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MONTALE IIDC N°7309

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IIDCn°7309

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seConDa DI CopertIna

seConDa DI CopertIna

pubblicazione non periodica

Patrimonio intellettualeofficine Tasson Snel sans copyright, giugno 2010

Nessun diritto d’autore grava su quest’opera che può essereliberamente riprodotta, distribuita ed interpretata da chiunque.

Progetto grafico Sabrina Campagna

Composizione tipografia di questo numero

Indice Times 9/13,5 pt

Titolo Times 35/42 ptTimes 23/27,6 pt

TestoTimes 11/13,2 pt

SchedeTimes 9/13,5 pt

Ricerca bibliograficaSabrina Campagna

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oSSi di SePPia .01

In lImIne .03

Godi dell’aria che entra del pomario .05

movImentI .07

I limoni .09Corno inglese .11Falsetto .12Minstrels .14

poesIe per CamIllo sbarbaro I. Caffé a Rapallo .15II. Epigramma .17

Quasi una fantasia .18

sarCofaghI Dove se ne vanno le ricciute donzelle .19Ora sia il tuo passo .20Il fuoco che scoppietta .21Ma dove cercare la tomba .22

altrI versI Vento e bandiere .23Fuscello teso dal muro .24

ossI DI seppIa .25

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato .27Meriggiare pallido e assorto .28

Non rifugiarti nell’ombra .29

InDICe generale

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ossI DI seppIa

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InDICe generale

merIggI e ombre .61

I .63Fine dell’infansia .65

l’agave sullo sCoglIo O rabido ventare di scirocco .69Ed ora sono spariti i circoli d’ansia .70S’è rifatta la calma .71

Vasca .72egloga .73Flussi .75Clivo .77

II .79arsenio .81

III .83Crisalide .85Marezzo .88Casa sul mare .91I morti .93Delta .95Incontro .96

rIvIere .99

Riviere .101

sCheDe .CvII

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida .30Mia vita, a te non chiedo lineamenti .31Portami il girasole ch’io lo trapianti .32Spesso il male di vivere ho incontrato .33Ciò che di me sapeste .34Là fuoresce il Tritone .35So l’ora in cui la faccia più impassibile .36Gloria del disteso mezzogiorno .37Felicità raggiunta, si cammina .38Il canneto rispunta i suoi cimelli .39Forse un mattino andando in un’aria di vetro .40Valmorbia, discorrevano il tuo fondo .41Tentava la vostra mano la tastiera .42La farandola dei fanciulli sul greto .43Debole sistro al vento .44Cigola la carrucola del pozzo .45Arremba su la strinata proda .46Upupa, ilare uccello calunniato .47Sul muro grafito .48

meDIterraneo .49

A vortice s’abbatte .51Antico, sono ubriacato dalla voce .52Scendendo qualche volta .53Ho sostato talvolta nelle grotte .54Giunge a volte, repente .55Noi non sappiamo quale sortiremo .56Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale .57Potessi almeno costringere .58Dissipa tu se lo vuoi .59

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In lImIne

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Godi se il vento ch’entra nel pomariovi rimena l’ondata della vita:qui dove affonda un mortoviluppo di memorieorto non era, ma reliquiario.

Il frullo che tu senti non è un volo,ma il commuoversi dell’eterno grembo;vedi che si trasforma questo lembodi terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’erto muro.Se procedi t’imbattitu forse nel fantasma che ti salva:si compongono qui le storie, gli attiscancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella reteche ci stringe, tu balza fuori, fuggi!Va, per te l’ho pregato, - ora la setemi sarà lieve, meno acre la ruggine...

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montalemovImentI

movImentI

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montalemovImentI

I limoni

ascoltami,i poeti laureatisi muovono soltanto fra le piantedai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.io, per me, amo le strade che riescono agli erbosifossi dove in pozzangheremezzo seccate agguantano i ragazziqualche sparuta anguilla:le viuzze che seguono i ciglioni,discendono tra i ciuffi delle cannee mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccellisi spengono inghiottite dall’azzurro:più chiaro si ascolta il susurrodei rami amici nell’aria che quasi non si muove,e i sensi di quest’odoreche non sa staccarsi da terrae piove in petto una dolcezza inquieta.Qui delle divertite passioniper miracolo tace la guerra,qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezzaed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le coses’abbandonano e sembrano vicinea tradire il loro ultimo segreto,talora ci si aspettadi scoprire uno sbaglio di Natura,il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,il filo da disbrogliare che finalmente ci mettanel mezzo di una verità.

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montalemovImentI

Lo sguardo fruga d’intorno,la mente indaga accorda disuniscenel profumo che dilagaquando il giorno più languisce.Sono i silenzi in cui si vedein ogni ombra umana che si allontanaqualche disturbata divinità.

Ma l’illusione manca e ci riporta il temponelle città rumorose dove l’azzurro si mostrasoltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.La pioggia stanca la terra, di poi; s’affoltail tedio dell’inverno sulle case,la luce si fa avara - amara l’anima.Quando un giorno da un malchiuso portonetra gli alberi di una corteci si mostrano i gialli dei limoni;e il gelo del cuore si sfa,e in petto ci scroscianole loro canzonile trombe d’oro della solarità.

Corno inglese

il vento che stasera suona attento- ricorda un forte scotere di lame -gli strumenti dei fitti alberi e spazzal’orizzonte di ramedove strisce di luce si protendonocome aquiloni al cielo che rimbomba(Nuvole in viaggio, chiarireami di lassù! d’alti eldoradimalchiuse porte!)e il mare che scaglia a scaglia,livido, muta colorelancia a terra una trombadi schiume intorte;il vento che nasce e muorenell’ora che lenta s’annerasuonasse te pure staserascordato strumento,cuore.

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Falsetto

esterina, i vent’anni ti minacciano,grigiorosea nubeche a poco a poco in sé ti chiude.Ciò intendi e non paventi.Sommersa ti vedremonella fumea che il ventolacera o addensa, violento.Poi dal fiotto di cenere usciraiadusta più che mai,proteso a un’avventura più lontanal’intento viso che assembral’arciera diana.Salgono i venti autunni,t’avviluppano andate primavere;ecco per te rintoccaun presagio nell’elisie sfere.Un suono non ti rendaqual d’incrinata broccapercossa!; io prego siaper te concerto ineffabiledi sonagliere.

La dubbia dimane non t’impaura.Leggiadra ti distendisullo scoglio lucente di salee al sole bruci le membra.Ricordi la lucertolaferma sul masso brullo;te insidia giovinezza,quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.L’acqua’ è la forza che ti tempra,nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:

noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolocome un’equorea creaturache la salsedine non intaccama torna al lito più pura.

Hai ben ragione tu!Non turbaredi ubbie il sorridente presente.La tua gaiezza impegna già il futuroed un crollar di spalledirocca i fortilizîdel tuo domani oscuro.T’alzi e t’avanzi sul ponticelloesiguo, sopra il gorgo che stride:il tuo profilo s’incidecontro uno sfondo di perla.esiti a sommo del tremulo asse,poi ridi, e come spiccata da un ventot’abbatti fra le bracciadel tuo divino amico che t’afferra.

Ti guardiamo noi, della razzadi chi rimane a terra.

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montalemovImentI

Minstrealsda C. Debussy

Ritornello, rimbalzitra le vetrate d’afa dell’estate.

acre groppo di note soffocate,riso che non esplodema trapunge le ore vuotee lo suonano tre avanzi di baccanalevestiti di ritagli di giornali,con istrumenti mai veduti,simili a strani imbutiche si gonfiano a volte e poi s’afflosciano.

Musica senza rumoreche nasce dalle strade,s’innalza a stento e ricade,e si colora di tinteora scarlatte ora biade,e inumidisce gli occhi, così che il mondosi vede come socchiudendo gli occhinuotar nel biondo.

Scatta ripiomba sfuma,poi riapparesoffocata e lontana: si consuma.Non s’ode quasi, si respira. Brucitu pure tra le lastre dell’estate,cuore che ti smarrisci! ed ora incautoprovi le ignote note sul tuo flauto.

poesIe per CamIllo sbarbaro

I

Caffé a Rapallo

Natale nel tepidariolustrante, truccato dai fumiche svolgono tazze, velatotremore di lumi oltre i chiusicristalli, profili di femminenel grigio, tra lampi di gemmee screzi di sete... Son giuntea queste native tue spiagge,le nuove Sirene!; e qui manchiCamillo, amico, tu storicodi cupidige e di brividi.

S’ode grande frastuono nella via.

e’ passata di fuoril’indicibile musicadelle trombe di lamae dei piattini arguti dei fanciulli:è passata la musica innocente.

