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SAN LORENZO IN SILVIS ALL’ALBA DELL’ANNO MILLE A cura di Francesca Ceresani Il momento storico più importante per San Lorenzo in Silvis, ora in Campo, è senza dubbio quello che vede la nascita dell’Abbazia benedettina, ossia l’VIII-IX secolo. In questa terra apparvero i primi monaci, che inseguivano la sublime esperienza di Dio vivendo una vita nella perfezione spirituale, conducendo una vita solitaria sotto la direzione di un abate, e realizzando l’autentico cammino verso l’essenza divina tramite la rinuncia al mondo.

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SAN LORENZO IN SILVIS ALL’ALBA

DELL’ANNO MILLE

A cura di Francesca Ceresani

Il momento storico più importante per San Lorenzo in

Silvis, ora in Campo, è senza dubbio quello che vede

la nascita dell’Abbazia benedettina, ossia l’VIII-IX

secolo.

In questa terra apparvero i primi monaci, che

inseguivano la sublime esperienza di Dio vivendo una

vita nella perfezione spirituale, conducendo una vita

solitaria sotto la direzione di un abate, e realizzando

l’autentico cammino verso l’essenza divina tramite la

rinuncia al mondo.

L’Abbazia è stata edificata in stile romanico,

splendida costruzione che racchiude frammenti

architettonici appartenenti alla città di Suasa, con le

sue colonne egizie, l’aquila pretoria e reimpieghi

romani vari. Si nota un’acquasantiera di notevole

fattura dinanzi al portone d’accesso. (NOTA Suasa,

secondo la tradizione, viene ricordata per la sua

devastazione avvenuta per mano di Alarico nel 409,

ma da notizie risalenti al VI e VIII secolo si può

capire come la sua grandezza fosse in realtà intatta,

restituita alla memoria nell’anno 754 nel Liber

pontificalis, cit., pag 47)

Durante la guerra bizantina avvenuta tra il 535 e il

553, vi fu l’assalto degli Alamanni e Franchi di

Leutari, sconfitto poi da Narsete a Pesaro nell’anno

554.

Durante la guerra tra goti e bizantini, la rovina si

propagò per l’intera provincia Flaminia e il Picenum

annonarium, luoghi in cui il re Vitige abbatté Fano e

Pesaro, successivamente nell’anno 545 Belisario

ricostruì la città di Pesaro e la sua struttura muraria.

L’uso dell’acquasantiera all’entrata delle chiese

abbaziali ebbe inizio tra la fine del IX secolo fino al X

secolo circa, in un periodo in cui si impartiva la

benedizione ai credenti in un cerimoniale collettivo

che avveniva ogni domenica. L’utilizzo

dell’acquasantiera incisa inizia nel Mille ed è spesso

frutto di un riuso di materiale architettonico classico.

Due esempi di acquasantiera reimpiegata con frammenti di origine romana (Spello)

Il riuso di frammenti romani è pratica comune dal

periodo post-classico al Medioevo avanzato, per la

costruzione di chiese e abbazie si asportavano i

manufatti recuperabili dalle rovine di città antiche,

oramai abbandonate o distrutte.

Per San Lorenzo in Campo furono indispensabili i

resti della città di Suasa.

Nell’Abbazia si possono ammirare capitelli, colonne,

pietre e molto altro materiale proveniente da Suasa,

qui il classico si coniuga perfettamente all’architettura

romanica.

Capitello Abbazia San Lorenzo in Campo a motivi vegetali

I capitelli sono decorati con motivi zoo-antropomorfi

e vegetali, ma ciò che è particolarmente interessante

pare, a mio avviso, essere una pietra scolpita posta nei

pressi della navata destra, in cui è incisa un’aquila ad

ali schiuse in posizione frontale, tipica

rappresentazione romana utilizzata per i vessilli

imperiali, negli emblemi funerari e sulle monete.

Dobbiamo tenere presente che la stessa aquila pretoria

venne successivamente utilizzata, anche, come

soggetto iconografico bizantino, carolingio e

ottoniano e ancora in periodo romanico.

Simbologia cristiana del pesce, o allegoria della resurrezione, in una chiesa del XII sec. a

Macerata Feltria

Un capitello perfettamente conservato e decorato con

figure umane e animali o mostri, raffigura un drago al

fianco di un uomo che è posto al centro della

figurazione (angolo del capitello) e un

drago/grifone/viverna(?) al lato esterno, inoltre una

figura umana angolare scolpito nell’altro spigolo. In

questo caso, si potrebbe pensare, che i due animali

mitologici con le bocche aperte rivolte al volto

dell’uomo, siano simboli appartenenti al tema

catastrofico e del Nuovo Testamento nell’Apocalisse,

oppure direttamente attinenti a concezioni

cosmologiche e/o mistiche, ma anche riconducibili a

testi gnostici; con maggior precisione si può indicare

un’iconografia cristiana che potrebbe ancora

ricondurre ad una riflessione circa il tema

dell’idolatria come male da sconfiggere. Ogni indizio

artistico riporta, comunque, al periodo romanico.

Circa la presenza bizantina nei nostri territori si può

solo che accertarne la presenza, infatti dopo che i

bizantini hanno compiuto il loro attraversamento della

Pentapoli e dei nostri territori, specialmente alla

sinistra del Cesano, si sono manifestati segni del loro

passaggio nelle epigrafi latine scritte in caratteri greci.

(NOTA: (Ne è esempio, forse, l’epigrafe riportata

nell’opera di Antonio Bradimarte “Gallia Senonia

illustrata” pag. 113-114, che pare fosse presente sulla

facciata della Chiesa del SS. Crocifisso “situata quasi

nel mezzo dell’antica Suasa” ma attribuita ad altre

epoche)

La Pentapoli era l’istituzione massima di una

provincia di amministrazione esarcale d’Italia.

