un orgoglioanche questo. Lo scrive Molinari: «In alcune famiglie,gli anziani vietano ai più giovani di vedere il film Il pa-drino perché lo considerano un vettore di trasmissione

«C’è più Italia a New York che in molte altre città italiane.

C’è più amore per l’Italia a Manhattan, Brooklyn, Bronx, Queens

e Staten Island che in molti quartieri delle nostre metropoli»

Oblique Studio | settembre 2011

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Page 84: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

di pregiudizi anti-italiani molto nocivi, in sintonia conle denunce dei combattivi attivisti di Niaf (NationalItalian American Foundation) e Italian Citizens Foun-dation contro il serial tv Sopranos e il reality show JerseyShore, accusati di portare sullo schermo l’immagine diun popolo di mafiosi e cafoni».Il cliché di quell’Italia scomparirà anche dalla tele-visione. È un filone in esaurimento, è un fenomenoin scivolamento. Superato dalla realtà e travolto dalfuturo. Per la letteratura è già successo. La fine di

Salvatore Scibona è un piccolo manifesto dell’evo-luzione dell’italianità in America.Sfuma sulle radici, accarezza le origini, sfiora il pas-sato. Nostalgia, colori, sapori dell’Italia non sono piùil tema centrale: sono diventati un affare privato. Èscomparso il grande logorio psicologico dell’emi-grante e dei suoi discendenti. C’è un paese nel qualesi vive e uno del quale ci si sente figli. Possono fon-dersi o rimanere separati: adesso è uguale, ora si puòscegliere.

«Il nuovo italiano d’America: quello che a New York viveper trovare qualcosa che non c’è altrove:

un’idea, uno slancio emotivo, una spinta a provarci, oppure più semplicemente il posto dove un’idea

che già c’era si può realizzare»

Red., cosedalibri.blogspot.com, 19 agosto 2011

Da un’intervista a Salvatore Scibona, autore della Fine:

«Scrivere è una sorta di competizione tra chiarezza e grazia. Come diceva John Cage: la chiarezza è fredda, matematica;

la grazia calda, incalcolabile, come l’aria. Occorre farle danzare insieme.

O come la tensione nietzschiana tra apollineo e dionisiaco: non si può fare a meno dell’uno o dell’altro.

Un artista, uno scrittore, ha il dovere di tenerli insieme, la sua opera deve essere frutto di entrambi. O avrà fallito»

Scrivere secondo Scibona

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Scibona | La fine

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Page 85: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

Scibona, il «paisà» di Cleveland che vuole imparare afare l’italiano

Luigi Mascheroni, Cultura del Giornale, 8 settembre 2011

Salvatore Scibona ha 36 anni, è nato e vive a Cleve-land, ha scritto finora un solo ma acclamatissimo libroe nel 2010 il New Yorker, ovvero la Cassazione dellaletteratura, lo ha selezionato nella esclusivissiva listadei venti scrittori più interessanti (notable) di linguainglese sotto i quarant’anni, che non vale come averfirmato il manifesto «Tq – Trenta-quaranta» qui danoi in Italia…Scibona ha origini siciliane, una decina d’anni favenne a conoscere la «sua» Italia, da un po’ di tempoci torna regolarmente, parla un buonissimo italianoed è legatissimo al ramo siculo degli Scibona, i lontaniparenti di Mirabella Imbaccari, in provincia di Cata-nia, dove nacquero i suoi bisnonni e dove ora vivonoi suoi nipotini («Dopo più di un secolo abitano ancoranella stessa casa, è incredibile, proprio quella, solo conun piano in più…»). Dice di non vivere più l’Italia daturista ma – così ci confessa – «in qualche modo cercodi vivere come uno di voi», cioè per quello che può,da italiano. Per questo Scibona è un americano per-fetto. Solo chi è capace di credere nelle proprie radicie di difenderle può permettersi il lusso di mantenere,ovunque, la propria identità.Sull’«italianità», sull’emigrazione, sull’America degliitaliani e sugli italiani d’America, Scibona ha co-struito la sua unica opera, che a suo modo è un’operaunica: il romanzo The End, La fine, tradotto qualchemese fa da una piccolissima casa editrice italiana chesi chiama 66thand2nd e che crede molto nella nuovanarrativa americana e in Scibona in particolare, e chelo porterà al Festivaletteratura di Mantova domenica

prossima, 11 settembre (ore 10,45; Palazzo di sanSebastiano). Vista la data, in qualche modo la gior-nata degli americani.Forte di un bellissimo romanzo che partendo dalla«fine», gli anni Cinquanta, racconta a ritroso mezzosecolo di epica dell’emigrazione italiana negli StatiUniti, e forte di una sorta di «culto» segreto da partedegli addetti ai lavori, Scibona arriva a Mantova comeuno dei nomi più attesi e promettenti, almeno sullacarta del programma. Avendolo conosciuto, siamo si-curi che manterrà la promessa anche di persona, difronte al pubblico, nonostante questo sia il suo primofestival in assoluto: «Sono molto curioso. Da noi negliStati Uniti non esistono cose del genere. Credo di-penda dal fatto che la cultura protestante tende a ge-nerare un forte individualismo, quella cattolica inveceama fare le cose in comunità, assieme, in piazza: comenei festival. Non so, l’ho detto scherzando… forsequalcosa di vero però c’è…».Qualcosa di vero ci dev’essere in questo italoameri-cano che adora la letteratura di Faulkner, Saul Bel-low, Don DeLillo – «rimane il mio idolo» –, che perscrivere il suo romanzo ha impiegato dieci anniesatti, e per cinque ha riletto, ripensato e riscrittol’incipit, le 40 righe che introducono il protagonistadella storia («La cosa più importante in un romanzosono i personaggi, lo scrittore li deve costruire tal-mente bene e li deve controllare così tanto da far sìche una volta entrati in scena vivano da soli: io perloro sono il Dio creatore, ma loro poi sono esseri li-beri»), e che per scrivere al meglio, per un mese,

