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Segno e gestualità nell’Arte

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Segno e gestualità nell ’Arte

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Segno e gestualità Verso i segni

Action Painting: il segno lasciato dal gesto

Verso una spritualità orientaleInformale europeo. Il segno-gesto Il versante materico

I Graffiti Pop rap / Hip Pop

Haring / Basquiat /Pollock

I Writers a Napoli

Pittura materica a Napoli

SEGNO E GESTO

NAPOLI

I GRAFFITI

ESPRESSIONISMO ASTRATTO

CAP. 1

CAP. 2

CAP. 3

CAP. 4

PERCORSO DI STUDIO

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Voci tratte da: “Dizionario della Lingua Italiana” G. Devoto, G. C. Oli Ed. le Monnier – Firenze, 1982

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Cap. 1 - Segno

Il triangolo semiotico.

In semiotica, il segno è un elemento che rinvia ad un contenuto. La semiotica studia proprio la capacità del segno di dare la possibilità a chi interpreta di comprenderne il contenuto.

Secondo Louis Hjelmslev, il segno può essere definito anche come espressione; secondo Charles Peirce un altro sinonimo è representamen; secondo Ferdinand de Saussure, il segno è l'unione di significante e significato.

Modello classico

Il modello classico del segno prende le basi dalle ricerche di Aristotele, di sant'Agostino e di Gottlob Frege e dall'opera Ilsignificato del significato di Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards. Questo modello consta di tre elementi: un referente (ciò di cui si parla), che viene espresso da un segno attraverso un concetto (o idea). Graficamente, il modello è un triangolo che collega segno-concetto-referente, senza poter passare direttamente dal segno al referente. Il punto debole di questo schema è l'assenza di una finalità di questa interpretazione.

.Modello di Peirce

Il problema non è stato superato da Charles Peirce, padre della moderna semiotica, che ha riproposto uno schema simile a quello classico, ma più complesso. In questo caso, i tre elementi sono tutti direttamente collegati fra loro: il representamen (ossia ciò che rappresenta l'oggetto), l'interpretante (ovvero come si interpreta l'oggetto) e l'oggetto stesso. L'oggetto considerato

Charles Sanders Peirce

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all'interno di questo schema è definito immediato, cioè il risultato dell'interpretazione stessa. Ad esso si oppone quello dinamico, che non può essere all'interno del triangolo perché è l'oggetto al di là di ogni interpretazione, che deve comunque tendere a raggiungerlo.

Questo avvicinamento all'oggetto dinamico è detto semiosi: secondo la teoria della semiosi illimitata, un representamen viene interpretato come oggetto immediato, che a sua volta diviene representamen per un'altra interpretazione che tenderà a raggiungere l'oggetto dinamico.

Modello di Saussure

Il modello più noto del segno linguistico è quello delineato da Ferdinand de Saussure, padre della linguistica generale. Esso si basa sul dualismo tra significante e significato. Il significante è la parte fisicamente percepibile del segno linguistico: l'insieme degli elementi fonetici e grafici che vengono associati ad un significato (che invece è un concetto mentale), che rimanda all'oggetto (il referente, ciò di cui si parla, un elemento extralinguistico). Significante e significato sono stati interpretati come due facce di una medaglia: sono inscindibili e si rinviano continuamente a vicenda.

Il legame tra significante e significato nelle lingue storico-naturali è normalmente arbitrario, anche se talora vi sono elementi di iconicità, per esempio nelle onomatopee e in altri casi di fonosimbolismo.

Tipi di segni

Fu sant'Agostino il primo a classificare tre tipi di segni. I primi sarebbero i segni naturali, cioè tutti quei segni che non sono stati creati per significare qualcosa, ma che rimandano ad altri oggetti per l'esperienza. Ad esempio, una nuvola rimanda all'idea di pioggia non perché è stata creata per comunicare questa azione. Poi vi sarebbero i segni artificiali, cioè creati proprio per la comunicazione. Sono detti anche intenzionali proprio perché alle spalle c'è l'intenzione di voler trasmettere un concetto.

I segni del primo tipo sono detti anche indizi, per distinguerli da quei segni non artificiali, come il linguaggio, che però servono a comunicare.

Vi sono poi i segni iconici, segni indicali, segni simbolici o codici. Nel primo caso il significante è simile al significato, nel secondo caso vi è una connessione fisica con il significato e nel terzo caso vi è una relazione tra significante e significato in modo arbitrario.

Ferdinand de Saussure

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Il Gesto

Lo studio della Comunicazione non Verbale ha radici relativamente antiche: la prima monografia

dedicata all’argomento risale al XVII sec.

Nel XVIII sec. lo studio della Comunicazione non Verbale – e in particolare del gesto – era

considerato un elemento determinante per la comprensione dell’origine del pensiero e del

linguaggio. Nel XIX sec. – con Tylor (1878) e Wundt (1901) – l’interesse per la sfera non verbale

era ancora legato alle teorie sulla transizione dall’espressione individuale al linguaggio codificato.

La ricerca concernente la sfera non verbale era ancora asistematica. Suo unico scopo era quello di

suffragare le innumerevoli teorie filosofiche sull’origine della società.

I primi studi autonomi sulla CNV risalgono alla prima metà del ‘900 ma l’importanza di questo

campo di studi è andata crescendo nella seconda metà del ‘900, coinvolgendo un numero

considerevole di discipline.

La linguistica si è dedicata tardi a questo tipo di studi: Il gesto accompagna il parlato ed è soggetto

a convenzioni sociali. Tuttavia il suo meccanismo è ovvio: il confine tra ciò che si definisce e ciò

che non si definisce lingua dipende da classificazioni arbitrarie .

Teoria Unificata della Struttura del Comportamento Umano

Secondo questa teoria, la lingua è solo una fase dell’attività umana e non dovrebbe essere dissociata

da altre fasi. Per provare la sua teoria, Pike citò un gioco in cui le parole di una frase erano

progressivamente sostituite da gesti. Il gioco descritto dimostra che forme non verbali posso essere

strutturalmente integrate con forme verbali.

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Gesto nel teatro

Il gesto nella tecnica teatrale è un'azione o un moto del corpo che intende significare qualcosa. Nel

teatro drammatico tradizionale il gesto accompagna la parola nella recitazione.

Nel mimo e nella pantomima, il gesto ha valore espressivo

proprio. Il gesto può avere valenza

rituale, come nel teatro greco e nei teatri orientali, in cui

rimanda al mito o a leggende radicate nella tradizione;

oppure può essere usato per sottolineare tratti bizzarri e

caricaturali dei personaggi, come accade ad esempio nel

dramma satiresco e nella Commedia dell'Arte. In entrambi i

casi si tratta di un gesto codificato, dietro il quale c'è un

significato ben preciso.

Per la riflessione teorica teatrale che parte dal lavoro di

Stanislavskij e arriva fino a Grotowski, la gestualità deve

essere in primo luogo funzionale alla ricerca espressiva

dell'attore.

Il fondatore del mimo moderno, Etienne Decroux, ha

elaborato un insieme di regole del mimo che prescinde dal

gesto codificato, e il suo allievo Marcel Marceau ha

portato l'arte del mimo alla massima valenza

comunicativa. Nel teatro di avanguardia il gesto assume un valore di rottura (ad esempio nel

futurismo) oppure diviene strumento di ricerca sulla dimensione umana (nel surrealismo).

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* Per approfondimenti si rimanda al cap. 4

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Appendice al Cap. 1

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Verso i Segni

da Frame & Mutations / Visioni di Architettura, Cap III - Ed. Aracne, Roma 2005 di Luigi Affuso

“NeII’opera d’arte o nella teoria come nella cosa sensibile, il senso è inseparabile dal segno. L’espressione, dunque, non è mai compiuta. La più alta ragione confina con la non-ragione"i. M. Merlau Ponty, Senso e non senso

Quando leggiamo un libro, osserviamo un quadro, o vediamo un film abbiamo un incontro con

qualcosa e qualcosa abbiamo acquisito, perché l’opera ha emesso un messaggio…

Questo messaggio ha un suo carattere ed una sua specificità.

Nella “Recerche” di M. Proust, ad esempio, i campanili di Martinville, contano più delle

“madeleine” o del selciato di Venezia, che dipendono dalla memoria e rimandano ad una

spiegazione materiale.

“Apprendere” invece “è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di

un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare

una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare, da interpretare”.

«Le verità che l’intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno qualcosa di meno

profondo, di meno necessario di quelle che la vita ci ha comunicate, nostro malgrado, in un’impressione, materiale in

quanto entrata in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare l’intimo spirito... Dovevo cercare d’interpretare

le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee, sforzandomi di pensare, cioè di far uscire dalla penombra ciò che

avevo provato. di convertirlo in un equivalente spirituale... Si trattasse di reminiscenze sul tipo del rumore del

cucchiaio, o del sapore della “maddalena”, o di quelle verità scritte con l’ausilio di figure, delle quali cercavo di

cogliere il significato nel mio pensiero, in cui — campanili, erbe selvatiche — esse componevano un complicato e

fiorito libro di magia, la loro prima caratteristica era ch’io non ero libero di sceglierle, che mi venivan date tali quali.

E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. Non ero stato io a cercare i due ciottoli

ineguali del cortile, nei quali ero inciampato. Ma, per l’appunto, il modo fortuito, ineluttabile, con cui ero incappato

nella sensazione, garantiva di per sé la verità del passato che essa resuscitava, delle immagini cui dava l’avvio, poiché

noi sentiamo il suo sforzo per risalire verso la luce, sentiamo in noi la gioia per la realtà ritrovata... Il libro interiore

di tali segni sconosciuti (segni in rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava,

contornava come un palombaro che scandagli), nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la

sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi... Le idee

formate dall’intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile, e la loro scelta è arbitraria.

Il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l’unico libro nostro. Non che le idee che noi formiamo non possano

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essere logicamente giuste; ma non sappiamo se sono vere. Solo l’impressione, per quanto infima possa sembrare la

materia e inafierrabile la traccia, è un criterio di verità; e solo essa merita perciò di essere appresa dallo spirito, come

la sola capace, qualora esso sappia estrarne tale verità, di condurlo a una più grande perfezione e di offrirgli una gioia

veramente pura”.

Il segno dunque è “l’oggetto di un incontro”, ed è la contingenza dell’incontro ad assicurare ciò

che dà da pensare.

L’intelligenza viene sempre dopo, non vale che allora. Pensare è interpretare, tradurre. Le essenze,

afferma Deleuze, sono ad un tempo la cosa da tradurre e la traduzione, il segno e il senso.

