settembre 2012 a colori:layout ludla - dialettoromagnolo.it · hemingway, kafka, poi ungaretti,...

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la Ludla 1 “Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVI • Settembre 2012 • n. 7 SOMMARIO Cristina Ghirardini - Noi siam le canterine antifasciste di Maria Tampieri Davide Pioggia - Fonologia del Santarcangiolese di Giuseppe Bellosi Garbòin di Nevio Semprini Illustrazione di Giuliano Giuliani La mitologia femminile della Romagna - I di Silvia Togni Parole in controluce Rubrica di Addis Sante Meleti Un pô ad stôria dla Spanucêda dla Schürr di Sauro Mambelli I scriv a la Ludla Stal puiðì agli à vent... Franco Sandoli - Film di Paolo Borghi p. 4 p. 6 p. 8 p. 10 p. 11 p. 12 p. 13 p. 14 p. 16 Ora non sei più ed io ho il cuore colmo di dolore pur se lo spirto risplende dell’immensa luce che mi hai lasciato. La luce del tuo affetto, la luce della tua amicizia è soprattutto la luce che, sprigionata dal tuo dialetto con le sue umili parole contadine, ha illuminato il mondo. La poesia è la luce del pensiero, è il fremito lieve delle ali misteriose della mente. Quella luce sarà con me per sempre e tu sei quella luce. Per que- sto io ti scrivo nel tentativo di onorarti dei nostri ricordi comuni. Erano tempi duri, da poco era passata la guerra. Io diciottenne e tu già uomo. Un’atmosfera di grande ottimismo riempiva i cuori e la mente di tutti, come la certezza che il mondo si sarebbe rinnovato e finalmente ci sarebbero stati lunghi anni di benessere e di felicità. C’era aria di grandi miglioramenti e splendidi orizzonti si aprivano davanti a quella superstite esaltata umanità. «...In questo clima di grande euforia (come ebbi modo di scrivere in un lontano “Ricordo di Nino Pedretti”) attorno a te, appena tornato dai campi di concentramento tedeschi, arricchito da quella travagliata esperienza che di lì a poco sarebbe sfociata ne I scarabócc (è in Germa- nia infatti, come spesso tenevi a precisare, che nascono le prime poe- sie in dialetto che, reci- tate a memoria ai com- pagni di prigionia, romagnoli come te, avevano il pregio di mitigare l’acuto punge- re della nostalgia e delle sofferenze), attor- no a te appunto, anda- va formandosi, come per aggregazione spon- tanea, un gruppo com- posto di giovani, singo- larissimo e inedito, almeno per Santarcan- gelo. Continua a pag. 2 Lettera a Tonino di Gianni Fucci Settembre 2012

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la Ludla 1

“Poca favilla gran fiamma seconda”Dante, Par. I, 34

la Ludla(la Favilla)

Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo

Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001

Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna

Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XVI • Settembre 2012 • n. 7

SOMMARIO

Cristina Ghirardini - Noi siam lecanterine antifascistedi Maria Tampieri

Davide Pioggia - Fonologia delSantarcangiolesedi Giuseppe Bellosi

Garbòindi Nevio SempriniIllustrazione di Giuliano Giuliani

La mitologia femminile dellaRomagna - Idi Silvia Togni

Parole in controluceRubrica di Addis Sante Meleti

Un pô ad stôria dla Spanucêda dlaSchürrdi Sauro Mambelli

I scriv a la Ludla

Stal puiðì agli à vent...

Franco Sandoli - Filmdi Paolo Borghi

p. 4

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Ora non sei più ed io ho il cuore colmo di dolore pur se lo spirtorisplende dell’immensa luce che mi hai lasciato. La luce del tuo affetto,la luce della tua amicizia è soprattutto la luce che, sprigionata dal tuodialetto con le sue umili parole contadine, ha illuminato il mondo. Lapoesia è la luce del pensiero, è il fremito lieve delle ali misteriose dellamente. Quella luce sarà con me per sempre e tu sei quella luce. Per que-sto io ti scrivo nel tentativo di onorarti dei nostri ricordi comuni.Erano tempi duri, da poco era passata la guerra. Io diciottenne e tugià uomo. Un’atmosfera di grande ottimismo riempiva i cuori e lamente di tutti, come la certezza che il mondo si sarebbe rinnovato efinalmente ci sarebbero stati lunghi anni di benessere e di felicità.C’era aria di grandi miglioramenti e splendidi orizzonti si aprivanodavanti a quella superstite esaltata umanità.«...In questo clima di grande euforia (come ebbi modo di scrivere inun lontano “Ricordo di Nino Pedretti”) attorno a te, appena tornato daicampi di concentramento tedeschi, arricchito da quella travagliataesperienza che di lì a poco sarebbe sfociata ne I scarabócc (è in Germa-nia infatti, come spesso tenevi a precisare, che nascono le prime poe-

sie in dialetto che, reci-tate a memoria ai com-pagni di prigionia,romagnoli come te,avevano il pregio dimitigare l’acuto punge-re della nostalgia edelle sofferenze), attor-no a te appunto, anda-va formandosi, comeper aggregazione spon-tanea, un gruppo com-posto di giovani, singo-larissimo e inedito,almeno per Santarcan-gelo.

Continua a pag. 2

Lettera a Toninodi Gianni Fucci

Settembre 2012

la Ludla2

Segue dalla primaQuesto gruppo che, rumoroso, bat-tagliero e spregiudicato, turbò nonpoco il tranquillo ritmo di vita deiconcittadini, aveva fissato la propriasede, chiamata pomposamente“Comune”, proprio nella casa diNino Pedretti. Ne facevano parte, oltre a te, veroDeus ex machina, Nino Pedretti, Fla-vio Nicolini, Raffaello Baldini,Rina Macrelli, il sottoscritto, LucioBernardi, Giulio Turci, FedericoMoroni, nonché, giunti in queigiorni da Roma su un tuo invito, “Itre del Portonaccio” e cioè i pittoriRenzo Vespignani, Marcello Mucci-ni e Graziella Urbinati. E proprioloro, usando semplici colori a calce,affrescarono alcune pareti della“Comune”. Renzo dipingendo, inun viale solitario, scandito da con-torti lampioni in stile liberty, infondo al quale campeggiava uncasermone squallido tra il verdemuffito di prati desolati, un ominopallido che si allonta, come oppres-so da una angosciosa solitudine. EMuccini a rincarare la dose, con icolori cupi e fuligginosi di un suoCristo in croce.Eppure ricordo con tenerezza quellastanza, con l’ottomana malandata, ipochi mobili d’accatto, le sedie spa-gliate dove, fra inutili cianfrusaglie,spiccava un efficientissimo grammo-fono. Era lì, che magari fino alle orepiccole, si stava ad ascoltare dischidi musica jazz, entusiasmati dallatromba solare di Louis Armstrong edalla sua incredibile voce cartavetra-ta, dallo swing arabescato del clari-netto di Benny Goodmann, dal tor-bido notturno languore dei“moods” di Duke Ellington.E si leggevano e discutevano librifino allora introvabili o rari o proi-biti: Moravia, Faulkner, Fitzgerald,Hemingway, Kafka, poi Ungaretti,Montale, Quasimodo, Eliot, Maja-kovskij, Eluard, Rimbaud, Mallar-mé, Baudelaire, Garcìa Lorca...“Lorca è stato il Che Guevara deinostri vent’anni”, dirà la RinaMacrelli nella prefazione al mio Lamorta e e’ cazadòur. E fu NinoPedretti a parlarmi per primo diGarcìa Lorca. “Il poeta della tragica

allegria”, degli “amuleti della fanta-sia”, come amava definirlo.Più avanti, abbandonata la “Comu-ne” e luogo dei nostri raduni diven-ne il “Caffè Trieste”, gestito da“Fredo” e la “Melia”, i genitori diLello Baldini, ogni tanto arrivava inbicicletta da Longiano Tito Bale-stra, gravido di quella sua endemicapigrizia, che tuttavia non gli impedi-va di affrontare quel tragitto e nep-pure la corrosiva sortita delle suebattute. Da Cesena, venivano spes-so i pittori Giovanni Cappelli,Luciano Caldari e Alberto Sughi.Da Viserba, anche se più raramente,il poeta Elio Pagliarani».Ricordi Tonino, quei nostri giornifelici? Quando in petto ci fiorivanoi sogni e la vita sembrava una festadel cuore? Il portico ombroso del“nostro” Trieste, riecheggiava di gio-vani voci (le nostre), impegnate in

accanite tenzoni: ogni argomentoera buono per sciorinare i saperi diognuno: cinema, teatro, pittura,poesia. Momenti seriosi nei quali ilnostro entusiasmo toccava vertici dipura follia. Credevamo che il libroavesse il potere di reggere il mondo(oggi ho enormi dubbi al riguardo).Ma certo qualcosa di molto impor-tante accadeva in noi stessi, ed erala consapevolezza che un libro oun’opera d’arte aiutano a crescere, acapire le cose. Mi tremano ancoranel cuore i tragici e abbaglianti versidel “mio”, amatissimo Lorca:“[...]Tardarà mucho tiempo en nacer, sies que nace, / un andaluz tal claro, tanrico de aventura. / Yo canto su elegan-cia con palabras que gimen / y recuerdouna brisa triste por los olivos.” (“Tarde-rà molto tempo a nascere, se nasce,/ un andaluso così illustre, cosìricco d’avventura. / Io canto la sua

Settembre 2012

Rimini, agosto 1998. Tonino Guerra e Gianni Fucci alla manifestazione “Poeti e poesiesulla spiaggia”. Nella pagina a fianco ed in prima, due istantanee di Tonino Guerra nellaRoma degli anni Sessanta.