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Scibona | La fine

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«Il New Yorker, ovvero la Cassazione della letteratura, lo ha selezionato nella esclusivissiva lista dei venti

scrittori più interessanti di lingua inglese sotto i quarant’anni, che non vale come aver firmato

il manifesto “Tq – Trenta-quaranta” qui da noi in Italia…»

prima di arrivare qui a Mantova, ha vissuto in Um-bria nella residenza per artisti della «Ranieri Foun-dation», a Civitella («Mi alzo dal letto, bevo il caffèe poi mi metto alla scrivania: posso pensare e scriveretutto il giorno, senza ansie. Significa essere in pacecon sè stessi»). Qualcosa di vero ci dev’essere in que-sto giovane italoamericano che qualcuno già para-gona a David Foster Wallace, o a Jonathan Franzen,o a Nathan Englander (anche loro, ai tempi, segna-lati come notable dal New Yorker) e che pure non hafretta di pubblicare un altro romanzo o di cambiareeditore cedendo alle lusinghe e al denaro dei grandigruppi e delle platee luccicati. «In questi giorni stoscrivendo un racconto, ambientato in Islanda… masolo perché ho letto da poco l’islandese Halldór K.Laxness, premio Nobel nel 1955. Sai, sono convintoche così come “l’uomo è cioè che mangia”, così “loscrittore è ciò che legge”. E poi, sì, sto scrivendo il

mio secondo romanzo, una storia completamente di-versa, una storia che non guarda al passato, come TheEnd, ma al futuro». Già, il futuro.Salvatore Scibona non sembra influenzato né da chisi è entusiasmato per Obama né da chi prova rim-pianto per Bush. Non è preoccupato per il partito de-mocratico, o per quello repubblicano. È un americanoperfetto. Per questo semplicemente è preoccupato perl’America. «Vuoi sapere cosa penso del futuro? Maivisto così scuro. Il piano generale delle cose rispecchiasempre quello personale. La maggior parte dei citta-dini americani in questi ultimi anni ha cambiato cosìtante città, così tanti lavori, ha visto cambiare cosìtante cose, da aver perso la bussola e il proprio postodentro l’America. E così l’America è cambiata cosìtanto, così tante volte, che non è più capace di trovareil proprio posto – la sua missione – nel mondo».Tempi brutti. «Appunto. Perfetti per scrivere».

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Il Festivaletteratura di Mantova, edizione 2011, è ap-pena entrato nel suo vivo, tanto che alcuni giorni faqui su Libri 10 avevamo presentato un mini calenda-rio dove segnalavamo gli eventi più interessanti ma,siccome sono moltissimi gli incontri, i reading e le in-terviste, ci riserviamo di dedicare all’evento ancora unpo’ di spazio per un articolo segnalante alcuni eventiche meriterebbero di essere visti.L’appuntamento odierno per chi si trova già in quel diMantova è quello delle ore 17.00 al Chiostro del MuseoDiocesano con Alain Mabanckou e Uzodinma Iwealae Alessandra Di Maio Pilgrimages, intitolato «Diaridalle metropoli d’Africa». Sempre oggi, venerdì 9 set-tembre, ma in serata e per la precisione alle ore 22.30sulla Sponda del Lago di Mezzo presso Porta Giulia siterrà «Buonanotte ai suonautori» un progetto a cura dip.o.p. produzioni con Alain Mabanckou e Black Bazar.

Salvatore Scibona al Festivaletteratura Mantova 2011

Red., libri10.it, 9 settembre 2011

Per chi invece arriverà a Mantova solamente nellagiornata di domani, sabato 10 settembre, alle ore14.45 presso i locali di Palazzo Aldegatti Alain Ma-banckou dialogherà sul Continente Nero con RosettaLoy con Pietro Del Soldà in un dibattito dal titolo«Africa mon amour».Domenica 11 settembre alle ore 10.45, presso il Pa-lazzo di san Sebastiano lo scrittore italoamericanoSalvatore Scibona, assieme a Simonetta Agnello Hor-nby, affronterà il tema «Narrare identità condivise».Nel pomeriggio sarà ancora di scena Scibona, autoreinteressante (potete trovare alcuni suoi racconti online mentre uno dei suoi ultimi lavori La fine è statopubblicato dalla casa editrice 66thand2nd) alle ore17.45 presso la Chiesa di Santa Maria della Vittoria,con un reading dal titolo «On Fussing» Word Choicein English Prose».

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«Se avete voglia di conoscere Salvatore Scibona, fate un giro

verso il Palazzo di san Sebastiano»

Red., blog.bookrepublic.it, 10 settembre 2011

trent’anni d’Italia con Patria, adesso con Zita, (che èil suo primo romanzo) scava nella nostra storia attra-verso un personaggio forte, coraggioso, pieno diideali.Stasera, se avete voglia d’incontrare Giorgio Faletti eascoltare le risposte (magari qualche anticipazione sulnuovo romanzo) che darà ai volontari del Festival, viconsigliamo di restare in Piazza Virgiliana.Domani, invece, se avete voglia di conoscere SalvatoreScibona, l’autore del discusso romanzo La fine, fateun giro verso il Palazzo di san Sebastiano: alle 10.45discuterà di narrazione con Simonetta Agnello Hor-nby. Per ascoltare dal vivo i racconti di YehoshuaKenaz, vi consigliamo di visitare il Castello di sanGiorgio. Magari si fa ancora in tempo ad incontrareBjörn Larsson prima che ritorni a Lund.Piccola nota. C’è un motivo in più per passare il weekend del Festivaletteratura con Bookrepublic: tutti gliebook che sono in promozione.Buon week end e buona lettura!

