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INDICE CAPITOLO 1: INTRODUZZIONE ………………………………………………………… 1. SOCIALISMO E ANALISI ECONOMICO …………………………………………….. Il fallimento storico del socialismo …………………………………………………….. Il punto di vista soggettivo nell’analisi economico del socialismo ………………….. La nostra definizione di socialismo ……………………………………………………. La funzione imprenditoriale e il concetto di socialismo ……………………………… Il socialismo come errore intellettuale ………………………………………………… 2. IL DIBATTITO INTORNO ALL’IMPOSSIBILITÀ DEL CALCOLO ECONOMICO NEL SOCIALISMO ……………………………………………………………………... Ludwig von Mises e l’inizio del dibattito sul socialismo ……………………………... L’indebita deviazione del dibattito verso la statica …………………………………... Oskar Lange e la «soluzione competitiva» …………………………………………… Il «socialismo di mercato» come impossibile quadratura del cerchio ……………... 3. ALTRE POSSIBILI LINEE DI INVESTIGAZIONE …………………………………… 1. Analisi del cosiddetto «socialismo autogestioario» ………………………………. 2. La denominata «pianificazione indicativa» ………………………………………… 3. La salutare depurazione delle «responsabilità scientifiche» …………………….. 4. Conseguenze del dibattito nell’evoluzione e nel futuro sviluppo della Scienza Economica ……………………………………………………………………………. 5. Reinterpretazione e analisi storico dei distinti tipi reali di socialismo …………… 6. Lo sviluppo di una teoria sull’inammissibilità etica del socialismo ……………… 7. Elaborazione di una teoria sulla prevenzione e smantellamento del socialismo. 4. CONCLUSIONE …………………………………………………………………………. CAPITOLO II: LA FUNZIONE IMPRENDITORIALE …………………………………... 1. DEFINIZIONE DELLA FUNZIONE IMPRENDITORIALE …………………………… L’azione umana: fine, valore, mezzo e utilità ………………………………………… Scarsità, piano d’azione e atto di volontà ……………………………………………. Concetto soggettivo di tempo: passato, presente e futuro …………………………. Creatività, sorpresa e incertezza ………………………………………………………. Il costo come concetto soggettivo. Il beneficio imprenditoriale …………………….. Razionalità e irrazionalità. Errore e perdita imprenditoriale ………………………… Utilità marginale e preferenza temporale …………………………………………….. 2. CARATTERISTICHE DELLA FUNZIONE IMPRENDITORIALE …………………… Funzione imprenditoriale e perspicacia Informazione, conoscenza e imprenditorialità Conoscenza soggettiva e pratica, non scientifica Conoscenza privativa e dispersa

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INDICE

CAPITOLO 1: INTRODUZZIONE ………………………………………………………… 1. SOCIALISMO E ANALISI ECONOMICO …………………………………………….. Il fallimento storico del socialismo …………………………………………………….. Il punto di vista soggettivo nell’analisi economico del socialismo ………………….. La nostra definizione di socialismo ……………………………………………………. La funzione imprenditoriale e il concetto di socialismo ……………………………… Il socialismo come errore intellettuale ………………………………………………… 2. IL DIBATTITO INTORNO ALL’IMPOSSIBILITÀ DEL CALCOLO ECONOMICO

NEL SOCIALISMO ……………………………………………………………………... Ludwig von Mises e l’inizio del dibattito sul socialismo ……………………………... L’indebita deviazione del dibattito verso la statica …………………………………... Oskar Lange e la «soluzione competitiva» …………………………………………… Il «socialismo di mercato» come impossibile quadratura del cerchio ……………... 3. ALTRE POSSIBILI LINEE DI INVESTIGAZIONE …………………………………… 1. Analisi del cosiddetto «socialismo autogestioario» ………………………………. 2. La denominata «pianificazione indicativa» ………………………………………… 3. La salutare depurazione delle «responsabilità scientifiche» …………………….. 4. Conseguenze del dibattito nell’evoluzione e nel futuro sviluppo della Scienza

Economica ……………………………………………………………………………. 5. Reinterpretazione e analisi storico dei distinti tipi reali di socialismo …………… 6. Lo sviluppo di una teoria sull’inammissibilità etica del socialismo ……………… 7. Elaborazione di una teoria sulla prevenzione e smantellamento del socialismo. 4. CONCLUSIONE …………………………………………………………………………. CAPITOLO II: LA FUNZIONE IMPRENDITORIALE …………………………………... 1. DEFINIZIONE DELLA FUNZIONE IMPRENDITORIALE …………………………… L’azione umana: fine, valore, mezzo e utilità ………………………………………… Scarsità, piano d’azione e atto di volontà ……………………………………………. Concetto soggettivo di tempo: passato, presente e futuro …………………………. Creatività, sorpresa e incertezza ………………………………………………………. Il costo come concetto soggettivo. Il beneficio imprenditoriale …………………….. Razionalità e irrazionalità. Errore e perdita imprenditoriale ………………………… Utilità marginale e preferenza temporale …………………………………………….. 2. CARATTERISTICHE DELLA FUNZIONE IMPRENDITORIALE …………………… Funzione imprenditoriale e perspicacia Informazione, conoscenza e imprenditorialità Conoscenza soggettiva e pratica, non scientifica Conoscenza privativa e dispersa

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Conoscenza tacita non articolabile Carattere essenzialmente creativo della funzione imprenditoriale Creazione di informazione Trasmissione dell’informazione Effetto apprendimento: coordinazione e adattamento Arbitrato e speculazione Diritto, denaro e calcolo economico Ubiquità della funzione imprenditoriale Il principio essenziale Concorrenza e funzione imprenditoriale La divisione della conoscenza e l’ordine «estensivo» di cooperazione sociale Creatività contro massimizzazione Conclusione: il nostro concetto di società 3. LA FUNZIONE IMPRENDITORIALE E IL CONCETTO DI SOCIALISMO CAPITOLO III: IL SOCIALISMO 1. DEFINISIONE DI SOCIALISMO 2. IL SOCIALISMO COME ERRORE INTELLETTUALE 3. L’IMPOSSIBILITÀ DEL SOCIALISMO DAL PUNTO DI VISTA DELLA SOCIETÀ L’argomento «statico» L’argomento dinamico 4. L’IMPOSSIBILITÀ DEL SOCIALISMO DAL PUNTO DI VISTA DELL’ORGANO

