senza un cazzo da fare

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Un mini romanzo o un maxi racconto, dipende dai punti di vista. È la storia di un ragazzo e del suo male di vivere. Ma anche qualcosina di più.

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LOU BROWN

SENZA UN CAZZO DA FARE

Editing, redazione ed impaginazione: a cura dell’autore.

Immagini di copertina: “Senza titolo”, John Kenn Mortensen.

© 2014 Lou Brown

Email: [email protected]

Blog: mynameisloubrown.blogspot.it

Tutti i diritti riservati. È vietata per legge la riproduzione anche parziale

e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

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“Ed eccomi qui. Senza un cazzo da fare.

Tranquillo sulla mia terrazza.

A bere rum nel crepuscolo. (…)

Mi piace così. Niente di eterno.”

Trilogia sporca dell’Avana, Pedro Juan Gutiérrez

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Prologo

Qualcuno di voi forse conoscerà la storia della puttana che, in

un momento di totale sconforto, ricordandosi di quel modo di

dire, “spararsi la merda”, si riempì una siringa con i propri

escrementi e se li pompò in vena, provocandosi degli ascessi

che le furono fatali.

Ecco, questa è quella che si potrebbe tranquillamente

definire una storia di disperazione. Anche quella che vi sto per

raccontare, a suo modo, lo è. Ma non pensate di trovarci

puttane qui sopra. Quella che segue è soltanto la storia di un

ragazzo e del suo male di vivere.

Niente di più noioso, all’apparenza.

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Capitolo I

Sveglio.

Scosse mi penetrano come coltelli nella carne viva.

Nervi tesi, a fior di pelle. Fuoco nelle vene e in bocca uno

sciopero proclamato in massa dalle ghiandole salivari. Nella

testa solamente un gran frastuono.

Giro lo sguardo verso l’altra metà del letto. Vuota,

come sempre. Sono solo. Una verità che alcune volte è

piuttosto difficile da mandar giù. Oggi è uno di quei giorni, mi

sa. Lo capisco ora che in testa torna a farsi vivo un ricordo

sfocato.

Attraverso la fitta nebbia della stanza, riconosco una

bottiglia di vino rosso, un piacevole diversivo alla serata

altrimenti monopolizzata dalle dolci sensazioni offerte da un

grammo o poco più di nero afgano, prelibatezza che, almeno

fino a qualche anno fa, consideravo reperibile più o meno

quanto un doblone antico dentro il registratore di cassa di un

minimarket.

Pouf!

Il breve flashback è interrotto da un improvviso ritorno

alla realtà dei fatti.

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Sollevo la mia carcassa sconquassata. Le ossa mi fanno

un male boia, sembra che il diavolo ci abbia ballato sopra per

tutta la notte.

Finalmente in piedi, mi metto alla ricerca delle ciabatte

di tela, disperse Dio solo sa in chissà quale angolo della stanza.

È l’esperienza affinata negli anni a suggerirmi di setacciare

quell’immonda area di pavimento che si cela sotto il letto.

Faccio dunque perno sulla gamba destra e allungo la sinistra

verso quegli oscuri meandri. La muovo tra strani oggetti dalle

forme più disparate, finché con il piede percepisco qualcosa

che sembra vagamente somigliare a delle calzature. Scoprire si

tratti effettivamente delle ciabatte che vado cercando con tanto

affanno mi gonfia il petto dello stesso orgoglio che

illuminerebbe un vecchio archeologo a tu per tu col più

importante rinvenimento di tutta la sua carriera.

Recuperato il bottino, rimango per una decina di

secondi buoni davanti al led rosso dell’impianto hi-fi, fido

alleato di mille risvegli e di altrettante veglie notturne. Riesco a

svignarmela indirizzando il passo verso lo specchio posto tra le

due ante in legno dell’armadio. Da lì posso analizzare la mia

splendida mise: porto dei pantaloni di un vecchio pigiama di

flanella; sopra, una t-shirt rossa con la serigrafia nera di un toro

stilizzato, souvenir di un memorabile viaggio in terra iberica.

Mi massaggio il viso, sfregando le palpebre semichiuse

quasi a voler raschiare via la ruggine che le ricopre. Devo però

arrendermi all’evidenza.

«Faccio schifo!»

Occhi vitrei, iniettati di sangue. E queste macchie, che

si espandono fin quasi agli zigomi, somigliano più a dei lividi

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che a delle occhiaie. Sono un cadavere in stato di

decomposizione. Mi vedesse George Romero, non ci

penserebbe su due volte prima di scritturarmi per uno dei suoi

film dell’orrore.

Non posso essermi ridotto in questo stato, non ci credo.

Piangersi addosso, però, non risolverà di certo il problema.

Degli esercizi ginnici, ecco cosa ci vuole per rimettermi in

sesto. Inspirare, espirare, dare un ritmo regolare alle flessioni.

E anche alla mia vita. Ho bisogno di disciplina, di una figura

intransigente alla Sergente Hartman in Full Metal Jacket. Ho

bisogno di qualcuno che mi urli nelle orecchie frasi tipo: «Non

mollare, stupido pappamolle!» Una roba così sarebbe in grado

di iniettarmi nelle vene una dose massiccia di umiliazione allo

stato puro, l’ideale per dar vita a un’ennesima giornata di

merda.

Mi faccio coraggio. Butto il corpo in avanti, premo i

palmi a terra e do inizio all’allenamento.

«Uno. Due. Tre. Quat…»

Dopo neanche quattro piegamenti, patetico e afflitto

come un pugile ormai allo strenuo delle forze, dichiaro la resa.

Sto per afferrare il telefono e comporre il numero del Pronto

Soccorso per chiedere aiuto a uno sfortunato interlocutore.

Potrei destabilizzarlo osando paragonare il mio sforzo alla

grande jihad del popolo musulmano. Ma forse è meglio evitare.

Di nuovo in piedi, mi tolgo la maglia e mi metto davanti

allo specchio, a petto nudo. Ogni volta che vedo la mia

immagine riflessa sul vetro, la disperazione assume le

sembianze di un cavatappi, le mie budella quelle di un tappo di

sughero entro cui girare.

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«Cazzo!»

Chissà se in questo catorcio c’è ancora qualcosa da

salvare prima dello sfascio definitivo. Poco. Probabilmente

niente.

Non bado alle apparenze, sia chiaro. Potrei anche

possedere una pancia sporgente e floscia, non cambierebbe

assolutamente nulla. Quindi non fatevi idee sbagliate. Non ho

dichiarato guerra a chi fa sfoggio della propria opulenza

borghese. La mia non è nemmeno una forma di solidarietà nei

confronti di coloro i quali, quotidianamente, elemosinano un

pezzo di pane o anche solo una stilla d’acqua piovana. Sono un

ragazzo senza cuore o forse solamente un idiota che fuma

troppo e beve ancora di più, ma la realtà è che non m’importa

un fico secco di quello che mi accade intorno. Non m’interessa

di oppormi all’avidità collettiva, all’ingordigia che ha infestato

la razza umana, che ha trasformato le persone in tanti stupidi

consumatori. Se spazzassero via l’umanità intera, non sarebbe

un gran danno, almeno dal mio punto di vista. Davvero, non

me ne frega niente della gente. E non m’importa nemmeno di

salvare le balene o le tigri bianche o chissà quale altro sfigato

animale in via d’estinzione. Non sono la persona sensibile che

qualcuno di voi, magari, si sarà immaginato. No, cari miei, mi

spiace deludervi. Di ciò che mi circonda, spero vi arrivi il

concetto, non me ne frega assolutamente niente. Non me ne

importa nemmeno di me stesso, figuratevi quanto me ne può

fregare degli altri. Davvero. Non ho a cuore la mia salute, né il

mio aspetto esteriore, né niente di niente di niente. Ok, lo so,

sono parecchio strano, ma non posso farci nulla. E non cercate

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di capirmi, tantomeno di cambiarmi, vi prego. Sarebbe solo

fatica sprecata.

Meglio riprendere il giro di perlustrazione per la stanza,

con la speranza di riattivare anche i miei meccanismi vitali.

«O Dio, ti ringrazio!»

I miei occhi intercettano un posacenere su cui è

poggiato un conico manufatto di carta velina. Una canna, tanto

per intenderci. L’ultimo purino d’erba che mi è rimasto. L’ho

rollato ieri sera con la sola speranza di dare inizio, quest’oggi,

a una giornata minimamente degna di essere vissuta. Ma non

sarà così, nemmeno stavolta. Anche oggi mi aspetta la solita,

insopportabile solfa. Sapete una cosa però? Me ne frego. Mi

basta il solo tocco di quest’affusolato cigarillo per alleviare le

mie pene e convincermi a liberare, dal ventre del mio fedele

impianto hi-fi, l’onda roboante di un qualche brano di mio

piacimento.

Prima di tutto, però, devo rimediare un accendino.

Guardo sopra il piccolo tavolo al centro della stanza, un

regalo che alcuni miei amici definirono un pezzo d’antiquariato

indiano. (Accolsi la notizia, senza porre ulteriori interrogativi.)

Trovare un accendino in mezzo a ‘sto delirio, però, è

un’autentica impresa. Qui sopra c’è praticamente di tutto. Un

libro di Burroughs, tre palline da giocoliere. E ancora incensi

sfusi, cartine, tabacco e inviti a concerti e party selvaggi a cui

ho raramente preso parte. Spicca infine, proprio dal centro, una

bottiglia da settantacinque centilitri di Nero d’Avola. Vuota,

ovviamente. Il fuoco che mi è divampato dentro stanotte ha

eliminato ogni traccia del suo sapore piacevole e robusto.

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Sterzo lo sguardo su un lato, poi raggrinzisco un po’ gli

occhi mentre cerco di ricordare cosa sia accaduto di preciso la

scorsa notte. Ma per quanto possa frugare tra le viscere più

abissali della mia memoria, devo tuttavia arrendermi

all’evidenza: non ricordo un cazzo. Non so, è come se il

segnale venisse disturbato da qualche fattore ignoto pure al

sottoscritto. Non una novità, intendiamoci. Nella mia mente c’è

sempre un gran bordello. È come questo tavolino: pieno di roba

che non serve a nulla, buona soltanto a prender polvere.

L’ordine non trova spazio nella mia vita. Niente, non ce

la fa proprio. Il mio cervello è un organo a sé stante, anarchico.

E mi starebbe anche bene così, intendiamoci, non fosse altro

che me ne sbatto dell’anarchia e di ogni altra ideologia in

genere. Ve l’ho già detto, non me ne frega niente di quello che

mi succede attorno. Sono un fottuto nichilista, semmai, uno che

se ne frega se il mondo sta andando a rotoli. A me basta solo

fumare e oziare, oziare e fumare. Ma prima di farmi ‘sta

benedetta canna, devo trovare assolutamente un cazzo di

accendino.

Oh! Eccolo qui, finalmente. Ora potrò scegliere la

giusta colonna sonora per questa mattinata e posare le mie

labbra sulla mia adorata canna.

«Vediamo.»

Che musica scelgo? Il dubbio mi assale. Potrei rimanere

davanti a questo porta cd per delle ore. Che lo voglia o no,

però, devo prendere una decisione. E devo farlo in fretta, a

meno che non voglia morirci di vecchiaia in questa posizione.

«Jamiroquai.»

Amen!

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Trovo quasi subito l’album che ho in mente, Travelling

Without Moving. Il primo brano in scaletta è Drifting Along,

proprio quello che mi ci vuole per ridar vigore a questa

carcassa arrugginita.

Col polpastrello del pollice destro, do un colpo secco

alla rondella dentata dell’accendino, cosicché la fiamma bruci

l’estremità della canna. Esagero già dalla prima boccata.

Voglio che il fumo mi arrivi giù nei polmoni. Voglio che me li

fotta.

Premo “Play” lasciando poi che il pezzo si dilegui negli

spazi vuoti della stanza e le note vibrino nell’aria come tanti

aquiloni in balia di una vivace brezza estiva. Strozzata da uno

sbadiglio, intanto, la mia voce fuoriesce roca.

«Che una nuova giornata di merda abbia inizio!»

Ciò che avete appena letto, signore e signori, è la

patetica cronaca di ogni mio fottutissimo risveglio. Ogni

giorno, aperti gli occhi al mondo, assisto impassibile al mio

irrefrenabile declino. Avrei bisogno di qualcosa che desse

nuovamente un senso alla mia vita, ma non so affatto cosa. Ho

smesso di cercare. Ho smesso di vivere, per l’esattezza.

Sopravvivo. Perennemente fuori dal mondo. Completamente

alienato da questo ostile sistema che mi circonda e che qualche

pazzo si ostina ancora a chiamare vita.

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Capitolo II

La mia camera da letto è un posto dove il sole non splende mai,

dove le ombre sembrano persino fuggire da loro stesse. E

purtroppo, per quanto cerchi di convincermi del contrario,

l’erba che ho appena fumato non aiuterà a cambiare le cose.

Anzi, sento già che mi manca l’aria. Devo uscire da qui.

Immediatamente.

Al solo cigolio della maniglia, però, un ammasso di

pelle e ossa coperto da fuseaux neri e una t-shirt bianca mi

assale: Eudora.

«Eccoti qua!», esclama, scagliandosi su di me con la

stessa ferocia di un lupo famelico. «Cosa pensi di fare?», urla,

con quella chioma irregolare in testa, una composizione

impazzita che si combina perfettamente con le parole da lei

stessa pronunciate. «Anche oggi far casino da mattina a sera?

Quando avrai un minimo di rispetto per gli altri, si può

sapere?»

Parla di rispetto e confonde il moralismo stoico con le

banali leggi alla base della più civile convivenza, nonché della

vita in generale. La prima, quella fondamentale: “non

rompermi i coglioni, ché io, stanne certo, non li romperò a te”.

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Imperturbato di fronte a tanto sbraitare, scruto le vene

che le sono apparse lungo il collo e sulle meningi, il rosso

acceso della sua pelle.

La odio.

Odio quel suo modo di atteggiarsi a giudice supremo,

quella sua insopportabile mania di bacchettarmi per ogni gesto

che non rientri nei suoi schemi comportamentali. Odio lei e

tutto ciò che mi parla di lei. Di converso, anche lei odia me, è

evidente.

Fisso i suoi occhi colmi di astio. In attesa che il rossore

della sua fronte e delle sue gote sbiadisca, porto alle labbra la

canna e, con un paio di tiri avidi e lunghi, prosciugo la parte

residua prima del cartone.

«Vaffanculo!», faccio io, senza scompormi più di tanto.

«Sì, già, vaffanculo!», gracchia lei, indispettita. «È tutto

quello che sai dire, vero? Ti si fa un rimprovero e tu

“vaffanculo”! Ti si chiede un favore e tu “vaffanculo”! Ma

vaffanculo tu, brutto stronzo!»

La ragazza continua a sgolarsi anche quando,

concedendole le spalle, mi dirigo con l’agilità di un bradipo

claudicante verso il cesso.

«A proposito», insiste, costringendomi a una nuova

sosta. Il suo clinch asfissiante è il presagio di un’ennesima

giornata di rodimenti che non oso neppure immaginare. «Visto

che stai andando in bagno, vedi di dare una pulita. L’ultima

volta che lo hai fatto, Pertini era ancora Presidente della

Repubblica.»

La battuta non riesce nemmeno a strapparmi un sorriso.

In compenso, una fitta alla testa mi prende alla sprovvista,

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costringendomi a una smorfia di dolore. Così facendo, però,

abbasso la guardia, concedendo a Eudora lo spazio necessario

per infilare la sua lingua biforcuta.

«E sei gentilmente pregato di mettere in ordine anche la

cucina. È un vero porcile. Ma come diavolo fai ogni volta a

ridurla in quel modo? Sembra un campo di battaglia.»

Mi ci vedrei in battaglia, senza elmo, ma con indosso

un’armatura squamata e sfavillante in grado di dar lustro al mio

glorioso passato da vincente condottiero. Faccia a faccia con le

milizie ostili, pazienterei in attesa che Eudora, mio principale

antagonista di sempre, si facesse avanti. Alla vista dell’orrenda

sgorbia nemica, mi avventerei su di lei con inaudita ferocia e,

con un netto colpo trasversale simile a quello di un samurai, le

trancerei di netto la testa, per poi vederla roteare in aria,

precipitare giù e rimbalzare due o tre volte a terra come un

pallone sgonfio. Rimarrei lì ad ammirare gli zampilli di sangue

che sgorgherebbero dalla vena giugulare. E di fronte a quella

ferita mortale, godrei dell’insospettabile erotismo celato in quel

crudele ritratto medievale.

Quando sto con lei, il mio cinismo si trasforma, diventa

in un certo qual senso sadismo. Un giorno di questi, credetemi,

va a finire che l’ammazzo. Vi giuro, prima o poi lo faccio sul

serio.

«E poi cos’è questa musica?», riprende. «Ti pare

normale tenere il volume così alto? E quest’odore d’erba? È

nauseante. Qui rischiamo grosso. Guarda tu se un giorno di

questi non ci ritroviamo la polizia dentro casa.»

«Ti ho già detto di andare a farti fottere?», m’informo.

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«Non permetterti mai più di insultarmi, buzzurro che

non sei altro!»

«Senti», intervengo, tentando un approccio un tantino

più diplomatico, «invece di stracciarmi le palle, perché non dai

una lavata a quel topo puzzolente?»

«Vicious è un chihuahua, non un topo! E non puzza!

Non hai mai puzzato in vita sua, cafone!»

Vicious? Si può dare a un’orribile bestiola un nome del

genere? Vicious, Dio Santo! Una delle perle più rare e

splendenti che il genio di Lou Reed abbia donato all’umanità.

Madre santissima! Questa ragazza non ha il minimo rispetto

per le istituzioni del rock.

«Sì, che puzza!», ribadisco. «Puzza di merda e rompe

anche le scatole, se è per questo. Un giorno di questi, se non se

la pianta di ringhiarmi addosso, gli do un calcio così forte che

gli cambio i connotati.»

«Brutta testa di cazzo, stronzo maledetto! Vedi di

cambiare registro con me o altrimenti…»

Eudora interrompe bruscamente le sue intimidazioni,

come abbagliata dai fari del rimorso o forse perché

semplicemente incapace di immaginare una punizione

esemplare a cui sottopormi.

«O altrimenti?», domando io, invitandola a completare

la frase.

«Mi sono stufata di te, hai capito?»

Senza neppure replicare, riprendo il passo in direzione

del cesso. Una volta date le spalle alla ragazza, alzare il dito

medio della mano destra al cielo mi viene più spontaneo di

qualsiasi altro gesto che quotidianamente riempie la mia

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esistenza. Come uno sbadiglio appena sveglio o quel senso di

inutilità che affiora nella mente e che mi accompagna in questo

faticoso e lento incedere delle mie giornate.

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Capitolo III

Resa abitabile parte della casa (sebbene il termine abitabile

poco si addica alla totale disperazione che ammorba l’intero

appartamento), ciabatte ai piedi, trovo finalmente ristoro in un

angolo della cucina, poggiato sulla credenza di fianco ai

fornelli, cercando nel pacco delle delizie preparate dalla nostra

anziana vicina, la signora Mariotti, un qualche dolcetto che, se

non attraverso la vista, riesca almeno a incuriosire i miei

indiscreti polpastrelli. Raggiunto l’apice della gioia

semplicemente afferrando una ciambella all’anice, mi soffermo

poi a osservare il degrado che mi circonda. E così facendo,

ripercorro la strada che, in picchiata, mi riconduce allo

sconforto.

Questa stanza è un autentico letamaio, come quasi il

resto della casa, del resto. Ma la cucina, più di ogni altra

stanza, custodisce un non so che di sinistro. In parole povere, fa

veramente schifo. E non solo per via delle pareti fuligginose o

per le ragnatele appese agli angoli del soffitto. Cataste di piatti,

posate, padelle, pentole e bicchieri si erigono dal lavandino

fino a lambire lo scolapiatti. E ce n’è ancora. Cartoni di pizza,

fogli di Scottex e lattine di birra accartocciate traboccano da

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una busta in plastica troppo piccola per contenere tutta la

spazzatura accumulata da circa una settimana. Il grosso tanfo

che ne fuoriesce (a cui sono tuttavia assuefatto) richiama

giornalmente cospicui sciami di mosche che ronzano macabri e

indisturbati per la stanza. Sollevare i piedi dal pavimento,

oltretutto, è una vera impresa. Le suole delle ciabatte si

attaccano come delle ventose alle mattonelle. Questo

indefinibile strato di unguenti e detriti viscosi potrebbe

tranquillamente essere il residuo di un devastante raduno di

impasticcati. Ma chi mi conosce sa che l’unico responsabile di

questo scempio sono io. Io insieme a quella stronza di Eudora,

naturalmente.