I veterani lo sanno (e lo scrivono sui giornali), per ilFestivaletteratura vale un’unica raccomandazione.Ognuno deve costruire il proprio festival, zigzagandoin un calendario – quello di questa quindicesima edi-zione – di oltre 300 eventi, andando alla ricerca deipropri autori preferiti, e lasciandosi guidare, ognitanto, dalla curiosità.Quello che Bookrepublic vi propone è un tour tra gliebook degli editori indipendenti presenti al Festivalper celebrare un week end in compagnia degli autoripresenti in città. Già, perché è molto facile incontrare,per le strade e i vicoli di Mantova (se vai in Piazza Al-berti, il cuore del Festival, fai bingo!) gli scrittoriospiti. Oggi non sarà difficile intravedere Roberta De Mon-ticelli, la filosofa scrittrice, autrice della Questione mo-rale, mentre s’incammina verso la sede della Fonda-zione dell’università di Mantova per tenere il suoincontro sull’«Etica ai tempi delle barbarie». O im-battersi in Enrico Deaglio, che dopo averci raccontato

Un week end a Mantova

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Letizia Guadagno, italiannetwork.it, 20 settembre 2011

sconosciuti. In seguito, grazie alla borsa Fulbright hotrascorso otto mesi in Italia e ho continuato a fare ri-cerche che ho portato avanti una volta tornato negliStati Uniti. Poi per un certo periodo, ho smesso. Horipreso a scrivere dopo che avevo dimenticato, peravere così il giusto distacco» racconta nel corso diun’intervista a ItaliaLavorotv/Italian Network lo scrit-tore italoamericano, sottolineando che il suo libro nonè autobiografico ma un’invenzione letteraria basata suapprofondite ricerche.Ambientato nella Little Italy di Cleveland, città doveè cresciuto lo stesso autore, il libro, partendo daglianni Cinquanta, ripercorre a ritroso mezzo secolo diemigrazione italiana negli Stati Uniti, mettendo aconfronto le diverse generazioni di emigrati.Tanti i personaggi che animano le pagine del suo ro-manzo tra cui Rocco LaGrassa, un panettiere con unfiglio morto in Corea, Costanza Marini, una vedovanovantatreenne che pratica aborti clandestini e parlacon il marito scomparso, Ciccio Mazzone, un adole-scente inquieto che ha perso i genitori, e ancora ungioielliere appassionato di vecchie lettere scritte daisoldati Confederati… Personaggi veri, umili, che cicommuovono con le loro storie travagliate dove si in-crociano dolori, speranze, passioni… Personaggi, tut-tavia, lontani nel tempo…«Oggi gli emigrati italoamericani sono diventati“bianchi”. Inizialmente erano italiani, poi sono di-ventati emigrati, in seguito figli di emigrati. Succes-sivamente sono stati, secondo una definizione diNixon, “white ethnics” ovvero emigrati di seconda e

Dopo l’arrivo, lo scorso maggio in occasione del Fe-stival Letterature di Roma, di Don DeLillo e di GayTalese, è giunto ora in Italia, per il Festivaletteraturadi Mantova, un altro italoamericano: Salvatore Sci-bona. Presenze rivelatrici che testimoniano il crescenteinteresse del pubblico verso la produzione letterariaitaloamericana.Tuttavia, se i primi due scrittori sono già noti algrande pubblico, Scibona è un esordiente tutto dascoprire. Inserito dal New Yorker, una delle più pre-stigiose riviste letterarie statunitensi, nella lista deiventi scrittori americani più promettenti sotto i qua-rant’anni, Scibona ha al suo attivo un unico romanzoLa fine, pubblicato a maggio in Italia dalla casa edi-trice 66thand2nd. Un romanzo che gli è valso diversiriconoscimenti come il Whiting Writers’ Award, ilYoung Lions Fiction Award e il Norman Mailer CapeCod Award for Exceptional Writing.Laureato all’università dello Iowa in scrittura creativa,Scibona vive a Provincetown dove lavora presso il FineArts Work Center.Dopo gli studi, grazie a una borsa Fulbright, l’autoreè venuto in Italia per conoscere il paese dei suoi ante-nati, originari di un paesino vicino Catania, per im-parare l’italiano e per fare ricerche per il suo romanzoche ha avuto una «gestazione» di dieci anni.«Ho scritto per qualche anno prima di effettuare qual-siasi ricerca. Poi quando il romanzo ha cominciato aprendere corpo ho deciso di approfondire alcuni ar-gomenti. Ho iniziato a leggere dei testi alla bibliotecadell’università dell’Iowa, scritti per lo più da autori

Salvatore Scibona: «Gli emigrati italoamericani sono diventati “bianchi”, ovvero “cittadini americani”»

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«Personaggi veri, umili, che ci commuovono con le loro storie travagliate dove si incrociano dolori,

speranze, passioni… Personaggi, tuttavia, lontani nel tempo…»

una caricatura, un paese mitico» afferma lo scrittoreche, grazie ai suoi sempre più frequenti viaggi in Ita-lia, si sente completamente a suo agio nel nostro paesedi cui conosce bene la lingua, la cultura, la politica.Tanti gli scrittori di cui si è nutrito Scibona: da Wil-liam Faulkner a Toni Morrison, da Virginia Woolf aOmero (ha studiato il greco per poter leggere l’Iliadein versione originale), da Saul Bellow a GiovanniVerga. «Ammiro tantissimo la visione morale di questoscrittore siciliano che purtroppo ho letto solo in in-glese. La sua capacità di dare dignità a un personaggioosservandolo, omettendo analisi, giudizi» precisa.Quanto agli altri scrittori italoamericani, con cui nonha molti rapporti, sottolinea il loro distacco dalla pa-rabola dell’emigrazione. «La generazione di Talese oDeLillo, autore che amo moltissimo, non è molto at-

con sbocchi più concreti, sicuri. È così che oggi ab-biamo tanti medici, ingegneri, avvocati italoamericanie non molti scrittori. La letteratura era percepita infondo come una cosa frivola, una scelta rischiosa»spiega continuando a parlare della sua America che,nonostante i gravi problemi attuali, continua a esserevissuta da tantissime persone come una terra di grandipromesse.«Non è assolutamente facile ottenere la cittadinanzaamericana, ma una volta che si diventa cittadino ame-ricano si hanno tutti i diritti. Una lingua o una reli-gione diversa non sono considerate un limite. Se-condo gli ideali americani, prima che un “tipo”, seiun individuo e quando sei cittadino americano nonsei più un medico del Bangladesh, sei uno di noi»conclude.

