scrittori giunti · 5 i «la brezza leggera accarezza l’acqua del grande fiume dopo il riposo...

37
Scrittori Giunti

Upload: hoangngoc

Post on 17-Feb-2019

214 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

S c r i t t o r i G i u n t i

Guido Conti

Quando il cielo era il mare e le nuvole balene

Quando il cielo era il mare e le nuvole balenedi Guido Conti«Scrittori Giunti»

www.giunti.it

© 2018 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: agosto 2018

5

I

«La brezza leggera accarezza l’acqua del grande fiume dopo il riposo dell’inverno e lo spirito di Dio corre sulla pianura per risvegliare l’erba dei prati, i fiori nei fossi e la linfa nelle radici degli alberi. Così rinasce la vita» diceva nonno Ercole. Stavamo uno di fianco all’altro, seduti appoggiati al tronco di un pioppo per goderci il calore del primo sole.

«M’insegni a fumare?» chiesi all’improvviso. Dovevo avere una decina d’anni. Lui si mise a ridere: «Io alla tua età fumavo già i tralci di vite, ma non devi dirlo a nessuno, men che meno alla nonna, altrimenti quella ci sgrida tutti e due».

L’ allodola in cielo faceva più grande il silenzio dell’estate.«Vedi dove cresce l’erba?» Con la mano aperta accarezzò

la terra dura e poi la picchiò con un pugno. «Questo una volta era il fondo del mare e le balene volavano in cielo dove oggi corrono le nuvole!» diceva guardando verso l’alto, mentre le nuvole leggere stavano immobili nell’azzurro.

«Non ti credo!» Lui mi guardò serio. «Perché non mi credi?»«Perché mi stai raccontando una favola!»«Ti sto dicendo una cosa molto seria! La pianura, quando

Dio l’ha creata, era coperta di acqua. Il grande fiume Po è

6

l’ultimo pensiero rimasto di quel mare che una volta cor­reva sopra le nostre teste, e sopra le nostre teste, nelle cor­renti, nuotavano le balene.»

«Non ti credo, mi stai raccontando delle favole, e io non sono un ragazzo che vuole ascoltare le favole!» risposi alzandomi in piedi.

Non ricordo perché mi arrabbiai tanto. Forse volevo che nonno mi parlasse da uomo. Volevo essere grande come lui e quelle storie non mi divertivano affatto. Nonno Ercole non mi rispose, si grattò in testa perplesso, e si appoggiò di nuovo al tronco. Quando si voltò mi guardò divertito stirandosi i baffi. E si rimise il cappello.

Aspettò qualche giorno, poi, una domenica pomeriggio mi chiamò.

«Vieni con me!»«E dove andiamo?»«Vieni con me!» Aveva preso il vecchio calessino per addestrare e abi­

tuare una giovane cavalla al traino. Non mi parlò per tutto il tempo che servì nell’attraversare la pianura, passando da strade e carraie lunghe e polverose. Ogni tanto schioccava la lingua, dava ordini alla cavalla che correva, rallentava e poi trottava, sempre seguendo docile e ubbidiente i suoi ordini. Alla fine attraversammo un grande pioppeto, fiancheg­giammo campi sterminati dove l’erba cresceva rigogliosa. Mi sembrò un viaggio lunghissimo. C’era un grande campo verde, soleggiato e splendente, nei pressi di un torrentello dove il nonno portò la cavalla a bere.

«Ecco, siamo arrivati! Vieni con me!»Ero curioso e divertito. Camminammo per un po’ lungo

la riva del torrente. L’ acqua era gelida. Nonno fece qual­

7

che passo nell’acqua, vicino a un muro di roccia bianca che si sgretolava tra le mani. Camminò con gli stivali lungo il greto, spostò un po’ di pietre, grattò con le mani e con i palmi aperti mi mostrò alcuni sassi meravigliosi. «Ecco, queste sono conchiglie!» mi disse. Era la prima volta che tenevo delle conchiglie in mano. Erano bianche come gesso. «Queste c’erano prima che gli uomini camminassero sulla terra.»

Erano bellissime. Le ammiravo estasiato.«Questo torrente si chiama Stirone! Si butta nel Taro. Qui

riposa Leviatano che Dio ha creato il quarto giorno della creazione. Tieni!» mi disse, «portiamole a casa. Il nonno non ti racconta bugie, e se una volta le balene nuotavano dove oggi volano le nuvole, mi devi credere!»

Ecco chi era nonno Ercole, un uomo con la testa piena di parole e di storie che nascevano prima ancora della Bibbia. «In ogni terra c’è l’impronta di Dio, quando l’ha creata il primo giorno; perciò la terra è sacra! Per questo motivo cresce l’erba e i semi diventano fiori, altrimenti tutto reste­rebbe pietra e fango».

«Va bene la terra, ma sui sassi non ci cresce niente!» dissi io.

«Non è vero, la vita cresce anche sui sassi» e mi mostrò le chiazze verdi e gialle dei muschi e dei licheni sulle rocce del fiume. «Questi sono pensieri di Dio che diventano vita. Anche i più piccoli fiori gialli, e quelli azzurrini che chia­mano “gli occhi della Madonna”… ogni filo d’erba, ogni fiore, anche il più umile, ha la sua dignità di esistere, ha la sua bellezza da mostrare, è un segno della presenza di Dio sulla terra, e tu devi rispettare ogni forma di vita. E questo non è facile da comprendere. Gli uomini pensano di capire

8

tutto e invece non capiscono niente, perché altrimenti non si spiega che da un grumo di fango possa nascere una spiga di grano!»

«Ancora con queste storie? Farai diventare matto que­sto bambino! Si ammalerà!» disse nonna Ida inviperita quando corsi da lei facendole vedere entusiasta le conchi­glie. Di fronte alle sue urla restai deluso. «A stare con te si riempirà la testa di vento, a questo bambino verranno i vermi nella pancia come ai gatti! Piantala una buona volta!» disse furiosa. Nonna salì e scese le scale come una furia. «Guarda» mi disse, e buttò per terra un vaso di vetro che andò in frantumi, lasciando sul pavimento di coccio sassi e conchiglie bianche che nonno custodiva in camera da letto.

«Nonna da bambina deve aver leccato un rospo, oppure di notte ha ingoiato una falena. Raccontano che una mattina l’hanno ritrovata con la bava alla bocca e la porpora d’oro delle ali sulle labbra. Per questo la nonna è così nervosa» mi confessò il nonno. «Altro che bacio dell’angelo.»

C’erano giorni che nonna Ida sembrava abitata dal dia­volo. Parlava con mugugni e urlava con la voce che cam­biava tono ogni volta. Il nonno, dopo il vaso andato in fran­tumi, decise che bisognava fare qualcosa. Una notte di luna piena, volle sapere la verità. «Vieni!» disse alla nonna.

«Cosa c’è?»«Andiamo a sederci fuori in cortile!» «Di notte?» La nonna rideva divertita. «E perché? Non

è mica agosto!»«Questa sera ho voglia di far quattro chiacchiere sotto la

luna. È così bello star qui!»

9

Rimasero fuori un bel po’ di tempo. Io li guardavo di nascosto dalla finestra. Stavano uno di fronte all’altra, ma non si dicevano niente.