Comincio ad avvertire un forte senso di nausea. Forse è

il caso di deviare lo sguardo su altre latitudini. Mi soffermo

sulla fiamma glauca del fornello che, come tante minuscole

piume, solletica il fondo della moka, ormai prossima genitrice

(si spera) del mio primissimo caffè di giornata.

Ah, il caffè del risveglio! Un vero portento. È come se,

per usare un’eguaglianza matematica, il caffè stesse alla causa,

come le mie feci all’effetto. Il mio corpo, almeno in questo, è

un meccanismo perfetto. Per il resto è tutto un gran bordello. E

ciò è così da quando, già durante gli anni dell’adolescenza, mia

madre mi concesse il permesso di sorseggiare qualche goccia

di caffè dalla sua tazzina. Così facendo, sebbene

inconsapevolmente, gettò le basi di quella che, in seguito, si

rivelò la mia prima vera forma di dipendenza. Cominciai con

un paio di tazzine al giorno, una al risveglio, l’altra dopo

pranzo. Ben presto considerai il caffè come una sorta di

preambolo alla sigaretta. L’uno divenne direttamente

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proporzionale all’altra: tanti caffè bevevo, altrettante sigarette

fumavo. Il problema fu che, a forza di frequentare i bar del

quartiere, il mio consumo quotidiano di caffè (e

conseguentemente di sigarette) aumentò notevolmente. Lo

sfizio si tramutò in vizio e, senza neppure accorgermene,

raggiunsi una media giornaliera che, son certo, molti di voi non

avrebbero grossi problemi a definire insostenibile.

Mi guardo attorno in attesa del caffè. La casa è

stranamente rapita da uno sconcertante silenzio. Ora che,

sull’orologio appeso alla parete della cucina, le lancette

segnano le nove e trentasette e che quel topo di nome Vicious

se ne sta ancora a oziare dentro la sua cuccetta. Ora che la

musica è terminata e che quella belva di Eudora, già da qualche

minuto, se n’è tornata nella propria stanza, impegnata nella

farsa di uno studio a cui non seguirà mai alcun esame.

È una di quelle mattinate sotto tono, insperabilmente

miti. E già, perché di queste mattinate così tranquille se n’è

persa davvero traccia qui a Perugia. Da un po’ di tempo a

questa parte, tutto mi pare così opprimente, angosciante,

assolutamente insopportabile. Boh! Saranno i miei sbalzi

d’umore, le paranoie, i miei vizi più luridi. Negli ultimi tempi il

mio sistema nervoso se n’è andato in corto circuito tante di

quelle volte che non so se mai riuscirò a riprendermi. La

memoria è una di quelle cose che ha accusato maggiormente il

colpo. Molti ricordi del passato sono finiti nel calderone dei

misteri più bui, un grande recipiente saturo di rimorsi e

rimpianti, gioie e lotte sanguinose, emozioni contrastanti che,

di tanto in tanto, spuntano fuori senza un ordine prestabilito.

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Con la testa poggiata sullo scaffale, intanto, lascio che

la mia mano s’intrufoli di nuovo nello scartoccio dei dolciumi,

destra nel rinvenire, tra i biscotti al cioccolato, un’altra

ciambella all’anice o, in alternativa, un pezzo di crostata farcito

con della marmellata di visciole. Sì, lo confesso, preferisco la

marmellata alla cioccolata. A dire il vero, la cioccolata non la

mangio proprio. Ho infatti un’intolleranza poco frequente, una

curiosissima forma di idiosincrasia che risale a qualche anno

fa. Ancora adolescente, tutte le volte che ne assaggiavo anche

solo un cucchiaino, la mia pelle veniva invasa dalle bolle.

Avevo bolle dappertutto: sugli avambracci, sul petto, sul dorso

delle mani e dei piedi. Per non parlare dei miei continui raptus

d’ira. Nessuno capiva la causa di certe mie reazioni così

violente. Una volta, però, mi capitò di leggere su una rivista le

vicende di un ragazzino inglese, noto ai suoi concittadini per

essere una vera peste. A soli nove anni, il piccolo aveva già

rotto i vetri della parrocchia, divelto le lapidi del cimitero,

rubato una motocicletta e tentato di far deragliare un treno.

Malgrado le dicerie su una sua presunta malattia psichica, si

scoprì che il giovane era soltanto vittima di una rara forma

d’intolleranza alimentare. I medici scoprirono che a provocare

quelle sue irrefrenabili crisi di violenza era proprio una

particolare allergia al cioccolato.

Scavando nel profondo di quella mia insolita

intolleranza, forse già da allora avrei dovuto comprendere quali

anomalie si celassero in me. Imperfezioni che ritrovo ora nello

stesso equivoco individuo, sgarbato e malfattore, disonesto e

manigoldo, che guarda spuntare, dallo scolaposate in plastica,

un lungo coltello dalla punta acuminata con la medesima,

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intensa ingordigia con cui, nel frattempo, divora dei deliziosi

dolci caserecci. Quel coltello, utilizzato indistintamente per

pelare ortaggi e affettare salumi, pane e quant’altro, riflette

sulla lama la luce tersa del lampadario. Una luce su cui

continuo a tener fisso il mio sguardo da maniaco, mentre,

poggiato con la nuca sullo scaffale, attendo con impazienza che

un dannato borbottio annunci la fuoriuscita della miscela

arabica dal comignolo della caffettiera.

Meglio pensare ad altro. Per esempio, a una convivenza

difficile (talvolta quasi impossibile) con una ragazza che non

ha nemmeno un fondoschiena decente su cui fantasticare; a una

stabilità psichica apparentemente troppo lontana dall’essere

raggiunta; ma, soprattutto, a una macchinetta che non mostra

alcun interesse a sputar fuori la benché minima stilla di caffè.

Lo stomaco invia già i primi lamenti, versi che uniscono le

lagne di uno zombie, le urla di un posseduto e le suppliche di

un eroinomane in piena crisi d’astinenza: “Caffeina! Ho

bisogno di caffeina!” E mentre già immagino di ricorrere alla

Bibbia per trovare la preghiera adatta al mio esorcismo (o

quanto meno sufficiente a convincere la caffettiera a terminare

nel più breve lasso di tempo il suo lavoro), la suoneria

monofonica del mio attempato cellulare (una versione quasi

irriconoscibile di Lonely road to Damascus di Milt Rogers)

cancella di colpo il progetto di una morigerata quiete mattutina.

«Pronto!», dico, senza neppure avere il buonsenso di

leggere sul display l’identità del mio interlocutore.

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Capitolo IV

«Pronto!», insisto, in attesa che qualcuno, dall’altra parte,

risponda.

«Mi senti?»

«Sì!», faccio io.

«Sono Franz.» Una scarica di impulsi scuote il mio

cervello ancora sbronzo.

«Ohi, Franz! Sì, ora ti sento. Scusa, ma questo cellulare

del cavolo... è vecchio, non vale niente.»

«Dove sei?»

Per quanto negli ultimi tempi frequentare questo

ragazzo si sia rivelata un’attività abbastanza ricorrente e per

certi versi, non posso negarlo, anche piuttosto sollazzante,

l’idea di dover rendere conto a qualcuno di quello che faccio

mi mette addosso un’angoscia che non sto neppure qui a

spiegarvi.

«A casa», rispondo. «Perché me lo chiedi?»

Detto in assoluta sincerità, infatti, non capisco cosa

gliene importi di dove mi trovo in questo preciso istante.

Cavolo! Avrò il diritto o no di rimanere rinchiuso dentro il mio

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tugurio senza che un rompipalle qualsiasi mi venga a scassare i

beneamati?

«A casa?», fa lui, evidentemente stupito. «E per quale

cazzo di motivo saresti ancora a casa?»

Continuo a non capire. Davvero, non comprendo il

perché della telefonata. Cosa cazzo vuole Franz da me?

«Be’, mi sono svegliato da poco e…»

«No, eh!», interviene lui, senza lasciarmi concludere la

frase.

«Cosa c’è?», gli domando.

«Non vorrai mica farmi credere che non sai che giorno

è oggi.»

«Che giorno è oggi... ma che c’entra!»

«Non sai che giorno è oggi, vero?»

Questa tiritera comincia a darmi sui nervi.

«Senti, ma che cazzo c’hai, si può sapere?» Il mio

sfogo, per qualche istante, lo ammutolisce. «Non c’ho mica

bisogno di una segretaria. Me la so cavare anche da solo, ok?»

«No, non è ok manco per il cazzo!», fa lui. «Se fosse

stato ok, ti saresti ricordato dell’appuntamento di oggi.»

Una scintilla. Una connessione sinaptica avvenuta in

chissà quale profondo serpeggiamento della mia mente obliata.

«Ah!» Ora capisco. Finalmente. «No, Franz.» Vorrei

dare definitivamente un taglio a questa telefonata e tornare a

maledire la mia fottutissima macchinetta del caffè. Solo questo,

non chiedo altro. «Hai preso un abbaglio. L’appuntamento è

per domani.»

«Domani?» La sua domanda lascia dietro di sé una

misteriosa scia. Sbalordimento, o qualcosa del genere.

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«Eh!», rispondo. «Domani!»

«Tu non sai che giorno è oggi, vero?», chiede lui.

«Certo che lo so», rispondo, sempre più irritato. Per chi

diavolo mi ha preso questo qui, si può sapere?

«Dai, allora dimmelo. Che giorno è oggi?»

«Che ansia, Franz! Ma che t’è preso?» Davvero, che

cazzo gli si sarà successo stamattina? Mi sta facendo il terzo

grado. Sembra un ispettore di polizia alle prese con uno dei più

pericolosi criminali che la storia ricordi. Ancora non mi

conoscete, ma so che nessuno di voi mi vedrebbe mai nei panni

di un malvivente. «Comunque, se lo vuoi sapere, è il 31

novembre. Che cavolo di giorno dovrebbe essere, se no?»

«Il trentu… oh, porca puttana!»

«Cosa c’è che non va?»

«Cosa c’è che non va? », ripete lui. «Hai pure il

coraggio di chiedermelo?»

«Cosa c’è di male a chiedere cosa c’è che non va?»

«Lo vuoi sapere?», fa lui. «Lo vuoi proprio sapere,

grandissima testa di cazzo che non sei altro?»

«Be’, sì», rispondo. «Non puoi mica tenermi al telefono

per tutta la mattinata.»

«Tieniti forte, allora. C’è che non esiste alcun cazzo di

31 novembre! Ecco cosa c’è che non va! Novembre ne ha

soltanto trenta di giorni. Trenta! Ma è mai possibile che non ci

sia mai stata una cazzo di maestra che t’abbia insegnato quanti

giorni ha ogni mese dell’anno?»

«Cioè, tu vuoi forse dirmi che oggi è…»

«Dai, che ci sei quasi, bello!»

28

«Porca troia!» Mi colpisco la fronte con il palmo della

mano. E intanto desidero solamente sprofondare per la

vergogna. «Il primo dicembre!»

«Bingo! Allora sei proprio un cazzo di genio! E io che

pensavo di avere a che fare con un ritardato mentale.»

«Puttana Eva!» Mi sento crollare il mondo addosso. «E

adesso? Come cazzo faccio? Non riuscirò mai ad arrivare

puntuale all’appuntamento. È impossibile.»

«Piantala di piagnucolare e stammi a sentire. Il treno

per Roma parte tra poco meno di mezz’ora. Se ti sbrighi, fai

ancora in tempo a prenderlo.»

«Ma...»

«Niente ma!», tuona lui. «Muoviti piuttosto!»

«Ok.»

«Il numero del tizio ce l’hai?», domanda.

«Mi pare di sì.»

«Ti pare di sì o sì?»

«Sì!», esclamo, senza neppure verificare. «Ce l’ho.»

«Bene.» La sua voce, finalmente, si rasserena. «Sappi

comunque che mi devi una birra. Me la sarò meritata, no?»

«Be’, direi proprio di sì.»

«Eh, meno male. Dai, muovi il culo ora! Cia’!»

Click!

Fine della conversazione.

La casa è di nuovo avvolta nello stesso silenzio di

qualche minuto fa. Ma è una condizione destinata a durare non

più di una manciata di secondi, giusto il tempo di abituarsi a un

nuovo ordine di idee.

29

Corre il burrascoso anno duemilaquattro dopo Cristo.

Siamo in un Paese divenuto ormai la roccaforte di una schiera

di ladri e malandrini che ogni giorno minano le fondamenta

della nostra democrazia, visi noti della politica nostrana che

vivono di compromessi e frenano ogni atto di gestione pubblica

che non porti loro un qualche tornaconto personale. L'uomo,

pertanto, si affida a Dio o a qualsiasi altra forza superiore

gestisca l’intero ambaradan. Per chi non ha pazienza, esiste

sempre uno spiraglio chiamato rivoluzione, il sogno di radere

al suolo l’intero sistema e ripartire daccapo.

In questo contesto così avvilente, vive un giovane

ragazzo di ventitré anni, un povero diavolo che ha smesso già

da un po’ di dare un senso alla propria vita. Ora quel ragazzo

ha a disposizione un tempo quasi irrisorio per darsi una lavata,

cambiarsi e filare a tutta birra verso la stazione Fontivegge, con

la speranza di riuscire a salire sul primo treno disponibile per

giungere puntuale a un importante appuntamento di lavoro. E

se non ce la facesse? Già, se non riuscisse ad arrivare in

tempo?

«Cazzo, cazzo, cazzo!»

(Quel ragazzo, per chi ancora non l’avesse ancora

capito, sarei io.)

Scatto a velocità supersonica in direzione del corridoio,

portandomi appresso un insolito interrogativo: se avessi avuto

uno straccio di calendario a portata di mano, mi sarei trovato lo

stesso in questa situazione di merda? Cristo! Sarebbe bastato

che me ne avessero regalato uno per il compleanno, anziché

optare per il solito portafogli o per qualche aggeggio

elettronico ora buttato da qualche parte nell’armadio. E invece

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no. La gente non pensa mai a comprare cose intelligenti. La

gente compra solo cazzate. Fanculo!

«Concentrati ora! Concentrati!»

Tamburello l’aria con il palmo delle mani, come a voler

zittire il marasma che ho in testa. Superata la porta della

cucina, mi adopero poi in un’assurda pantomima prima di

decidere quale direzione prendere.

«In bagno!»

La mia ombra si perde nell’oscurità del corridoio, un

buio pesto che m’impedisce persino di captare, dinanzi a me, la

presenza di un ostacolo insormontabile: la porta del bagno.

Chiusa, ovviamente.

Uno scoppio cupo e improvviso e, senza capire più un

accidente, mi ritrovo steso sul pavimento, con il grugno

dolorante e in testa un lieve fruscio e pagliuzze dorate che

appaiono e scompaiono a un ritmo intermittente. A un certo

punto, mi pare persino di vedere la Madonna.

«Che tranvata!»

Uno scontro inaudito. Un colpo tanto violento da farmi

capitombolare a terra come in una gag di Stanlio e Ollio. E ora,

sdraiato, dolorante sul pavimento, questa porta chiusa mi

sembra appena più alta e imponente del Muro del Pianto.

Mi rimetto in piedi, anche se a fatica. Una volta in

bagno, verifico davanti allo specchio se nell’impatto il setto

nasale abbia riportato dei danni. Chi può dirlo. Certo è che il

dolore c’è e si fa sentire. Non vedo però uscire sangue dalle

narici. Muovo quindi il naso con le dita per controllare che non

ci sia niente di rotto. Parrebbe di no. Tutto sembra al solito

posto: la bocca, gli occhi, le occhiaie, la stessa espressione

31

spenta di sempre. Naso a parte, in effetti non c’è molto per cui

gioire.

Non perdiamo altro tempo però. Fa’ infatti che non

riesca ad arrivare puntuale all’appuntamento e sarò costretto a

scrivere altre centinaia di mail con la speranza di ottenere uno

straccio di colloquio.

Devo darmi una mossa.

Giro il rubinetto e con le mani raccolgo l’acqua da

gettare sul viso. Neanche questo farà effetto però. Solo un

miracolo mi potrebbe aiutare. Sono stordito e ho un forte senso

di claustrofobia. Mi sembra di esser rinchiuso sul fondo di una

clessidra. Vedo la sabbia cadermi in testa. Non se la smette.

Ancora un po’ e finirà per seppellirmi.

«Che diavolo è successo?», gracchia Eudora, facendo

spuntare dalla porta del bagno quella sua faccia di merda che,

solo a guardarla, mi vien voglia di prendere a sberle fino a

tumefarla.

«Fatti i cazzi tuoi!», le urlo.

«Ma vai a quel paese!», risponde lei per le righe,

tornandosene da dove è venuta.

Per certi versi, questa ragazza mi è utile. È una delle

poche valvole di sfogo a mia disposizione. Per quanto sia

difficile ammetterlo, devo riconoscere il suo inestimabile

valore. È una presenza snervante, ma essenziale.

Imprescindibile più o meno quanto un cancro ai coglioni per un

martire che sogna di essere beatificato.

Ma ora basta pensare a Eudora. C’è una vita da salvare:

la mia.

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Con un movimento che di leggiadro ha davvero ben

poco, mi dirigo verso la camera da letto, dimenticando di

lavarmi il viso, i piedi, le ascelle e tutto il resto. Se mai dovessi

riuscire ad arrivare in tempo all’appuntamento, chiunque mi

sottoporrà al colloquio dovrà tenersi a debita distanza per non

rimanere stordito dal mio odore nauseante.

Metto una maglia e un paio di jeans ciancicati, i primi

che mi capitano sotto tiro. Cerco poi le scarpe, le uniche

decenti che mi sono rimaste: un paio di Converse color

cioccolato. Ne trovo soltanto una.

«E l’altra? Dove cazzo è finita adesso?»

Scruto ogni angolo della stanza: sotto la scrivania, sotto

il letto, tra le lenzuola, persino tra la rete e il materasso. Apro

l’armadio, spulcio tra i vestiti che sono riposti all’interno.

Continuo imperterrito nelle mie ricerche, ma niente: della

scarpa neanche l’ombra.

«E che cazzo!»

Esco dalla camera per dare un’occhiata anche al resto

della casa. Passo per la cucina, poi per il bagno. Tutto inutile.

Da di là, intanto, sento Vicious ringhiare.

«Ora ci si mette anche lui. Piccolo bastardo!»

Non devo farmi innervosire da quel cane di merda,

altrimenti qui finisce male.

Proprio accanto alla porta è situata, in un angolo, la sua

cuccia. Oddio, più che una cuccia, una vera e propria reggia in

scala ridotta. Vado lì per azzittirlo e, casualità, cosa trovo?

«Brutto figlio di una cagna gravida! Molla subito quella

scarpa!»

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Il vile sacco di pulci è lì, steso sul suo morbido letto di

cuscini coloratissimi, con in bocca la mia Converse. ‘Sto

rottinculo! Vorrei prenderlo a calci sul muso, ma alla fine opto

per un approccio più delicato.

«Vicious! Vicious caro!», gli faccio, tentando di

distrarlo.

Niente. Non mi si caga di striscio. Questo chihuahua del

cazzo meriterebbe di finire abbrustolito in una cuccia elettrica.

Ne costruirò una appena sarò di ritorno da Roma, promesso.

Ma ora vado di fretta. Devo riavere la mia scarpa. E la riavrò,

costi quel che costi, che questa sottospecie di cane lo voglia

oppure no.

«Cosa c’è, testa di cazzo? Fai lo gnorri?»

Lentamente dirigo la mano verso le sue fauci.

Immagino di infilare le mie dita tra le cosce di una ragazza. Sì,

questa tecnica funzionerà, ne sono certo. Anni e anni di petting

saranno pure serviti a qualcosa, del resto. Alcuni successi e

svariati due di picche alle spalle, ma adesso posso dire di

possedere le abilità necessarie per incunearmi nella merdosa

bocca di un chihuahua e sottrargli la scarpa senza che questi

opponga la benché minima resistenza.

«Non fare il cattivone con me, dai!»