la Ludla 3Settembre 2012

eleganza con parole che gemono / e ricordo una brezzatriste nell’oliveto.”). Era la gioia ineffabile di una sco-perta, nel canto di una voce purissima, che da quel gior-no, sempre mi accompagna. E c’era in quel nostro orgo-glioso impulso che muove le menti, come il senso d’unmagico andare in un tempo infinito, fatto però di pic-cole cose alla mano, come il fantastico orologio che ilfavoloso contadino Talàcia, aveva costruito appeso allatrave della stalla, là, in S. Martino in Riparotta, utiliz-zando vecchie ruote di legno e di latta, catene di bici-clette, ingranaggi bislacchi. Perfetto nel suo inesorabileandare segnava i giri del sole e della luna, i minuti, leore, i giorni, le settimane, i mesi, gli anni... (una “enci-clopedia del tempo” come qualcuno lo definì), trasmet-tendo sentimenti e immagini vibranti, quasi fosse unmisterioso strumento musicale. O come i nostri giochifatti di innocue sfide al “calciobalilla” o al ping-pong. Ocome le piccanti partite di carte a ciapanò, che culmina-vano spesso con salaci sfottò verso il perdente.Ma il tempo scandito in quell’orologio trapassa nelmito e lascia nel cuore il senso di un atto che ha del-l’Eterno.Dove sono ora quei giovani ardenti del “Caffè Trieste”,passati alla storia, a detta di qualche burlone d’allora,come quéi de “Circàl de Giudêizi”? Dov’è Nino coi suoimotti taglienti che dolce guardava il suo piccolo mondodalla Chêsa de témp? E Rigo con quelle donnone allaspiaggia, ubriache di sole e quegli inquietanti orologi inrovina che beffano il tempo? E Lello che col suo Cutdiventa sciamano e si occulta per sempre assieme ai suoi“matti”? L’è pòrbia ad fasùl! Ironico afferma egli stesso inuno dei suoi testi immortali. È quel mondo, dov’è la“Fossa” luccicante di sole dove noi accendevamo accani-te battaglie di fuscelli. Ci sono i mulini, il vecchio lava-toio con La Mócca, al Capèli, la Patêta, la Vasèli, LaNécci che lavavano i panni “scavcèdi cmè di / dièval /[...]/ al s’aragnèva / e pu al cantéva insén / e l’éra di róggd’amòur / cumè dal gati” (spettinate come / diavoli / [...]/ litigavano / poi cantavano assieme / ed erano urlid’amore / come di gatte”). Così le canta Nino nellosplendido volume “Al vòusi”. C’è Pidio coi suoi parago-ni. E le bianche strade abbagliate, i lenti carri di buoi,la cui agonia così canti: “Andè a di acsè mi bu ch’i vagavéa, / che quèl chi à fat i à fat, / che adèss u s’èra prèima setratour. // E’ pianz e’ cór ma tótt, ènca mu mè, / avdài ch’ià lavurè dal mièri d’an / e adèss i à d’andè véa a tèsta basa/ dri ma la córda lònga de mazèl.” ( Andate a dire ai buoiche vadano via / che quello che hanno fatto hannofatto / perchè adesso si ara prima col trattore. // Pian-ge il cuore a tutti, anche a me, / vedere che hanno lavo-rato delle migliaia d’anni / e adesso devono andar via atesta bassa / dietro la corda lunga del macello).Sovente mi torna alla mente quel tempo lontano. Eancora m’intrigano quei giorni eroici che segnavanol’inizio di una fine. Di lì a poco il mondo sarebbe cam-biato e alla preziosa Lettera 22 di olivettiana memoria,sarebbe subentrato il Computer.Ma di quei nostri giorni selvaggi, di quella lontana

infanzia in Santarcangelo, il miserrimo borgo romito diun’agreste Romagna, resterà per sempre una cupola diemozioni, di impulsi animaleschi e sublimi, brulichìodel sangue dai mille occhi dolenti, mito di povera genteabbarbicata disperatamente alla vita in uno straordina-rio sodalizio di miseria e allegria. Il tuo sempiternoregno di vecchio Ulisse di campagna, che così canta:“Un raz ad sòul e’ bat da una fiséura / tal bucalètti soura e’cantarèn, / mo l’òman gras ch’l’à i fónd a Muntalbèn / l’àslòngh un braz e u l’à ciutè s’un dàid.” (Un raggio di solebatte da una fessura / sulle caraffe sopra il canterano /ma l’uomo grasso che ha i fondi a Montalbano / haallungato un braccio e l’ha chiuso con un dito). E anco-ra: “Andèmma t’un cafè dla póra zénta / in dò ch’i zènd i fur-minènt te méur / a fè dò ciàcri sòura un cafelàt, / a déich’l’è chèld, ch’l’è bón, che fa par néun. // Gémma ch’a s sémvést la préima vólta in tranv / o t’un cantòun dl’America deSud, / che la tu gata mórta tònda e’ còl / sl’udòur ad péss depóri Cantarèl, / l’éra una vòulpa nira da cuntèssa. // Sòttadi lómm ch’l’è melarènzi ròssi / lòt lòt, lòt lòt cmè bés-ci damazèl, / andémma a fè dò ciàcri t’un purtòun / e gémmach’a s vlém bén, ch’l’è bèl, ch’l’è tótt.” (Andiamo in un caffèdella povera gente / dove accendono i fiammiferi sulmuro / a far due chiacchiere sopra un caffelatte, a dirche è caldo, che è buono, che fa per noi. // Diciamoche ci siamo visti la prima volta in tram / o in un ango-lo dell’America del Sud, / che la tua gatta morta attor-no al collo / con l’odore di piscio del povero Cantarèl/ era una volpe nera da contessa. // Sotto lampadineche sono arance rosse / pian piano, pian piano, comebestie da macello / andiamo a far due chiacchiere sottoun portone / e diciamo che ci vogliamo bene, che èbello, che è tutto.)Ciao, grande vecchio amico, un abbraccio dal tuo

Gianni

la Ludla4 Settembre 2012

Si direbbe che negli ultimi tempi si siariaccesa l’attenzione verso i cori dimondine. Pochi giorni fa, al Concer-tone della Notte della Taranta di Mel-pignano, sono salite sul palco, domi-nato da un compiaciuto Goran Brego-vic, anche le mondine di Novi diModena; a metà luglio a Russi, a Palaz-zo San Giacomo, nell’ambito diRavenna Festival, quelle di Medicinahanno fatto un breve intervento nelconcerto Vola vola vola di De Gregorie Sparagna. Ultimamente le mondinesembrerebbero corteggiate dai palco-scenici ambiziosi che propongono arti-sti di varia provenienza, nel segno diun parolone, l’interculturalità, che ingenere nel caso migliore è ridotto agarbate, amichevoli e veloci collabora-zioni tra “artisti”, nel peggiore ciascu-no dei partecipanti è costretto a fareda piccolo tassello per un mosaico cheriduce tutti al minimo comun deno-minatore dell’esibizione per un pub-blico il più possibile vasto e trascinato,nel segno dell’eliminazione delle diffe-renze, o comunque della loro voluta-mente, perlomeno momentanea, elu-sione.Gli stessi palcoscenici difficilmentededicherebbero una serata solo allemondine di Medicina, o una serie dispettacoli solo a quegli ottimi musici-sti e cantori ai quali vengono affidateparti del tutto secondarie, o magarinon salgono neppure, sul palco dellaNotte della Taranta. Quando la loro“diversità” viene messa interamente anudo e il loro fare spettacolo è espres-sione di un fare musica singolarissi-mo, non sempre trascinante come iconcertoni di cui sopra, allora cambiail tipo di attenzione nei loro confron-ti. E invece sarebbe molto più sanoascoltare questi musicisti non comesimboli identitari messi insieme alloscopo di proporre un bel mosaico(per usare un termine legato a Raven-na) il più possibile vario all’insegnadell’interculturalità di evasione (quel-la per cui i musicisti rom che suonanosul palco della Notte della Tarantasono degni di ammirazione perché cipaiono “inciviliti”, mentre quelli deicampi nomadi delle nostre città sonoconsiderati a prescindere ladri e truf-fatori) e del passaggio del testimonetra generazioni, ma come portatori di

una cultura musicale, di un’emotivitàad essa legata e di una serie di valori edi una coscienza sociale che potrebbe-ro anche non essere quelli a cui noioggi aderiamo, ma che vanno rispetta-ti e capiti. Per fortuna esistono gli editori comeNota di Udine, che questa diversità larispettano e si prodigano a pubblicarelibri e cd che raccontano storie partico-lari, esprimono punti di vista a cui lemasse non accedono, che richiedonoun approccio riflessivo e fanno ascolta-re voci e suoni che dovrebbero essereoggetto di attenzione profonda, nonaffrettata e non ad uso consolatorioper chi è in cerca di stimoli identitari.Fa parte di questi “cd book”, come lichiama lo stesso editore, Noi siam lecanterine antifasciste, l’ultimo libro dellanostra neopresidente, nato in seno alCentro per il dialetto romagnolo dellaFondazione Casa di Oriani. Il volumeparla di un coro che non esiste più,quello delle mondine di Lavezzola, di

cui però sono rimaste le registrazioni eperlomeno qualcuno, come Ilva Calde-roni, una delle fondatrici, che ne puòraccontare l’esperienza.Il libro è suddiviso in due parti: unasulla storia del coro e l’altra sui cantidei due lp che le mondine hanno inci-so negli anni Settanta, entrambi inti-tolati Unità e lotta. Lotta e unità. La sto-ria del coro è stata ricostruita tramite iricordi, i documenti e le fotografieconservati da Ilva Calderoni, che eraanche una delle voci soliste del coro.Le parole di Ilva ricorrono spesso,soprattutto nel racconto dei numerosiviaggi che le mondine ebbero modo difare in quella che allora era l’UnioneSovietica, a Berlino e nella ex Jugosla-via, grazie agli stretti rapporti con laCGIL e con il Partito Comunista.Ricorrono anche nell’evocazione delleoccasioni più memorabili in cui ilcoro ebbe modo di cantare, certamen-te durante i viaggi, ma anche nellenumerose feste dell’Unità nella zonadi Parma e Reggio Emilia a cui le mon-dine erano frequentemente invitate.Fondato nel 1968, in occasione di unanniversario della Federbraccianti, ilcoro infatti era strettamente legato almondo bracciantile di Lavezzola, maanche alla sinistra politica e sindacaleravennate, in particolare per il tramitedi Maria Bassi, che aveva sollecitato lasua creazione e che, pur non facendoparte del coro, amava cantare con lemondine, come si deduce anche dallafoto di copertina del cd book. La sto-ria del coro inoltre viene messa in rela-zione con altre esperienze forse nontanto note ma importanti: l’interessedi Ernesto De Martino per il cantobracciantile in Romagna intorno al