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Scibona | La fine

taccata all’esperienza dell’emigrazione. Fanno partedi quella classe che prima ho definito “bianchi”. Sonocittadini americani. E in fondo questo vale anche perme. Io ho scritto questo romanzo ambientato nelmondo degli emigrati ma non ho intenzione di di-ventare un autore che scrive solo storie sugli italoa-mericani» continua Scibona precisando, tra l’altro,che non ci sono così tanti scrittori italoamericani.«Solitamente» afferma «solo la terza generazione diemigrati comincia a frequentare l’università. Consi-derando che la grande emigrazione italiana è avvenutadall’inizio del Novecento sino agli anni Venti, sonodovuti passare molti anni prima che la situazione co-minciasse a cambiare. E inizialmente la maggior partedegli italoamericani che si è laureata ha scelto facoltà

terza generazione. Secondo me, il termine “bianco”significa beneficiare di tutti i vantaggi e i privilegi checomporta essere bianchi, fare parte della classe po-tente. Allo stesso tempo, tuttavia, vuole dire sentirsiresponsabili dei torti compiuti verso gli indiani, ineri…» dichiara Scibona precisando le grandi diffe-renze che esistono tra l’emigrato di ieri e quello dioggi. «Attualmente è difficilissimo entrare negli StatiUniti, è necessaria una preparazione e ci voglionosoldi. Gli emigrati di oggi sono tutti professionisti. Ealmeno una volta l’anno tornano a casa. Penso inveceai miei che quando sono partiti hanno perso tutto ilmondo. La mia bisnonna ha lasciato la Sicilia all’etàdi 18 anni e non ha mai più rivisto la sua terra. E laloro Italia vista da lontana diventava, a poco a poco,

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Scibona dipinge un affresco storico ma non retorico, creando figure appassionanti e vivide

La difficile scelta di rinunciare a una parte di sé stessi per poter accederea un mondo che offre a chi ne fa parte innumerevoli opportunità per co-struirsi un futuro migliore è il tema centrale della Fine

Incluso dal New Yorker nella classifica dei miglioriscrittori americani sotto i 40 anni, Salvatore Scibonaè stato ospite della libreria Modusvivendi dove ha pre-sentato il suo primo libro, un romanzo dal titolo Lafine, edito in Italia da 66thand2nd. Statunitense diorigini siciliane; i suoi bisnonni sono nati a MirabellaImbaccari, un paesino in provincia di Catania, è statonel 2008 tra i finalisti del National Book Award, il piùimportante premio letterario nazionale americano econ questo libro ha destato l’attenzione della criticache lo considera un vero e proprio caso editoriale.Costato dieci anni di fatiche e numerosi viaggi tra NewYork, Roma e Catania, alla ricerca delle proprie radiciculturali e familiari, narra la difficile integrazione degliimmigrati italiani in America a inizio ,900, una vera epropria epopea moderna che attraverso un racconto co-rale ci testimonia tutte le difficoltà vissute dai nostriconterranei a quell’epoca. Il distacco dalle famiglie, dailuoghi conosciuti dell’infanzia, dalle abitudini e persinodalla lingua, che inizialmente costituisce una vera e pro-pria barriera culturale. La difficile scelta di rinunciare auna parte di sé stessi per poter accedere a un mondoche per quanto spaventoso e destabilizzante, offre a chine fa parte innumerevoli opportunità per costruirsi unfuturo migliore. E proprio questo è il tema centrale delromanzo, l’autodeterminazione dell’identità dell’indi-viduo. Non a caso il titolo scelto si riferisce a quella chesembra essere la conclusione di una vita, lo spezzarsi diun sogno e invece si scopre essere soltanto l’inizio diuna nuova avventura. Assistiamo a sprazzi di luce sullevite di sette diversi personaggi che hanno in comune

soltanto il fatto di vivere la propria ordinaria e straor-dinaria quotidianeità, rivelandoci tratti del loro passatoe del loro presente, facendoci vivere le avventure e letragedie che li attendono.Diversi punti di vista per una visone più grande delmondo, una finestra aperta per il lettore che vienecontinuamente spiazzato dalle pieghe che prende lastoria man mano che il racconto prosegue.Teatro della scena è la Little Italy di Cleveland, Ohio,dove tre generazioni di immigrati si confrontano e siscontrano, e ogni destino che sembra già segnato, ognipercorso che sembra già tracciato porterà invece al-trove, verso una strada nuova e a una speranza di unpossibile riscatto. Una vedova che pratica aborti, ungioielliere appassionato di storia, un adolescente ti-mido, un panettiere che lavora con passione, tutti a uncerto punto della loro vita si trovano di fronte a unbivio, e i destini diversi finiranno per incrociarsi nel fi-nale in cui le strade si ricongiungono e i fili che colle-gano il tutto si intrecciano in modo inaspettato.Con uno stile personale e originalissimo, che si basasoprattutto su una approfondita ricerca umana e lin-guistica, Scibona dipinge un affresco storico ma nonretorico, creando figure appassionanti e vivide. Un ri-tratto a tinte forti di una realtà che gli italiani hannorealmente vissuto e subito per generazioni, fino ad ac-quisire quell’identità a metà strada tra le vecchie e lenuove radici che permette finalmente loro di eman-ciparsi dagli stereotipi che invece continuano a im-perversare in film e telefilm che non rispecchiano pernulla la vita reale.