DIRETTORE 5. PERCHÉ LO SVILUPPO DEI COMPUTER IMPOSSIBILITA ANCORA DI PIÙ IL

SOCIALISMO 6. ALTRE CONSEGUENZE TEORICHE DEL SOCIALISMO Scoordinazione e disordine sociale Informazione erronea e comportamenti irresponsabili Effetto corruzione Economia occulta o «irregolare» Arretratezza sociale (economica, tecnologica, culturale) La prostituzione dei concetti tradizionali di legge e giustizia La perversione morale che crea il socialismo Il socialismo come «oppio del popolo» Conclusione: carattere essenzialmente antisociale del socialismo 7. DIFFERENTI TIPI O CLASSI DI SOCIALISMO Il socialismo reale o delle economie di tipo sovietico Socialismo democratico o socialdemocrazia Socialismo conservatore o «di destra» L’ingegneria sociale o socialismo scientista Altri tipi di socialismo (cristiano-solidario, sindacalista, ecc.)

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8. CRITICA DEI CONCETTI ALTERNATIVI DI SOCIALISMO Il suo concetto tradizionale e il processo di formazione del nuovo concetto Socialismo e interventismo L’inutilità dei concetti «idillici»di socialismo Potrà riabilitarsi un giorno il termine«socialismo»? CAPITOLO IV: LUDWIG VON MISES E L’INIZIO DEL DIBATTITO SUL CALCOLO

ECONOMICO 1. ANTECEDENTI 2. L’ESSENZIALE APPORTAZIONE DI LUDWIG VON MISES Carattere e contenuto di base dell’apportazione di Mises 3. IL FUNZIONAMENTO DEL SOCIALISMO SECONDO MARX 4. CONSIDERAZIONI ADDIZIONALI INTORNO ALL’APPORTAZIONE DI MISES La refutazione misesiana di Marx Il calcolo monetario di perdite e guadagni La sufficienza pratica del calcolo economico Il calcolo come problema di carattere essenzialmente economico (e non tecnico) La concezione imprenditoriale e il calcolo economico 5. PRIME PROPOSTE SOCIALISTE DI SOLUZIONE AL PROBLEMA DEL

CALCOLO ECONOMICO Il calcolo economico in specie Il calcolo economico in ore di lavoro Il calcolo economico in unità d’utilità CAPITOLO V: L’INDEBITA DEVIAZIONE DEL DIBATTITO VERSO LA STATICA:

GLI ARGOMENTI DELLA SOMIGLIANZA FORMALE E LA COSIDDETTA «SOLUZIONE MATEMATICA»

1. GLI ARGOMENTI DELLA SOMIGLIANZA FORMALE Gli argomenti della somiglianza formale di Eugen von Böhm-Bawerk e Friedrich

von Wieser L’apportazione di Enrico Barone come argomento di somiglianza formale Altri teorici della somiglianza formale: Cassel e Lindahl 2. ANALISI DELLA SOLUZIONE MATEMATICA L’articolo di Fred M. Taylor L’apportazione di H. D. Dickinson La soluzione matematica nella letteratura tedesca 3. CONSEGUENZE NEGATIVE DELLA «SOLUZIONE MATEMATICA» PER IL

DIBATTITO 4. IL METODO DI «PROVA ED ERRORE» Critica del metodo di prova ed errore 5. L’IMPOSSIBILITÀ TEORICA DELLA PLANOMETRIA

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CAPITOLO VI: OSKAR LANGE E LA «SOLUZIONE COMPETITIVA» 1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE 2. ANTECEDENTI STORICI DELLA «SOLUZIONE COMPETITIVA» Le apportazioni di Eduard Heimann e Karl Polanyi La critica anticipata di Mises, Hayek e Robbins contro la «soluzione competitiva» 3. L’APPORTAZIONE DI OSKAR LANGE: CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE Il modello di Lange-Breit 4. OSKAR LANGE E IL SUO MODELLO CLASSICO DI «SOCIALISMO DI

MERCATO» Prezzi di mercato contro «prezzi parametrici» Il primo paragrafo di Lange Il secondo paragrafo di Lange Il terzo paragrafo di Lange Il quarto paragrafo di Lange 5. ANALISI CRITICO DEL MODELLO CLASSICO DI LANGE Un chiarimento terminologico previo Descrizione del modello Due interpretazioni del modello di Lange Analisi critico delle interpretazioni più ampie del modello di Lange 1.° L’impossibilità di elaborare la lista dei beni di capitale 2.° La completa arbitrarietà del periodo temporale di fissazione dei prezzi

parametrici 3.° L’inesistenza di un vero mercato per il lavoro e i beni e servizi di consumo 4.° L’inutilità delle «regole» proposte da Lange 5.° L’impossibilità teorica del «metodo di prova ed errore» 6.° L’arbitraria fissazione del tasso d’interesse 7.° Ignoranza per quanto riguarda il comportamento tipico degli organismi

burocratici Altri commenti sul modello classico di Lange 6. TERZA E CUARTA TAPPA NELLA VITA DI LANGE Terza tappa: la decada degli anni 40 Quarta tappa: dalla seconda guerra mondiale fino alla sua morte. L’abbandono

del mercato e l’elogio e giustificazione del sistema stalinista Epilogo Langhiano CAPITOLO VII: CONSIDERAZIONI FINALI 1. ALTRI TEORICI DEL «SOCIALISMO DI MERCATO» Evan Frank Mottram Durbin Il libro «The Economics of Socialism» di Henry Douglas Dickinson Il contributo di Abba Ptachya Lerner al dibattito 2. «SOCIALISMO DI MERCATO»: L’IMPOSSIBILE QUADRATURA DEL

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CERCHIO 3. MAURICE H. DOBB E LA COMPLETA SOPPRESSIONE DELLA LIBERTÀ

INDIVIDUALE 4. IN CHE SENSO IL SOCIALISMO È IMPOSSIBILE? 5. CONCLUSIONI FINALI BIBLIOGRAFIA INDICE INDICE DEI NOMI

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE SPAGNOLA

In questa terza edizione del mio libro Socialismo, calcolo economico e funzione imprenditoriale, che sono molto lieto di presentare di nuovo ai lettori e agli studenti di lingua spagnola, si devono tenere in considerazione le tre stesse osservazioni che già facevo quattro anni fa nella prefazione alla seconda edizione e che, quindi, devono essere qui riproposte.