Cristina Ghirardini

Noi siam le canterine antifasciste

di Maria Tampieri

la Ludla 5Settembre 2012

1951-1952 e le istanze che determina-rono la nascita di altri cori di mondi-ne nel territorio confinante tra Emiliae Romagna. Questi, è noto, in Emilia-Romagna nascono verso gli anni Set-tanta, dopo anni in cui le risaie eranostate chiuse e quindi sono strettamen-te legati a un recupero dell’immagina-rio delle mondariso, complesso e stra-tificato, di cui il libro cerca di indaga-re perlomeno alcune componenti. La seconda parte comprende una seriedi considerazioni sulle modalità esecu-tive dei canti e degli stornelli e in par-ticolare sulla modalità di canto a dueparti parallele detto tron. Seguono letrascrizioni testuali e musicali deicanti compresi nel cd allegato al libro. Per par condicio all’interno della Schürr(l’autrice comunque non se ne dimen-tica) è importante ricordare che un cdcontenente i canti registrati dalle mon-dine di Lavezzola negli anni ‘70 è giàuscito da qualche anno, ed è tuttoradisponibile, nel catalogo della StringsRecord di Forlì. L’ascoltatore attentopotrà però rendersi conto che il cdallegato a questo libro non contieneesattamente le stesse esecuzioni deldisco uscito per la Strings Record: inentrambi i casi è stato possibile ridur-re in un solo cd il contenuto di due lp

perché si sono eliminate le esecuzioni“doppie” di quattro canzoni che lemondine hanno proposto in entrambii dischi (Son la mondina son la sfruttata,Allo spuntar dell’alba, La strê dla Valona,Mamma mia dammi cento lire), cioè nonsono state ripubblicate le esecuzioni dientrambi i dischi di queste canzoni,ma ne è stata scelta una sola. Tuttavianel libro Noi siam le canterine antifasci-ste si sono privilegiate le esecuzionitratte dal primo dei due dischi, pro-dotto dalla Federbraccianti in occasio-ne del trentennale della Camera delLavoro di Ravenna, mentre nel cddella Strings Record si trovano le ese-cuzioni del secondo disco, uscito alcu-ni anni dopo. Invito quindi i lettoriche vogliano acquistare il libro a pro-curarsi anche il cd prodotto dallaStrings Record, per avere così il qua-dro completo e anche per tenerememoria di due operazioni diversesulle stesse registrazioni.La parte sul repertorio del libro Noisiam le canterine antifasciste è assaidocumentata, ma è forse quella piùbibliografica, che risente maggiormen-te del fatto che il coro non esiste più epertanto è impossibile approfondirecon le protagoniste il ragionamentosulle modalità esecutive e sul valore

extramusicale che inevitabilmente lemondine attribuivano a quei canti,tuttavia qualcosa emerge comunquedalle testimonianze di Ilva Calderoni.Del resto il Centro per il dialettoromagnolo di Casa Foschi lavora suregistrazioni che potremmo quasi defi-nire “storiche”, lavora su archivi ed èauspicabile che questo sia il primo diuna serie di lavori che servano a ripro-porre, arricchite da considerazioni sulcontesto, registrazioni oggi non facil-mente reperibili. A cominciare, maga-ri, da quelle delle mondine di Lavezzo-la che l’autrice menziona e che si tro-vano al Centro etnografico di Ferrarae all’Istituto Ernesto de Martino diSesto Fiorentino.Il libro, infine (come anche il lavoroche consente di aggiornare continua-mente la banca dati di Casa Foschidisponibile sul web www.casafoschi.it),rivela un’impronta leydiana per loscavo condotto nel singolo contesto eper l’approccio storico al coro di Lavez-zola. Gli archivi tuttavia si prestano atanti tipi di indagine e sarebbe ora chela Romagna cominciasse ad essereoggetto di contributi di taglio scientifi-co sul modo in cui ha conservato operduto la coscienza del proprio patri-monio musicale tradizionale.

E la strêda dla Valõna l’è ‘na strêda polveróða par chi zùvan ch’i va mbrósanon stan fermi con le man.

Non stan fermi con le mani e nemeno coi genochimamma mia apre gli ochiche tu fiôla la va a dãn.

Mamma mia dammi un francoda cumprêm un fazzoletto e la cipria e il belletto l’è l’inganno dell’amor.

L’è l’inganno dell’amore l’è l’inganno degli amanti ne ho ingannati tanti e tanti e t’ingannerò anche te.

E la strêda dla Valõna

la Ludla6

«Qualcosa di barbarico e irsuta-mente inedito» trovava GianfrancoContini nel dialetto santarcangio-lese delle poesie di Tonino Guerra,inedito perché mai prima di Guerraquel dialetto era stato utilizzato inpoesia, e anche perché era privo diuna significativa tradizione scritta:infatti sono un caso isolato i pochibrani santarcan giolesi trascritti daAlfredo Sancisi (con l’aiuto diAugusto Campana) nel librettodialetto nella scuola del 1926. È nel1946 che questo dialetto perifericodiventa centra le nella storia dellapoesia romagnola, con la prima rac-colta di Guerra, I scarabócc, cuiseguiranno La s-ciuptèda (1950),Lunario (1954), I bu (1972) e altreraccolte.All’interno di quel fenomeno unicoche è la poesia romagnola nelpanorama letterario del secondoNovecento, gli autori santarcangiole-si costituiscono a loro volta un casoparticolare per numero e qualità:Nino Pedretti, Raffaello Baldini,Giuliana Rocchi, Gianni Fucci, finoalla giovane Annalisa Teodorani. Etutti questi poeti hanno dovuto farei conti con la scrittura del dialetto. Ildialetto è una lingua essenzialmenteorale, una lingua della voce e nondel segno, tant’è che risultanoinadeguati i tentativi di dare aldialetto una veste grafica corrispon-dente alla mate ria sonora di cui ècomposto: sono infatti approssima-tive e imperfette le grafie utilizzateper fissare sulla pagina scritta suoniche sfuggono alle classificazioni e aicriteri usati per l’italiano: si pensialle vocali nasali dei dialetti raven-nati e forlivesi, ai dittonghi, a tuttele sfumature vocaliche degli innu-merevoli dialetti romagnoli, cosìdiverse dai semplici suoni delle settevocali del toscano e dell’italiano.Inoltre, mentre per i dialetti dellapianura ravennate e forlivese si è for-mata nel corso dei decenni, a comin-ciare dal 1840 con il Vocabolarioromagnolo-italiano di Antonio Morri,una grafia sufficientemente adegua-ta, il dialetto santarcangiolese eraprivo, come si è detto, di una

tradizione scritta. Così gli autorisantarcangiolesi hanno dovutoinventarsi un sistema di scrittura ehanno preferito in maggioranza unagra fia semplificata; solo GianniFucci ha elaborato un sistema grafi-co che identifica tutti i fonemi deldialetto santarcangiolese. C’è poianche chi nel corso degli anni hamodificato il proprio modo di scri-vere, come Tonino Guerra, cheprima scrive muréi («morire»), poimuròi, ovviamente senza che cambila pronuncia.A dire il vero, un sistema ditrascrizione utilizzabile per tutti idialetti ci sarebbe: è l’alfabeto foneti-co ideato dai dialettologi, ma è unsistema che solo gli specialisti sonoin grado di leggere correntemente. Èdi questo alfabeto che si è servito ilmassimo studioso dei dialetti roma-gnoli, il linguista austriaco FriedrichSchürr, che nell’estate 1914 venne inRomagna con un apparecchio gram-mofonico per la registrazione forni-togli dall’Accademia delle Scienze diVienna, con l’intento di fissare sudischi la pronuncia dei più significa-tivi dialetti romagnoli. Era stato un maestro della linguisti-ca romanza, Wilhelm Meyer-Lübke,all’Università di Vienna, a intro-durre Schürr allo studio delle par-late romagnole, assegnandogli cometesi di laurea l’analisi fonetica delPulon matt, un anonimo poemetto indialetto di area cesenate compostoprobabilmente nella prima metà delXVII secolo. Lo scoppio della

Grande Guerra interruppe il lavorodi registrazione il 4 agosto 1914.Altre registrazioni furono effettuatesolo alcuni anni più tardi (1918,1924, 1937).La trascrizione fonetica delle regi-strazioni eseguite nel 1914 furonopubblicate nel 1917 nel volumeRomagnolische Mundarten (Dialettiromagnoli) e servirono a Schürr perstudiare la fonetica dei dialetti viven-ti (Romagnolische Dialektstudien, II,Lautlehre lebender Mundarten, 1919).E tra i dialetti allora registrati figuraanche quello di Santarcangelo: l’in-formatore era il ventunenne DarioCasali, ragioniere.È ormai passato un secolo e l’ingom-brante fonografo utilizzato daSchürr nel frattempo si è evoluto inun minuscolo registratore digitale ingrado di fissare le minime sfumaturedi pronuncia con assoluta fedeltà. Ècon questo registratore che DavidePioggia ha effettuato la propria do-cumentazione, intervistando nonun solo testimone, come aveva fattoSchürr, ma numerosi parlanti. EPioggia non è un linguista venuto dalontano a osservare un dialetto perlui esotico, ma è un linguista “achilometro zero”: pur non essendooriginario di Santarcangelo, viveormai da anni in questa città. Equesto suo vivere nel dialetto santar-cangiolese fa sì che sia stato in gradodi individuare non solo la strutturafonologica generale della parlata, maanche particolarità che possono esseresfuggite a un osservatore esterno