Inoltre, grazie all’analisi dei documenti originali

provenienti da Fonte Avellana e dall’Abbazia di San

Lorenzo in Campo, poi raccolti nei Regesti

Senigalliesi, dalle carte appartenenti alla Curia

ravennate che era alla guida dell’Esarcato, si può

affermare che la presenza dei longobardi (NOTA:

Ricordiamo che la Prof.ssa Fasoli ha trovato tracce

evidenti della presenza longobalda nell’Esarcato) nel

nostro territorio era reale, così come nell’intera

Pentapoli, ossia il complesso di cinque città Rimini,

Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona.

Dalle sottoscrizioni dei vescovi agli atti del Concilio

romano del 680 si evince che nella Pentapoli facevano

parte: Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Numana e

Osimo poi Senigallia. (NOTA Gregorii I Papae

Registrum epsitolarum IX, 66-67; ediz., Berolini

1957, pp 85-88; inoltre Pauli (Diaconi) Historia

Langobardorum IV 8-9-12, ediz. L. Berthmann e G.

Waitz, Script. Reg. Lang. Et Ital., Hannoverae 1878,

pp. 118-121)

Nel 727 circa, Liutprando avviò una battaglia di

espansione lungo l’intera penisola, irrompendo nella

Pentapoli e passando da Rimini alla direzione di Fano,

poi verso Ancona e Osimo.

Fano aveva dilatato la propria autorità nella Valle del

Cesano, esattamente nel territorio di Suasa, il fatto

viene illustrato in un documento o privilegio siglato

da Adriano I nel 782 in cui vengono anche menzionati

i beni appartenenti al monastero di Sant’Apollinare in

Classe, dove il confine territoriale è segnato dal

fiume. (NOTA G.B. Mittarelli – A. Costadoni,

Annales Camaldulenses ordinis Sancti Benedicti, I,

Venetii 1755, Appendix, coll. 10-12 n° III)

Nella metà del VIII secolo la condizione che si viene

a delineare circa la frammentazione territoriale, vede

la salda egemonia bizantina che, in realtà, non aveva

affatto contrastato una penetrazione longobarda nei

territori, svoltasi precedentemente al 680, ed è

importante notare, inoltre, che se in principio sia

trattava di una vera e propria invasione,

successivamente si è assistito ad una loro presenza

tipicamente stanziale. (NOTA Si veda la parte

riguardante la zona del Cesano in A. Polverari, Una

Bulgaria, cit., L. Grazzi, Catalogo dei rinvenimenti

archeologici, in Suasa Senonum di Gello Giorgi, pag.

127 ss. Parma, 1953)

Nel Codice Bavaro il territorio include le città di

Ostra e Suasa, ossia le zone comprendenti la valle del

Misa e del Cesano, e proprio nella città di Ostra,

nell’anno 502, vi era la presenza del vescovo

Martinianus. (NOTA Si veda Lanzoni, Le diocesi

d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (a.

604), Faenza, I, 1927, pag 493) Si parlerà di comitati

a partire dal IX secolo, infatti, in tutto il territorio

italiano definito “Regnum Italiae” si compose un

apparato amministrativo frazionato in Marche e

Comitati, (NOTA I Comitati pentapolitani furono

motivo di disaccordo tra potenti, ma la situazione si

concluse con la cessione dei territori da parte di

Ottone II a Silvestro II) in cui, successivamente si

assistette ad uno straordinario sviluppo attraverso

l’attuazione di un modello “curtense”.

“Intorno al secolo XI l’ambito circoscrizionale del

comitatus era compreso tra il comitato di Fano a

nord, quello di Fossombrone (costeggiando il fiume

Cesano) a nord ovest e quello di Nocera Umbra ad

ovest”. (NOTA Emilia Saracco Previdi, Convivere

nella Marchia durante il Medioevo: indagini e spunti

di ricerca, Ancona, 1986, pag. 156-157)

Il distretto viene definito Territorium, termine di

origine romano-bizantina, poi Comitatus come

accezione di origine franca, successiva al XI secolo.

A seguito della dominazione franca, intrapresa nel

789 con l’investimento nel dicato di Spoleto del

franco Giunigiso, si impose l’autorità del Conte, un

“funzionario” incaricato dal sovrano che poteva

disporre della facoltà militari, giuridici e di governo

su un dato territorio chiamato Comitato o anche

Contea.

Un’ulteriore evoluzione portò, nel X secolo, alla

pratica dell’incastellamento con il suo signore.

Comitato di Senigallia intorno all’anno Mille

In generale, si può affermare, che il sistema curtense

riguardasse un gruppo di piccole unità agricole

(mansi) che venivano lavorate da uomini posti in

posizione subalterna e in condizione di rigida

dipendenza da un possidente, questi servi venivano

chiamati “rustici”. Le curtes ed il sistema che le

regolava sono rintracciabili in molti documenti del IX

secolo, ne è esempio il Capitulare de Villis.

Il monastero di San Lorenzo in Campo è di

sostanziale importanza, e lo studio dei territori da

questo posseduti possono darci una visione d’insieme

riguardo l’insediamento in questa zona.