Durante il periodo di tempo trascorso dall’edizione precedente sono accaduti due avvenimenti importanti. Da un lato, è giunta al termine la preparazione della versione inglese di questo libro, che, se Dio vuole e con il titolo Socialism, Economic Calculation and Entrepreneurship, vedrà la luce in Inghilterra e negli Stati Uniti, pubblicata da una prestigiosa casa editrice. Dall’altro, si può constatare come siano sempre più numerosi i ricercatori, alunni e professori, tanto in Spagna come nel resto del mondo, interessati ad approfondire la concezione dinamica della concorrenza e i processi di mercato, applicando questa concezione alla teoria dell’impossibilità del socialismo e dell’interventismo economico. Per questo motivo è stato necessario fondare una rivista scientifica che, con il titolo Procesos de Mercado: Revista Europea de Economía Política, 1 serve da punto di aggregazione e mezzo per la pubblicazione degli sforzi investigativi specialmente delle nuove generazioni di studiosi di quella che oggigiorno si considera costituire, a livello internazionale, la crescente e molto produttiva Scuola Austriaca di Economia; scuola che sta sviluppando un paradigma capace di sostituire quello fino ad oggi dominante, già entrato in una fase di profonda crisi, decadenza e disgregazione.

Infine, deve essere messo in risalto il grande entusiasmo e spirito universitario che, classe dopo classe, manifestano gli alunni che utilizzano questa opera come libro di testo nelle mie lezioni universitarie. Gli alunni, insieme ai miei studenti di dottorato e agli assistenti della cattedra di Economia Politica che occupo all’università Rey Juan Carlos di Madrid, costituiscono il miglior stimolo e il più grande aiuto per continuare a incrementare nel nostro paese il nobile programma di investigazione della Scuola Austriaca di Economia.

Formentera, 22 agosto 2005 JESÙS HUERTA DE SOTO

1 Chiunque sia interessato può ordinare i diversi numeri già pubblicati della rivista Procesos de Mercado tramite l’indirizzo e-mail [email protected], o consultarli nel sito: www.jesushuertadesoto.com.

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Sono lieto di presentare ai lettori di lingua spagnola la seconda edizione del mio libro Socialismo, calcolo economico e funzione imprenditoriale. Considero pertinente fare tre osservazioni in questa Prefazione.

In primo luogo, questa nuova edizione mantiene integralmente il contenuto, la struttura e l’impaginazione della prima edizione. In questo modo si evitano confusioni e si facilita il lavoro degli studiosi e dei ricercatori che lavorano con le già abbondanti referenze e citazioni della prima edizione che sono apparse nella letteratura specializzata. La nuova edizione è stata comunque interamente rivista e corretta dalle inesattezze ed errori che sono sfuggiti nella prima edizione. Inoltre, ne abbiamo approfittato per aggiornare alcuni articoli ed edizioni di libri citati in nota e nella bibliografia, effettuando anche alcune lievi e poco numerose modifiche stilistiche. A parte queste piccole modifiche non è stato effettuato nessun altro cambiamento.

In secondo luogo, per le ragioni indicate nel paragrafo anteriore, abbiamo rinunciato ad includere e commentare in questa edizione i libri e i lavori più significativi, riguardanti il socialismo, che sono stati pubblicati dopo l’uscita della prima edizione: a parte il fatto che non sono molto numerosi, apportano ben poco di nuovo che non sia già stato detto, e un commento dettagliato di tali lavori avrebbe distorto in modo sostanziale il contenuto di questo libro; contenuto che abbiamo preferito lasciar inalterato.2 Nonostante tutto, vale la pena far risaltare la svolta che ha rappresentato la pubblicazione per la prima volta in Spagna di tutti gli articoli scritti da Hayek durante la polemica sul calcolo socialista, inclusi nel Volume 10, intitolato Socialismo y guerra, dell’edizione spagnola delle Obras Completas di F. A. Hayek che dirigo. 3 Per la sua importanza detto volume, di cui i lettori di lingua spagnola non disponevano quando questo testo è apparso nella sua prima edizione del 1992, ne deve essere considerato un completamento obbligatorio.

In terzo luogo, è fonte di grande soddisfazione per l’autore di queste righe il constatare come, durante i nove anni trascorsi dalla pubblicazione della prima edizione, si sia andata sgretolando l’interpretazione tradizionale sul dibattito intorno all’impossibilità del calcolo economico socialista, facendosi largo un nuovo consenso fra gli economisti che, in grande maggioranza, già accettano

2 Val la pena citare, almeno per l’ampiezza del suo approccio, il libro di David Ramsey Steel From Marx to Mises: Post-Capitalist Society and the Challenge of Economic Calculation, Open Court Publishing, La Salle, Illinois 1992. Può essere di un certo interesse anche ricordare la polemica scaturita nell’ambito della Review of Austrian Economics, tra i professori Joseph Salerno, Jörg Guido Hülsmann, Hans-Hermann Hoppe e Leland Yeager durante gli anni 1992-1995 sulla presunta differenza di approcci tra Mises e Hayek nelle loro rispettive critiche al socialismo, e che, per le ragioni che sostengo nelle note a piè di pagina 169 e 178 considero essere, d’accordo con Leland Yeager, più fittizie che reali. 3 F. A. Hayek, Socialismo y guerra, Vol. 10 delle Obras Completas di F. A. Hayek, edizione spagnola, curate da Jesús Huerta de Soto, Unión Editorial, Madrid 1998.