Il dubbio pervade Cézanne, che si separa dagli impressionisti che volevano rendere la pittura alla

stessa maniera di come gli oggetti colpiscono i nostri sensi. Egli non ha creduto di dover scegliere

tra sensazione e pensiero, vuole dipingere la materia attraverso un’organizzazione spontanea: quella

che noi indichiamo con la sua opera, per lui era soltanto l’esperimento e l’avvio della sua pittura,

infatti non introduce divisione tra sensi ed intelligenza. In vecchiaia si chiede se la novità della sua

pittura non derivi da un disordine dei suoi occhi.

E Croce nella sua Aestetica in Nuce esprime il suo il concetto di espressione: «La quale non è mai

logica, ma sempre affettiva ossia lirica e fantastica, […] non e mai né nuda da doversi coprire, né

ornata da doversi liberare di cose estranee, ma sempre risplendente di sé stessa, simplex munditiis».

Oggi l’architettura si trova nella stessa condizione della filosofia o delle scienze, è necessario,

quindi ricercare nuove strade.

L’architettura ha subito un cambiamento di senso nel novecento, inizialmente aveva come scopo la

costruzione artificiale in cui vivevano gli uomini in base a delle soluzioni, “Vitruvio” è un libro di

“ricette”, in cui viene detto esattamente come costruire un edificio, qual è il numero delle colonne

necessarie, quali sono le proporzioni che devono essere rispettate. L’accademismo consisteva nel

cercare di apportare delle migliorie all’impiego degli “ingredienti”: ti veniva detto persino come

costruire le città, ti venivano fornite differenti tipologie, in breve, ti venivano date le “ricette

dell’arte urbana.”

Mutazioni distorte, perverse hanno permeato spesso le città: Parigi, ad esempio è stata oggetto di

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quella che Jean Nouvel chiama la “disinfestazione con la formalina” e che consiste, nel conservare

tutta una serie di facciate di carattere storico e di costruirvi dietro degli immobili nuovi.

Oggi, dicevamo, le cose sono in continuo mutamento. Tradurre, decifrare, sviluppare sono la

forma della creazione pura: “Sotto i segni dell’arte, apprendiamo che cosa sia il pensiero puro come

facoltà delle essenze, e come l’intelligenza, la memoria o l’immaginazione diversifichino il pensiero

rispetto alle altre specie di segni”.

Bisognerebbe poter articolare il progetto architettonico in base ad un concetto o ad un’idea

preliminare, seguendo una strategia, il cui obiettivo deve essere quello di porre in sinergia oppure,

in alcuni casi, in contraddizione, percezioni che intrecciano relazioni tra loro e portano alla

definizione di un luogo sconosciuto.

Nouvel, ad esempio, cerca di creare “uno spazio non leggibile, che sia il prolungamento mentale di

quello che si vede. Questo spazio di seduzione, questo spazio virtuale dell’illusione, è fondato su

precise strategie, che sono spesso, esse stesse, deviazioni, […] basta pensare ai giardini giapponesi:

c’è sempre un punto di fuga, un punto a partire dal quale non si sa se il giardino finisce oppure

continua”

Dunque l’architettura deve appropriarsi della nozione di deviazione, deve spostarsi dal materiale

all’immateriale, oltre la visione, attraverso la creazione di “luoghi”.

Se prendiamo in prestito dal Cinema la nozione di sequenza, come ricorda Paul Virilio, nozioni

come spostamento, velocità e memoria in relazione ad un percorso imposto o noto, ci permettono di

comporre uno spazio architettonico, a partire non soltanto da quanto si vede, ma da tutto quello che

si memorizza in una successione di sequenze, concatenate a livello di sensazioni

. Da questo momento in poi cominciano a verificarsi relazioni e contraddizioni tra quanto viene

creato e quanto era presente in origine nella percezione dello spazio.

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CAP. 2 - ESPRESSIONISMO ASTRATTO AMERICANO

L’informe per descrivere il caos del mondo

È essenziale per capire questo movimento, comprendere anche in che contesto storico si fosse

realizzato.

L’esperienza della Seconda Guerra Mondiale segnò vincitori e vinti, per i lutti personali anche per

quelli ideologici. L'insorgenza artistica post-bellica, si sviluppò in un'era dove la Meccanica

Quantistica e la Psicanalisi stavano cominciando a fiorire e cambiare l'intera comprensione del

mondo e la coscienza di sé della civiltà occidentale.

Dopo le tragiche vicende della guerra, non era più possibile progettare una società su modelli

utopici e, dunque, neanche progettare un’opera su moduli formali stabiliti.

Vennero abbandonate così le rappresentazioni realistiche del Ritorno all’ordine, ma, anche

l’Astrattismo geometrico dal sottofondo idealistico.

L’arte si staccò dal mondo per farsi espressione di un pessimismo individualista

Ciò che ne nacque fu una poetica che non sceglieva a priori tra Astrattismo e Realismo e che

piuttosto li percorreva entrambi.

La precedente arte di Kandinsky e Mondrian aveva cercato di distogliersi dal ritrarre oggetti e

invece cercò di pizzicare e stuzzicare le emozioni dello spettatore. L'Action Art si appropriò di

questo tentativo e lo sviluppò, usando le idee di Freud sul subconscio come fondamento principale.

I dipinti degli Action Art non volevano ritrarre nessun oggetto qualunque e allo stesso modo non

venivano creati per stimolare l'emozione. Al contrario venivano creati per toccare gli osservatori nel

profondo del loro subconscio. Questo venne realizzato dall'Artista dipingendo “inconsciamente”

Essa rese palese la crisi della razionalità moderna, in cui il caos l’insensatezza che sembravano

governare il mondo vengono rappresentati dall’informe e da un’arte vissuta come esperienza. Tutto

ciò, comunque, non è qualcosa che si può spiegare o interpretare, poiché è solo una manifestazione

inconscia.

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L’opera nasce da un progetto, a priori, ma in un processo di improvvisazione psichica per prove

ed errori, da un fare il cui risultato si compie solo a posteriori. Essa è uno schermo su cui si

fissano parametri quali l’esperienza fisica dell’artista, lo scorrere del tempo o durante l’ese-

cuzione, l’accettazione volontaria e spesso sapiente dei suggerimenti del caso del pittore

Il New Deal americano, che

coincise con le dittature europee,

aveva posto le premesse per un

drastico spostamento della

capitale artistica da Parigi a New

York e in generale dall’Europa

agli Stati Uniti.

L’immigrazione degli artisti dall’

Europa vi portò cellule di ogni

tendenza: il ‘Cubismo muralista

con Léger, il Dadaismo con

Duchamp, l’Astrattismo con Albers, Mondrian e Hans Hofrmann (quest’ultimo meno noto, ma

molto influente come insegnante), il Realismo impegnato con Grosz, il_Razionalismo architettonico

con Mies Van der Rohe e soprattutto il Surrealismo con Ernst, Matta, Masson, Mirò

La presenza attiva di queste e altre personalità furono di notevole impatto sulla formazione dei

giovani nati negli Anni Dieci che si ribellarono al prevalente realismo locale.

In questo quadro assunsero grande importanza anche l’arrivo di opere non figurative collezionate

da Solomon R. Guggenheim e da altri ricchi imprenditori. L’esposizione al Museum of Modem Art

di New York di Guernica, che Picasso aveva voluto sottrarre alla Spagna franchista, ebbe, inoltre,

l’effetto di uno shock.

A Manhattan non tardarono a nascere i centri di ritrovo dèl nuovo corso americano. Negli uffici

altolocati dei musei, direttori. curatori e critici come Alfred Barr, John Sweene, Clement Greenberg

e Harold Rosemberg decidevano di utilizzare gli acquisti dei grandi musei; a Downtown si

incontravano gli artisti, il venerdì in un club e le altre sere alla Cedar Tavern.

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L’Action Painting: il segno lasciato dal gesto

Per capire gran parte dell’arte del Secondo Novecento occorre introdurre alcuni termini inglesi: nel

caso di Pollock dripping, action painting e all over. Il primo significa sgocciolamento: dal pen-

nello o direttamente da barattoli pieni di colore l’artista lasciava scendere gocce che avvolgeva in

grovigli ed all-over, traducibile come “a tutto campo”.

La figura più rappresentativa tra i nuovi talenti fu Jackson Pollock (1912- 1956), un uomo

inquieto, ribelle, dipendente dall’alcool e perennemente bisognoso di soldi e di supporto

psicologico. Grazie anche alle sue stranezze e al fatto che il mondo dell’arte newyorkese era in

cerca di celébrità locali, l’artista divenne un mito a cui persino la rivista Life dedicò vaste

attenzioni. Morì schiantandosi in macchina contro un albero in macchina contro un albero.

Si formò alla scuola regionalista di Thomas Hart Benton dove apprese, per sua dichiarazione,

soltanto cose a cui opporsi: una pittura statica, realista e precisa. La sua energia emerse già dai di-

segni giovanili ispirati ai corpi di Michelangelo, che trasformava in turbini muscolosi. In seguito, i

suoi quadri presero a rappresentare teste stravolte, agglomerati scomposti di natura e brandelli di

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corpi o presenze totemiche; come si può osservare in Figura stenografica (1942), la scrittura rapida

surrealista si associa a un impianto dell’immagine di derivazione cubista e a un uso del colore che

ricorda il Picasso maturo.

Queste matrici si affiancarono consapevolmente a due altri aspetti collegati:

anzitutto l’adesione alla Psicoanalisi dell’allievo ribelle di Freud, lo psichiatra zurighese Karl

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Gustav Jung, per il quale l’umanità condivide, nel suo inconscio collettivo, degli archetipi delle

forme primarie che hanno uno stesso significato per tutti; inoltre Pollock era attratto dall’arte degli

indiani d’America, in particolare dalle pitture di sabbia colorata (sand paintings) dei Navajo, in cui

potevano essere ritrovati, appunto, i segni incontaminati dell’inconscio collettivo.

Raggiunse l’acme della sua produzione nel 1947, quando iniziò a ingigantire i pennelli e a staccarli

dalla tela.

La superficie da dipingere, tela o cartone, spesso di enormi dimensioni, veniva disposta a terra

e lavorata su tutti e quattro i lati. Il segno proveniva dall’azione di tutto il corpo dell’artista: il

colore scendeva libero e governato non dalla gestualità della mano, ma del braccio; l’artista

sfruttava il caso utilizzando gli spruzzi come alone delle linee maggiori. Da questa tecnica

deriva la definizione di Action Painting, pittura d’azione.