Ilaria La Bua, palermo24h.com, 22 settembre 2011

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Emigrazione siciliana si fa magica parola nel gotha americano

Con il suo romanzo di esordio il siculo-statunitense Salvatore Scibonaconquista un posto tra i 20 migliori scrittori under 40 raccontando del bi-snonno

The end. La fine. Ma siamo solo all’inizio. Quellodella promettente carriera di un giovane scrittore ame-ricano, con sangue siciliano nelle vene, come tradisceil nome ereditato dal nonno. A 36 anni, Salvatore Sci-bona è già entrato nel gotha della letteratura ameri-cana con La fine, romanzo d’esordio che gli è valso unposto tra i 20 migliori scrittori americani under 40,secondo la rivista letteraria The New Yorker. Merito diuno stile narrativo costruito per associazioni di idee esovrapposizioni di immagini e pensieri, senza una li-nearità apparente che, invece, ciclicamente si ricom-pone. Seguendo la vicenda surreale e misteriosa diRocco, panettiere di origini siciliane trapiantato nel-l’America degli anni ’50, in una comunità italoame-ricana costellata di curiosi personaggi. Per i quali Sal-vatore ha preso ispirazione dai racconti di famiglia sulbisnonno immigrato a Cleveland da Mirabella Imbac-cari e dalle ricerche svolte tra Roma e Catania nel1999 durante il primo viaggio in Italia.

«Avevo in mente la storia del romanzo, ma in Ame-rica le comunità di immigrati italiani di prima gene-razione non esistono più» racconta Scibona, dopo unincontro alla libreria Cavallotto di Catania. «Ormaisono tutti integrati, come me che sono americanodoc. Quindi ho pensato che l’unico modo era viverequella stessa esperienza ma al contrario, facendomistraniero in Italia. Ho capito subito la necessità cheavevano gli emigranti italiani di andare dove già vi-vevano altri familiari».

Prima l’Italia e la Sicilia raccontate dai nonni, poi ilviaggio nel ’99 e adesso il ritorno dopo tanti anni. Trovamolti cambiamenti?Uno in particolare; 11 anni fa gli amici conosciuti quierano orgogliosi di essere italiani, ma sentivano chel’Italia unita era stata un’idea costosa da realizzare.Oggi questo sentimento «patriottico» non è più cosìforte. Credo che per mantenere unito un Paese ci vo-glia un modo per controllare e risolvere le diversità trale sue parti e soprattutto un’idea positiva della cosa percui farlo. Questo, oggi, non vedo più negli italiani.

Ornella Sgroi, La Sicilia, 23 settembre 2011

«Quando ho finito il romanzo,

avevo raggiunto una tale intimità

con i personaggi che staccarmi da loro è

stato duro. Un lutto.

Per questo non me la sonosentita di lavorare

alla traduzione con Beniamino»

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Molta della forza del romanzo sta nel linguaggio. Chevalore dà alla parola?Fondamentale. È il 99 per cento del lavoro, soprat-tutto se scrivi in inglese, anzi in americano. Ci sonocirca 40 parole diverse per esprimere un concetto nellesue sfumature. Allora, mi chiedo, perché usare la pa-rola sbagliata?

Per questo ha impiegato dieci anni a scrivere il libro?Sì, anche. Ma non volevo che il linguaggio risultassepesante, perché la chiarezza è la cosa più importante.Prima la denotazione della parola, poi la connotazionee il suono. Infine la magia. Quella per cui il richiamodi una certa parola già usata, cento pagine dopo faparlare il lettore con una parte del libro già trascorsa.Non è solo una ripetizione, ma un fatto del mondoche hai perso e poi ritrovato.

Questa ricerca della parola ha inciso sulla traduzione?Quando ho finito il romanzo, avevo raggiunto unatale intimità con i personaggi che staccarmi da loro èstato duro. Un lutto. Per questo non me la sono sen-tita di lavorare alla traduzione con Beniamino (Am-brosi). Da quel poco che avevo letto sapevo che

avrebbe fatto le scelte giuste. Il libro doveva andareper la sua strada.

Da esordiente, che effetto le ha fatto leggere il suo nomenell’elenco del New Yorker?Quello di una tazzina di gioia. Dovevo berla, gustarla epoi passare a qualcosa di diverso. So di essere fortunatoe ne sono orgoglioso. Però non voglio rimanere prigio-niero di quel successo. Ho conservato una sola copia dellibro nel mio studio, in via simbolica, per ricordarmiche l’ho scritto. Ma ho bisogno che la mia scrivania siasgombra. Solo carta, penna e macchina da scrivere.

È vero che ha scritto il libro a mano e poi a macchina?So che è un po’ atavico, però è con la penna che hocominciato a scrivere a dieci anni. Ho provato a usareil computer, ma sono strumenti tanto diversi da cam-biare anche il modo di pensare, e quindi di scrivere. Ilcomputer scivola in mezzo a mille altre cose, compresointernet. La macchina da scrivere invece fa solo ciò cheio le indico battendo sui tasti, senza distrazioni.

Sarà atavico, ma è il fascino della lettera battuta sul-l’inchiostro a immortalare la parola. E il pensiero.

