sbarchi, clandestini, terrorismo, emigrazioni di massa: in un … · mesi abbiamo accolto in affido...

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ANNO XV - NumerO 2 - GIuGNO 2017 La vignetta di Roberta Ascoltando i notiziari... … leggendo i quotidiani, ma soprattutto osservando volti e atteggia- menti delle persone che incrociamo nei supermercati o bar, percepiamo una sottile aura di malcontento, rabbia, passività, rassegnazione. Atmo- sfere grigie, nebbiose, che sanno vagamente di Paesi oltre cortina anni ’60. Queste emozioni si alternano spesso e quando si manifestano pos- sono raggiungere livelli estremi. Prendiamo ad esempio la rabbia nel caso di eventi (metereologici, medici, accidentali) avversi che mettono in pericolo la vita delle persone: la rassegnazione viene cancellata da un furore che si scatena contro altri ritenuti possibili responsabili. Abbia- mo cioè bisogno di scaricare la nostra impotenza. È uno dei frutti della società che abbiamo ereditato e che, nostro malgrado, continuiamo a te- nere in vita; troppe informazioni grandinano sulla nostra mente, troppi input che il nostro cervello deve vagliare sempre più in fretta per favori- re l’elaborazione di questi o di quelli. Tutto ciò crea un sovraccarico funzionale che spesso trasla nella nevrosi, per difenderci dalla quale impariamo a de-responsabilizzarci quando inevitabilmente compiamo degli errori, ribaltando su altri o sulle circostanze o sulla società il dolo- re che non sappiamo gestire. Il capo ci rimprovera in ufficio per un errore? La causa è senz’altro del col- lega o del computer o di chissà cosa. Un terremoto fa crollare le case? Si- curamente il progettista o il costruttore o i materiali non adeguati hanno compiuto il disastro, senza naturalmente poter verificare, anche per assur- do, cosa sarebbe successo se le procedure fossero state tutte seguite scru- polosamente. L’eccesso di informazioni ed il poco tempo creano inoltre il fenomeno della post-truth cioè della post-verità. Questo neologismo, in- ventato nel 1992 dallo scrittore Steve Tesich, si è evoluto assumendo il si- gnificato che la verità stessa è diventata irrilevante nell’orientare l’opinio- ne pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali. Co- me dire «ha più importanza come lo dici piuttosto di che cosa dici», anche se ciò che affermi ha dei riscontri oggettivi inoppugnabili. Una deriva di questo tipo è molto deleteria in tutti i campi perché ostacola o addirittura impedisce la ricerca di una verità più credibile, esautorando di fatto la cul- tura e la professionalità degli operatori. La frase «In Italia ci sono 60 milio- ni di allenatori di calcio» è un esempio di post-verità. Quando in studio ricevo i pazienti, spesso mi sento richiedere prestazio- ni (come le benedette risonanze magnetiche) per nulla attinenti con il problema clinico; e perdo più tempo a dare spiegazioni, accettate tal- volta a denti stretti, che a visitare la gente. L’accesso indiscriminato a internet e l’imperversare dei social network non ci ha arricchiti cultural- mente ma ci ha impoveriti assai poiché non ci permette di fermarci per ragionare. Strumenti con una potenzialità immensa avviliti da insulsi luoghi comuni! In tutta questa confusione serpeggia la disinformazio- ne, elemento efficace e subdolo quanto la calunnia («…la calunnia è un venticello…», cantava Basilio nel Barbiere di Siviglia); e nella disin- formazione cadono spesso alcuni politici e giornalisti cui nulla importa la brutta figura rimediata. Nel campo medico, ciò può essere particolar- mente deleterio perché può innescare una serie di incomprensioni tra la domanda e l’offerta, con aspettative che superano di gran lunga le reali possibilità tecniche ed umane, specie sulle prospettive di vita. La realtà è, oggi come ieri, che abbiamo un tempo determinato su questa terra e siamo tutti di passaggio; solo la nostra fantasia immagina per tutti una vecchiaia serena e lunga, ma purtroppo talvolta non è così. Muore il vecchio, ma può morire anche il giovane, malgrado ogni sforzo. Il messaggio che oggi voglio lasciare è che abbiamo da riconquistare nuovamente la nostra umanità, al di qua e al di là della barricata, come operatori e come utenti; e la nostra dignità fisica, intellettuale e spiritua- le di persone, ponendo alla base di tutto un termine spesso abusato ma poco vissuto che è amore e, nella sua messa in atto, amorevolezza. Urbi et Orbi. Tutto ciò per evitare di diventare succedanei di noi stessi. Dott. Antonello Musso Tutti abbiamo memoria di come e quanto i giornali, solo pochi mesi fa, abbiano trattato del superamento in città dei livelli minimi di inquina- mento ammessi nell’aria, dei rischi per la salute e dei conseguenti bloc- chi alla circolazione delle auto, della crisi del piccolo commercio di fron- te all’incalzante proliferare di gran- di centri commerciali nell’area urba- na, dell’impoverimento economico e sociale delle periferie e del loro de- grado materiale, delle conseguenze devastanti dei fenomeni alluvionali dovuti alla trascuratezza dei proble- bientale collettivo portatore di be- nessere e salute? Che l’enorme po- tenza concorrenziale di un nuovo grande “Palazzo del commercio” possa colpire solo le attività econo- miche più prossime? E si potrebbe continuare. In questo anno di attività abbiamo cercato di far comprendere che gli eventi che ruotano intorno al Palazzo del Lavoro e al Parco d’Italia ’61 non possono essere relegati a semplice questione di via, ma sono temi che ri- guardano tutti e sui quali è necessario dedicare molta attenzione, prendendo consapevolezza che a volte si è più sensibili ai danni ambientali che si di Nizza-Millefonti una galleria dedi- cata al commercio con una capacità di attrazione paragonabile a realtà come quelle di Grugliasco o Settimo. Possiamo quindi facilmente prevede- re quale devastante impatto possa avere un tale intervento urbanistico, non soltanto sulle vie adiacenti e sugli isolati più prossimi, ma su tutta l’area vasta dell’intero borgo. Infatti, quale persona ragionevole po- trebbe pensare che l’incremento del traffico indotto rimanga circoscritto alla sola viabilità circostante al nuovo centro commerciale? Che le relative emissioni nocive non si espandano in uno spazio assai più esteso? Che l’abbattimento di centinaia di alberi d’alto fusto sia solo l’elimina- zione di elementi ornamentali e non la distruzione di un patrimonio am- mi idrogeologici sul territorio. C’è tutto questo nelle contestazioni che il Comitato ItaliaSessantuno ha solleva- to, un anno fa, con un ricorso al TAR promosso da residenti e operatori commerciali del quartiere e da cittadi- ni e associazioni torinesi contro il progetto che prevede l’insediamento di un centro commerciale da 43.000 mq all’interno del Palazzo del Lavo- ro, nel Parco d’Italia ’61. È sufficiente rimodulare questi temi ad un ambito territoriale più limitato e diventa immediato comprendere qua- li effetti devastanti possa comportare l’attuazione di quel progetto in uno dei quartieri residenziali più vivibili di Torino. Ricordiamo che la proprietà dell’im- mobile e la precedente Giunta comu- nale hanno inteso collocare nel cuore Sbarchi, clandestini, terrorismo, emigrazioni di massa: in un panora- ma di notizie allarmanti ed emergenze continue, c’è chi reagisce sce- gliendo di impegnarsi in prima persona. Per questo numero di “Una famiglia… per esempio” raccontiamo una piccola ma concreta storia di accoglienza. «Siamo semplicemente una famiglia che è capace di fare questo, molte altre cose invece non le sappiamo fare». Inizia così la chiacchierata con Sonia, moglie di Andrea, 27 anni di matrimonio, tre figli. Sono loro la famiglia torinese che da gennaio ospita Gentjan, un ragazzo albanese approdato in Italia 2 anni fa ancora minorenne. «Come famiglia aveva- mo già esperienze di accoglienza: quando il nostro primo figlio aveva 9 mesi abbiamo accolto in affido un bambino di 6 anni, che sarebbe stato con noi per oltre 10 anni e che con noi avrebbe poi vissuto la nascita de- gli altri 2 nostri figli. A seguire abbiamo avuto esperienze di ospitalità di studenti stranieri, attraverso l’associazione Intercultura. Dopo alcu- ni anni, però, ci siamo di nuovo avvicinati al tema dell’accoglienza di persone in situazioni di difficoltà e, attraverso il Gruppo Abele, siamo venuti in contatto con Refugees Welcome Italia». L’associazione internazionale Refugees Welcome promuove e favori- sce l’accoglienza in famiglia di rifugiati e richiedenti asilo. Nata in Ger- mania nel 2014 e operativa anche in Italia da luglio 2015, grazie al lavo- ro volontario e autofinanziato di persone qualificate, opera sui territori mettendo in rete esperti, famiglie, ma anche istituzioni pubbliche e as- sociazioni impegnate sui temi dell’accoglienza. La finalità è quella di contribuire a creare un nuovo modello di inclusione che permetta ai ri- chiedenti asilo e ai rifugiati di inserirsi positivamente e in modo attivo, il prima possibile, nella società italiana. Ed ecco che tramite Refugees Welcome la famiglia Eiraudo si fa avan- ti: «Il contatto è arrivato nel momento giusto: le notizie di tv e giornali ci descrivevano quotidianamente situazioni di fronte alle quali non po- tevamo restare indifferenti. Abbiamo maturato quindi l’idea di un no- stro impegno e l’abbiamo condivisa innanzitutto con i nostri figli. Do- po i primi contatti, ci siamo candidati ed è partita la ricerca di un abbi- namento. Alcuni mesi dopo è arrivata la proposta di ospitare Gentjan per circa 5/6 mesi. La sua storia è particolare; non un profugo, ma un immigrato, in fuga da un futuro di povertà. In più un minorenne non accompagnato, un fenomeno purtroppo sempre più frequente in questi anni». Come ci ha spiegato Refugees Welcome, pur non essendo un rifugiato, Gentjan è rientrato nel progetto proprio in quanto minorenne non ac- compagnato e quindi persona da tutelare in modo particolare. Che tipo è Gentjan? «È un ragazzo estremamente volenteroso, che ce la sta mettendo tutta. Dopo il diploma di terza media sta frequentando un corso da saldatore. Qui non è un ospite, ma partecipa attivamente alla vita di famiglia, si fa la lavatrice e aiuta nelle cose di casa. Il no- stro ruolo non è, infatti, di accudimento, ma di accompagnamento verso la sua autonomia futura. Sicuramente questo non è un percorso semplice, e pochi mesi senza dubbio non basteranno a renderlo del tutto autosufficiente, dal punto di vista economico, ma anche cultura- le e relazionale, aspetti sui quali come famiglia possiamo essere di aiuto. In questo senso Gentjan è anche un ragazzo da seguire, perché vive solo in un Paese straniero, con una mentalità e una cultura molto diversa dalla nostra: uno dei nostri primi compiti, al di là dell’acco- glienza, è quindi proprio quello di far capire come funzionano le cose qui in Italia. Spesso alcuni stranieri hanno un’idea troppo ottimistica dell’Italia, immaginano una società accogliente in cui tutto è sempli- ce, e tocca a noi disilluderli e smontare pregiudizi positivi e aspettati- ve irrealistiche». Com’è il rapporto con i vostri figli? «Come famiglia siamo sempre stati abituati ad avere gente per casa e, anche se gli equilibri sono fragili e da rivedere continuamente, sappiamo gestire bene spazi e li- bertà personali. Gentjan gioca spesso soprattutto con il nostro figlio più piccolo che fa terza media. Diverso il rapporto con i più grandi, che vivono una vita completamente differente per interessi, relazioni e opportunità. Però confrontarsi con l’esperienza di Gentjan rappre- senta uno stimolo importante per i nostri giovani, abituati a dare tut- to per scontato». Come viene aiutata da Refugees Welcome una famiglia ospitante? «Ogni famiglia può contare su una persona, un cosiddetto “facilitato- re”, che può far fronte a eventuali dubbi o problemi. Anche ogni ospite ha un proprio facilitatore, per cui per ogni scambio ci sono due persone di riferimento, per garantire maggiore oggettività e imparzialità nel- l’intervento. Poi c’è una rete informativa e pratica che può aiutare la famiglia a gestire eventuali necessità pratiche o burocratiche, ad esem- pio per il rinnovo dei permessi di soggiorno». Siete pagati per il servizio che fate? «Refugees Welcome non garantisce automaticamente un rimborso spese alle famiglie, ma ne presenta la possibilità allo stabilirsi della convivenza, per poi attivarlo quando ri- chiesto, grazie ad azioni di crowfounding attraverso la piattaforma web Produzioni dal Basso (www.produzionidalbasso.com). Noi perso- nalmente non riceviamo alcun contributo, ma abbiamo attivato la ri- chiesta di aiuto perché una piccola cifra venga eventualmente destinata direttamente a Gentjan per le sue spese strettamente personali. Per or- goglio e dignità, infatti, lui chiede il meno possibile». La vostra è una scelta coraggiosa, che a prima vista potrebbe spaventa- re: «Sicuramente è una scelta fatta con un po’ di incoscienza... Ma di fronte ad un’emergenza umanitaria come quella che stiamo vivendo, la domanda giusta non è “perché farlo?”, ma “perché no?”». [Per maggiori informazioni: [email protected] o su Facebook “Refugees Welcome Torino”] Si chiama Premio Bogianen e l’organizza da 21 anni Torino Incontra, il Centro Congressi della Camera di commercio di Torino, per celebrare i pie- montesi di nascita o di adozione che nella loro vita si sono distinti per aver fatto qualcosa di speciale, migliorando la vita delle persone e il contesto so- ciale in cui vivono. Bogianen inteso non nel senso di pigro o indolente, quindi, ma nel senso di persona tenace, affidabile, che non indietreggia, come tanti piemontesi han- no dimostrato di essere nella storia e non solo durante la battaglia dell’As- sietta, quando è nata questa espressione dialettale. Negli anni a Torino In- contra sono stati premiati imprenditori, soprattutto, ma anche personalità del mondo della cultura, dello sport, del sociale. La 21ª edizione del Premio si è svolta lo scorso 8 maggio: tra i premiati, don Carlo Chiomento, come di- ce la motivazione “per la quotidia- na assistenza, spirituale e pratica, donata ai malati oncologici e ai lo- ro familiari e per la solida tenacia con cui ha realizzato la casa di ac- coglienza La Madonnina di Can- diolo”. Qualche numero: 27 came- re, 54 posti letto, 75mila pernotta- menti in 9 anni e mezzo di attività. Don Carlo sale sul palco ed è sem- pre lui, quello che conosciamo e ri- cordiamo, la cadenza veneta, la voce calda, la capacità di rapire con le parole e con la simpatia. Ma non è qui per celebrarsi: dopo aver dedicato il Premio ai suoi volonta- ri, numerosissimi in sala, inizia a parlare di futuro. La Madonnina sarà raddoppiata, servono soldi, innanzi- tutto, poi materiali di costruzione a prezzo di costo, volontari per continua- re l’attività e… tappi, quei tappi di plastica che raccolti da ogni famiglia di- ventano una quantità tale da generare un discreto introito. Don Carlo pro- pone un gioco: alzate le mani, battete insieme i vostri indici, poi aggiunge- te i medi, gli anulari, i mignoli. In breve nell’austera sala Cavour scroscia un fortissimo applauso. Un solo dito non fa rumore, ma se ci muoviamo tutti insieme si crea un boato. Alla fine salgono sul palco tutti i premiati, tra cui i giocatori della squadra Auxilium Pallacanestro Torino: alcuni tra loro sono alti più di due metri. Per la foto di rito don Carlo si piazza proprio vicino ad un cestista, guar- dandolo da sotto in su. Ma per noi il vero gigante resta lui! Elena Bergamasco Comitato ItaliaSessantuno