Un mondo gnomo ne andavacon strepere di muletti e di carriole,tra un lagno di montonidi cartapesta e un bagliaredi sciabole fasciate di stagnole.Passarono i Generalicon le feluche di cartonee impugnavano aste di torroni;

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montalemovImentI

poi furono i gregaricon moccoli e lampioni,e le tinnanti scatolech’ànno il suono più trito,tenue rivo che incantal’animo dubitoso:(meraviglioso udivo).

L’orda passò col rumored’una zampante greggiache il tuono recente impaura.L’accolse la pasturache per noi più non verdeggia.

II

epigramma

Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicoloricarte e ne trae navicelle che affida alla fanghigliamobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori.Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,che non si perda; guidala a un porticello di sassi.

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montalemovImentI

Quasi una fantasia

Raggiorna, lo presento da un albore di frustoargento alle pareti:lista un barlume le finestre chiuse.Torna l’avvenimentodel sole e le diffusevoci, i consueti strepiti non porta.

Perché? Penso ad un giorno d’incantesimoe delle giostre d’ore troppo ugualimi ripago. Traboccherà la forzache mi turgeva, incosciente mago,da grande tempo. ora m’affaccerò,subisserò alte case, spogli viali.

avrò di contro un paese d’intatte nevima lievi come viste in un arazzo.Scivolerà dal cielo bioccoso un tardo raggio.Gremite d’invisibile luce selve e collinemi diranno l’elogio degl’ilari ritorni.

Lieto leggerò i nerisegni dei rami sul biancocome un essenziale alfabeto.Tutto il passato in un puntodinanzi mi sarà comparso.Non turberà suono alcuno,quest’allegrezza solitaria.Filerà nell’ariao scenderà s’un palettoqualche galletto di marzo.

sarCofaghI

dove se ne vanno le ricciute donzelleche recano le colme anfore su le spalleed hanno il fermo passo sì leggero;e in fondo uno sbocco di valleinvano attende le bellecui adombra una pergola di vignae i grappoli ne pendono oscillando.il sole che va in alto,le intraviste pendicinon han tinte: nel blandominuto la natura fulminataatteggia le felicisue creature, madre non matrigna,in levità di forme.Mondo che dorme o mondo che si gloriad’immutata esistenza, chi può dire?,uomo che passi, e tu dagliil meglio ramicello del tuo orto.Poi segui: in questa vallenon è vicenda di buio e di luce.Lungi di qui la tua via ti conduce,non c’è asilo per te, sei troppo morto:seguita il giro delle tue stelle.e dunque addio, infanti ricciutelle,portate le colme anfore su le spalle.

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montalemovImentI

ora sia il tuo passo più cauto: a un tiro di sassodi qui ti si preparauna più rara scena.La porta corrosa d’un tempiettoè rinchiusa per sempre.Una grande luce è diffusasull’erbosa soglia.e qui dove peste umanenon suoneranno, o fittizia doglia,vigila steso al suolo un magro cane. Mai più si muoveràin quest’ora che s’indovina afosa.Sopra il tetto s’affacciauna nuvola grandiosa.

il fuoco che scoppiettanel caminetto verdeggiae un’aria oscura gravasopra un mondo indeciso. Un vecchio stancodorme accanto a un alareil sonno dell’abbandonato.in questa luce abissaleche finge il bronzo, non ti svegliareaddormentato! e tu camminanteprocedi piano; ma primaun ramo aggiungi alla fiammadel focolare e una pignamatura alla cesta gettatanel canto: ne cadono a terrale provvigioni serbatepel viaggio finale.

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montalemovImentI

Ma dove cercare la tombadell’amico fedele e dell’amante;quella del mendicante e del fanciullo;dove trovare un asiloper codesti che accolgono la bracedell’originale fiammata;oh da un segnale di pace lieve come un trastullol’urna ne sia effigiata!Lascia la taciturna folla di pietraper le derelitte lastrech’ànno talora incisoil simbolo che più turbapoiché il pianto ed il risoparimenti, ne sgorgano, gemelli.Lo guarda il triste artiere che al lavoro si recae già gli batte ai polsi una volontà cieca.Tra quelle cerca un fregio primordialeche sappia pel ricordo che ne avanzatrarre l’anima rudeper vie di dolci esigli:un nulla, un girasole che si schiudeed intorno una danza di conigli...

altrI versI

Vento e bandiere

La folata che alzò l’amaro aromadel mare alle spirali delle valli,e t’investì, ti scompigliò la chioma,groviglio breve contro il cielo pallido;

la raffica che t’incollò la vestee ti modulò rapida a sua imagine,com’è tornata, te lontana, a questepietre che sporge il monte alla voragine;

e come spenta la furia briacaritrova ora il giardino il sommesso alitoche ti cullò, riversa sull’amaca,tra gli alberi, ne’ tuoi voli senz’ali.

ahimè, non mai due volte configurail tempo in egual modo i grani! e scampon’è: ché, se accada, insieme alla naturala nostra fiaba brucerà in un lampo.

Sgorgo che non s’addoppia, - ed or fa vivoun gruppo di abitati che distesiallo sguardo sul fianco d’un declivosi parano di gale e di palvesi.

il mondo esiste... Uno stupore arrestail cuore che ai vaganti incubi cede,messaggeri del vespero: e non credeche gli uomini affamati hanno una festa.

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montalemovImentI

Fuscello teso dal murosì come l’indice d’unameridiana che scande la carrieradel sole e la mia, breve;in una additi i crepuscolie alleghi sul tonacoche imbeve la luce d’accesiriflessi - e t’attedia la ruotache in ombra sul piano dispieghi,t’è noja infinita la voltache stacca da te una smarritasembianza come di fumoe grava con l’infittitasua cupola mai dissolta.

Ma tu non adombri stamanepiù il tuo sostegno ed un veloche nella notte hai strappatoa un’orda invisibile pendedalla tua cima e risplendeai primi raggi. Laggiù,dove la piana si scopredel mare, un trealberi caricodi ciurma e di preda reclinail bordo a uno spiro, e via scivola.Chi è in alto e s’affaccia s’avvedeche brilla la tolda e il timonenell’acqua non scava una traccia.

ossI DI seppIa

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Non chiederci la parola che squadri da ogni latol’animo nostro informe, e a lettere di fuocolo dichiari e risplenda come un crocoperduto in mezzo a un polveroso prato.

ah l’uomo che se ne va sicuro,agli altri ed a se stesso amico,e l’ombra sua non cura che la canicolastampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

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Meriggiare pallido e assortopresso un rovente muro d’orto,ascoltare tra i pruni e gli sterpischiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la vecciaspiar le file di rosse formichech’ora si rompono ed ora s’intreccianoa sommo di minuscole biche.

osservare tra frondi il palpitarelontano di scaglie di marementre si levano tremuli scricchidi cicale dai calvi picchi.

e andando nel sole che abbagliasentire con triste meravigliacom’è tutta la vita e il suo travaglioin questo seguitare una muragliache ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Non rifugiarti nell’ombradi quel fólto di verzuracome il falchetto che strapiombafulmineo nella caldura.

e’ ora di lasciare il cannetostento che pare s’addormae di guardare le formedella vita che si sgretola.

Ci muoviamo in un pulviscolomadreperlaceo che vibra,in un barbaglio che invischiagli occhi e un poco ci sfibra.

Pure, lo senti, nel gioco d’aride ondeche impigra in quest’ora di disagionon buttiamo già in un gorgo senza fondole nostre vite randage.

Come quella chiostra di rupiche sembra sfilaccicarsiin ragnatele di nubi;tali i nostri animi arsi

in cui l’illusione bruciaun fuoco pieno di ceneresi perdono nel serenodi una certezza: la luce.

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a K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpidascorta per avventura tra le petraie d’un greto,esiguo specchio in cui guardi un’ellera i suoi corimbi;e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,se dal tuo volto s’esprime libera un’anima ingenua,o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenuae recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigiesommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,e che il tuo aspetto s’insinua nella mia memoria grigiaschietto come la cima d’una giovinetta palma...

Mia vita, a te non chiedo lineamentifissi, volti plausibili o possessi.Nel tuo giro inquieto ormai lo stessosapore han miele e assenzio.

il cuore che ogni moto tiene a vileraro è squassato da trasalimenti.Così suona talvolta nel silenziodella campagna un colpo di fucile.

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Portami il girasole ch’io lo trapiantinel mio terreno bruciato dal salino,e mostri tutto il giorno agli azzurri specchiantidel cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,si esauriscono i corpi in un fluiredi tinte: queste in musiche. Svanireè dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conducedove sorgono bionde trasparenzee vapora la vita quale essenza;portami il girasole impazzito di luce.