Settembre 2012

Davide Pioggia

Fonologia del Santarcangiolese

di Giuseppe Bellosi

la Ludla 7

come Schürr, che aveva a disposizione un tempo limita-to e un solo testimone.Il risultato di questo lungo lavoro di documentazione eanalisi è l’esaustività della descrizione, che ha anchemesso in luce, tra l’altro, il fatto che il santarcan giolesenon è un’entità monolotica, ma presenta varianti di pro-nuncia, che distin guono la parlata di Santarcangelobassa da quella delle Contrade, dove, ad esempio, neldittongo òu (sòul «sole») la parte accentata può avanzarefino a un’articolazione centrale: åu (såul).Nella prima parte del libro Pioggia identifica la strutturafonologica del dialetto, caratterizzata da un vocalismotonico complesso: oltre ad à, ì ed ù esistono quattro e equattro o (aperta lunga, chiusa lunga, aperta breve,chiusa breve), il dittongo ê (il cui primo suono è una oevanescente e il secondo una e aperta, secondo Fucci,che ha introdotto il segno) e altri suoni composti: ẹu, äi,åu, ẹi. La seconda parte è dedicata alla fonologia storica,cioè all’illustrazione dettagliata del passaggio dal latinovolgare al dialetto.Pioggia si è anche confrontato con l’analisi del santar-cangiolese effettuata da Schürr e ha evidenziato la diffi-coltà del linguista austriaco a individuare e a trascri verealcune vocali. Del resto lo stesso Schürr si era subito resoconto dalla difficoltà a cui andava incontro; osservavainfatti: «Era soprattutto la ricchezza delle vocali tonicheche si opponeva a una notazione esatta», tanto che unaparola, se ripetuta dal medesimo informatore, a voltenon veniva pronunciata esattamente nella stessamaniera. Del resto all’epoca delle prime inchieste diSchürr non era ancora apparso il Cours de linguistique ge-nerale (Corso di linguistica generale) di Ferdinand de Saus-sure (pubblicato nel 1916), che avrebbe introdotto la di-stinzione fra langue, sistema astratto e patrimoniosociale, e parole, realizzazione concreta e individualedella langue. E solo nel 1939 Nikolaj S. Trubeckoj neisuoi Grundzüge der Phonologie (Fondamenti di fonologia)avrebbe individuato la corrispondente distinzione tra ifo nemi e la loro realizzazione in suoni concreti (foni). Ela prima difficoltà che Schürr dovette affrontare, senzapotersi basare sul concetto di fonema-fono, fu proprio lavariabilità del vocalismo romagnolo. Il linguista austria-co cercò di risolvere empiri camente il problema indivi-duando «un grado d’apertura normale» intorno al qualeoscillavano le varianti occasionali di una vocale.Pioggia ha tenuto in considerazione anche un altro stu-dio sul dialetto santar cangiolese: la tesi di laurea di RinoMolari, I dialetti di Santarcangelo e della vallata della Marec-chia a monte di Santarcangelo, discussa alla Facoltà di Let-tere e Filosofìa dell’Università di Bologna nell’annoaccademico 1936-1937.Il nostro autore, come già aveva fatto descrivendo ildialetto di Rimini e quello di Careste nel Sarsinate (indue saggi apparsi nel 2010 e nel 2011), anche in questocaso non ha voluto scrivere un testo accademico.Spesso i lavori dei dialettologi sono inaccessibili al let-tore non specialista, a cominciare dalla trascrizioni deitesti effettuate utilizzando un alfabeto fonetico. Pioggia,

invece, seguendo sostanzialmente il sistema graficomesso a punto da Fucci, fa ricorso all’alfabeto italiano,con l’aggiunta di alcuni semplici segni diacritici, cheriescono a trascrivere in modo semplice, e comprensibilea tutti, i suoni vocalici del dialetto santarcangiolese.Pioggia dunque persegue l’intento di far conoscere lastruttura del dialetto d’adozione a un lettore media-mente colto e munito di un po’ di vivacità intellet tuale:per questo non rinuncia al rigore scientifico, che è lostesso di una pubblica zione accademica per profondità ecompletezza di analisi, ma sa coniugare ad esso una qua-lità di esposizione che è di una chiarezza esemplare e saaccompagnare il lettore anche non esperto di linguisticanei meandri della complessa struttura del santarcan-giolese.Mi auguro che altri dialettologi prendano questo lavorocome esempio per la descrizione di altri dialetti roma-gnoli. E che i cultori del dialetto, in particolare gli scrit-tori dell’area santarcangiolese e della Romagna sud-orien-tale, leggendo questo libro, siano indotti a utilizzare pertrascrivere i propri dialetti la grafia proposta da Pioggia,semplice e funzionale.

Settembre 2012

L’ampio studio di Davide Pioggia “Fonologia del santarcangiolese”, èpubblicato dall’editore Pazzini di Verucchio. Si avvale di una appendi-ce di Daniele Vitali e Luciano Canepari su “Santarcangelo di Romagnae i «dialetti dei dittonghi»”, nonché di una prefazione di Giuseppe Bel-losi che abbiamo riprodotta pressoché integralmente in queste pagine.

la Ludla8 Settembre 2012

E’ zuga s’al mulèti, u li fa prilè datònda me foil ch’al pèr dal zirandli,sa tót chi culur. E’ foil in do chè laMaria la stendéva i pan da sughè. Epu e’ fa fis-ciè i fil di pèl dla luce, ui fa tuchè insèn pr’un sgond. E’ fes-ci e’ dventa un s-cioch sech, s’unsprai che e’ per e’ dè. La tenda las’arvòlta, la sbatòcia, la fa la sbanzla,tachéda me fèr sa di anél d’utounche i sòna cme e’ campanel de pritproima dla comunioun.Da la crèta di scurét cius u s’instecaun spéfri chèld. E’ va e e’ vin, droin-ta la cambra. L’è e’ Garbòin che e’rogg ch’e’ vò antrè. L’elza la poibrasóra la banchina ad mèrmi, óna stré-sa bienca ch’la arlus e la taja in dó e’boj dla cambra. U s’è za fat dè. E’ lanzul frèsch ad bughéda l’è ardótun sblach mòl, me a-n ò ancouracius oc e la sveglia la sègna al zinch emez. Agl’ori arvènzi per durmoiagl’è fnoidi. U gn’è gnienca bsògnch’ai prova dlelt. Basta. La nota la èpasa t’un modi o t’un ènt. Ades l’è òra ad preparès ma la bata-glia fra té e ló: lo ch’l’à lutè tóta lanòta a sbat t’la tenda per antrè, e téche t’al vu lasè ad fura. Parchè lò l’èignurent, l’è un dul ch’u-t s’instècatla testa, ch’u-t chéva i séntimint,ch’u-t sparpaia tót agli idej che finala nota proima u-t pareiva ch’al fostóti te su post. U-t pareiva che l’ar-còrd d’la Maria u-s ni stes bun te sucantunzèt. Sè, un po’ u-t brusevaancoura, mo ogni dè che pasèva, unpò ‘d mench e pù ormai t’al cnusci-vi che maltin te còr, ch’u t feva guasicumpagnea.E lo, e’ Garbòin, u-t e’ va a svigiè chemèl, s’óna cativéria masèda drointache caldin che è pèr i sè garbèd. Tebój dla nòta u-t pòrta la tu Maria, temeintri che e’ feva balè i su cavelbiond e pu e’ carizeva la su pèlaneuda e e’ muovoiva ligir chi péilciér dal brazi. L’è stè i lè a sbarluciè,cla vòlta, l’utma volta. – Tci un sgraziéd, proima ta-m fè voidala su faza, pu ta-m la port vi. Ta m’éimpinì la nòta ad fotografei dla Maria.E pu ta m’é fat pasè tot cal doni davèn-ti mi mi oc cius, chi bramèva sno d’ar-punses. Doni ad tot al razi; ogni volta tam’é avisè s’un fes-ci. Puntuel cme un’ar-lóz: t’aspitivi che a m’imparluzés, pu un

fes-ci e prounta un’ènta dòna ad vènt;dal vòlti a la cnosoiva, dal vòlti a-n avoi-va un nom da dei. Cumè cla volta chetci scap fura da sòta la crèta dla pòrta,una bambèsa ad vapour, che pién piénla ciapèva la dóima d’óna dòna, stilastila. Sno cvand ta-m la è fata arvètachéd ma la faza, ò arcnosù e’ su udoure e’ su culour ad rosa biénca. Alòra ò fat per tuchéla, a la vleiva‘brazè strèta strèta, mo pió ch’a slon-ghéva al brazi, pió ch’a gl’era lighédima la spònda de lèt. Pu a-m svigievada fat e a l’avdeiva sèmpra pió sbia-voida, fina a dvantè e’ sbof d’unapgnata e andè vi sa te, vènt, che ta-mla avivi porta. – Ad che culour t-ci, Garbòin? Nu tamesa. At voi arcnòs proima che t’arbèltaincvèl, proima che è sea tròp tèrd. T-cicelèst cme e’ zeil o t-ci ròsa e viola cme e’tramount? T-ci mas-ci o fèmna?U m’è ‘rvenz un sudour ma la fròn-ta, giaz cumè la bròina. Ch’u-s seacalmè adès? O ch’l’è d’ingatoun drime meur, prònt a scapè fura dlèlt?U-n si sint pió un fiez. L’è pas, l’èpas tót… A sbadai, u-m ciapa la sun-lania, u-m si ciud j occ. A so sal znoci dla mi ma ch’la-m fa lanenna e la-m chénta sla vousaancoura zòmna, «dacia minacia, cheburdèl e’ va a la cacia, e’ va a la cacia ee’ ciapa una bicacia, e’ ciapa un bica-ciòun… botlì zò da che buroun!» intentch’la m’èlza sal mèni sotabraz e la-msmolla pr’un sgònd e me ch’a roid,ch’a roid…