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ANNO XV - NumerO 2 - GIuGNO 2017

La vignetta di Roberta

Ascoltando i notiziari...… leggendo i quotidiani, ma soprattutto osservando volti e atteggia-menti delle persone che incrociamo nei supermercati o bar, percepiamouna sottile aura di malcontento, rabbia, passività, rassegnazione. Atmo-sfere grigie, nebbiose, che sanno vagamente di Paesi oltre cortina anni’60. Queste emozioni si alternano spesso e quando si manifestano pos-sono raggiungere livelli estremi. Prendiamo ad esempio la rabbia nelcaso di eventi (metereologici, medici, accidentali) avversi che mettonoin pericolo la vita delle persone: la rassegnazione viene cancellata da unfurore che si scatena contro altri ritenuti possibili responsabili. Abbia-mo cioè bisogno di scaricare la nostra impotenza. È uno dei frutti dellasocietà che abbiamo ereditato e che, nostro malgrado, continuiamo a te-nere in vita; troppe informazioni grandinano sulla nostra mente, troppiinput che il nostro cervello deve vagliare sempre più in fretta per favori-re l’elaborazione di questi o di quelli. Tutto ciò crea un sovraccaricofunzionale che spesso trasla nella nevrosi, per difenderci dalla qualeimpariamo a de-responsabilizzarci quando inevitabilmente compiamodegli errori, ribaltando su altri o sulle circostanze o sulla società il dolo-re che non sappiamo gestire.Il capo ci rimprovera in ufficio per un errore? La causa è senz’altro del col-lega o del computer o di chissà cosa. Un terremoto fa crollare le case? Si-curamente il progettista o il costruttore o i materiali non adeguati hannocompiuto il disastro, senza naturalmente poter verificare, anche per assur-do, cosa sarebbe successo se le procedure fossero state tutte seguite scru-polosamente. L’eccesso di informazioni ed il poco tempo creano inoltre ilfenomeno della post-truth cioè della post-verità. Questo neologismo, in-ventato nel 1992 dallo scrittore Steve Tesich, si è evoluto assumendo il si-gnificato che la verità stessa è diventata irrilevante nell’orientare l’opinio-ne pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali. Co-me dire «ha più importanza come lo dici piuttosto di che cosa dici», anchese ciò che affermi ha dei riscontri oggettivi inoppugnabili. Una deriva diquesto tipo è molto deleteria in tutti i campi perché ostacola o addiritturaimpedisce la ricerca di una verità più credibile, esautorando di fatto la cul-tura e la professionalità degli operatori. La frase «In Italia ci sono 60 milio-ni di allenatori di calcio» è un esempio di post-verità. Quando in studio ricevo i pazienti, spesso mi sento richiedere prestazio-ni (come le benedette risonanze magnetiche) per nulla attinenti con ilproblema clinico; e perdo più tempo a dare spiegazioni, accettate tal-volta a denti stretti, che a visitare la gente. L’accesso indiscriminato ainternet e l’imperversare dei social network non ci ha arricchiti cultural-mente ma ci ha impoveriti assai poiché non ci permette di fermarci perragionare. Strumenti con una potenzialità immensa avviliti da insulsiluoghi comuni! In tutta questa confusione serpeggia la disinformazio-ne, elemento efficace e subdolo quanto la calunnia («…la calunnia è unventicello…», cantava Basilio nel Barbiere di Siviglia); e nella disin-formazione cadono spesso alcuni politici e giornalisti cui nulla importala brutta figura rimediata. Nel campo medico, ciò può essere particolar-mente deleterio perché può innescare una serie di incomprensioni tra ladomanda e l’offerta, con aspettative che superano di gran lunga le realipossibilità tecniche ed umane, specie sulle prospettive di vita. La realtàè, oggi come ieri, che abbiamo un tempo determinato su questa terra esiamo tutti di passaggio; solo la nostra fantasia immagina per tutti unavecchiaia serena e lunga, ma purtroppo talvolta non è così. Muore ilvecchio, ma può morire anche il giovane, malgrado ogni sforzo. Il messaggio che oggi voglio lasciare è che abbiamo da riconquistarenuovamente la nostra umanità, al di qua e al di là della barricata, comeoperatori e come utenti; e la nostra dignità fisica, intellettuale e spiritua-le di persone, ponendo alla base di tutto un termine spesso abusato mapoco vissuto che è amore e, nella sua messa in atto, amorevolezza. Urbiet Orbi. Tutto ciò per evitare di diventare succedanei di noi stessi.