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«Non voglio rimanere prigioniero di quel successo. Ho conservato una sola

copia del libro nel mio studio, in via simbolica, per ricordarmi

che l’ho scritto»

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La fine come mutazione

La fine − romanzo d’esordio dello scrittore italoameri-cano Salvatore Scibona, che ha impiegato dieci anniper portarlo a compimento, nominato al NationalBook Award (2008) statunitense, vincitore di vari altripremi letterari, per cui il suo autore è stato indicatocome uno tra i 20 migliori scrittori under 40 degli Usadalla rivista New Yorker − cerca di narrare un luogo spa-zio-temporale di passaggio, poiché la fine del titolo siriferisce a una mutazione, e se definisce lo fa per portarealtrove, in un altro tempo. La fine è quel momento incui il film finisce, le luci del cinema si accendono, e tialzi e te ne vai; è il momento in cui hai letto l’ultimopunto del libro e lo richiudi, e vai; è il momento – maindividua anche lo spazio di quel momento – in cuitorni. Torni a fare ciò che facevi prima, ma con unaconsapevolezza diversa. Da cui agisci in maniera di-versa, o almeno dovresti. Ma non sempre succede così,perché non si vuole tornare, perché il cambiamento èinsopportabile da accettare, perché la fine non si ac-cetta, quando ci tocca, quando tocca qualcosa/qual-cuno cui siamo legati. Perché della fine non vediamociò che porta ma ciò che sembra togliere, o questa se-conda cosa ci appare come immensamente più grandedella prima.La fine è, come dice Romagnoli sulla Repubblica, unromanzo sull’accettazione e non è facile accettarne(appunto) la sfida. È un romanzo cerebrale, intellet-tuale, costruito, che non cela tutto questo, gioca acarte scoperte, per cui può piacere, oppure no, manon fa giochetti con il lettore.Una storia costruita ad incastri di più storie, con una

stessa scena vista da più angolazioni, anche a distanzadi pagine e pagine, poiché Scibona segue i suoi per-sonaggi uno ad uno, dedicando loro, a rotazione,quell’attenzione che a suo avviso meritano. Certo cisono protagonisti e comprimari, ma tutti condivi-dono qualcosa, in modo diverso perché sono personediverse. Persone che fanno i conti con la mancanza,con quanto questa ci permetta, anche, di identificarcicome noi. È forte, in questi uomini, donne, ragazzi,la presenza dell’assenza. La mancanza. Di un figlio cheè morto, di una madre che è andata via, di un padreche muore, di un marito… e così via.Tutto si dipana dalla Festa dell’Assunzione, 15 agosto1953, nel quartiere di Elephant Park, in Cleveland,Ohio. Elephant Park il quartiere italoamericano dellacittà, in corso di trasformazione, con nuove presenze(quelle delle persone di colore) che si affacciano: «Con-tinuava a sentire la parola moolinyans, e per un attimo

Andrea Brancolini, lankelot.eu, 28 settembre 2011

«È forte, in questi uomini,donne, ragazzi,

la presenza dell’assenza.

La mancanza»

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volle bene a sé stesso, perché sapeva chi era, sapeva per-ché era legato ad alcune persone e non ad altre, sapevache quella parola stava per “melanzane”, o “negri”, elo sapeva per via del suo cognome, perché: Suo padreera stato chi era stato.» (pag. 344). Così si scopre que-sto quartiere, e chi lo viveva, come vedeva il paese incui era, «Si rendeva conto che l’America era diventatagrande perché aveva esteso il diritto di fare soldi per-fino ai soldi stessi, ma questa nella sua mente era unapratica della più turpe corruzione, giacché da quali ta-sche il primo denaro tirava fuori il secondo denaro, senon da quelle dell’uomo che l’aveva guadagnato conil sudore della fronte?» (pag. 13-14). Da questo giornodi festa si viene portati indietro nel tempo, per vederecome quelle persone siano arrivate proprio lì, in quelmomento, punto di partenza e di fine. Giorno afosod’agosto che si chiuderà in tempesta.Un libro difficile, in cui la mano autoriale si sente,forse anche troppo, un libro che chiede a chi leggeuno sforzo, ma a mio avviso è uno sforzo che vale lapena di fare, sarà che sono quel tipo di lettore cuipiace avere un confronto con ciò che legge, mi piacesentire che chi scrive crede in ciò che ha scritto e simette in gioco, rischiando per oltrepassare certi limiti,a volte riuscendoci, altre no. Così, questo libro nonsempre riesce a mantenere lo stesso livello, ma in ogni

parola se ne avverte la cura, l’attenzione, il portato in-tellettuale ed emotivo, e questo si trasmette a chi leggee mostra, a mio avviso, al lettore lo sguardo dell’au-tore, glielo dona, lo condivide. Forse proprio in que-sto voler condividere da parte di chi scrive con chilegge sta parte della sua forza e debolezza, nel sensoche la voce autoriale è sempre molto presente, ma necolgo più gli aspetti positivi che non quelli negativi.E, d’altronde, rimango un lettore a cui piace questotipo di scrittura, per cui sono di parte.Sono di parte anche perché, mentre il romanzo siavvia alla sua conclusione, uno dei personaggi di cuiviene narrata la storia ricorda un sogno, un sogno ri-corrente, ed in questo sogno ho visto (molto proba-bilmente aldilà delle intenzioni autoriali) un omaggioad un racconto che amo, e che si intitola Per semprelassù, di David Foster Wallace.Riporto il brano di Scibona:«…il sogno di un bambino che si compie. Una voltache cominciamo a cadere e dimenarci in aria pieni dipaura, la nostra volontà ci appare chiara; voltiamo lafaccia verso il basso; non diciamo “cadere”, ma “tuf-farsi”; osserviamo la terra che corre verso di noi a in-contrare i nostri occhi. Eccola. Non è uno schianto.Siamo una linea che interseca un piano. Ci passiamoattraverso come proiettili» (pag. 360).

«Questo libro non sempre riesce a mantenere lo stesso livello, ma in ogni parola se ne avverte la cura,l’attenzione, il portato intellettuale ed emotivo, e questo si trasmette a chi legge e mostra al lettore lo sguardo

dell’autore, glielo dona, lo condivide»

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Un affresco indimenticabile

L’emigrazione, l’importanza delle radici, il sogno ame-ricano dei nostri nonni soli davanti al destino: e an-cora il male di vivere, di famiglia e dell’avere due pa-trie nella Fine di Scibona, ambientato a Cleveland.