«Perché mi fissi così?» disse nonna dopo un lungo silen­zio, imbacuccata in una coperta.

«Perché mi piaci!» «Smettila di fare il cretino!» rispose nonna che alternava

lunghi momenti di silenzio a irrefrenabili scoppi di risa.Ida alzava lo sguardo estasiata, era affascinata dalla luce

bianca della luna, e come rideva. Il nonno, invece, aspettava che il diavolo in persona portasse via nonna verso qualche sabba, magari dopo un lungo giro del mondo. Lo aveva letto in un libro. «Le streghe non volano sulle scope ma sulle sedie!»

Il nonno aspettò per molte ore, mentre la luna si spostava lenta sopra le loro teste.

«Ma non dovevamo chiacchierare e parlare?» chiese la nonna dopo un po’. In quella situazione le veniva da ridere. Un ridere senza freni.

«A me piace anche così» disse il nonno, «ti faccio diver­tire! Non ti basta?»

Il mese dopo, sempre nel giorno di luna piena, il nonno portò la nonna a sedersi in cortile, e poi ancora per un altro plenilunio. Quando vide che lei non era indemoniata e che non avrebbe mai volato in cielo seduta sulla sedia, capì che era proprio cattiva per carattere. «Mi arrendo!» pensò, «non c’è alcun rimedio. Il diavolo si può scacciare, ma il carattere non si cambia» sentenziò allargando le braccia.

In compenso al nonno sembrò che la luna avesse calmato gli spiriti del sangue di nonna Ida e la cura delle notti in cortile continuò fino a quando, a novembre, tutti e due si

10

buscarono un grosso raffreddore e la tosse, facendo ridere tutti quelli della corte dove abitavamo.

Nonna, in verità, segnava le storte e la risipola e curava dal fuoco di Sant’Antonio con le croci di vite e con l’acqua pulita dei fossi. Faceva dei segni di croce e poi buttava i pezzetti di vite incrociate nella corrente. Recitava lunghe litanie segrete mentre il povero malato, con le bolle rosse sulla pelle, dolorante, se ne stava mezzo nudo vicino a un fosso con l’acqua corrente.

Ave o Mariatutte le disgrazie porta viagrazia plenaogni disgrazia e pena porta via con lenaDominus tecumIl dolore e il male vadano secum…

«Ma fa un freddo cane!» protestò una volta un giovane mentre nonna lo segnava coricato mezzo nudo nella neve gelata. Aveva rotto il ghiaccio del fosso con un martello per cercare l’acqua corrente.

«Se vuoi che ti passi il male devi soffrire un po’! Queste malattie non si curano così, tutte in un momento e nello stesso modo.»

«Se guarisco dal fuoco di Sant’Antonio, poi muoio per la polmonite che mi prendo a stare qui al gelo» rispose l’uomo tremante.

Nonna non ascoltava nessuno, bruciava l’ulivo secco e il sale, e in molti dai dintorni venivano da lei perché alla fine guarivano davvero. Lei non chiedeva soldi, accettava doni,

11

quelli sì: un cappone, un tacchino, due galline, un coniglio maschio per ridare sangue alle nidiate… Nonno prendeva alcuni animali, quelli più grassi, e li scambiava con carta e inchiostro, buscandosi gli insulti della nonna che urlava nel cortile davanti a tutti. Tra loro era sempre una commedia.

«Guarisce la gente dalle rogne, e invece di lasciarle nell’acqua, se le prende tutte lei e non sa come sfogarle. Bisogna stare attenti, perché il male degli altri ti si attacca addosso come la rogna!» diceva nonno Ercole senza ridere troppo. «Il male, se non ti seduce, ti aggredisce. Non lo dico io, lo scrive la Bibbia» diceva, ma citava a memoria, spesso sbagliando.

Nonno Ercole, padre di mio padre, era un uomo buono, un gran lavoratore, sognatore e socialista. Parlava poco, sem­brava sempre assorto. Quando tagliava l’erba con la falce, si fermava per riposarsi, nel rito di affilare piano piano la lama, prima sputando e poi passando la pietra che teneva nel corno agganciato alla cintura. Finito il lavoro, appog­giandosi al manico, si stirava i baffi. Guardava con atten­zione i primi grappoli d’uva, toccava i fiori di ciliegio, e quando ricominciava a passare la falce sul prato pareva aver timore di tagliare l’erba. Spesso, nei momenti di riposo, capitava di vederlo assorto a contemplare il suo gatto che dormiva vicino ai piedi.

Lo consideravano uno scansafatiche, perché in cam­pagna non c’è tempo da perdere, e lui, invece, si fermava a guardare con attenzione le foglie delle viti, la forma dei frutti, i fiori che crescono lungo i fossi e passano inosservati.

«Ti perdi a parlare con gli angeli o sogni un piatto di lasagne?»

12

«Mi faccio delle domande» rispondeva calmo a chi lo prendeva in giro mentre tagliavano il fieno.

«E allora perché non ci fai capire anche a noi?»«Cosa volete capire voi, che siete bestie da soma!» «E tu sei nostro compagno!»«È vero, ma almeno io penso e ne sono cosciente!» diceva

nonno Ercole. «Voi non potete capire perché il grappolo del lambrusco è così diverso da quello della fortana!»

«Perché hanno un sapore diverso» rispondeva qualcuno per prenderlo in giro.

«Perché uno è lambrusco e l’altro è fortana! Non ci vuole una gran zucca per capire» intervenne uno dei lavoranti facendo ridere tutti.

«E allora perché se semini il melone vicino alla zucca, la zucca sa di melone e il melone di zucca?» incalzava divertito il nonno.

«Dài Ercole, spiega perché!»«Perché le piante parlano tra di loro e si scambiano i

pensieri! Per questo non bisogna seminare le zucche vicino ai meloni. La zucca pensa di essere un melone e il melone crede di essere una zucca! Per questo i sapori si mescolano.»

«Hai capito? Le zucche pensano» dicevano divertiti gli altri contadini.

«Ercole, anche la tua testa è piena di pensieri come una zucca!»

«Allora, se ti sto vicino, anch’io divento intelligente?»«No, è il contrario, è il mio cervello che diventa un

melone!» rispondeva il nonno.In campagna parlavano così per alleviare la fatica.Nonno Ercole leggeva i libri e nonna Ida era invidiosa.

Odiava il fatto che lui passasse molte notti insonni e perdesse

13

il suo tempo a leggere o scrivesse sui suoi quaderni, con carta e inchiostro barattati con polli e conigli. Molte volte la nonna lo trovava addormentato con la testa sul tavolo, stanco morto. E una volta rischiò pure di bruciarsi i capelli nella fiamma della candela. Nonno non disse mai dove e chi gli avesse insegnato a leggere e scrivere, ma nonna Ida lo sapeva. Era stata una prostituta di città, dove nonno, da ragazzo, «andava a “prendere lezioni”». Raccontavano che fosse una giovane maestra finita in casino perché respinta da un amore che aveva generato un figlio non voluto. Ripu­diata, aveva scelto quella vita per piacere agli uomini con un gesto di rivalsa nei confronti di chi l’aveva rifiutata. La chiamavano “la maestra” perché era brava in tutto. Aveva insegnato a leggere, scrivere e a far di conto a nonno Ercole che da ragazzo era davvero bello e intelligente, mica come quegli zotici che lavoravano con lui. Qualcuno raccontava che la maestra si era innamorata del nonno e gli dava tante, ma tante lezioni! Quando nonna vedeva suo marito scri­vere lentamente quei segni sottili come virgole di fumo sulla carta, era sempre più stupita e insofferente per quella grazia che sapeva mettere nel tenere in mano la penna, con quelle dita nodose come rami, lui grande e grosso, chinato sulla pagina come una quercia piegata dal vento. Quei segni, a lei, rimasero sempre misteriosi.

