sanguineti; saggio critico su g. leopardi

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Poetiche rivista di letteratura Mucchi Editore ISSN 1124-9080 Estratto

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Sanguineti Analisi Critica Pensiero Leopardiano, Leopardi Reazionario/Progressista

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Page 1: Sanguineti; Saggio critico su G. Leopardi

Poeticherivista di letteratura

Mucchi Editore

ISSN 1124-9080

Estratto

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Poetiche, fascicolo 2-3/2009

edoArdo SAnGuineti*

Invito a Leopardi

Il mio invito a Leopardi, il quale non ha biso-gno evidentemente di nessun invito, e tanto meno del mio; consisterà in questo: nell’in-

dicarvi un mio progetto, che non realizzerò ma che, tra i fantasmi della mia mente, si aggira da un certo tempo, ed è l’idea di un saggio su Leo-pardi che vorrebbe intitolarsi Leopardi reaziona-rio. Questo titolo può apparire per certi riguardi a taluni ovvio, ad altri scandaloso. Siccome nel-la mia vita m’è accaduto di scrivere anche un Dante reazionario, mi sarà anche meno tormen-toso l’immaginare e, posto che lo realizzi, an-che eseguire, questo programma. Vi enuncerò molto sobriamente, e mi scuserò dunque che la cosa sia tutt’altro che, non dico dimostrata, ma nemmeno adeguatamente esposta, alcuni pun-ti che mi piacerebbe toccare. Il primo è questo: perché Leopardi scrive lo Zibaldone? Ovviamen-te non pretendo di dare una risposta esausti-va a questo quesito, ma se guardiamo alle pri-me pagine dello Zibaldone c’è un centinaio di fogli che Leopardi non data. Arrivato a pagina 100 Leopardi comincia a datare regolarmente, giorno per giorno, quanto viene scrivendo. L’ini-zio è datato, in realtà, ma il primo pensiero è datato a posteriori. Quando è arrivato a pagi-na 100, nel ’20, comincia a registrare appun-

* Anticipando un evento che susciterà certamente il loro in-teresse, siamo lieti di offrire ai lettori di «Poetiche» il testo inedito della lezione che Edoardo Sanguineti ha tenuto all’Università di Los Angeles (UCLA) il 30 ottobre 1998, e che apparirà per l’edito-re Feltrinelli in un prossimo volume di scritti dedicati ad arte, let-teratura, musica e teatro, dal titolo Cultura e realtà, a cura di Er-minio Risso.

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to le varie date e allora cerca di ricordare. Ed è una datazione infatti imprecisa, che registra l’anno, il ’17, ma sul mese ha incertezza («Luglio o Agosto»). Dopo qualche appunto sparso, subi-to, nella prima pagina, si trova un passo che a mio parere spiega proprio perché Leopardi av-via lo Zibaldone. Perché pone il problema se è ancora possibile, nel mondo moderno, la poe-sia. Questo problema viene posto in questa for-ma, che è decisiva per tutta la carriera leopar-diana anche se subirà modificazioni profondis-sime. La letteratura, la poesia e, chiaramente, le nazioni, seguono un corso. C’è un avvio di ascesa, c’è un culmine di maturità, esattamen-te come nella vita umana, e secondo dunque un archetipo teorico di inenarrabile antichità, e a questa maturità segue un declino e uno spe-gnimento. Leopardi cerca di applicare al decor-so della poesia italiana questo schema e si ar-rabatta, occorre dire (è un Leopardi dicianno-venne) perché questo schema possa funziona-re. Il Trecento è il momento iniziale, si passa dal nulla a un momento significativo, ma è davve-ro appena un momento d’avvio? Leopardi aggiu-sta la cosa dicendo sì, è vero, ma ci sono poi in fondo tre soli grandi scrittori, la triade di Dan-te, Petrarca e Boccaccio, isolati. Il Quattrocen-to è una sorta di sonno della poesia. Il Cinque-cento, e qui prende posizione su una disputa molto forte in quel tempo, è veramente il culmi-ne. Segue il perfezionamento, che è parola che Leopardi impiega negativamente, perché impli-ca raffinatezza, appunto, corruzione, consape-volezza, coscienza, artificio. Non resta che la di-sperata possibilità di tentare artificiosamente di riuscire naturali. Leopardi è molto incerto se la poesia sia appunto ancora possibile. Pone il problema analizzando il caso di Parini, di Monti, di Foscolo, e punta sopra una possibilità di ri-nascita. della poesia. Ma, dopo aver constatato