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che questo dibattito sia stato vinto dagli economisti austriaci Mises e Hayek. Una buona prova di questo è ciò che Mark Blaug, uno dei trattatisti di maggior riconosciuto prestigio nel campo della storia del pensiero economico, ha scritto: «lentamente e in modo estremamente riluttante sono giunto a rendermi conto del fatto che loro (i teorici della Scuola Austriaca) sono nel giusto e che tutti noi altri ci siamo sbagliati», affermando inoltre, nel valutare l’applicazione del paradigma neoclassico per giustificare la possibilità del calcolo economico socialista, che è una cosa «tanto ingenua dal punto di vista amministrativo da suscitare ilarità. Solo coloro che sono stati ubriacati dal modello di equilibrio statico di concorrenza perfetta possono aver ingoiato una simile stupidaggine. Io stesso sono stato uno di quelli che se l’è ingoiata nei miei anni da studente negli anni 50 e ora non posso far altro che meravigliarmi di fronte alla mia stessa mancanza di acutezza» 4 Questo riconoscimento è molto importante visto che, solamente abbracciando la concezione dinamica del mercato e del processo imprenditoriale che coltivano gli economisti della Scuola Austriaca, si possono comprendere gli errori socialisti e ciò implica un completo cambio di prospettiva nella scienza economica che, se viene portato avanti, dovrà rivoluzionare i suoi fondamenti e renderla molto più ricca, fruttifera e umanista durante tutto il secolo che è appena cominciato.5

Formentera, 28 agosto 2001 JESÙS HUERTA DE SOTO

4 Mark Blaug e Neil de Marchi, Appraising Economic Theories, Edward Elgar, Londra 1991, p. 508 e The Economic Journal, vol. 103, n 421, novembre 1993, p. 1571. 5 Si veda, a tal proposito, Jesús Huerta de Soto, La Scuola Austriaca: mercato e creatività imprenditoriale, a cura di Paolo Zanotto, Rubettino, 2003. L’autore apprezza l’invio di qualsiasi commentario sulla seconda edizione del suo libro all’indirizzo: [email protected].

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Il presente libro è il risultato di un lungo processo personale di formazione intellettuale che ha avuto inizio quasi vent’anni fa, nell’autunno del 1973, quando cominciai ad assistere grazie a mio padre, Jesús Huerta Ballester, e anche grazie all’esperienza di José Ramón Canosa Penaba, al seminario settimanale sulla Scuola Austriaca che tutti i giovedì pomeriggio tenevano a Madrid i fratelli Joaquín e Luis Reig Albiol, a casa di quest’ultimo. L’entusiasmo e l’instancabile appoggio ricevuto in ogni momento da Luis Reig, insieme alla preparazione, l’assistenza e la partecipazione alle sessioni settimanali di questo seminario, durante tutti gli anni settanta, mi ha offerto non solo una straordinaria esperienza intellettuale di incalcolabile valore nella mia formazione come economista, ma anche l’opportunità di raggiungere la convinzione che solo seguendo il paradigma della Scuola Austriaca si poteva dare una risposta agli interrogativi e una soluzione alle inconsistenze di altri paradigmi alternativi che, come il keynesiano e quello della Scuola di Chicago, al principio mi sono sembrati ingannevolmente attrattivi.

Posteriormente, nel 1980, grazie a una raccomandazione di Friedrich A. Hayek, già premio Nobel di Economia, e a una borsa di studio della Banca di Spagna per la realizzazione di studi superiori di Economia Politica all’Università di Stanford, ho potuto dedicare due corsi accademici ad approfondire le mie conoscenze sulla Scuola Austriaca in generale, e sulla sua teoria del capitale e dei processi di mercato in particolare. Devo riconoscere il grande aiuto che ho ricevuto durante questo periodo da parte di Leonard Liggio e di Walter Grinder, dell’Institute for Humane Studies, allora situato in Menlo Park, giusto affianco all’università, in particolare per aver reso possibile la grande esperienza intellettuale che è stata per me conoscere Murray N. Rothbard, uno dei più brillanti alunni di Ludwig von Mises e importante membro dell’attuale Scuola Austriaca, e discutere con lui alcuni dei temi più polemici e interessanti della Scienza Economica.

Di ritorno in Spagna nel 1983, e in seguito alla soddisfazione per aver ricevuto per mano di sua maestà il re Don Juan Carlos I il Premio Internazionale di Economia che porta il suo nome per i miei studi sui piani privati di pensione e sulla privatizzazione dell’assistenza sociale, fui invitato da Gustavo Villapalos Salas, attuale rettore dell’Università Complutense di Madrid, a formar parte del consiglio accademico di tale Università, nella quale attualmente imparto lezioni di Economia Politica come Professore cattedratico. Devo ringraziare profondamente i miei alunni di Economia Politica, sia dei corsi universitari sia di dottorato, per lo sforzo, l’entusiasmo e la dedizione che hanno avuto nell’apprendere e approfondire i principi essenziali dell’Economia Politica in generale e della Scuola Austriaca in particolare. Il loro elevato numero – con una media di 300 alunni per corso tra il dottorato e il corso universitario, superano già, dopo 7 anni, i 2000 alunni – mi impedisce, per ovvie ragioni di spazio più che di merito, di citare espressamente quelli che più brillantemente si sono distinti. Nonostante ciò, tra tutti loro non posso fare a meno di citare, per il

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loro valore accademico, la loro collaborazione e il loro appoggio Esteban Grándara Trueba, Eugenio Illana Rodríguez, Miguel Angel Ferrero Andrés, Sara González Pérez e Carlos de Miguel.

Durante gli ultimi anni della mia attività docente sono gradualmente giunto alla convinzione che fosse necessario elaborare una teoria del socialismo che, trovandosi profondamente radicata nella metodologia della Scuola Austriaca, si basasse sulla teoria dell’azione umana e della funzione imprenditoriale nella forma in cui sono state sviluppate prima da Ludwig von Mises e poi, soprattutto, da Israel M. Kirzner. Allo stesso modo sono giunto alla conclusione che sia necessario adottare una nuova definizione di socialismo, molto più fruttifera e maggiormente capace di spiegare i problemi reali, che permetta di dare un trattamento unitario ai distinti tipi di socialismo che si danno o si sono dati nella storia, e che, inoltre, possa spingere il futuro sviluppo della scienza economica che, partendo dall’approccio proposto, credo possa e debba convertirsi in una teoria generale sugli effetti della coazione istituzionale.