«Cosa scrivi?»«Cosa vuoi che scriva, niente!»«E allora se non scrivi niente, perché continui a farlo?

Perché non insegni anche a me a leggere e scrivere?» insi­steva nonna Ida.

«A cosa ti serve se devi tirare il collo alle galline?» «E a te, cosa serve che tagli l’erba nei fossi? Solo a con­

14

sumare più petrolio e candele, a dormire molte notti fuori dal letto!» rispondeva irritata.

Un signore ben vestito, col cravattino nero, portava a nonno Ercole libri sempre nuovi, e lui restituiva quelli che aveva finito di leggere. Non scendeva neanche dalla bici­cletta, si scambiavano qualche parola sottovoce, poi lui se ne andava in mezzo alla polvere.

«Ci porta male!» diceva nonna appena quello imboccava la carraia, gettava contro di lui preghiere, ingiurie e sale, e spazzava via con forza i segni della bicicletta nella polvere.

Non era ben chiaro quello che nonno capisse delle sue letture e cosa leggesse, perché non ne parlava mai, e le parole dei libri gli restavano prigioniere dentro la testa. «I pensieri ronzano come le api in un alveare d’inverno» rispondeva se qualcuno chiedeva qualche spiegazione. «Da qui dentro» diceva il nonno toccandosi la tempia, «non esce nessuna parola, girano dentro nella testa, e questo ronzio è il pensiero, e pensare mi fa star bene! Pensare è dolce come il miele!»

Gli amici lo prendevano in giro e insieme gli portavano grande rispetto. «Legge i libri» dicevano gli altri contadini facendo un ampio gesto con il braccio che sapeva di presa in giro, come quando il vino, dopo averlo bevuto, ti lascia in bocca quel gusto strano di tappo.

«I libri ti riempiono la testa di vento» sbottava nonna Ida, «e il cervello, un giorno o l’altro, si farà vapore e ti uscirà tutto dalle orecchie.»

«Noi socialisti cambieremo il mondo!» diceva sottovoce quando lei gli girava le spalle, «altro che vapori!»

Un giorno in piena estate, verso mezzogiorno, nonno Ercole

15

era rimasto nei campi. Doveva finire di aprire un fosso, alzare la chiusa e far scorrere l’acqua per allagare il prato. Il sole picchiava in testa, l’aria all’orizzonte tremava calda, correndo sui campi. Nell’immobilità assoluta, non si sen­tiva nemmeno l’allodola che canta nel cielo come un angelo per proteggere gli uomini. Quel giorno il nonno sentì un fruscio che veniva dal campo di granoturco. Si girò. Non capiva. Continuò nel suo lavoro, ma quel fruscio diventò insistente. C’era caldo, si tolse il cappello e con il fazzo­letto rosso si asciugò la fronte guardandosi attorno. C’era un silenzio strano. Aveva sentito ancora quel muoversi nel granoturco, guardò le punte che ondeggiavano in mezzo e pensò che fosse un refolo di vento, come capita spesso in pianura nelle giornate di afa. All’improvviso balzò fuori un cane nero. Ringhiava con la bava alla bocca, assetato. Il nonno restò immobile, allungò piano la mano per prendere la vanga, poi, quando il cane abbaiò, sbucò un altro cane incarognito, pieno di zecche gonfie sul muso. Nonno afferrò la vanga, si mosse lentamente per fare un passo indietro e salire sul muro di mattoni che divideva la chiusa. Al primo attacco del cane con le zecche il nonno sferrò un colpo con la vanga di taglio. Non ferì il cane ma fece scoppiare le zec­che sul muso che cominciarono a sanguinare. Il cane nero, sentendo l’odore del sangue, si avvicinò ringhiando contro il compagno. Al secondo attacco il nonno colpì il cane sul muso, tagliando il labbro all’animale che guaì più cattivo. I due cani si azzuffarono tra loro, e il nonno fece un salto, correndo verso casa.

«Che razza di cani erano?» chiese nonna.«Quelli non erano solo cani!» disse il nonno sconvolto. «E come ti sei salvato?»

16

«Ho picchiato quello pieno di zecche con la vanga poi, sentendo il sangue del cane ferito, il nero si è avventato contro l’altro.»

Nonna tacque.«Ti hanno morso?»«No, sono scappato prima. Uno è riuscito a saltare il

fosso ma era troppo stanco e affamato per correre veloce!»Nonno era terrorizzato. Nella corsa aveva perso il cap­

pello lungo la carraia, mostrando la testa pelata. Nonna gli fece una carezza sulla guancia, cosa rara anche quando sta­vano a letto.

Non avevo mai visto il nonno correre in quel modo così goffo e mi scappava da ridere, anche se lui non rideva affatto.

«Siediti!» e nonna gli versò un bicchiere di rosso da una bottiglia appena tolta dalla fontana.

Nonna era pensierosa, girò a lungo per casa, poi, la sera, di nascosto da tutti, accese un fuoco e bruciò un osso che rilasciò un odore tremendo nell’aria.

La mattina il nonno si alzò come sempre all’alba. La nonna non era nel letto. Quando scese in cortile vide il cane nero, pancia a terra, che ansimava. Sembrava tranquillo. Nonno Ercole si fermò.

«Non ti farà niente» disse Ida sottovoce, dietro di lui, «lo stavo aspettando.»

«Se ti avvicini ti sbrana!»«Non ti farà niente!» rispose avvicinandosi lentamente

al cane. Quando gli allungò un pezzo di pane, l’animale appoggiò la testa per terra sottomesso e lo annusò prima di prenderlo e portarlo via allontanandosi.

«Dovevi vederlo ieri!» disse il nonno.

17

«Ieri era posseduto da un demone. I demoni girano nell’aria specialmente a mezzogiorno e poi attaccano gli uomini. Gli spiriti che girano nella pianura fanno paura.»

Non dimenticherò mai quello che accadde quel giorno. Lo raccontarono a lungo. «Perché i demoni esistono e girano nell’aria, entrano nel corpo di un cane, azzannano un bambino e poi tornano a essere gli animali più buoni del mondo» diceva la nonna. «È sempre successo, sempre acca­drà, anche con i cani in città! Diventano violenti all’improv­viso, trovano mille spiegazioni stupide, ma nessuno crede ai demoni che attaccano i santi e gli innocenti. I demoni vivono tra noi, a volte entrano in un corpo di animale, altre volte hanno la giacca e la cravatta, o la divisa militare, pren­dono il caffè la mattina, sorridono, fumano, si travestono sotto le apparenze quotidiane di normalità.»