– E pu t-ci arvat a ‘rvinè incvèl: óna bré-scla sèca d’óna ròba arbèlta ch’la ruglasòta e’ purghi. Una caplèta o di baratli.Ades a sint di pas, pas ad pì neud sòrae’ pavimènt. La-n è una camnèda, u-mper d’al gambi ch’al bala, mo a vegh snòdagli òmbri scheuri. D’impruvois unsprai ad luce è pasa ‘d travers de scuroune ò vést óna dòna nira, al mèni s’al doidilònghi e stili ch’al cvarzoiva cal tètineudi. Te balè la m’avniva da près,guasi ma dos e sopti la-s tirèva indrì. Afaz per alzèm e a-m sint cmè óna mènach’la-m chinca còuntra la frònta. A laveg ch’la s’luntena da zét. D’arnov ta’mla è porta vi senza dì gnént.E adès a faz la sbanzla, la corda lighé-da me rem gros de foigh.– Spénz ba, pió fòrt ba, pió d’in èlt!A vleva voida sòra la siva, l’èra dlaTonia. L’èra dla Tonia, d’un chent uj era la pòza, ch’la era sèmpra masè-da dri chal piénti élti, e nun a-n vidi-mi l’ora d’andei da tònda. La pòzad’la Tonia per nun l’èra un lègh.L’èra i prit ch’i-s farmeva pr’aria chiparoiva tachéd so m’un foil. L’èra itóf dal ranòci, l’èra tirè sla sfrómblami raganàz. L’èra la paveura dal bésiniri. L’èra i rógg dla mi nòna:– Av’afughè us-ciazi!– Ancòra pió fòrt ba… – una bòtasèca, a m’arog-li ma tèra, a vag a fnoit’un ènt insógni. La è artòrna laMaria. Stavolta la è mi pi de let, lasta zireda vers la pòrta, a l’arcnosdal spali sèchi sla pèla tachédam’agl’òsi. Senza doi óna paròla, la

Garbòin

di Nevio Semprininel dialetto di Poggio Berni

Illustrazione di Giuliano Giuliani

Racconto segnalato alla sesta edizione del concorso di prosa dialettale “e’ Fat”

la Ludla 9Settembre 2012

vèrz al brazi, la li mov só e zó cmes’la vulés vulè vi, mo pién pién,sènza fòrza. La s’è zirata un sgònd,proima ad sparì per sempra. Propiaat che mèntri che e’ vènt u i mòvóna fieza ‘d cavél ch’la i cvèrz la faza.Ancòra un ent dispèt, un castoig deGarbòin ch’u-n mi vo fè voida i suocc vird, ch’u-n mi vo fè capoi s’la-mgvardeva si occ bun da perdunèm, osi occ catoiv dla cundana. – Ades basta, tanimòdi t-ci snò uningan. T’aroiv sa cl’aria chèlda, zantìla,sl’udour dla primavéra e t-port vi l’an-ma. E dop ta-n ti si ancòra sfamèd, si tumòdi garbid t’instech int la testa la mati-ria. Ta t-ci dè enca un nom da mas-ci:Garbòin. Per frighés ma tót, mo me al sòche t-ci una fèmna, una dòna fulèt cumètót cal dòni che ta m’é port, per no fèmpansè ma lì, ch’la èra l’ónica, la Maria.A so prount. Ades a so prount per cum-bàt sa te Garbòin, vènt o fulèt, t’pu escvèl ch’u-t pèr.A scap de lèt, a-m faz la bèrba e a-mpétni se scarminèl. E’ counta encacvèst t’óna sfida. A-m met la camisabienca, la sèrga nòva e al schérpi datènis. A mount tla màchina; l’è al sie un quert. E’ sol l’è ancòra bas moe’ schélda za un bisinìn. La strèda laè svoita, a pos stè do ch’u-m pèr, adèstra o a sinèstra o énca te mèz. Ipiop sal fòi d’arzènt i lasa andè mevènt i fioch biénch dla smènza. E’per ch’e’ bófa.Dis mineud dòp a sò ‘rvat sòta ma laròca ad Scurghéda. A-m’avei so mala carèra. Al su fulèdi l’i-m fa ‘ndè adtravèrs, a scapóz, a-m zir indrì.Gnenca un cris-cien, a sò da par mé.A-m’agrap mal ginèstri tachédi megrèp. Mulinèl ad foj e poibra ti occ.U-m vò fè paveura, mo me aroiv finain chèva me mount e pù a tac a ram-pichém mal genghi dla tòra vècia.S’al doidi e s’agli ongi a m’agrap malcreti e ma la gramègna. Un giarùl e’rógla zò, e’ sèlta, e’ rimbèlza tevènt… a-n e’ vèg piò.A sò sòra la tòra, in pi sòra che mursbruclèd. Sòta mu me un buroun adzènt métri e piò. A vèg incvèl, am’inchént te spetacli dl’aqua deMarècia ch’la sbarlus me sòl. E chisas biénch, les ad miera d’an d’aqua,e agl’arvùri tal spòndi, e i la zò lariga bló de mèr.

Una vantèda piò catoiva l’a-m fa fèla sbanzla, a-m met d’ingatùn. Al sose ch’u-m vò doi: che i qua sò ècmanda lò. A m’elz, a lèns cmè unchén da caza. A arvènz in pi, gambie braza lèrghi, puzèd còntra la fòrzade vènt. A-m vèg da burdel, cvandmal proimi fulèdi à scapeva ad furaad scaranèda, per ciapel tót madòs. U-m paroiva che tóta cl’ariach’la arvèva la duvés purtè encauna nòva. U m’avneiva la chérnaploina. – Fam voida e’ post in dò’ che t-partes,cum che t-fe a nas, fat cnos! Me a-n òpió paveura ad tè, a m’afoid, Garbòin.Féma una scumèsa: me a m’apoig coun-tra e’ buroun sèmpra ad pió e te ta-m tinbòta sal tu fulèdi. A voi voida se t’é e’curag da fèm fura… a voi voida chich’l’à rasoun tra mé e té. Adès la mianma la è sòra e’ svóit de buroun, sòrachi sas ch’i gverda l’aqua e e’ pèr ch’jaspeta chi còsa. La è la tu, se ta la vu. A vèrz al brazi, a-m faz ninè de vènt,la sfida la è cmènza.– T’un dè cme cvèst t’é rubè l’anma dlaMaria, e adès a-t faz un’uferta nòva: lami anma la è prounta.T’azèt. Si tu sófi chéld ta-m spénz

indrì te mèz dla tòra. Ta-m fes-ci fòrtt’agli urèci, t’sbóf. E me a arfied e pua rogg sa tóta la vousa, si pulmun esla pènza, fina ch’a-n fnes e’ fiè. Finach’a-n bot fura énca l’anma. – A-t la rigal, Garbòin! Sta tenti, ch’laè prègna d’arcurd e la poisa ‘na masa.Fala balè cumè una foja, mo nu falamai tuchè ma tèra. Te, che t’ci ligir evulatéi cumè i pansir d’un burdèl, fàlaarturnè burdèla.E lo u-m la fa vulè, d’in èlt sòraagl’arvuri e pu zo dri ma la caneza, epu so dlèlt. U i fa voida e’ Marecia,da la surgènta te Fumaiul e zo zo drim’agli ansèdi, sòra cl’aqua cierach’la cor zéta zéta fina Rémni. L’anma la m’à las un bus svoit cmèste buroun. Se ch’a faz i qua so? Mea-n m’arcord pió gnent, la pavéurala-m fa strimulì e’ sangui. Arvènz aninè te vènt cmè una bandira sbran-dlèda ch’la è dvènta un straz sbia-void.Ò bsogn d’aria, à vèrz la bòca piòch’a pòs. Bòca verta, a n e’ respirsnò, al magn e’ vènt. A mand zò unpcoun ad Garbòin e dròinta u j èl’anma ch’la è artòrna. Straca s-cienta mo ligira e cuntènta.

la Ludla10 Settembre 2012

Il dialetto romagnolo è una lingua neo-latina, al pari di lingue contemporaneecome l’italiano o il francese con cuicondivide l’evoluzione fonetica e lascomparsa della flessione (declinazio-ne) dei sostantivi. Infatti, fra i secoliVII e IV a.C. la Romagna - già alloraterra di confine - venne occupata davarie tribù galliche che si stabilirono inquasi tutta la Val Padana. Ciò che peròdistingue il romagnolo rispetto aglialtri dialetti dell’Italia settentrionale èun insieme di fattori storici e geografi-ci, quali il retaggio grecobizantino deisecoli VI, VII e VIII, l’esposizione agliinflussi germanici, prima e dopo leinvasioni barbariche, e l’esistenza di unsubstrato celtico con la caduta totaledella atone.1

Tuttavia, se questi aspetti caratterizzan-ti del dialetto romagnolo sono pretta-mente formali e glottologici, se neritrovano altri di carattere esclusiva-mente culturale. La terra di Romagna,nonostante oggi sia legata politicamen-te all’Emilia e sia stata in passato terradi ripetute violenze e conquiste, hasempre conservato intatta un’identitàculturale sorprendente. Tra tutti i varifattori, credo meriti una riflessioneparticolare la tradizione fortementematriarcale che, nonostante gli anni dioppressione durante la conquista pon-tificia, è rimasta fortemente radicatanella nostra terra.2