Cosi trattato, lo spazio non presentava né centro né periferia e l’immagine, una distesa piatta di

filamenti, suggeriva una sua possibile continuazione oltre i bordi.

Questo si intende per pittura all-over, traducibile come “a tutto campo”. Il dipinto nasceva come

dichiarazione di uno stato d’animo, di una visione della propria interiorità, ma anche del mondo

esterno come ambito d’azione per pulsioni e forze violente.

Nei dipinti di Jackson Pollok possiamo spesso trovare mozziconi di sigarette, quando creava i suoi

dipinti, permetteva a sé stesso di cadere in uno stato di trance nel quale nessun atto conscio doveva

manifestarsi; così se aveva l'impulso istintivo di gettare la sigaretta in terra, lo faceva, sia che

davanti ai suoi piedi ci fosse un marciapiede, sia anche una tela.

La maggior parte delle volte, la persona la butta a terra senza pensare a quel che sta facendo. Cosa

provavano a ritrarre gli Action Painters, era solo questo, un'azione spontanea completamente

eseguita senza pensarci.

Non fu Pollock a scoprire queste tecniche, già ampiamente sondate dai Surrealisti, ma fu lui a

sfruttarne le massime potenzialità .

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In particolare va sottolineata l’importanza data all’improvvisazione su un canovaccio iniziale,

assimilabile al metodo con cui si stava sviluppando la vena bee-bop nella musica jazz.

La tela non era più uno spazio da progettare, ma un’arena in cui combattere in trance, lasciando

agire l’inconscio e il pulsare del ritmo vitale.

Anche l’opera di William de Kooning (Rotterdam 1904- New York 1997), l’altro grande

protagonista del gruppo newyorkese, fu caratterizzata dal ricorso a una gestualità ossessiva. Nel suo

caso, però, la figura non venne abolita e anzi fu protagonista dei quadri più noti.

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La precisione dei suoi padri naturali, i pittori olandesi e fiamminghi, assunse nel suo lavoro il

carattere ruminante del ritornare sul già fatto. La sua incapacità di considerare un quadro finito è

leggendaria, preso com’era dall’esigenza di ridipingerlo, cancellarlo, trasformarlo continuamente.

Un forte influsso fu anche esercitato dalla carne tormentata e dai bagliori di Soutine, che ebbe al

MoMa una retrospettiva importante. Nella sua opera più famosa, Woman I (1950), una grande

donna seduta occupa tutto lo spazio del quadro e impone il suo seno come una presenza più

aggressiva che accogliente. Il viso ha un ghigno e gli occhi scuri spalancati rievocano gli sguardi

delle Demoiselles d’ Avignon di Picasso. I colori si mescolano direttamente sulla tela in modo

volutamente rozzo; i contorni sono tracciati con il nero, ma molto spesso vengono cancellati da

pentimenti.

La tecnica del mai-finito diventa qui occasione per torturare la figura, insieme vittima del pittore e

carnefice dello spettatore, per metterle addosso pennellate violente e per ingolfarla su uno sfondo

che la assorbe.

In Excavation (1950) e in molta parte delle opere successive il corpo addirittura si frammenta, la

tela si popola di gomiti, bocche, ginocchi. Anche nei casi in cui il quadro pare essere dipinto secon-

do le tecniche dell’all over e dell’action painting, conserva un residuo di rappresentazione

tormentata e disfatta.

Una gestualità più decisa e addirittura

rabbiosa contraddistingue le opere di Franz

Kline (Wilkes Barre, Pennsylvania, 1910 -

New York, 1962) che si era formato a Londra

e che visse come illustratore di riviste e

murales; per la sua produzione matura scelse

un Astrattismo dai toni drammatici: nei suoi

grandi quadri sciabolate di nero si stagliano

su un fondo bianco, generando un violento

contrasto e dando la sensazione di un conflitto.

Se ne potrebbe riscontrare l’origine tanto nel calligrafismo giapponese quanto nella scrittura

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automatica surrealista, ma anche nella moderna architettura stradale: il paesaggio americano

andava, allora, segnandosi di strade piene di ponti, viadotti e incroci.

Benché le opere di Kline sembrino dipinte in una sorta di slancio frenetico, le partiture dei quadri

erano molto studiate sia dal punto di vista dei rapporti tra bianco e nero sia in quanto l’autore ri-

toccava i contorni dei segni con un sottile pennello.

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CAP. 3 - IL GRAFFITISMO

Keith Haring rappresenta, insieme a Jean-Michel

Basquiat, il punto più alto raggiunto dal

fenomeno statunitense noto come Graffiti Art.

Questo fenomeno, a sua volta, non è

comprensibile se non sullo sfondo di alcune

tendenze generali dell’arte d’avanguardia

dell’intero XX secolo che l’hanno vista dialogare

col graffitismo preistorico, e più ancora con tutti

gli aspetti dell’arte cosiddetta ‘‘arte primitiva’’

senza che si possa d’altronde tracciare un

confine troppo netto rispetto ad altri aspetti

collaterali, quali l’intero ambito del disegno

infantile, e le manifestazioni espressive provenienti dal mondo dei soggetti “non

acculturati”.

Per questo ultimo ambito c’è un termine corrente che li inscrive sotto il cappello forse

un po’ troppo ampio ed equivoco del naif, per cui, forse, è meglio ricorrere all’etichetta

più specifica coniata a questo proposito da un grande artista del periodo informale, Jean

Dubuffet, che ha preferito parlare di Art Brut. In comune, queste varie zone espressive

hanno il ripudio di uno dei tratti centrali che pure sono stati il vanto dell’arte

“occidentale”, quale si è sviluppata da Cimabue e Giotto fino a tutto l’Ottocento: la

prospettiva, ovvero la simulazione di una profondità, come se la rappresentazione

artistica consistesse in una “finestra aperta” sulla realtà, da cui è possibile “prendere le

misure” sul panorama circostante, fino alle ultime distanze, predisponendosi a balzar

fuori da quel punto d’osservazione (“punto di vista”) per muovere davvero alla conquista

del mondo. L’arte, insomma, come una sorta di cartografia della realtà esterna, in attesa

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che un’esplorazione fisica

giunga a conquistarla

davvero. Invece, tutto quel

fascio di ricerche primitive

o “diverse” non sa che cosa

farsene di una simile

illusione di profondità, e

quindi con atto preliminare

riporta le immagini sulla

superficie, sia questa una

superficie in qualche modo

‘‘trattata’’ e predisposta

all’intervento delle “belle

arti” (si sa che appunto, a

questo scopo, la tradizione

occidentale dapprima ha

puntato sulle tavole lignee,

quindi ha dato la sua

preferenza alla tela

inchiodata sul relativo

telaio), o invece uno spazio grezzo, come per esempio la parete di una caverna (si pensi

ai graffiti rupestri delle popolazioni preistoriche).

Questo riporto delle immagini su una superficie rigorosamente bidimensionale, nella

realtà fisica come nell’effetto percettivo suscitato nello spettatore, ha sempre indotto a

trattarle in modi semplificati e ridotti, con contorni schematici e generalizzanti, il che si

può definire ricorrendo al termine di “astrazione” nel suo senso più proprio e pertinente

(ma sappiamo che nella storia delle avanguardie del Novecento con “astrazione”, o

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meglio ancora con

“astrattismo” si intende un

tipo di ricerca che prescinde

da riferimenti espliciti alla

realtà fisica esterna e propone

forme scaturite direttamente

dal patrimonio interno

all’umanità). I graffiti, per loro

natura, sono magri, essenziali,

astraenti, non foss’altro che

per la fatica di stenderli, o

addirittura di inciderli, di

scavarli su supporti non

particolarmente lisci e

scorrevoli.

Questa loro astrazione

consente anche di superare

una distinzione nociva che,

viceversa, la grande tradizione

dell’Occidente sarà pronta a

imporre, proprio in quello

spazio storico di cui si è detto

sopra, dal Rinascimento

all’impressionismo. Mossa

dalla spinta conoscitiva già rilevata, questa tendenza occidentale ha voluto che le

immagini si dettagliassero sempre più, in modo da fornire dei surrogati delle cose, e

conquistassero a fondo l’individualità dei fenomeni affrontati; man mano che le

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immagini si inoltravano verso un obiettivo del genere, si distaccavano da un aspetto di

decorazione fluente, di ornamento ripetitivo e profuso a piene mani. La decorazione,

insomma, usciva fuori dall’arte “maggiore”, venendo condannata come obiettivo fatuo,

esteriore, degno appunto o di bambini o di primitivi, gente non seria, non matura né

adulta, cui quindi si poteva concedere di trastullarsi coi motivi decorativi, i quali di

conseguenza non apparivano all’altezza degli artisti di tipo superiore.

Per contro il graffitismo, nelle sue manifestazioni originarie, ignorava affatto una

distinzione del genere, e dunque tra le immagini volte a raccontare - a svolgere storie,

aneddoti - e i loro prolungamenti puramente decorativi non sussisteva alcuna cesura, le

une continuavano negli altri grazie a un segno filante, pronto ad arricciarsi su se stesso, a

concedersi eleganze grafiche, anche se non giustificate da una precisa corrispondenza

con la struttura delle “cose” presenti nel mondo reale. Iconismo e aniconismo divenivano

le due facce di un sistema unico, pronto a oscillare tra l’uno e l’altro polo, con totale

reversibilità. Questa differenza, fatalmente incombente sulla grande tradizione

occidentale, tra immagini sempre più definite, avviate verso un asfissiante mimetismo, e

viceversa tracciati grafici sempre più “astratti”, ovvero indipendenti dal riferimento

esterno trovò un enorme campo di sviluppo in un’altra differenza estrema, su cui la cul-

tura occidentale ha senza dubbio costruito le sue fortune, quella tra il mondo, appunto

delle immagini e quello della scrittura.

Si sa che molte civiltà, soprattutto dell’estremo Oriente (cinese, giapponese) hanno

scelto una scrittura ideografica, in cui le due alternative restano agganciate tra loro, dato

che l’ideogramma, come dice la parola stessa, si può considerare alla stregua di

un’icona, seppur largamente astratta” e stilizzata; e d’altra parte non c’è icona che non si

porti dietro un proprio significato generale, non identificandosi mai con un singolo

esistente. Ma la cultura europea, dai tempi della Grecia e di Roma, ha preferito

esprimersi con una scrittura fonetica, dove i segni rispondono ai suoni e non alle

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immagini, il che ha provocato il divorzio totale tra i due campi, con una conseguente

specializzazione del lavoro: o si è tecnici della scrittura, o delle immagini (pittori,

scultori), senza possibilità di scambi e di ibridazioni. Una divisione, questa, ancor più

rafforzata dall’avvento della scrittura a mezzo della macchina per stampare, ovvero della

tipografia, per cui perfino la stesura di quei tratti totalmente astratti, che sono le lettere

dell’alfabeto fonetico, è stata affidata, appunto, all’impassibilità di una machina. Prima

di quel momento l’amanuense, che stendeva accuratamente le lettere dello scritto, e il

miniatore, che arricchiva i codici di deliziose scenette pittoriche, svolgevano funzioni

omogenee e collegate, intercambiabili, in definitiva.