Dott. Antonello Musso

Tutti abbiamo memoria di come equanto i giornali, solo pochi mesi fa,abbiano trattato del superamento incittà dei livelli minimi di inquina-mento ammessi nell’aria, dei rischiper la salute e dei conseguenti bloc-chi alla circolazione delle auto, dellacrisi del piccolo commercio di fron-te all’incalzante proliferare di gran-di centri commerciali nell’area urba-na, dell’impoverimento economicoe sociale delle periferie e del loro de-grado materiale, delle conseguenzedevastanti dei fenomeni alluvionalidovuti alla trascuratezza dei proble-

bientale collettivo portatore di be-nessere e salute? Che l’enorme po-tenza concorrenziale di un nuovogrande “Palazzo del commercio”possa colpire solo le attività econo-miche più prossime? E si potrebbecontinuare.In questo anno di attività abbiamocercato di far comprendere che glieventi che ruotano intorno al Palazzodel Lavoro e al Parco d’Italia ’61 nonpossono essere relegati a semplicequestione di via, ma sono temi che ri-guardano tutti e sui quali è necessariodedicare molta attenzione, prendendoconsapevolezza che a volte si è piùsensibili ai danni ambientali che si

di Nizza-Millefonti una galleria dedi-cata al commercio con una capacità diattrazione paragonabile a realtà comequelle di Grugliasco o Settimo. Possiamo quindi facilmente prevede-re quale devastante impatto possaavere un tale intervento urbanistico,non soltanto sulle vie adiacenti e sugliisolati più prossimi, ma su tutta l’areavasta dell’intero borgo. Infatti, quale persona ragionevole po-trebbe pensare che l’incremento deltraffico indotto rimanga circoscrittoalla sola viabilità circostante al nuovocentro commerciale? Che le relativeemissioni nocive non si espandano inuno spazio assai più esteso? Che l’abbattimento di centinaia dialberi d’alto fusto sia solo l’elimina-zione di elementi ornamentali e nonla distruzione di un patrimonio am-

mi idrogeologici sul territorio. C’ètutto questo nelle contestazioni che ilComitato ItaliaSessantuno ha solleva-to, un anno fa, con un ricorso al TARpromosso da residenti e operatoricommerciali del quartiere e da cittadi-ni e associazioni torinesi contro ilprogetto che prevede l’insediamentodi un centro commerciale da 43.000mq all’interno del Palazzo del Lavo-ro, nel Parco d’Italia ’61. È sufficiente rimodulare questi temiad un ambito territoriale più limitato ediventa immediato comprendere qua-li effetti devastanti possa comportarel’attuazione di quel progetto in unodei quartieri residenziali più vivibilidi Torino.Ricordiamo che la proprietà dell’im-mobile e la precedente Giunta comu-nale hanno inteso collocare nel cuore

Sbarchi, clandestini, terrorismo, emigrazioni di massa: in un panora-ma di notizie allarmanti ed emergenze continue, c’è chi reagisce sce-gliendo di impegnarsi in prima persona. Per questo numero di “Unafamiglia… per esempio” raccontiamo una piccola ma concreta storiadi accoglienza.

«Siamo semplicemente una famiglia che è capace di fare questo, moltealtre cose invece non le sappiamo fare». Inizia così la chiacchierata conSonia, moglie di Andrea, 27 anni di matrimonio, tre figli. Sono loro lafamiglia torinese che da gennaio ospita Gentjan, un ragazzo albaneseapprodato in Italia 2 anni fa ancora minorenne. «Come famiglia aveva-mo già esperienze di accoglienza: quando il nostro primo figlio aveva 9mesi abbiamo accolto in affido un bambino di 6 anni, che sarebbe statocon noi per oltre 10 anni e che con noi avrebbe poi vissuto la nascita de-gli altri 2 nostri figli. A seguire abbiamo avuto esperienze di ospitalitàdi studenti stranieri, attraverso l’associazione Intercultura. Dopo alcu-ni anni, però, ci siamo di nuovo avvicinati al tema dell’accoglienza dipersone in situazioni di difficoltà e, attraverso il Gruppo Abele, siamovenuti in contatto con Refugees Welcome Italia».L’associazione internazionale Refugees Welcome promuove e favori-sce l’accoglienza in famiglia di rifugiati e richiedenti asilo. Nata in Ger-mania nel 2014 e operativa anche in Italia da luglio 2015, grazie al lavo-ro volontario e autofinanziato di persone qualificate, opera sui territorimettendo in rete esperti, famiglie, ma anche istituzioni pubbliche e as-sociazioni impegnate sui temi dell’accoglienza. La finalità è quella dicontribuire a creare un nuovo modello di inclusione che permetta ai ri-chiedenti asilo e ai rifugiati di inserirsi positivamente e in modo attivo,il prima possibile, nella società italiana.Ed ecco che tramite Refugees Welcome la famiglia Eiraudo si fa avan-ti: «Il contatto è arrivato nel momento giusto: le notizie di tv e giornalici descrivevano quotidianamente situazioni di fronte alle quali non po-tevamo restare indifferenti. Abbiamo maturato quindi l’idea di un no-stro impegno e l’abbiamo condivisa innanzitutto con i nostri figli. Do-po i primi contatti, ci siamo candidati ed è partita la ricerca di un abbi-namento. Alcuni mesi dopo è arrivata la proposta di ospitare Gentjanper circa 5/6 mesi. La sua storia è particolare; non un profugo, ma unimmigrato, in fuga da un futuro di povertà. In più un minorenne nonaccompagnato, un fenomeno purtroppo sempre più frequente in questianni».Come ci ha spiegato Refugees Welcome, pur non essendo un rifugiato,Gentjan è rientrato nel progetto proprio in quanto minorenne non ac-compagnato e quindi persona da tutelare in modo particolare. 

Che tipo è Gentjan? «È un ragazzo estremamente volenteroso, che cela sta mettendo tutta. Dopo il diploma di terza media sta frequentandoun corso da saldatore. Qui non è un ospite, ma partecipa attivamentealla vita di famiglia, si fa la lavatrice e aiuta nelle cose di casa. Il no-stro ruolo non è, infatti, di accudimento, ma di accompagnamentoverso la sua autonomia futura. Sicuramente questo non è un percorsosemplice, e pochi mesi senza dubbio non basteranno a renderlo deltutto autosufficiente, dal punto di vista economico, ma anche cultura-le e relazionale, aspetti sui quali come famiglia possiamo essere diaiuto. In questo senso Gentjan è anche un ragazzo da seguire, perchévive solo in un Paese straniero, con una mentalità e una cultura moltodiversa dalla nostra: uno dei nostri primi compiti, al di là dell’acco-glienza, è quindi proprio quello di far capire come funzionano le cosequi in Italia. Spesso alcuni stranieri hanno un’idea troppo ottimisticadell’Italia, immaginano una società accogliente in cui tutto è sempli-ce, e tocca a noi disilluderli e smontare pregiudizi positivi e aspettati-ve irrealistiche». Com’è il rapporto con i vostri figli? «Come famiglia siamo semprestati abituati ad avere gente per casa e, anche se gli equilibri sonofragili e da rivedere continuamente, sappiamo gestire bene spazi e li-bertà personali. Gentjan gioca spesso soprattutto con il nostro figliopiù piccolo che fa terza media. Diverso il rapporto con i più grandi,che vivono una vita completamente differente per interessi, relazionie opportunità. Però confrontarsi con l’esperienza di Gentjan rappre-senta uno stimolo importante per i nostri giovani, abituati a dare tut-to per scontato».Come viene aiutata da Refugees Welcome una famiglia ospitante?«Ogni famiglia può contare su una persona, un cosiddetto “facilitato-re”, che può far fronte a eventuali dubbi o problemi. Anche ogni ospiteha un proprio facilitatore, per cui per ogni scambio ci sono due personedi riferimento, per garantire maggiore oggettività e imparzialità nel-l’intervento. Poi c’è una rete informativa e pratica che può aiutare lafamiglia a gestire eventuali necessità pratiche o burocratiche, ad esem-pio per il rinnovo dei permessi di soggiorno».Siete pagati per il servizio che fate? «Refugees Welcome non garantisceautomaticamente un rimborso spese alle famiglie, ma ne presenta lapossibilità allo stabilirsi della convivenza, per poi attivarlo quando ri-chiesto, grazie ad azioni di crowfounding attraverso la piattaformaweb Produzioni dal Basso (www.produzionidalbasso.com). Noi perso-nalmente non riceviamo alcun contributo, ma abbiamo attivato la ri-chiesta di aiuto perché una piccola cifra venga eventualmente destinatadirettamente a Gentjan per le sue spese strettamente personali. Per or-goglio e dignità, infatti, lui chiede il meno possibile».La vostra è una scelta coraggiosa, che a prima vista potrebbe spaventa-re: «Sicuramente è una scelta fatta con un po’ di incoscienza... Ma difronte ad un’emergenza umanitaria come quella che stiamo vivendo, ladomanda giusta non è “perché farlo?”, ma “perché no?”».

[Per maggiori informazioni: [email protected] o su Facebook “Refugees Welcome Torino”]

Si chiama Premio Bogianen e l’organizza da 21 anni Torino Incontra, ilCentro Congressi della Camera di commercio di Torino, per celebrare i pie-montesi di nascita o di adozione che nella loro vita si sono distinti per averfatto qualcosa di speciale, migliorando la vita delle persone e il contesto so-ciale in cui vivono. Bogianen inteso non nel senso di pigro o indolente, quindi, ma nel senso dipersona tenace, affidabile, che non indietreggia, come tanti piemontesi han-no dimostrato di essere nella storia e non solo durante la battaglia dell’As-sietta, quando è nata questa espressione dialettale. Negli anni a Torino In-contra sono stati premiati imprenditori, soprattutto, ma anche personalitàdel mondo della cultura, dello sport, del sociale. La 21ª edizione del Premiosi è svolta lo scorso 8 maggio: tra i premiati, don Carlo Chiomento, come di-

ce la motivazione “per la quotidia-na assistenza, spirituale e pratica,donata ai malati oncologici e ai lo-ro familiari e per la solida tenaciacon cui ha realizzato la casa di ac-coglienza La Madonnina di Can-diolo”. Qualche numero: 27 came-re, 54 posti letto, 75mila pernotta-menti in 9 anni e mezzo di attività.Don Carlo sale sul palco ed è sem-pre lui, quello che conosciamo e ri-cordiamo, la cadenza veneta, lavoce calda, la capacità di rapirecon le parole e con la simpatia. Manon è qui per celebrarsi: dopo averdedicato il Premio ai suoi volonta-ri, numerosissimi in sala, inizia a

parlare di futuro. La Madonnina sarà raddoppiata, servono soldi, innanzi-tutto, poi materiali di costruzione a prezzo di costo, volontari per continua-re l’attività e… tappi, quei tappi di plastica che raccolti da ogni famiglia di-ventano una quantità tale da generare un discreto introito. Don Carlo pro-pone un gioco: alzate le mani, battete insieme i vostri indici, poi aggiunge-te i medi, gli anulari, i mignoli. In breve nell’austera sala Cavour scrosciaun fortissimo applauso. Un solo dito non fa rumore, ma se ci muoviamotutti insieme si crea un boato. Alla fine salgono sul palco tutti i premiati, tra cui i giocatori della squadraAuxilium Pallacanestro Torino: alcuni tra loro sono alti più di due metri.Per la foto di rito don Carlo si piazza proprio vicino ad un cestista, guar-dandolo da sotto in su. Ma per noi il vero gigante resta lui!