Chiudo gli occhi e immagino di muovere la mia mano

sotto il vestito di una giovane fanciulla, fino ad avventurarsi in

direzione di quella che, in adolescenza, si era soliti definire la

“quintessenza della caverna oscura”, un posto per alcuni

totalmente ignoto ai tempi, ma che con gli anni sarebbe

diventato per tutti (o quasi) la principale ragione di vita.

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Un lieve movimento e finalmente riesco ad afferrare la

scarpa. Immagino i miei polpastrelli sul solco umidiccio della

ragazza, i primi gemiti che fuoriescono dalla sua bocca. È fatta.

Ce l’ho, è mia. La scarpa è di nuovo tra le mie mani. Persuaso

dall’obiettivo, commetto però un errore fatale. Senza badare

più a sottigliezze, provo a tirar via la scarpa, ma lo faccio con

troppa sfrontatezza. Come un pivello dal sangue troppo caldo,

è l’impazienza a fottermi.

Il cane sbarra di colpo gli occhi, penetrandomi col suo

sguardo al vetriolo. Dai nostri sguardi, gli uni aderenti agli altri

come dei collant sulle gambe sfatte di una vecchia matrona,

percepisco l’atrocità del duello che di qui a poco si andrà a

consumare. Ormai privo di ogni accorgimento, tento allora uno

strattone più deciso, ma il cane è già nel vivo della bagarre. E

ringhia, sempre più forte.

«Shhh!», bisbiglio. «Non ti ci vorrai mettere pure tu

stamattina.»

L'animale non mollerà tanto facilmente la presa. Lo

deduco dal suo insistente e snervante latrato.

«Vicious!», urla nel frattempo Eudora, dalla sua

camera. «Cosa c’è? Perché ti lamenti tanto?»

«Sta’ zitto, cazzo!», lo rimprovero a denti stretti.

«Vicious, che hai?», insiste lei. Oltre la parete della sua

camera da letto, le gambe di una sedia grattano sul pavimento.

Uno di seguito all’altro, avverto poi i passi della stronza

procedere inesorabili verso la porta.

«Lurido cane schifoso!»

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Un ultimo, brusco strappo e la Converse è fuori dalla

cuccia. Ma con essa, anche la bestia, avvinghiata alla tomaia

coi suoi denti aguzzi.

«Molla l’osso, brutto sacco di pulci!»

Il duello è giunto al suo apice. Io e Vicious ci sfidiamo

in un scontro all’ultimo strattone. Un match che mi auguro di

vincere prima che Eudora esca dalla sua stanza. Questa

insignificante creatura, però, sembra possedere nelle sue

ganasce un punto di forza non previsto.

«Dammi la scarpa!», esclamo, con un volume di voce

decisamente più alto. «È mia, lo capisci?»

La sfida procede in assoluto equilibrio. Il cane, pur

penzoloni, non mostra alcun segno di cedimento. Tento

qualche scossone più deciso, dei cambi di direzione improvvisi,

ma niente, non c’è nulla da fare: la situazione rimane invariata.

Aperta la porta della camera, alla vista di una scena

tanto bizzarra, Eudora mostra un certo, giustificato stupore.

«O madre santissima!»

Caso vuole che proprio in quel preciso istante il cane

molli la presa, finendo violentemente addosso alla parete con in

bocca ancora un brandello della mia scarpa. È sempre nel

medesimo, inglorioso istante che, proveniente dalla cucina,

sento uno scoppio, forte e inatteso.

La caffettiera sul fuoco, Cristo!

«Che cazzo sta succedendo?», domanda Eudora.

«Come si fa ad avere un cane così stronzo?», le urlo,

eludendo abilmente la sua domanda.

Con fare materno, la ragazza si china per prendere in

braccio il chihuahua e stringerlo a sé come un pargolo

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impaurito. Che scena patetica! Se solo poteste vedere Eudora

adesso, mentre si adopera con le sue dita lunghe e affusolate in

delle elastiche carezze. Su e giù lungo la schiena della bestiola.

Sfiora il pelo del cane come lo volesse salvare da un

assideramento ormai quasi certo.

«Cos’era quel botto?», domanda, evidentemente scossa.

«Boh!», esclamo, preparando la menzogna. «Saranno

stati i vicini.»

Infilo la scarpa che ho recuperato, poi vado nella mia

stanza per prendere le chiavi di casa e gli occhiali da sole. Ok,

siamo a dicembre e del sole non c’è praticamente traccia. Senza

occhiali, però, non potrei mai uscire di qui. Sapete com’è, viste

le mie condizioni, preferirei passare inosservato. Anzi, vi dirò

di più, me ne rimarrei volentieri rinchiuso nella mia camera da

letto a fare la muffa, se non fosse che questo lavoro mi serve e

neanche poco.

Afferro dunque la giacca dall’appendiabiti, non prima

però di aver ricevuto i saluti di Eudora, come sempre

educatissimi. «Sei una grandissima testa di cazzo!»

«Mi lusinghi.»

Tra coinquilini è normale che si litighi, ma quando

Eudora vedrà il macello che ho combinato in cucina, ne sono

certo, stavolta ci scapperà il morto. E qualcosa mi suggerisce

che a crepare sarò proprio io. Meglio quindi che scompaia il

prima possibile, aggredendo il pianerottolo con lo stesso piglio

di un rapace predatore, pronto a ghermire ogni malcapitata

preda abbia la sciagura di intralciare la mia precipitosa, quanto

rara discesa in strada.

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Capitolo V

Sarà passata appena mezz’ora da quando sono partito e già mi

sento a pezzi. La colpa è anche di quest’odioso ragazzino che

ho di fronte. È insopportabile, non sputa un attimo. Chiacchiera

come non ci fosse un domani. Provo a ignorarlo

nascondendomi dietro gli occhiali da sole, ringraziando

piuttosto la buona sorte per essere arrivato puntuale alla

stazione Fontivegge. Non che un mio ritardo avrebbe

rappresentato chissà quale evento assurdo. La puntualità non è

mai stato il mio forte. Chiedete a chi, in tutti questi anni, ha

atteso per ore il mio arrivo di fronte a un cinema, a un teatro o

a un bar, sotto il sole cocente o in balia di un acquazzone

apocalittico. Chissà quanti accidenti mi avranno mandato.

Chissà in quanti, nell’attesa che li raggiungessi, hanno sperato

che il mio ritardo potesse esser dipeso da una disgrazia, che ne

so, un incidente che mi avrebbe impedito l’uso di entrambe le

gambe vita natural durante.

Stavolta, però, ce l’ho fatta: sono arrivato alla stazione

pochi minuti prima della partenza del treno. Una volta

ringraziato il Signore (o chiunque fosse quell’impiegato delle

Ferrovie dello Stato in servizio presso la biglietteria), sono poi

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schizzato attraverso il sottopassaggio per raggiungere il binario

indicato su uno dei tanti monitor appesi alle pareti. Preso dalla

foga, durante il percorso ho urtato, in sequenza, un giovane

ramingo con uno zaino da cento litri sulle spalle, un piccolo e

tozzo macchinista ferroviario e, per concludere, un’esile

suorina appartenente forse all’ordine domenicano. «Zotta la

suora!», ho esclamato, ricevendo in cambio gli aspri rimbrotti

della timorata. Attraverso l’altoparlante, ho poi sentito una

voce che annunciava l’ormai imminente partenza del treno.

Scalpitante come un puledro imbizzarrito, era lì ad

attendermi, maestoso ed eccitato, pronto a dispensar scintille

lungo le rotaie ardenti e parallele. «Fermati!», ho gridato,

direzionando l’urlo verso un punto indistinto nello sconfinato

universo circostante. Agli occhi dei più potevo forse essere

affetto dallo stesso dissesto psichico di uno squilibrato mentale.

“Be’, ‘sti cazzi!”, ho pensato. E sebbene ormai allo strenuo

delle forze (fisiche e, per l’appunto, psichiche), mi sono infine

prodigato in un ultimo colpo di reni, pur di salire sul treno,

proprio un attimo prima che la porta scorrevole si chiudesse,

cigolante, dietro le mie spalle.

E adesso eccomi qui, ancora sudato e paonazzo in viso,

stravaccato senza alcun ritegno dinanzi a una donna e al suo

petulante figlioletto, ad elemosinare soltanto un briciolo di

riposo. Me lo merito, cazzo! Un quarto d’ora di silenzio, non

penso di pretendere tanto. Quindici miseri minuti e sarò

nuovamente pronto a riempirvi gli occhi e la mente delle mie

strambe gesta quotidiane. Come potreste, del resto, non

concedere un po’ di relax a un povero cristo catapultato di

colpo nel turbolento inferno cittadino? Chiedetelo a

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quest’impertinente giovinastro che ho di fronte. Domandategli

anche perché continua a scartavetrarmi i coglioni con le sue

storie senza senso.

«Io una volta ero un dinosauro», confessa il piccolo.

«Poi un giorno avevo sete e ho bevuto l’acqua del mare e poi

mi sono reincarnato in un pesce. Poi un giorno, mentre nuotavo

felice, mi hanno pescato. Poi mi hanno portato al mercato del

pesce e una signora mi ha comprato. Poi, quando è arrivata a

casa, mi ha mangiato e poi mi sono reincarnato nella signora.

Poi un giorno…»

Sfido chiunque a non detestarlo. Dietro i miei occhiali

da sole, osservo quel suo corpicino minuto, affogato dentro un

paio di pantaloni di velluto scuro, una camicia bianca e un gilè

bluastro di cashmere. Guardo quegli occhiali da vista che gli

scivolano sul naso, le lenti tonde e la montatura rossa, del

medesimo colore del papillon che tiene legato al collo e che,

Dio mio, vorrei stringere con tutta la forza che ho in corpo.

Odio quel ragazzino. Con quei cazzo di capelli, proiettati

all’indietro alla ricerca, sembrerebbe, di una perfetta forma

aerodinamica. Se non se la smette di rompermi i coglioni, giuro

che lo uccido. Qui, davanti a tutti.

«Leopoldo!», lo interrompe prodigiosamente la madre.

«Smettila di importunare il signore.»

Come mi ha chiamato? Signore? Ho sentito bene?

Nessuno, prima d’ora, si è rivolto a me in una maniera

altrettanto bizzarra. Mai, se si esclude forse qualche rara

occasione in cui la formalità era da considerarsi un rigido

codice comunicativo per tutti gli astanti. Non sono abituato ad

associare il mio nome a questo epiteto: “signore”, un

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appellativo che in fondo non mi rappresenta. Il mio ciclo di

maturazione s'è infatti come paralizzato nel mezzo di un

deserto del nada, un piatto giallo che il buon vecchio

Hemingway avrebbe preso come esempio per definire quella

perdita di speranza che attanaglia molti uomini, quella totale

inabilità a diventare attivi nel mondo reale. E in effetti, già da

tempo, ho smesso di lottare per accaparrarmi spazi vitali che,

invece, mi spetterebbero di diritto. Sono come ibernato in

questo contesto spazio-temporale, incapace di far ritorno in

quello che, con un pizzico di egocentrismo cosmico, mi sono

permesso di rinominare “mondo di fuori”. È come se

l’immaginario e fantastico universo della mia mente

rappresentasse l’unica dimensione reale. E come fosse un

appiglio, ci rimango aggrappato, pur di non venire risucchiato

dalla vita.

«Non si preoccupi!», esclamo, rivolgendomi alla donna.

«Suo figlio non mi sta dando alcun fastidio.»

Questa bugia ha più o meno la stessa vastità dell’intero

stato cinese, ma lei non pare assolutamente accorgersene,

considerato il sorriso smagliante che vuol mostrarmi, al pari dei

gioielli che porta indosso e che impreziosiscono la sua pelle,

raffinata e pulita, assolutamente degna dell’affascinante donna

qual è. Elegante e faceta alla vista, quanto un diamante dello

Zaire. Nobile e superba, quanto una magnolia. Il suo corpo è

vivo, eccitante, sprizza charme da tutti i pori. Le mie parvenze,

al contrario delle sue, possono invece ricordare quelle di un

profugo appena sbarcato sulla terraferma. (Con tutto il rispetto

per i profughi, s’intende.) È sufficiente infatti sottoporre a

verifica le mie sciatte vesti per sentirmi fuori luogo. Sarei

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disposto a sparire, se questa donna lo ritenesse opportuno.

Potrei gettarmi dal finestrino del treno ancora in corsa, se

soltanto lei lo desiderasse.

Ma guardatemi! Osservate attentamente il mio

abbigliamento, la maglia chiazzata in prossimità delle ascelle, i

calzoni strappati sulla coscia e morsicati su entrambi gli orli, le

scarpe logore, così puzzolenti da sembrare un contenitore di

uova andate a male. Non ricordo l’ultima volta che ho lavato

questi abiti. Ma non è solamente questa la causa del mio

imbarazzo. Se aveste l’opportunità di vedermi, se guardaste

attentamente nei miei occhi, forse capireste il problema alla

base di tutto: sto male, ma male veramente.

La differenza tra me e il resto della gente è lampante.

Prendiamo questa donna e suo figlio, ad esempio. Nelle più

probabili delle ipotesi, ieri sera si saranno entrambi coricati non

più tardi delle dieci, dieci e trenta, per poi risvegliarsi stamane

al carezzevole suono di una sveglia con disegnato sopra

Winnie The Pooh o qualche altro dannato personaggio dei

cartoni animati. Fatta dunque una nutriente colazione, si

saranno infine preparati per il viaggio con la stessa ansiosa

eccitazione di chi si trova in procinto di intraprendere una

piacevole scampagnata parrocchiale.

E io? Io invece? Era ormai quasi l’alba quando mi sono

addormentato. Ubriaco e strafatto, non ho neppure avuto la

forza di fare una tappa in bagno e dedicare almeno un paio di

minuti a una sommaria pulizia dei denti. Il sapore dell’alcol è

invece rimasto con me fino al risveglio. La mattinata è

cominciata poi nei modi che vi ho narrato in precedenza.

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Le differenze tra me e gli altri sono evidenti. Non sto di

certo qui a dire chi sia il migliore o il peggiore. (La risposta mi

pare alquanto ovvia.) Quello che vorrei invece sottolineare è la

mia totale inadeguatezza. Non sto esagerando. Mi sembra di

non avere niente a che fare con il resto dell’umanità, di non

avere nulla in comune con nessuno dei miliardi di individui che

popolano questo pianeta. È come se io e gli altri fossimo delle

entità diametralmente opposte, come il Nord e il Sud, il giorno

e la notte, il caldo e il freddo, il bianco e il nero e via

discorrendo.

Mi trovo sul vagone di un malinconico interregionale di

fronte a due perfetti sconosciuti, ma con la mente sono altrove.

Ho appena schiacciato un pulsante e ora mi ritrovo a sorvolare

le Alpi. Posso riprovare le stesse emozioni del mio primo

decollo, quel senso di vuoto che penetra nello stomaco, il

sangue che s’iberna nelle vene, quell’aria di rassegnazione

leggibile attraverso gli occhi, arresi di fronte alla casualità del

destino: siamo vittime o sopravvissuti, savi o pazzi?

Sono seduto sul vagone di un malinconico

interregionale, di fronte a due perfetti sconosciuti, ma sogno di

essere altrove, di essere lontano anni luce dagli ignari spettri

che popolano il mondo, fantasmi di loro stessi, legati l’un

l’altro da un sogno comune, da una visione ottimistica del

proprio futuro, un futuro che almeno io potrei solamente vivere

attraverso una qualche allucinazione.

Cazzo, se sto svalvolando!

Stavolta devo aver proprio esagerato con l’erba.

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«Le potrei chiedere un favore?», domanda tutt’a un

tratto la donna, con quella grazia che contraddistingue tutte le

donne del suo ceto.

«Mi dica.»

«Le scoccia se le lascio per qualche minuto mio figlio?

Giusto il tempo di rinfrescarmi in bagno.»

Rinfrescarsi? È così che le donne perbene definiscono

l’impudente atto di far pipì?

«Si figuri!», le rispondo, cortese come forse un paio di

volte negli ultimi due o tre anni mi è capitato di essere.

Alzandosi dal sedile, mi dedica ancora uno sguardo, con quel

suo sorriso posticcio, più e più volte riciclato in vita,

probabilmente per far colpo sulla gente, in particolare sugli

uomini.

«E tu, Leopoldo, vedi di non fare il maleducato con il

signore.»

Inizio quasi a prenderci gusto. “Signore”: mi sentissi

un’altra volta chiamare in questo modo e difficilmente potrei

più farne a meno. Adesso comprendo la soddisfazione di quegli

stronzi patentati che tengono ancora a certe convenzioni. Mi

godrei questa strana sensazione che ho in corpo, se quel

diavolo di un Leopoldo, con voce sciocca e sincera, non

riprendesse incautamente la sua solfa, rovinando tutto il mio

progetto di assoluta beatitudine.

«Sai perché gli uccelli volano?»

«Perché hanno le ali?», ipotizzo io, forse con eccessivo

pragmatismo.

«No. Perché ogni mattina li sparo con la mia fionda

fuori dalla finestra.»

44

La sua innocenza lo fa apparire più umano. Ma al di là

di questo, il mio odio per lui è destinato a non diminuire

neppure di un milligrammo.

«E sai perché c’è il buco dell’ozono?», domanda

ancora, dopo un silenzio inebriante, ma, ahimè, fin troppo

breve.

«No. Dimmelo tu.»

«Perché l’ho fatto io coi miei occhi laser.»

Benché la fantasia del fanciullo rappresenti, lo

ammetto, un curioso universo a sé stante, una nottata come

quella appena trascorsa non costituisce una base solida su cui

costruire una conversazione di qualunque tipo. Tantomeno di

questo tipo.

«E sai perché esistono gli uragani?» Non replico

neppure più, scoraggiato dall’inarrestabile vivacità mentale di

questo piccolo moccioso. «Perché, quando mi arrabbio, sbuffo

molto, molto forte.» Oramai la sua bocca è un mitragliatrice di

pensieri, sparati a raffica contro le mie orecchie martoriate. Ma

ora basta, non ne posso più. Se parla ancora, lo uccido. «E sai

perché…»

«Sai perché adesso te la pianterai con questo giochino

del cazzo?», tuono improvvisamente io, estraendo il cellulare

da dentro i calzoni e puntandoglielo sotto il piccolo naso a

patata come fosse una pistola. «Perché, se non te la smetti, sarò

costretto a farti saltare in aria le cervella. Saresti contento di

sapere che, della tua bella testolina, rimarrebbero soltanto tanti

schifosissimi pezzettini di materia grigia, appiccicati su un

sudicio finestrino del treno?»

45

Leopoldo deglutisce, prima di ammutolirsi del tutto. I

miei bulbi oculari, letali come il veleno di un serpente corallo,

devono avergli immobilizzato la lingua, spero in maniera

definitiva. Meglio così. Non m’importunerà più per il resto del

viaggio. Ora posso far cadere la mia nuca sul poggiatesta e

attendere che la donna torni nuovamente a vegliare su suo

figlio.

«Allora?», esordisce lei, finalmente tra noi. «Come si è

comportato il mio ometto?»

«Benissimo!», rispondo, sorridendo al piccolo

Leopoldo che nel frattempo è caduto in uno stato di trance

pietrificante. «Questo bambino è un angelo.»

Sebbene per un attimo la donna sembri cauterizzata

dalle mie rassicurazioni, voltandosi verso il bamboccio, di

colpo si allerta. Suo figlio Leopoldo sembra atrofizzato. È

pallido, non muove neppure più le labbra. Evento, questo,

assolutamente eccezionale. Un evento che però non troverà

altro spazio all’interno della narrazione.

Finalmente mi accingo a ricevere il riposo tanto

desiderato. Eremita coi miei pensieri, rimango ad ammirare,

attraverso il finestrino, l’alternarsi di paesaggi agresti e grigi

capannoni industriali. Tutto il resto sembra ormai solamente un

puntino lontano sullo specchietto retrovisore della mia mente.

Niente più cani ringhianti né ragazzini impertinenti, niente più

coinquiline nevrotiche o corse a perdifiato contro il tempo.

Calma. Solo quella. Quel pizzico di serenità utile a farmi

ricaricare le batterie prima dell’arrivo a Roma. Silenzio.

Quanto di più benefico per un individuo ormai sull’orlo di una

crisi di nervi.