Un’ arte d’avanguardia del Novecento è nata tutta “contro” i nefasti della tipografia,

della cosiddetta Galassia Gutenberg cui, come è stato luminosamente dimostrato da

Marshall McLuhan, si può associare strettamente l’istituzione della prospettiva, da

Alberti a Durer a Leonardo; e dunque non ci meraviglieremo di constatare che ogni

grande maestro di quell’epoca quanto mai dinamica ha cercato di rinnovare un patto di

alleanza con le impostazioni “primitive” o infantili o comunque non acculturate”.

Naturalmente, ciò è avvenuto dove più, dove meno. Picasso, per esempio, nella sua

infinita sperimentazione, non sempre è stato amante della superficie, e anzi, nella

stagione cubista, peraltro mai negata, ha “simulato” (lo dice la stessa etichetta del

movimento da lui inventato) la presenza di volumi cubici; ma nell’enorme attività

grafica della sua maturità non di rado si è espresso con un segno filante e continuo, quasi

compiacendosi di non staccare la matita o la penna dal foglio. Quanto a Matisse, egli è

partito da un mondo fin troppo carico delle delizie tipiche dell’intimismo borghese, ma

poi è venuto sfoltendolo, sforbiciandolo, e non solo in via metaforica (si pensi ai

découpages con cui si è chiusa la sua carriera), riducendolo insomma a sagome estreme,

davvero elementari. Klee, poi, non ha fatto che alternare, nei suoi dipinti, la comparsa di

icone solenni - ironiche, come quelle di cui è capace l’innocenza dei bambini, a tessuti

decorativi dalla grana fitta e policroma, non mancando di inserire in questi suoi splendidi

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mosaici anche delle lettere, ugualmente enigmatiche pur nella loro chiarezza esteriore. Il

surrealismo, movimento peraltro complesso e dalle molte anime, almeno in una di queste

si è dato intensamente alla pratica della cosiddetta scrittura automatica, compiacendosi di

lasciar scorrere un flusso di grafismi ambiguamente sospesi tra la comparsa di immagini

minimamente esplicite e leggibili, o invece il loro affondare in una gestualità allo stato

puro. Si pensi soprattutto ai filamenti che danzano nelle opere di Mirò.

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LA DIMENSIONE METROPOLITANA

La generazione di Keith Haring era cresciutai avendo come unico orizzonte muri e

palizzate pronti a ospitare il richiamo vistoso, roboante della pubblicità; o forse ancor più

il loro nuovo habitat, come una seconda natura, era dato ormai dalla dimensione dell’un-

derground, in cui scorrono a tutte le ore i vagoni della metropolitana, coi loro viaggi in

tenebre azzeranti e soste momentanee in quei tipici non-luoghi neutri, asettici che sono le

stazioni, colpite dall’aggressione cromatica e iconica dei manifesti pubblicitari.

Accettata una simile realtà metropolitana come orizzonte ormai immanente e inevitabile,

questi giovani, nati al momento in cui il boom e il consumismo si affermavano sovrani

(cioè tra il finire dei Cinquanta e gli inizi dei Sessanta), scoprivano tuttavia che in essa le

parti non erano distribuite nei modi giusti. C’era troppa discriminazione nelle possibilità

di partecipare a quei piaceri, a quelle lusinghe del consumismo. I “vecchi”, la società

repressiva dei padri-padroni, vi deteneva troppe leve del potere, e c’era anche una

separazione troppo stridente tra le classi inserite in quel processo distributivo e le altre,

gli emarginati, i disoccupati; un confine che molte volte, nelle metropoli nordamericane,

ricalcava pari pari quello etnico tra i bianchi e i neri, nelle cui file confluivano tutti i

“diversi”, coloro le cui famiglie non si potevano dire appartenenti al fatidico ambito

Wasp (“white, anglo-saxon, protestant”).

Ebbene, quella classe adulta, di padri invecchiati, di zelanti cultori dell’efficienza,

dell’etica del successo negli affari, pretendeva che il mondo delle macchine in cui si

riconosceva e in cui riponeva il proprio orgoglio. (grattacieli con muri di vetro-cemento,

vagoni della metropolitana, ogni altro aggeggio e gadget di un tale universo) fosse

improntato al decoro, alla pulizia, all’igiene. Muri bianchi, anzi immacolati, allo stesso

modo delle pareti metalliche, verniciate a fuoco, dei mezzi di trasporto. Per avere

successo, secondo l’etica degli affari, bisogna reprimere le proprie pulsioni alla gioia,

allo sbocco di una sensualità esuberante. Il principio del piacere, della libido, dell’eros

va conculcato a tutto vantaggio di un principio di realtà sempre più severo ed esigente.

Ecco allora scatenarsi la protesta degli strati psichici del sottosuolo, che in quel caso

trovava, non solo metaforicamente, il luogo più adatto di espressione nel sottosuolo delle

metropoli. Converrà allora aggredire, per prima cosa, quegli immacolati vagoni della

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metropolitana, che pretendono di essere luoghi neutri, azzeranti, dove ci si affida alla

pura funzione del trasporto, accettando di vivere in uno stato di sospensione, in una

cellula asettica. Bisognerà invece che quei non-luoghi ridiventino confortevoli, che ogni

viaggiatore si senta a suo agio, come se fosse immerso nel rigoglio di una foresta

naturale. Ecco dunque che questi “nuovi primitivi” di una società tecnologica avanzata

rif anno il look esterno dei vagoni, ma non si arrestano certo a quella soglia, penetrano

anche all’interno delle vetture, ne aggrediscono le pareti, vi tracciano ghirigori,

trasformandole in preziosi scrigni colmi di suggestione, in bomboniere che fasciano, che

accolgono quasi col tepore di ritrovati “caminetti”.

Naturalmente, questo graffitismo “sui generis” deve tener conto degli aspetti insoliti su

cui è chiamato a esercitarsi: le superfici da decorare, sono più le rozze pareti di una

grotta — granulose, selvagge —bensì delle lamiere realizzate con irreprensibili e lucidi

interventi di tecnologie sofisticate, e dunque anche gli strumenti per aggredirle dovranno

porsi a quel medesimo livello, valersi di vernici industriali, racchiuse in bombolette

spray altrettanto attentamente elaborate nei solventi, dei fissanti, della faciora, non lità di

emissione, tale da assecondare il movimento agile del polso intento a manellare motivi

ondulati. Inoltre, vale più che mai quel carattere di ambiguità che sempre, in ogni

graffitiamo, tiene avvinte le due facce della medaglia: iconismo e aniconismo.

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Quei tratti rapidi possono alludere vagamente a immagini riconoscibili ma più spesso si

perdono nella più elegante astrazione, aggrappandosi ai fenomeni di scrittura. Si scopre

cioè che è bello, piacevole, gratificante tracciare enormi lettere dell’alfabeto, purché

queste rinuncino a quegli abiti di castità, di nuda funzionalità che hanno assunto lungo i

secoli dell’età “moderna”, quando hanno dovuto rendersi adatte a una diffusione

attraverso la tipografia. In qualche modo si ritorna all’arte dell’amanuense, o addirittura

del miniatore, ma su scala gigante, quale ormai è richiesta dall’obbligo di decorare le

grandi superfici metropolitane.

Si aggiunga un’altra osservazione di grande importanza: questa enorme attività di

cosmesi degli spazi pubblici è svolta da una folla di giovani adepti appartenenti a uno

stato semiculturale. Non si può negare intelligenza e abilità a chi sa tracciare caratteri

alfabetici così preziosamente arabescati, accompagnati anche dalle giuste stesure

cromatiche; e ugualmente abile, sciolto, disinvolto è il gesto del polso che procede a

quest’opera di maxi-grafia. Ma certo si tratta di rappresentanti anonimi di un’arte

stereotipata e ripetitiva, che non possono ambire a riconoscimenti personalizzati, o forse

neppure lo vogliono; questo del resto è forse lo stato comune, nei secoli, a tutti gli

anonimi esecutori di una sorta di smisurato “murale” collettivo, affidato di volta in volta

a protagonisti senza nome, senza volto, benché non privi di precise cognizioni tecniche

che ne rendono così abile e apprezzabile il lavoro. Ma se a un capo della scala troviamo

appunto l’artista-artigiano, il decoratore che non intende emergere dal branco e si affida

a un mestiere comune, all’altro capo della scala sta l’artista colto, pronto ad abbeverarsi

a questa fonte di creatività diffusa e di massa, traendone validi spunti verso la

definizione di un proprio stile personale e riconoscibile, pur sullo sfondo di

caratteristiche assai diffuse. Già quei grandi maestri delle avanguardie storiche ricordati

sopra, da Picasso a Dubuffet, da Mirò a Pollock, erano pronti ad agire in tal senso, a

elaborare autonomamente i sug~erimenti ricavati dall’arte primitiva, infantile o “brut”.

Anche nell’ambito del graffitismo di cui ci stiamo occupando, a cavallo tra gli anni

Settanta e Ottanta, è avvenuta la stessa cosa: da un lato c’erano i campioni di una pratica

sempre uguale a se stessa, immersi nell’adempimento di riti appartenenti a una cuasi

ritrovata tribalità; dall’altro, invece, stavano dei giovani colti, passati attraverso una

giusta trafila di studi, pronti tuttavia a comprendere quali spunti originali e proficui

venivano loro dai compagni di strada, e di condizione giovanile, anche se separa da quel

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diaframma che distingue l’anonimo operatore di strada da colui che invece ha tempo,

agio, mezzi per seguire un curriculum scolastico. Anche se questo confine e sottile e

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riesce agevole varcarlo; nulla impedisce, cioè, che un giovane cresca “in stra-

da”abituandosi a compiere, magari di notte incursioni di squadra, che lo portano,

lontano, a decorare i vagoncini della metropolitana quando se ne stanno nei depositi.