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che un analogo ciclo si era compiuto nel corso della cultura greca, nel corso della cultura lati-na, che per lui sono i punti di riferimento deter-minanti, dubita fortemente che questo miracolo possa prodursi, che cioè a un’età di raffinamen-to, ovvero di decadenza compiuta, segua una ri-nascita. È possibile insomma, per usare ancora i termini vichiani, che quando il corso si è com-piuto, segua o no un ricorso? Posto questo pro-blema, Leopardi rapidamente passa a caricare la questione di significati (che del resto sono già subito impliciti) infinitamente più ampi, e nasce il paradigma «gli antichi e i moderni»: un mon-do di fantasia, di illusioni, di passioni, di vita, di valori, di virtù, e un mondo invece moderno che è caratterizzato come tutti sanno, per Leopardi, dalla ragione e dal calcolo. Questa opposizione finalmente si risolve in quella paradigmatica e da manuale, natura-ragione, e determina infi-ne la posizione che nei manuali appunto si in-dica normalmente come quella del pessimismo storico leopardiano. Ma il problema che Leopar-di si trova dinanzi a questo punto è: dove nasce questa frattura? Dov’è che finisce esattamente il mondo antico e incomincia. il mondo moder-no? Quand’è che il dominio della natura si per-de e il dominio della ragione veramente s’impo-ne? Bene, credo che al riguardo, è questa l’ipo-tesi che mi sta più a cuore, la risposta per Leo-pardi si trovi nelle riflessioni che egli fa sulla Ri-voluzione Francese. Sono non numerose ma a mio parere decisive, come sono decisive tutte le posizioni che gli intellettuali, tra Sette e Otto-cento, assumono nei confronti della Rivoluzio-ne Francese. È di lì che nasce, in Alfieri come in Monti, in Manzoni come appunto in Leopar-di, e potremmo continuare con altri nomi, con Foscolo, pensate, la struttura della loro visio-ne del mondo. Vorrei citarvi dei passi, ma per essere breve, credete a quello che dirò, cercan-

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do di parafrasare sobriamente quanto Leopar-di dice, perché quanto Leopardi dice è il mette-re in luce un paradosso radicale: la Rivoluzio-ne Francese è l’ultima esplosione della virtù, dei valori, dell’entusiasmo e dei miti, ma questa vir-tù, entusiasmo, miti e valori sono stati mobili-tati per la loro distruzione, perché l’ultima ra-gione per cui l’uomo è stato capace di entusia-smarsi è il trionfo della ragione. Questo para-dosso è insolubile. La ragione trionfa grazie a un entusiasmo incredibile, perché mai la ragio-ne per sé sarebbe capace di produrre, dice Leo-pardi, alcunché. Occorreva dunque uno straor-dinario entusiasmo virtuoso, ma questo entu-siasmo virtuoso trionfa per distruggersi. Io cre-do che di fronte a una querelle che è diventata tanto tediosa ma che tutto sommato è inevita-bile, come quella della grandezza o meno della filosofia leopardiana (perché abbiamo oscillato, se non altro in questo secolo per non ampliare la questione, massime dopo lo Zibaldone, che in questo ha avuto responsabilità anche molto più forti delle Operette morali, sulla questione: “Ma Leopardi in fondo è veramente filosofo?”), oscil-lando, ripeto, tra un culto per cui Leopardi alla fine è guardato quasi più come uno dei grandi filosofi della modernità che come uno dei gran-di poeti, e una denegazione pressoché radica-le, che era quella poi trionfante nell’età crocia-na per eccellenza: Leopardi grande poeta idilli-co, ma naturalmente destituito di ogni qualità filosofica. Io impiegherei volentieri, e qui mi per-metterei una citazione, anche per ragioni di cor-rettezza; indicherei volentieri in una categoria leopardiana di «mezza filosofia» o semifilosofia, lo scioglimento della questione. Nel ’20, proprio in connessione a queste riflessioni sulla Rivolu-zione Francese, e su questo iato per cui nasce la modernità, Leopardi affida in qualche modo alla mezza filosofia la comprensione della storia del-

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l’universo perché Leopardi ha una espressione assolutamente straordinaria nei riguardi della Rivoluzione Francese: quel paradosso per cui la ragione trionfa in forza dell’entusiasmo è addi-tato come un fenomeno che si svolge per la pri-ma volta nella storia ab orbe condito, da quan-do esiste il mondo. La parodia leopardiana del-l’ab urbe condita in ab orbe condito è veramente la chiave di volta, secondo me, per l’energia con cui Leopardi individua questa posizione e si si-tua nei confronti del problema.

Zibaldone, 17 gennaio 1821: «Trista molla la “mezza filosofia”, perché, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la sua base nella natura, come gli errori e le molle dell’anti-ca vita, o della fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in cre-denze o cognizioni non naturali o contrarie alla natura; ed è piuttosto imperfettamente ragione-vole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all’inazione. E presto o tardi, ci deve arrivare, perché tale è l’essenza sua, al contrario degli errori naturali. […] Os-servate ancora che il movimento e il fervore ca-gionato oggidì dalla mezza filosofia va perdendo di giorno in giorno necessariamente tanti fau-tori e promotori ec. quanti si vanno di mano in mano perfezionando nella filosofia coll’esperien-za ec. e quanti di semifilosofi divengono o diver-ranno a poco a poco filosofi».