Elena Bergamasco

Comitato ItaliaSessantuno

2 Anno XV - Numero 2 - Giugno 2017

«In questa sede prestigiosa vogliamo fe-steggiare la nascita e la significativastoria di un pezzo di cultura di Torino,un gruppo di persone che stanno beneinsieme cantando, per il piacere proprioe per il piacere del loro pubblico: è ilGruppo Vocale Chorus di Torino». Conqueste parole il presentatore ci introdus-se sul palco del Conservatorio G. Verdidi Torino: è il 20 maggio del 2015, stia-mo festeggiando trent’anni di vita delgruppo!In questo caso ci sono tre decenni d’a-more: per il canto, per il ritmo e per latradizione mescolata all’innovazione.L’amore che guida il percorso di ogniessere umano fin dal primo battito. Seandiamo alla radice della vita, proprioquel battere costante nel petto rappre-senta l’iniziale elemento di comunica-zione: il ritmo. Radicato nella nostra origine arcaica, ri-cordo atavico del rumore delle dita pri-migenie, prima sui tronchi, poi sul terre-no e sui sassi, ispirate da quel suono co-stante che batte nel petto: il ritmo dellavita.Altro elemento istintivo del nostro co-municare è il canto: forma nativa e pri-mordiale, ancora prima della parola. Daquando il neonato riesce a riempire ipolmoni di quel primo anelito d’aria,emette un suono: il canto della vita. Im-maginate la fusione dei due e avrete lamusica, pensate all’evoluzione senzastrumenti e incontrerete il canto ritmicoa cappella.Nel corso della storia il canto ha semprerappresentato la principale forma diespressione, prima religiosa e poi popo-lare, conservando traccia dentro di sédella tradizione e del succedersi dellegenerazioni. Dal Jazz e dal Blues nac-quero le prime formazioni vocali, ini-

zialmente accompagnate dagli strumen-ti, poi in totale solitudine armonica e in-fine ritornando al ritmo per vie modernecon il Beatboxing (percussioni ottenutecol solo uso della voce).Senza dimenticare il Quartetto Cetra, inItalia il genere era pressoché sconosciu-to. La tradizione melodica del bel cantodava poca visibilità a forme diverse diespressione musicale e a interpretazionioriginali. Si ricordano ben pochi esempidi formazioni a cappella, riuscite ad arri-vare al grande pubblico. Negli ultimi de-cenni solo i Neri per Caso hanno avutouna gloria temporanea; sono transitati iCluster o le Voci Atroci e decine di altreformazioni dotate di tecnica e talentoche sono rimaste nel sottobosco musica-le, schiacciate da molta banalità. In real-tà un nutrito movimento underground hagoduto e gode ottima salute; appassio-nati di tutte le età affollano i concerti deimostri sacri del genere come gli Swin-gle Singers, oppure i King’s Singers.Torino, in contrasto con la sua immagi-ne di città grigia e industriale, ha sempreavuto un cuore pulsante e canoro. Qui,nel 1947, nasce una delle compagini co-rali più vecchie dello stivale: il coro CAIUGET che ha sempre cantato la tradi-zione del canto popolare e che ormaivolge verso il settantesimo compleanno.Durante i favolosi anni ’60 di abusato

blasone, alcune voci militanti nel sodali-zio sabaudo si appassionarono al cantoJazz creando, sotto la guida del giovanepianista Maurizio Lama, un complesso acappella che contaminerà in futuro an-che il repertorio del coro di origine. Ildestino però decise che la brillante car-riera del giovane maestro terminasse trale lamiere contorte di un’automobile.Pur nella sua tragicità, il germe gettatoda Maurizio era nel frattempo riuscito acontagiare anche me, giovane diciasset-tenne, fulcro futuro di quell’idea em-brionale.Bisogna aspettare però il 1985, perchéio, ormai 42enne, decida che quel ger-moglio fosse maturo per sbocciare. In-

sieme agli appassionati di sempre fon-dai il gruppo vocale CHORUS innestan-do una voce femminile, come nello stiledei complessi americani di genere. Finda bambino cantavo: con l’intento diconquistare la piccola Marcella o sem-plicemente di creare e vivere un mondofatto di armonie e storie cantate. In con-trasto con la mia professione inquadratain rigidi schemi, la propensione all’ar-monia e alla libertà musicale mi portò asperimentare strade di forte contamina-zione trasversale. La contemporanea direzione del coroCai Uget, presa alla morte del mai di-menticato Gilberto Zamara, mi consen-tirà di trasportare l’esperienza Jazz nel

popolare conelaborazioniche ancoraoggi, insiemea quelle diGino Mazza-ri, ritengosiano puntodi originalitàe creativitàdel repertoriopopolare ita-liano. L’ini-zio della for-mazione partìda alcune ar-

monizzazioni che attinsi dal repertoriodei colossi americani del Jazz. Try to Re-member, cantato dai Singers Unlimitede originariamente armonizzato a 27 vocicon la tecnica dell’overdubbing, lo ri-dussi a 5 linee di partitura.Fu una prova difficile per coristi abituatia ristretti range vocali e a fondere la pro-pria voce con quella dei vicini di settore,perché il brano, nonostante la semplifi-cazione, aveva conservato inalterato ilgrado di difficoltà tecnica: qui ogni voceera solista, molteplici invece erano icambi tonali e le necessarie modulazio-ni della voce. Dove non arrivava la tec-nica, sopperivano l’entusiasmo e la vo-glia di cantare esplorando territori nuo-vi. La curiosità e la carica emotiva por-tarono a superare i difetti della primaregistrazione traducendoli in stupore:“Perché non abbiamo iniziato prima?”,affermò il grande Gigi Bartolotta.Quello fu il vero spunto che ha portatoChorus ad arrivare al compimento deltrentesimo anno di attività. Più di cin-quanta le voci che si sono avvicendate inun girotondo di registri tonali, passandoda quel nucleo iniziale a una formazioneche attualmente conta quattro elementimaschili e tre femminili. Non raramentele voci arrivavano dal coro Cai Uget inuna sorta di dualismo canoro a dimo-strazione del sempre vivo entusiasmo

che il progetto sapeva generare nei coin-volti. Verso la fine degli anni ’90, la for-mazione patì un momento di grossa crisicoincidente con le mie difficoltà fami-liari. Con una sofferta decisione, nel2002 diedi le dimissioni da direttore delcoro Cai Uget (consapevole che la miagestione ne stava rallentando la crescitamusicale e generazionale) per seguire imiei affetti e mantenere l’energia utile apoter proseguire almeno nel percorsoartistico di Chorus.Numerosi i palchi e i concorsi affrontatie conquistati dal gruppo, confrontandosicon jazzisti di professione, non di rado arappresentare il canto a cappella, comenel recente Torino Jazz Festival. Memo-rabile l’esibizione del 2008, nel Solevo-ci Contest, riconosciuta e premiata dagiudici del calibro di Kirby Shaw, Joan-na Goldsmith e Tobias Hug degli Swin-gles Singers. Dopo trent’anni di attivitàsi può fare un bilancio ben consolidatodi quanto è stato costruito nel tempo:una cinquantina di persone che in qual-che modo si sono avvicendate; oltrecento che hanno chiesto di entrare nelgruppo senza riuscirci, a testimonianzadel valore tecnico-artistico necessarioper farne parte; un repertorio di 85 branidi cui 75 incisi in 6 cd, dove trovanospazio molte mie armonizzazioni origi-nali, ma anche adattamenti dal reperto-

rio degli Swingles Singers, Neri per Ca-so, Singers Unlimited, ManhattanTransfer, King’s Singers, The Ritz e Ta-ke 6; due libri di spartiti.In questi anni rimane un rammarico: unprogetto così lungimirante e anticipato-re da non trovare fondi né riconosci-mento. SCAT (Scuola di Alto Perfezio-namento Ritmico) è un’idea ambiziosadi dare al canto ritmico una valenza eun’importanza non seconda a quelladella ricerca musicale in altri settori egeneri. L’Italia spesso è vittima del suopassato e della sua storia, generandoamministratori granitici e inamovibilicome le colonne ioniche e corinzie diEllenica memoria. Rimane quindi un so-gno ancora non realizzato, una sorta didesiderio che, mi auguro, possa vederela luce nei prossimi anni. Per ora speroalmeno di riuscire a raccogliere adesionitra i giovani che hanno voglia di provarequesta esperienza. La storia di Chorus, soprattutto quellanon scritta, insegna che la tradizione èun concetto molto ampio, non stretta-mente legato ad un passato, ma ad unarealtà che può nascere parallelamente adun progetto. Il sogno mio e di Gino,Franco, Gigi e Rita, i 5 fondatori, eraquello di vivere su un pentagramma do-ve armonia e ritmo potessero fondersi inmaniera mirabile, trasportando in notequell’ideale miscela di passione e senti-mento che rende una vita ricca e degnadi essere vissuta. In trent’anni molti cihanno creduto, e ne hanno tratto ispira-zione per non arrivare alla fine del sen-tiero senza aver fatto sentire la propriavoce.Se hai tra i 18 ed i 28 anni, prova anchetu queste emozioni. Per approfondirescrivimi a [email protected].

Mario Allia

MI PIACE... TI PIACE?«Mi piace cantare e far cantare»

(e così fondai il Gruppo Vocale Chorus)