46

Capitolo VI

Il viaggio mi ha ridotto uno straccio. Prova ne sono gli sguardi

indiscreti che il popolo della Tiburtina ha deciso di puntarmi

addosso. Ai loro occhi sono una preda indifesa. Forse il

personaggio di un reality, un buffone pronto a mettersi in

ridicolo pur di ottenere qualche frammento di notorietà. Mi

sento come se mi avessero appena scaraventato in un’arena.

Attorno a me vedo spalti gremiti di buzzurri ubriachi che

incitano al combattimento, tutti in piretica attesa di vedermi

compiere una mossa sbagliata, un errore fatale che possa

innescare la furia del mio avversario. Ciascuno dei presenti

sembra provare un morboso eccitamento nei miei confronti, è

sospinto dall’irrefrenabile curiosità di registrare ogni mia

singola azione, di intuire quali siano le mie prossime mosse, i

miei pensieri più reconditi un attimo prima di incassare il

colpo.

Sarà per come è cominciata la giornata, ma non mi

sento dell’umore adatto per tollerare che un mucchio di

depravati mi squadri dalla testa ai piedi, manco fossi una lastra

nelle mani di un radiografo. Che cazzo avranno questi qua da

guardare? Non hanno mai visto un barbone folleggiare sotto i

47

portici della stazione? Stolti perbenisti dei miei coglioni!

Eppure siamo a Roma, mica in una qualche provincia del

cazzo. Bah! Meglio far finta di niente, infilare le mani in tasca

e poggiarsi al muro, conservando le energie in vista dei

momenti a venire. Almeno finché il sole rimarrà nascosto

dietro questo telo bigio e compatto, finché il vento, fresco e

silenzioso, non smetterà di spirare sopra queste strade.

In mezzo a un casino del genere, non sarà facile

riconoscere il mio uomo. Meglio se lo chiamo.

Tiro fuori il cellulare e premo la combinazione di tasti

necessaria per inoltrare la telefonata al destinatario.

Facile la vita delle macchine, destinate a eseguire

ripetutamente le stesse istruzioni sintattiche, a comunicare

attraverso quel linguaggio formalizzato, così privo di slanci e

di significati, asettico come la voce preregistrata di donna che

fuoriesce dal ricevitore: «Attenzione! Il numero da lei

selezionato è inesistente.»

Cazzo! Il numero che mi ha dato Franz non è giusto. O

forse sono stato io a memorizzarlo male. Non è da escluderlo.

Fanculo! E ora che m’invento? Meglio rimanere qui e aspettare

che sia il tizio a farsi vivo.

Il tizio in questione risponde al nome di Samuel

Sogliano. Costui altri non è che il mio nuovo tutor aziendale

(se così si può definire), una specie di supervisor che avrà il

compito di insegnarmi le tecniche di base per una corretta

gestione del recupero crediti. È stato Franz a fornirmi il

contatto. C’è da starsene tranquilli, a sentire quel figlio di

puttana. Da come dice lui, avrò a che fare con gente affidabile,

professionale, puntuale nei pagamenti. L’azienda, tra l’altro, è

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registrata in Svizzera. E gli Svizzeri, si sa, son persone serie.

Ok, non mi faranno un contratto regolare, ma cosa importa? Sì,

insomma, non sarà questo il lavoro della mia vita. Essere

pagato in nero andrà più che bene. Del resto, cosa me ne faccio

di un contratto se non ho neppure la certezza di un domani?

No, vi prego, non cercate di infinocchiarmi coi soliti discorsi

del cazzo, non ci riuscireste. Non m’interessa il futuro. Non

esiste il futuro. Quindi datemi i soldi che è meglio. Pochi,

maledetti e subito. Non voglio altro. A parte muovermi

immediatamente da qui.

Comincio a volteggiare su me stesso come una trottola

impazzita, in attesa di individuare tra la folla un volto maschile

riconducibile a Sogliano. In strada scorgo parecchi taxi e la via

è quasi interamente assediata da una calca di extracomunitari al

riparo dal vento. Uomini di colore espongono su dei teli

sculture in legno, occhiali, borse, portafogli, cd e dvd tarocchi.

Un orientale, forse cinese, sta mostrando a un bambino, tenuto

per mano da suo padre, il funzionamento di un peloso

cagnolino a pile. Ognuno di questi individui è lì, pronto a

piazzare la sua robaccia a qualche allocco di passaggio. Tra

tutti i venditori, però, ce n’è uno che mi incuriosisce più degli

altri. Non so il perché. È un africano, sulla quarantina, alto

all’incirca un metro e ottantacinque, robusto, dalle spalle larghe

e possenti. È un uomo umile, degradato, costretto a raccogliere

in fretta e furia tutta la mercanzia non appena la sirena di una

volante gli suggerisce di alzare i tacchi e volatilizzarsi nel più

breve lasso di tempo possibile. È forse in quei momenti che

rimpiange la sua vecchia vita, alienato com’è nella nostra

società perversa e disgregata, sempre a sperare che i pochi

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guadagni della giornata bastino a comprare il cibo necessario

per sfamare la sua famiglia. È sfortunato a non avere un lavoro

stabile e legale, ma è ancora più sfortunato perché è nero, anzi

negro, come più volte si sarà sentito chiamare. Deve infatti

combattere quotidianamente non soltanto contro la fame, la

sete e le forze dell’ordine agguerrite. Deve fare a pugni anche

contro i pregiudizi razziali, contro l’odio, la segregazione, le

incomprensioni, contro chi lo accusa di puzzare, di far parte di

una stirpe meno evoluta, di una razza inferiore.

Mi avvicino a lui, senza un valido motivo. Sì, insomma,

vi ho fatto tutta ‘sta filippica, ma in fondo non è che me ne

freghi qualcosa. Né di lui né della sua storia.

«Amigo!», esordisce, con una pronuncia ciancicata.

«Vuoi comprare?»

«No», rispondo, accennando un tiepido sorriso. «Do

solo un’occhiata».

Sopra una vecchia coperta mimetica, l’uomo tiene

esposti, custoditi in degli involucri di plastica, cd musicali

masterizzati, roba per lo più pop e latino-americana. Una vera

merda, insomma.

In attesa che mi convinca ad acquistare qualcosa, il tizio

infila le mani in tasca, forse per salvaguardarle dal vento che ha

fastidiosamente ripreso a soffiare. Chissà se è stufo della

propria vita almeno quanto lo sono io della mia. In fondo,

dev’essere davvero dura campare nelle sue condizioni: ogni

fottutissimo giorno con addosso la paura che gli sbirri ti

becchino, ogni fottutissima notte con l’angoscia che i tuoi figli

riescano ad addormentarsi, malgrado i crampi allo stomaco non

glielo permettano.

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Accovacciato dinanzi alla sua mercanzia, fingo

interesse per quei cd, più che certo che, per quanto possa

rovistare in mezzo a quella robaccia, mai riuscirò a scovare il

nome di un artista o di una band meritevoli di essere barattati

con un foglio da cinque euro. Torno allora a fissare gli occhi

dell’uomo. Si muovono in maniera spasmodica, un po’ vigili e

un po’ malinconici. Vorrei domandargli se se l’aspettava

davvero così, la vita. A me l’avevano descritta in maniera del

tutto differente. Dicevano somigliasse a una tranquilla

passeggiata in un frutteto profumato, non di certo a una corsa a

piedi nudi sui carboni ardenti. Dicevano anche che ci sarebbe

stato il sole, al mattino, appena sveglio, la luna piena prima di

addormentarmi. Ma era tutta una montatura, una fiaba

raccontatami perché potessi fare dei sonni tranquilli, perché i

miei incubi non turbassero i sogni di qualcun altro.

Non è così, purtroppo. La verità è diversa. La verità è

che, il più delle volte, al mattino, sento ancora in bocca il

sapore disgustoso della stessa merda ingoiata la sera prima. La

verità è che mi sto devastando anima e corpo. Ogni giorno che

passa è come se perdessi sei mesi della mia esistenza.

Strana invenzione, la vita. Qualcuno ti fionda

sull’avanscena senza nemmeno dirti a cosa andrai incontro. Poi

ti capita di commettere un errore, anche banale, e a pagare le

conseguenze non sei soltanto tu, ovviamente. E no! Sarebbe

troppo bello. Ad andarci di mezzo c’è anche chi ti è più vicino.

E finisci per allontanare tutti e finisce che tutti si allontanino da

te. E rimani da solo. E succede che impazzisci. Tu, solo contro

tutti. Tu, davanti a una platea inferocita che pretende le venga

restituito per intero il prezzo del biglietto.

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«Sei stato un fiasco, amico!», sembrano urlarti dagli

spalti. «Tornatene da dove sei venuto!»

Bella fregatura, la vita. Sarete d’accordo con me.

Investiamo tutti i nostri sforzi su di lei, ma le sole cose che ci

vengono restituite sono rimorsi, rimpianti e rancori. E tutto ciò

che di bello ci è capitato? Già, dove vanno a finire le emozioni

liete, le gioie e i sorrisi più belli? Sepolti dalle macerie del

tempo, ecco qual è la loro encomiabile fine.

Torno a osservare l’uomo. Il suo sguardo è sospeso

nell’aria come un filo invisibile fatto di mille inquietudini. Nei

suoi occhi però arde un fuoco. Quel fuoco è costituito

dall’amore per una donna, per i suoi figli o per entrambi. Un

fuoco che brucia di continuo, che lo scalda. Il fottuto scopo che

giustifica i mezzi, il principio machiavellico capace di tenere

un uomo in vita nonostante tutto, che lo spinge a superare le

difficoltà di ogni giorno, trovando la forza anche quando la

disperazione appare insopportabile. L’avessi anch’io uno

scopo, adesso probabilmente non starei qui a tormentarmi con

certe malsane considerazioni. Ce l’avessi anch’io un cazzo di

scopo, adesso me ne starei comodo sul divano, magari, a

godermi un po’ di relax davanti a un grosso televisore al

plasma, risucchiato nel subdolo palinsesto dei più inutili canali

pay-per-view presenti sul satellite.

E invece no, sono qui a cagarmi sotto dal freddo, in

attesa che uno sconosciuto si faccia vivo per traghettarmi verso

questo nuovo e misterioso incarico. Il mio Caronte. Chissà se

riuscirò a riconoscerlo in mezzo a questo marasma di gente.

Sempre che non sia prima lui a riconoscere me.

«Ehi!»

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Voltandomi di scatto in direzione di quell’urlo, tolgo gli

occhiali da sole per osservare meglio lo strano individuo che

procede verso di me. È un tizio sulla quarantina, con un

cappello da cowboy in testa. Si avvicina con ampie falcate,

pronto ad accogliermi tra le sue lunghe braccia, spiegate come

le ali di un’aquila in volo. Ha degli abiti appariscenti. Sotto una

giacca di pelle bianca, porta una camicia tartan rosa e blu,

sbottonata apposta per mettere in mostra il petto glabro e

rosolato, sul quale penzola un ciondolo d’oro legato a un

cordino in caucciù. Indossa anche dei jeans chiari, con una

cinta in cuoio marrone e, ai piedi, degli stivali pitonati a punta.

Dalla bocca gli penzola una sigaretta divenuta ormai cenere.

«Samuel?», domando, non del tutto certo si tratti della

persona che sto aspettando.

«E tu sei Lou», ribatte lui, stringendomi in un

abbraccio eccessivamente caloroso. «Lou Brown, il nuovo

apprendista.»

«In carne e ossa», rispondo, sacrificando forse l’ultimo

alito di voce che mi rimane in corpo.

53

Capitolo VII

«Hai visto che t’ho riconosciuto subito?», fa Samuel,

rischiando di ciccarmi in testa mentre con le braccia mi stritola

il collo.

«Già», mi pare di rispondere, sebbene non mi stia

arrivando abbastanza sangue al cervello per capirci qualcosa.

Samuel forse intuisce che sta esagerando e mi libera

dalla presa permettendomi così di tornare a respirare. Poi

domanda: «Be’, t’ho fatto aspettare parecchio?»

«No, macché! Sono arrivato giusto qualche minuto fa.»

Sembra appagato dalla mia risposta. Dopo aver

osservato il venditore ambulante, però, vuol togliersi un’altra

curiosità. «E che hai fatto nel frattempo?» Quindi, sempre

tenendo l’uomo sotto controllo: «Un po’ di beneficenza a ‘sto

bingo bongo del cazzo?»

Gli si fa avanti, spavaldo e attaccabrighe come un ras di

quartiere, senza staccargli gli occhi di dosso neppure per un

istante. Poi, lentamente, si piega per prendere il primo cd che

gli capita tra le mani. Solo per un istante distrae lo sguardo

sulla copertina.

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«Cos’è ‘sta merda?», domanda. In volto gli riconosco la

stessa espressione disgustata di un bambino di fronte a un

piatto di verdure. In effetti, il cd che tiene in mano non è

proprio quello che si definisce un capolavoro. Sì, insomma,

stiamo parlando de La Bomba degli Azul Azul, che cazzo!

«Possibile che lì a Bananolandia non sia ancora arrivata

un po’ di musica decente?»

Una frase del genere farebbe di certo infuriare qualsiasi

essere umano dotato di un minimo d’orgoglio personale, ma

non lui. Lui non accenna la benché minima reazione. Ostenta

anzi un atteggiamento di assoluta indifferenza. Probabilmente,

in vita sua, gli è capitato di affrontarne troppa di gente come

Samuel. Offese del genere non lo scalfiscono più di tanto,

oramai.

«Dai, lascialo perdere!», intervengo io tanto per essere

sicuri che la situazione non degeneri.

«E dai!», esclama Samuel, girandosi verso di me. Sul

viso tiene un sorriso storto, perverso, falsissimo come la merce

venduta dall’africano. «Ci stiamo solo facendo quattro risate.

Mica sono un cazzo di razzista io. Anzi, ti dirò che a me i negri

stanno pure simpatici. Bisogna avere rispetto per certa gente.

Tutto il giorno a correre sotto il sole per scappare dai leoni. Oh,

non è mica facile portare le chiappe in salvo in situazioni come

quelle. Vorrei vedere te al loro posto.» Il suo discorso mi lascia

a bocca aperta. Inizialmente pensavo stesse scherzando, ma ad

ogni parola che aggiunge mi convinco sempre più della sua

serietà. «È ovvio che, una volta arrivati qui, s’accontentino di

lavare i vetri delle macchine o di vendere gli accendini ai

semafori. È normale. Farebbero di tutto per non tornarsene in

55

Africa. Qui hanno trovato la bambagia. L’Italia è il loro

paradiso terrestre. Lo capisci, sì?» Di nuovo vedo Samuel

tornare ad affrontare faccia a faccia il venditore. «Comunque,

per dimostrare quanto in realtà io stimi certa gente, sai che

faccio adesso?» Infilata la mano in tasca, fruga al suo interno

fino a estrarre una monetina. «Gli regalo un euro.» Tenendo la

moneta sul palmo della mano, la avvicina all’uomo per

offrirgliela. «Tie’! Compratici un pacchetto di noccioline.»

L’uomo rimane immobile, mento alto e petto in fuori,

fiero e imponente come il Colosso di Rodi. È imperturbabile.

Chissà se è davvero così indifferente alle provocazioni di

Samuel come vuole dare a vedere, oppure, fiutato il

trabocchetto verso il quale il mio novello tutor tenta invano di

attirarlo, preferisce implodere la propria rabbia come un

recipiente saturo di merda.

«Non lo vuoi?», incalza Samuel, senza tuttavia ottenere

alcuna risposta. «Meglio così», fa lui, sollevando le spalle.

«Vorrà dire che se lo prenderà qualcun altro. Magari qualcuno

che non morirà di AIDS entro la fine del mese.»

Rinfilato in saccoccia l’euro, lancia la sigaretta a terra,

poi si volta, prendendo a muoversi nella direzione opposta da

dove è venuto. Lo seguo. Sembro un pulcino dietro il culo della

propria chioccia. Mi affretto per non perdere la scia disegnata

dalle sue ampie e pesanti falcate. Cammina in modo arrogante.

È borioso, così pieno di sé. Sembra che la sua andatura sia stata

studiata a tavolino, come se ogni impercettibile movimento del

suo corpo sia stato provato dieci, cento, mille volte al giorno

davanti a uno specchio, fino a diventare un perfetto swocker

texano.

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«Non ti vanno granché a genio quelli con la pelle nera,

eh?», gli faccio dopo averlo raggiunto grazie a qualche passo

più spedito.

«La pelle di quello lì non è mica nera», spiega lui. «Il

carbone è nero, il petrolio è nero, il costume di Batman è nero.

La pelle di quel tizio è marrone. Ma neanche marrone. È...» Ci

riflette su per un attimo. «Negra!» Non posso crederci. Non

posso avere a che fare con un mostro del genere. Ma da dove

cazzo è uscito fuori questo qui? «Ad ogni modo», prosegue,

«hai fatto buon viaggio?»

«Ce ne sono stati di migliori», confesso.

«Oh, mai uno che mi rispondesse: “Certo, Samuel! Il

viaggio è stato una vera pacchia.” Mai! E lo sai perché?» La

mia espressione da ebete vale come una risposta. «Perché è

tutta colpa del Paese di merda in cui viviamo!», esclama. «Non

passa giorno che non senta parlare di treni in ritardo o

soppressi senza alcun motivo, di viaggi di pochi chilometri che

si trasformano in vere e proprie odissee, di vagoni sudici,

affollati all’inverosimile, di personale indisponente e di

coincidenze che non coincidono tra loro. E continuano pure ad

alzare i prezzi del biglietto, ‘sti stronzi! Che gran figli di

puttana! Ci stanno proprio prendendo per il culo!»

Dove diavolo vorrà andare a parare? Boh! Meglio far

finta di niente e lasciare che finisca il suo delirio.

«I guadagni sono privati e i debiti sono pubblici. Questo

per loro significa privatizzare? Ma dai! Qui in Italia si fa tutto

alla cazzo di cane. O peggio ancora, non si fa niente. Non si fa

niente perché tutto rimanga com’è, è ovvio.»

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Ecco, lo sapevo, mi sono perso. Come ci siamo

impelagati in questo discorso? Per fortuna che anche lo stesso

Samuel non sembra particolarmente attento a quel che dice.

«Eccoci alla macchina», esclama, indicando la sua

vettura, una Hyunday Coupé grigio metallizzato. Sprezzante

delle norme stradali, la tiene posteggiata in una zona riservata

ai taxi.

«Dai, monta!», mi fa.

Seguo le sue istruzioni, senza fiatare. Avvicinandomi

allo sportello del passeggero, mi accorgo di alcune

ammaccature sulla carrozzeria. Lungo la fiancata destra, noto

anche dei graffi. Oddio! Più che dei graffi, sembrano delle vere

e proprie artigliate di una fiera. Da lontano, nel frattempo, vedo

un uomo venirci incontro. Ha un’andatura sgraziata e

vacillante. Pare stia inveendo proprio contro di noi. «Ehi!»,

sembra gridare.

«Mi sa che quel tizio ce l’ha con noi», ipotizzo ad alta

voce.

«Ma no!», rassicura Samuel, dopo essersi voltato a

controllare. «Ti sbagli.»

Vorrei tanto che le parole del mio tutor coincidessero

con la realtà, ma guardandomi attorno non posso far altro che

arrendermi all’evidenza: siamo noi le uniche due persone con

cui quell’uomo può avercela.

«Vorrei aver torto, Samuel», insisto, «eppure a me

sembra che quell’uomo si stia dirigendo proprio verso di noi.»

«Secondo me tu guardi troppi film americani.»

Forse Samuel ha ragione. In effetti, perché mai quello

sconosciuto dovrebbe avercela con noi? Un motivo pare in

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realtà esserci, vista l’irruenza con cui si presenta dinanzi a

Samuel. «Ecco de chi cazzo è la macchina!»

«Che c’è?», replica Samuel, dando un leggero colpo

alla cappotta dell’auto. «Ti interessa il bolide?»

«Tu mica ce poi sta’ qua. Lo sai, sì? ‘St’area è riservata

ai taxi.»

Il tizio, un tassista romano, ci rimprovera il fatto di aver

parcheggiato la macchina in uno spazio a noi non consentito.

Nel farlo, però, manovra un vecchio, enorme telefono cellulare

come fosse un machete, intimando di avvertire le forze

dell’ordine qualora non ci togliessimo subito di mezzo.

Samuel, mostratosi finora piuttosto tollerante, sentendo

proferire la parola “polizia”, perde completamente le staffe.