Spesso il male di vivere ho incontrato:era il rivo strozzato che gorgoglia,era l’incartocciarsi della fogliariarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigioche schiude la divina indifferenza:era la statua nella sonnolenzadel meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

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Ciò che di me sapestenon fu che la scialbatura,la tonaca che rivestela nostra umana ventura.

ed era forse oltre il telol’azzurro tranquillo;vietava il limpido cielosolo un sigillo.

o vero c’era il falòticomutarsi della mia vita,lo schiudersi d’un’ignitazolla che mai vedrò.

Restò così questa scorzala vera mia sostanza;il fuoco che non si smorzaper me si chiamò: l’ignoranza.

Se un’ombra scorgete, non èun’ombra - ma quella io sono.Potessi spiccarla da me,offrirvela in dono.

PortovenereLà fuoresce il Tritonedai flutti che lambisconole soglie d’un cristianotempio, ed ogni ora prossimaè antica. ogni dubbiezzasi conduce per manocome una fanciulletta amica.

Là non è chi si guardio stia di sé in ascolto.Quivi sei alle originie decidere è stolto:ripartirai più tardiper assumere un volto.

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So l’ora in cui la faccia più impassibileè traversata da una cruda smorfia:s’è svelata per poco una pena invisibile.Ciò non vede la gente nell’affollato corso.

Voi, mie parole, tradite invano il morsosecreto, il vento che nel cuore soffia.La più vera ragione è di chi tace.il canto che singhiozza è un canto di pace.

Gloria del disteso mezzogiornoquand’ombra non rendono gli alberi,e più e più si mostrano d’attornoper troppa luce, le parvenze, falbe.

il sole, in alto, - e un secco greto.il mio giorno non è dunque passato:l’ora più bella è di là dal murettoche rinchiude in un occaso scialbato.

L’arsura, in giro; un martin pescatorevolteggia s’una reliquia di vita.La buona pioggia è di là dallo squallore,ma in attendere è gioia più compita.

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Felicità raggiunta, si camminaper te su fil di lama.agli occhi sei barlume che vacilla,al piede, teso ghiaccio che s’incrina;e dunque non ti tocchi chi più t’ama.

Se giungi sulle anime invasedi tristezza e le schiari, il tuo mattinoè dolce e turbatore come i nidi delle cimase.Ma nulla paga il pianto del bambinoa cui fugge il pallone tra le case.

il canneto rispunta i suoi cimellinella serenità che non si ragna:l’orto assetato sporge irti ramellioltre i chiusi ripari, all’afa stagna.

Sale un’ora d’attesa in cielo, vacua,dal mare che s’ingrigia.Un albero di nuvole sull’acquacresce, poi crolla come di cinigia.

assente, come manchi in questa plagache ti presente e senza te consuma:sei lontana e però tutto divagadal suo solco, dirupa, spare in bruma.

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Forse un mattino andando in un’aria di vetro,arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:il nulla alle mie spalle, il vuoto dietrodi me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gittoalberi case colli per l’inganno consueto.Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zittotra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Valmorbia, discorrevano il tuo fondofioriti nuvoli di piante agli àsoli.Nasceva in noi, volti dal cieco caso,oblio del mondo.

Tacevano gli spari, nel grembo solitarionon dava suono che il Leno roco.Sbocciava un razzo su lo stelo, fiocolacrimava nell’aria.

Le notti chiare erano tutte un’albae portavano volpi alla mia grotta.Valmorbia, un nome - e ora nella scialbamemoria, terra dove non annotta.

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Tentava la vostra mano la tastiera,i vostri occhi leggevano sul fogliogl’impossibili segni; e franto eraogni accordo come una voce di cordoglio.

Compresi che tutto, intorno, s’intenerivain vedervi inceppata inerme ignaradel linguaggio più vostro: ne bruivaoltre i vetri socchiusi la marina chiara.

Passò nel riquadro azzurro una fugace danzadi farfalle; una fronda si scrollò nel sole.Nessuna cosa prossima trovava le sue parole,ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza.

La farandola dei fanciulli sul gretoera la vita che scoppia dall’arsura.Cresceva tra rare canne e uno sterpetoil cespo umano nell’aria pura.

il passante sentiva come un supplizioil suo distacco dalle antiche radici.Nell’età d’oro florida sulle sponde felicianche un nome, una veste, erano un vizio.

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debole sistro al ventod’una persa cicala,toccato appena e spentonel torpore ch’esala.

Dirama dal profondoin noi la venasegreta: il nostro mondosi regge appena.

Se tu l’accenni, all’ariabigia treman corrottele vestigiache il vuoto non ringhiotte.

il gesto indi s’annulla,tace ogni voce,discende alla sua focela vita brulla.

Cigola la carrucola del pozzo,l’acqua sale alla luce e vi si fonde.Trema un ricordo nel ricolmo secchio,nel puro cerchio un’immagine ride.accosto il volto a evanescenti labbri:si deforma il passato, si fa vecchio,appartiene ad un altro... ah che già stridela ruota, ti ridona all’atro fondo,visione, una distanza ci divide.

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arremba su la strinata prodale navi di cartone, e dormi,fanciulletto padrone: che non odatu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi.

Nel chiuso dell’ortino svolacchia il gufoe i fumacchi dei tetti sono pesi.L’attimo che rovina l’opera lenta dimesi giunge: ora incrina segreto, ora divelge in un buffo.Viene lo spacco; forse senza strepito.Chi ha edificato sente la sua condanna.È l’ora che si salva solo la barca in panna.amarra la tua flotta tra le siepi.

Upupa, ilare uccello calunniatodai poeti, che roti la tua crestasopra l’aereo stollo del pollaioe come un finto gallo giri al vento;nunzio primaverile, upupa, comeper te il tempo s’arresta,non muore più il Febbraio,come tutto di fuori si protendeal muover del tuo capo,aligero folletto, e tu lo ignori.

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Sul muro grafitodai poeti, che adombra i sedili raril’arco del cielo apparefinito.

Chi si ricorda più del fuoco ch’arseimpetuosonelle vene del mondo; - in un riposofreddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchinee la muraglia e l’usata strada.Nel futuro che s’apre le mattinesono ancorate come barche in rada.

meDIterraneo

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a vortice s’abbattesul mio capo reclinatoun suono d’agri lazzi.Scotta la terra percorsada sghembe ombre di pinastri,e al mare là in fondo fa velopiù che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompedal suolo che si avvena.Quando più sordo o meno il ribollio dell’acqueche s’ingorganoaccanto a lunghe secche mi raggiunge:o è un bombo talvolta ed un ripioveredi schiume sulle rocce.Come rialzo il viso, ecco cessarei ragli sul mio capo; e scoccareverso le strepeanti acque,frecciate biancazzurre, due ghiandaie.

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antico, sono ubriacato dalla vocech’esce dalle tue bocche quando si schiudonocome verdi campane e si ributtanoindietro e si disciolgono.La casa delle mie estati lontanet’era accanto, lo sai,là nel paese dove il sole cuocee annuvolano l’aria le zanzare.Come allora oggi in tua presenza impietro,mare, ma non più degnomi credo del solenne ammonimentodel tuo respiro. Tu m’hai detto primoche il piccino fermentodel mio cuore non era che un momentodel tuo; che mi era in fondola tua legge rischiosa: esser vasto e diversoe insieme fisso:e svuotarmi così d’ogni lorduracome tu fai che sbatti sulle spondetra sugheri alghe asteriele inutili macerie del tuo abisso.

Scendendo qualche voltagli aridi greppiormai divisi dall’umorosoautunno che li gonfiava,non m’era più in cuore la ruotadelle stagioni e il gocciaredel tempo inesorabile;ma bene il presentimentodi te m’empiva l’anima,sorpreso nell’ansimaredell’aria, prima immota,sulle rocce che orlavano il cammino.or, m’avvisavo, la pietravoleva strapparsi, protesaa un invisibile abbraccio;la dura materia sentivail prossimo gorgo, e pulsava;e i ciuffi delle avide cannedicevano all’acque nascoste,scrollando, un assentimento.Tu vastità riscattavianche il patire dei sassi:pel tuo tripudio era giustal’immobilità dei finiti.Chinavo tra le petraie,giungevano buffi salmastrial cuore; era la tesadel mare,un giuoco di anella.Con questa gioia precipitadal chiuso vallotto alla spiaggiala spersa pavoncella.

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Ho sostato talvolta nelle grotteche t’assecondano, vasteo anguste, ombrose e amare.Guardati dal fondo gli sbocchisegnavano architetturepossenti campite di cielo.Sorgevano dal tuo pettorombante aerei templi,guglie scoccanti luci:una città di vetro dentro l’azzurro nettovia via si discopriva da ogni caduco veloe il suo rombo non era che un susurro.Nasceva dal fiotto la patria sognata.dal subbuglio emergeva l’evidenza.L’esiliato rientrava nel paese incorrotto.Così, padre, dal tuo disfrenamentosi afferma, chi ti guardi, una legge severa.ed è vano sfuggirla: mi condannas’io lo tento anche un ciottoloróso sul mio cammino,impietrato soffrire senza nome,o l’informe rottameche gittò fuor del corso la fiumaradel vivere in un fitto di ramure e di strame.Nel destino che si preparac’è forse per me sosta,niun’altra minaccia.Questo ripete il flutto in sua furia incomposta,e questo ridice il filo della bonaccia.