Nipote di immigrati italiani negli Usa, Scibona ci hamesso dieci anni a finire il libro, che gli è valso unposto tra i migliori scrittori americani sotto i 40 annisecondo la prestigiosa rivista New Yorker. «Non sonoorgoglioso di averci messo così tanto tempo, ma nonmi è dispiaciuto: quando ho iniziato ero molto gio-vane, e non c’è modo di imparare a scrivere, devi sem-plicemente provare a farlo» spiega.La fine intreccia diverse storie di immigrati italiani aCleveland, Ohio, la terra dell’industria pesante. Sci-bona scrive con un’attenzione quasi maniacale alla lin-gua, intrecciando le vite dei personaggi e cospargendoil romanzo di piccoli particolari apparentemente in-significanti che però le tengono tutte insieme compo-nendo un affresco indimenticabile.

Com’è nato il suo libro?La genesi di un romanzo è sempre misteriosa: il mioè cresciuto pian piano, giorno per giorno, nei dettagli.Ma se nel conscio non avevo un progetto, nel subcon-scio avevo già forte l’idea di attingere all’esperienzadei miei nonni, che sono stati i miei modelli di vita.Erano tutti vivi quando ho iniziato a scriverlo, e tuttimorti quando ho finito. I miei nonni materni eranodi origine polacca, quelli paterni siciliani: tutti nati

negli Usa, ma attaccati al vecchio mondo, a un tempoche non esiste più.

Scrive: «avere una famiglia è il contrario di morire, nonavere una famiglia equivale a essere morti». In questo èmolto italiano più che americano.Il peccato maggiore della cultura occidentale è che lefamiglie sono diventate sempre più piccole e distanti:prima, vivendo in famiglie numerose, da bambini siavevano diversi modelli di vita. Questo per me è statoanche un’educazione alla narrativa, necessariamentecorale: non sarei mai riuscito a scrivere un romanzocon uno, due personaggi.

Lei sembra avere un’ossessione per la perfezione della lin-gua, l’uso delle metafore.Per me la metafora non è una tecnica, ma un mododi pensare. Quando devo descrivere una persona ouna situazione, la mia mente automaticamente cercadelle assonanze con altre situazioni. C’è un punto nellibro in cui una dei protagonisti, la signora Marini,guarda un campo di grano, e sente in sé tutta la tri-stezza di non poter essere, in quanto essere umano,fino in fondo parte di quella natura. Ecco, qui housato la metafora: «come una perla in una torta». Lasua intelligenza è una perla preziosa ma fa soffrire.

La signora Marini è forse il personaggio più affascinante:profondamente intelligente, tormentata, piena di difettie molto umana. È riconducibile a qualcuno che lei haconosciuto?

Michela Gelati, ilrecensore.com, 30 settembre 2011

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È un’invenzione ma anche una commistione di qua-lità e difetti di persone anziane che ho conosciuto.All’inizio volevo avere solo questo personaggio didonna forte, grintosa, con le sue priorità e il suo egoi-smo. Ma il vantaggio di stare con un romanzo cosìtanto tempo è che i personaggi si evolvono e si è ar-ricchita così anche la sua esperienza del mondo, la suacultura, la sua intelligenza.

I suoi personaggi sono in bilico tra Italia e America, pas-sato e presente: tutti legati alle proprie origini, ma tuttia un certo punto soli, davanti a un destino che si creanoda soli, con le proprie mani.È il problema emozionale del romanzo: tutti i perso-naggi sono parte di qualcosa di più ampio – famiglia,comunità – ma poi muoiono soli. Nella famiglia nu-merosa l’identità veniva definita dagli altri. Non sononostalgico ma le conseguenze negative di una culturaindividualista si vedono nei momenti di crisi, come

oggi. Prima si usciva insieme dalle crisi, facendoognuno la propria parte.

Prossimi progetti? Un nuovo libro, forse un film trattodalla Fine?Per il film, rispondo «chissà». Poi sto scrivendo tantiracconti e anche un romanzo. Ma io non sono unoscrittore metodico, vedo giorno per giorno. E se poialla fine avrò scritto quattro libri o quindici, nonconta.

Salvatore Scibona, nato nel 1975 a Cleveland in unafamiglia di origine siciliana, si è laureato all’Univer-sità dell’Iowa in scrittura creativa e lavora al Fine ArtsWork Center di Provincetown. Dopo gli studi l’au-tore è venuto in Italia per conoscere il Paese dei suoiantenati, imparare l’italiano e fare ricerche per il suoromanzo.

«Il peccato maggiore della cultura

occidentale è che le famiglie

sono diventate sempre più piccole

e distanti: prima, vivendo in famiglie

numerose, da bambini

si avevano diversi modelli di vita»

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Indice

- Premessa 3

- Presentazione 66thand2nd 4

- Angela Manganaro 5«Il New Yorker ha stilato la nuova classifica dei 20 scrittori sotto i 40 anni»Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2010

- Alessandra Farkas 7«Incontri: l’esordiente che il New Yorker mette tra i migliori under 40»Corriere della Sera, 12 giugno 2010

- Lara Crinò 10«Scibona, l’“italiano” nella Top 20 dei giovani scrittori americani»il venerdì di Repubblica, 18 giugno 2010

- Gian Paolo Serino 11«The Kid il bambino venuto da dove?»D della Repubblica, 30 ottobre 2010

- Lara Ricci 17«Under 40 d’America: Salvatore Scibona»Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2010

- Antonio Carlucci 19«Scrittori emergenti: la fiction è sogno»l’Espresso, 14 dicembre 2010

- Gian Paolo Serino 21«Nuovi talenti: la promessa Usa viene da Catania e si chiama Salvatore Scibona»il Giornale, 19 dicembre 2010

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- Antonio Monda 22«Salvatore Scibona: “La mia Little Italy ha sedotto l’America”»la Repubblica, 12 gennaio 2011

- Sandra Bardotti 25«Salvatore Scibona – La fine»wuz.it, 24 febbraio 2011

- Cristina Battocletti 26«Forza da veri pionieri americani»Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2011