Se il monastero aveva posseduto rilevante estensione

terriera, questa era suddivisa in mansi, collocati

appunto nella ripartizione del “castrum”, ossia il

luogo abitato fortificato. Nell’ambiente circostante si

deve supporre l’esistenza di un insediamento di cui

facevano parte case di più alto valore, abitate da un

“dominus”. Sempre nei dintorni, si può ipotizzare,

fossero posti degli alloggi in legno o terra. In effetti, il

dominus aveva facoltà di imporre condizioni, essere

investito di autorità giudiziaria e nello stesso tempo

assicurare protezione. In una prima fase, intorno al XI

secolo, un insediamento si presentava con connotati

estremamente articolati, “castra”, “ville” e “vici”, ma

si ricorda che questi termini sono diventati, sin dal IX

secolo, sinonimi.

Interessante chiosa va fatta riguardo l’Abbazia di San

Lorenzo in Campo, che godeva di ben cinque curtes

lungo la Valle del Cesano e del Metauro, di fatto,

ottenere possedimenti curtensi era comune per

monasteri e abbazie; l’organizzazione territoriale era

contraddistinta da curtes e massariciæ, fondate

attorno al monastero, al cui interno si riuniva la

popolazione nelle situazioni di pericolo, le massæ

hanno avuto origine in epoca romana e in età

altomedievale la pratica venne riadattata,

successivamente, in epoca medievale, il vocabolo

venne a scomparire. (x NOTA: Si legga riguardo la

continuità e la discontinuità nel termine “massa” o

“massariciæ” e nella situazione organizzativa agraria:

“fundus” e “casale” nei documenti ravennati in

periodo altomedievale, in Medioevo rurale. Sulle

tracce della civiltà contadina, a cura di Vito

Fumagalli e Gabriella Rossetti, Bologna 1980, pag.

201-219) (NOTA Vedere B. Andreolli, M.

Montanari, L’azienda curtense in Italia. Proprietà

della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-IX,

Bologna 1983)

Dal IX secolo l’amministrazione dei feudi appartenne

alla Chiesa, l’obolo ceduto dai fedeli e le offerte

donate dai pellegrini incrementavano le casse dei

monasteri e delle chiese, al punto che, i religiosi

potevano concedere un prestito a chi fosse in stato di

bisogno.

Sarà con Ottone III durante il periodo denominato

della “Renovatio imperii” che si avrà l’unificazione

della Marca Fermana e della Marca di Camerino, e

sarà così possibile la nascita della Marca Anconitana

con Innocenzo III; si registrò questo termine per la

prima volta in un Diploma dell’anno 983.

Evangeliario di Ottone III. Scuola di Reichenau, sec. X. Monaco, Bayerische Staatsbibliotek,

Ms. Lat. 4453, c. 23 v.

Le Nazioni si inchinano dinanzi all’imperatore Ottone III. Viene rappresentata la nazione slava,

germanica, gallica e romana.

NOTA: Riguardo alle vicende del periodo ottoniano

rammentiamo che Papa Leone III innalzò al trono

Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero,

dando avvio alla rinascenza carolingia,

successivamente l’impero si infranse per rigenerarsi

poi nel X secolo con la stirpe degli Ottoni. Verso la

fine 900, precisamente nel 960, in Europa è presente

la figura di Ottone I di Sassonia, che percorrerà le

strade marchigiane per scopi politici, (NOTA: Si

consiglia la consultazione del testo di P.Foschi,

Itinerari degli imperatori sassoni (Ottone I, II, III)

nelle Marche durante il X secolo, in Le strade nelle

Marche. Il problema del tempo, II “Atti e Memorie

della Deputazione di Storia patria per le Marche”,

89-91, anni 1984-1986, pp. 699-730) questo periodo

sarà anche determinato da una rigenerazione

culturale dell’Occidente cristiano, in antitesi al

diffondersi di superstizioni e credenze popolari a

sfondo diabolico e di terrore, infatti, il X secolo venne

definito saeculum pessimum o obscurum ma per

verranno rappresentati i motivi per cui tale

definizione non deve essere considerata verosimile.

Dal IX secolo, inoltre, i rapporti vescovili furono

operati direttamente dal sovrano regnante e la

popolazione non poteva far altro che applaudire il

prelato eletto dal re, fino almeno al X secolo, in cui

sarà il sovrano ad eleggere i vescovi, in questo lasso

di tempo, quindi, l’influenza laica era ordinaria. Si

descrive un primato importante relativo a San Lorenzo

in Campo nei primi anni del Mille:

“Avea questa terra acquistato il dominio di quindici

luoghi, che si trovano descritti di un Diploma

dell’Imperatore Ottone in data di Perugia dell’anno

1001 nel quale confermandole questo dominio

medesimo la dichiara immediatamente soggetta alla

sola Chiesa in perpetuo. Alla Giurisdizione sopra i

detti quindici luoghi aggiunsero quella sopra altri

ventisette i Sommi Pontefici Leone ed Alessandro

confermata poi da Papa Pasquale II, che diede inoltre

a San Lorenzo in Campo il Privilegio di scegliere quel

Vescovo che più le piacesse per esercitar la Spirituale

Giurisdizione; il che si ha da una Bolla di questo

Pontefice dell’anno 1113” (Nuova geografia, tradotta

in lingua toscana da Gaudioso Jagermann, Vol. 26, di

Anton-friedrich Büsching, Antonio Zatta, al Tomo

XXIV, pag. 68, anno 1780)

In Italia verso la fine del X secolo sopraggiungevano

fatti importanti “Frattanto che l’Italia aspettava, che

Ottone venisse a farsi riconoscere sovrano, ci dice

Sicardo, che il terremoto si fece sentire assai

impetuoso in Lombardia, per il quale le Città ed i

Paesi tutti si misero nel 994 in grande apprensione,

non sapendosi per altro se facesse del male, o si

risolvesse in pure scosse. Dopo la partenza di

Teofania da Roma, e dall’Italia, non vedendosi mai

Ottone a giungere, tornarono i cattivi umori a

mettersi in fermento, ed i potenti infra gli altri si

misero ad usurpare i beni degli Ecclesiastici, cosa che

era molto prima divenuta alla moda, come si vede. Le

querele de’ Monaci e de’ Vescovi, e i danni, che il

Papa istesso forse soffriva né patrimonj della Chiesa,

indussero Giovanni XV a spedire nel 995 i suoi Legati

al Re Ottone, i quali susseguiti da buona porzion di

Romani e di Lombardi, passarono tutti ad invitarlo,

perché venisse a farsi incoronare in Italia”.