Giunge a volte, repente,un’ora che il tuo cuore disumanoci spaura e dal nostro si divide.dalla mia la tua musica sconcorda,allora, ed è nemico ogni tuo moto.in me ripiego, vuotodi forze, la tua voce pare sorda.M’affisso nel pietriscoche verso te digradafino alla ripa acclive che ti sovrasta,franosa, gialla, solcatada strosce d’acqua piovana.Mia vita è questo secco pendio,mezzo non fine, strada aperta a sbocchidi rigagnoli, lento franamento.È dessa, ancora, questa piantache nasce dalla devastazionee in faccia ha i colpi del mare ed è sospesafra erratiche forze di venti.Questo pezzo di suolo non erbatos’è spaccato perché nascesse una margherita.in lei tìtubo al mare che mi offende,manca ancora il silenzio nella mia vita.Guardo la terra che scintilla,l’aria è tanto serena che s’oscura.e questa che in me cresceè forse la rancurache ogni figliuolo, mare, ha per il padre.

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Noi non sappiamo quale sortiremodomani, oscuro o lieto;forse il nostro camminoa non tócche radure ci addurràdove mormori eterna l’acqua di giovinezza;o sarà forse un discenderefino al vallo estremo,nel buio, perso il ricordo del mattino.ancora terre straniereforse ci accoglieranno: smarriremola memoria del sole, dalla menteci cadrà il tintinnare delle rime.oh la favola onde s’esprimela nostra vita, repentesi cangerà nella cupa storia che non si racconta!Pur di una cosa ci affidi,padre, e questa è: che un poco del tuo donosia passato per sempre nelle sillabeche rechiamo con noi, api ronzanti.Lontani andremo e serberemo un’ecodella tua voce, come si ricordadel sole l’erba grigianelle corti scurite, tra le case.e un giorno queste parole senza rumoreche teco educammo nutritedi stanchezze e di silenzi,parranno a un fraterno cuoresapide di sale greco.

avrei voluto sentirmi scabro ed essenzialesiccome i ciottoli che tu volvi,mangiati dalla salsedine;scheggia fuori del tempo, testimonedi una volontà fredda che non passa.altro fui: uomo intento che riguardain sé, in altrui, il bolloredella vita fugace - uomo che tardaall’atto, che nessuno, poi, distrugge.Volli cercare il maleche tarla il mondo, la piccola storturad’una leva che arrestal’ordegno universale; e tutti vidigli eventi del minutocome pronti a disgiungersi in un crollo.Seguìto il solco d’un sentiero m’ebbil’opposto in cuore, col suo invito; e forsem’occorreva il coltello che recide,la mente che decide e si determina.altri libri occorrevanoa me, non la tua pagina rombante.Ma nulla so rimpiangere: tu sciogliancora i groppi interni col tuo canto.il tuo delirio sale agli astri ormai.

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Potessi almeno costringerein questo mio ritmo stentoqualche poco del tuo vaneggiamento;dato mi fosse accordarealle tue voci il mio balbo parlare: -io che sognava rapirtile salmastre parolein cui natura ed arte si confondono,per gridar meglio la mia malinconiadi fanciullo invecchiato che non doveva pensare.ed invece non ho che le lettere frustedei dizionari, e l’oscuravoce che amore detta s’affioca,si fa lamentosa letteratura.Non ho che queste paroleche come donne pubblicates’offrono a chi le richiede;non ho che queste frasi stancateche potranno rubarmi anche domanigli studenti canaglie in versi veri.ed il tuo rombo cresce, e si dilataazzurra l’ombra nuova.M’abbandonano a prova i miei pensieri.Sensi non ho; né senso. Non ho limite.

dissipa tu se lo vuoiquesta debole vita che si lagna,come la spugna il fregoeffimero di una lavagna.M’attendo di ritornare nel tuo circolo,s’adempia lo sbandato mio passare.La mia venuta era testimonianzadi un ordine che in viaggio mi scordai,giurano fede queste mie parolea un evento impossibile, e lo ignorano.Ma sempre che traudiila tua dolce risacca su le prodesbigottimento mi presequale d’uno scemato di memoriaquando si risovviene del suo paese.Presa la mia lezionepiù che dalla tua gloriaaperta, dall’ansareche quasi non dà suonodi qualche tuo meriggio desolato,a te mi rendo in umiltà. Non sonoche favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,questo, non altro, è il mio significato.

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Fine dell’infanzia

Rombando s’ingolfavadentro l’arcuata ripaun mare pulsante, sbarrato da solchi,cresputo e fioccoso di spume.Di contro alla foced’un torrente che straboccavail flutto ingialliva.Giravano al largo i grovigli dell’alighee tronchi d’alberi alla deriva.

Nella conca ospitaledella spiaggianon erano che poche casedi annosi mattoni, scarlatte,e scarse capellaturedi tamerici pallidepiù d’ora in ora; stente creatureperdute in un orrore di visioni.Non era lieve guardarleper chi leggeva in quelleapparenze malfidela musica dell’anima inquietache non si decide.

Pure colline chiudevano d’intornomarina e case; ulivi le vestivanoqua e là disseminati come greggi,o tenui come il fumo di un casaleche veleggila faccia candente del cielo.

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Tra macchie di vigneti e di pinete,petraie si scorgevanocalve e gibbosi dorsidi collinette: un uomoche là passasse ritto s’un mulettonell’azzurro lavato era stampatoper sempre - e nel ricordo.

Poco s’andava oltre i crinali prossimidi quei monti; varcarli pur non osala memoria stancata.So che strade correvano su fossiincassati, tra garbugli di spini;mettevano a radure, poi tra botri,e ancora dilungavanoverso recessi madidi di muffe,d’ombre coperti e di silenzi.Uno ne penso ancora con meravigliadove ogni umano impulsoappare seppellitoin aura millenaria.Rara diroccia qualche bava d’ariasino a quell’orlo di mondo che ne strabilia.

Ma dalle vie del monte si tornava.Riuscivano queste a un’instabilevicenda d’ignoti aspettima il ritmo che li governa ci sfuggiva.ogni attimo bruciavanegl’istanti futuri senza tracce.Vivere era ventura troppo nuovaora per ora, e ne batteva il cuore.Norma non v’era,solco fisso, confronto,

a sceverare gioia da tristezza.Ma riaddotti dai viottolialla casa sul mare, al chiuso asilodella nostra stupita fanciullezza,rapido rispondevaa ogni moto dell’anima un consensoesterno, si vestivano di nomile cose, il nostro mondo aveva un centro.

eravamo nell’età verginalein cui le nubi non sono cifre o siglema le belle sorelle che si guardano viaggiare.d’altra semenza uscitad’altra linfa nutritache non la nostra, debole, pareva la natura.in lei l’asilo, in leil’estatico affisare; ella il portentocui non sognava, o a pena, di raggiungerel’anima nostra confusa.eravamo nell’età illusa.

Volarono anni corti come giorni,sommerse ogni certezza un mare floridoe vorace che dava ormai l’aspettodubbioso dei tremanti tamarischi.Un’alba dové sorgere che un rigodi luce su la sogliaforbita ci annunziava come un’acqua;e noi certo corremmoad aprire la portastridula sulla ghiaia del giardino.L’inganno ci fu palese.Pesanti nubi sul torbato mareche ci bolliva in faccia, tosto apparvero.

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era in aria l’attesadi un procelloso evento.Strania anch’essa la plagadell’infanzia che esploraun segnato cortile come un mondo!Giungeva anche per noi l’ora che indaga.La fanciullezza era morta in un giro a tondo.

ah il giuoco dei cannibali nel canneto,i mustacchi di palma, la raccoltadeliziosa dei bossoli sparati!Volava la bella età come i barchetti sul filodel mare a vele colme.Certo guardammo muti nell’attesadel minuto violento;poi nella finta calmasopra l’acque scavatedové mettersi un vento.

l’agave sullo sCoglIo

Scirocco

o rabido ventare di sciroccoche l’arsiccio terreno gialloverdebruci;e su nel cielo pienodi smorte lucitrapassa qualche bioccodi nuvola, e si perde.ore perplesse, brividid’una vita che fuggecome acqua tra le dita;inafferrati eventi,luci - ombre, commovimentidelle cose malferme della terra;oh alide ali dell’ariaora son iol’agave che s’abbarbica al crepacciodello scoglioe sfugge al mare da le braccia d’algheche spalanca ampie gole e abbranca rocce;e nel fermentod’ogni essenza, coi miei racchiusi bocciche non sanno più esplodere oggi sentola mia immobilità come un tormento.