Improvvisamente scaglia un tremendo calcio di punta sui

gioielli di famiglia dell’uomo. Il tizio, dopo aver in pratica

sputato le palle fuori dalla bocca, va ko.

«Coglione!», esclama poi Samuel che, come se niente

fosse, si infila dentro la propria vettura. Io, invece, me ne

rimango fuori, pietrificato. Non credo ai miei occhi. Cioè, lo ha

fatto davvero? Non è che mi sono inventato tutto? Cercando

invano una risposta diversa da quella che in realtà è, ripercorro

con la mente tutte le principali tappe della giornata: il risveglio,

il viaggio in treno, l’accoglienza che questo pazzo mi ha

riservato. E un attimo dopo mi sale lo sconforto.

«Ma chi cazzo me l’ha fatto fare di alzarmi

stamattina?», borbotto a voce bassa, per evitare che Samuel, da

dentro l’auto, mi senta.

Già, Samuel. Non affiderei mai le mie sorti nelle mani

di un folle picchiatore, razzista e bellimbusto come lui. Eppure

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sono costretto a farlo. Ovvio, potrei anche rifiutarmi di salire su

quest’auto, ma ho bisogno di soldi. Ecco perché sono obbligato

a sottostare alle sue regole. Non ho alternative. Se non

rimpiangere di non essere nato in un’altra parte del mondo o

magari in un’altra epoca.

Apro lo sportello e mi siedo sul sedile del passeggero.

Uno sgradevole tanfo di nicotina impregna la tappezzeria. Nel

posacenere scopro un mucchio di mozziconi di sigaretta e filtri

artigianali. E bravo Samuel! A quarant’anni si fa ancora le

canne. Uno più raccomandabile di lui non poteva capitarmi.

Cristo santo!

Acceso il motore e innescata la retromarcia, il pazzo

lascia che l’auto schizzi all’indietro, schivando di un nonnulla

il povero tassista rimasto dolorante a terra. Inserita la prima,

forse per ottenere l’attenzione di quei pochi che, per

sbadataggine, non si sono ancora accorti di noi, con una

plateale sgommata lancia la propria Hyunday lontano dal

piazzale della stazione, per disperderla poi tra le congestionate

corsie di un ampio viale cittadino.

Qualcosa di brutto, posso scommetterci, sta per

capitarmi.

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Capitolo VIII

Imbottigliati nel traffico, Samuel ne approfitta per estrarre un

pacchetto morbido di Marlboro rosse da un taschino interno

della giacca. Ne sfila una e se la porta alla bocca, poi, con un

gesto cortese (a ben rifletterci, il primo che gli vedo compiere

da quando l’ho conosciuto), mi porge il pacchetto, mosso dalla

sincera quanto vana intenzione di offrirmene una.

«No, grazie», gli dico, inibendo per pochi istanti ogni

suo gesto o parola.

«Fai sul serio?», domanda, allibito. «Cioè, mi stai forse

dicendo che non fumi?» Tiene il pacchetto in mano, come se si

aspettasse qualche improvviso colpo di scena. Ma dal

sottoscritto riceve solo dei versi un po’ imbarazzati. Stizzito,

rinfila in tasca il pacchetto, poi ingrana la prima e riparte

spedito. «Cristo! Proprio un cazzo di salutista doveva

capitarmi.» Mentre lo dice, utilizza uno Zippo per ardere la

punta della sigaretta. Rimesso l’accendino a posto, torna a

stringere il volante con la mano destra, mentre con il gomito

sinistro rimane poggiato allo sportello.

Fuma Samuel, fuma come una ciminiera, ma perlomeno

ha il buonsenso di lasciare il finestrino abbassato per

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permettere a entrambi di barattare del fumo con un po’ d’aria

fresca o con qualsiasi altra cosa la città abbia da offrirci. Il

pazzo continua a esibirsi in rapide e intense boccate,

adoperandosi però a tener viva la conversazione, prima che tra

di noi scenda quel silenzio capace di mettere irrimediabilmente

fine a questa stramba messinscena.

«E dimmi un po’, ti fai di qualcosa?»

«Cosa?», faccio io, incredulo per la domanda che mi è

stata appena rivolta.

«Sì, insomma, ti droghi?», insiste lui, come se si

trattasse di una normalissima curiosità.

«No. Cioè, sì», ammetto, semplicemente per onestà,

perché congenitamente incapace di inventar balle. Non sono

bravo a dire bugie, forse perché nessuno in vita mia me ne ha

mai raccontate. Nessun cavolo, ape o cicogna è stato

protagonista delle mie storielle da bambino. Ben presto

conobbi la verità di quell’unico spermatozoo capace di

incunearsi all’interno dell’ovulo materno. Ma non furono i miei

genitori a parlarmene, ovviamente. No, sarebbe stato troppo

imbarazzante per loro affrontare un argomento del genere. Le

mie fonti furono altre. Ai tempi ero abbastanza scaltro da

trovare da solo tutte le informazioni che mi servivano. Ero

curioso. Dote che ho perso con il passare degli anni.

Scoprii molte altre cose, oltre al sesso, quand’ero

ancora un ragazzino, ad esempio la verità su Babbo Natale e la

Befana. Sapevo benissimo che quell’uomo grassoccio, vestito

di abiti rossi e con in volto una folta barba bianca, e quella

vecchina a cavallo di una scopa, brutta come la peste, altro non

erano che delle vere e proprie apologie del consumismo. Tutti i

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bambini che conoscevo ci credevano. Tutti tranne me. Del

resto, non volevo sentirmi un illuso. Oltre al fatto che non avrei

mai desiderato ricevere una visita da parte di due vecchi

squinternati come loro. E anche se in cuor mio lo avessi voluto,

avevo un padre che non avrebbe mai interpretato la parte. Lui

non si sarebbe mai sognato di mascherarsi da Babbo Natale. Se

glielo avessi chiesto, probabilmente avrebbe replicato con

qualche scappellotto ben assestato. Quello, secondo il suo

modo di vedere le cose, era il più bel dono che potessi ricevere,

la lezione più efficace per comprendere quanto dura fosse la

vita. Col trascorrere delle stagioni, mi sono via via convinto

che i suoi intenti fossero più lodevoli di quanto allora potessi

immaginare. Per lui era il metodo più giusto per insegnarmi a

vivere. Sì, c’era qualcosa di molto educativo dietro quel suo

comportamento. Solo che a quei tempi non potevo

comprenderlo, non riuscivo proprio a capire quali fossero le

sue ragioni. Ero solo un bambino. Come può un bambino

giustificare la violenza?

«Tipo? Di che ti fai?», riprende Samuel, ottenendo di

nuovo la mia attenzione. «Bamba, paste… roba del genere?»

«Niente di tutto questo», preciso. «Fumo per lo più

hashish. Ed erba, se mi capita di rimediarla.»

«Niente coca insomma?»

«No.»

«Eroina e compagnia bella?», insiste, come a volersi

accertare di non aver frainteso.

«No, niente», assicuro, aiutandomi con un chiaro cenno

della mano.

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Guardando attraverso il parabrezza la fila immobile di

auto che ci precede, Samuel brontola tra sé e sé qualcosa del

tipo: «Caro mio, si prevede una convivenza difficile». Io faccio

finta di non sentire. Anzi, mi adagio sul sedile, stendendo le

gambe fino a che la macchina me lo permette.

«Senti, ti dispiace se mi faccio una botta?», domanda

ancora, proprio mentre sto acquisendo consapevolezza di

quanto la comodità non sia affatto uno dei fiori all’occhiello di

questa vettura.

«No, figurati!», lo tranquillizzo. «Fai pure.»

Ghignante come lo può essere un ragazzino a cui è stato

appena concesso il permesso di raggiungere i propri amichetti

sotto casa, Samuel allunga il braccio dalla mia parte per aprire

il portaoggetti. Ritratte le gambe per lasciargli spazio, lo vedo

rovistare con la mano all’interno del cruscotto fino a rinvenire,

tra le custodie in plastica sparpagliate al suo interno, un cd.

«Pitchshifter», fa lui. «Conosci?»

Nonostante mi reputi un discreto conoscitore di musica,

devo ammettere non mi sia mai capitato di sentire anche solo di

sfuggita il nome di quel gruppo.

«Mi pare di no», rispondo. «Che genere fanno?»

«Nu metal, la rumorosa arte di far andare d’accordo

chitarre temprate al titanio e high-tech sonico», spiega lui.

«Nelle dovute proporzioni, ricordano un po’ i Ministry, se hai

presente.»

Ho presente? Facciamo finta di sì.

«I Ministry!», ripeto, celebrando con un sorriso

falsissimo la sua domanda. «Come no! Certo che ce li ho

presenti. Davvero forti!»

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«Oh! Iniziamo a ragionare», fa lui, come per incanto,

finalmente bendisposto nei miei confronti. Se solo sapesse che,

in vita mia, avrò ascoltato sì e no un paio dei loro brani, tra

l’altro di sfuggita… «Ma non pensare che adesso mi stai

diventando simpatico.»

«No. Sono solo contento che tu li abbia citati.

Veramente. Non è facile conoscere qualcuno che apprezza una

band come i Ministry. E comunque credo anch’io che una

passione in comune, da sola, non basti a far…»

«Va bene, dai! Ora però chiudi il becco e sentiti ‘sto

pezzo.»

«Ok.»

Infilato il cd nello stereo, Samuel sceglie di farlo partire

dalla sesta traccia. Solo pochi istanti e l’auto viene riempita da

una serie sincopata di suoni che provocano una vera e propria

scossa al mio sistema nervoso. Faith No More, Nine Inch

Nails, Helmet, Prodigy, Alice in Chains: tutta la loro musica

raccolta in un unico brano che mozza il fiato e accelera il

battito del cuore. Sono già in trepidazione.

«È la mia preferita», confessa Samuel. «Dabliu, uai, as,

ai, dabliu, uai, gi. What You See Is What You Get.» Questa

specie di biscotto abbrustolito ha un’altra passione oltre alla

droga. Non lo avrei mai immaginato.

«Però!», esclamo, sollevando il pollice della mano

destra, come un perfetto yankee. Un gesto che viene

contraccambiato con un sorriso gonfio d’orgoglio.

«Questa sì che è musica», ribadisce lui, scuotendo la

testa a ritmo, prima di fermarsi dietro una vettura in sosta

davanti al semaforo. Ne approfitta per spegnere la sigaretta nel

65

posacenere e pescare dal taschino della giacca un pacchetto di

velina opaca. Ne rovescia parte del contenuto sulla custodia

vuota del cd. È una polvere bianca finissima, simile a del gesso

tritato: cocaina, indubbiamente. Da una tasca dei pantaloni

estrae quindi una scheda telefonica e un pezzo da cinquanta

euro. Con la tessera sbriciola la polvere già di per sé

sottilissima, dopodiché la dispone fino a formare una striscia.

Leccata la parte di scheda usata per la triturazione, arrotola la

banconota e ne infila un breve tratto all’interno della narice

destra. Poi, una volta chinatosi sulla custodia, l’avvicina a

un’estremità e con un secco fendente inala la razione.

Sollevandosi con un rapido guizzo, si pizzica ripetutamente le

narici. Sembra sia stato morso da una vipera.

«Cristo di un Dio svaccato! Quanta cazzo d’anfetamina

c’è qua dentro!» Srotolando il biglietto da cinquanta euro, un

ghigno amaro gli disegna il volto. «Uno più fortunato di me lo

avrebbe fatto con un pezzo da cinquecento.» Scrolla le spalle,

ma non sembra comunque darsi per vinto. «Ah, ma c’è ancora

tempo per fare il colpaccio. Vedrai se prima o poi non ci

riesco.»

Annuisce con la testa, poi storce le labbra quando un

automobilista dietro di noi suona il clacson per avvisarci sia

appena scattato il semaforo verde. Torna dunque a mettere a

fuoco la strada. Gli basta un attimo per notare un varco

venutosi a creare sulla corsia di sinistra. Non uno spazio

particolarmente ampio, ma sufficiente per convincere Samuel a

occuparlo attraverso una manovra da immediato ritiro della

patente. Il brusco spostamento dell’auto mi disarciona dal

sedile.

66

«Oh, cazzo!», esclamo, mentre le cinture di sicurezza

tentano di avvinghiarmi come fossero spire di un serpente.

Non riesco a vedere altro oltre alla morte. Se si esclude

Samuel, ovviamente. Osservo spaurito il suo modo smanioso di

sbattere le ciglia, di cambiare marcia senza criterio, di alternare

ghigni perversi a fugaci sguardi in direzione del sottoscritto. Ai

suoi occhi sembro forse un cucciolo spaventato. Sto per avere

un infarto. E credetemi, non è affatto una bella sensazione.

«Tu sei tutto matto!», esclamo, impegnato nel frattempo

a ritrovare una corretta posizione sul sedile.

«Lo so!», esclama, inchiodando di fronte a un altro

semaforo rosso. Il suo sguardo comincia a vagare con

inquietudine tra i pedoni che attraversano le strisce pedonali,

fino a posarsi su un seno compresso in un push-up e su delle

cosce sinuose che piovono da una gonna a dir poco succinta.

Appena il semaforo ridiventa verde, però, spinge il pedale

dell’acceleratore, facendo nuovamente schizzare l’auto

sull’asfalto.

«Ah! Dimenticavo!», irrompe di nuovo, senza

nemmeno degnarmi di uno sguardo, troppo impegnato com’è a

fulminare con gli occhi gli altri automobilisti. «Più tardi devo

sbrigare un lavoretto», spiega, accendendosi l’ennesima

sigaretta. Accodatosi a un’altra vettura in sosta, gioca poi con

la leva del cambio, mettendo ora il motore a folle, ora

inserendo la prima. «Il tizio che devo incontrare non abita

molto lontano da qui. Però prima andiamo a farci un

bicchierino.» Si volta verso di me, con un ghigno perverso.

«Ok?» Il mio sguardo da pesce lesso vale più di qualunque

altra risposta. «Dai, che ci divertiamo!»

67

«Ok», rispondo senza troppa convinzione.

Sensazioni indecifrabili. Di certo negative. C’è da

rabbrividire vedendo tutti questi palazzoni che ci spuntano

attorno. Se alzo gli occhi, non scovo neanche un uccello che

possa intenerire la scena. Il cielo è insipido e spoglio, o forse

soltanto coperto da un innaturale telo di tonalità radioattive.

No, quella che vedo non è affatto Roma. Sembra una città

presa in prestito da un futuro apocalittico.

«Che c’è?», fa Samuel, colpendo dritto nel segno.

«Sembri preoccupato.»

«Be’», rispondo in tutta franchezza, «in effetti un po’

d’ansia m’è venuta.»

Se ho accettato questo lavoro, è perché spero che le

cose cambino. Magari do una bella raddrizzata alla mia vita,

magari riesco pure a rimpinguare il mio conto corrente

perennemente in rosso. Fondamentalmente è per questo che ho

deciso di accettare il consiglio di Franz e di continuare a dar

retta a questo scapestrato. Ho bisogno di soldi, non posso farci

nulla.

«Tu devi stare tranquillo, però!», esclama Samuel. «Sei

troppo agitato. E quando uno è agitato, rischia di non fare bene

il proprio mestiere.»

«Sarà!», faccio io, accennando un sorriso. «Diciamo

che mi voglio fidare.»

«Ti devi fidare!», ribatte Samuel. «Non ammetto che la

gente abbia dei dubbi su ciò che dico. E sai perché? Perché ciò

che dico è la fottuta e sacrosanta verità. Non parlo mica a

sproposito, io. Ogni cazzo di frase, parola o sillaba che esce

dalla mia bocca è una verità insindacabile. Quindi ora sta’ zitto

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e apri bene quelle cazzo di protuberanze che tieni attaccate alla

testa e che ti ostini a chiamare orecchie.» Convincente, come

sempre. «Ora io e te ce ne andiamo a fare una bella bevuta, così

ci rilassiamo a puntino prima di catapultarci seriamente nel

lavoro. Ok?»

Sigaretta incollata alle labbra, l’abominevole Samuel

Sogliano ha la stessa aria vissuta di un cowboy metropolitano,

uno che non sa suonare l’armonica, ma beve whisky a fiumi e

bestemmia sempre e comunque, anche in presenza di donne e

bambini.

«Ok», approvo, senza fare salti di gioia. «Sei tu il

capo.»

69

Capitolo IX

Mettete in moto la fantasia e cercate d’immaginarvi la scena.

Io, bevuto da far schifo, in un bar traboccante di gente. Una

biglia impazzita dentro un flipper allucinante, con un tumbler

di Campari e gin tenuto a stento tra le dita della mano destra, in

totale soggezione di fronte a certe facce losche che sembrano

appena uscite da Rebibbia o Regina Coeli.

Ah! Ma che ne so! Come sempre, forse il problema non

sono loro, il problema sono io. Sono malato. A stare in mezzo

alla gente, mi viene l’ansia. Ho spesso questo genere di attacchi

di panico in situazioni simili. Ed è per questo che, quando

posso, evito persino di uscire di casa. Dico sul serio, non vi sto

raccontando frottole. A volte penso sia meglio rinchiudersi in

camera e fumare dalla mattina alla sera, piuttosto che uscire e

avere a che fare con altre persone. Che poi star da soli non è

così male. Col tempo uno impara anche a conoscersi meglio. Io

ho capito che sono un impostore, proprio come tutti gli altri.

Ma, a differenza degli altri, sono consapevole di esserlo. È

quando uno rimane da solo, infatti, che riesce a mettersi

realmente a nudo, che straccia quel velo dietro cui è nascosta la

verità. Quando l’uomo è in gruppo (come ogni altro animale,

70

del resto) tende invece a trasformarsi in qualcos’altro, ad

emulare il vicino, a creare maschere da indossare. Si fa forte

pure chi di natura è debole. Diventa coraggioso anche il più

docile agnellino. L’uomo mente per convincere se stesso e gli

altri di essere quello che non è. È rimanendo da soli, però, che

le nostre menzogne tendono a sgretolarsi. Mentire a se stessi

non ha più alcun senso perciò si è costretti a vuotare il sacco. È

questo quello che è successo e continua a succedere ogni

giorno anche a me. Isolandomi, ho imparato a capire come

sono fatto, come funziona la macchina che da più di vent’anni

mi porta a spasso per il mondo. È un autentico catorcio, a

quanto pare, ma è pur sempre il mezzo che mi supporta da

quando sono nato.

L’alcol mi fa un brutto effetto.

Meglio cercare Samuel.

Chissà che fine avrà fatto quel pazzo Caronte, forse in

giro a traghettare qualche frescone nel prodigioso lordume

delle droghe sintetiche. L’ennesimo o forse il primo di una

lunga serie di viaggi low cost su per il culo della miseria

contemporanea. Roba da devastazione neuronale, da mettere il

cervello direttamente in quarantena, lobotomizzarlo con

turbinii di colori fulgidi e parole sgocciolate.

Eccolo lì, invece, seduto al bancone del bar, impegnato

ad attaccar bottone, con la confidente simpatia di un aficionado

di quartiere, col primo tizio che ha avuto la disgrazia di

capitargli sotto tiro.

«Devi sapere che, negli Stati Uniti, i Prodigy li ha

lanciati Madonna, la quale, a sua volta, è stata costretta a

censurare i testi delle loro canzoni perché ritenuti troppo

71

violenti. Cioè, non so se hai capito bene la questione. I testi dei

Prodigy troppo violenti per il pubblico yankee. Che cazzo di

ipocrisia è? Quei mangiacheeseburger sono abituati al peggio

del peggio, a gente che per far successo è disposta anche a

infilarsi una macchinina giocattolo su per il culo, e tu che cazzo

fai? Mi censuri i Prodigy? Ma vaffanculo! Vaffanculo, dico io!

Quella lì è una delle migliori band degli ultimi vent’anni e c’è

ancora qualcuno che parla dei loro pezzi come delle

accozzaglie di rumori. Gente come quella non sa un cazzo di

cosa significhi lavorare su delle campionature o utilizzare il

sequencer. Gente così non capisce un cazzo di musica!»

Un incavato quattrocchi dalla faccia non propriamente

sveglia è lì che ascolta senza tuttavia comprendere una sola

parola di quello che Samuel gli sta riferendo con una passione

a dir poco smisurata.