Se appunto consideriamo il fenomeno globale della Graffiti Art, dobbiamo constatare

che molti dei suoi protagonisti appartenevano a questa fascia anonima. Non per nulla

erano persone che preferivano rinunciare ai loro nomi e cognomi, sicuramente

insignificanti, o tali da confermare una condizione di anonimia e di degrado sociale, per

assumere altri simili a bandiere di combattimento: A-One, C-One, Toxic-One, Craze,

Crash. Si sentivano infatti come gli affiliati a un ordine monastico di nuovo conio,

magari di quelli che, già nel Medioevo, assumevano una valenza mista, tra il religioso e

il militare, da combattenti per la fede pronti peraltro a perseguire i propri interessi e a

fondare staterelli di natura temporale. Ebbene, anche gli A-One sentivano di militare in

bande pronte alle battaglie urbane per rivendicare la dignità dei diseredati; ma per nostra

e loro fortuna le armi del combattimento non erano le catene o i coltelli di cui si valgono,

ormai da decenni, tutte le bande violente della rivolta giovanile fomentata dal disagio

delle grandi metropoli. Questi nostri combattenti gareggiavano appunto con le armi raf-

finate e totalmente metaforiche delle bombolette spray, impegnandosi per il ripristino dei

valori altrimenti conculcati dell’immaginazione al potere”.

D’altronde i bravi Wasp, i rappresentanti del mondo adulto e autoritario del

benessere, non si ingannavano certo fu proposito, e scorgevano quanto di provocatorio,

di protestatorio c’era nell’intento, pur in apparenza innocuo, di sporcare i muri, di

vulnerare il manto dell’efficienza, dell’irreprensibilità sociale. Ancora oggi i benpensanti

di tutte le età e latitudini insorgono contro la rivolta virtuale del graffitismo e la

condannano senza appello, minacciando l’applicazione di norme di legge per colpire i

responsabili di quell’aggressione, benché condotta a livello unicamente estetico; più

ancora, minacciano di procedere senza indugio a operazioni di imbiancatura, di pulitura

degli spazi violati. Che voleva partecipare a questa specie di guerra clandestina e

intestina era opportuno che rinunciasse a ogni individualismo, entrando a far parte di una

setta, e assumendo quindi i nuovi nomi che convenivano alle sue regole.

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Jean-Michel Basquiat

« Io non penso all'arte quando lavoro. Io tento di pensare alla vita »

Jean-Michel Basquiat (Brooklyn, 22 dicembre 1960 – New York, 12 agosto 1988) è

stato un pittore e graffitista statunitense. E’ stato uno dei più importanti esponenti del

graffitismo americano, riuscendo a portare, insieme a Keith Haring, questo movimento

dalle strade metropolitane di oggi alle gallerie d’arte.

SAMO

Nel 1976 Jean-Michel inizia a frequentare la City-as-School a Manhattan, per ragazzi

dotati a cui non si addice il tradizionale metodo didattico. È lì che nel 1977, a 17 anni,

stringe amicizia con Al Diaz, un giovane graffitista, i due iniziano a fare uso di

stupefacenti ed uniscono le loro capacità iniziando a produrre graffiti per le strade di

New York firmandosi con l’acronimo di SAMO “SAMe Old Shit” (letteralmente la

solita vecchia merda), propagandando con bomboletta spray e pennarello indelebile idee

ermetiche, rivoluzionarie ed a volte insensate. La coppia si scioglie nel 1978 affiggendo

ai muri di Manhattan l’annuncio “SAMO IS DEAD”. Da quel momento in poi Basquiat

non utilizzerà mai più il nome SAMO.

Avrà fortuna conoscendo Andy Warhol

il quale comprerà alcune delle sue opere.

Passeranno però alcuni anni prima che

Jean-Michel riesca ad entrare nella

"Factory" del re della Pop-Art. Diventa

cliente fisso dei due Club più esclusivi

nella scena socio-culturale di New York:

il Club 57 ed il Mudd Club, frequentati

anche dallo stesso Warhol, da Madonna e

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da Keith Haring, con il quale stringerà un’amicizia che durerà fino alla morte.

Produce un disco Hip-hop e nello stesso periodo conosce Madonna con cui ha una

breve storia ma a cui rimane legato tanto che la popstar dieci anni dopo finanzierà la

retrospettiva a lui dedicata al Whitney Museum di New York e nel 1996 pubblicò un

breve ma sentito ricordo di lui sul Guardian

Viene soprannominato il James Dean dell’arte moderna, essendo riuscito a scalare

quel mondo con grande velocità, ma a scomparire in un tempo ancora minore.

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Keith Haring

« Mi è sempre più chiaro che l'arte non è un'attività elitaria riservata

all'apprezzamento di pochi. L'arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio

lavorare »

I lavori di Keith Haring rappresentano la cultura di strada della New York degli anni '80.

Haring non ha mai smesso di credere che l'arte fosse capace di trasformare il mondo,

poiché le attribuiva un'influenza positiva sugli uomini.

Nasce a Reading, in Pennsylvania(, 4 maggio 1958 – New York, 16 febbraio 1990) e,

primo e unico maschio dei quattro figli di Allen e Joan, mostra una precoce predilezione

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per il disegno incoraggiata dal padre, disegnatore di fumetti e cartoni animati. Furono

proprio i personaggi dei fumetti tipo Walt Disney, del Dottor Seuss e altri eroi delle

animazioni televisive a suscitare in lui un'influenza duratura. È proprio in questo

periodo, infatti, che Haring decide di fare dell'arte stilizzata la sua ragione di vita.

Al termine del liceo, Keith si iscrive all' Ivy School of professional art di Pittsburgh e in

seguito alla scuola di commercial-art. Ben presto, però, capisce che quella non è la sua

strada e abbandona la scuola.

Nel 1976 Keith si mette a girare tutto il paese in autostop, conoscendo molti artisti. Si

reca a San Francisco, dove con la frequentazione della Castro Street inizia a manifestare

il proprio orientamento omosessuale. Alla fine torna a Pittsburgh e si iscrive

all'Università; per mantenersi lavora come cameriere alla mensa di un'industria.

Successivamente trova un impiego presso un locale che espone oggetti d'arte. Qui

allestisce la sua prima mostra personale di disegni.

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Importante per la sua evoluzione futura è una retrospettiva dedicata a Pierre Alechinsky,

organizzata nel 1977 dal Museum of art di Pittsburgh.

Nel 1978 espone le sue nuove creazioni al Pittsburgh Center for the arts, poi va a New

York ed entra alla School of Visual Art. Mentre lavora il suo interesse personale lo

avvicina ai lavori di Jean Dubuffet, Stuart Davis, Jackson Pollock, Paul Klee e Mark

Tobey. È questo il periodo in cui esplode la popolarità di Haring: inizia a realizzare

graffiti soprattutto nelle stazioni della metropolitana e la sua pop-art viene grandemente

apprezzata dai giovani, tanto che i suoi lavori verranno spesso rubati dalla loro

collocazione originaria e venduti a musei. Per la sua attività -illegale- di graffitaro viene

più volte arrestato.

Nel 1980 partecipa insieme ad Andy Warhol alla rassegna artistica Terrae Motus in

favore dei bambini terremotati dell'Irpinia. Occupa inoltre un palazzo in Times Square

realizzando la mostra Times Square Show. Allestisce in seguito molte altre mostre finché

la Tony Shafrazi Gallery non diventa la sua galleria personale.

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Nel 1984 va a Roma invitato da Francesca Alinovi per esporre nella mostra Arte di

Frontiera.

Nel 1985, a Milano, dipinge una murata nel negozio Fiorucci. Elio Fiorucci, in

un'intervista al mensile Stilearte, racconta così quella esperienza: Invitai Haring a

Milano, stregato dalla sua capacità di elevare l'estemporaneità ai gradini più alti

dell'arte. Egli diede corpo ad un happening no stop, lavorando per un giorno e una

notte. I suoi segni "invasero" ogni cosa, le pareti ma anche i mobili del negozio, che

avevamo svuotato quasi completamente. Fu un evento indimenticabile. Io feci portare un

tavolone, fiaschi di vino, bicchieri. La gente entrava a vedere Keith dipingere, si

fermava a bere e a chiacchierare. Ventiquattr'ore di flusso continuo; e poi i giornali, le

televisioni... In seguito, i murales sono stati strappati e venduti all'asta dalla galleria

parigina Binoche.

(Nel 1986 apre a New York il suo primo Pop Shop, ovvero un negozio dove è possibile

comprare gadget con le sue opere e vedere gratuitamente l'artista al lavoro. In questo

anno, inoltre, va a Berlino e dipinge sul tristemente noto muro della città dei bambini che

si tengono per mano. In seguito si reca nel ghetto di Harlem dove dipinge su una grande

murata sulla East Harlem Drive le parole: Crack is wack (ovvero Il crack è una

porcheria).

Nel 1987 va a Parigi e decora una parte dell' Hospital Necker. L'opera "Tuttomondo" a

Pisa.

Nel 1988 apre un Pop Shop a Tokyo. In quell'occasione l'artista afferma: Nella mia vita

ho fatto un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma

ho anche vissuto a New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non

prenderò l'Aids io, non lo prenderà nessuno. Nei mesi successivi dichiara, in

un'intervista a Rolling Stone di essere affetto dal virus dell'HIV. Di lì a poco fonda la

Keith Haring Foundation a favore dei bambini malati di AIDS. Nel 1989, vicino alla

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Chiesa di Sant'Antonio abate in Qualquonia di Pisa, esegue la sua ultima opera pubblica,

un grande murales intitolato "Tuttomondo" e dedicato alla pace universale.

Il 16 febbraio 1990, Haring muore a soli 31 anni. Nonostante la sua morte prematura,

l'immaginario di Haring è diventato un linguaggio visuale universalmente riconosciuto

del XX secolo, meritando, tra le altre innumerevoli esposizioni, una mostra alla triennale

di Milano conclusasi nel Gennaio 2006.

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Opere di Haring in Italia

- Graffiti sullo zoccolo del Palazzo delle Esposizioni a Roma (1982) - cancellato nel

1992 per "ripulire" il palazzo in occasione della visita di Michail Gorbaciov

- Graffito di 6 x 2 metri realizzato nella metropolitana di Roma, linea A, tratto Flaminio-

Lepanto, sulle pareti trasparenti del ponte sul Tevere - cancellato nel 2001 per volere

dell'amministrazione comunale

- Interni del negozio Fiorucci a Milano (1985) - i murales in seguito sono stati strappati e

venduti all'asta dalla galleria parigina Binoche.

- Tuttomondo a Pisa, sulla parete esterna del Convento di Sant'Antonio (1989)

- Due disegni a pennarello raffiguranti un surfista in una grande onda. Milano, collezione

privata.