(Giovanni Battista Visi, Dall’anno di Cristo 990 sino

all’anno 1183, Volume 2, Ed. Pazzoni, 1782 pag 2)

SOLI DEO VIVERE

Preghiera e solitudine in Abbazia

L’alto medioevo vede un habitat sparso, disseminato

per lo più di numerosi “castra”, monasteri e pievi, San

Lorenzo in Campo era dotata di un’Abbazia fondata

da monaci benedettini che applicavano la “Regula

monachorum”. (NOTA Si veda Arno Borst,

"Monumenti religiosi e spirituali nell'Alto Medioevo"

in "I Propilei", Milano 1968) La Regola è una dottrina

monastica risalente all’anno 534 d.C., in cui oltre alla

preghiera ed al rispetto venivano imposti principi di

vita di vario genere. Nella Regola venivano

disciplinate sia la coltivazione di un orto che di piante

officinali, oltre alla pratica della cura degli infermi

quale principio imprescindibile, possibile grazie al

trattamento tramite erbe, inoltre venivano rivelati

rudimenti di erboristeria al fine di applicare e

trasmettere le conoscenze ricevute sui rimedi

fitoterapici e la trasformazione di piante

medicamentose.

L’orto era indispensabile per il sostentamento dei

monaci, poiché, la loro alimentazione era basata su

zuppe di pane e verdure, la carne era assolutamente

proibita.

Nella Regola veniva deciso cosa e quando mangiare

all’interno del monastero:

Traduzione dal latino XXXIX – “La misura del

cibo”

Volendo tenere il debito conto delle necessità

individuali, riteniamo che per il pranzo

quotidiano fissato - a seconda delle stagioni -

dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due

pietanze cotte, in modo che chi eventualmente

non fosse in condizioni di prenderne una, possa

servirsi dell'altra.

Dunque a tutti i fratelli devono bastare due

pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di

procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se

ne aggiunga una terza.

Quanto al pane penso che basti un chilo

abbondante al giorno, sia quando c'è un solo

pasto, che quando c'è pranzo e cena.

In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da

parte un terzo per distribuirlo a cena.

Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più

gravoso del solito, se l'abate lo riterrà

opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un

piccolo supplemento,

purché si eviti assolutamente ogni abuso e il

monaco si guardi dall'ingordigia.

Perché nulla è tanto sconveniente per un

cristiano, quanto gli eccessi della tavola, come

dice lo stesso nostro Signore: State attenti che

il vostro cuore non sia appesantito dal troppo

cibo.

Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva

loro la medesima porzione, ma una quantità

minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.

Tutti infine si astengano assolutamente dalla

carne di quadrupedi, a eccezione dei malati

molto deboli.

Latino XXXIX – “De mensura cibus”

Sufficere credimus ad refectionem cotidianam tam sextae

quam nonae, omnibus mensis, cocta duo pulmentaria,

propter diversorum infirmitatibus,

ut forte qui ex illo non potuerit edere ex alio reficiatur.

Ergo duo pulmentaria cocta fratribus omnibus sufficiant et,

si fuerit unde poma aut nascentia leguminum, addatur et

tertium.

Panis libra una propensa sufficiat in die, sive una sit refectio

sive prandii et cenae:

quod si cenaturi sunt, de eadem libra tertia pars a cellarario

servetur reddenda cenandis.

Quod si labor forte factus fuerit maior, in arbitrio et

potestate abbatis erit, si expediat, aliquid augere, remota

prae omnibus crapula et ut numquam surripiat monacho

indigeries, quia nihil sic contrarium est omni christiano

quomodo crapula, sicut ait Dominus noster: Videte ne

graventur corda vestra crapula.

Pueris vero minori aetate non eadem servetur quantitas, sed

minor quam maioribus, servata in omnibus parcitate.

Carnium vero quadrupedum omnimodo ab omnibus

abstineatur comestio, praeter omnino debiles aegrotos.