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Tramontana

ed ora sono spariti i circoli d’ansiache discorrevano il lago del cuoree quel friggere vasto della materiache discolora e muore.oggi una volontà di ferro spazza l’aria,divelle gli arbusti, strapazza i palmizie nel mare compresso scavagrandi solchi crestati di bava.ogni forma, si squassa nel subbugliodegli elementi; è un urlo solo, un mugliodi scerpate esistenze: tutto schiantal’ora che passa: viaggiano la cupola del cielonon sai se foglie o uccelli - e non son più.e tu che tutta ti scrolli fra i tonfidei venti disfrenatie stringi a te i bracci gonfidi fiori non ancora nati;come senti nemicigli spiriti che la convulsa terrasorvolano a sciami,mia vita sottile, e come amioggi le tue radici.

Maestrale

S’è rifatta la calmanell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.Sulla costa quietata, nei broli, qualche palmaa pena svetta.

Una carezza disfiorala linea del mare e la scompigliaun attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancorail cammino ripiglia.

Lameggia nella chiariala vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beatae specchia nel suo cuore vasto codesta povera miavita turbata.

o mio tronco che additi,in questa ebrietudine tarda,ogni rinato aspetto coi germogli fioritisulle tue mani, guarda:

sotto l’azzurro fittodel cielo qualche uccello di mare se ne va;né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:“più in là”!

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Vasca

Passò sul tremulo vetroun riso di belladonna fiorita,di tra le rame urgevano le nuvole,dal fondo ne riassommavala vista fioccosa e sbiadita.alcuno di noi tirò un ciottoloche ruppe la tesa lucente:le molli parvenze s’infransero.

Ma ecco, c’è altro che strisciaa fior della spera rifatta liscia:di erompere non ha virtù,vuol vivere e non sa come;se lo guardi si stacca, torna in giù:è nato e morto, e non ha avuto un nome.

egloga

Perdersi nel bigio ondosodei miei ulivi era buononel tempo andato - loquacidi riottanti uccellie di cantanti rivi.Come affondava il tallonenel suolo screpolato,tra le lamelle d’argentodell’esili foglie. Sconnessinascevano in mente i pensierinell’aria di troppa quiete.

ora è finito il cerulo marezzo.Si getta il pino domesticoa romper la grigiura;brucia una toppa di cieloin alto, un ragnatelosi squarcia al passo: si svincolad’attorno un’ora fallita.È uscito un rombo di treno,non lunge, ingrossa. Uno sparosi schiaccia nell’etra vetrino.Strepita un volo come un acquazzone,venta e vanisce bruciatauna bracciata di amaratua scorza, istante: discostaesplode furibonda una canea.

Tosto potrà rinascere l’idillio.S’è ricomposta la fase che pendedal cielo, riescono bendeleggere fuori...;

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il fitto dei fagiuolin’è scancellato e involto.Non serve più rapid’ale,né giova proposito baldo;non durano che le solenni cicalein questi saturnali del caldo.Va e viene un istante in un foltouna parvenza di donna.È disparsa, non era una Baccante.

Sul tardi corneggia la luna.Ritornavamo dai nostrivagabondari infruttuosi.Non si leggeva più in facciaal mondo la tracciadella frenesia duratail pomeriggio. Turbatidiscendevamo tra i vepri.Nei miei paesi a quell’oracominciano a fischiare le lepri.

Flussi

i fanciulli con gli archettispaventano gli scriccioli nei buchi.Cola il pigro sereno nel rialeche l’accidia sorrade,pausa che gli astri donano ai malvivicamminatori delle bianche strade.alte, tremano guglie di sambuchie sovrastano al poggiocui domina una statua dell’estatefatta camusa da lapidazioni;e su lei cresce un roggiodi rampicanti ed un ronzio di fuchi.Ma la dea mutilata non s’affacciae ogni cosa si tende alla flottigliadi carta che discende lenta il vallo.Brilla in aria una freccia,si configge s’un palo, oscilla tremula.La vita è questo scialodi triti fatti, vanopiù che crudele. Tornanole tribù dei fanciulli con le fiondese è scorsa una stagione od un minuto,e i morti aspetti scoprono immutatise pur tutto è dirutoe più dalla sua rama non dipendeil frutto conosciuto.- Ritornano i fanciulli...; così un giornoil giro che governala nostra vita ci addurrà il passatolontano, franto e vivido, stampatosopra immobili tende

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da un’ignota lanterna.-e ancora si distendeun dòmo celestino ed appannatosul fitto bulicame del fossato:e soltanto la statuasa che il tempo precipita e s’infrascavie più nell’accesa edera.e tutto scorre nella gran discesae fiotta il fosso impetuoso tal ches’increspano i suoi specchi:fanno naufragio i piccoli sciabecchinei gorghi dell’acquiccia insaponata.addio! - fischiano pietre tra le fronde,la rapace fortuna è già lontana,cala un’ora, i suoi volti riconfonde,-e la vita è crudele più che vana.

Clivo

Viene un suono di buccinedal greppo che scoscende,discende verso il mareche tremola e si fende per accoglierlo.Cala nella ventosa golacon l’ombre la parolache la terra dissolve sui frangenti;si dismemora il mondo e può rinascere.Con le barche dell’albaspiega la luce le sue grandi velee trova stanza in cuore la speranza.Ma ora lungi è il mattino,sfugge il chiarore e s’adunasovra eminenze e frondi,e tutto è più raccolto e più vicinocome visto a traverso di una cruna;ora è certa la fine,e s’anche il vento tacesenti la lima che segaassidua la catena che ci lega.

Come una musicale franadivalla il suono, s’allontana.Con questo si disperdono le accoltevoci dalle volutearide dei crepacci;il gemito delle pendìe,là tra le viti che i laccidelle radici stringono.il clivo non ha più vie,le mani s’afferrano ai ramidei pini nani; poi trema

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e scema il bagliore del giorno;e un ordine discende che districadai confinile cose che non chiedonoormai che di durare, di persisterecontente dell’infinita fatica;un crollo di pietrame che dal cielos’inabissa alle prode...

Nella sera distesa appena, s’odeun ululo di corni, uno sfacelo.

II

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arsenio

i turbini sollevano la polveresui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzideserti, ove i cavalli incappucciatiannusano la terra, fermi innanziai vetri luccicanti degli alberghi.Sul corso, in faccia al mare, tu discendiin questo giornoor piovorno ora acceso, in cui par scattia sconvolgerne l’ore uguali,strette in trama, un ritornellodi castagnette.

È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.discendi all’orizzonte che sovrastauna tromba di piombo, alta sui gorghi,più d’essi vagabonda: salso nembovorticante, soffiato dal ribelleelemento alle nubi; fa che il passosu la ghiaia ti scricchioli e t’inciampiil viluppo dell’alghe: quell’istanteè forse, molto atteso, che ti scampidal finire il tuo viaggio, anello d’unacatena, immoto andare, oh troppo notodelirio, arsenio, d’immobilità...

ascolta tra i palmizi il getto tremulodei violini, spento quando rotolail tuono con un fremer di lamierapercossa; la tempesta è dolce quandosgorga bianca la stella di Canicolanel cielo azzurro e lunge par la serach’è prossima: se il fulmine la incide,

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IIIdirama come un albero preziosoentro la luce che s’arrosa: e il timpanodegli tzigani è il rombo silenzioso.

discendi in mezzo al buio che precipitae muta il mezzogiorno in una nottedi globi accesi, dondolanti a riva,-e fuori, dove un’ombra sola tienemare e cielo, dai gozzi sparsi palpital’acetilene - finché goccia trepidoil cielo, fuma il suolo che s’abbevera,tutto d’accanto ti sciaborda, sbattonole tende molli, un frùscio immenso radela terra, giù s’afflosciano stridendole lanterne di carta sulle strade.

Così sperso tra i vimini e le stuoiegrondanti, giunco tu che le radicicon sé trascina, viscide, non maisvelte, tremi di vita e ti protendia un vuoto risonante di lamentisoffocati, la tesa ti ringhiottedell’onda antica che ti volge; e ancoratutto che ti riprende, strada porticomura specchi ti figge in una solaghiacciata moltitudine di morti,e se un gesto ti sfiora, una parolati cade accanto, quello è forse, arsenio,nell’ora che si scioglie, il cenno d’unavita strozzata per te sorta, e il ventola porta con la cenere degli astri.