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I CONSIGLI DEL DOTTOR...Il massaggio neonatale

porta benefici in tutta la famiglia

producono a livello globale, piuttosto che a quelli che avvengono sotto casa. E sono fatti quanto mai attuali, poiché, sebbene ad oggi, il Tribunale Am-ministrativo Regionale non si sia ancora pronunciato sul nostro ricorso, laproprietà ha espresso l’intenzione di procedere comunque alla fase realiz-zativa a fronte di un interesse all’acquisto, del progetto finito, da parte diinvestitori arabi. Nel contempo, la nuova Amministrazione cittadina, trovandosi in una si-tuazione finanziaria assai critica, si sta dimostrando più propensa a reperirerisorse tramite la riscossione di oneri di urbanizzazione piuttosto che pre-stare attenzione alle reali esigenze di un territorio. Un approccio in clamorosa contraddizione e che va in senso esattamenteopposto rispetto alle ripetute dichiarazioni d’intenti fino ad oggi pubblica-mente espresse. Noi non possiamo accettare passivamente un intervento che viene attuato alsolo scopo di alleggerire una momentanea crisi finanziaria, sapendo chequesto causerà danni irreversibili all’assetto urbanistico, al patrimonio am-bientale ed alla qualità della vita del nostro quartiere.Fino ad oggi abbiamo cercato di fare informazione, sollecitando la parteci-pazione, creando occasioni di incontro con associazioni, istituzioni, opera-tori economici, gruppi di cittadini; esponendo le complesse motivazioniche stanno alla base del ricorso, sempre disponibili al confronto, sempreaperti alle osservazioni. Abbiamo organizzato eventi di autofinanziamento perché sostenere le pro-prie argomentazioni di fronte alla giustizia comporta costi e scadenze e lanostra è un’iniziativa esclusivamente civica che per sostenere la corposasomma, 16.000 € circa, necessaria a finanziare le spese legali e di sostegnoal ricorso, può far affidamento esclusivamente sui proventi derivanti dallelibere offerte dei sostenitori. Ma in questo anno il nostro Comitato non si è limitato a contrastare, ma havoluto e potuto, grazie ai suoi appartenenti e sostenitori, affiancare una for-te iniziativa propositiva. Attraverso un’attività di ricerca e negli incontriavuti sia con la nuova Amministrazione comunale che con la proprietà, hapresentato opportunità per un utilizzo alternativo dell’opera di Nervi perfar sì che, ritrovandone la vocazione espositiva, con puntuali interventisulla viabilità e sulla dislocazione dei parcheggi, si potesse arrivare con ilsuo recupero a una reale occasione di sviluppo economico e sociale per ilquartiere. Abbiamo anche promosso iniziative per sviluppare una maggiore consape-volezza del territorio, sia collaborando con le nostre competenze a progettisviluppati dalle scuole, sia proponendo alla nostra comunità iniziative dicultura ambientale, fra le quali ad esempio la proiezione di un documenta-rio sulla discesa in solitaria del Po girato interamente in soggettiva.Non è superfluo dire che ogni tipo di aiuto, presente e futuro, è per noi fon-damentale, dal contributo di idee per nuove iniziative alle offerte per il so-stegno al ricorso, dal tempo che i sostenitori dedicano ai nostri eventi, finoalle opportunità dateci di fare informazione, perché questa lotta per la dife-sa del nostro territorio può essere affrontata e vinta solo con un forte soste-gno da parte di tutti gli abitanti del quartiere, perché di tutti loro è il suo pa-trimonio di benessere e di vivibilità. E al loro impegno possiamo solo esse-re grati. Comitato ItaliaSessantunoMail: [email protected]: Comitato ItaliaSessantuno

IL PONTE è il giornale “quasibimestrale” della Parrocchia di Santa Monica, via Vado 9 – Torino

Sara Vecchioni - direttore responsabile

Enrico Periolo e Carla Ponzio coordinano i lavoriCollaborano alla redazione Grazia Alciati, don Massimiliano Canta, don Daniele D’Aria, Aldo Demartini, Roberto Di Lupo, Edoardo Fassio, Federica Fogliato,Maria Grazia Fontan, Cinzia Lorenzetto, Marco Montaldo, Roberta Oliboni, Maria Teresa Varaldae… tutti coloro che vorranno farsi avanti.Tiratura 2700 copie, distribuzione gratuita.Videoimpaginazione e Stampa: la fotocomposizione - Torino

Il giornale viene distribuito gratuitamente a tutti i parrocchiani. Sono gradite le offerte di sostegno.REGISTRAZIONE N. 5937 DEL 17-01-2006 AL TRIBUNALE DI TORINO

Se avete avuto occasione di leggere qualche volta il notizia-rio Accogliere dell’Associazione Zonale Accoglienza Stra-nieri e Casa Amica avrete notato che reca nella testata la fra-se voluta dal nostro fondatore don Beppe Cerino: E CAM-MINANDO S’APRE CAMMINO. Si tratta di parole sem-pre attuali, oggi più che mai, anche se questo cammino avolte si fa difficile e irto di ostacoli. Quando don Beppe ci la-sciò, nel 2008, l’Associazione e i suoi membri, oltre ad unmomento di grande tristezza, vissero un periodo denso di in-terrogativi sull’allora futuro prossimo da affrontare e su tuttele sue prevedibili difficoltà. Ma facemmo memoria della te-nacia, pazienza e perseveranza che proprio don Beppe avevautilizzato a piene mani sin dal 1985 quando ebbe l’intuizionedapprima di favorire l’accoglienza degli stranieri e in segui-to, nel 1989, di fornire ospitalità alle famiglie dei malati rico-verati negli ospedali torinesi.E ricordando appunto che nonostante il cammino fosse statoquasi sempre in salita mai nessuno – e don Beppe per primo– si arrese di fronte agli ostacoli, allora anche noi nei mesiche seguirono ci rimboccammo le maniche per proseguire lastrada intrapresa. Ma avevamo con noi suor Palmina e suorFrancesca che, insostanza, si sono ca-ricate sulle spalle ilpeso più importan-te dell’attività del-l’Associazione: lagestione di CasaAmica. Con la loropresenza costante,la loro disponibilitàe sensibilità eranoda esempio viventee quotidiano a cuitutti tentavano diispirarsi per favorirela continuità del lavoro nel solco così ben tracciato negli anniprecedenti.Ma ora? Ora che suor Francesca ha raggiunto suo fratello inParadiso? Ora che suor Palmina, orfana della consorella, haaccettato a malincuore ma giustamente di prendersi un meri-tato riposo nella casa di La Morra della Congregazione? Orasiamo nuovamente a chiederci: come proseguiamo, come ciriorganizziamo, ce la faremo? Domande legittime che ci in-terrogano e a cui abbiamo dato tutti insieme una prima rispo-sta: vogliamo andare avanti. Fissato l’obiettivo si tratta di definire il “come”, non avendopiù l’aiuto e la presenza fissa di Palmina e Francesca in viaSpotorno 45. Delle due anime dell’Associazione la situazio-ne più complessa e delicata rimane quella di Casa Amica. In-fatti il Centro Accoglienza Stranieri, che mediamente cifraoltre 4000 passaggi annui, ha un’organizzazione di volontariconsolidata che ne permette la prosecuzione naturale senzaulteriori sconvolgimenti. Al riguardo, proprio in questo pe-riodo post-pasquale abbiamo provato a variare giorni e oraridi apertura del medesimo: siamo infatti passati dall’aperturadi due ore al pomeriggio di tre giorni all’apertura di un gior-no solo la settimana, peraltro sia al mattino che al pomerig-gio. Così facendo, pur mantenendo le sei ore globali di acco-glienza, concentriamo le forze in un giorno solo liberando ri-sorse di volontari per Casa Amica senza assolutamente nullatogliere alla disponibilità verso gli stranieri.Stiamo peraltro tentando di recuperare il più possibile lo spi-rito di accoglienza e ascolto che ci ha guidato sin dalla nasci-ta del Centro. Tale spirito infatti per diversi motivi – la cuispiegazione necessiterebbe un discorso a parte – si è un po’trasformato adattandosi più a soddisfare le richieste di generialimentari, vestiario, farmaci e comunque generi di prima

necessità: senza dubbio gesti concreti e utili ma che vorrem-mo accompagnare di più con l’ascolto e la parola. La concen-trazione dell’accoglienza in un’unica giornata, con la possi-bilità di dedicare più tempo ad ogni singolo interlocutore, cisembra proprio rispondere a questa esigenza. Diversa è la si-tuazione di Casa Amica, che si reggeva sull’attività quotidia-na di Palmina e Francesca. Esse, infatti, pensavano a quasitutto: ricevevano le telefonate da ogni parte d’Italia e non so-lo, dalle Caritas diocesane, dalle parrocchie, da enti diversi,dai cappellani ospedalieri, dagli uffici “relazioni con il pub-blico” dei vari ospedali (telefonate che erano sempre segna-lazioni di situazioni di difficoltà, di necessità di sostegno, dibisogni di aiuto di famiglie che avevano congiunti ricovera-ti); verificavano la disponibilità degli alloggi e ne organizza-vano l’accoglienza; accompagnavano le famiglie al loro arri-vo; segnalavano le problematiche di ogni singolo apparta-mento; fornivano assistenza a 360 gradi durante la perma-nenza degli ospiti.Tutte queste attività andavano riorganizzate in loro assenza.Ci siamo adoperati in tal senso dando tutti noi qualcosa in piùdi prima in termini sia di tempo che di impegno. Per prima

cosa abbiamo previ-sto la presenza di unvolontario nell’uffi-cio di Casa Amicatutti i giorni feriali,sia al mattino che alpomeriggio, al finedi rispondere alle ri-chieste di acco-glienza e supportaregli ospiti già presen-ti. Nelle ore in cuinon poteva esserciun volontario venneprevista una segre-

teria telefonica che registrava le telefonate e assicurava unarisposta in tempi brevi.Ben presto però ci siamo accorti che il volontariato non pote-va essere sufficiente: c’era bisogno di prevedere una presen-za costante (fissa ed univoca) che avesse chiara la tipologia ela destinazione degli alloggi, che organizzasse la tempisticadegli arrivi degli ospiti, la durata dei soggiorni, l’organizza-zione di uscite e di nuovi ingressi per poter provvedere intempo e correttamente alle pulizie dei locali, che fosse al cor-rente di tutte le problematiche delle singole unità immobilia-ri (manutenzioni ordinarie, sostituzioni di elettrodomestici,piccole e grandi riparazioni ecc.), che fosse in grado di ope-rare in toto sulla realtà Casa Amica.Il Consiglio Direttivo ha pertanto deciso l’assunzione dalprimo aprile di una nuova risorsa che potesse mettere in gra-do Casa Amica di proseguire con efficacia la sua attività. Sitratta di una persona che più volte in passato ha collaboratocon l’Associazione come volontario e che pertanto già cono-sce lo spirito con cui la stessa opera e la realtà in cui si trovaad agire. I riscontri dei primi mesi sono assolutamente positi-vi: Casa Amica prosegue con impegno e determinazione l’o-pera di accoglienza come don Beppe e suor Francesca avreb-bero tanto desiderato e come suor Palmina da La Morra cistimola continuamente a fare. Sappiamo che non sarà facile eche non mancheranno giorni difficili, ma sappiamo ancheche non siamo e non saremo mai soli: dal cielo il buon Dio etutti i “santi” di Casa Amica, da quaggiù le vostre preghiere eil vostro sostegno ci spingono ad andare avanti per tradurrein pratica ogni giorno una delle frasi più belle di don Beppe: “Dio prima di tutto, gli Altri prima di noi”!Un saluto cordiale ed un abbraccio fraterno.