Nonna sapeva molte verità, anche se non aveva studiato e non conosceva la scrittura e i libri come nonno Ercole.

«Bisogna capire i segni» diceva nonna Ida. «I segni sono importanti nella vita! Le disgrazie non arrivano mai all’im­provviso. Si fanno sempre preannunciare.»

Quando nel cortile spennò quattro galline e una di que­ste, sventrata, mostrò le ovaie malate, tutte gialle che puzza­vano di marcio, nonna non esitò a farsi il segno della croce. Fece dire al prete almeno quattro messe, recitò dieci rosari e da sola portò a termine una novena, ma quella volta, nem­meno le preghiere riuscirono a evitare il male.

Nella nostra corte viveva una ragazza gentile, quarta di cinque fratelli. Era l’unica figlia femmina. Lavorava con la famiglia, aveva occhi da cerbiatto e quando la sera scio­glieva i capelli dal fazzoletto per lavarsi la faccia e pettinarsi

18

alla fontana, mostrava tutta la bellezza di una bambina che stava diventando ragazza. Con il suo modo di stendere il pettine con lentezza, il sorriso dolce e il parlare così raro, aveva attirato l’attenzione di Pietro, un lavorante che veniva da fuori, in bicicletta. Aiutava nei campi e la sera tornava a casa, stanco, con l’ossessione del sorriso di Vera nell’anima. Così si chiamava la giovane.

Quando si fermavano nel cortile per bere e fare due chiacchiere, Vera ascoltava e rideva con gli altri prima di aiutare in casa e preparare la cena per i fratelli. Aveva capito che quell’uomo, Pietro, la guardava strano, come nes­sun uomo l’aveva guardata prima. La mamma di Vera era troppo distratta dalla fatica e dal lavoro, non aveva notato nulla, perché Pietro, in cortile, faceva divertire raccontando storie spiritose. Poi lui era sparito per un po’ di tempo e quando era tornato nella nostra casa, aveva fatto fatica a riconoscere Vera, che non era più una bambina, ma una ragazza con un seno duro come la pietra. Pochi mesi ed era diventata una donna.

Una volta, mentre Vera tornava dai campi, Pietro l’aveva seguita e l’aveva abbracciata, baciandola. «Tu mi piaci e ti voglio sposare!» le aveva detto Pietro. «Mi piacevi prima ma adesso di più!»

Vera era sconvolta, confusa tra piacere e paura, e un leggero tremore di gambe non l’aveva abbandonata fino a notte, quando non dormì ripensando a quello che era suc­cesso, tra le braccia di quell’uomo, al suo odore di sudore e tabacco. Per la vergogna non aveva detto niente a nessuno, ma da quel giorno ebbe paura di andare da sola nei campi, per portare l’acqua ai lavoranti o solo per raccogliere le ciliegie o le albicocche mature per il pranzo o la cena. Poi

19

tutto tornò tranquillo, perché Pietro era andato a lavorare in un podere lontano dal nostro. Vera, un giorno verso le dodici, stava girando attorno a casa raccogliendo radicchi tra i filari di viti, quando Pietro si piantò davanti a lei.

«Cosa ci fai qui?»«Sono venuto per te!»«Adesso urlo» rispose lei stringendo il coltello che usava

per tagliare i radicchi.«Se urli ti ammazzo!»«Cosa vuoi da me?»«Sei diventata un’ossessione. Mi fai diventare pazzo. Non

capisco più niente. Io ti voglio, hai capito? Ti voglio subito, adesso!»

Pietro all’improvviso afferrò il polso di lei e la strinse a sé, buttandola a terra con una mano sulla bocca. Il coltello cadde per terra. Vera lo morsicò fino a fargli uscire il sangue dal palmo della mano. Lottò fino allo sfinimento. Lei pianse e alla fine, quasi senza respiro, svenne con la luce del sole negli occhi.

Quando si svegliò era nel suo letto, con la sua mamma che le lavava le gambe. «Non è successo niente, non è suc­cesso niente!» cominciò a dirle piano, sussurrando in un orecchio, accarezzandole il viso e la fronte. «Non sa niente nessuno, nessuno si è accorto di quello che è successo!»

Una settimana dopo trovarono Pietro che galleggiava in un laghetto nei campi che i contadini usavano come scorta d’acqua per l’estate. Lo trovarono riverso tra le rane e le bisce nere, che galleggiava come un rospo gigante, gonfio, perché doveva essere lì almeno da tre o quattro giorni. Dis­sero che si era suicidato ma attorno al laghetto, nel fango fresco, avevano trovato almeno cinque o sei impronte

20

diverse di scarpe. Era impossibile anche per i carabinieri dimostrare qualcosa, quando vennero a recuperare il corpo dell’uomo.

Dei pochi che andarono al suo funerale, solo la madre lo pianse. Nonno Ercole non mi raccontò mai niente di quella notte. Disse solo: «Certe volte la giustizia non deve uscire dal cortile!» e nessuno parlò più di quell’uomo, nemmeno i carabinieri.

Vera era cambiata, aveva perso il sorriso e la gioia, era diventata magra, non mangiava più mentre il suo ventre diventava sempre più tondo. Dopo qualche mese scom­parve dalla vista di tutti. Nessuno diceva niente, tutti tace­vano quella gravidanza nascosta.

«Cosa possiamo fare?» disse una volta sua madre.«Appena nasce lo portiamo dalle suore quel disgraziato.

È un figlio che nessuno vuole, e nessuno l’ha mai voluto!»Dopo nove mesi nacque quel bambino a cui nessuno

aveva voluto dare un nome. «Lo voglio vedere!» gridò Vera.«È meglio di no!» rispose la madre.«Lo voglio vedere!» urlò Vera quando lo sentì piangere,

sfinita nel suo letto.«Se lo guardi non lo lascerai più!» disse la levatrice.«Lo voglio vedere!»Era un bel bambinone, un fagotto rosso con i capelli neri

che stava tutto raggomitolato, le mani raggrinzite. Lo strinse a sé, lo accarezzò, come se fosse un formaggio caldo appena fatto, lo appoggiò alla pancia e non volle lasciarlo più.

«Le suore non possono sfamarlo, bisogna che lo allatti tu per un po’» disse la levatrice.

La madre di Vera uscì piangendo dalla camera.

21

«Appena sarà più grande lo portiamo alla ruota!» disse la levatrice sottovoce, alla madre di lei.

Era così bello quel bambino! Cresceva di giorno in giorno grasso e sorridente. Vera lo allattava, lo guardava mentre lui le toccava le labbra e la guardava con quegli occhioni grandi e marroni pieni di stupore per il mondo. Vera non sapeva come comportarsi con quella creatura che era nata dal suo ventre, frutto tenero e innocente della violenza.

Il bambino aveva scambiato il giorno con la notte, pian­geva e strillava tenendo sveglia tutta la corte. E tutti, nei loro letti, ripensavano al figlio del male, a quello che era successo tra i filari di vite, e nessuno dormiva.

Vera stava in casa tutto il giorno, non voleva vedere nessuno, vergognandosi di quel bambino che non voleva lasciare. Lo teneva stretto, in braccio, lo guardava, lo baciava, poi però lo lasciava sul letto e lo guardava per ore. Lo fissava, come se fosse di un altro. Gli occhi del bambino erano uguali a quelli di Pietro.