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Crisalide

L’albero verdecuposi stria di giallo tenero e s’ingromma.Vibra nell’aria una pietà per l’avideradici, per le tumide cortecce.Son vostre queste piantescarse che si rinnovanoall’alito d’aprile, umide e liete.Per me che vi contemplo da quest’ombra,altro cespo riverdica, e voi siete.

ogni attimo vi porta nuove frondee il suo sbigottimento avanza ogni altragioia fugace; viene a impetuose ondela vita a questo estremo angolo d’orto.Lo sguardo ora vi cade su le zolle;una risacca di memorie giungeal vostro cuore e quasi lo sommerge.Lunge risuona un grido: ecco precipitail tempo, spare con risucchi rapiditra i sassi, ogni ricordo è spento; ed iodall’oscuro mio canto mi protendoa codesto solare avvenimento.

Voi non pensate ciò che vi rapivacome oggi, allora, il tacito compagnoche un meriggio lontano vi portava.Siete voi la mia preda, che m’offriteun’ora breve di tremore umano.Perderne, non vorrei neppure un attimo:è questa la mia parte, ogni altra è vana.La mia ricchezza è questo sbattimentoche vi trapassa e il viso

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in alto vi rivolge; questo lentogiro d’occhi che ormai sanno vedere.

Così va la certezza d’un momentocon uno sventolio di tende e di alberitra le case; ma l’ombra non dissolveche vi reclama, opaca. M’appariteallora, come me, nel limbo squallidodelle monche esistenze; e anche la vostrarinascita è uno sterile segreto,un prodigio fallito come tuttiquelli che ci fioriscono d’accanto.

e il flutto che si scopre oltre le sbarrecome ci parla a volte di salvezza;come può sorgere agilel’illusione, e sciogliere i suoi fumi.Vanno a spire sul mare, ora si fondonosull’orizzonte in foggia di golette.Spicca una d’esse un volo senza rombo,l’acque di piombo come alcione profugorade. il sole s’immerge nelle nubi,l’ora di febbre, trepida, si chiude.Un glorioso affanno senza strepitici batte in gola: nel meriggio afosospunta la barca di salvezza, è giunta:vedila che sciaborda tra le secche,esprime un suo burchiello che si volgeal docile frangente - e là ci attende.

ah crisalide, com’è amara questatortura senza nome che ci volvee ci porta lontani - e poi non restanoneppure le nostre orme sulla polvere;

e noi andremo innanzi senza smuovereun sasso solo della gran muraglia;e forse tutto è fisso, tutto è scritto,e non vedremo sorgere per viala libertà, il miracolo,il fatto che non era necessario!

Nell’onda e nell’azzurro non è scia.Sono mutati i segni della prodadianzi raccolta come un dolce grembo.il silenzio ci chiude nel suo lemboe le labbra non s’aprono per direil patto ch’io vorreistringere col destino: di scontarela vostra gioia con la mia condanna.È il voto che mi nasce ancora in petto,poi finirà ogni moto. Penso alloraalle tacite offerte che sostengonole case dei viventi; al cuore che abdicaperché rida un fanciullo inconsapevole;al taglio netto che recide, al rogomorente che s’avvivad’un arido paletto, e ferve trepido.

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Marezzo

aggotti, e già la barca si sbilanciae il cristallo dell’acque si smeriglia.S’è usciti da una grotta a questa ranciamarina che uno zefiro scompiglia.

Non ci turba, come anzi, nell’oscuro,lo sciame che il crepuscolo sparpaglia,dei pipistrelli; e il remo che scandaglial’ombra non urta più il roccioso muro.

Fuori è il sole: s’arrestanel suo giro e fiammeggia.il cavo cielo se ne illustra ed estua,vetro che non si scheggia.

Un pescatore da un canotto filala sua lenza nella corrente.Guarda il mondo del fondo che si profilacome sformato da una lente.

Nel guscio esiguo che sciaborda,abbandonati i remi agli scalmi,fa che ricordo non ti rimordache torbi questi meriggi calmi.

Ci chiudono d’attorno sciami e svoli,è l’aria un’ala morbida.dispaiono: la troppa luce intorbida.Si struggono i pensieri troppo soli.

Tutto fra poco si farà più ruvido,fiorirà l’onda di più cupe strisce.

ora resta così, sotto il diluviodel sole che finisce.

Un ondulamento sovverteforme confini resi astratti:ogni forza decisa già divertedal cammino. La vita cresce a scatti.

È come un falò senza fuocoche si preparava per chiari segni:in questo lume il nostro si fa fioco,in questa vampa ardono volti e impegni.

disciogli il cuore gonfionell’aprirsi dell’onda;come una pietra di zavorra affondail tuo nome nell’acque con un tonfo!

Un astrale delirio si disfrena,un male calmo e lucente.Forse vedremo l’ora che rasserenavenirci incontro sulla spera ardente.

digradano su noi pendicidi basse vigne, a piane.Quivi stornellano spigolatricicon voci disumane.

oh la vendemmia estiva,la stortura nel corsodelle stelle! - e da queste in noi derivauno stupore tinto di rimorso.

Parli e non riconosci i tuoi accenti.

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La memoria ti appare dilavata.Sei passata e pur sentila tua vita consumata.

ora, che avviene?, tu riprovi il pesodi te, improvvise gravanosui cardini le cose che oscillavano,e l’incanto è sospeso.

ah qui restiamo, non siamo diversi.immobili così. Nessuno ascoltala nostra voce più. Così sommersiin un gorgo d’azzurro che s’infolta.

Casa sul mare

il viaggio finisce qui:nelle cure meschine che dividonol’anima che non sa più dare un grido.ora i minuti sono eguali e fissicome i giri di ruota della pompa.Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

il viaggio finisce a questa spiaggiache tentano gli assidui e lenti flussi.Nulla disvela se non pigri fumila marina che tramano di conchei soffi leni: ed è raro che appaianella bonaccia mutatra l’isole dell’aria migrabondela Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vaniscein questa poca nebbia di memorie;se nell’ora che torpe o nel sospirodel frangente si compie ogni destino.Vorrei dirti che no, che ti s’appressal’ora che passerai di là dal tempo;forse solo chi vuole s’infinita,e questo tu potrai, chissà, non io.Penso che per i più non sia salvezza,ma taluno sovverta ogni disegno,passi il varco, qual volle si ritrovi.Vorrei prima di cedere segnarticodesta via di fugalabile come nei sommossi campidel mare spuma o ruga.

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Ti dono anche l’avara mia speranza.a’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

il cammino finisce a queste prodeche rode la marea col moto alterno.il tuo cuore vicino che non m’odesalpa già forse per l’eterno.

I morti

il mare che si frange sull’oppostariva vi leva un nembo che spumeggiafinché la piana lo riassorbe. Quivigettammo un dì su la ferrigna costa,ansante più del pelago la nostrasperanza! - e il gorgo sterile verdeggiacome ai dì che ci videro fra i vivi.

or che aquilone spiana il groppo torbidodelle salse correnti e le rivolged’onde trassero, attorno alcuno appendeai rami cedui reti dilungantisul viale che discendeoltre lo sguardo;reti stinte che asciuga il tocco tardoe freddo della luce; e sopra questedenso il cristallo dell’azzurro palpebrae precipita a un arco d’orizzonteflagellato. Più d’alga che trasciniil ribollio che a noi si scopre, muovetale sosta la nostra vita: turbinaquanto in noi rassegnato a’ suoi confiniristé un giorno; tra i fili che congiungonoun ramo all’altro si dibatte il cuorecome la gallinelladi mare che s’insacca tra le maglie;e immobili e vaganti ci ritieneuna fissità gelida. Cosìforse anche ai morti è tolto ogni riposonelle zolle: una forza indi li tragge

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spietata più del vivere, ed attorno,larve rimorse dai ricordi umani,li volge fino a queste spiagge, fiatisenza materia o vocetraditi dalla tenebra; ed i mozziloro voli ci sfiorano pur orada noi divisi appena e nel crivellodel mare si sommergono...

Delta

La vita che si rompe nei travasisecreti a te ho legata:quella che si dibatte in sé e par quasinon ti sappia, presenza soffocata.

Quando il tempo s’ingorga alle sue dighela tua vicenda accordi alla sua immensa,ed affiori, memoria, più palesedall’oscura regione ove scendevi,come ora, al dopopioggia, si riaddensail verde ai rami, ai muri il cinabrese.

Tutto ignoro di te fuor del messaggiomuto che mi sostenta sulla via:se forma esisti o ubbia nella fumead’un sogno t’alimentala riviera che infebbra, torba, e scrosciaincontro alla marea.

Nulla di te nel vacillar dell’orebige o squarciate da un vampo di solfofuori che il fischio del rimorchiatoreche dalle brume approda al golfo.

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Incontro

Tu non m’abbandonare mia tristezzasulla stradache urta il vento foranoco’ suoi vortici caldi, e spare; caratristezza al soffio che si estenua: e a questo,sospinta sulla radadove l’ultime voci il giorno esalaviaggia una nebbia, alta si flette un’aladi cormorano.