Gian Mario Marengo

Fin dai primi istanti di vita un bambinoha estremo bisogno di contatto e dicontenimento. Il tatto infatti è uno deiprimi sensi che si sviluppano in uterofin dalla decima settimana di gestazio-ne, in concomitanza con la formazionedelle prime strutture dell’apparato ner-voso, ancora prima del sistema vesti-bolare, uditivo e visivo.Durante tutta la gravidanza il feto è cir-condato da liquido amniotico e dallepareti uterine, situazione che stimolain continuazione il senso del tatto e fa-vorisce il suo sviluppo fisico ed emoti-vo. Ecco dunque l’importanza la conti-nuità nel massaggio neonatale. In ogni parte del mondo, una mammad’istinto coccola il proprio bimbo findalla nascita, il tatto infatti è il maggiorcanale di comunicazione nei primi me-si di vita, il massaggio facilita la for-mazione del legame tra il bambino e ilgenitore, accelera lo sviluppo senso-riale e favorisce la maturazione cogni-tiva, il sonno e il rilassamento del bam-bino. I diversi studi sono concordi nelclassificare in quattro gruppi i beneficiche il massaggio ha sul bambino.Stimolazione. Il massaggio stimola ilsistema circolatorio, gli apparati dige-rente, urinario, respiratorio e muscola-re; favorisce la produzione ormonale,in particolare dell’ossitocina che per

eccellenza è l’ormone dell’amore edella confidenza e crea benessere nelbambino. Inoltre stimola lo svilupponeurologico, la consapevolezza delproprio corpo, lo sviluppo muscolare ela crescita, e facilita la coordinazione el’equilibrio.Interazione. Il massaggio fa sentire ilbambino sostenuto, amato e ascoltatoperché favorisce il processo di attacca-mento. Promuove quindi un legame si-curo attraverso l’alternanza della co-municazione verbale e non verbale, fa-vorendo la fiducia, la confidenza e lasicurezza.Rilassamento. Durante il massaggiovi è un aumento non trascurabile di en-dorfine, ossitocina e prolattina con una

conseguente riduzione dei livelli diACTH, cortisolo e norepinefrina, ossiagli ormoni dello stress. Quindi, oltre al-l’effetto di rilassamento muscolare do-vuto all’azione ritmica e ripetitiva dellemani, vi è un miglioramento del ritmosonno-veglia e un buon effetto di ridu-zione delle tensioni accumulate per leeventuali eccessive stimolazioni.Sollievo. Il massaggio, grazie alleazioni ormonali e “meccaniche”, puòdare sollievo a diversi piccoli fastidi fi-siologici che un genitore può riscon-trare nel proprio bambino, quali doloridella crescita e tensioni muscolari; o aifastidi dovuti alla immaturità intesti-nale come ad esempio stipsi, meteori-smo, spasmi.

Ma se i benefici sulneonato sono de-cantati da tantissi-mi studi e fonti, for-se meno conosciutisono i benefici chelo stesso ha per lacoppia parentale.Soprattutto a livel-lo ormonale ci sonograndi cambiamen-ti anche in chi mas-saggia, non solo inchi riceve il mas-saggio.

Infatti il tocco è rilassante anche per chilo offre, obbliga l’adulto a rallentare ilritmo e a mettersi in ascolto. Il genitoreè pienamente immerso nella relazionedi comunicazione con il proprio bam-bino, impara a capire i suoi bisogni piùprofondi, cosa piace o non piace a quel-l’esserino che, appena nato, ha già gu-sti e preferenze; e in questo modo sisentirà più competente nella relazionedi cura del proprio bambino. In particolare nella madre il legameche si sviluppa durante quei momentifatti di tocco, di sguardi, sussurri, e in-timità, aumenta la produzione di ossi-tocina e prolattina, evento che stimolaanche la produzione del latte e previe-ne la depressione post-partum, favo-rendo, come in un vortice, ancora dipiù il legame tra mamma e neonato e illoro benessere.Ma anche i papà si sentono molto piùcoinvolti nella cura del figlio, i loro li-velli di stress rispetto al ruolo genito-riale diminuiscono e le loro competen-ze aumentano notevolmente. Le ricer-che di Tiffany Field e altri studiosi,hanno infatti dimostrato che i papà chemassaggiano i propri bambini sono piùespressivi, dolci, accoglienti e sicuri disé nella relazione col bambino rispettoa coloro che non massaggiano i figli enon vengono coinvolti nella loro cura,

e non temono di non essere in grado dirimanere da soli con i figli anche soloper brevi momenti fin dai loro primimesi di vita. Di conseguenza anche lemamme saranno ancora più serenenell’allontanarsi dal proprio bambino,seppur per brevi momenti, nel casofosse necessario.Si può quindi affermare che il massag-gio neonatale apporti benefici in tuttala famiglia; infatti il bambino e i suoigenitori, tramite il tocco, imparano unmodo tutto speciale di conoscersi, dicoccolarsi e ridurre lo stress. E di que-sta situazione ne traggono ovviamentebeneficio anche i fratellini maggiori,che potranno acquisire a loro volta unavia preferenziale per trasmettere e ri-cevere affetto e intimità con il nuovoarrivato in famiglia.

Dott.ssa Ostetrica Roberta Giovanelli

socia fondatrice del progetto Desidero...Aspetto...Sono...

e del Centro per la Maternità MA.MA

FOnTI. Stress and Fathers’ Parental Com-petence: Implications for Family Life andParent Educators, Brent A. McBride (otto-bre 1989) / Touch,Tiffany Field / Massaggioal bambino, messaggio d’amore, VimalaMcClaure / Massaggio infantile, Sabina Og-gioni / L’ostetrica ed il massaggio infantile,G. Di Bartolomeo, C. Cacchionni, A.M. DiPaolo (gennaio 2009).

«In questa sede prestigiosa vogliamo fe-steggiare la nascita e la significativastoria di un pezzo di cultura di Torino,un gruppo di persone che stanno beneinsieme cantando, per il piacere proprioe per il piacere del loro pubblico: è ilGruppo Vocale Chorus di Torino». Conqueste parole il presentatore ci introdus-se sul palco del Conservatorio G. Verdidi Torino: è il 20 maggio del 2015, stia-mo festeggiando trent’anni di vita delgruppo!In questo caso ci sono tre decenni d’a-more: per il canto, per il ritmo e per latradizione mescolata all’innovazione.L’amore che guida il percorso di ogniessere umano fin dal primo battito. Seandiamo alla radice della vita, proprioquel battere costante nel petto rappre-senta l’iniziale elemento di comunica-zione: il ritmo. Radicato nella nostra origine arcaica, ri-cordo atavico del rumore delle dita pri-migenie, prima sui tronchi, poi sul terre-no e sui sassi, ispirate da quel suono co-stante che batte nel petto: il ritmo dellavita.Altro elemento istintivo del nostro co-municare è il canto: forma nativa e pri-mordiale, ancora prima della parola. Daquando il neonato riesce a riempire ipolmoni di quel primo anelito d’aria,emette un suono: il canto della vita. Im-maginate la fusione dei due e avrete lamusica, pensate all’evoluzione senzastrumenti e incontrerete il canto ritmicoa cappella.Nel corso della storia il canto ha semprerappresentato la principale forma diespressione, prima religiosa e poi popo-lare, conservando traccia dentro di sédella tradizione e del succedersi dellegenerazioni. Dal Jazz e dal Blues nac-quero le prime formazioni vocali, ini-

zialmente accompagnate dagli strumen-ti, poi in totale solitudine armonica e in-fine ritornando al ritmo per vie modernecon il Beatboxing (percussioni ottenutecol solo uso della voce).Senza dimenticare il Quartetto Cetra, inItalia il genere era pressoché sconosciu-to. La tradizione melodica del bel cantodava poca visibilità a forme diverse diespressione musicale e a interpretazionioriginali. Si ricordano ben pochi esempidi formazioni a cappella, riuscite ad arri-vare al grande pubblico. Negli ultimi de-cenni solo i Neri per Caso hanno avutouna gloria temporanea; sono transitati iCluster o le Voci Atroci e decine di altreformazioni dotate di tecnica e talentoche sono rimaste nel sottobosco musica-le, schiacciate da molta banalità. In real-tà un nutrito movimento underground hagoduto e gode ottima salute; appassio-nati di tutte le età affollano i concerti deimostri sacri del genere come gli Swin-gle Singers, oppure i King’s Singers.Torino, in contrasto con la sua immagi-ne di città grigia e industriale, ha sempreavuto un cuore pulsante e canoro. Qui,nel 1947, nasce una delle compagini co-rali più vecchie dello stivale: il coro CAIUGET che ha sempre cantato la tradi-zione del canto popolare e che ormaivolge verso il settantesimo compleanno.Durante i favolosi anni ’60 di abusato

blasone, alcune voci militanti nel sodali-zio sabaudo si appassionarono al cantoJazz creando, sotto la guida del giovanepianista Maurizio Lama, un complesso acappella che contaminerà in futuro an-che il repertorio del coro di origine. Ildestino però decise che la brillante car-riera del giovane maestro terminasse trale lamiere contorte di un’automobile.Pur nella sua tragicità, il germe gettatoda Maurizio era nel frattempo riuscito acontagiare anche me, giovane diciasset-tenne, fulcro futuro di quell’idea em-brionale.Bisogna aspettare però il 1985, perchéio, ormai 42enne, decida che quel ger-moglio fosse maturo per sbocciare. In-

sieme agli appassionati di sempre fon-dai il gruppo vocale CHORUS innestan-do una voce femminile, come nello stiledei complessi americani di genere. Finda bambino cantavo: con l’intento diconquistare la piccola Marcella o sem-plicemente di creare e vivere un mondofatto di armonie e storie cantate. In con-trasto con la mia professione inquadratain rigidi schemi, la propensione all’ar-monia e alla libertà musicale mi portò asperimentare strade di forte contamina-zione trasversale. La contemporanea direzione del coroCai Uget, presa alla morte del mai di-menticato Gilberto Zamara, mi consen-tirà di trasportare l’esperienza Jazz nel

popolare conelaborazioniche ancoraoggi, insiemea quelle diGino Mazza-ri, ritengosiano puntodi originalitàe creativitàdel repertoriopopolare ita-liano. L’ini-zio della for-mazione partìda alcune ar-

monizzazioni che attinsi dal repertoriodei colossi americani del Jazz. Try to Re-member, cantato dai Singers Unlimitede originariamente armonizzato a 27 vocicon la tecnica dell’overdubbing, lo ri-dussi a 5 linee di partitura.Fu una prova difficile per coristi abituatia ristretti range vocali e a fondere la pro-pria voce con quella dei vicini di settore,perché il brano, nonostante la semplifi-cazione, aveva conservato inalterato ilgrado di difficoltà tecnica: qui ogni voceera solista, molteplici invece erano icambi tonali e le necessarie modulazio-ni della voce. Dove non arrivava la tec-nica, sopperivano l’entusiasmo e la vo-glia di cantare esplorando territori nuo-vi. La curiosità e la carica emotiva por-tarono a superare i difetti della primaregistrazione traducendoli in stupore:“Perché non abbiamo iniziato prima?”,affermò il grande Gigi Bartolotta.Quello fu il vero spunto che ha portatoChorus ad arrivare al compimento deltrentesimo anno di attività. Più di cin-quanta le voci che si sono avvicendate inun girotondo di registri tonali, passandoda quel nucleo iniziale a una formazioneche attualmente conta quattro elementimaschili e tre femminili. Non raramentele voci arrivavano dal coro Cai Uget inuna sorta di dualismo canoro a dimo-strazione del sempre vivo entusiasmo