Successivamente alla diffusione della Regola

benedettina, Carlo Magno emanò tra il 770 e l’anno

800 il “Capitulare de Villis”, con cui si ordinava alla

popolazione: “Vogliamo che nell'orto sia coltivata

ogni possibile pianta: il giglio, le rose, la trigonella,

la balsarnita, la salvia, la ruta, l'abrotano, i cetrioli, i

meloni, le zucche, il fagiolo, il cumino, il rosmarino, il

careium, il cece, la scilla, il gladiolo, l'artemisia,

l'anice, le coloquentidi, l'indivia, la visnaga,

l'antrisco, la lattuga, la nigella, la rughetta, il

nasturzio, la bardana, la pulicaria, lo snúmio, il

prezzemolo, il sedano, il levistico, il ginepro, l'aneto,

il finocchio, la cicoria, il dittamo, la senape, la

satureja, il sisimbrio, la menta, il mentastro, il

tanaceto, l'erba gattaia, l'eritrea, il papavero, la

bieta, la vulvagine, l'altea, la malva, la carota, la

pastinaca, il bietolone, gli amaranti, il cavolo-rapa, i

cavoli, le cipolle, l'erba cipollina, i porri, il rafano, lo

scalogno, l'aglio, la robbia, i cardi, le fave, i piselli, il

coriandolo, il cerfoglio, l'euforbia, la selarcia. E

l'ortolano faccia crescere sul tetto della sua

abitazione la barba di Giove. Quanto agli alberi,

vogliamo ci siano frutteti di vario genere: meli

cotogni, noccioli, mandorli, gelsi, lauri, pini, fichi,

noci, ciliegi di vari tipi. Nomi di mela: gozmaringa,

geroldinga, crevedella, spiranca, dolci, acri, tutte

quelle di lunga durata e quelle da consumare subito e

le primaticce. Tre o quattro tipi di pere a lunga

durata, quelle dolci, quelle da cuocere, le tardive.”

Nell’alto medioevo un monastero o un’abbazia

forniva soccorso ai malati, agli orfani, ai poveri e ai

pellegrini, infatti in un monastero era incluso un

ospedale a tutti gli effetti che aveva il nome di

“xenodochio”, almeno fino al X secolo, ma va anche

considerato che un monastero, un’abbazia o una

chiesa poteva non necessariamente contenere una

struttura xenodochia, ma offrire comunque aiuto. (Si

veda Peyer H.C., Viaggiare nel Medioevo.

Dall’ospitalità alla locanda, Roma 2005)

L’alloggio in xenodochia ha, forse, genesi da monaci

orientale perpetuato poi in Gallia ed Italia, si è

trasformato in domus hospitales per mendicanti e

pellegrini, e ricordiamo che sotto Benedetto II (684)

veniva redatto un inventario dei poveri che quindi

comparivano come appartenenti ad una corporazione

sotto il nome di matricularii.

L’Abbazia di San Lorenzo in Campo doveva aver

contenuto una struttura d’assistenza, poiché in tutto

l’alto medioevo l’ospedale era l’unica forma di cura

possibile, a partire dalla caduta dell’Impero romano.

Sarebbe importante ricercare l’esistenza di questa

struttura monastica che, se esistente, avrebbe coperto

con le sue cure e soccorsi, tutto il territorio rurale

laurentino.

Tuttavia, l’Abbazia era certamente un centro di

ospitalità che possedeva una grande influenza sui

territori vicini, questo si evince dai documenti del XII

secolo includenti le proprietà di sua pertinenza, per

meglio dire terre e beni donati da Tebaldo il Saraceno

e successivamente ceduti all’Abbazia di Fonte

Avellana; inoltre venne registrato il castello di Mons

Guidonis che, nell’anno 1163 circa, compariva nel

registro dei possedimenti di San Lorenzo in Campo;

in quest’epoca le donazioni ai monasteri, i relativi

diritti sulle proprietà e la vendita di beni ecclesiastici

dipendevano da imperatori e notabili, così come la

pratica d’investitura feudale era una consuetudine

nelle abbazie benedettine, molti abati infatti venivano

investiti del feudo dall’Imperatore dominante.

“[…] la normativa sia canonica che imperiale aveva

elaborato un chiaro principio di inalienabilità dei

beni ecclesiastici, con la previsione di alcune

eccezioni, in genere giustificate da motivi di utilità e

necessità per la Chiesa stessa e garantite dal

necessario consenso del vescovo o dell’abate e del

clero diocesano o del capitolo, se si trattava di

monasteri. Questa disciplina venne ben presto a

confrontarsi con il fenomeno feudale, che coinvolse

anche la Chiesa, fin dal IX-X secolo; significativo a

questo proposito l’atteggiamento, segnalato dal

Bloch, di papa Silvestro II, che, rendendosi conto

delle importanti novità che il nuovo istituto apportava

rispetto ai vecchi contratti di origine romanistica,

quali l’enfiteusi, decise di introdurre il sistema

feudale come nuovo strumento di gestione del

territorio papale”. (NOTA: Federico Alessandro

Goria “Fra rinnovamento e tradizione: lo Speculum

feudorum di Claude de Seyssel”, Giuffrè Editore,

2010, pag. 165)

Eppure le cronache storiche ci tramandano notizie

discordanti riguardo la vita monastica nel periodo

esaminato “Era allora il Monachesimo in Italia in

somma depressione. Pochi Monisterj si contavano,

dove fiorisse la regolar disciplina. Nella maggior

parte de’ Monaci, massimamente se i lor Monasterj

erano piccioli, o se grandi, ridotti in Commenda,

compariva una deplorabile depravazion di costumi.

Trovavansi talvolta de’ piissimi Abbati, e de’

religiosissimi Monaci; ma noi poco sappiamo delle

loro virtù e meno delle opere loro in servigio e

profitto spirituale de’ Popoli. Si vede bensì dalle

memorie, che restano, essere stato l’ordinario e

comune studio de gli Abbati e Monaci d’allora di

acquistar tutto dì de i nuovi stabili, & anche degli

Stati, cioè delle Castella e Ville, che andavano poi a

finire nel Sic vos non vobis di Virgilio. Ingegnavasi

ancora cadauno de’ potenti Monisterj di avere per

quanto porea de gli altri Monisterj subordinati a sé

per tutta l’Italia; o almen delle Celle, o sia de’

Priorati nelle varie Città, o ne’ lor Contadi, dove poi

teneano un Priore, e talvolta alcuni pochi Monaci, i

quali se ne stavano in gaudeamus, perché disobbligati

dal rigore della Disciplina. Giovò non poco la venuta

del santo Abbate Maiolo, perciocchè oltre all’aver

egli riformato alquanti vecchi Monisterj,

s’invogliarono molti di fabbricarne de i nuovi, né

principj de’ quali certo è, che fioriva la Pietà e il

buon esempio”. (Lodovico Antonio Muratori,

Giuseppe Catalani, Annali d’Italia: Dall’anno 841

all’era volgare fino all’anno 1000, pag 481-482, anno

1762) (Abbate Maiolo 954-994)

E ancora ritroviamo le parole di Rodolfo il Glabro

"come scrollandosi e liberandosi dalla

vecchiaia[…]si riveste di un fulgido manto di chiese".