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Appendice al Cap. 3

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Da i diari di: Keith Haring

La mostra di Stella fu uno schiaffo. Ma lo fece lavorare più duramente. Aveva detto a John Gruen

che dopo la morte di Basquiat e di Warhol toccava a lui dimostrare qualcosa. Ma questa parziale

verità nascondeva uno spirito di rivalsa e di competizione che la retrospettiva di Stella rivelò

pienamente.

L’uomo che sapeva affrontare un rifiuto amoroso ordinando a se stesso con humour di «leggere

Nietzsche», che non si arrese mai nonostante la verità sulla sua salute che lo specchio gli diceva

ogni mattina, prese le armi di Stella e di altri modernisti come lui, le misurò, le fece sue,

trasformando il 1988-89 nel suo periodo migliore. In breve, la ebbe vinta. Recentemente il Museum

of Modem Art ha acquistato uno dei suoi pezzi, ponendo fine a quello che Haring considerava un

lungo assedio contro la sua reputazione di artista.

Ciò nonostante, la causa di Haring non è stata favorita da quelle pubblicazioni che raccolgono

acriticamente il suo lavoro, quello buono e quello cattivo. Non è quello che Haring stesso avrebbe

desiderato. Criticando esplicitamente questo modo di fare, un volta scrisse: «L’idea della mostra è

bellissima, ma confusa da troppi pezzi di qualità inferiore».

La retrospettiva ideale di Haring escluderebbe i lavori di seconda qualità, esercizi e momenti no,

e si dovrebbe concentrare sui lavori più impegnati e brillanti, come alcuni disegni e dipinti

sull’AIDS, un fertile lavoro realizzato a Knokke, in Belgio, e dove si esaltò, piegando il

modernismo a nuove forme e mescolandolo con le silhouette danzanti di neri e ispanici dei primi

anni Ottanta al Roxy e, ancora meglio, al Paradise Garage.

Haring e la danza: l’electric boogie

L’insieme esplose, alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, sulle piste di danza al ritmo

della musica mixata dai DJ, le “ruote d’acciaio”, e dei loro prolungati breaks [interruzioni], da cui il

termine “break dance”.

Haring conosceva l’essenza delle sequenze della break dance:

battuta d’entrata (acrobazie a terra), rotazione, immobilità, uscita. Celebrava in particolare le

rotazioni “all’Anteo”, danzatori in guerra contro la gravità e le leggi della fisica.

La break dance si basa sull’orizzontalità. Ma l’electric boogie, la dimensione perfetta della

coreografia hip-hop, è una danza verticale, che mima efficacemente il potere attivante dell’energia

elettrica: un ballerino dà inizio a un’onda elettrica con il braccio destro, toccando il braccio di un

altro ballerino, che vibra con l’energia ricevuta e poi la trasmette a tutti ballerini che vogliono

partecipare a questo gioco elettronico di stimolo e risposta.31

Due critici, Edit Deak e Lisa Liebmann, colsero i riferimenti di Haring quando cominciò a

rappresentare alcuni aspetti dell’electric boogie sia nei suoi disegni nella metropolitana sia nei suoi

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dipinti su tela: una corrente di energia trasmessa da individui maschi ad altri individui maschi che si

ricancano l’uno con l’altro ... l’atto del ricaricare appare come pratica e principio erotico.

Haring vide inoltre nell’electric boogie una verità sociale e una trascendenza spirituale. Ormai in

confidenza con questo stile, Haring disegnò perfino un danzatore che accende una lampadina con la

corrente che scaturisce dalla sua mano.

Nel 1984 Haring riporta su una parete di metallo sulla FDR

Drive, vicino a 91 Street, tutta la sua conoscenza di break dance e di electric boogie:

“Giravolte sulla testa, il corpo che riceve la scarica elettrica da una mano, le gambe attorcigliate.

Spalle che ruotano e che scattano. Un duetto d’equilibrio. L’electric boogie verticale, l’elasticità del

quale, emanando scariche elettriche, ha magicamente allungato il corpo del danzatore. Un breaker

che cade sulla schiena, il corpo sostenuto dalle palme delle mani e dei piedi, nella posizione del

ponte. Danzatori a onda che si trasmettono scariche l’uno con l’altro. La chiusura dell’electric

boogie, con la mano ad angolo retto sul fianco.

Questo era Haring al suo meglio, il maestro della documentazione in cerca di gusto e di

comunicazione, che dimostra come gli uomini acquisiscano forza nella danza rubando il fuoco all’e-

ra dell’elettronica. Haring mostrava gli uomini mentre deviano, ritardano e sorpassano la marcia

verso un futuro postumano. Vide la forza della vita, la sottile medicina espressa in codice

nell’electric boogie, mascherata dalla sua grande popolarità.

14 ottobre 1978

Mi sento a mio agio mentre sto qui seduto a scrivere. È abbastanza raro sentirsi a proprio agio a

Washington Square. Ci sono tanti modi diversi di vivere le cose che accadono in città. Una certa

situazione può avere un numero illimitato di effetti diversi sui pensieri delle persone, a seconda del

tipo di atteggiamento mentale. Qualcosa che oggi mi colpisce non necessariamente mi colpirà

domani. Nulla è costante. Tutto cambia in continuazione. Ogni secondo a partire dalla nascita lo si

tra-scorre a fare esperienza; diverse sensazioni, diverse interferenze, diversi vettori direzionali di

forza/energia che si compongono e ricompongono continuamente intorno a noi. Il tempo (situazioni

in una progressione logica visibile) non si ripete mai e mai potrà ripetersi. Nessuno degli elementi

coinvolti nell’esperienza del tempo potrà mai essere uguale, perché tutto cambia in continuazione.

Fisicamente gli esseri umani cambiano in continuazione (divisione cellulare) e nessuno è mai nello

stesso stato mentale o fisico.

La realtà fisica del mondo, per come la conosciamo, è il moto. Il moto in quanto tale =

movimento. Cambiamento. Se c’è una ripetizione non è mai una ripetizione identica perché (per lo

meno) il tempo è passato e perciò c’è un elemento di cambiamento.

Due esseri umani non provano mai sensazioni, esperienze, sentimenti o pensieri identici. Tutto

cambia, tutto è diverso ogni volta. Tutti questi incontri di variabili che si fondono interagiscono, si

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distruggono a vicenda per costruire nuove forme, idee, “realtà”; sono la prova che l’esperienza

umana è in costante mutamento e, come si usa dire, “in crescita”.

Continuo a scrivere perché prima di cercare di spiegare come mi sembra di vivere questa realtà”

voglio provare a spiegare (a me stesso) che si tratta veramente di una realtà; che essa esiste e che io

agisco in un modo non completamente privo di senso.

Essere una vittima della tua stessa conoscenza non vuol dire capire quale conoscenza sia e quali

ne siano le conseguenze.

Essere vittima del cambiamento significa ignorarne l’esistenza.

Essere una vittima del “vivere secondo ciò che si pensa” vuol dire ignorare le possibilità di “un

altro modo di vivere” o la possibilità di “sbagliarsi su come stanno le cose” o ignorare la possibilità

di “non sapere quello che si pensa”.

Pensare di conoscere la risposta è altrettanto pericoloso quanto escludere la possibilità che non vi

sia affatto risposta.

Frasi poetiche senza senso possono anche essere poesie.

Keith Haring pensa in poesia. Keith Haring dipinge poesie.

Le poesie non hanno necessariamente bisogno di parole.

Le parole non formano necessariamente una poesia.

In pittura, le parole sono presenti in forma di immagini. I quadri possono essere poesie se

vengono letti come parole anziché come immagini. “Immagini che rappresentano parole.” Arte

egizia/geroglifici/pittogrammi/simbolismo. Parole come figure/immagini.

Possono le immagini esistere (comunicare) in forma di parole?

Le lingue straniere, gli alfabeti indecifrabili possono essere belli, possono esprimere qualcosa

senza che si conosca il significato delle parole.

Guardare un libro scritto in cinese può essere altrettanto bello che guardare delle illustrazioni.

Tutto ciò nella prospettiva che tutto cambia. Questo è il motivo per cui, per me, il dipingere può

tradursi in immagini come in parole. Perché io sono diverso in momenti diversi. Credo di non avere

mai vissuto due giorni che fossero uguali in nessun senso. Forse simili, ma non uguali. Io penso,

sento, agisco e vivo diversamente ogni giorno, ogni istante. E se sono diverso in momenti diversi,

anche le mie figure cambiano.

Dipingo in modo diverso ogni giorno,

ogni ora, ogni minuto, ogni istante.

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I miei dipinti sono la registrazione di un certo lasso di tempo.

Sono schemi mentali registrati.

L’arte pura esiste solo come risposta immediata alla vita pura. Non sto dicendo che fino a oggi

l’arte sia stata inutile. Sto cercando di dire che l’arte si è evoluta. È cambiata più velocemente di

noi. È stata accanto agli uomini come utile compagna dai tempi dei tempi. Ogni artista (persona) di

un certo momento storico ha avuto una vita diversa e perciò un atteggiamento differente nei

confronti della vita e dell’arte. Sebbene gran parte della storia dell’arte sia composta da

“movimenti” e da stili propri di un certo gruppo di artisti, è sempre stata e sempre sarà il prodotto di

un individuo.

I lavori di Keith Haring rappresentano la cultura di strada della New York degli anni '80. Haring

non ha mai smesso di credere che l'arte fosse capace di trasformare il mondo, poiché le attribuiva

un'influenza positiva sugli uomini.

Nasce a Reading, in Pennsylvania e, primo e unico maschio dei quattro figli di Allen e Joan, mostra

una precoce predilezione per il disegno incoraggiata dal padre, disegnatore di fumetti e cartoni

animati. Furono proprio i personaggi dei fumetti tipo Walt Disney, del Dottor Seuss e altri eroi delle

animazioni televisive a suscitare in lui un'influenza duratura. È proprio in questo periodo, infatti,

che Haring decide di fare dell'arte stilizzata la sua ragione di vita.

Al termine del liceo, Keith si iscrive all' Ivy School of professional art di Pittsburgh e in seguito alla

scuola di commercial-art. Ben presto, però, capisce che quella non è la sua strada e abbandona la

scuola.

Nel 1976 Keith si mette a girare tutto il paese in autostop, conoscendo molti artisti. Si reca a San

Francisco, dove con la frequentazione della Castro Sreet inizia a manifestare il proprio orientamento

omosessuale. Alla fine torna a Pittsburgh e si iscrive all'Università; per mantenersi lavora come

cameriere alla mensa di un'industria. Dopodiché trova un impiego presso un locale che espone

oggetti d'arte. Qui allestisce la sua prima mostra personale di disegni.