che il progetto sapeva generare nei coin-volti. Verso la fine degli anni ’90, la for-mazione patì un momento di grossa crisicoincidente con le mie difficoltà fami-liari. Con una sofferta decisione, nel2002 diedi le dimissioni da direttore delcoro Cai Uget (consapevole che la miagestione ne stava rallentando la crescitamusicale e generazionale) per seguire imiei affetti e mantenere l’energia utile apoter proseguire almeno nel percorsoartistico di Chorus.Numerosi i palchi e i concorsi affrontatie conquistati dal gruppo, confrontandosicon jazzisti di professione, non di rado arappresentare il canto a cappella, comenel recente Torino Jazz Festival. Memo-rabile l’esibizione del 2008, nel Solevo-ci Contest, riconosciuta e premiata dagiudici del calibro di Kirby Shaw, Joan-na Goldsmith e Tobias Hug degli Swin-gles Singers. Dopo trent’anni di attivitàsi può fare un bilancio ben consolidatodi quanto è stato costruito nel tempo:una cinquantina di persone che in qual-che modo si sono avvicendate; oltrecento che hanno chiesto di entrare nelgruppo senza riuscirci, a testimonianzadel valore tecnico-artistico necessarioper farne parte; un repertorio di 85 branidi cui 75 incisi in 6 cd, dove trovanospazio molte mie armonizzazioni origi-nali, ma anche adattamenti dal reperto-

rio degli Swingles Singers, Neri per Ca-so, Singers Unlimited, ManhattanTransfer, King’s Singers, The Ritz e Ta-ke 6; due libri di spartiti.In questi anni rimane un rammarico: unprogetto così lungimirante e anticipato-re da non trovare fondi né riconosci-mento. SCAT (Scuola di Alto Perfezio-namento Ritmico) è un’idea ambiziosadi dare al canto ritmico una valenza eun’importanza non seconda a quelladella ricerca musicale in altri settori egeneri. L’Italia spesso è vittima del suopassato e della sua storia, generandoamministratori granitici e inamovibilicome le colonne ioniche e corinzie diEllenica memoria. Rimane quindi un so-gno ancora non realizzato, una sorta didesiderio che, mi auguro, possa vederela luce nei prossimi anni. Per ora speroalmeno di riuscire a raccogliere adesionitra i giovani che hanno voglia di provarequesta esperienza. La storia di Chorus, soprattutto quellanon scritta, insegna che la tradizione èun concetto molto ampio, non stretta-mente legato ad un passato, ma ad unarealtà che può nascere parallelamente adun progetto. Il sogno mio e di Gino,Franco, Gigi e Rita, i 5 fondatori, eraquello di vivere su un pentagramma do-ve armonia e ritmo potessero fondersi inmaniera mirabile, trasportando in notequell’ideale miscela di passione e senti-mento che rende una vita ricca e degnadi essere vissuta. In trent’anni molti cihanno creduto, e ne hanno tratto ispira-zione per non arrivare alla fine del sen-tiero senza aver fatto sentire la propriavoce.Se hai tra i 18 ed i 28 anni, prova anchetu queste emozioni. Per approfondirescrivimi a [email protected].

Mario Allia

Per tutta l’estate ho avuto in testa que-sto pensiero: “A settembre inizierò lascuola media”. Già, ma come la ini-zierò? Le mie emozioni erano un mi-sto tra tristezza, paura e felicità. Tri-stezza per aver lasciato i miei due bra-vissimi maestri Filomena e Salvatoree i compagni con cui avevo trascorso5 anni sereni. Paura perché l’idea didover conoscere persone e ambientinuovi mi metteva ansia. Però anchefelicità, perché avevo voglia di cono-scere nuovi compagni.Pian piano il tempo passava e quelgiorno si faceva sempre più vivo. Il 9settembre mi svegliai tutto agitato conla gambetta che ballava da sola l’ulti-ma canzone di Bruno Mars. Arrivatialla “Matteotti” vidi un nuvolo di bam-

bini e genitori ammucchiati nel cortilein attesa della fatidica chiamata. Il me-gafono incessante sfornava via via co-gnomi associati alle classi fino a quan-do sentii in maniera netta: ZIOSI. “So-no io!”, dissi tra me e me e mi avviaiverso l’atrio della scuola tutto tituban-te. Per fortuna capitai insieme a duemiei compagni delle elementari.I primi giorni trascorsero lenti lenti,ma poi, anche grazie alle nuove amici-zie, presero il loro ritmo. Non mi sem-bra vero di essere già a fine aprile!Guardandomi indietro, posso dire chenei primi due mesi ho avuto difficoltàa studiare e a fare i compiti: spesso al-le dieci di sera ero lì a fare matematicao antologia. Poi ho imparato che nelfine settimana è bene portarsi avanti ecosì ho avuto meno problemi. Ora ho fatto molte amicizie e il senti-mento di “paura e preoccupazione”che avevo all’inizio è sparito. Pensodi essere stato nuovamente molto for-tunato: sono in una classe con braviinsegnanti e deli“ziosi” compagni.

Francesco Ziosi

Anno XV - Numero 2 - Giugno 20174

Il “nostro” Ratatouille(per noi maschile e non femminile)

LA RICETTA DI...

Abbiamo accoltoStefano MAGGIFiona SHI FANGFEICristiano WANG YIKAIAdrien SANDJOGérmaine SANDJORicardo RAMIREZ LOPEZThomas LUJAN MUSAYON

Abbiamo salutatoMargherita BERRUTI

ved. MARTINELLIMario BELTRAMIGiovanni CERGNAGiulio FINESSIPina FONDACARO

ved. CRUDOAngelo PREDEBON

DALL’ARCHIVIO

Sarà capitato anche a voi, forse, divenire scelti da un libro. Sì, avete ca-pito bene. Un lunedì pomeriggio dicirca tre mesi fa sono entrata nella li-breria delle Paoline, uno dei mieiluoghi di tentazione e perdizione incui smarrisco la cognizione del tem-po e dello spazio, e, come sempreaccade, ho iniziato a sfogliare, leg-gere, “annusare” i diversi volumiesposti (le suore ormai mi conosco-no da anni e pazientemente mi per-mettono di perlustrare indisturbatatra gli scaffali).Improvvisamente un libretto michiama e mi costringe a fermarmi:una corrente di calore tra di noi e…esco dal negozio con La porta gialladi Erica Bassi. Sottotitolo: un libroche dà speranza. Io, che prima di ac-quistare leggo la quarta di copertina,l’indice, le note sull’autore, persinola dedica (quando c’è)… mi ritrovotra le mani un libro di cui ignoro tut-to: eppure, in cuor mio, sono eccita-ta e so che è stato un ottimo affare.Inizio a leggerlo in metropolitana enon riesco più a farne a meno. Lo di-voro, finendolo dopo alcune ore. Poilo riprendo e lo rileggo, lo scanda-glio, cerco di farlo mio. AnnoveroLa porta gialla tra le opere che mihanno cambiato un po’ la vita perchémi ha fatto del bene. Ecco perché vene scrivo. La porta gialla è un libro sorpren-dente. È il diario di Erica, giovanemamma di tre piccoli figli che ungiorno di giugno, un mese prima dicompiere 40 anni, scopre di avere untumore, anzi due, maligni. Seguiran-no ben 18 cicli di chemio e un’ope-razione che, con le loro ferite, cam-

bieranno il corpo di questa giovane ebellissima donna, mentre l’esperien-za vissuta con suo marito Davide e isuoi tre bambini, insieme a tantissi-me persone che le vogliono bene,aprirà una nuova finestra, permette-rà di intravvedere nuovi promontorida cui osservare la vita, considerarela malattia, soprattutto intessere unsempre più intenso, intimo, profon-do rapporto con Dio. Non vi imbatterete in un libro triste elacrimevole, bensì in un testo inten-so, ma caratterizzato da una rara lie-

vità, che dona speranza e contagiaper il vigore della fede, il coraggio ela tenacia nella lotta alla malattia, laforza della famiglia (insieme a Eri-ca, Davide è voce narrante, lucido espogliato commentatore della realtàquotidiana da affrontare), ma so-prattutto colpisce questo accocco-

larsi di Erica tra le mani di Dio per-ché “Lui sa quel che fa”... Sì, direiche questo libro rende gloria a Dio,non perché Erica è guarita... ma per-ché è la testimonianza viva della Suafedele presenza, della Sua infinitatenerezza, del Suo instancabile sus-surro: “Io non ti mollo”. La cronaca degli aspetti tecnici si al-terna al racconto dei grandi doni ri-cevuti ogni istante: il forte tessutorelazionale che ha sostenuto questafamigliola nei due anni di cure, glisquarci di vita familiare che si apro-no su situazioni buffe che si alterna-no ai seri problemi di “normale” vitaquotidiana. Tutto questo cercando divivere l’oggi. È un libro scritto “per obbedienza”a una persona – dice Erica in un’in-tervista a Radio Vaticana – e per so-pravvivenza: nel momento dellamalattia è stato fondamentale scri-vere, raccontare, parlarne per poter-si appropriare di questa cosa piùgrande di lei, per poterla elaborare eperché era tempo prezioso di cuinon si poteva perdere la memoria;oggi è necessario per potersene spo-gliare…Grazie Erica per averci donato il tuodiario, per aver condiviso con noiquesto tuo e vostro pezzo di strada“sulle tracce di Dio che mi è Padre”,come scrivi tu: Dio solo sa quantoabbiamo bisogno di testimoni con-vinti, appassionati, umili ed essen-ziali. Ne faremo tesoro.

Anna Boano

Erica Bassi, La porta gialla.Un libroche dà speranza. San Paolo edizio-ni, euro 12.50

E così abbiamo colto l’occasione del pellegrinaggio parrocchiale del 6maggio scorso per farci raccontare da suor Palmina, che da qualche mesevive nella casa di riposo per le suore Luigine di La Morra e che ha vissutocon noi quella giornata, le emozioni e le sensazioni vissute da quando, do-po la scomparsa di suor Francesca, ha lasciato la sua casa di via Spotorno.La chiacchierata è stata tanto spontanea quanto sincera. Suor Palmina nonè stata di molte parole e le sue risposte sono state parecchio stringate, masono state piene di ricordi e di affetto verso la nostra Comunità di SantaMonica e di tanto altro.

È capitato tutto così in fretta: la scomparsa di suor Francesca e il tuo“ritiro”. Come stai in questo momento?