(NOTA Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno mille

(storie), Milano 1991)

Nel monastero si poteva imparare a leggere e a

scrivere, l’insegnamento era affidato ai monaci, se ne

conosce la reale esistenza nell’opera De Gymnasium

del IX secolo, anche se alcuni monasteri rifioriti a

causa di una riforma promossa nel X secolo, hanno

ottenuto l’egemonia nella cultura, ma in seguito

chiuderanno gradualmente le porte al sapere,

riservando la scuola interna al monastero ai soli

novizi. Nel nostro paese la popolazione non doveva

essere stata consistente, e l’analfabetismo era

certamente totale.

ABITARE

Nonostante l’Abbazia rimanga l’unico centro religioso

e culturale di San Lorenzo in Silvis, in questo periodo

la scarsa popolazione risiedeva in case sparse su tutto

il territorio laurentino, probabilmente le abitazioni

consistevano in misere casupole costituite da terra e

paglia, legno e fronde o vere costruzioni in crudo,

comunque costruite utilizzando materiali poveri e

facilmente deteriorabili.

All’interno delle abitazioni non erano presenti arredi,

c’era una tavola ed il cibo era servito in ciotole di

legno (si mangiava con le mani), brocche, pignatte e

ciotole destinate alla cottura dei cibi erano in

terracotta, né smaltata né dipinta. I materassi erano

costituiti da foglie e paglia, le masserizie erano quasi

assenti, ma dal bosco gli uomini del tempo traevano

ogni cosa servisse per la casa e per la propria

sopravvivenza. Le fonti scritte, nel nostro caso, gli

Statuti di San Lorenzo in Campo e di San Vito, non ci

danno informazioni sui corredi da mensa utilizzati,

per il fatto che non sono mai stati scoperti ordinamenti

appartenenti al X secolo.

LE TORRI

“Torre della cotogna” nei pressi di Urbino

COSTUMI

Il guardaroba nell’alto medioevo era semplice ed

essenziale, realizzato con materiale grezzo, una blusa

e delle brache per gli uomini ed una “scarsella”

ovvero un sacchetto allacciato alla cinta; invece per le

donne l’abbigliamento era costituito da un abito

disadorno in fibra naturale, le calzature se utilizzate

erano in canapa o tela greggia, sostituite in estate da

zoccoli in legno.

Calendario (L’aratura), 1000 circa, miniatura, Cotton ms. Tiberius B.V., f3r., Londra, British

Library

Un indumento tipico dell’epoca era il “cucullus” o

“pellegrina”, un mantello con copricapo di lana

grezza, canapa o cenci di tessuto vario, ereditato

dall’Impero romano e in uso in tutto il medioevo.

Prende il nome “pellegrina” dal fatto di venire

indossato dai pellegrini in viaggio e dai monaci,

successivamente venne realizzato il motto: “Cucullus

non facit monachum”, ossia, “il cappuccio non fa il

monaco” poi trasformato in “l’abito non fa il

monaco”.

La trasformazione nei costumi è evidente, soprattutto

se comparata ai raffinati monili appartenenti alla

cultura gallica o romana.

Esempio di bracciale gallico-etrusco in oro con protome di serpente e Orecchino d'oro

rappresentante un cavallo marino, dalla necropoli gallica di Montefortino di Arcevia (Museo

archeologico nazionale delle Marche)

Questo è un esempio di oreficeria dell’alto medioevo presente ad Ascoli Piceno presso il

Museo dell’Alto medioevo

MODUS VIVENDI

Rodolfo il Glabro ci spiega come si viveva in Europa

nel 900 d.C. "Il genere umano è incline fin

dall'origine al male come un cane al vomito, o come

una scrofa che si lava sguazzando nel fango." (NOTA

Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno mille (storie),

Milano 1991)

LA FORESTA DI SANCTI LAURENTIJ IN

SILVIS

Il paesaggio di San Lorenzo in Silvis nei primi secoli

del medioevo è contraddistinto da foreste di querce,

pianure incolte e dallo scorrere del fiume Cesano. Le

terre coltivate coprivano soltanto una piccola porzione

del suolo, come ci viene suggerito dal Salvioli

“mostrano la scarsezza delle persone sulle terre

coltivate e la loro sproporzione all’estensione ossia la

minima densità della popolazione italiana prima del

Mille”(NOTA Salvioli, Storia economica d’Italia

nell’alto Medio Evo, Cap IV”). Il paese era

caratterizzato da un aspetto arcaico dove dominava

quasi completamente il silenzio, infatti nel IX e X

secolo, la popolazione più numerosa era quasi

sicuramente costituita da animali selvatici, comunque

importante fonte di sostentamento per l’abbondanza di

cacciagione.

In tutto l’alto medioevo i cicli di carestia si

riscontravano con estrema frequenza, colpendo quasi

tutto il territorio marchigiano, infatti si hanno notizie

circa atroci circostanze di antropofagia e ferine

esperienze di sostentamento a base di terra o animali

putrefatti, tutto pur di sottrarsi alla fame, a costo di

impiegare ogni mezzo, anche il più ripugnante.