Nel 1978 espone le sue nuove creazioni al Pittsburgh Center for the arts, poi va a New York ed

entra alla School of Visual Art. Mentre lavora il suo interesse personale lo avvicina ai lavori di Jean

Dubuffet, Stuart Davis, Jackson Pollock, Paul Klee e Mark Tobey. È questo il periodo in cui

esplode la popolarità di Haring: inizia a realizzare graffiti soprattutto nelle stazioni della

metropolitana e la sua pop-art viene grandemente apprezzata dai giovani, tanto che i suoi lavori

verranno spesso rubati dalla loro collocazione originaria e venduti a musei.

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Per la sua attività -illegale- di graffitaro viene più volte arrestato. Nel 1980 partecipa insieme ad

Andy Warhol alla rassegna artistica Terrae Motus in favore dei bambini terremotati dell'Irpinia.

Occupa inoltre un palazzo in Times Square realizzando la mostra Times Square Show. Allestisce in

seguito molte altre mostre finché la Tony Shafrazi Gallery non diventa la sua galleria personale.

Nel 1983 espone a San Paolo del Brasile, a Londra e a Tokyo.

Nel 1984 va a Roma invitato da Francesca Alinovi per esporre nella mostra Arte di Frontiera.

Nel 1985, a Milano, dipinge una murata nel negozio Fiorucci. Elio Fiorucci, in un'intervista al

mensile Stilearte, racconta così quella esperienza:

Invitai Haring a Milano, stregato dalla sua capacità di elevare l'estemporaneità ai gradini più alti

dell'arte. Egli diede corpo ad un happening no stop, lavorando per un giorno e una notte. I suoi

segni "invasero" ogni cosa, le pareti ma anche i mobili del negozio, che avevamo svuotato quasi

completamente. Fu un evento indimenticabile. Io feci portare un tavolone, fiaschi di vino, bicchieri.

La gente entrava a vedere Keith dipingere, si fermava a bere e a chiacchierare. Ventiquattr'ore di

flusso continuo; e poi i giornali, le televisioni... In seguito, i murales sono stati strappati e venduti

all'asta dalla galleria parigina Binoche. (Intervista di Stilearte a Elio Fiorucci)

Nel 1988 apre un Pop Shop a Tokyo. In quell'occasione l'artista afferma: Nella mia vita ho fatto

un sacco di cose, ho guadagnato un sacco di soldi e mi sono divertito molto. Ma ho anche vissuto a

New York negli anni del culmine della promiscuità sessuale. Se non prenderò l'Aids io, non lo

prenderà nessuno. Nei mesi successivi dichiara, in un'intervista a Rolling Stone di essere affetto dal

virus dell'HIV. Di lì a poco fonda la Keith Haring Foundation a favore dei bambini malati di AIDS.

Nel 1989, vicino alla Chiesa di Sant'Antonio abate in Qualquonia di Pisa, esegue la sua ultima

opera pubblica, un grande murales intitolato "Tuttomondo" e dedicato alla pace universale.

Il 16 febbraio 1990, Haring muore a soli 31 anni. Nonostante la sua morte prematura, l'immaginario

di Haring è diventato un linguaggio visuale universalmente riconosciuto del XX secolo, meritando,

tra le altre innumerevoli esposizioni, una mostra alla triennale di Milano conclusasi nel Gennaio

2006.

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Graffiti. Puro vandalismo o opera d’arte?

A New York, dove i murales apparvero per la prima volta, oggi vige la tolleranza zero,con tanto di arresti. A Mosca, invece, il sindaco assolda «writers» per rendere meno grigia la città. Anche in Italia si discute, tra concorsi comunali e letture socio-psicologiche...

New York, la città che ha dato loro i natali è anche quella che ha cercato con più forza di combatterli: i graffitari metropolitani che da più di trent'anni imbrattano - secondo alcuni - o decorano - secondo altri - le città sono continuamente al centro di polemiche ma anche di esperimenti. Che ruotano attorno alla domanda: i graffiti metropolitani (siano murales o tag, cioè firme, segni) sono gesti vandalici o sono opere con valore artistico? E, se sono atti vandalici, come si combattono? Se invece sono opere d'arte, come si valorizzano?

Naturalmente le risposte possono essere diverse, anche opposte. Basti guardare i casi di New York e quello di Mosca. La

metropoli americana guidata dal sindaco Bloomberg ha dichiarato guerra totale ai graffiti e ai writers. Per questo aveva tra l'altro vietato la vendita di bombolette spray ai giovani tra i 18 e i 21 anni, e multe e sequestri erano previsti anche se i graffitari non venivano colti sul fatto: in realtà bastava farsi beccare per strada con una bomboletta per rischiare l'arresto. Ma la Corte d'Appello federale ha sentenziato che questa proibizione lede i diritti dei cittadini, e in particolare il «diritto d'artista»: chi può escludere, infatti, che tra questi giovani imbrattacittà non ci siano artisti veri, che stanno maturando il loro talento? Del resto, è già successo ai 'padri fondatori' del movimento, un certo numero dei quali è passato dalle strade ai musei.

A Mosca, invece, il sindaco Yuri Luzhkov ha dato vita al Progetto Fabbrica, che in sostanza è un accordo tra l'amministrazione e le crew (i gruppi) dei writers: un centinaio di ragazzi ha dipinto edifici di vario tipo, stazioni e sottopassaggi. Lo scopo, quello di rendere meno grigia e triste la città, è stato raggiunto e la gente ha apprezzato. Tanto che l'amministrazione ha rilanciato e, nella primavera scorsa, ha avviato il progetto Gioco del Terzo millennio affidando a duecento giovani artisti squallidi palazzoni di periferia e perfino stazioni della m etropolitana. Ora si organizzano perfino dei tour per ammirare i murales meglio riusciti.

Approcci al problema di segno profondamente diverso si verificano anche in Italia, dove la amministrazioni mettono in campo periodiche campagne di dissuasione (qualche anno fa il sindaco di Milano Gabriele Albertini aveva coinvolto perfino Megan Gale), iniziative per ripulire i muri, incentivi a chi ridipinge i palazzi con vernici anti-graffito, premi a chi denuncia i vandali e misure ancora più dure (basti ricordare che nel marzo scorso a Como un ragazzo cingalese è morto, dopo che gli aveva sparato un vigile del corpo antigraffito).

C'è invece chi ha scelto la via della 'legalizzazione': scuole o amministrazioni hanno messo a disposizione alcuni spazi, o avviato progetti di valorizzazione, come il Comune di Napoli, che nel 2004 ha lanciato il progetto Circumwriting, dando la possibilità a decine di artisti di dipingere circa un chilometro della Circumvesuviana, o come il Comune di Roma, che ha fatto dipingere a dei writers la nuova stazione della metro nel quartiere Salario. Oppure come il Comune di Ravenna che ha lanciato il concorso Coloriamo l'aria: i giovani dovevano presentare bozzetti per murales da realizzare con bombolette spray sulle cabine per il controllo dell'aria della città (i risultati si sapranno a settembre).

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E c'è anche chi rovescia il problema e usa il murales per educare i giovani alla conoscenza e al rispetto del patrimonio artistico-culturale e per stimolare il loro senso civico. Erano questi, infatti gli obiettivi dichiarati per il progetto Murales a scuola, un percorso biennale (si è concluso a maggio) del liceo Ulivi di Parma: ai ragazzi è stata offerta la possibilità di dipingere le pareti dei corridoi della scuola, ma dopo un lavoro di ricerca nell'ambito della storia dell'arte e di analisi di opere classiche.

Che comunque anche il graffitismo metropolitano - quando non diventa teppismo - sia un'espressione culturale, lo dimostra il fatto ste sso che da quando è nato gli interventi di repressione del coté teppistico sono sempre stati paralleli a interventi di analisi e di valorizzazione del coté artistico o culturale. Tra gli esempi più recenti, il libro che Giuseppe Culicchia ha dedicato alle scritte sui muri di Torino (una delle città più colpite dai writers, insieme a Roma, Milano, Bologna, Bari e Firenze), ai calembour di cui sono piene e all'ironia che trasudano (Muri & Duri, edizioni Priuli & Verlucca). Oppure il convegno interdisciplinare che l'Università Roma Tre ha organizzato nel marzo scorso, in cui fra l'altro la storica dell'arte Barbara Cinelli ha sostenuto che i writers, quando iniziano, non sono attirati tanto dal fatto di esercitare una forma d'arte, quanto dalla possibilità di uscire dall'anonimato. E infatti si comincia con la tag, cioè la propria firma che viene dipinta nel modo più fantasioso e originale possibile. Alla tag il writer affida la propria visibilità, la propria fama, quindi cerca di imprimerla sul territorio il più volte possibile, oppure nei luoghi più visibili (di qui il fascino dei treni e delle metropolitane). Altre volte si affida, più che alla quantità, alla qualità, e quindi ne studia continuamente l'evoluzione trovando soluzioni estetiche sempre più originali.

Per Cinelli, comunque, la motivazione artistica arriva in un secondo tempo: molti, man mano che si impossessano della tecnica, scoprono le possibilità del linguaggio, e allora cominciano a studiare il lettering, i colori, le armonie degli spazi… Di qui è facile il passaggio ad altri linguaggi, come la grafica o la video art. E probabilmente è a questo punto che potrebbe funzionare l'offerta di spazi legali in cui sperimentare il proprio talento ed esprimere il proprio mondo.

È un modo, questo, per 'legalizzare' un linguaggio giovanile che è nato con una forte componente di trasgressione, ma che in genere non ha un significato politico in senso stretto, anche se nei centri sociali in cui è nato aveva, in origine, una matrice anarcoide, anche se spesso vaga. Lo conferma anche una ricerca di Eurispes e Telefono Azzurro che nel 2004 hanno interpellato in proposito un campione di quasi 6mila giovani tra i 12 e i 19 anni. È emerso che al 76% degli interpellati i graffiti piacciono, e solo il 21% li ritiene atti vandalici. Ma sono meno dell'1% quelli che lo considerano un gesto di espressione politica. E intanto il dibattito continua…

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CAP. 4 - NAPOLI NASCE IL PRIMO 'MUSEO MOBILE' DEI WRITER

"In apparenza il writing è una derivazione dell'alfabeto, ma il significato complessivo della sua

evoluzione e trasformazione va oltre al limitato campo dell'alfabeto.”