- Redazione 28«I personaggi di Scibona: la loro dimensione è un perenne presente»libon.wordpress.com, 20 marzo 2011

- Salvatore Falzone 29«Il romanzo di Little Italy: Scibona racconta i siciliani d’America»la Repubblica (Palermo), 29 aprile 2011

- Gabriele Romagnoli 31«Tra neologismi e iperpunteggiatura, l’universalità è la forza del testo»la Repubblica, 30 aprile 2011

- Camilla Galaschi 33«C’era una volta a Cleveland»D della Repubblica, 30 aprile 2011

- Redazione 34«La fine in pillole»mondoeditoriale.com, 5 maggio 2011

- Monica Capuani 35«La fine è il suo inizio: arriva in Italia il primo librodi Salvatore Scibona»Io donna, 7 maggio 2011

- Alessandro Mari 37«Nell’Ohio la processione del migrante»Tuttolibri della Stampa, 14 maggio 2011

- Luigi Di Chiara 39«I personaggi di Scibona tra fisicità e tensione spirituale»flanerí.com, 17 maggio 2011

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Page 100: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

- Claudia Rocco 41«Scibona, l’oro della ripetizione»Il Messaggero, 20 maggio 2011

- Guido Caldiron 42«La fine di Salvatore Scibona e La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi»Liberazione, 22 maggio 2011

- Olivia Laing 44«Scibona come Green: questioni esistenziali e trama serrataavvicinano i due autori»The Guardian pubblicato su Internazionale, 26 maggio 2011

- Florinda Fiamma 45«Storie di ordinaria disperazione»vogue.it, 31 maggio 2011

- Alessandro Beretta 46«Nostre migrazioni: storie di avi nel racconto collettivo di un italoamericano»Rolling Stone, maggio 2011

- «La fine: due recensioni»Marta Cervino 47

«Siamo arrivati alla fine»marie claire, maggio 2011

- Daniela Liucci 47«Letture per viaggiare o per sognare…»suitcasemagazine.com, maggio 2011

- Vera Gandi 48«Quando la fine è solo l’inizio»linkiesta.it, 5 giugno 2011

- Redazione 49«Nel romanzo dell’italoamericano Salvatore Scibona le nostre radici di migranti»frammenti-e-pensieri-sparsi.over-blog.it, 6 giugno 2011

- Redazione 51«L’America si rivela un romanzo incompiuto… che cerca continuamente la sua fine»soulfood-capital.blogautore.repubblica.it, 8 giugno 2011

- Salvatore Scibona, Jaimy Gordon 53«L’immigrazione dà vita alla cultura»Corriere della Sera, 14 giugno 2011

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- Claudio D’Ambra 56«Migranti: la fine del viaggio»Solidarietà Come, 15 giugno 2011

- Sandra Bardotti 58«Per Scibona un esordio notevole ma immaturo»wuz.it, 17 giugno 2011

- Marco Ciriello 60«Tutte le vite di Scibona»Il Mattino, 19 giugno 2011

- Nicola Bultrini 61«Storie di vita di immigrati a ferragosto»Il Tempo, 19 giugno 2011

- Valentina Pigmei 62«Il gioielliere, il panettiere e la sarta: vite di Little Italy»Grazia, 20 giugno 2011

- Giuseppe Rizzo 63«L’epopea degli italiani in America nel libro di Scibona»l’Unità, 3 luglio 2011

- Lara Ricci 67«Amo l’intensità degli umili»Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2011

- Eva Brugnettini 69«Il quartiere italiano di una città americana: le vite degli emigranti»loscirocco.it, 4 luglio 2011

- Carla De Caro 70«Scibona, fine cesellatore di frasi»viadeiserpenti.it, 7 luglio 2011

- Emanuela D’Alessio 71«Letture interrotte: La fine di Salvatore Scibona»viadeiserpenti.it, 7 luglio 2011

- Redazione 72«Un romanzo quasi epico»il Giornale, 16 luglio 2011

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Page 102: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

- Flavia Varducci 73«Persone normali del secolo scorso»Pulp, luglio 2011

- Liborio Conca 75«Botta e risposta con Salvatore Scibona»Il Mucchio, luglio-agosto 2011

- Michele Lupo 77«Italiani d’America»liberolibro.it, 3 agosto 2011

- Redazione 79«Storie di emigrazione, sradicamento, speranze, spaesamento»borislimpopo.wordpress.com, 4 agosto 2011

- Camilla Gaiaschi 82«Le miserabili vite degli italiani in America»D della Repubblica, 6 agosto 2011

- Giuseppe De Bellis 82«Altro che italiani d’America… Ora l’America è degli italiani»il Giornale, 6 agosto 2011

- Redazione 84«Scrivere secondo Scibona»cosedalibri.blogspot.com, 19 agosto 2011

- Luigi Mascheroni 85«Scibona, il “paisà” di Cleveland che vuole imparare a fare l’italiano»Cultura del Giornale, 8 settembre 2011

- Redazione 87«Salvatore Scibona al Festivaletteratura Mantova 2011»libri10.it, 9 settembre 2011

- Redazione 88«Un week end a Mantova»blog.bookrepublic.it, 10 settembre 2011

- Letizia Guadagno«Gli immigrati italoamericani sono diventati “bianchi”, ovvero “cittadini americani”»blog.bookrepublic.it, 10 settembre 2011 89

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Page 103: Salvatore Scibona, "La fine", rassegna stampa monografica

- Ilaria La Bua 91«Scibona dipinge un affresco storico ma non retorico, creando figureappassionanti e vivide»palermo24h.com, 22 settembre 2011

- Ornella Sgroi 92«Emigrazione siciliana si fa magica parola nel gotha americano»La Sicilia, 23 settembre 2011

- Andrea Brancolini 94«La fine come mutazione»lankelot.eu, 28 settembre 2011

- Michela Gelati 96«Un affresco indimenticabile»ilrecensore.com, 30 settembre 2011

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