Il bosco era l’unica forma di sostentamento per le

persone che abitavano il territorio nel X secolo,

nell’alto medioevo la raccolta di erbe spontanee e

frutti del bosco era l’unica possibilità di nutrimento,

oltre alla pratica della caccia e della pesca, sempre

importante, poi, rimaneva il taglio del legname per il

riscaldamento e la costruzione delle abitazioni.

Il territorio era ricco di meli selvatici, prugnoli, peri

selvatici, sorbus domestica, noccioli, le erbe

spontanee erano innumerevoli come le bacche e i

funghi commestibili.

Eppure, un fenomeno inusuale emerge dalle Carte di

Fonte Avellana, (NOTA: Carte di Fonte Avellana, 1,

Doc. 23, 56, 112, 154, 160) in cui si svelano

possedimenti destinati a vigneto presso Cagli e San

Lorenzo in Campo, per di più terræ arativæ e altre

sono riscontrate nel 1066 e ulteriormente in carte

dell’anno 1127, si nominano in seguito “terre culte e

vinee” come suoli maggiormente estesi rispetto alle

aree selvatiche a campi e foresta.

(Sarà dal 1200 circa, con lo sviluppo di fondi

coltivabili, che il bosco perderà rapidamente

estensione, lasciando spazio a campi ed orti che

servivano alla popolazione per il sostentamento delle

numerose famiglie di cui facevano parte, anche a

scapito della selvaggina che verrà drasticamente

ridotta a causa del restringimento delle aree boschive

circostanti)

La malnutrizione unita alle pessime condizioni

igieniche, davano vita ad epidemie di peste, colera,

tifo, febbre ed altre pestilenze, per questo motivo

l’aspettativa di vita di una persona del X secolo era

estremamente bassa.

RELIGIONE E SUPERSTIZIONE

La popolazione del X secolo era analfabeta e in un

costante bisogno di ricercare la presenza del divino al

fine di placare la cieca paura dell’ignoto e della

sofferenza. A questo pensavano scaltri impostori che

sapevano bene come raggirare la folle, con false

reliquie, miracoli e segni celesti che scuotevano nel

profondo la psicologia delle masse, che era ancora

intimamente radicata in una forma mentis precristiana.

La religione del X secolo era fonte primaria di fede e

speranza, anche se va detto che la messa era officiata

in latino, ma quasi nessun credente comprendeva

questa lingua, pertanto la Bibbia era presentata

attraverso i dipinti e gli affreschi delle chiese e delle

abbazie, inoltre, la celebrazione era seguita recitando

le orazioni a memoria.

MAGIA

Nel periodo barbarico erano presenti intense forme di

superstizione, ma ciò che più di ogni altro ha tentato

l’annichilamento della superstizione fu senz’altro il

Cristianesimo “Il Cristianesimo fu senza dubbio

funesto: dal sincretismo delle varie religioni che lo

formarono gli rimase appiccicato un complesso di

diavolerie gnostiche e manichee”. (NOTA Gabriele

Pepe, Il medio evo barbarico d’Italia, Einaudi, 1973,

pag 167) I Longobardi, altresì, non avevano

rinunciato affatto a praticare forme di religione

pagana, venerando animali, alberi, fiumi e monti. Ciò

che la Chiesa definiva diabolico, ossia il paganesimo,

era percepito come mera pratica magica e si è tentato

di estirpare queste forme di scaramanzia in ogni modo

e in ogni luogo, al suo punto estremo, si è assistito ad

un vero e proprio martirio inflitto a chiunque fosse

stato ritenuto colpevole di pratiche magiche o

diaboliche. La Chiesa in questo ha avviato un’ostinata

battaglia anche in forza del fatto di essere ritenuta

ricca di quel complesso di pseudo-conoscenze

demonologiche, che le aveva permesso di costruire un

archetipo frammisto di demonologia e teologia.

“Anche se nel III secolo si era giunti a una certa

disciplina nelle credenze diaboliche, in seguito le

eccessive confidenze che i monaci si prendevano col

Diavolo vennero diffondendo su tutta la vita un senso

di incubo, il terrore di un nemico invisibile, ai cui

agguati era assai difficile sfuggire per l’abilità del

Diavolo ad assumere ingannatori aspetti di bontà”

(NOTA Gabriele Pepe, Il medio evo barbarico

d’Italia, Einaudi, 1973, pag 167) Una valida prova

dell’addestramento a cui erano sottoposti gli uomini di

religione al fine di debellare ogni forma di “pratica

perniciosa della divinazione e della magia” è

contenuta nel Canon Episcopi di cui riporto un passo

tradotto dal latino.

"I vescovi e i loro ministri vedano di applicarsi con

tutte le loro energie per sradicare interamente dalla

proprie parrocchie la pratica perniciosa della

divinazione e della magia, che furono inventate dal

diavolo; e se trovano uomini o donne che indulgono a

tal genere di crimini, devono bandirli dalle loro

parrocchie, perché è gente ignobile e malfamata.