È già stato scritto molto sulle figurefemminili storiche della nostra terra,donne che hanno modificato gli equi-libri politici e sociali dell’Europa con-temporanea con la loro forza, intelli-genza e tenacia, ma nessuno ha mai

notato come questa cultura matriarca-le si sia poi radicata anche nell’immagi-nario collettivo, producendo personag-gi ormai mitologici quanto mai fanta-stici. Tutti personaggi non a caso decli-nati al femminile, volti ad esorcizzare lapaura della morte e delle cose negativedella vita. In effetti, come osservaRenato Cortesi3, in Romagna, dov’èpiù forte il matriarcato, la paura dellamorte e il dolore ad essa legato sonomeno forti. Antropologicamente par-lando, infatti, la donna è sempre asso-ciata al grembo materno, quindi alritorno alle origini e alla tomba, men-tre le culture patriarcali hanno sempreavuto un disgusto per il culto deimorti. Non stupisca, quindi, di trovare sem-pre immagini femminili, anche laddo-ve potrebbero esserci le corrispettivemaschili: perché piligrona per esempioe non piligron, visto che la pellagra col-piva uomini e donne? E perché si dicefugarena4, dal momento che il fuoco (e’fugh) è maschile anche in dialetto?Immagini scelte proprio perché piùevocative e adatte ad esorcizzare lepaure più ancestrali dell’uomo. Que-sto meccanismo psico-sociale si ritrovain tutte le culture totemiche celtiche,laddove si adorava una divinità pernon incorrere nelle sue ire e in segnodi obbedienza totale. Come afferma Cortesi, «nei raccontipopolari, nelle tradizioni, nelle favoledella Romagna è possibile rinveniretracce che trovano origine in un patri-monio antico, comune a molte altrepopolazioni del continente europeo,mediante un percorso che indagasecondo le due diverse direttrici dellospazio geografico e del tempo. In que-sto percorso si incontrano e si indaga-no personaggi forse inaspettati…». Mitizzare la donna in Romagna, quin-

di, significava esorcizzarne la paura, inquanto essa stessa rappresentava unasorta di pericolo per la comunitàmaschile. A questo processo essoterico,quindi aperto e comune a tutte le cul-ture patriarcali, se ne affianca inveceun altro, quello esoterico, legato tradi-zionalmente ai misteri e al mondodelle donne. Nella nostra regione si possono indivi-duare decine di figure ‘mitologiche’femminili legate ad altrettanti malisociali ma, come vedremo, la loro clas-sificazione varia spesso da zona a zonae risulta assai complessa in ragione diuna mancanza pressoché totale didocumenti scritti. Già GiuseppeGaspare Bagli, in apertura del Saggio distudi su i proverbi, i pregiudizî e la poesiapopolare in Romagna, asseriva: «InRomagna è stato trascurato talunodegli studi che meglio convengono achiarire la storia ed i costumi di quelpopolo: trascuratissimo poi è statoquello dei dialetti».

(Continua)Note

1. Secondo la tesi dell’Ascoli, il substratoceltico è presente in quasi tutte le parlate anord degli Appennini, ma solo qui concaduta totale delle atone; nel romagnolo,infatti, le atone cadono ad eccezione della‘a’, che si conserva di norma in ogni posi-zione (così le parole latine trisillabe o qua-drisillabe vengono ridotte a monosillabi: illat. genuculu diventa in romagnolo þnòc‘ginocchio’).2. Si noti che la Romagna fu terra di con-quista e di stanziamento di popoli etruschiprima e celti poi entrambi a forte vocazio-ne matriarcale o in cui le donne godevanodi libertà e rispetto da parte degli uomini.3. R. CORTESI, Streghe, folletti e santi fra Roma-gna ed Europa, Imola, La Mandragora, 2008.4. Si tratta di un rogo che dovrebbe portarvia con sé i rigori della brutta stagione.

La mitologia femminile

della Romagna - I

di Silvia Togni

Silvia Togni, laureata presso laScuola Superiore di Lingue

Moderne per Interpreti eTraduttori di Forlì, è nota per

avere di recente pubblicato "UnaPigna per Ravenna", una mini

guida della città rivolta ai ragazzidelle scuole elementari e medie.

Dopo aver collaborato allaredazione di tre dizionari italiano-francese e italiano-russo-italianoha voluto dedicarsi un po’ anchealla sua lingua madre con questo

saggio sulle mitiche figurefemminili romagnole.

la Ludla 11Settembre 2012

azèr, inazarì. A partire dalla rivo-luzione industriale con l’evoluzionedella metallurgia, per ‘acciaio’ s’inten-dono varie leghe di ferro, in partico-lare con una percentuale di carbonio,più ridotta rispetto alla ghisa1, perottenere maggiore elasticità, durezza,ecc. Ma prima, azèr si riferiva di fattoal ferro dolce indurito: e’ fer dolzinazarì, che diventava ‘acciaio’ (azèr)int e’ fil de’ taj o in punta. Era quan-to bastava per armi e strumenti: dalvomere agli altri attrezzi agricoli, dagliscalpelli e dalle pialle alle spade, comequelle arabe e spagnole, famosissimedel medioevo, e alle lastre delle arma-ture2. Le barre di ferro scaldate nellafucina (fuðena), venivano doppiate ebattute più volte sull’incudine (incóz-na) fino a risaldarsi insieme e realiz-zare l’oggetto finale. Alla giusta tem-peratura, l’oggetto finito veniva ‘tem-prato’ (timprè) e immerso nell’acqua,ma l’olio bruniva pure e preservavadalla ruggine3. Inazarì pió de gióst, ilferro diventava persino fragile e pote-va scheggiarsi o rompersi sotto uncolpo netto. Ricavato a questo modonella bottega dei nostri ultimi fabbrispesso da ferraglia di recupero, il ferroconvisse per quasi due secoli con

quello prodotto con più complessiprocedimenti.4

Il nome azèr ‘acciaio’, lat. tardo acia-riu[m], deriva dal lat. acies: ‘punta’ ecome i suoi derivati si presta a tantemetafore5. Tra i derivati: èg ‘ago’, inlat. acus; guiéda (con l’a iniziale cadu-ta); [a]góz, ‘acuto’ o ‘aguzzo’; aðé,‘aceto’, ðérb (con l’a iniziale caduta),ègher, ‘agro’, a cui s’è affiancato tardi-vamente àcid; aza, ‘accia’, (lat. acia, il‘filo’ continuo ritorto tratto dalla sof-fice massa di lino, canapa, o lana)6;azaról ‘azzeruolo’ e azaren, ‘acciarino’(la pietra focaia che sfregata producescintille per accendere micce che iprimi archibugieri, tenevano accese eda portata di mano7.

Note

1. Il termine più recente ‘ghisa’ – in ted.Gusseisen – si rifà al ted. Gusse (colata,fusione), mediato dal franc. guise. 2. Furono di ferro forgiato anche i primigrossi cannoni, sostituiti poco dopo daquelli di bronzo che aveva un punto difusione più basso e potevano essereprodotti perciò con un’unica colataimpossibile col ferro per quell’epoca: iprimi più grossi erano fatti di barre diferro unite da cerchi roventi, che sistringevano raffreddandosi, come ledoghe di una botte. 3. Uno degli ultimi fabbri di campagnache a questo modo a forza ad bat int l’in-cozna u arfaseva e’ fil al gméri (vòmeri), alponti di scarpèl, ecc., fu Fiom dal Zrédi,detto Chichìn (Francesco Fiumi, classe1908, delle Cerrete, sul fianco sinistro delBidente tra Civitella e Galeata). Col ferrosapeva forgiare anche oggetti mai fattiprima: “l’è sa [= asé, ‘basta’] ch’a m’ dasì-va vo la déima o la mostra, com ch’ a lavliva ciamè; parchè me a ‘n sò lèþ, ma asò sgné i nómber – confessava. Quendch’a sera un burdél, la scola la i era a pióad du kilometri e ‘na volta ch’ l’eva piuvùcome Dio u la mandeva, a m’ arturnét aca con la pulmonita ch’a m’avèt da murì.Alora la mi ma, la purètta, ch’la foss inte’ meþ de’ paradìð, la dget: Mèi ignurentch ‘n è mort. Con la prema gueramundiéla, i carabignir i eva dl’èter da fèche badèm a me ch’a ‘n andèva a la scola.Enca a fè e’ fàber a i ho imparè da parme: a sò andè a butega da un mat ind-giavlè ch’u ‘n ciacarèva mai: s’ tu ðbaieva,u biastmèva e u t’ dèva di chilz int e’ cul;

u bðugneva par forza tô só inciosa con ioc’ [apprendere solo guardando]. Encaalora, u t’ rugiva dré: - ‘S’ he t’ da guardè,incantè? Bèda a fè ben quèl ch’ a t’hodet!”. Memore delle spiegazioni non rice-vute a suo tempo, Chichìn spiegava a chi-unque gli capitasse a tiro quel che stavafacendo. Una volta volle mostrarmiquand’erano da immergere per la temperadelle punte da scalpellino: occorre atten-dere che le cime, raffreddandosi eoltrepassando i vari colori dell’iride, rag-giungano un colore tra il verde marcio e ilblu: Avdì, la tempra la sta tota a qué, aciapèi int e’ mument: avdì? U ‘n gni vó‘na gran masa d’inþégn. Come a dire: mech’a só in alfabeto – parole sue! – a l’hoimparè senza tent scûrs. S ‘a ‘n fósuv bonad fèl énca vo, dop ch’a v’ l’ ho fat puénca avdé, a sarésuv propri un belquaiòn…4. In latino acies era pure la ‘schiera deisoldati’ che doveva incunearsi in quellanemica per scompaginarla.5. Quali, ad esempio: l’era un òm d’azère l’è mort tot int ‘na bòta; oppure, per chiha durezza di cuore: che t’he dl’azèr int ivintrón? Infine, nel Pulòn Matt (XVI sec.)I 11, compare un vuchiet azzarìd [vec-chietto inacciarito]: ‘indurito’ dalleesperienze della vita come il ferro bat-tuto e ribattuto sull’incudine. 6. Petronio, Satyricon LXXVI: ab acia et acumi omnia exposuit (mi espose ogni cosa [apartire] dall’accia e dall’ago): si compila-vano già liste di vocaboli in ordine alfa-betico. Tra i derivati s’aggiunga èðer,‘acero’, in lat. aceru[m], un albero dallefoglie palmate, ‘a più punte’ secondo levarietà, ricordato per i colori autunnali daOvidio, Metam. X 95: acer… coloribus impar(acero impareggiabile per i colori). E,infine, l’aþaról, o e’ laþaról, daacrem+arbòrulum (dal frutto acidulo) comeil Meyer-Lübke suggerisce, detto anchepumariér ‘pomo reale’.7. Per il Cortelazzo-Zolli meza (‘miccia’)deriva dal «francese mèche (sec. XIV, nelsenso di ‘materia che prende fuoco facil-mente’, ma dal 1130 col sign. di ‘stoppinoper lampada’), prob. dal gr. mýxa ‘muco’,passato in lat. per l’aspetto mucoso del‘becco della lampada, il luminello’». E’luminél indicava pure il piccolo foro orla-to presente nelle pistole e nei fucili adavancarica (a bachèta), su cui si fissava l’in-nesco (anch’esso luminél) e su cui cadevail ‘cane’ (e’ chen dla s-ciòpa).