«Sto bene con altre nove sorelle che mi vogliono bene. È un bel posto e mitrovo bene».

Andiamo un po’ indietro di qualche mese e ti chiediamo quando haimaturato la sofferta decisione di lasciare via Spotorno per venire aLa Morra.

«Non volevo stare da sola e la Madre non aveva altre suore da poter man-dare con me».

Chi ti ha aiutata di più a dare untaglio netto (anche abbastanzavelocemente e per molti non anco-ra compreso a fondo) a 40 anni diuna vita ricca di esperienze “spe-ciali” e incredibili?

«È stata una scelta molto dolorosa,ma non potevo stare da sola».

Da sempre, ma specialmente inquesti ultimi anni, quando si dice-va Casa Amica si legavano questedue parole a suor Francesca esuor Palmina. Cosa ha significatoper te questa esperienza che hadel “miracoloso”?

«Esperienza molto bella, ma anchedolorosa, perché si ospitano parentidi malati: all’inizio di bambini, in se-guito soprattutto adulti in attesa ditrapianto di organi».

E cosa hai portato con te di questamissione che ha riempito la tuavita?

«Quello che ho cercato di fare in tantianni con i bambini e con gli adulti».

Suor Francesca e suor Palmina, un binomio che ha scritto pagine distoria sul fare del bene. Cosa è stata per te suor Francesca?

«Più che una sorella».E di don Beppe Cerino, che ha voluto fortemente Casa Amica e l’A-ZAS, quali sono state, tra le innumerevoli che ha fatto, le tre cose delsuo operato che vorresti raccontare ai lettori de Il Ponte?

«Ha fondato prima l’AZAS con il centro accoglienza, poi Casa Amica edha manifestato tanta fraternità con Francesca e con me».

Domanda scontata che però fa parte di ogni buona chiacchierata.C’è stata una cosa che avresti voluto o potuto fare meglio?

«Avrei voluto servire di più e meglio».Cosa è stata per te Santa Monica?

«È stata una carissima parrocchia dove ho avuto tanti amici e dove ho cer-cato di fare del mio meglio».

Transitando in via Vado tantissimi provano un groppo in gola nel ve-dere le persiane chiuse e le luci spente delle vostre finestre. Cosa tisenti di dire a queste persone?

«Mi sento di dire che non mi sentivo di stare da sola e sono venuta nella ca-sa di fondazione con altre nove care sorelle».

Hai sempre donato entusiasmo e disponibilità per tutte le Festa diSanta Monica fin dalla sua prima edizione (e non solo per i pellegri-naggi come questo di oggi, del quale possiamo ben dire tu sei l’ospiteprincipale). Facendo scorrere nella tua mente e nel tuo cuore le im-magini di tutte le feste di maggio cosa prova suor Palmina?

«Prova tanta gioia e tanta nostalgia».Come sono stati il tuo primo natale e la tua prima Pasqua senza suorFrancesca e senza Santa Monica?

«Sono stati molto tristi anche se le suore che sono con me mi vogliono mol-to bene».

Cosa vorresti chiedere alle tante persone che leggeranno questachiacchierata? E cosa vorresti consigliare loro?

«Chiedo di pregare per me e consiglio di rendersi sempre più conto che lavita trascorre velocemente».Grazie suor Palmina di questa veloce ma sincera chiacchierata. Sappiamoe abbiamo visto quanta emozione provi nell’incontrare i tanti tuoi amicinon solo di Santa Monica. Ti auguriamo tanta serenità, ti penseremo, pre-gheremo per te… come tu farai per tutti noi!

In questa rubrica ospitiamo i racconti dei vostri viaggi (con foto) che vanno invia-

ti all’indirizzo e-mail [email protected] o in ufficio parrocchiale

Certe volte penso che la distanza fisica non è quella che ci divide davvero.Credo che certi rapporti possano resistere forti e duraturi anche a 16.000 kmdi distanza. O per lo meno a me è successo esattamente così: non ho dovutorinunciare alle persone a me più care per vivere la mia avventura. Semmaiho rafforzato i legami, e ne ho creati di nuovi, altrettanto indelebili. Anche seprobabilmente in un posto come il Continente Oceanico tutto risulta indele-bile. Tutto è immenso, colorato, vivido.Ho scritto i miei primi pensieri all’inizio di questa esperienza. Ora, dopo ilmio ritorno, ho pensato fosse giusto “chiudere il cerchio”. Ho raccontatodelle difficoltà che ho incontrato all'inizio: quelle che avevo messo in conto,

come la lingua, e quelle ina-spettate, come la solitudi-ne. Ora a fine di questo viaggiomeraviglioso durato nove me-si, posso dire che è stata l’espe-rienza più bella, difficile, emo-zionante e indescrivibile dellamia vita. Ho affrontato vitaquotidiana, lavoro e viaggi tut-to da sola, e ne vado orgoglio-sa. Ho sfidato il deserto, l’o-ceano e la natura, un po’ conincoscienza un po’ con corag-gio, per non perdermi nulla. Araccontarla così può sembrareun libro. Ma per me un po’ lo è.Fare immersioni tra gli squaliin caverne, relitti e barriere co-ralline tra le più grandi al mon-do; fare bungi jumping da unponte nel mezzo delle monta-gne neozelandesi; fare surf inspiagge infinite dalla sabbia

nera; trovarsi su una barchetta in mezzo all’oceano durante una tempesta;fare il bagno in torrenti in mezzo alla foresta.Non so se chi sia stato in Australia e in Nuova Zelanda abbia vissuto questidue Paesi come li ho vissuto io, ma non sto romanzando la mia storia, ho fat-to questo e molto altro. Ho avuto la possibilità di viaggiare molto, conclu-dendo la mia esperienza realizzando il mio sogno: un road trip in Nuova Ze-landa. Viaggiare in un minivan per più di un mese è faticoso, farlo in NuovaZelanda dove le strade sono strette e impervie, arriva ad essere quasi misti-co. Percorrendo quasi 10.000 km nelle due isole si ha la possibilità di passa-re attraverso montagne, laghi mozzafiato, immense distese di colline verdi,le spiagge più bianche e più nere al mondo, un inaspettato deserto e un’intri-cata foresta. E ovviamente: pecore, pecore e pecore, milioni di pecore.Ad ogni modo, l’Australia e la Nuova Zelanda mi hanno regalato un’intimi-tà con la natura che mai avrei pensato di avere. Inoltre vivere e conoscerepersone da ogni parte del mondo ha contribuito a rendere il tutto speciale.Quando incontri persone in queste particolari situazioni si formano relazioniprofonde con una facilità sconcertante. Ho incontrato persone stupende, incui ho riposto subito la mia fiducia. Perché certe avventure non le avrei vis-sute se non mi fossi fidata immediatamente, e senza pensarci troppo, di per-fetti sconosciuti. Quelli che ora sono amici cari, li ho incontrati per caso: sul-la spiaggia, in un torrente o hanno affittato il letto di fianco a me. La cosaemozionante è che non sai mai cosa ti potrebbe capitare, ma ti devi lasciareandare, rilassare, essere curioso e positivo, perché l’avventura ti sta aspet-tando. Penso che dall’altra parte del mondo la porta agli sconosciuti vadasempre aperta. 

Isabella Mombrini

Abbiamo tre premesse da fare. La pri-ma. Per noi “Ratatouille” è maschile:a casa nostra non si cucina la Rata-touille, ma il Ratatouille. E lo sappia-mo che è sbagliato, ma ci ostiniamo achiamarlo così. La seconda. Questa ri-cetta è scritta a 4 mani perché noi, ilRatatouille, lo facciamo identico, tan-to che in famiglia, quando lo mangia-mo, c’è sempre chi chiede “ma l’ha cu-cinato Luciana o Paola?”. E lo faccia-mo identico nonostante (e questa è laterza premessa) non esistano per noidosi esatte da rispettare, né tempi dicottura canonici. Quindi ci perdonere-te se nel darvi questa ricetta non sare-mo molto precise. Più che con la testa,noi il Ratatouille lo cuciniamo con gliocchi – servono per regolarsi sulle do-si – e con l’olfatto – per sapere se unaverdura è al giusto punto di cottura.Soprattutto, lo cuciniamo con il cuore:è un piatto che richiede tempo e pa-zienza, da preparare quando ci sono i

pranzi di famiglia, o quando viene acena qualcuno a cui si vuole bene. Po-co c’entra il rigore che bisognerebbeusare in cucina, ma alla fine il sapore è– inspiegabilmente – sempre lo stesso:è sapore di casa, di serate in famiglia edi risate.Quindi, se avete voglia di cucinareseguendo una ricetta poco “ortodos-sa”, ecco qui come potete preparareil nostro Ratatouille.

Ingredienti. Olio ev, cipolla, pomo-dori a pezzettoni, carote, sedano, pe-peroni, zucchini, patate, melanzane,sale.Preparazione. In una padella larga(meglio se antiaderente) fate soffrig-gere la cipolla con l’olio. Aggiungeteuna lattina di pomodori a pezzettoni(che potete sostituire con la passata dipomodori, diciamo un terzo di unabottiglia di passata), le carote prece-dentemente pulite e tagliate a rondellee il sedano, anche lui tagliato a pezzi(quante carote e quanto sedano? Vistoil lavoro di pulizia e taglio verdure,noi abbondiamo con le dosi. Così neavanza anche per il giorno dopo, e ilRatatouille riscaldato, ve lo garantia-mo, è ancora più buono!). Coprite conun coperchio, fate rosolare a fuoco vi-vo qualche minuto, poi abbassate ilfuoco al minimo e lasciate continuarela cottura. Nel frattempo pulite le pa-tate, i peperoni e gli zucchini e taglia-

teli a pezzetti. Quando sarà tutto puli-to e tagliato sarà (più o meno) il mo-mento giusto di metterlo in pentola;quindi aggiungete al resto, salate e ri-chiudete il coperchio. A questo punto,per un po’ potete dimenticarvi che sta-te cucinando: avete il tempo di attac-care la lavatrice e fare una telefonata.Poi spelate la melanzana e tagliatela apezzi, aggiungetela al resto e fate cu-cinare ancora un po’ (poco, che la me-lanzana altrimenti si “disfa” tutta).Quando sentirete la casa invasa dalprofumo, e vostro marito urlerà “Ti ri-cordi che hai il fuoco acceso sotto lapentola?”, ecco: quello sarà il mo-mento giusto di spegnere il fuoco. Ilvostro Ratatouille è pronto, buon ap-petito!P.S. - Devo essere onesta: io (Paola)qualche volta il sedano me lo dimen-tico. Eppure il sapore del piatto, allafine, non cambia!

Luciana e Paola Demartini