Il primo degli eventi più significativi e conosciuti, primo del genere al mondo, è “Circumwriting”,

che nell’estate 2004 ha visto oltre 100 writers italiani e stranieri all’opera per il “rinnovo” delle

tratta Napoli - Sorrento.

Un anno dopo, sempre in collaborazione con la circumvesuviana, coloratissime pellicole di

rivestimento, realizzate da writers italiani, sono state applicate ai treni ETR. Sempre con la

Circumvesuviana è stato realizzato il progetto (ad oggi ancora unico al mondo) di realizzazione

grafica delle pellicole di rivestimento treni.

La finalità del progetto è stata ed è ancora quella di evidenziare le differenti “maniere” sviluppate

dagli artisti: dal ceppo comune del writing, al lettering, alle nuove ricerche nell’iconografia e nel

ritratto, caratterizzate dall’uso di nuovi strumenti e tecniche.

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A Napoli, e precisamente in 10 stazioni della Circumvesuviana, saranno 'affrescati'

complessivamente mille metri di mura da parte di 100 writers creando così - come ha rilevato il

critico d'arte Achille Bonito Oliva, un ''museo mobile'' perche' questo tipo di arte deve essere

collocato in un ''museo che ha bisogno del movimento'' e quale luogo migliore quello delle stazioni?

Il ''progetto Circumwriting- Viaggio nell'arte metropolitana'' (e proprio nelle metropolitane

americane si sviluppo' con i cosiddetti graffiti questo nuovo tipo di arte) .

La circumvesuviana applica le prime pellicole di rivestimento dei treni realizzate da writers

La Circumvesuviana s.r.l. ha applicato due pellicole di rivestimento dei propri treni ETR le cui

grafiche sono state realizzate da writers. La direzione artistica del progetto ed il coordinamento dei

writers sono stati affidati al gruppo Evoluzioni dell'Associazione culturale Arteteca.

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Si tratta di un progetto fortemente sperimentale ed unico al mondo.

Si salda così il rapporto fra l'azienda dei trasporti ed il gruppo napoletano che da anni si occupa di

promuovere la cultura del Writing.

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Un evento che ha suscitato interesse anche all'estero, presso il John Calandra Institute del Queens

College (NY), France2, International Herald Tribune, BBC .

Questo delle pellicole è un episodio innovativo e di forte impatto; la dimostrazione che è possibile

instaurare, se calibrati bene da entrambe le parti, un rapporto ed un dialogo proficui fra istituzioni e

writers, in luogo dell'esclusivo esercizio della repressione verso questi ultimi; inoltre, tale occasione

creativa testimonia certe recenti sperimentazioni del Writing, a firma di nomi importanti della scena

italiana.

I writers

AIRONE: 32 anni, writer milanese dagli anni Ottanta e graphic-designer, da anni si occupa

dell'organizzazione di eventi legati al mondo del Writing. È stato direttore artistico della sezione

Writing di "Airbrush Show", manifestazione a carattere internazionale dedicata al mondo

dell'aerografia e dell'aerosol art. Ha fondato e prodotto "Tribe", una delle prime fanzine mondiali

dedicate al Writing, e wildstylers.com, sito che tratta di cultura urbana in generale ma che anche

punto di riferimento per la cultura del Writing in Italia.

DADO: 32 anni: writer bolognese attivo da diversi anni, ha partecipato come artista a diversi eventi

italiani. Oggi lavora anche come scenografo. È tra i soci fondatori dell'Associazione culturale "Opus

Magistri" che da alcuni anni opera in Emilia Romagna per la promozione del Writing.

Luca ENO Trimaldi: 26 anni, writer napoletano operante dai primi anni Novanta, laureando in

architettura. E’ stato invitato a vari eventi di aerosol art e ha esposto le sue opere in diverse mostre

organizzate da Evoluzioni, a Napoli e a Roma.

KAYONE: 33 anni, writer milanese dagli anni Ottanta, graphic-designer e direttore di un'agenzia di

comunicazione. Ha partecipato come artista a numerosi eventi di aerosol art in Italia. Ha fondato e

prodotto "Tribe", una delle prime fanzine mondiali dedicate al Writing.

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MAMBO: 32 anni, writer bolognese operante da molti anni, è stato invitato a prender parte a

diversi eventi di Writing in Italia. È uno dei soci fondatori dell'Associazione culturale "Opus

Magistri" che da diversi anni opera in Emilia Romagna per la promozione del Writing.

Salvatore POPE Velotti: 28 anni, writer napoletano dai primi anni Novanta, uno dei fondatori e

responsabili del gruppo Evoluzioni. Ha partecipato a diversi eventi di Writing. Sin dalla metà egli

anni Novanta ideatore, direttore artistico e produttore di eventi, mostre e performance di Writing.

Paolo SHA ONE Romano: 38 anni, writer napoletano dai primi anni Ottanta, è stato uno dei primi

in Europa a praticare il Writing. Pittore, illustratore, scenografo, costumista, cantante rap nel gruppo

"La Famiglia", anche attore di teatro per Roberto De Simone. Negli anni ha raccolto, come writer,

numerosissimi inviti a manifestazioni nazionali e internazionali. Ha inoltre partecipato a diverse

collettive per gallerie ed enti pubblici.

Francesco ZENTWO Palladino: 28 anni, writer casertano dagli anni Novanta, designer e grafico.

Vanta partecipazioni a manifestazioni e mostre in tutta Italia. Ha ottenuto premi e menzioni in

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concorsi nazionali di design e grafica. Ha realizzato il layout del catalogo "Circumwriting 2004" e

si è piazzato al terzo posto nel concorso per l'immagine del P.A.N., il Palazzo delle Arti di Napoli.

Intervista: Ma che cos’è il writing?

Ce lo spiega Luca Borriello ricercatore di antropologia e comunicazione, presidente di Arteteca

associazione culturale composta da più gruppi operativi tra cui Evoluzioni. Il writing – racconta

Luca Borriello - è esploso tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta negli Stati Uniti,

nell'underground dei cinque distretti di New York e nei quartieri neri afroamericani. E' una poetica

scenografica urbana e illegale che tutti riconoscono impropriamente nel vocabolo 'graffiti'. Si tratta

di una pittura e scrittura di pseudonimi in cui s'ammira la potenza estetica, pittorica, comunicativa,

identitaria dei caratteri alfabetici e della scrittura del proprio pseudonimo strategicamente diffuso. Il

writing è indelebile traccia di comunicazione in-urbana, endogena del mutevole palcoscenico delle

metropoli postmoderne. Negli ultimi anni, dal linguaggio espressivo di frontiera, il writing si è

imposto quale nuova e attuale forma di comunicazione nonostante l’assenza di una struttura

prestabilita, tempi di creazione ignoti e tempi di fruizione ingestibili da terzi, la produzione e

consumo non rilevabili, l’impossibilità di mercificazione diretta, la tutela non contemplata, la

commissione propria, la forma ideale pari ad un’anarchia della creazione artistica o arte illegale. A

Napoli il writing arriva alla metà degli anni ‘80 e ripropone ciò che vedeva svilupparsi in europa o

in italia. I primi writers agiscono alle porte della città, crescono nella zona vesuviana e nei quartieri

di Fuorigrotta e Bagnoli. La dialettica hip-hop interna al writing a fine anni ’90 partorisce

Evoluzioni.

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2) “Circuwriting” vi ha resi attori nelle periferie urbane?

L'Assessore ai trasporti della Regione Campania Ennio Cascetta, da cui è partita l'idea, insieme ad

alcuni comuni della provincia di Napoli e la Circumvesuviana hanno promosso il "Circumwriting".

Spazi messi a disposizione dei Writers, riconoscendone il valore artistico e sociale e coinvolgimento

dei cittadini alla scoperta di nuove forme di espressione artistica. Il progetto si è aperto a San

Giorgio a Cremano, il 23 Dicembre 2004. Per continuare attraverso le stazioni messe a disposizione

quali Cavalli di Bronzo, Trecase, Torre Annunziata, Via del Monte-Torre del Greco, Leopardi-

Torre del Greco, Napoli-Porta Nolana, Napoli-Gianturco, Castrellammare di Stabia e Napoli-Barra.

Sei incontri che hanno mostrato le diverse evoluzioni che il Writing ha vissuto nel corso degli anni.

La direzione artistica del progetto, così come il seminario "Writing. Comunicazioni in-urbane"

svolto alle cattedre di "Teoria e tecniche della comunicazione di massa" e "Sociologia della

comunicazione" della facoltà di Scienze della Formazione dell'Università "Suor Orsola Benincasa",

è stato curato dal Gruppo Evoluzioni. Il progetto concluso il 18 luglio 2005 alla stazione di Barra

con una grande performance pittorica cui hanno partecipato 90 writers provenienti dall’Italia e

dall’Europa.

3) Ultimi interventi del writing nell’ottica del dialogo con le istituzioni?

E’ stato prodotto il catalogo "Circumwriting" bilingue italiano-inglese, che contiene le foto dei sei

eventi nelle stazioni vesuviane, con le introduzioni di Ennio Cascetta, Assessore ai trasporti della

Regione Campania, Fernando Origo, Coordinatore Generale di Circumvesuviana, e una mia

presentazione che segue il saggio di Achille Bonito Oliva, con cui sono in embrione progetti su

Roma, e una post-fazione di Joseph Sciorra del John Calandra Institute dell'Università di New

York. E’ di quest’anno invece, l’iniziativa della Circumvesuviana di applicare ai propri treni ETR

due pellicole di rivestimento le cui grafiche sono realizzate da writers.

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Si tratta di un progetto sperimentale ed unico al mondo, un’evoluzione. L'immagine realizzata per il

catalogo di "Circumwriting" costituisce la partenza per una delle due grafiche di pellicolazione dei

treni, per cui hanno lavorato AIRONE e KAYONE (Milano) e DADO e MAMBO (Bologna). La

seconda immagine è stata creata dai writers campani ZENTWO, POPE, SHA ONE ed ENO, ed è un

tentativo di fare una breve descrizione del Writing attraverso l’uso di parole-chiave. L’esperimento

dimostra che può nascere un dialogo tra istituzioni e writers che non corrompa l’essenza del writing.

Nel caso delle pellicole per i treni ETR, ad esempio, c’è da chiedersi in quale dei due ambiti,

istituzionale o writing, si è consumato il cortocircuito. Le pellicole traslano il problema dall’estetica

all’etica. C’è dunque accettazione delle forme espressive tipiche del writing. I writers, comunque,

proseguono a prolificare in produzioni essenzialmente illegali, così come è da più di trent’anni ad

oggi.

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Bibliografia

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Ricerche varie sul Web