Leopardi avrebbe voluto essere un mezzo fi-losofo o un semifilosofo, che era l’unico modo, a suo giudizio, di essere onestamente filosofo o, se preferite, non-filosofo, come i tempi compor-tavano. Potremmo dire che Leopardi a un certo momento diventa veramente filosofo perché si convince che quel ricorso non è possibile, che il trionfo della ragione, il trionfo della Rivoluzione Francese, il trionfo tout court della borghesia, è

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irreversibile e irrimediabile. A questo punto na-sce presso Leopardi un’ottica profondamente diversa e per certi riguardi rovesciata perché, come dicono i manuali, si passa dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, e quella natu-ra benigna, questa specie di utero infinitamente rimpianto, l’unico mondo umanamente possibi-le, diventa invece quella natura matrigna e spie-tata che proprio dovrebbe mobilitare gli uomini, estrema risorsa, in una lotta concorde, poiché il male non deriva dalla società o dagli uomini, ma dalla natura matrigna. Nel momento in cui Leo-pardi si convince che il processo è irreversibile, egli non può che assumere l’ottica della ragio-ne, e se la natura è benigna nell’ottica naturale, nell’ottica della ragione la natura è matrigna, ri-vela quello che è il suo volto spietato. Perché di-venta storicamente possibile assumere un pes-simismo cosmico? Diventa fatale assumere que-sto pessimismo perché Leopardi è il primo gran-de intellettuale italiano, e per l’Occidente anche il primo grande poeta, che s’accorge dell’avven-to delle masse.

Leopardi è il primo che introduce, credo, nella letteratura italiana, con consapevolezza letteraria e con imbarazzo letterario, la paro-la «masse», il cui significato moderno si conso-lida con la Rivoluzione Francese. È una paro-la squisitamente giacobina: l’appello alle mas-se, l’idea delle masse rivoluzionarie, l’idea del-le masse come forze che devono gestire il pro-gresso, se vogliamo, e il potere. E Leopardi, che era partito dal rimpianto di quella puerizia del mondo che era il mondo dei valori e della fanta-sia, opera anche qui un rovesciamento: siamo noi che siamo bambini, solo gli antichi erano dei veri uomini, e se permettete mi limito a qualche breve citazione da quello che davvero, filosofica-mente parlando, in qualche modo è il messaggio supremo di Leopardi, anche se cronologicamen-

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te presituato, perché è il Dialogo di Tristano e di un amico che chiude le Operette morali, ed è pro-gettato come conclusione di questa elaborazio-ne globale di pensiero di cui vi ho cercato di in-dicare qualche tratto: «A paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini; e […] gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui parago-nati agl’individui, come delle masse (per usare. questa leggiadrissima parola moderna)» – la fra-se è chiusa tra due parentesi – «paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono in-comparabilmente più virili di noi, anche nei si-stemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezio-ni, Credo costantemente che la specie umana vada sempre acquistando». Con la stessa ferocia satirica, Tristano proclama: «Credo ed abbrac-cio la profonda filosofia dei giornali, i quali ucci-dendo ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono mae-stri e luce dell’età presente». E tornando proprio al tema delle masse scrive infine: «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegan-temente i pensatori moderni». La proposizione «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse» è una proposizione in corsivo. Questa proposizio-ne in corsivo, come di solito non si dice, anche perché di solito non si sa, è una proposizione di Madame de Staël, e i filosofi, i pensatori mo-derni sono, agli occhi di Leopardi, Madame de Staël. Il che può apparire persino imbarazzante, ma qui la grandezza, davvero, di Leopardi, è di capire che quello che importa non è cogliere un pensiero filosofico, ma davvero l’egemonia che il trionfo della borghesia, ideologicamente parlan-do, ha portato, perché in Madame de Staël essa dice la verità di quello che i filosofi hanno det-to molto più oscuramente. «Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomo-

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do, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno». E più oltre an-cora, se permettete: «Ma viva la statistica! viva-no le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro secolo! e viva sempre il se-colo decimonono! forse povero di cose, ma ric-chissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei anni questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni». Ora, l’inte-resse, credo, attuale, che noi possiamo portare a Leopardi, è il fatto che questo trionfo della pa-rola, della borghesia, del capitalismo, perdura, e in questa che è la globalizzazione, possiamo ben riconoscere che non c’è bisogno di Scuo-le di Francoforte da sollecitare. Leopardi aveva strutturato fondamentalmente quello che non solo per quella parte di secolo decimonono che rimaneva a Leopardi in prospettiva di pensiero, ma per quello che abbiamo vissuto fino ai gior-ni nostri, non ha subito sostanziali modificazio-ni. Credo che in questo senso si possa spiegare perché la cosiddetta seconda fase leopardiana, quella che Binni ebbe il grande merito di sot-tolineare come la «nuova poetica leopardiana», questa poetica della ragione, questa della natu-ra madre distrutta come mito in vista della po-sizione di una natura matrigna, determini quel-la scrittura sempre fortemente allegorica che è leopardiana, ma questa volta armata nettamen-te da una struttura di ragione che toglie ogni possibilità prospettica a Leopardi e che ci può rendere pensierosi per quello che ci riguarda.

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