Rubrica curatada Addis Sante Meleti

da Civitella

la Ludla12 Settembre 2012

La prèma Spanucêda a la faðèsumint e’ domela e tre int l’azienda agrè-cula ‘La turaza’ che la jéra de’ nòstaramigh Loris Ricci che döp un cveichân u l’avreb vinduda a la cuperativadi ðbrazent ad Sânt Albért.La Turaza l’éra una vëcia buvarì apuch chilòmitar da e’ ðboch di FiomUnì, cun tarðent tarnadur ad tëra, alstal e tent camaron da fê da magaþene una ca cun di grend camen parscaldês e cùðar da magnê.Avemia þa fat dagl’êtri fëst, cun lachêrna cöta int la gardëla e dal grân-di tavulê: in ca cvând che l’éra frèd efura int la bëla staðon. Cl’ân, i dodðad setèmbar, nó dla Schürr insemcun cvi dl’Asuciazion culturêla U.Foschi ad Cas-cion u s vens l’idea adurganiþêr una spanucêda dato cheRicci l’avéva un bël câmp ad furmin-ton. Int e’ dòp mëþ-dè Sternen e’faðet l’impiânt ad luminazion e pul’Oriana e la Flora al parcet int l’érapar una zintnéra ad parson. A la sérame e Galli, cun i fugon a là fura acuðèsum al braðul, cun atórna di zan-zalon che i paréva dj elicòteri, intântche la þent la spanucéva e la faðéva ipajêz, i matarëz d’una vôlta fët cunal foj de’ furminton.Com ch’l’uðéva una vôlta cvând chee’ lavor u s faðéva a mân e l’éra l’uca-ðion che tota la faméja e i vðen i s’ar-duðéva int l’éra, fnì ad magnê, cun la

muðica un cvicadon u s mitê a balê,Biscotini e’ cuntè una cveica barþile-ta, e pu int la vëcia tora, cvela ch’ladà e’ nom a la buvarì, int e’ bur dlanöta e cun la lona pina, e’ spuntènenca un fantêðma che invezi ad fêpavura u s faðet rìdar tot cvent.Pasê un cvelch ân, de’ domèla e sët,la Schürr la pinset ben ad rinuvêr lafësta dla Spanucêda, mo stavôlta inte’ curtil dla vëcia scôla ad Sa’ Stévanindóv che u j è la séd dl’Asuciazion.Adës la fësta la j è piò par i znin chei s divert a spanucêr e a ðgarnê e’ fur-minton cò ma che i faðeva una vôltaint al ca di cuntaden e pu int uncanton la Carla e la Giovanna agliinsegna al babini a fê dal bamboz edi fiur cun al foj scartuzêdi. Int unêtar canton la Rosalba la fa a i babin

di scurs in dialèt, la j conta dal fôl,la j fa dj indvinel e ló i s divert unmònd. E pu u j è la capanina dla pia-dina indóv che l’Oriana e al su ami-ghi, vëci aþdóri, al sta dri al babiniche al prôva a s-cê l’impast e a cùðaruna piê sóra la tegia. Intânt dj êtarburdél cun dal vëci machineti iprôva a sgarnêr al panòc ad furmin-ton cun i grend dla Schürr che i jispiega cvel che e’ suzideva una vôlta.Mo nench i bëb, al mâmi e i nòn i sdiverta ad ascultêr al mùsichi di bëlche i faðeva int l’éra còma e’ triscon,e’ saltarël, la viniziana (e magaripruvê nenca ad balêj) o sinò a fêruna brenda cun un bël piat adpulenta cun e’ ragù ad zuzeza, unafëta ad zambëla e un bon bichir adven ros.

Un pô ad stôria dla Spanucêda

dla Schürr

di Sauro Mambelli

la Ludla 13Settembre 2012

Cari amici della Ludla,il “Confronto sulla grafia” sembra vol-gere al termine, e io vorrei dire la miaun’ultima volta.Nel corso del dibattito sono emerseposizioni a volte incomprensibili, ofrutto di incomprensioni. Ad esem-pio, Ferdinando Pelliciardi ha definito“idea stravagante” la mia affermazioneper cui un’ortografia adeguata dovreb-be assegnare un grafema a ciascunfonema. Eppure è proprio quello chelo stesso Pelliciardi fa dal 1977, con lapubblicazione della sua “Grammaticadel dialetto romagnolo” che prevedeun segno specifico per ciascuna dellevocali orali del suo dialetto. Restadunque un mistero perché tale affer-mazione sarebbe un’idea stravaganteanziché uno dei capisaldi su cui poggiaqualunque scrittura adeguata deinostri dialetti.Mi sono anche accorto che molti con-fondono un’ortografia dotata di dia-critici con l’Alfabeto fonetico interna-zionale (IPA). Per chiarirci una voltaper tutte: i grafemi ê, ô, ë, ö, é, ó, è, òecc. non c’entrano nulla con l’IPA,sono semplicemente i segni usati perscrivere in ortografia adeguata i dialet-ti romagnoli di area RF [ravennate-forli-vese della pianura, n.d.r.].Ciò che mi sono limitato ad aggiunge-re io è che, constatata la validità e uti-lità di questi segni per i dialetti RF, dalì si dovrebbe partire per scrivere tuttigli altri dialetti della Romagna. Sicco-me però dialetti diversi hanno fonemidiversi, alcuni dei segni usati per l’RFnon servono per i dialetti romagnoliorientali, mentre è necessario aggiun-gerne qualcuno di nuovo. In questomodo si può arrivare a scrivere, conun’unica “Ortografia RomagnolaComune” (ORC), tutti i dialetti dellaRomagna, col duplice vantaggio dimostrare gli elementi comuni maanche le differenze, e di consentire atutti di leggere correttamente tutti i

dialetti, anziché solo ai parlanti di undialetto specifico.Alcuni hanno obiettato che arrivare aun simile risultato non è possibile:probabilmente sotto sotto si rendonoconto che quest’obiettivo presupponeuno studio serio delle diverse zonedella Romagna, coi loro dialetti e iloro inventari fonemici diversi, ed èchiaro che è più comodo continuaread occuparsi soltanto della propriavariante e dire che è “il dialetto roma-gnolo” tout court. Voglio rassicurarequeste persone: nessuno chiede lorodi fare ricerca sul campo, perché inquesti anni ci hanno già pensato altri,fra cui Davide Pioggia e io stesso, aiu-tati da Luciano Canepari, professoredi fonetica all’università di Venezia.In questo modo siamo riusciti ad iso-lare, oltre ai fonemi del ravennate(Vitali, “L’ortografia romagnola”, Iparte, www.bulgnais.com/OrtRom.pdf), quelli del sarsinate (ivi, II parte),del riminese (Vitali e Pioggia, “Il dia-letto di Rimini - Analisi fonologica eproposta ortografica”, www.bulgnais.com/DialRim.pdf) e del santarcangio-lese (Vitali e Canepari, “Santarcange-lo di Romagna e i dialetti dei ditton-ghi”, www.bulgnais.com/DialSantar-cang.pdf), e stiamo già facendo lo stes-so col cesenate e il forlivese. Per ciascu-no di questi dialetti abbiamo propostoe proporremo un’ortografia che tengaconto dei principi sopra enunciati. In pratica, quello che alcuni definisco-no “idea stravagante” è un progettoconcreto ormai quasi completato.Quando sarà completo per davvero,presenteremo l’ORC ai romagnoli, per-ché ciascuno di loro decida se la vuoleadottare o meno, in assoluta libertà:senza commissioni, tavole rotonde,congressi, circolari o altro; semplice-mente con l’autorità di un lavoro fattosecondo le regole della glottologia.Coi migliori saluti,

Daniele Vitali

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In seguito al mio articolo Acsè ad parrìdar sul numero scorso della Ludla,ho avuto uno scambio di opinioniriguardo all’uso di quell’ad che qualcu-no pensava fosse di troppo; bastavadire: acsè par rìdar.

I titoli sembrano aver lo stesso signifi-cato, ma nella mia esperienza linguisti-ca non è così. Acsè par rìdar significa fare qualcosa perburla, per scherzo, e a volte anche conl’intenzione più o meno evidente di farridere; a jò fat par rìdar vuol dire a jò fatapösta, per scherzare, non sul serio.Acsè ad par rìdar si usa quando si ini-zia un’attività un po’ in sordina,senza troppe aspettative, lavorando,sì, con serietà e impegno, ma senzaaspettarsi risultati appariscenti; è unqualcosa che si fa perché ci si crede ebasta, poi finisce che ci si prendegusto, il lavoro si amplia, ci sono svi-luppi che non erano nelle previsionie così si realizza un lavoro di qualità ecome tale è apprezzato ed è fonte digratificazione.Spero di essere riuscita a spiegare quel-lo che, nel mio vissuto, è la differenzafra i due modi di dire, e se qualcunosentisse il dovere di ulteriori precisa-zioni, questa rubrica è qui apposta.

Loretta Olivucci

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Su un numero della vostra rivista [Gen-naio 2012 n.d.r.] ho trovato una fila-strocca che recita:Til, tel, ton al campèni d’fra Simon,j’ ira tre chi li suneva, pen e vèn i guadagneva, i guadagneva un bastunzèl per ander a Montibèl, Montibèl e Montifior, Santarcanzul l’è traditor.A casa mia (sono di Cusercoli - Segu-no, Comune di Civitella) si conoscenella sottostante versione:La campana ad Sén Simonj era in tri chi la suneva,j guadagnava pân e vèn,j guadagnava un për ad gapunda purtè ai su padrun.I su padrun in n’era a cà,j era da la Ruséna matacla faseva e pân con al zémpi de cân.E cân l’era un po’ vecce u steva sêt e lêt.E lêt l’era un po’ base ui steva ânca e gat.E gat l’era in camïsa… e i s-ciupeva tôt dal rïsa.

Palmiro Capacci

la Ludla14 Settembre 2012

XI edizione del concorso “Omaggioa Spaldo” indetto dall’Accademiadei Benigni di Bertinoro.