La prima volta che ho avuto l’opportunità di sommettere a discussione pubblica la mia nuova concezione del socialismo è stata nell’ambito del seminario che ho organizzato per il Liberty Fund nel Real Colegio Universitario María Cristina di San Lorenzo de El Escorial, dal 30 ottobre al 1 novembre del 1988, sul tema «Economic Calculation, Economic Planning and Economic Liberty». In questo seminario sono intervenuti brillantemente, tra gli altri, 6 Gerald P. O’Driscoll e Don A. Lavoie. Quest’ultimo, uno dei maggiori esperti del dibattito riguardante l’impossibilità del calcolo economico nel socialismo, mi ha fatto rendere conto dell’importanza di approfondire questo dibattito, così come della necessità di procedere a una revisione e rielaborazione globale dello stesso dal punto di vista della nuova concezione che avevo proposto.

In questo modo è cominciata la redazione del manoscritto di un’opera che, con il titolo generale di Análisis Critico del Socialismo: Teórico, Histórico e Ético, pretende analizzare con la necessaria estensione e profondità e in modo integrato il fenomeno socialista nelle sue sfaccettature più importanti, e che, sistematizzando e partendo da ciò che hanno realizzato altri teorici in questo campo, permetta dare una significativa serie di passi avanti nella comprensione, spiegazione e prevenzione del socialismo. Il fine di far conoscere i capitoli che man mano si stanno completando, non solo per evitare un innecessario ritardo nella pubblicazione degli stessi, ritardo che sarebbe inevitabile data l’estensione del programma intrapreso, insieme con la necessità pratica di dotare i miei alunni di nuovi e più attuali materiali di studio, hanno consigliato la pubblicazione della prima parte del mio lavoro, quella che basicamente corrisponde alla trattazione teorica dell’analisi critica del socialismo, con il titolo che ora presentiamo di Socialismo, Calcolo Economico e Funzione Imprenditoriale. Lasciando, per una futura pubblicazione, l’applicazione dell’analisi teorica proposta nel presente libro tanto all’interpretazione storica

6 Hanno partecipato a questo seminario del Liberty Fund, oltre ai professori citati nel testo, anche: Karl H. Paqué, dell’Istituto di Economia di Kiel; Charles King, del Liberty Fund; Norman P. Barry, dell’Università di Buckingham; Carlos Rodríguez Braun, José T. Raga Gil, Francisco Cabrillo Rodríguez, Santos Pastor Prieto, Lucas Beltrán Florez e Pedro Schwartz Girón, tutti dell’Università Complutense di Madrid; Antonio Argandoña, dellUniversità Central di Barcellona; Henri Lépage, del Institut de l’Entreprise di Parigi; e Luis Reig Albiol di Madrid.

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dei casi reali di socialismo, come allo studio della sua ammissibilità etica, e allo sviluppo di una teoria sulla sua prevenzione e il suo smantellamento.

Hanno letto il manoscritto del presente libro, offrendo commenti critici e suggerimenti di grande valore, i seguenti professori: Israel M. Kirzner, dell’Università di New York, Lucas Beltrán Florez, José Luis Pérez de Ayala e López de Ayala, Francisco Cabrillo Rodríguez e Carlos Rodríguez Braun, tutti dell’Università Complutense di Madrid; Pedro Schwartz Girón dell’Università Autónoma di Madrid; Santos Pastor Prieto dell’Università Carlos III di Madrid; Joaquín Trigo Portela dell’Università Central di Barcelona; e Javier Paredes Alonso dell’Università di Alcalá de Henares. Ringrazio tutti loro profondamente e sinceramente e li esimo, com’è logico, da qualsiasi responsabilità sul contenuto finale dell’opera. Una prima versione in lingua inglese del terzo capitolo è stata presentata alla riunione regionale della società Mont Pèlerin che ha avuto luogo a Praga i primi giorni di novembre del 1991, essendo poi presentata e discussa in una versione molto più dettagliata nella First European Conference on Austrian Economics che, diretta da Israel M. Kirzner, si è svolta all’Università di Maastrich dal 9 all’11 aprile del 1992.7

Devo ringraziare, inoltre, i miei collaboratori Carmen Galiana, Sandra Moyano e Ann Lewis, per il sacrificio effettuato nello scrivere a macchina e correggere le distinte versioni del manoscritto. Ringrazio anche mia moglie, collaboratrice e alunna Sonsoles Quarte Giménez per il sacrificio, la pazienza e la dedizione con cui ha sopportato le mie lunghe ore di studio e lavoro a discapito di un tempo prezioso che in molte occasioni e in circostanze normali avrei dovuto dedicare alla mia famiglia. Ringrazio di cuore tutti loro.

Señorio de Sarría, 7 luglio 1992

J. H. S.

7 Pubblicata con il titolo: «The Economic Analysis of Socialism», cap. 14 in New Perspectives on Austrian Economics, Gerrit Meijer ed., Routledge, Londra e New York 1995.

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CAPITOLO 1

INTRODUZIONE In questo capitolo introduttivo ci proponiamo riassumere le principali peculiarità e novità dell’analisi del socialismo che effettueremo nel libro. Inoltre, faremo un breve riassunto e una valutazione del contenuto, della struttura e delle conclusioni dell’opera; per terminare, poi, indicando una lista di possibili ambiti di ricerca che, partendo dall’analisi proposta nelle seguenti pagine, riteniamo sarebbe necessario intraprendere per il loro grande interesse e la loro importanza. 1. SOCIALISMO E ANALISI ECONOMICA Il fallimento storico del socialismo

La caduta del socialismo nei paesi dell’Europa dell’est è un avvenimento storico di fondamentale importanza che, senza alcun dubbio, ha preso alla sprovvista la maggior parte degli studiosi di scienza economica. Non si tratta solamente del fatto che l’economia, come scienza, non sia stata all’altezza di circostanze storiche di enorme importanza che non è stata in grado di prevedere, ma, cosa ancor più grave, non ha saputo neppure svolgere il ruolo di fornire al genere umano gli strumenti analitici necessari per permettergli di evitare in tempo i gravi errori commessi.1 In molte occasioni, all’opposto, è stata utilizzata la sua aura e il suo prestigio scientifico per giustificare e mantenere in vita politiche economiche e sistemi sociali che hanno apertamente fallito, con un costo sproporzionato in termini di sofferenze umane.