«In Italia, non è che le cose siano tanto diverse»,

prosegue imperterrito il mio amico, se mio amico si può

definire. «Hanno considerato il videotape di Smack My Bitch

Up scandaloso, tant’è che l’hanno trasmesso in tv solo dopo la

mezzanotte. Capisci, sì, in che cazzo di mondo viviamo?»

Ma per quanto Samuel s’impegni nella propria arringa,

l’espressione del suo vicino confessa tutta la sua estraneità

riguardo basi scratchate e mix musicali d’oltremanica.

«Ah! Ma che cazzo ne può sapere un coglione come te

di ‘sta roba!»

Non c’è verso, Samuel è così. Dai suoi occhi lo si

capisce benissimo lo sforzo titanico a cui quotidianamente deve

far fronte per non arrendersi all’idea che la maggior parte degli

eventi segua il proprio naturale corso e che lui, malgrado tutto,

72

continui a remare controcorrente, sognando che il resto del

mondo si comporti nella sua stessa maniera, rimanendo cioè

indifferente a qualunque strategia di vita possibile. In effetti,

mi somiglia molto in questo senso.

«Sembra che a nessuno gliene freghi un cazzo dello

schifo di mondo in cui viviamo», mi fa, prima di rovesciare in

gola l’ennesimo sorso di whisky. «Siamo degli idioti. Ci

accontentiamo di quello che ci fanno vedere, senza cercare di

capire cosa cazzo c’è dietro.»

Comincia a svalvolare. Più che comprensibile, del resto.

Anche un uomo dall’organismo rodato come il suo, quando

esagera, rischia di ritrovarsi in una valle tremendamente buia e

sconsolata.

«Buttiamo giù tutto quello che ci mettono sotto il naso»,

prosegue, replicando con una smorfia all’ennesima sorsata di

whisky. «Non ce ne frega un cazzo se ci danno da mangiare la

merda, purché ce la vendano come cioccolato. Questo è lo

schifo di mondo in cui viviamo, lo capisci? E questo è il

motivo per cui tanta gente è costretta a farsi di brutto. È

normale, cazzo! Bisogna evadere da questa cazzo di realtà.

Siamo costretti a farlo. Sempre, ogni santissimo giorno, ogni

volta che capita l’occasione.»

Samuel, così mentalmente instabile, con quella sua

balda fierezza da sbattere in faccia alla gente, senza alcun

timore reverenziale verso niente o nessuno, con quel suo

portamento e quelle sue vesti da ultimo cowboy urbano rimasto

sulla Terra. No, non dovete commettere l’errore di pensare a lui

come a un rifiuto della società. Sforzatevi di vederlo sotto

un’altra luce. Perché lui, in fondo, i suoi ideali ce li ha, magari

73

accartocciati da qualche parte, forse dentro le sue stesse

viscere. E forse sono scritti pure in aramaico antico. Per cui

capirete quanto sia difficile, per uno come lui, comprendere in

che direzione muoversi e come fare a farsi capire dalla gente. È

per questo che, incasinato com’è, preferisce scegliere una via

più congeniale: la fuga. Ogni mezzo per ottenerla va bene. Le

droghe, l’alcol, qualsiasi cosa, purché quel qualcosa riesca a

farlo estraniare da questa realtà con lui così meschina. La sua

scelta è forse da biasimare? Non lo so e sinceramente non me

ne frega un cazzo di saperlo. Soprattutto adesso, che mi scappa

da pisciare.

Meglio trovare un bagno. E in fretta.

Mi alzo dallo sgabello, senza dire nulla. La testa mi gira

a una velocità inaudita. Potrei crollare a terra da un momento

all’altro, ma è un rischio che devo correre a meno che non

voglia farmela addosso.

Eccolo lì, il bagno. Mi ci fiondo, senza esitare un solo

attimo.

«Oh, Sant’Iddio!», esclamo, una volta dentro.

Un tizio sta vomitando l’anima dentro il lavandino.

Forse si è anche cagato addosso, considerando la puzza di

merda che arriva dai pantaloni. È semplicemente al collasso.

Un foglio di carta igienica pregno di alcol e merda che aspetta

soltanto di essere inghiottito dal tubo di scarico di un’anonima

tazza del cesso. Buona notte, fratello! Che almeno i tuoi sogni

possano esser d’oro, poiché il risveglio, stanne certo, sarà un

vero schifo.

Spalanco la patta dei pantaloni davanti al primo dei tre

orinali a muro. Per un attimo desidero che si trasformi in una

74

bella donna. Ma è solo un attimo. Sono troppo smostrato per

avere anche solo un’erezione. Finisco quindi di pisciare, per

poi rinfilarmi il pisello nei boxer. Prima di tornare da Samuel,

però, concedo un ultimo saluto al tizio accasciato davanti al

lavandino.

«Stammi bene, giovine! Ci si ribecca in un’altra vita!»

Il cadavere non risponde. Forse è morto per davvero.

Poco male. L’umanità saprà farsene una ragione.

Torno a sedermi al bancone, ma di Samuel non c’è

traccia. E nemmeno del mio Campari e Gin. Se lo sarà bevuto

quella grandissima testa di cazzo, potrei scommetterci. Razza

di ingrato! Dove cazzo si sarà ficcato adesso? Mi guardo

intorno. Eccolo là, in mezzo alla sala, appiccicato a una tipa,

una trucida coi capelli ossigenati. Ciucco e infoiato, è lì che se

la sbaciucchia. Le sta palpando anche l’intestino, infilando la

mano sotto il vestito celeste a bretelle che mette in mostra una

serie di tatuaggi fatti forse con un taglierino.

«Samuel!», esclamo, andandogli incontro. La tizia mi

fissa. L’idea che voglia sperimentare un ménage à trois non mi

eccita per niente. Anzi, mi rivolta le budella. «Noto con piacere

che hai fatto amicizia.»

«Lo conosci?», fa la donna. Una domanda che lì per lì

mi spiazza.

«Be', sì», ribatto, prima di chiedere conferma a Samuel.

«Possiamo dire di conoscerci io e te, no?»

«Be’, direi di sì, cazzo!», risponde Samuel.

«Ecco, sì, appunto», concludo io, impacchettando la

risposta ben bene prima di consegnarla alla tipa.

75

«Be’», fa lei, smorzando di colpo ogni entusiasmo.

«Allora je diresti gentilmente de toglieme la mano dar culo? A

me non me vole popo da’ retta.»

«Samuel?», domando, senza aggiungere altro.

«Ma sì, vattene!», fa lui, liberando la donna dalle sue

grinfie. «E vedi di non farti più vedere in giro!»

È ubriaco, chiaro come il sole. Io pure, lo ammetto. Ma

quando sono sbronzo, non mi metto di certo a far cazzate in

giro. Almeno, non di proposito. Va be’, non sempre.

«Andiamo!», ordina Samuel, come al solito senza darmi

altra scelta.

«Dove?», gli domando con aria rassegnata.

«Abbiamo un lavoro che ci aspetta. Te ne sei già

dimenticato?»

Non serve replicare. Devo soltanto obbedire e seguire il

mio Caronte. Mi porterà all’inferno, già lo so. Ma è lì, in

fondo, che uno come me merita di stare.

76

Capitolo X

«Cioè, sei davvero convinto che ti basterà suonare il citofono

per imboccargli a casa e farti ridare i soldi?», domando, ancora

un po’ brillo dopo la recente sosta al bar. «Ma figurati se quello

lì ti fa entrare. Non c’ha una lira. Guarda in che razza di posto

vive.»

Siamo in un quartiere malfamato, in effetti, un covo di

disperati. Cristo! Siamo in culo al mondo. Tra l’altro faccio

ancora fatica a capire se tutta questa faccenda della caccia ai

debitori sia una cosa legale oppure no. Sì, insomma, che

Samuel non sia un tipo particolarmente raccomandabile l’ho

capito sin dal primo istante in cui l’ho visto venirmi incontro

alla Stazione Tiburtina. Eppure lui vorrebbe convincermi del

contrario. Dice di non essere uno strozzino, ma di operare per

una società seria. Dando per buona la sua versione dei fatti,

allora perché sono stato scelto proprio io per svolgere un lavoro

del genere al suo fianco? Dai, guardiamo in faccia la realtà:

non sono assolutamente credibile come agente di recupero

crediti. Non otterrei rispetto nemmeno da un pupazzo di neve,

figuriamoci da un disperato con l’acqua alla gola. Non che

serva usare il pugno duro in casi come questi. Sì, insomma, non

77

dovrò mica minacciare di morte qualcuno. Se il debitore non è

in grado di restituire il denaro che gli è stato prestato, bisognerà

semplicemente fargli capire che è meglio che quel denaro lo

trovi. Fine della storia. Almeno spero.

Ah! È inutile pensarci troppo. Scoprirò presto la verità.

Giusto il tempo di assistere al primo recupero crediti della mia

vita. Certo, sempre che il soggetto in questione (a detta di

Samuel, nella merda fino al collo) sia così sciocco da farci

varcare l’uscio della sua dimora. Un’eventualità alquanto

remota, secondo me, ma che il mio tutor non vuole affatto

escludere.

«Le vie del Signore non sono forse infinite?», mi

domanda.

«Be’, sì, ma…»

«Senti un po’», mi interrompe. «Da quand’è che sei in

questo giro?»

«Quale giro?»

«Ecco, appunto. Io ho quarantatré anni e faccio questo

mestiere da una vita, più precisamente da quando mi sono

messo in affari con spacciatori, drogati, papponi e mignotte.

Dunque, fidati di me e, soprattutto, non scassare le palle con le

tue teorie del cazzo, ci siamo intesi?»

«Papponi, mignotte... ma non avevi detto di fare un

lavoro serio?»

«Allora!», esclama Samuel. «Ci siamo intesi, sì o no?»

«Sì, sì», replico io, alzando le mani. «Non insisto.»

«Bene», fa lui, prima di premere con sicurezza uno dei

tanti interruttori che affollano il citofono. Pazienta alcuni

secondi senza che accada nulla, poi sposta l’indice su una

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diversa fila di pulsanti, pigiandone un altro a casaccio e

attendendo di nuovo a braccia conserte.

«Chi è?», domanda una voce stridula, forse quella di

un’anziana signora, attraverso l’apparecchio.

«Io», risponde Samuel. Dice semplicemente questo: io,

due lettere, due vocali che sembrano attaccate con la saliva, la

parola magica che permette alla serratura del portone di

ricevere l’impulso elettrico che la fa spalancare dinanzi ai

nostri occhi.

«Visto?», fa lui, varcando il portone. «Semplice come

far innamorare una donna.»

«Be’, non è così semplice far innamorare una donna»,

ribatto io, seguendolo oltre il portone.

«Sì che lo è», insiste Samuel, proseguendo spedito,

senza neppure degnarmi di uno sguardo. «Basta farle qualche

complimento e, cosa più importante, bisogna scoparla come

Cristo comanda.»

È insopportabile. Non che abbia torto, intendiamoci. Il

problema di quelli come Samuel, però, è che pensano di

conoscerla come le proprie tasche, la vita. È impossibile avere

a che fare con certa gente. I tipi come lui sono convinti di avere

una risposta valida a tutto, da come abbia avuto origine

l’universo a come si cambi una lampadina, dal perché la

benzina costi così tanto al perché il cibo si trasformi

inevitabilmente in merda.

«Ti devi fidare delle persone più grandi di te. E devi

anche portargli rispetto», fa Samuel, prima di affrontare un

vecchio in pantofole, mummificato nel solo angolo illuminato

dell’atrio, intento a scrutinare, sulle pagine del Corriere dello

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Sport, file e file di inchiostro nero che presentano il prossimo

turno di Serie A. Questa settimana, per i giallorossi della

Capitale, è prevista una trasferta in Sicilia, contro il Messina,

per quello che si prospetta essere un match non particolarmente

ostico.

«Sarà una bella partita, nonnetto», esclama Samuel.

«Sempre se arriverai a domenica per vederla.»

L’ironia di Samuel non pare far breccia nell’animo

dell’uomo, che anzi comincia a sbraitare come una vecchia

bertuccia dilaniata dalle emorroidi. (Vi prego, non chiedetemi

se le bertucce possano davvero soffrire di emorroidi.) Samuel

ghigna. Non gliene frega di sembrare antipatico o maleducato.

Non gliene frega di essere irrispettoso agli occhi di una persona

molto più anziana di lui. Fondamentalmente non gliene frega

un cazzo di niente. Su questo, devo ammetterlo, siamo molto

simili. Al diavolo le puttanate sul politicamente corretto.

Fanculo alla censura, ai limiti, alla decenza. Lui fa tutto quel

che gli pare e piace. Lui può tutto. Lui è Samuel Sogliano.

«Se vuoi che tutto vada liscio lì dentro, lascia fare a

me», spiega. «Il tuo compito per oggi è startene buono e non

mandare tutto a puttane. Pensi di farcela?» Faccio tante di

quelle volte sì con la testa che ora Samuel penserà abbia un tic.

«Non dire o fare niente, oltre a respirare. E anche per quello,

limitati all’essenziale. Coi debitori ci si comporta così. Si entra

e si esce. Basta un rapido scambio di battute. Tu chiedi se

hanno i soldi, se ti dicono di sì e te li danno, è fatta. Te li

prendi, ringrazi e ti togli dalle palle.»

«E se ti dicono di no?», domando. «Se i soldi non ce

l’hanno?»

80

«Sei troppo curioso, cazzo! La curiosità non paga in

quest’ambiente. Comincia a farti i cazzi tuoi, ok?» Poi, senza

darmi il tempo di rispondere, chiarisce: «Comunque, se il

debitore non ha soldi, gli devi far capire che è meglio se li

trova. E in fretta.»

«Altrimenti?»

«Altrimenti il nostro capo potrebbe rimanere deluso. E

noi non vogliamo che rimanga deluso, vero?»

Mi sta fissando, mostra un ghigno malefico che auguro

non veda mai nessuno. La sua espressione da psicopatico mi fa

rabbrividire.

«Questa è la procedura standard», prosegue, spostando

lo sguardo altrove. «Nulla di particolarmente complesso, mi

pare. Non c’è bisogno che ti tenga per mano per tutto il tempo,

no?»

«No», rispondo, solerte.

«Bene. Ah! E un’altra cosa», conclude. «Se ti dovessi

cagare addosso, scordati che ti cambi il pannolino, ok?»

«Ok!» Sorrido, mentre gli cammino a fianco come un

fedele gregario. È lui il protagonista della scena, il solo tra i

due capace di calamitare a sé l’occhio di bue che illumina

l’ombroso corridoio di questo decrepito edificio.

«Ti piace il calcio?», domanda a bruciapelo, una volta

lontani dal vecchio.

«Sì», rispondo. «A te?»

«A me no. Odio il calcio e odio anche i calciatori. Ma

non lo vedi come se ne vanno in giro quei frocetti del cazzo?

Coi loro abiti firmati, le acconciature all’ultima moda, le

81

macchinine di lusso. Nessuno li considera più per ciò che

dovrebbero fare, ovvero tirare dei calci a un cazzo di pallone.»

Si sta per infervorare, me lo sento. Ora ricomincerà a

dare i numeri.

«Ogni anno stanno lì, tirati a lucido come delle belle

statuine, pronti a firmare contratti esorbitanti davanti a

centinaia di fotografi. Che farabutti! Li strangolerei con le mie

stesse mani, se potessi.»

Come previsto, è già partito per la tangente.

«E poi odio pure i tifosi, quegli idioti patentati.

Spendono un patrimonio per vedere giocare dei mercenari e poi

si lamentano se non ci mettono il cuore. Ma che cuore! Quelli,

al posto del cuore, c’hanno il portafogli. Tifosi… puff! Illusi

del cazzo! Invece di rimangiarsi il fegato davanti alla tv o allo

stadio, farebbero meglio a pensare alla fica.»

Arriviamo davanti all’ascensore. Come sempre, è

Samuel a guidare le operazioni. Preme con decisione il

pulsante, prima di proseguire imperterrito il suo monologo.

«E invece no! Preferiscono guardare una manica di

froci che corrono appresso a un pallone. Ventidue mezze seghe

che non sanno fare un cazzo oltre a incularsi a vicenda sotto le

docce.»

«Dai!», lo interrompo. «Ora stai esagerando.»

«No, non esagero manco per il cazzo! Quelle là sono

delle pippe clamorose. E non venirmi a dire che non è vero,

perché fare una papera o sbagliare un passaggio a mezzo metro

da un compagno, fino a prova contraria, vuol dire fare una

cazzata madornale per quello che è il loro mestiere. Immagina

se un ingegnere sbagliasse un calcolo o se un medico, che ne

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so, operasse un organo sano. Il risultato sarebbe una casa in

macerie e un paziente morto. O sbaglio?»

Il cinismo delle sue osservazioni non lascia spazio a

repliche, sebbene almeno io sia convinto che il pallone in senso

stretto (inteso cioè come una camera d’aria racchiusa in una

sfera di cuoio) rappresenti semplicemente un gioco, un

passatempo, un deterrente per liberarsi dalla frustrazione, dal

trantràn, dalla noia, talvolta anche dalla disperazione. E poi

perdere una partita non è come far crollare un palazzo, tanto

meno come uccidere un uomo. È calcio, perdio! Nulla di più. È

soltanto divertimento.

Ok, magari non per tutti è così. Sì, insomma, per alcuni

il calcio è più importante di qualsiasi altra cosa nella vita. Anzi,

più importante della vita stessa. Il fatto è che viviamo in un

mondo di cartapesta, dove gli esempi, così come le ideologie o

i valori o migliaia di altre cose che esistevano un tempo, oggi si

sono estinte o si stanno estinguendo. Ed è proprio per questo

che la gente è costretta a seguire quelle poche linee guida a sua

disposizione per andare avanti. La fede calcistica, al pari di

quella politica o religiosa, costituisce quindi una sorta di ancora

di salvezza, una dolce e consapevole utopia a cui in molti non

saprebbero rinunciare. Se non l’avessero, in fondo, si

sentirebbero persi.

Blin!

Il suono squillante di un campanello ci segnala l’arrivo

dell’ascensore, un marchingegno elettrico piuttosto obsoleto, di

quelli in cui le porticine scorrevoli si staccano e poi si

riattaccano, scontrandosi rumorosamente, così angusto da farti

mancare l’aria.

83

«Lascialo perdere il calcio», fa Samuel, varcata la

soglia del trabiccolo. «È una merda.»

Davvero, non me ne frega niente del calcio, ma penso

che, quando si ama qualcosa o qualcuno, è impossibile non

essergli fedeli. Si comincia a essere fedeli a un ideale, a una

persona, a qualsiasi cosa, quando si fa meno fatica a credere

nelle sue qualità, a prescindere dalle reali qualità possedute.

Credere è ciò di cui la gente ha bisogno. Le persone devono

assolutamente affidarsi a qualcosa. Dobbiamo credere per non

sentirci disorientati. A una squadra di calcio, a un’ideologia, a

un Dio, a un partner, a un sogno. A qualunque cosa, purché sia

qualcosa che ci sappia ingannare. Poiché delle bugie, cortesi o

pietose che siano, la gente si nutre. Tutti, me compreso. E forse

anche Samuel. O forse no. Certe cose, probabilmente, neppure

lo sfiorano. Lui va dritto per la sua strada. È uno schiacciasassi.

Gli basta premere il pulsante numero sette e aspettare che

l’ascensore lo porti a destinazione. Non gli importa altro.

Nessun pensiero lo turba al momento. Nessuno, oltre il suo

lavoro.

Delle dita pallide e affusolate, con un rapido guizzo,

s’infilano improvvisamente tra le due porte dell’ascensore,

evitandone la chiusura. Dietro, si svela la figura di una giovane

ragazza, già donna nei suoi squisiti lineamenti. Porta dei jeans

attillati e un piumino bianco aderente in vita. I capelli platinati

sono raccolti a cipolla sulla nuca, il rossetto vermiglio accende

la sua carnagione bianchissima, una pelle che sembra

confessare delle origini balcaniche, slave o forse sovietiche.

Non riesco a capire bene. Entrando, ci delizia con un sorriso

fugace e circostanziale, prima di voltarsi e premere il tasto

84

cinque un paio di volte. Un gesto che confessa una certa

agitazione, malgrado quella che sta ora compiendo sia

un’operazione che ripete probabilmente ogni giorno.