Alla gioia di tenerlo in braccio si mescolava il ricordo e il dolore di quella violenza subita. Vera non aveva più lacrime ed era stanca.

Una notte prese il bambino che dormiva tranquillo, lo avvolse in un panno, lo strinse a sé, poi piano piano aprì la porta di casa, senza fare rumore. Il cielo era illuminato dalla luna calante. Sfilò lentamente il catenaccio di casa. Camminava a piedi nudi. Le mucche sentirono la sua pre­senza e alcune si misero a muggire forte, poi restò solo il silenzio. «Non puoi stare con me, non posso tenerti e non voglio che ti portino via! Adesso ti metto a dormire qui. Qui starai al caldo e nessuno ti disturberà. Qui starai bene e nessuno ti farà del male, vedrai.» Camminò nel letamaio,

22

con le mani nude spostò la paglia e lo sterco, poi fece una specie di buco, baciò il suo bambino piangendo, l’appoggiò nel caldo di quella cuccia e lo ricoprì. «Ecco, amore mio, adesso dormirai tranquillo.»

La mattina, quando si svegliarono per andare nella stalla a mungere, sentirono una grande puzza in casa, le orme dei piedi lasciate in cortile e sulle scale che portavano in camera. Vera si era coricata così, le braccia e i piedi sporchi, con la sottoveste bianca tutta insudiciata nel letto. Dormiva tranquilla e serena. Quando cercarono il bambino ai geni­tori di Vera venne un colpo al cuore. Le orme portavano al letamaio. Quando suo padre cominciò a scavare con le braccia nude trovò il bambino morto tutto infagottato. Tra il lenzuolo Vera aveva messo anche una bambolina di pezza che aveva cucito per lui nei primi giorni. Così è tornato al cielo quel bambino senza nome.

Tutte le famiglie della corte sapevano ma nessuna parlò. I genitori di Vera dissero che avevano portato il bambino dalle suore, che il piccolo aveva trovato una famiglia che gli avrebbe voluto bene.

Il padre di Vera, invece, fece una buca lontano da casa, vicino all’argine, dove neanche i cani e i topi avrebbero potuto scavare. Lì appoggiò il piccolo. S’inginocchiò nella terra bagnata e fissò a lungo quel fagotto e lo cosparse di calcina come se dovesse infarinarlo. Dopo quella mattina, non parlò per tre giorni.

Vera ricominciò a vivere come se nulla fosse accaduto. Aveva dimenticato tutto, era tornata serena e tranquilla, rideva con quell’aria incantata che nasconde l’abisso. Un anno dopo aveva trovato anche un ragazzo, conosciuto in una balera, che l’aveva sposata, aveva avuto due bambini

23

e quella storia, se non l’avessi ricordata io, sarebbe stata cancellata dal tempo. Per tutti quelli della corte, quella sto­ria restò come un sogno che non si può e non si deve più raccontare.

Dove fu seppellito il bambino, qualche mese più tardi, spuntò un germoglio di ciliegio, dalla terra, grosso come un dito. Il germoglio, nel giro di qualche anno, s’alzò rigi­randosi verso il cielo, come una mano aperta, diventando uno splendido albero. Ogni primavera sui rami nudi sboc­ciavano fiori bianchi e rosa. Le ciliegie, maturate sui rami più alti, erano preda delle gazze e dei corvi e i rami, ormai grandi come braccia, resistevano al peso e alla rapina dei bambini di Vera, che salivano per gioco in cerca dei frutti più dolci. Anch’io con Millemosche mi sono arrampicato tante volte su quell’albero a mangiare le ciliegie più dolci.

Poi un giorno, sopra un carro, a novembre, tutta la fami­glia di Vera, fece “San Martino”, traslocò, perché continuare a vivere nella corte era difficile. I morti, spesso, bussano alla porta dell’anima e ci parlano. Quando questo accadeva, Vera aveva delle crisi di nervi, senza che suo marito e i suoi figli capissero. Continuare a vivere lì non l’avrebbe aiutata a guarire dai suoi fantasmi e dalle sue ossessioni.

Nonno Ercole, che predicava tanto il socialismo, non poteva vedere i preti, ma in chiesa con la nonna ci andava spesso, perché aveva paura di morire. «Il primo vero socialista è stato Cristo che ha voluto accanto a sé i poveri, gli ammalati e le prostitute. Voleva giustizia e pane per tutti! Per questo l’hanno crocifisso in mezzo a due ladroni.» Così rispondeva a chi diceva che un socialista vero, un bolscevico, un comu­nista, non può credere in Dio! E non deve andare in chiesa.»

24

«Per credere in Dio bisogna credere negli uomini e vice­versa!» rispondeva nonno. «Per credere negli uomini biso­gna credere in Dio, altrimenti gli uomini diventano Dio, e succede il finimondo.»

Così, in un colpo solo, aveva messo insieme chiesa e socialismo. In verità nonno aveva paura di morire ancora prima di morire.

Ripeteva sempre: «Io non voglio fare la fine del Peppo. Piuttosto mi butto nel Po, e se dovesse accadere nel fiume mi ci porti tu, hai capito?» diceva guardandomi serio. Nonno aveva paura di restare mezzo paralizzato in un letto. Lo ripeteva perché, camminando a fatica, aveva paura di sopravvivere, mezzo rincoglionito, come un peso per tutta la famiglia. «Se mi butto nel Po» diceva, «seguo la corrente e dopo qualche giorno vado a vedere il mare! Anche da morto dev’essere uno spettacolo, il mare! Dicono che sia tutto azzurro. Mi faccio portare dalla corrente e poi arrivo al mare, e dal mare all’oceano.» Lui non l’aveva mai visto, diceva: «Io qui lo sogno in pianura, dev’essere come il para­diso, una grande distesa blu, come capita quando il fiume Po si alza fino a raggiungere il colmo degli argini e non vedi più l’altra sponda».

Il Peppo era uno dei pochi sopravvissuti alla prima guerra mondiale. Di tre giovani partiti per il fronte che vivevano nella corte, era tornato solo lui. Lo conobbi che sembrava vecchissimo. Mi faceva paura. Era un cieco che stava seduto tutto il giorno contro il muro di casa, quando c’era il sole, altrimenti stava immobile nel portico, a intrec­ciare canestri con la saggina. Dondolava sulla seggiola e saggiava l’aria davanti a sé con un bastone nodoso, come la lingua di un formichiere.

25

Quando era di buon umore bestemmiava, quando invece l’insofferenza e la noia gli annebbiavano l’anima, se la pren­deva con i politici che l’avevano mandato al fronte, poi con i suoi commilitoni buoni a nulla che si facevano ammazzare come pecore, con gli austriaci che l’avevano accecato, con i comandanti disgraziati che sbagliavano la direzione del cannone, sparando verso gli italiani, e poi inveiva contro i traditori e i disertori, i mutilati di guerra, il lavoro, le donne, le prostitute, i cani, i gatti, il Re, lo Stato italiano, Musso­lini, gli angeli, i santi, i diavoli e Dio stesso che l’aveva fatto nascere e condannato al buio.