Di fronte a questa situazione, gli economisti del mondo occidentale, lungi dal manifestare profondo malessere o sconcerto, continuano a praticare la loro scienza come se niente fosse successo.2 Inoltre, in quelle poche occasioni in cui un economista di prestigio ha sollevato la scomoda questione relativa a cosa sia potuto succedere dal momento che la maggioranza dei teorici professionali erano stati incapaci di valutare adeguatamente e prevedere per tempo il corso degli avvenimenti, si sono date risposte che, per il fatto di essere ingenue e superficiali, non sono per nulla soddisfacenti. Si è parlato, per

1 Da questo punto di vista, sembra addirittura poco importante il fatto che l’economia, come scienza, si sia messa di nuovo in evidenza quando è stato necessario avvalersene per portare a termine la transizione verso un’economia di mercato nei sistemi che si sono recentemente sgretolati, essendosi reso evidente il fatto che era che gli economisti avevano indagato poco o niente in questo campo, che fino ad ora non si era considerato di interesse alcuno includere in quasi nessun programma di ricerca scientifica. 2 Non è accaduto lo stesso con gli economisti più prestigiosi dell’Europa dell’est, come avremo la possibilità di analizzare in extenso nei prossimi capitoli. Questi autori, inoltre, sono quelli più coscienti delle insufficienze teoriche della scienza economica occidentale, cosa che spesso produce loro una curiosa sensazione di inquietudine e sconcerto teorico che i loro arroganti colleghi occidentali non riescono a capire.

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esempio, di un «errore» nell’interpretazione dei dati statistici che, procedenti dai sistemi di socialismo reale, sarebbero stati accettati da parte degli esperti senza lo «spirito critico» sufficiente. Si è anche menzionata l’insoddisfacente considerazione scientifica che è stata data al ruolo che giocano gli «incentivi» nella vita economica.3 Fino ad ora non si sono visti molti altri atti di mea culpa da parte della professione e dei suoi membri più in vista. Nessuno, o meglio, quasi nessuno, si è posto il problema che forse l’essenza stessa della questione sia radicata nel metodo e nella forma di fare economia che si sono imposti nella nostra scienza, precisamente durante lo stesso numero di anni nei quali approssimativamente in questo secolo sono sopravvissuti i sistemi socialisti. Sono più che sufficienti le dita di una mano per enumerare quegli economisti che hanno intrapreso l’imprescindibile e trascendentale compito di portare alla luce e rivalutare il contenuto del dibattito riguardo all’impossibilità economica del socialismo che, iniziato da parte di Ludwig von Mises nel 1920, si è esteso durante le successive decadi.4 Lasciando da parte queste eccezioni tanto isolate quanto onorevoli, sembrerebbe che la maggioranza degli economisti preferisca orientare, a partire da ora, le proprie ricerche estendendo la «legge del silenzio» su tutto ciò che si è scritto fino ad oggi riguardo al socialismo, sia da loro stessi che dai loro predecessori.

Nonostante ciò, la pagina del socialismo non può essere archiviata nella storia come se il suo fallimento non dovesse avere alcuna influenza sulla conoscenza umana di tipo scientifico. In effetti, la storia del pensiero economico resterebbe completamente zoppa se questo si disperdesse nuovamente nell’analisi dei «problemi puntuali» più urgenti di ogni momento, dimenticando la fondamentale necessità di sottoporre a una profonda revisione e studio critico le analisi sul socialismo fino ad ora effettuate e, in particolare, di pronunciarsi definitivamente, nei termini di una confutazione teorica, riguardo a questo sistema sociale. Se accadesse questo, infatti, dovremmo necessariamente considerare il fatto che la scienza economica avrebbe di nuovo tradito le grandi speranze che l’umanità ha il diritto di porre su di essa. In effetti, il socialismo, come sistema astratto di pensiero fortemente radicato nell’innata arroganza o superbia razionalista dell’essere umano,5 è storicamente predestinato ad affiorare in modo ricorrente, se non si approfitta dell’opportunità storica che con carattere unico e probabilmente irripetibile ci si presenta ora per fare un profondo «esame di coscienza» teorico, esplicitare gli errori commessi, riesaminare globalmente gli strumenti analitici utilizzati e non lasciare che si dia per chiusa nessuna tappa storica senza aver raggiunto prima le necessarie, e per quanto possibile definitive, conclusioni teoriche.

3 Erano queste le uniche spiegazioni che menzionava Gary Becker nel suo «Presidential Address», nella Riunione Regionale della Società Mont-Pèlerin che ha avuto luogo a Praga, Repubblica Ceca, dal 3 al 6 novembre del 1991, con il titolo generale di: «In Search of a Transition to a Free Society». 4 Tra tutti questi si distingue il lavoro di Don A. Lavoie Rivalry and Central Planning. The Socialist Calculation Debate Reconsidered, Cambridge University Press, Cambridge 1985; lavoro che è diventato un riferimento ineludibile per tutti gli studiosi della materia. 5 Questa è la tesi che F. A. Hayek espone nel suo libro Fatal Conceit. The Errors of Socialism, pubblicato come volume I dei Collected Works of F. A. Hayek, Routledge, Londra, 1989. Esiste una traduzione italiana di questo testo, La presunzione fatale: gli errori del socialismo, Rusconi, Milano, 1997.

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Il punto di vista soggettivo nell’analisi economica del socialismo

La tesi di base che sosteniamo e sviluppiamo in questo libro è che l’analisi del socialismo può e deve essere portata a termine solamente dall’ottica di una profonda e chiara concezione dell’azione umana e dei processi dinamici di interazione sociale a cui questa dà luogo; o, per esprimerlo in un’altra maniera, che l’analisi economica del socialismo effettuata fino ad oggi, per la maggior parte, non è stata capace di incorporare in modo soddisfacente l’individualismo metodologico e la prospettiva soggettivista che, d’accordo con Hayek, sono imprescindibili per lo sviluppo della nostra scienza. In effetti, secondo quest’autore, «it is probably no exaggeration to say that every important advance in economic theory during the last hundred years was a further step in the consistent application of subjectivism».6 Proprio questo è ciò che ci siamo proposti nel nostro lavoro di ricerca riguardante il socialismo, ovverosia svilupparlo sulla base di una radicale e coerente applicazione del «soggettivismo», o, in altre parole, fondarlo sulla più intima ed essenziale caratteristica dell’essere umano: la sua capacità di agire in modo imprenditoriale e creativo.