Un strémul ad cuntantèza

di Antonio Gasperiniprimo classificato

Int l’aligrì dla prèmaviraun babéin l’arvés la pòrtae pr’un schérz inuzéntl’abraza e’ nòn da d’drich’e’ smét ad botae’ smanèz strach di pansìrpr’una buchèda d’aria bónatra dò fazi ch’al réid.

A là fóra ìntènt,e’ zil e la tèra i lôuta - féna ch’u j è de’ feil - a smislé e’ ghéfal

d’una véita ch’la va e d’un’ènta ch’la vén.

Mo par lòu dôuch’i réid sénza déj gnénte’ témp l’ha pérs la misôurae tót u s’è farmèin che strémul ad cuntantèzach’u n’ha stasòun.

Un fremito di gioia Nell’allegria dellaprimavera / un bambino apre la porta / e peruno scherzo innocente / abbraccia il nonnodal di dietro / che smette di colpo / il maneg-gio stanco dei pensieri / per una boccatad’aria buona / tra due volti sorridenti. //Nel frattempo là fuori, / il cielo e la terra con-tinuano / - finché c’è del filo - / a disfare ilgomitolo / di una vita che se ne va / e diun’altra che viene. // Ma per loro due / cheridono senza dire nulla / il tempo ha perso lamisura / e tutto si è fermato / in quel fremi-to di gioia / che non ha stagioni.

Un þèj strunchê

(A Melissa Bassi)

di Adolfo Margottisecondo classificato

Tra lom e scur, òmbar e fìgur,al s’distèngv a malapènaquând che l’êlbala cor in braz a e’ dè,mo un rêgan l’ufènd l’aria,un fulet e’strapa un fiór;un ton un rug d’terórche un’onda la pôrtadi ca in ca, la’ ðbat da os a os.E’ sól ch’e’ sta spuntènd,impët a tânt urór,u n’sa sé avnir avântiO turnê in braz a la nöt.E’ maladet e’ vô e’ sintircvért d’fiur in do ch’e’ pasa,e’ vô adubês d’fiur freschpar scrìvar la su stôria.D’un þèj apèna ðbucê,suspéð int l’aria,u ngn’armësta êtar che l’udór ch’e’ va so vérs a e’ zil pr andê a furmê una stëla, udór d’una vita strunchêda.I dopi da e’ campanil,pront a scampanzêpar avisê dla fësta,j armësta motdnenz a e’ dulór d’na mâma...un dulór ch’e’ durarà una vita.

L’è premvira, mo incù u n’è fësta:fësta la srà cl’a matènache int e’ þarden dla vitatra lom e scur u n’i sarà piò bðögnd’fiur strunché da un rêganpar scrìvar una stôria.

Un giglio troncato Nel crepuscoloombre e figure, / si distinguono appena /quando l’alba / corre in braccio al giorno /ma un uragano offende l’aria / un turbinestrappa un fiore; / un boato un urlo di terro-re / che un’onda porta / di casa in casa,batte ad ogni porta. / Il sole che sta spuntan-do, / di fronte a tanto scempio, / non sa seproseguire nel suo cammino / o tornare inbraccio alla notte. / Il maledetto vuole il sen-tiero / coperto di fiori dove cammina / vuoleaddobbarsi di fiori freschi / per scrivere la suastoria. / Di un giglio appena sbocciato /sospeso nell’aria / non resta che il profumo, /che sale verso il cielo / per andare a formareuna stella / profumo di una vita troncata. /I doppi dal campanile, / pronti a suonare adistesa / per annunciare la festa, / restanomuti / di fronte al dolore di una mamma... /un dolore che nulla potrà mai più lenire. / Èprimavera ma oggi non è festa: / festa saràquel mattino / che nel giardino della vita /all’alba non ci sarà più bisogno / di fiori tron-cati da un uragano / per scrivere una storia.

Sófi

di Gigliola Neriterza classificata

Sabia féna la sguéla tra al dida.

Gujêda curta e’ fil di sógn, ðbadaj d’ na stëla.

Dè strusciê a dê mént al j’ómbar busêdri.

Alþir l’è e’ sófi dla vita.

Soffio Sabbia fine / scivola fra le dita. //Gugliata corta / il filo dei sogni, / sbadigliodi una stella. // Giorni sciupati ad ascolta-re / ombre bugiarde. // Leggero è il soffiodella vita.

Stal puiðì agli à vent...

la Ludla 15Settembre 2012

Premio “Urgonautiche” di testi agresti e bucolici orga-nizzato dalla Associazione culturale Pro Rubicone

Bônanòta

di Daniela Cortesiprima classificata ex aequo

E’ bur e’ camêna sora i cùdalcun i pi nigar e alzir.I chémp i pè smanè dop la batdura ,la lôna la sbresa di tra al vid.La zvèta la s’pripera par la caza,un sorg e’ cor in priscia int e’ su bus.E’ bai d’un cân e’ dà la bônanòtaad ôna mama cun e’ su babin.

Buonanotte Il buio cammina sopra le zolle / con i piedi neri e leg-geri. / I campi sembrano denudati dopo la battitura, / la luna scivolatra le viti. / La civetta si prepara per la caccia, / un topo corre velocedentro al suo buco. / L’abbaiare di un cane dà la buonanotte / ad unamamma con il suo bambino.

E’ gal

di Loris Pasiniprimo classificato ex aequo

Puntuèl piò che un arloz svézarintunè piò che una tromba in te ciarorculurè piò che l’arcbalen dop un sciòn d’istèdaincazarec piò che un cinghiel frìimpetì e stimos piò che un pavon in amorpadron permalos de su pulèri e dal su galèniguardien sicur de su pudèrla cresta ed al barboj rossi cl’arlusla longa coda a felza blu sèmpra dretaus ved da luntèn nenca in tla nebia féta cl’as taja cun e curtel.In te mez ad l’éraut guerda tramez al péni dla testacme fos un tòr che in tl’arenal’è preparè a cumbat alla mortapar salvè la su dignità rumagnola.

Il gallo Puntuale piùd'un orologio svizzero, /intonato più d'una trombanel chiarore, / colorato piùd'un arcobaleno dopo untemporale d'estate, / irosopiù d'un cinghiale ferito, /impettito e orgoglioso piùche un pavone in amore, /padrone permaloso del suopollaio e delle sue galline,/ guardiano sicuro del suopodere, / la cresta e i bar-gigli rossi che fanno luce, /la lunga coda a falce, blu,sempre dritta, / lo si vededa lontano anche nella nebbia fitta da tagliarsi col coltello. / Nelmezzo dell'aia / ti guarda attraverso le penne della testa / come se fosseun toro che nell'arena / è pronto a combattere fino alla morte / persalvare la dignità romagnola.

Stal puiðì agli à vent...

Franco Sandoli

Film È verosimile che possa aver già tediato i lettori della Ludla, sostenendo che uno dei futuri ipotizzabili per la lirica dialettale non possa prescindere dal pur gra-duale abbandono di tutti quegli archetipi e quelle convinzioni, inesorabilmente legati a mondi, culture e società d’altri tempi, che ormai non esistono più altro che nel coinvolto ricordo di noi portavoce superstiti. La teoria è confutabile quanto si vuole, resta comun-que il fatto che, vista l’età degli esponenti che hanno avuto rapporti con quel clima intellettuale, a breve l’aggettivo “nuova” non sarà più plausibilmente ap-plicabile ad una poesia ancora condizionata da tali caratteristiche, pensata ed espressa in una qualsiasi delle nostre parlate locali. Allo stesso modo vedo gramo il futuro di quel dialetto

che, per voler restare caparbiamente ancorato solo a specifiche esperienze, non riuscirà a trovare al suo in-terno la forza e la volontà di rinnovarsi con occhio volto all’oggi e magari al domani. Un poeta idoneo all’appellativo, benché assuefatto agli anni e pur senza essere tenuto a rinnegare alcuno dei propri trascorsi, dovrebbe custodire prioritaria co-scienza dell’epoca in cui vive e delle metamorfosi che il tempo, nella sua corsa, opera sulla collettività, sul costume, sul modo di pensare della gente. Franco Sandoli dimostra di saper accettare il confronto e ne dà prova in questa poesia, affrontando in forma nuo-va e senza remore il tema di una relazione giunta a scadenza. Questione antica come il mondo, questa, su cui sono state scritte migliaia di pagine ed affrontata qui dal poeta come se stesse curando la sceneggiatura di un film, una sceneggiatura in cui il ribadirsi inquieto di quel capisci? fa da premessa all’ultimo turbato Va be-ne… prologo, a sua volta, di un uscio che si chiude.

Paolo Borghi Film Stanota ch’an durmiva guardand int e’ suffet ho vest un film ch’u m’à fat pianþ: J’atur a sami me e te firum… in pia… davèinti a ca di tu: t’a i sirta preima te che t’scurivta pianin pianin, cun una gran pazinzia e d’ogni teint “capisci?” givta, “capisci?” E me ch’a n’aveva la forza par guardet, la testa banduneda par un vers a faseva segn ad se, se, se… e dop int un momeint t’a m’è tuchè una spala cun un did e t’è det “va bene?” E me ch’a sareb mort par non es a le ho alzè la testa, ho fat una piga cun la bocca e ho dett “va bene… certo” e po dop inteint ch’andeva a la funteina par lavem la faza te t’è ciuð la porta.

Film. Stanotte che non dormivo/ guardando la parete / ho visto un film che mi ha commosso/ gli attori eravamo io e te / fermi in piedi davanti a casa tua / c’eri tu che parlavi / con un filo di voce, con infinita pazienza / e ogni tan-to”capisci?”/ dicevi”capisci?”/ e io che non avevo la forza per guardarti / la testa rovesciata da una parte / facevo segno di sì, sì, s…/ poi all’improvviso / mi hai toccato una spalla con un dito / e hai detto”va bene?”/ e io che sarei morto per non essere lì / ho alzato la testa ho piegato la bocca / e ho detto “va bene certo” e poi…/ mentre andavo alla fontana per la-varmi la faccia / tu hai chiuso la porta.