Dice, infatti, l’apostolo: "Dopo la prima e la seconda

ammonizione evita l’eretico, sapendo che è fuori dalla

retta via chi si comporta in tal modo". E sono fuori

dalla via e prigionieri del diavolo coloro che

abbandonano il loro Creatore per cercare l’aiuto del

diavolo; e perciò occorre purificare la santa Chiesa

da un tale flagello. Né bisogna dimenticare che certe

donne depravate, le quali si sono volte a Satana e si

sono lasciate sviare da illusioni e seduzioni

diaboliche, credono e affermano di cavalcare la notte

certune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani (o

di Erodiade), e di una innumerevole moltitudine di

donne; di attraversare larghi spazi di terre grazie al

silenzio della notte profonda e di ubbidire ai suoi

ordini come a loro signora e di essere chiamate certe

notti al suo servizio. Ma volesse il cielo che soltanto

costoro fossero perite nella loro falsa credenza e non

avessero trascinato parecchi altri nella perdizione

dell’anima. Moltissimi, infatti, si sono lasciati illudere

da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in

tal modo si allontanano dalla vera fede e cadono

nell’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dèi

o divinità oltre all’unico Dio. Perciò, nelle chiese a

loro assegnate, i preti devono predicare con grande

diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che

queste cose sono completamente false e che tali

fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo

spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti,

quando Satana, trasformandosi in angelo della luce,

prende possesso della mente di ognuna di queste

donnicciole e le sottomette a sé a causa della loro

infedeltà e incredulità, subito egli assume l’aspetto e

le sembianze di diverse persone e durante le ore del

sonno inganna la mente che tiene prigioniera,

alternando visioni liete a visioni tristi, persone note a

persone ignote, e conducendola attraverso cammini

mai praticati; e benché la donna infedele esperimenti

tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non

nella mente ma nel corpo. A chi, infatti, non è

accaduto nel sonno o in visioni notturne di essere

tratto fuori da sé stesso e di vedere, dormendo, molte

cose che, sveglio, non ha mai visto? Ma chi può

essere così stupido e ottuso da credere che tutte

queste cose che accadono solo nello spirito,

avvengano anche nel corpo? Il profeta Ezechiele,

infatti, vide il Signore nello spirito e non nel corpo, e

l’apostolo Giovanni vide e udì i misteri

dell’Apocalisse nello spirito e non nel corpo, come

egli stesso dichiara: "Subito fui in spirito". E Paolo

non osa dire di essere stato rapito fisicamente in

cielo. Tutti, perciò, devono essere pubblicamente

informati che chiunque crede a queste simili cose,

perde la fede, e chiunque non ha vera fede appartiene

non già a Dio ma a colui nel quale crede, vale a dire

al diavolo. E’ scritto infatti di nostro Signore: "Tutte

le cose sono state fatte per mezzo di Lui". Perciò

chiunque crede possibile che una creatura cambi in

meglio o in peggio, o assuma aspetti o sembianze

diverse per opera di qualcuno che non sia il Creatore

stesso che ha fatto tutte le cose e per mezzo del quale

tutte le cose sono state fatte, è indubbiamente un

infedele, e peggiore di un pagano"

Nel IX e X secolo l’autorità giudiziaria si fondava sul

“metodo accusatorio”, la procedura penale chiamava

un giudice che implorava direttamente Dio, al fine di

suggerire una sicura manifestazione del crimine di

stregoneria al giudice, questo delitto sarebbe stato poi

provato tramite l’ordalia, vale a dire costringendo

l’incriminato a sottoporsi ad una prova straziante,

tramite l’annegamento o impugnando un ferro

incandescente, se la sentenza di tali efferatezze era di

“colpevolezza” si svolgeva l’esecuzione del

prigioniero. Riporto un esempio di rituale e formula

magica contenuta nei protocolli notarili di Viterbo

“Quod in nocte videas et haud videaris: accipe

sanguinem unius nottule et de eo fac signum + in

fronte”. (NOTA Si veda A. Porretti “Le ricette delle

streghe” Fefè Ed. 2009)

Sarà solo nel 1215 nel IV Concilio Laterano che la

Chiesa proibirà l’ordalia come unico strumento di

amministrazione della prova, ma saranno ancora in

migliaia a pagare sul rogo il fio della pratica magica.

Anche un evento naturale che, oggi, noi conosciamo

come eclissi, poteva essere avvertita come un

avvertimento soprannaturale o anche come un segno

dell’imminente fine del mondo.

Nel giorno di venerdì 29 giugno 1033 venne riportato

l’avvenimento dell’eclissi e qui trascritto nella

versione tradotta:

“Nello stesso millesimo anno dopo la passione di

Cristo, il 29 giugno, un venerdì, ventottesimo giorno

della luna, si verificò una eclissi o oscuramento del

sole che durò dall’ora sesta fino alla ottava di quello

stesso giorno e fu un evento terribile. Il disco del sole

diventò color zaffiro, e nella sua parte superiore si

poteva vedere l’immagine della luna al suo primo

quarto. Gli uomini guardandosi vedevano sui loro

volti il pallore della morte. Ogni cosa intorno

sembrava avvolta da una nube color zafferano. Uno

stupore e uno spavento immenso si impossessò del

cuore degli uomini, perché la vista di questo

spettacolo faceva loro comprendere che presto

qualche triste sciagura si sarebbe abbattuta sul

genere umano. (NOTA Rodolfo il Glabro,

Historiarum libri quinque, ed. Prou, Parigi, 1886)

(NOTA E’ opportuno portare alla memoria il testo del

Muratori, Antiquitates ci., diss. LIX; inoltre il testo di

Nulli, I processi delle streghe)

Chi ha pagato disperatamente e con la propria vita

l’ingiustizia perpetrata dalla religione cristiana e delle

sue turpitudini moralistiche, è stata la figura esecrata

della “strega” che veniva citata già in epoca barbarica

ma con accenti del tutto diversi “Nessuno ardisca

uccidere l’aldia o la serva altrui come strega; menti

cristiane non debbono credere che una donna possa

divorare un uomo vivo” (NOTA Edictum cit., cap.

CCCLXIV, pag. 87)