La foce è allato del torrente, steriled’acque, vivo di pietre e di calcine;ma più foce di umani atti consunti,d’impallidite vite tramontantioltre il confineche a cerchio ci rinchiude: visi emunti,mani scarne, cavalli in fila, ruotestridule: vite no: vegetazionidell’altro mare che sovrasta il flutto.

Si va sulla carraia di rappresamota senza uno scarto,simili ad incappati di corteo,sotto la volta infranta ch’è discesaquasi a specchio delle vetrine,in un’aura che avvolge i nostri passifitta e uguaglia i sargassiumani fluttuanti alle cortinedei bambù mormoranti.

Se mi lasci anche tu, tristezza, solopresagio vivo in questo nembo, sembra

che attorno mi si effondaun ronzio qual di sfere quando un’orasta per scoccare;e cado inerte nell’attesa spentadi chi non sa temeresu questa proda che ha sorpresa l’ondalenta, che non appare.

Forse riavrò un aspetto: nella luceradente un moto mi conduce accantoa una misera fronda che in un vasos’alleva s’una porta di osteria.a lei tendo la mano, e farsi miaun’altra vita sento, ingombro d’unaforma che mi fu tolta; e quasi anellialle dita non foglie mi si attorconoma capelli.

Poi più nulla. oh sommersa!: tu dispariqual sei venuta, e nulla so di te.La tua vita è ancor tua: tra i guizzi raridal giorno sparsa già. Prega per meallora ch’io discenda altro camminoche una via di città,nell’aria persa, innanzi al brulichiodei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’ioscenda senza viltà.

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Riviere,bastano pochi stocchi d’erbaspadapenduli da un ciglionesul delirio del mare;o due camelie pallidene i giardini deserti,e un eucalipto biondo che si tuffitra sfrusci e pazzi volinella luce;ed ecco che in un attimoinvisibili fili a me si asserpano,farfalla in una ragnadi fremiti d’olivi, di sguardi di girasoli.

dolce cattività, oggi, rivieredi chi s’arrende per pococome a rivivere un antico giuoconon mai dimenticato.Rammento l’acre filtro che porgesteallo smarrito adolescente, o rive:nelle chiare mattine si fondevanodorsi di colli e cielo; sulla renadei lidi era un risucchio ampio, un egualefremer di viteuna febbre del mondo; ed ogni cosain se stessa pareva consumarsi.

oh allora sballottaticome l’osso di seppia dalle ondatesvanire a poco a poco;diventareun albero rugoso od una pietralevigata dal mare; nei colorifondersi dei tramonti; sparir carne

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per spicciare sorgente ebbra di sole,dal sole divorata... erano questi,riviere, i voti del fanciullo anticoche accanto ad una rósa balaustratalentamente moriva sorridendo.

Quanto, marine, queste fredde luciparlano a chi straziato vi fuggiva.Lame d’acqua scoprentisi tra varchidi labili ramure; rocce brunetra spumeggi; frecciare di rondonivagabondi... ah, potevocredervi un giorno o terre,bellezze funerarie, auree corniciall’agonia d’ogni essere. oggi tornoa voi più forte, o è inganno, ben che il cuorepar sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.Triste anima passatae tu volontà nuova che mi chiami,tempo è forse d’unirviin un porto sereno di saggezza.ed un giorno sarà ancora l’invitodi voci d’oro, di lusinghe audaci,anima mia non più divisa. Pensa:cangiare in inno l’elegia; rifarsi;non mancar più. Poteresimili a questi ramiieri scarniti e nudi ed oggi pienidi fremiti e di linfe,sentire

noi pur domani tra i profumi e i ventiun riaffluir di sogni, un urger folledi voci verso un esito; e nel soleche v’investe, riviere,rifiorire!

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sCheDe

eugenio Montale nacque a Genova il 12 ottobre 1896. era l’ul-timogenito di 6 fratelli, i genitori erano commercianti di prodotti chimici, suo padre, domenico, vendeva essenza di trementina per la preparazione delle vernici e riforniva, tra le altre, anche la ditta Veneziani di Trieste, di proprietà del suocero di italo Svevo e azienda della quale si occuperà proprio lo stesso scrittore trie-stino in seguito al matrimonio con la figlia del padrone. La fa-miglia di poeta era poco attenta alla vena letteraria di Montale; si pensi che il padre ignorò la prima versione di Ossi di Seppia e non acquistò la seconda perché la riteneva troppo costosa (15 lire); anche la sorella, Marianna che condivideva con eugenio l’amore per la letteratura non conobbe la produzione poetica del fratello fino a prima delle edizioni stampate.

Montale trascorse l’infanzia e la giovinezza tra Genova e Mon-terosso, al Mare nelle Cinque Terre dove la famiglia era solita recarsi in vacanza. Frequentò prima la scuola elementare Ma-schile ambrogio Spinola, per i primi 4 anni, ma prese la licenza presso la Giano Grillo in Salita delle Battistine, la via abitata da Friederich Nietzshe. «Sono sempre stato uno ‘scuola a parte’*»

Nel 1908 si iscrisse all’istituto Vittorino da Feltre, diretto dai Padri Bernabiti, ricevette la cresima, ripeté la Terza Tecnica, per poi lasciare la scuola e diplomarsi ragioniere a 19 anni, nel 1915, presso l’istituto Tecnico Vittorio emanuele in Largo Zec-ca. «Cattolico praticante fino ad una certa età, poi semicristiano a modo mio, poi… chi ne sa nulla?»

Montale cominciò a coltivare i propri interessi letterari, fre-quentando le biblioteche della sua città e assistendo alle lezioni private di filosofia di Marianna. Per tutta la vita egli esercitò la sua vocazione per la letteratura nei ritagli di tempo, dopo gli

* ricordo di Montale del 1946.

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il 1° Settembre ne vennero pubblicate altre tre, questa volta sul-la rivista Le Opere e i Giorni, e ancora altre tre liriche verranno stmpate su il Convegno del 28 marzo 1925, poco prima della vera e propria pubblicazione dell’intero volume nel giugno dello stesso anno.

il manoscritto completo degli Ossi, non è tutt’oggi reperibile, esistono tuttavia, presso amici, destinatari naturali... , diversi fascicoletti e fotocopie e dattiloscritti, contenenti sezioni più o meno estese del libro.

L’avventura del libro comincia nella primavera del 1924, quan-do Montale chiese all’amico Sergio Solmi, di consigliargli un editore per le poesie che aveva raccolto e ordinato in questa pri-ma fase della sua vita. il 1° maggio Solmi rispose che l’editore adatto poteva essere Piero Gobetti e si offrì di presentargli egli stesso il manoscritto. il colloquio di Solmi con Gobetti dette risultati positivi. «Caro Montale, le sue poesie mi piacciono. Purtroppo però l’esperienza di altri versi mi dice che per un volume di eccezione e di gusto come il suo c’è in italia uno scarso pubblico. Mandando ai suoi amici liste di prenotazione crede che si arriverebbe a qualche risultato? io veramente terrei a concludere.*»

«Non so se ti ho detto che Gobetti mi ha scritto parole di lode e sembra tentatissimo di farsi mio editore. Non si è impegnato però ancora definitivamente...**»

il 12 agosto Gobetti invia un’altra cartolina « Caro Montale, le recensioni non hanno diretta influenza sulle vendite se non in certi casi. Sarà meglio conservare al libro un certo sapore d’ine-

* Cartolina di Gobetti del 4 agosto, 1924. Proprietà di Giorgio Zampa.

** Lettera indirizzata a Solmi, scritta da Monterosso il 27 agosto 1924.

orari di lavoro e «sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale*»Nel maggio del 1915 l’italia entra in guerra; due anni dopo, nell’agosto del 1917, all’età di 21 anni, dopo tre visite mediche, eugenio Montale venne dichiarato ‘abile alle armi’, e arruolato nell’esercito italiano nel 23° Reggimento Fanteria di stanza a Novara. Verso i primi di novembre si trasferì alla Scuola di applicazione a Parma, per frequentare un corso accelerato come allievo ufficiale dove fa la conoscenza di Sergio Solmi e di Francesco Meriano, che diventeranno tra i suoi più cari amici.