«È solo un disgraziato!» diceva nonno Ercole, parlando di lui con stizza e pietà. «Se fossi nelle sue condizioni mi butterei nel Po!» diceva.

Una volta bestemmiava tanto che uno della corte gli buttò addosso un secchio d’acqua gelida. «Così ti lavi la bocca!» gli disse, lasciandolo di pietra contro il muro, bagnato fradicio.

«Vieni qui!» mi disse un giorno sentendo i miei passi sulla ghiaia. «Io ti vedo lo stesso anche se non ti vedo!»

«Tu sei cieco e non mi vedi!» risposi.Peppo fermò il bastone e diventò serio.«Sei coraggioso a rispondermi così o sei solo un vile per­

ché sono cieco?»Mentre parlava alzava il bastone mirandolo come se

fosse l’ago di una bussola o io la calamita che lo faceva muovere. Mi spostavo velocemente senza fare rumore, con i piedi scalzi nella polvere e nella ghiaia, ma quel bastone era sempre puntato su di me come un fucile. Rideva.

«Pensi di fregarmi? So chi sei, so dove vai. Un giorno ti faccio assaggiare il mio bastone, così mi porterai più rispetto.»

26

«Sei solo un cieco cattivo!» «Io cattivo? E chi lo dice? Quel buono a nulla di tuo

nonno o quella strega di tua nonna?»«Tutti lo sanno che sei cattivo!»«Quando mi verrai a tiro ti farò assaggiare il mio bastone

nelle gambe, così imparerai a portarmi rispetto!»«Tu bestemmi e non porti rispetto a nessuno! Dovreb­

bero darti solo bastonate nelle gambe» risposi. Avevo una grande paura, mi ricordo, per questo rispondevo così.

Peppo alzò il bastone come fa il cane con la coda quando sente il pericolo, e sulla bocca si disegnò un ghigno.

Un giorno lo stavo guardando nascosto dietro a un muro. Sembrava dormisse. Aveva portato con sé un po’ di formaggio e l’aveva lasciato cadere tra i piedi. Aspettava con la testa appoggiata all’indietro, contro il muro. Un topo­lino di campagna aveva sentito l’odore e si era avvicinato al formaggio. Si guardava attorno timoroso, entrava e usciva dal buco del muro dov’era Peppo. Il vecchio sembrava dormisse, immobile, da ore, come una pietra. Quando la fame vinse la paura, il topolino si avvicinò e quando stava per afferrare il formaggio, il vecchio lo colpì con il bastone schiacciandogli la testa.

«Così lasci stare il mio formaggio!» disse.Aveva dita dure. Era capace d’intrecciare anche due cestini

in un pomeriggio. Le sue dita erano tanto abili da fare tutto al buio. Con la vendita riusciva a essere d’aiuto alla sua famiglia.

«Dove vai?» mi disse una volta.«Lascialo stare» rispose nonno Ercole al Peppo.«È un bambino sveglio e senza paura!»«Per questo lo devi lasciar stare.»«Lui ha qualcosa in più degli altri!»

27

«È solo sveglio e intelligente!» rispose nonno Ercole.«È inutile che gli fai segno di non avvicinarsi a me!»

disse con un ghigno «Lo sa quello che gli spetta. Non porta rispetto a un cieco.»

«Tu non sei cieco, sei solo cattivo!»«Vedi, sei tu che gl’insegni!»Quando camminava picchiava con il bastone in terra o

contro il muro e il ticchettio avvertiva che stava arrivando.La notte non dormiva, sognava ancora la guerra, la trin­

cea, il puzzo dei cadaveri e del sangue, il freddo, i colpi di shrapnel e l’odore di polvere da sparo. Ed erano già passati molti anni. La notte piangeva, «Dove sono i miei compagni, dove sono i miei amici. Ho freddo mamma, ho freddo! Non lasciatemi morire qui, vi prego. Mi fanno male le gambe, portatemi a casa. Portatemi a casa!»

Di giorno, quando gli altri della famiglia gli ripetevano quello che urlava nel sonno, negava tutto. «Non è vero! Non è vero!» diceva vergognandosi.

Stava per ore con gli occhiali scuri, seduto contro il muro di casa a fare i cestini, muto, isolato dal mondo, fino a quando non prendeva in mano il suo bastone e cominciava a saggiare l’aria. Spesso abbassava la testa, con il mento sul petto, immobile, diventando la posa preferita di un nugolo di mosche. E lui lasciava che lo tormentassero fino a quando non si svegliata e urlava. «Via da me, non sono morto, non sono ancora un cadavere, via maledette! Siete la dimostra­zione che Dio si diverte a tormentarci.»

«È morto?» dissi una volta sottovoce vedendo il Peppo immobile da tempo.

«È già morto tanto tempo fa su in montagna!» mi rispose nonno Ercole.

28

Una sera, mentre stava finendo un cestino, si fermò quando sentì i miei passi.

«Vieni qui!»«Non voglio assaggiare il tuo bastone!»«Non fare lo stupido, vieni qui!»«Neanche morto!»Fu allora che mi sorprese. Buttò il suo bastone verso di

me. Io rimasi immobile. Non mi aspettavo quella sfida.«Non ti voglio fregare, devo dirti una cosa importante!»«Non mi fido di te! Te l’ho detto!»«Ti ho buttato il bastone. Devi portarmi vicino al tor­

rente. Tu camminerai davanti a me. Devi farlo. Da solo non ci riuscirò mai.»

«È lontano da qui!»«Non è lontano da qui! Conosco bene la zona.»«E allora perché non ci vai da solo?»Peppo non rispose e sbuffò muovendo appena la testa.Rilanciai il bastone ai suoi piedi con un calcio. Quel pomeriggio capii che dovevo fargli da guida. E così

la mattina dopo andammo: «Ma guai a te!» lo avvisai.Lui stava dieci passi davanti. «In guerra non c’è speranza,

vedi morire i tuoi amici» diceva mentre camminavamo lungo la carraia che portava al torrente. Con il bastone pun­tato su di me, parlava piano, la sua voce si era addolcita. Lo tenevo d’occhio, non mi fidavo di lui e alcuni passi li facevo camminando all’indietro. Faceva lunghi tratti in silenzio, traballante, insicuro, sofferente. Si era fermato più volte.

«Hai caldo?»«No!»«Sei stanco?»«No!»

29

«Dovevi essere tu ad accompagnarmi al torrente!»«E perché io?» chiesi.«Quando sarai vecchio capirai.» Il tono della sua voce

era cambiato. Appena comparvero i sassi del greto allora si fermò. Cercò un masso dove sedersi, tastando le rocce come se fossero teste di ragazzi. Restò lì a lungo prima di parlare, asciugandosi la fronte, annusando l’aria, ascoltando la voce dei passeri e degli usignoli nascosti in mezzo alla siepe. «Ognuno di noi è custode non solo della propria vita, ma anche della vita degli altri. A pezzi, e questi pezzi sono preziosi. Con questo viaggio io mi sono legato a te per sem­pre. Così ho fatto io con i miei amici morti durante la guerra, tanti anni fa. In trincea sono sprofondato in questo pozzo buio in cui morirò, ma tu no. Tu avrai vita lunga e dovrai salvare quello che ti sto per raccontare» mi disse.