Samuel, nel frattempo, non fa nulla per apparire

discreto. Approfittando di questa fortuita coincidenza, senza

alcun pudore, si piega per rimirare il posteriore della ragazza da

differenti angolazioni, scrutandone gli aggraziati contorni, le

rotondità evidenziate dai jeans strettissimi. La ragazza è messa

davvero bene, ma ora mi pare che Samuel stia esagerando.

Devo riuscire a distrarlo in qualche modo.

«Speriamo che l’ascensore regga il peso di tutti.»

L’ho detto veramente? Oddio! Si può essere più idioti

di così? Meno male che questa mia uscita del cazzo sia servita

a qualcosa. Samuel, infatti, fa appena in tempo a staccare gli

occhi di dosso dalla ragazza, prima che lei si volti verso di noi

per capire cosa stia accadendo alle sue spalle.

Una volta ricompostosi, dal taschino interno della

giacca Samuel estrae il pacchetto morbido di Marlboro rosse

che porge alla fanciulla, come già fatto in precedenza col

sottoscritto, inducendola con un cenno della testa a favorire.

«No, grazie», fa lei, rifiutando la garbata offerta

dell’uomo.

«Come non detto», replica lui, sconsolato. Sembra un

diavolo che ha appena scoperto di aver perso tutto il proprio

carisma. “Cavolo!”, starà pensando. “Non sono più in grado di

far cadere in tentazione un paio di giovani senza un briciolo di

personalità”. Avvilito, dal pacchetto estrae una sigaretta un po’

sgualcita. Visto che non riesce a farci fumare, non gli rimane

dunque che intossicarci con del fumo passivo. Ma quand’è

85

ormai sul punto di far combaciare la fiamma dello Zippo con la

punta della sigaretta, la ragazza, con una pronuncia forse

imperfetta, ma con un tono assai deciso, domanda: «Potrebbe

evitare, per favore?»

Samuel è allibito. Guarda la tipa come se avesse subito

da lei il peggiore degli affronti. Ora, con quegli occhi satanici

che si ritrova, le sta inviando dei chiari messaggi di morte. O di

sesso. O di morte e di sesso assieme. Lei ha appena osato dirgli

di no. E ora si prende anche la libertà di dirgli cosa deve o non

deve fare? La ragazza merita di essere trattata come carne da

macello.

Ignorando in maniera zotica la sua richiesta, Samuel

abbassa lo sguardo verso la sigaretta e arrogantemente va ad

arderne la punta con lo Zippo, come se nulla fosse. Compiuta

quindi la sua prima, intensa boccata, soffia via una nuvola di

fumo proprio in direzione della ragazza. Che l’abbia fatto

apposta per provocarla?

«Tesoro bello», esordisce Samuel, «devi sapere che io

sono un classico fumatore d’ascensore. Tradotto, fumo solo in

luoghi chiusi e angusti. Se lo faccio in spazi aperti, va a finire

che mi sento male.» Fa una breve pausa, giusto il tempo di

concedersi un altro tiro di sigaretta. «Credimi, da quando

fumare nei locali pubblici è proibito dalla legge, la mia vita è

diventata un incubo. Ormai non vado quasi più nei locali. Ma

quando ci vado, non vedo l’ora di tornarmene a casa per

fumarmi tremila sigarette in santa pace. Sarò malato, che vuoi

che ti dica. Ma sarei anche capace di uccidere, se qualcuno mi

impedisse di fumare. Non si può privare un uomo dell’unica

cosa che gli permette di sopravvivere, non credi?»

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Vorrei sparire. Dico sul serio. Poi guardo la ragazza.

Analizzo ogni singolo dettaglio del suo volto: le pupille

dilatate, le palpebre che si spalancano, le labbra che tremano

per il terrore. Studio quella maschera di stupore, il brivido che

la rende impotente. Una catena dalla quale lo stesso Samuel,

graziandola, vuol finalmente liberarla non appena l’ascensore

si spalanca di fronte al quinto piano.

«Be’, cara, ti auguro una buona giornata», fa lui, felice

di togliersela finalmente dalle scatole. Ma alla tipa non sembra

più arrivare il sangue al cervello. Anche le sue gambe si sono

improvvisamente paralizzate. Si muove a scatti. Non ce la fa

proprio a nascondere la paura. A maggior ragione dopo aver

sentito Samuel rivolgerle queste ultime parole. «E fa’

attenzione in giro. Questa città è piena di psicopatici.»

La ragazza non parla più. Insieme alle gambe, anche la

sua lingua deve aver momentaneamente cessato le proprie

regolari funzioni. Le riacquisterà, prima o poi. Quando,

tuttavia, non ci è dato saperlo. Il nostro obiettivo, al momento,

risiede al settimo piano. E nessuno dei due ha più molta voglia

di farlo aspettare.

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Capitolo XI

Settimo piano.

Samuel mi precede fuori dall’ascensore. Lo seguo lungo

un corridoio buio e dalle pareti scalcinate. Sui lati si

intervallano delle porte di legno, ai piedi di una delle quali,

sulla sporca moquette rosso carminio, giace un uomo cencioso,

pallido in volto e con le guance coperte da uno strato di barba

irregolare.

«Bucatino!», esclama Samuel.

Stabile nella sua posa, l’uomo si mostra indegnamente

all’apice della sua devastazione.

«È morto?», domando.

«Non credo», risponde Samuel, dopo averlo scosso con

la punta dello stivale. «Sarà fatto d’eroina.»

«Ah, be’! Possiamo stare tranquilli, insomma.»

«Dai, smettila di fare il coglione!», esclama Samuel,

chinandosi sull’uomo. «Piuttosto, dammi una mano a

sollevarlo da terra.»

«Che cosa?», domando sbigottito, mentre Samuel l’ha

già afferrato per le ascelle. «Tu stai fuori. Non ci tengo proprio

ad avvicinarmi a quel tossico del cazzo. Mi fa schifo.»

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«Dammi una mano, ti ho detto.»

«Scordatelo!»

Mollato il tizio, Samuel decide sia giunta l’ora di

mostrarmi il suo lato più ostile puntandomi l’indice destro a un

centimetro dal naso.

«La vuoi sapere una cosa? Ora mi hai veramente rotto i

coglioni. Vuoi lavorare con me? Allora fai esattamente quello

che ti dico io, ok?»

A Samuel piace aizzare il duello, ne ha un’impellente

necessità, si vede. È uno stimolo che deve necessariamente

soddisfare. È un bisogno animalesco. È troppo più forte di lui.

«Non sta scritto da nessuna parte che debba raccogliere

i tossici da terra per farti piacere.»

«Guarda che, se non ti sta bene questo lavoro, te ne

puoi anche andare a fanculo!»

«Ma insomma! Che è tutto ‘sto casino?»

Io e Samuel ci voltiamo quasi in perfetta sincronia. La

voce appartiene a Bucatino, come per incanto, tornato di colpo

sul pianeta Terra. Lo vediamo boccheggiare, mentre cerca di

arrampicarsi sulla porta, aggrappandosi alla maniglia per

mantenere l’equilibrio. Tiene gli occhi chiusi e probabilmente

non comprende cosa o chi lo circonda.

«Bucatino!», esclama Samuel, aiutando nel frattempo

l’uomo a mettersi in piedi. «Buongiorno!»

«Buongiorno un cazzo!», sbotta lui, divincolandosi

dalla presa.

«E invece dovresti essere felice per questo nuovo

giorno», fa Samuel, ritrovando un sorriso smagliante. «C’è qui

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una persona che, fino a qualche secondo fa, pensava non ti

saresti mai più risvegliato.»

Bucatino vuol dunque esprimere tutto il suo disappunto

a colpi di unghie sul cavallo dei pantaloni di fustagno fradici di

urina.

«Uccellacci del malaugurio! Tanto lo so che me volete

vede’ morto pe’ pijavve tutta l’eredità.»

«Ma quale eredità, Bucatino!», fa Samuel. «Tu non hai

un cazzo. Sei una mezza sega piena di debiti.»

«Mezza sega a chi?», domanda, ciondolando in maniera

imbarazzante. «‘Sto figlio de ‘na mignotta! Non so chi cazzo

sei, ma giuro che te faccio ingoia’ tutti li denti se non te

rimagni subito quello che hai detto.»

«Ma che vuoi fare, che non hai nemmeno la forza per

reggerti in piedi», replica Samuel, facendosi beffa dell’uomo.

«Piuttosto, prima di uscirtene con certe stronzate, controlla

sempre chi hai davanti.»

Bucatino muove mollemente il capo, strizzando gli

occhi per mettere a fuoco il volto del suo interlocutore. Per un

attimo guarda anche me, fissandomi col suo sguardo rintronato,

poi torna su Samuel.

«Signor Sogliano!», trasale. «Ma siete voi!» Dico sul

serio, gli sta proprio dando del voi.

«E già», conferma Samuel.

«Scusatemi!», esclama l’uomo, improvvisamente più

mansueto. «Non lo potevo sape’.»

«Non ti preoccupare. Farò finta che non sia successo

niente», lo rasserena lui. «Sai piuttosto perché sono qui?»

«Be’, no, non saprei.»

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«Come no? Dai, prova a fare uno sforzo.»

«Per i soldi?», chiede Bucatino, dopo una leggera

esitazione.

«Bravo Bucatino! Vedi che quando t’impegni sei più

sveglio di quello che sembri?»

«Lo so che v’ho fatto aspetta’ un po'…»

«Un bel po’!», corregge Samuel.

«Già, un bel po’. Ma non ve dovete più preoccupa’», fa

l’uomo, di nuovo barcollando, poi ridendo e piangendo

assieme, in un miscuglio isterico di commozione ed

eccitamento, un cocktail di emozioni causato probabilmente dai

rimasugli di droga che gli galleggiano ancora nelle vene. «So

che v’ho fatto pena’, ma adesso ce l’ho.»

«Ahi ahi ahi, Bucatino! Non è che mi stai di nuovo

prendendo in giro? Perché sai stavolta che ti capita se non mi

ridai tutti i soldi che mi devi?»

«Ce l’ho, v’ho detto. Stavolta ce l’ho sul serio»,

assicura Bucatino. «Non fate come San Tommaso.»

«Ma quale San Tommaso!», esclama Samuel. «Io di

santo non ho proprio un cazzo.»

Ride, Bucatino. Ride sguaiatamente. «Siete troppo

spiritoso voi! Su, venite dentro!», esclama, invitando Samuel

nel suo appartamento, «Così ve convincete che non dico

stronzate.»

Bucatino punta la porta, dalla traversa fino allo zoccolo

interamente ricoperta di firme e vignette. Dalla tasca dei

pantaloni, poi, tira fuori una chiave. Assolutamente

incompatibile col buco della serratura. Come previsto, infatti,

ogni suo tentativo di infilarla nella toppa ha un esito negativo.

91

«Serve una mano?», chiedo, preoccupato più per il

tempo che passa, che per altro.

Ma Bucatino, battendo il palmo della mano sinistra

nell’aria, risponde: «Nun rompe’ li coglioni te! Faccio da solo.

Devo solo trova’ la chiave giusta.»

Magari non merito mi sia dato del voi ma, cavolo,

essere trattato con un briciolo di rispetto in più non mi

dispiacerebbe.

«Bucatino!», ammonisce Samuel, intervenendo in mia

difesa. «Comportati bene.»

«Scusate!», esclama, prima di tornare ad armeggiare

con la serratura. «Ma è stato lui a provocarmi.»

«Io?», domando, allibito.

Samuel mi guarda scocciato. Si vede lontano un miglio

che non ha voglia di sentirmi battibeccare con un cazzo di

eroinomane. Per tranquillizzarsi, allora, prende il solito

pacchetto di Marlboro e dalla parte tranciata estrae una

sigaretta che, sbuffando, porta alla bocca. Di fronte a quel

gesto, Bucatino non si cura affatto di celare la propria invidia.

«Non è che me ne offrireste una?»

«Bucatino, tu non sei un uomo», fa Samuel, esaudendo

la richiesta del suo debitore. «Sei una tassa vivente!»

Non è poi così cattivo il mio collega. Malgrado i suoi

atteggiamenti da duro, è un buono. Probabilmente non gli sarà

neppure mai capitato di far del male a una persona. Va be’, se

si esclude quello che è successo qualche ora fa con quel

tassista. Ad ogni modo, sono convinto che Samuel ostenti

quell’aria così burbera soltanto per immedesimarsi meglio col

personaggio che si è cucito addosso. Quelli che veste sono

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soltanto i panni che ha deciso di indossare nell’avanscena

quotidiano. E per meglio calarsi nella parte, ha bisogno di farsi

forza e sentirsi invincibile. Spietato, se serve. Ciò a discapito di

coloro che gli sono attorno, inconsapevoli di far parte dello

sfortunato cast del suo personalissimo lungometraggio. Samuel

sa perfettamente di vivere in un contesto ipercompetitivo.

Ciascuno vuole primeggiare nel proprio campo. Sarebbe

disposto a tutto pur di ottenere la gloria. Perché, come i più

bravi strateghi insegnano, in uno scenario concorrenziale come

il nostro, l’etica può tranquillamente andare a farsi benedire.

Bucatino, intanto, ha appena fatto cadere la chiave sulla

moquette. Quest’uomo avrà pure le mani di pasta frolla, eppure

gli riesce benissimo di afferrare una paglia scivolata fuori dal

pacchetto di Samuel, per poi farsela accendere.

«E tu?», mi domanda. «Non ce fai compagnia?»

«Non fumo», ribatto.

Licenziosi sghignazzamenti seguono la mia risposta,

come se il fatto di non fumare sia ora da considerarsi un motivo

di scherno.

«Signor Sogliano, ma chi ve sete scelto come collega?»,

domanda quel tossico del cazzo, una volta riuscito a imbrigliare

le risa. «Proprio un bravo ragazzo!»

«Non sono affari che ti riguardano», lo rimprovera

Samuel, dopo aver catturato i miei occhi solo per un istante.

Sembra voglia consigliarmi di restare dalla sua parte. Finché ci

sarò, potrò contare sulla sua protezione. «Piuttosto, vedi di

darmi i soldi se non vuoi ritrovarti nei guai.»

«Oh, sì! Scusatemi!», fa Bucatino, chinando il capo,

quasi a volersi prostrare dinanzi al suo creditore. «Non me

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sarei dovuto impiccia’, me ne rendo conto. Finisco la sigaretta

e li vado a prende’, promesso.»

Di quanto sia magnanime Samuel ne ho ulteriore prova

ora che, senza spazientirsi più di tanto, rimane a guardare

Bucatino fumare la sua Marlboro a velocità rallentata.

Irrispettoso della libertà concessagli, quell’ammasso di merda

si diverte a creare degli anelli di fumo, per poi osservarli

galleggiare nell’aria prima che svaniscano del tutto.

Un silenzio ambiguo, nel frattempo, avvolge il

corridoio, stranamente deserto. Come tre brutte statuine siamo

lì in attesa di una svolta. L’uno tiene sotto mira gli altri, in una

scena che ricorda molto il mexican standoff finale de Il Buono,

Il Brutto e Il Cattivo. L’equilibrio del triello pare però

spezzarsi quando, con una schicchera, Samuel getta a terra il

filtro della sigaretta, contribuendo al deterioramento della già

lurida moquette.

«Bucatino, sbrigati!», esclama. Dal suo tono di voce,

capisco che ha già pazientato abbastanza. Ora vuole i soldi.

«Sì, sì! Un altro tiro e la spengo.»

Come promesso, dopo un’ultima succhiata al filtro

ormai completamente pregno della sua saliva, anche Bucatino

lancia via quel che rimane della sigaretta. Dalla tasca destra dei

calzoni sfila quindi altre due chiavi. Ne mette una sul palmo

della mano sinistra, l’altra sulla mano destra. Così ad occhio

nudo, quella di sinistra potrebbe forse mettere in moto un’auto

(con ogni probabilità rubata). Quella di destra, invece,

sembrerebbe avere tutte le carte in regola per essere la chiave

giusta. Dello stesso avviso, però, non sembra essere Bucatino

che anzi, incerto sulla decisione da prendere, rimane ad

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analizzarle entrambe per altri sette od otto secondi,

soppesandole con cura, come se realmente potesse distinguere

il peso specifico di ciascuna delle due.

D’improvviso, poi, opta per la chiave di sinistra. (Da un

fattone come lui c’era da aspettarselo.) Il conseguente tentativo

di infilare la chiave nella serratura è l’assurdo finale di uno

spettacolo a dir poco imbarazzante.

«E che cazzo!», sbraita Bucatino. «Avevo il cinquanta

per cento di possibilità d’azzeccacce e invece ho sbagliato!»

Puntando gli occhi verso il soffitto, pare quindi imprecare

verso l’Onnipotente: «Perché tutta ‘sta sfiga? Perché, se pò

sape’?». Schianta la chiave sbagliata a terra, prima di

continuare a inveire contro chissà chi. «Nun me lo merito!»

«Bucatino…», prova a intervenire Samuel. Il suo

tentativo, però, viene surclassato dalle urla isteriche dell’uomo

che, disperato, posa ora il suo sguardo su di noi.

«Voi nun capite! Qui c’avete di fronte un caso clinico.

C’avete davanti la iella fatta persona.» Rivolgendosi a un

pubblico immaginario, urla: «Ammirate, gente! Questa qui non

è una persona qualsiasi, è la prova concreta che la sfortuna

esiste. Esiste e come! ‘Sto povero cristo non ha mai vinto un

cazzo in vita sua. ‘Sto sfigato non ricorda una sola volta in cui

ha potuto gridare: “Sì! Stavolta ce l’ho fatta!” Mai! È una

maledizione.»

«Bucatino…» Samuel prova nuovamente a intervenire,

ma rinuncia un istante dopo sentendo l’uomo riprendere la

solfa.

«In quanto a donne, poi, non è che vada meglio. Anzi.

‘Sto poraccio non se fa ‘na scopata da così tanto tempo che

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ormai ha dimenticato pure come se fa. Anzi, se la volete sape’

tutta, non je se drizza manco più.» Il suo pisello sarà pure

moscio, ma almeno la lingua ce l’ha ancora bella arzilla. E

pensare che fino a qualche minuto fa sembrava morto. Adesso,

per ammazzarlo, ci servirebbero le cannonate. «Ha perso la

voglia de scopa’. Fatejela riveni’! Fatejela riveni’, per Dio!»

«Bucatino!», esclama Samuel, stavolta con più

decisione, riuscendo finalmente a richiamare l’attenzione

dell’uomo. «E mò basta, però, co’ ‘sto teatrino! Va’ a prendere

i soldi!»

«Sì! I soldi!», fa Bucatino, avvicinando l’unica chiave

rimastagli alla serratura. «Me dovete scusa’, signor Sogliano,

ma oggi non ce sto molto con la testa.»

«Eh! L’avevamo notato», appunta Samuel.

Mi pare sia trascorsa un’eternità da quando abbiamo

messo piede qui dentro. E forse è davvero così. Forse siamo

solamente vittime di un incantesimo, inconsapevoli del tempo

che ci scorre attorno. Ma quando ormai ogni speranza sembra

essere perduta, finalmente sento la serratura scattare.

«Sia lodato Gesù Cristo!», esclama Samuel.

Tirando un lungo sospiro di sollievo, rispondo solerte

all’esclamazione del mio collega. «Sempre sia lodato!»

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Capitolo XII

«Spero che non facciate caso al disordine» biascica Bucatino,

facendoci strada nel suo appartamento.

«Macché!», rispondo spavaldo. «Siamo dei maschietti.

Ci sguazziamo, noi, nel disordine.»

Si sa, azzardare una qualunque affermazione è un

rischio che talvolta porta a essere clamorosamente smentiti

dagli eventi. Le ultime parole famose, così le chiamano, no? E

difatti, neanche a farlo apposta, entrato nell’appartamento in

coda al terzetto, mi rimangio subito quanto detto.

«Mamma mia! Ma che è ‘sta puzza?» Nell’aria c’è un

odore nauseante.

Nella penombra, vedo Bucatino dirigersi dall’altra parte

della stanza e sollevare le tapparelle. Basta un attimo perché un

violento fascio di luce illumini le pareti vuote e ammuffite

della casa, marchiate da simboli satanici disegnati con delle

bombolette spray. Il pavimento sconnesso, fatto di mattonelle

scheggiate e sporche, è ricoperto da pezzi di vetro, cartacce e

rifiuti di vario genere. A fungere da letto, un materasso putrido,

bruciacchiato, ricoperto da liquidi seminali ed escrementi di

ogni tipo. Sopra, giace il cadavere di un cane con il ventre

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squarciato e le budella di fuori, un bastardo di media taglia,

stecchito ormai da un bel po’ di giorni.