Nel 1918 si offrì volontario come ufficiale per combattere al fronte, in Trentino. Ci rimase fino al maggio del 1920, quan-do, congedato con il grado di tenente, tornò dalla famiglia a Monterosso.

da quel momento in poi, Montale iniziò a farsi conoscere dalla società culturale italiana, scrivendo brevi articoli e recensioni per giornali e quotidiani. il 16 novembre uscì il suo primo articolo su L’azione di Geno-va: una recensione al libro Trucioli di Camillo Sbarbaro. «Tira in queste pagine un vento di malattia; una calma quasi sorri-dente, quasi compiaciuta di sé. il centro dell’ispirazione qui è l’amore del resto, dello scarto, la poesia degli uomini falliti e delle cose irrimediabilmente oscure e mancate; bolle di sapone, évapes, trascurabili apparenze, arsi paesaggi, strade fuori mano...» e già da queste parole, si prefigura la poetica di Ossi di seppia, il biglietto da visita che accompagnerà tutta la vita di Montale, e che è considerato anche un capolavoro letterario del `900 italiano. Quattro anni dopo la recensione, il 31 maggio 1924, furono pub-blicate su Il Convegno le prime cinque liriche della serie.

* scritto del 1975.

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Per capire il punto di vista della filosofia di vita di Gobetti, si può riflettere sul motto della sua casa editrice, il quale era impresso in caratteri greci sulla copertina di ogni volume, (quindi anche sugli Ossi) e diceva —Che ho a che fare io, con gli schiavi?—

È il 5 aprile 1925 quando Montale scrive a Sergio Solmi «il mio libretto ossi di seppia va in macchina ora; non so imma-ginare che avverrà in tipografia… eppure ho sorpassato le prenotazioni richiestemi, (ora ne ho 240, e aumenteranno), e avrai diritto a qualche riguardo...»

il libro dovrà tribolare ancora prima di essere veramente editato.il 26 aprile Montale si rivolge a debenedetti scrivendo «Credo proprio che puoi essermi molto utile nell’impaginazione che, come vedrai, si presta a molti pericoli [...] il formato deve essere ordinario, non largo come tu fatto per il libro di Bongio-anni, la carta non sottile anche se mediocre: per la copertina mi arrendo al destino; ma almeno si usi un seppia scuro e non un arancio nel fregio; le copertine di lusso (c’è da ridere a immaginarle) siano in carta ottima davvero, e in numero di 15 numerate dall’uno al quindici, con relativa dicitura all’interno. Naturalmente una è per te. Se c’è da pagare la carta sono anche disposto a farlo; avvisami.»*

il 2 giugno scrive ancora a Bazlen «il mio libro –ancora tagliato da me – esce in scorretta e brutta edizione. debenedetti non se ne è curato, credo, né mi ha scritto nulla. Gobetti idem.»il libro fu pubblicato nella seconda metà di Giugno al prezzo di sei lire; le reazioni dei lettori sono molto contrastanti dividendo le opinioni della critica. La prima recensione, pubblicata nella

* Lettera scritta da Montale ad antonio debenedetti e da lui pubblicata sul Corriere della Sera (due lettere inedite di eugenio Montale) il 21 dicembre 1975)

dito e non pubblicarlo troppo prima. Collaborerebbe lei con Il Baretti che sto per mandar fuori? Ci terrei. Se sì, mandi subito.»La corrispondenza con l’editore poco dopo si interruppe brusca-mente. il 5 settembre 1924, infatti, uscendo di casa Gobetti fu aggredito da una dozzina di squadristi. dichiarato organo anti-nazionale da Mussolini, Rivoluzione Liberale diventa oggetto di diffide, di sequestri continui. Gobetti non solo tenne duro, ma mantenne la parola data iniziando le pubblicazioni del periodi-co Il Baretti, di carattere letterario, per il quale Montale aveva accettato di collaborare.

il 4 dicembre riprendono le trattative per la pubblicazione « Per gli Ossi di seppia, il problema è del deficit: il mio sistema di vendita è di garantire una vendita minima mediante prenotazio-ne. i libri che reggono a questa prova possono andare anche al pubblico. Se in anticipo la somma totale dei libri che stampo, senza più curarmene sino al termine dell’anno quando i librai mi danno, o non mi danno!, i conti dopo tre mesi non posso più stampare libri. il segreto è di rinnovare il corrente. Tu troverai piutto stomisteriosi o banali questi espedienti amministrativi, ma così è. Mandami intanto il ms. completo dei versi.»

il 13 gennaio 1925 Gobetti confermò di aver ricevuto il ma-noscritto completo: «Ossi di seppia vanno bene. Ma il volume costerà 1500, 2000 lire, forse di più. occorrerebbero non meno di 200 prenotazioni a 6 lire, sperando che qualche copia si venda poi. Ti va?»

Le autorità torinesi intanto, stavano rendendo impossibile la vita di Gobetti; quasi tutte le uscite delle sue riviste venivano seque-strate prima di arrivare nelle edicole. Ossi di seppia nascono in questo clima di tensione generale, e dall’incontro di due persone ostinatamente contrari alla dilagante violenza e tracotanza della realtà italiana.

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il 25 luglio del ‘25, Solmi aveva scritto all’amico: «Ho ricevuto giorni fa il libretto, e te ne ringrazio di cuore. La veste è un po’ povera, e mi rincresce degli errori di stampa. ad ogni modo è fatta, e non c’è da rammaricarsene. Mi sembra che tu l’abbia un po’ smilzito: accordi, Musica silenziosa e altre liriche senza titolo del genere Fine dell’infanzia che avevo lette manoscritte e mi sembrava potessero esservi accolte senza timone di dispera-zione. del resto la vittoria è sempre di chi sa limitarsi. e la tua plaquette così perfettamente salda e compatta, e di tono assai intenso. del resto non rammaricarti se i tuoi “ossi” andranno incontro a dubbia comprensione. il tuo è uno di quei libri che ad attendere hanno tutto da guadagnare...»

e già tre anni dopo, il 17 gennaio 1928, Mario Gromi pubbli-cava una seconda edizione del libro, con giunte considerevoli e una prefazione di alfredo Gargiulo. Montale scrive una lettera a Solmi comunicandogli che «Gli ossi sono usciti: l’edizio-ne è buona a giudicare dalla copia di lusso che ho avuto; non ho visto le altre. appena posso ti mando il libro; e tu mi dirai l’impressione d’insieme che t’ha fatta. Ma ormai per te e per me è una minestra riscaldata, che dà poco gusto.»

Nel 1931 siamo già alla terza edizione, edita da Lanciano Carrabba con copertina di Scipione. « a giorni riescono gli ossi con copertina barilliana di Scipione. Rideremo. Mi pare il libro di un altro.»*

Una quarta ristampa nel 1941, sempre con Carrabba. Nel ‘42 e nel ‘43 quinta e sesta ristampa a cura di einaudi. La vita di Montale nel frattempo è continuata, è stato nomi-nato e dispensato dalla carica di direttore del Gabinetto G. P. Vieusseux, ha scritto Le occasioni e Finisterre, ha cominciato a

* Lettera a Sergio Solmi del 4 febbraio 1931.

rubrica Cronache Letterarie del giornale torinese Regno, è una stroncatura, nega al libro ogni valore « si raccomanda di studiare e raccogliersi prima di voler rendere la musica di un corno inglese.»

il 25 luglio Umberto Saba scrive da Trieste «desidero di rice-vere presto le tue poesie in 25 esemplari, e spero che ognuna di esse sarà una sola poesia e non molte poesie in una. Questo, come t’ho detto, mi parve essere il difetto delle poesie contenute negli Ossi di seppia. È in parte il difetto della giovinezza, ma anche, in parte, quello della tua ispirazione artistica. Sorvegliati molto, e non abbandonarti all’affluire delle belle immagini. Le bellezze, mi ha insegnato un filosofo, sono nemiche della bellezza (Scusami).»

emilio Cecchi recensisce favorevolmente il libro su il Secolo ed accetterà di scrivere un’introduzione alla seconda e più for-tunata edizione. Carlo Linati, pure esprimendo giudizi positivi, scorge in Montale un eccessivo influsso di Paul Valéry. «Se vai da Somaré fatti mostrare il Convegno ultimo, dove Linati avvalla l’opinione di alessandro Pellegrini ch’io sono un imitatore di Valéry!»*

intanto Gobetti viene diffidato dal prefetto di Torino a cessare qualsiasi attività editoriale, in considerazione della sua attività nettamente antinazionale. Gobetti decide quindi di espatriare a Parigi, partirà l’8 febbraio del 1926, ma morirà una settimana dopo in clinica.ossi di seppia ebbe, al suo apparire, un successo di stima solo quando non andò incontro ad incomprensioni; arrivò in un am-biente impreparato ad accoglierlo, e trovò la sua strada, quella definitiva, solo dopo il 1930.

* Lettera del 26 settembre a Solmi.

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lavorare come traduttore per Sansoni, Bompiani, einaudi e per la raccolta Narratori Spagnoli a cura di Carlo Bo e gli ossi pro-seguono la loro di vita quasi autonomamente. dal 1948 al 1961 escono ristampate da Mondadori dall’ottava alla quindicesima edizione... e ne continueranno ad uscire, con molte altre case editrici, svariate edizione, fino ad arrivare ad oggi.

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