Mentre lo ascoltavo, mi divertivo a prendere i sassi e li lanciavo in una pozza d’acqua.

«Una notte ci avevano chiesto di attraversare un bosco per prendere posizione. Dovevamo spostarci il più presto possibile. Sei mai stato in un bosco al buio? Non puoi pen­sare di aver avuto paura se non ti perdi in un bosco di notte, senza luna e senza stelle in cielo. C’erano il gufo e l’assiolo, con il loro verso ti entravano nelle orecchie come un pun­teruolo. Camminavi o strisciavi per terra cercando di non fare rumore. Non sapevo se quella fosse la direzione giusta. Una lunga corda ci legava l’uno all’altro, per tenere la fila come un branco di lupi che cammina nel buio, ma non potevamo sapere.

Eravamo vicini alle trincee degli austriaci, a poche centinaia di metri. Lo potevi immaginare. «Italiani morti di fame!» gridavano. «Mamma, dov’è la tua mamma, nel

30

casino a lavorare?» «Fra poco te ne andrai all’inferno!» gri­davano. Le loro voci erano tremende. Storpiavano la nostra lingua con quell’accento straniero che sa di beffa feroce. Nascevano dal buio, come le voci delle anime dei morti. Erano voci che lasciavano il vetro nel sangue e la voglia di fargli saltare il cervello con una bomba a mano. Oppure di alzarti e scaricare la rabbia correndo contro di loro. Ogni tanto, di notte, quelle voci tornano a chiamarmi, tormen­tano il mio sonno. Nessuno di noi rispondeva strisciando per terra, con la rabbia che correva nel sangue e ti batteva le tempie. Quando partiva un colpo ci fermavano, poi riparti­vamo sempre in silenzio.

All’improvviso scivolammo in un budello di terra sca­vato, al riparo dai colpi degli austriaci. La trincea mi sem­brò una tana. Avevo freddo. Credevo di essermi trasfor­mato in un lombrico e di aver trovato una crepa nella terra molle. Sentii solo la voce di uno che ci contava. Avvertii il loro fiato che sapeva di tabacco e di grappa. Ero il set­tantaduesimo.

Poi accadde qualcosa che non avrei mai immaginato. Li vicino c’era una casa abbandonata, una dimora signorile distrutta dalle pallottole, con le mura e gli scuri divelti. Non era una casa di contadini, sembrava una villa padronale sorta in uno spiazzo tra gli alberi, lontano da ogni paese. Ci apparve come un sogno tra le nebbie del bosco, la mat­tina presto. Avevamo camminato tutta la notte, strisciando per terra, nel freddo, e adesso potevamo anche scaldarci un poco. Nessuno di noi, e nemmeno i nostri nemici, avrebbero attaccato. Eravamo tutti troppo stanchi. Ogni tanto partiva qualche colpo, come per dire, siamo qui, non azzardatevi ad alzare la testa. Avremmo aspettato a lungo.

31

Nella tranquillità della natura, indifferente all’odio degli uomini, con i silenzi che si aprivano tra un colpo e l’altro, si alzò all’improvviso la musica di un pianoforte. L’ avevano sequestrato gli austriaci dalla casa abbandonata. Era ancora là dentro. Un soldato doveva averlo trovato e adesso suo­nava. Un filo di fumo cominciò a salire dal camino distrutto della casa. Il pianoforte era perfettamente accordato, segno che la distruzione aveva sfiorato la casa salvando lo stru­mento. Dio, come suonava quel pianoforte. Si era alzata una musica, divina, nel silenzio del bosco, tra le due trincee. Era un segno di bellezza e di grazia, e tutta la natura si era fermata ad ascoltare quel suono che arrivava dal pianoforte. Cadevano le note come gocce di pioggia la mattina presto. Eravamo rimasti tutti muti, immobili a guardare davanti a noi, nel vuoto. La gioia di quella musica meravigliosa, era un segno di Dio nella bufera del male, il pensiero di un angelo tornato sulla terra per ricordare il cielo agli uomini. Che musica, mio Dio! Io che avevo ascoltato suonare solo nelle balere e nelle case di tolleranza, mi misi a piangere. Piangevo come un bambino, e anche i miei compagni ave­vano gli occhi rossi. “Che musica è?” chiese un ragazzo che veniva dalla campagna e non sapeva leggere. Il nostro tenente laureato rispose sottovoce, senza quasi fiatare. “È Mozart!” disse dopo un attimo di silenzio. “È Mozart!”»

Il Peppo non parlò più e dopo un lungo silenzio ricomin­ciò. «Ecco, quando faccio i cestini ripenso a quella musica, e solo tu puoi capire quello che ti sto dicendo, o forse lo capi­rai quando sarai più grande, o sarai vecchio, che ne so io! Per questo ti ho portato qui al fiume! Porto dentro non solo le voci di quella barbarie ma anche il suono di quel piano­forte. Non l’ho mai più sentito suonare così. Non ho mai più

32

sentito suonare un pianoforte» disse il Peppo. «Sono stato in ospedale e poi sono tornato a casa, sono sempre rimasto a fare cestini contro il muro. Il paradiso lo immagino così, un bosco dove galleggia quella musica, leggera come il frullo gioioso di un passero.»

Aveva tra le mani un ramo di salice strappato da una pianta lì vicino.

«Lo vedi? I salici sono quelli che nascono per primi sulla sabbia, suonano al vento come nessun’altra pianta. È facile riconoscere la loro voce. Sono flessibili e conquistano la pietra, aprendo la strada a tutte le altre piante, alle gaggie e ai pioppi.»

Ricordo che lo guardavo raccontare seduto di fronte a me, ed ero incantato, quando all’improvviso, sui sassi, sbu­cando dal folto di un groviglio di sterpi e di rovi, apparve fiero e con la testa dritta un maschio di fagiano. Urlò contro di noi come suona un clacson rotto. Girò lì vicino, prote­stando. Presi un sasso e cercai di ucciderlo.

«Non farlo!» disse prima che io scagliassi la pietra, «non è solo un fagiano quello. Ci sono venuti a trovare.»

«Chi?» dissi innervosito.«Quando sarà ora, capirai! Non è solo un fagiano. Ci sta

salutando, o forse vuole solo che andiamo via, che torniamo a casa.»

Quando camminai davanti a lui, pensando ai suoi rac­conti, dimenticai di tenermi a distanza, e quando capì che poteva colpirmi, si chinò allungandosi, mi diede una fru­stata nelle gambe nude che mi lasciò un segno alto un dito sulla pelle. «Così non ti dimentichi più di me e di quello che ti ho detto» disse con un ghigno.

«Maledetto!» dissi stringendo i denti, correndo a casa,

33

zoppicando dolorante. Mi sentivo tradito due volte. Avevo voglia di piangere e prima di lasciarlo solo, gli tirai due sassate, ma senza colpirlo davvero, correndo verso casa, tenendomi la mano sulla gamba che bruciava più del fuoco.

Il vecchio cieco rideva.La sera lo trovai che intrecciava cestini contro il muro e

quando passai davanti a lui non mi salutò nemmeno, chiuso nel suo silenzio.