Da quest’ottica si deve comprendere il continuo sforzo che abbiamo effettuato per sottrarci in ogni momento e in ogni contesto del nostro lavoro dai resti di quell’«oggettivismo» che, esplicitamente o implicitamente, ancora impregna molte aree della nostra scienza, rendendola sterile e complicando enormemente il suo sviluppo futuro. Tuttavia, nonostante non si possa mai raggiungere la sicurezza assoluta di aver evitato tutte le possibilità che lo sterile oggettivismo che inonda la nostra scienza abbia potuto introdursi surrettiziamente nella nostra analisi (forse e specialmente dovuto ai lunghi anni di deformazione accademica che un qualunque studente di economia soffre durante i suoi studi universitari), si è fatto tutto il possibile per rompere con il paradigma imperante che tutto soffoca. Di modo che siamo stati particolarmente attenti a evitare di cadere nell’errore di considerare che i fenomeni economici abbiano un esistenza «materiale» ed «oggettiva» al margine delle interpretazioni e delle conoscenze soggettive che degli stessi 6 «Probabilmente non è nessuna esagerazione l’affermare che tutti i progressi più importanti della teoria economica durante gli ultimi cento anni sono stati il risultato di un applicazione coerente del soggettivismo.» F. A. Hayek, The Counter-Revolution of Science, Free Press of Glencoe, New York 1952, p. 31(esiste una magnifica riedizione di Liberty Press, Indianapolis 1979). Hayek aggiunge nella nota 24 di pp. 209-210 che il soggettivismo «has probably been carried out most consistently by L. v. Mises and I believe that most peculiarities of his views which at first strike many readers as strange and unacceptable, are due to the fact that in the consistent development of the subjectivist approach he has for a long time moved ahead of his contemporaries. Probably all the characteristic features of his theories, from his theory of money to what he calls his apriorism, his views about mathematical economics in general, and the measurement of economic phenomena in particular, and his criticism of planning all follow directly from his central position». (Come nel resto delle note di questo libro, in assenza di una precisa indicazione contraria, il corsivo è mio e non figura nel testo originale. D’altra parte, ogni volta che è stato possibile abbiamo riprodotto le citazioni testuali nella loro lingua originale, sebbene tutte quelle incluse nel testo principale si trovano convenientemente tradotte in italiano nelle note a piè pagina corrispondenti).

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creano continuamente gli esseri umani quando agiscono. Siamo passati, quindi, a concepire l’economia come una scienza che tratta esclusivamente realtà «spirituali», cioè, informazioni o conoscenze soggettive che creano e generano gli esseri umani nei processi di interazione sociale. La nostra definizione di socialismo

Il desiderio annunciato in precedenza di applicare all’analisi del socialismo il soggettivismo con il massimo rigore e la massima fondatezza possibile si plasma, innanzitutto, nella nostra definizione di questo sistema sociale. In effetti, abbiamo precedentemente affermato che per noi l’essenza più intima e caratteristica della natura di ogni essere umano è la sua capacità di agire in forma libera e creativa. Da questo punto di vista, quindi, capiamo che socialismo è un qualsiasi sistema di aggressione istituzionale contro il libero esercizio dell’azione umana o funzione imprenditoriale. Più avanti, nel capitolo III, avremo l’opportunità di esplorare nel dettaglio tutti gli elementi e le implicazioni della nostra definizione, analizzando gli importanti e fruttiferi vantaggi comparativi della stessa in relazione con il resto delle definizioni che sono state utilizzate fino ad oggi. In questo momento ci interessa solamente sottolineare che, concependo il socialismo come la sistematica antiazione violenta o, se si preferisce, coazione istituzionale, la nostra analisi del socialismo inevitabilmente e necessariamente si generalizza e si trasforma in una teoria economica sulla coazione istituzionale. Inoltre, risulta evidente che l’analisi delle implicazioni teoriche che produce l’aggressione sistematica contro le azioni e le interazioni umane esige il conoscere e comprendere previamente con la sufficiente profondità i principi che stanno alla base dell’analisi teorica dell’azione umana non soggetta a coazione; a questo fine viene dedicato tutto il capitolo II di questo libro, che sviluppiamo sotto il generico titolo di «La funzione imprenditoriale». La funzione imprenditoriale e il concetto di socialismo

La nostra concezione della funzione imprenditoriale è molto amplia e allo stesso tempo precisa. In un senso generale consideriamo che i concetti di funzione imprenditoriale e azione umana sono sinonimi. In un senso più stretto, la funzione imprenditoriale consiste nella capacità tipicamente umana di rendersi conto di quali sono le opportunità di guadagno che esistono nel suo intorno. L’azione, quindi, è un fenomeno tipicamente imprenditoriale i cui elementi e caratteristiche principali studieremo con dettaglio nel capitolo II. Tra tutte le caratteristiche la più eminente è la capacità creativa e coordinatrice dell’imprenditorialità. In effetti, ogni atto imprenditoriale crea e genera nuova informazione di natura tacita, dispersa, pratica e soggettiva, e fa sì che gli attori implicati in questo atto tendano ad aggiustare o disciplinare il loro comportamento in funzione delle necessità e circostanze degli altri, creando, in questo modo spontaneo e incosciente, i vincoli che rendono possibile la vita in società. Solo la funzione imprenditoriale, inoltre, è capace di generare l’informazione necessaria per rendere possibile il calcolo economico, inteso come qualsiasi giudizio estimativo riguardante i risultati dei diversi corsi d’azione. L’adeguata identificazione e comprensione dell’essenza di questo meraviglioso processo di organizzazione sociale e di calcolo economico, che

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sorge solamente dalla funzione imprenditoriale, permette di capire, per contrasto e confronto, i gravi effetti di scoordinazione sociale e di assenza di calcolo economico che per forza deve produrre qualsiasi coazione istituzionale esercitata contro la libera funzione imprenditoriale. Solo un’adeguata comprensione dell’essenza dei processi del mercato e della società può far capire chiaramente tutte le implicazioni, principali e secondarie, del sistema socialista che, da quest’ottica e in modo interconnesso, sono dettagliatamente analizzate nel capitolo III. Il socialismo come errore intellettuale