Un attimo dopo mi vien da vomitare.

Come intuito, forse anche a causa di quei Campari e gin

bevuti al bar, sento un inarrestabile rigurgito risalire intestino e

trachea fino a spruzzare a fiotti fuori dalla bocca. Ora anch’io

posso dire di aver contribuito al luridume della stanza. Samuel,

invece, è a dir poco commovente. Si vede che ha accusato il

colpo ma, non si sa come, riesce a trattenere il vomito. Strano,

considerando tutto quello che ha bevuto.

«Madre Santissima!», impreca, appoggiando una mano

allo stipite della porta. «Bucatino! Brutto figlio di una troia!

Vieni subito qui!»

«Che c’è?», domanda l’uomo, avvicinandosi a Samuel.

«Come che c’è?», echeggia burbero quest’ultimo. «E

hai pure il coraggio di chiedermelo? Cristo Santo, ci stavi per

ammazzare!»

«Signor Sogliano!», fa Bucatino, intimorito dall’aspro

rimprovero di Samuel. «Ma che ve passa pe’ la testa?»

Un filo di sincerità pare legare l’una all’altra le parole

dell’uomo, il quale, spaurito, china il capo in attesa di ricevere

una severa punizione.

«Dai! Va’ a prendere immediatamente i soldi, sbrigati!»

Bucatino è stato appena graziato. Ma l’ordine imposto

da Samuel somiglia in tutto e per tutto a un ultimatum. Al

tossico è rimasta una sola chance. Che non può né deve

sprecare, a meno che non voglia fare una brutta fine. Bucatino

sembra aver afferrato il concetto e ora vaga in questa specie di

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cloaca in cerca del denaro. Lo osservo, mentre provo ad inalare

ossigeno per riprendermi.

«Eccoli!», esclama Bucatino, correndo verso Samuel

con un rotolo di banconote in mano.

Samuel glielo strappa via, poi ne calcola l’ammontare,

sfogliando uno a uno tutti i fogli filigranati.

«Mi stai prendendo per il culo?», fa, una volta

terminato il conteggio.

«Eh?», domanda esterrefatto Bucatino.

«T’ho chiesto se mi stai prendendo per il culo!», ringhia

Samuel.

«No, signor Sogliano», fa Bucatino, scuotendo

nervosamente la testa. «Ma che state a di’?» Abbozza un

sorriso, ma è chiaro che se la sta facendo sotto.

«E allora che cazzo sono questi?», domanda Samuel,

sventolandogli le banconote sotto il naso.

«È un acconto iniziale dei soldi che ve devo», risponde

Bucatino, estremamente convinto delle sue ragioni.

«È un acconto… Bucati’, non mi sembra d’averti

chiesto un acconto!», fa Samuel, ora nuovamente dell’idea che

essere comprensivi non sia la miglior moneta con cui ottenere

rispetto dagli altri. «Con questi trecento euro mi ci pulisco il

culo, al massimo. Tu me ne devi mille e ottocento, di euro. Il

che significa che ho fatto stramaledettamente bene a dubitare di

te, perché tu sei un fottutissimo bastardo che non ha nemmeno

un briciolo di riconoscenza verso chi tenta d’aiutarlo!»

«Ma no, non dite così», ribatte Bucatino, al solo

pensiero che le parole appena ascoltate possano essere la

premessa di qualcosa di ben più atroce.

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E in effetti, estratta una pistola da sotto la giacca,

Samuel la punta verso Bucatino, facendolo letteralmente cagare

addosso dalla paura.

«Ah, non dovrei dire così? E che cazzo dovrei dire

allora? Sentiamo!»

Bucatino trema come una foglia di fronte alla canna

della pistola, tesa a pochi centimetri dalla sua testa. Piagnucola,

mentre congiunge le mani in una sorta di preghiera.

«Ve supplico, Soglia’! Ascoltateme!»

Samuel tiene saldamente la pistola. I lamenti di

Bucatino non lo scalfiscono neanche un po’. Comincio anch’io

ad avere paura per quello che sta avvenendo. E se qualcuno ci

avesse visto, se ci avesse anche solo sentito? Un altro al mio

posto se la sarebbe già data a gambe. Ma io no, sono un vero

coglione, non ce la faccio neppure a muovermi.

«E no, Bucatino! Ora m’hai veramente stufato.» Samuel

sembra davvero offeso. La sua fiducia è stata tradita nella

maniera più becera possibile. «Per me le parole hanno un certo

peso. E io ho creduto ciecamente alle tue. Ma cos’ho ottenuto

in cambio? Un bel cazzo su per il culo, a quanto pare.»

«Perdonateme!», fa Bucatino, con un’aria da derelitto.

La sua dignità è ormai pronta a essere calpestata da chiunque

desideri farlo. Per gente come lui, del resto, vivere una vita da

pecora piuttosto che morire in fretta da leone sembra una cosa

già scritta a caratteri cubitali nel proprio firmamento.

«Fateme una proroga», prosegue, con le lacrime agli

occhi, mentre un odore acre di pipì si sprigiona dai suoi

pantaloni. «Me basta ‘na settimana. Una settimana e ve ridò

tutto.»

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«Certo, come no!», fa Samuel. Dalla mia postazione

riesco ad ammirare la sua postura statuaria. L’arma che tiene in

pugno sembra una naturale protesi del suo arto superiore, un

tutt’uno col suo corpo marmoreo. «Una settimana ancora, è

vero? Come m’hai già promesso la settimana scorsa e quella

prima ancora. Te ne sei approfittato troppo, Bucati’. E ora non

sono più disposto a farmi fregare da uno sfigato come te.»

Mentre il pollice della mano destra toglie la sicura, la

mia mente sembra preannunciare la scena. Vedo Samuel, lo

spietato braccio destro della morte, sparare un colpo. E poi

Bucatino, sprofondato in una pozza di sangue, diventare il

pasto nudo di corvi e sciacalli.

«Ehi!», intervengo, tentando di far cambiare idea al mio

compagno. Le sue non sono più delle intimidazioni fini a se

stesse, ma le reali smanie di un assassino perverso. «Non

dobbiamo mica adottare una soluzione così drastica, no?»

«Tu non t’impicciare!», fa Samuel, non variando di un

solo millimetro la sua posa perfetta. «So io come ci si comporta

con dei fetenti come lui.»

«Se lo uccidi, chi ci ridarà i soldi?», insisto,

intenzionato a boicottare in ogni modo il suo piano.

La mia intuizione regala un barlume di speranza nel

volto sfiduciato di Bucatino. «Già, è vero!», esclama. «Voi

mica me potete uccide’ così.»

«Sta’ zitto!» L’espressione fiduciosa di Bucatino viene

immediatamente cancellata dal rimbrotto di Samuel. «Nessuno

t’ha dato il permesso di parlare. E comunque, se proprio lo

vuoi sapere, non ho nessuna intenzione d’ammazzarti», spiega,

101

riaccendendo una luce negli occhi del povero drogato. «Ti

sparo solo alle palle.»

«Cosa?», domandiamo sia io che Bucatino, in perfetta

sincronia, disgustati, allibiti, pietrificati (anche se, è naturale,

per motivi molto diversi) da questa sconcertante affermazione.

«Tanto a che ti servono?», chiede Samuel, rivolgendosi

al suo bersaglio. «L’hai detto tu che non scopi da una vita. Che

ti cambia se rimani senza?»

Una lacrima sgorga dagli occhi increduli di Bucatino.

«No, ve prego, non lo fate!»

Le sue preghiere lasciano totalmente indifferente

Samuel, che anzi sta covando un irrefrenabile desiderio di

violenza. L’amore cristiano, se mai è esistito in lui, ora ha

lasciato il posto a un inequivocabile sadismo. Mi fa paura il suo

sguardo, puntato assieme alla canna della pistola sui gioielli di

famiglia di Bucatino.

«Conto fino a tre e poi sparo.»

Sono in una di quelle situazioni a cui mai avrei

immaginato di assistere. Ritrovarmi davanti a un pazzo che

vuole imbottire di piombo lo scroto di un tossicodipendente,

zoofilo, necrofilo e chissà cos’altro: capirete da soli il mio

totale sbigottimento.

«Uno...»

Il volto paralizzato di Bucatino nasconde il terrore per

l’imminente atrocità a cui è destinato. La sua identità sarà ben

presto sconvolta da una pallottola che gli perforerà i testicoli,

causandogli una sterilità permanente.

«Due...»

102

Di fronte a quest’uomo si sta spalancando una porta che

lo condurrà verso sentieri inesplorati. Uno strano silenzio,

intanto, avvolge lo spazio che ci circonda. Non sento né urla né

pianti, solo un rantolo straziato, intrappolato in un odore che mi

ricorda qualcosa: merda.

«E tre!»

103

Capitolo XIII

In onda su un’emittente nazionale, uno di fianco all’altro sulla

propria poltrona rossa, con quelle pance da pettirosso da cui

spuntano delle ridicole zampette, uno stormo di giurassici

mentecatti ciangotta insensatamente di tematiche giovanili.

Almeno, questo è quello che credono loro. In realtà, è già un

miracolo riuscire a non perdere il filo del discorso. Parlano di

Internet, di bullismo, di stupri di massa, di stragi del sabato

sera, di alcol e di droghe, creando un guazzabuglio di interventi

a dir poco imbarazzante.

«Che merde!»

La serata, come una vecchia ramazza stanca, prosegue il

suo pesante incedere, trascinando con sé polveri di noia e

malessere allo stato puro. È quasi l’una di notte, oramai, qui a

Perugia. Ma un orario vale l’altro per chi, come me, ha quasi

terminato un grammo di fumo, due bottiglie di Syrah e un

pacco pieno di dolci fatti a mano. Me li ha dati la signora

Mariotti mentre rientravo a casa. Mi ha tenuto sulla porta per

quasi mezz’ora, raccontandomi di quel suo unico figlio che non

fa altro che darle preoccupazioni. Una pugnetta infinita,

credetemi. Almeno i dolci che mi ha regalato sono buoni, ma

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non a tal punto da cancellare il ricordo di quanto avvenuto al

povero Bucatino. Sento ancora il cuore che mi palpita dentro

come il motore di un catorcio in salita. Faccio fumo da tutte le

parti. Prima o poi salterò in aria, ci scommetto.

Per rimettermi in sesto, erba, dolci e vino, da soli, non

basteranno. Dormire, ecco cosa mi ci vorrebbe. Le ombre della

notte mi terrebbero alla larga dai miei mostri quotidiani,

saprebbero gettarmi una corda per tirarmi fuori da questo

inferno. Solo dormendo, supererei il trauma dei miei ultimi

mesi, cancellerei ogni lato del loro perimetro, ogni centimetro

quadrato della loro schifosissima area. Vorrei risvegliarmi

domattina e aver rimosso tutto quanto. Potrei raccomandarmi a

qualcuno, forse. Già, ma a chi? Vi prego, non parlatemi

dell’Onnipotente. Vedete, sono piuttosto scettico sulla sua

esistenza. Del resto, qualcuno di voi lo ha per caso visto dove

ci sono guerre, stragi, carestie, pestilenze? No, eh? Ma dai, che

strano!

Ok, è vero. Il male è ovunque e dilaga come un virus

pandemico. Ma la responsabilità non può essere soltanto la

nostra, no? Un bambino può sbagliare, ma un genitore non può

mica lasciarlo solo nell’errore. Così Dio con noi. Perché non so

cosa ne pensiate, ma a me sembra che siamo stati tutti

abbandonati al nostro destino.

E quindi… sì, insomma... se noi…

Oh, merda! Ho bevuto troppo vino. Oltre al fegato, ‘sta

roba mi fotterà anche il cervello, già lo so.

Sdraiato su un fianco sopra al letto, torno allora a far da

spettatore al biasimevole talk-show televisivo attualmente in

onda, intrappolato nei contorti labirinti elaborati dall’alcol e dal

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thc, inquieto e confuso come forse qualche migliaio di volte mi

è capitato di ritrovarmi in passato. Passa il tempo, ma certe

cose rimangono uguali. Sono io, in realtà, che non cambio mai.

Sempre qui a vivere le mie solite serate autodistruttive, con le

droghe o l’alcol a far la parte dell’arrosto e tutto il resto, poco

importa cosa, come contorno. Quasi sempre è la musica ad

accompagnare il tutto. Stavolta (come raramente accade, a dire

il vero) spetta alla televisione tenermi compagnia. Stretto tra i

seni dell’ozio, torno dunque a imprigionare lo sguardo

nell’asfissiante cornice del piccolo schermo.

Il conduttore del programma tiene la scena con

impeccabile maestria. Guida i marchingegni della trasmissione

meccanicamente, riducendo all’osso le improvvisazioni e la

spontaneità degli interventi. È accondiscendente e rassicurante

con ciascuno dei suoi ospiti. Schiva slogan elettorali,

nonostante gli piovano addosso da tutte le parti. Li elude,

evitando così di prendere qualunque posizione. È

indifferentemente conciliante con tutti e nel farlo risulta

abilissimo. Non comprendo appieno se il suo neutrale

atteggiamento sia davvero un modo per imporre obiettività e

correttezza deontologica al programma o piuttosto serva ad

accontentare tutti indistintamente, forse perché timoroso di

togliere i panni del presunto mediatore super partes e di

schierarsi seguendo soltanto la sua coscienza. Proprio non

capisco come un uomo possa non avvertire la necessità di

esprimere il proprio giudizio. È come se preferisse rimanere in

eterno su una mezzeria, anziché scegliere di attraversare una

delle due corsie. Così, per paura di essere investito, se ne sta

fermo, impotente e frigido su un’ipocrita striscia di mezzo.

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Uno che non sa scegliere, secondo me, non può ritenersi un

uomo libero.

«Tolleranza zero!», sbraita uno degli ospiti da dentro il

suo doppiopetto gessato.

«La storia ci insegna che tutte le politiche

proibizionistiche si sono rivelate delle armi a doppio taglio»,

ribatte un altro, sistemandosi gli occhiali da vista sul naso. I

due paiono riscuotere, in eque proporzioni, mugugni e applausi

da parte del pubblico in studio, comparse ubriache di retorica,

impegnate soltanto a pensare a come spendere al meglio il

compenso già pattuito prima della trasmissione.

«Razza di burattini!»

I soldi infettano ogni millimetro cubo della nostra vita.

È questo il male della società di oggi. Nessuno fa più le cose

per passione. Prendete gli ospiti di questo talk show. Nessuno

vuole affrontare la questione nella sua interezza. Ci girano

attorno, come furbi compassi a debita distanza dal punto

focale, pavidi a uscire dal cerchio da loro stessi calcato. Le loro

dichiarazioni non aggiungono nulla di nuovo alle altre migliaia

rilasciate in passato dai propri colleghi. Da anni si dicono

sempre le stesse cose, ci si pongono sempre le solite, inutili

domande. Il fatto è che nessuno vuole puntare il dito laddove

invece andrebbe fatto. Non si fa chiarezza, perché nessuno ha

veramente intenzione di farla. Esiste infatti una losca e

spropositata faccenda di interessi che dovremmo conoscere, ma

che nessuno ci racconta o che in alcuni casi non abbiamo

nemmeno voglia di stare a sentire. La verità è come la nicotina

dentro una sigaretta: ci arriva, ma attraverso un filtro. Troppe

sono le verità che nessuno avrebbe mai il buon senso di lasciar

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trapelare. Del resto, il popolo è succube delle menzogne dei

potenti, assuefatto a una droga ben più pericolosa: la

televisione.

Smettiamola allora di porci ripetutamente la domanda

sbagliata. Non è importante chiederci se il Paese può avere

un’opinione pubblica colta e addestrata. Ciò su cui dobbiamo

interrogarci è se i nostri governanti vogliono davvero

un’opinione pubblica informata. Perché, diciamo come stanno

veramente le cose: persino in un regime democratico come

apparentemente lo è il nostro, non c’è alcun interesse affinché

tutti condividano le stesse, corrette informazioni. La libertà

costituisce il principale accesso alla conoscenza. E nessuno (né

lo Stato, né le lobby, né le multinazionali, né i criminali) vuole

vederci liberi. Per questo ci hanno narcotizzato attraverso il più

efficace mezzo a disposizione dei potenti: la televisione,

appunto, il più diabolico strumento mai realizzato.

Porca troia, Lou! Ora stai svalvolando sul serio. Lascia

perdere quel vino e vattene immediatamente a letto.

E invece no, resisto. Voglio vedere fino a che punto

posso arrivare. Stasera voglio toccare il fondo.

Verso quello che rimane dello Syrah nel bicchiere e lo

butto giù tutto d’un sorso, prima di tornare a fissare il monitor

come un vero rincoglionito, cercando di non pensare troppo a

domani e a tutto quello che verrà.

“Dio provvede!”, diceva sempre mia madre, ancora me

lo ricordo. Secondo lei, la fede è sempre stata la soluzione a

tutto. In fin dei conti, si vive proprio così, a pezzetti,

incastrando tra loro i minuti, le ore, i giorni. La vita è tutto un

incastro di momenti, bisogna accettarlo. È solo che gran parte

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dei momenti che ho vissuto io sono impregnati di così tanto

odio e rancore che non potete nemmeno immaginare. Era

facilmente prevedibile che finissi così: sprofondato nel caos più

totale.

È da un bel pezzo che mi va tutto storto. E la rabbia

infuria. Tanta, troppa rabbia dentro di me. Ho perso la rotta, sto

andando alla deriva. Navigo con un carico di rabbia verso non

so dove. Una cosa orribile. A volte ho un paio di giorni di

buonumore. Potrei continuare così anche dopo. E invece no. Mi

sento sempre più arrabbiato. E così do di matto.

Intanto, omertoso nella sua finzione, imbalsamato nella

sua mimica sempre uguale e compassata, il conduttore

televisivo sta proseguendo imperterrito il suo ammiccamento

nei confronti degli ospiti con perfetta eleganza e straordinario

automatismo. Non traspare alcunché dal suo volto, una

maschera di lattice creata in qualche sala operatoria e

perfezionata di volta in volta in camerino. Le navigate

espressioni da star del piccolo schermo e le smaglianti pose da

copertina risulteranno assai utili ad accrescere il proprio

divismo mediatico. Verrebbe del tutto naturale dilettarsi a

edificare degli insulti colossali nei suoi riguardi e in quelli

degli altri partecipanti alla trasmissione. Ma sinceramente mi

son rotto di tutta questa farsa.

Afferrato il telecomando, comincio uno zapping

nevrotico, tra colluttazioni visive e coliche intestinali, nella

flebile speranza di rinvenire qualcosa di minimamente

interessante, ormai in corsa sulla desolata strada che conduce al

vuoto cosmico. Repliche di programmi diurni, vecchi telefilm,

televendite di tappeti, sport acquatici, linee hot a pagamento,

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backstage di chissà quale spettacolo teatrale, sceneggiate

napoletane. D’improvviso, senza nemmeno accorgermene,

metto fine a questa mostra delle atrocità, restituendo così alla

stanza il dignitoso silenzio che merita.

Spenta la televisione, riscopro finalmente quello stato

neutro delle cose dove tutto sembra diverso, ora che

l’incantesimo della piazza è di colpo spezzato e la mente si è

liberata da tutta quell’irrilevante massa di simboli che

incessantemente ci sopraffanno e ci confondono, che ci

impediscono di filtrare quel misero rigagnolo di percezioni

realmente considerevoli.

Sono alla frutta. Senza una famiglia, senza amici, senza

lavoro, senza una donna, senza un cazzo di niente da fare.

Solo.

Non mi rimane altro che morire.

Sarebbe come cadere in un sonno alcolico.

Sarebbe meraviglioso.

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Indice

Prologo…………………………………………………... 7

Capitolo I………………………………………………... 8

Capitolo II……………………………………………….. 15

Capitolo III………………………………………………. 20

Capitolo IV……………………………………………… 25

Capitolo V………………………………………………. 37

Capitolo VI……………………………………………… 46

Capitolo VII……………………………………………... 53

Capitolo VIII……………………………………………. 60

Capitolo IX……………………………………………… 69

Capitolo X………………………………………………. 76

Capitolo XI……………………………………………… 87

Capitolo XII……………………………………………... 96

Capitolo XIII……………………………………………. 103

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