Io non ricordo cosa provai quando mi dissero che era morto, o forse non ricordo nemmeno quando morì. Forse me ne parlò nonno Ercole, quando gli chiesi dov’era finito il vecchio Peppo, dopo settimane che non si vedeva in giro. Aveva ragione quel maledetto cieco. Si era legato a me per sempre e dopo tanti anni sono ancora qui a scrivere di lui, a scrivere la storia che mi ha lasciato tanto tempo fa. In un certo modo si è salvato un pezzo di vita con quella sferza. A volte basta un segno di salice nelle gambe per non dimen­ticare qualcuno.

Un giorno nonno Ercole mi portò a vedere i gruccioni. «Sono sgargianti. Catturano col becco api e calabroni, li pic­chiano contro i rami o le rocce per rompere il pungiglione e poi se li mangiano. Delle api vanno ghiotti!» mi disse.

Ci fermammo non lontano dalla riva di un torrente. Sulle sponde argillose i gruccioni avevano scavato buchi profondi. Entravano e uscivano veloci dai nidi. «Hanno i piccoli, sono sempre in continuo movimento. È il momento più bello perché adesso si schiudono le uova. Arrivano verso i primi di maggio e se ne vanno verso la fine di ago­sto, quando si riuniscono sui prati e volano per prepararsi alla migrazione.»

34

In quel momento accadde qualcosa d’incredibile. Sta­vamo accucciati nell’erba quando un serpente nero scivolò giù dalla riva e sparì, infilandosi in un nido. Un nugolo di gruccioni cominciò a volare contro l’intruso che uscì dal buco con un piccolo in bocca. Gli uccelli volavano pazzi attaccando il serpente senza riuscire a fermarlo. Scomparve scivolando nell’erba.

Nonno mi afferrò per un braccio. «Andiamo» disse, ma io mi ero irrigidito. Strinsi i pugni dallo spavento. Lui cor­reva goffo, io avevo male alle gambe. Non sapevo come sfo­gare l’orrore e la rabbia. Il volo dei gruccioni e la loro pazzia mi ricordava il garrire dei rondoni, ma in quelle grida non c’era felicità, solo dolore.

Nonno mi lasciò, si chinò per terra cercando dei segni, spostava l’erba con le mani. Accanto a un albero si fermò, prese un bastone e l’infilò in un buco, poi col braccio, in un guizzo, afferrò il serpente che stava per fuggire. Quella frusta nera si arrotolava al suo braccio con forza. «Guarda» disse alzando il braccio come un trofeo, stringendolo nel pugno, «è un magnano, è un serpentone che fa tanto il gradasso ma è innocuo.» Lo prese con tutte e due le mani cercando di sciogliere quel nodo sempre più intricato e viscido. La bestia era grande come il suo polso. «È un maschio! Senti com’è forte!» disse mentre mi allontanavo indietreggiando. «Tieni, non avere paura!» mi disse il nonno. «Prendilo anche tu, non ti fa niente»! e allungò il braccio verso di me. La frusta nera si attorcigliava al braccio come un pensiero malato.

«Ha mangiato il piccolo dei gruccioni» protestai.«Anche lui deve mangiare!»Nonno giocava ad allentare le spire del serpente. A un

certo punto il magnano aprì la bocca e soffiò verso la faccia

35

del nonno che lo avvicinò al naso. «Fai tanto lo sbruffone!» disse, poi allentò la presa e lo lasciò andare nell’erba. Il ser­pente scivolò via spaventato con un guizzo.

«Non devi avere paura. Devi saper prendere il male per il verso giusto! È l’unico modo per difendersi da lui!» disse guardando nel prato.

Nella corte lungo il Po, s’intrecciavano le storie, i bambini nascevano e i vecchi morivano, le famiglie si spostavano, altre arrivavano nella corte, in un continuo viavai di conta­dini e fittavoli, di gente che si fermava e poi ripartiva. Le sto­rie degli altri si legavano a quelle della nostra famiglia, in un andirivieni di uomini e donne che vivono, adesso, soltanto nella mia memoria. E io ascoltavo e guardavo meravigliato e curioso. Era il tempo in cui la vita si viveva per poterla raccontare, e tutta la mia infanzia era come leggenda. Così accadde una sera, al crepuscolo, un fatto che non avrei mai più dimenticato.

Nonna parlava ai suoi animali. Qualche giorno prima che le uova di gallina o di anatra si schiudessero, lei si avvicinava alla cova e parlava ai piccoli. Diceva parole magiche perché nascessero tutte, e ogni piccolo nato era la speranza che qualcosa si sarebbe mangiato in futuro.

Veglia veglia sulle uovamia Signora della cova,falle schiudere tutte quantequeste uova che son tante.Fa più forte il bel pulcinocome fosse un tuo bambino

36

tien lontano la faina e la volpe malandrina.Un galletto sarà un dìse farà chicchirichìma se il verso è coccodètante uova son per me.Veglia veglia sulle uovamia Signora della cova.

Quando nonna camminava in casa o per il cortile aveva sempre un’anatra, un’oca o qualche gallina al seguito. Non aveva bisogno di chiamarle, la seguivano come se fosse la loro chioccia. Così capitò quella sera. Aveva una grande oca che la difendeva da chiunque si avvicinasse. Era stata una giornata calda e l’aria aveva il colore e il profumo della pesca matura. Nonna si guardava attorno e ascoltava, alzava gli occhi al cielo e scrutava i segni. «A volte si sente la voce di Dio nella brezza che fa tremare le punte dei pioppi!» disse nonna senza guardarmi.

Mi ero avvicinato a lei tranquillo. «E tu l’hai mai sentita la Sua voce?» chiesi a nonna. «No, però parlo agli animali come se lui parlasse a me,

per questo mi metto in ascolto! Chissà che un giorno Dio abbia voglia di dirmi qualcosa. Se poi fosse qualcosa di bello, ancora meglio!»

Guardavo nonna Ida come se fosse stata la prima volta. Aveva mani secche e dure, da uomo, segnate dal lavoro, screpolate per colpa dell’acqua gelata quando faceva il bucato d’inverno.

Era piccola rispetto a nonno Ercole, e camminava in fretta, leggermente piegata in avanti come se cercasse qual­

37

cosa. E dietro la seguiva sempre qualche covata di pulcini.«Sta per accadere un fattaccio, non so, ma c’è un’aria

brutta che si avvicina e mi fa paura!»Non credevo che nonna avesse il dono della profezia.«Te l’ha detto Dio?» chiesi.Nonna mi guardò divertita. «A Dio non importano le

nostre sciocchezze» e alzò le spalle.Nonna si fece il segno della croce tre volte, poi mi prese

per mano e mi diede uno strattone. «E guardati attorno, stai sempre attento, e non parlare con gli estranei, hai capito?» disse tenendomi ben stretta la mano. L’ agitava mentre par­lava, per tenere sveglia l’attenzione alle sue parole.

«Non allontanarti, non andare al fiume, non parlare con nessuno, non dare confidenza agli sconosciuti. E soprattutto non prendere cibo se qualcuno te lo offre, peggio ancora se fosse un dolce.»

Con quelle parole nonna mi mise una paura tremenda e aveva ragione. Quello che accadde il giorno dopo, nel nostro cortile, è difficile soltanto immaginarlo e segnò per sempre la storia della mia infanzia.