Ebbene, se il socialismo è stato in molte occasioni difeso nei circoli scientifici, politici o filosofici, è perchè si è creduto che il processo di organizzazione sociale si potesse rendere molto più efficace e perfetto con l’utilizzo sistematico della coazione. Dedichiamo tutta la prima metà del capitolo III a confutare teoricamente questa idea, elaborando il nostro argomento da due punti di vista, quello «statico»7 e quello «dinamico», che sono distinti però complementari. La nostra conclusione è che il socialismo, inteso in questa maniera, non è altro che un errore intellettuale, dal momento che teoricamente non è possibile organizzare la società mediante l’utilizzo e l’imposizione sistematica di mandati coattivi.

La seconda metà del terzo capitolo si dedica, da un lato, a studiare le implicazioni e conseguenze del nostro argomento essenziale in una prospettiva concatenata e multidisciplinare; dall’altro a spiegare e difendere la nostra definizione del socialismo davanti alle concezioni alternative che storicamente sono state adottate. Infine, si presenta un’anatomia delle differenti varietà o tipi storici di socialismo che, distinguendosi tra loro per quanto riguarda le differenti motivazioni, i differenti gradi di interventismo e altre peculiarità, condividono il comune denominatore di fondarsi, in misura maggiore o minore, sull’uso sistematico della violenza contro il libero esercizio della funzione imprenditoriale. 2. IL DIBATTITO SULL’IMPOSSIBILITÀ DEL CALCOLO ECONOMICO NEL SOCIALISMO

Alla luce dell’analisi del socialismo che abbiamo commentato nel paragrafo precedente si rende evidente la necessità di rivalutare il dibattito sull’impossibilità del calcolo economico socialista che ha avuto luogo negli anni venti e trenta di questo secolo tra Mises e Hayek, da un lato, e differenti teorici

7 Il nostro argomento «statico» non ha nulla a che vedere con l’analisi dell’equilibrio o concezione statica che tanto criticheremo più avanti, nel capitolo IV e, in generale, nel corso di tutto il libro. Ciononostante, per riferirci al carattere disperso di una informazione ipoteticamente già creata non abbiamo trovato un termine migliore per distinguerlo dall’argomento più «dinamico», che si riferisce al processo di creazione di nuova informazione. Più avanti (p.?? ) vedremo come i nostri due argomenti, lo «statico» e il «dinamico», siano dal nostro punto di vista ugualmente dinamici e, per tanto, ugualmente incomprensibili per l’analisi economica dell’equilibrio. Questo accade perchè entrambi gli argomenti si riferiscono a processi sociali simultanei e indistinguibili, che studiamo separatamente solo per ragioni strettamente didattiche.

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favorevoli al socialismo, dall’altro. In primo luogo, ricordiamo, come abbiamo argomentato in precedenza, che la caduta storica del socialismo recentemente avvenuta nei paesi dell’est d’Europa obbliga qualsiasi ricercatore serio e onesto a ripassare e rivalutare ciò che nel campo della teoria riguardante il socialismo è stato detto in precedenza da parte di quei teorici che con più impegno e profondità hanno studiato i problemi da essa implicati. In secondo luogo, la nostra concezione della funzione imprenditoriale e del socialismo non sono altro che il culmine di una sintesi teorica che, in forma embrionale, sorge con l’inizio del dibattito e si forma e perfeziona evolutivamente e gradualmente man mano che questo si sviluppa; l’analisi e la rivalutazione del dibattito è, per tanto, imprescindibile per comprendere dettagliatamente e chiaramente tutte le implicazioni dell’analisi del socialismo che qui proponiamo. Infine, lo studio del dibattito rende manifesto il fallimento del paradigma dominante, basato sull’analisi dell’equilibrio, nel capire i problemi teorici del socialismo. In effetti, il fatto di fondare quest’analisi nello studio del problema dall’ottica del meccanicismo newtoniano e dell’equilibrio, o, se si preferisce, dell’«inazione ripetitiva», rende impossibile addirittura distinguere quale sia l’ineludibile problema teorico che pone la coazione istituzionale. Il fatto, inoltre, che la maggioranza dei commentatori e autori delle fonti secondarie riguardanti il dibattito procedano dal paradigma menzionato in precedenza spiega perchè furono incapaci di comprendere il contenuto della sfida lanciata da Mises e Hayek, così come la sopravvivenza durante tanti anni del «mito» riguardante il trionfo del lato socialista nella polemica che stiamo commentando. Ludwig von Mises e l’inizio del dibattito sul socialismo

Non è una pura casualità il fatto che il dibattito iniziasse in seguito ai contributi elaborati da Mises poco dopo la prima guerra mondiale. In effetti, solo qualcuno che, come Mises, fosse riuscito ad avere una profonda conoscenza dell’essenza e delle implicazioni dei processi di mercato mossi dall’azione umana sarebbe stato capace di intuire e comprendere gli inevitabili problemi di calcolo economico implicati dal socialismo. Dedicheremo tutto il capitolo IV a studiare gli antecedenti e il contenuto del contributo fondamentale di Mises. In questo capitolo mettiamo un’enfasi speciale sia al momento di collocare Mises nel contesto storico nel quale portò a termine il suo storico e trascendentale contributo e nel quale predominava una concezione del socialismo tipicamente marxista, sia al momento di dimostrare che l’analisi del socialismo di Mises è un’analisi, all’interno della migliore tradizione della Scuola Austriaca, di teoria dinamica e, per tanto, non ha nulla a che vedere con l’analisi statica dell’equilibrio e neppure con la «logica pura della scelta» che è stata elaborata intorno allo stesso. Il capitolo termina con uno studio critico dettagliato delle prime proposte socialiste di «soluzione» al problema del calcolo economico: il calcolo in natura, in ore di lavoro e il così chiamato calcolo in «unità di utilità», nessuna delle quali è riuscita a far fronte agli inevitabili problemi teorici sollevati da Mises.

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L’indebita deviazione del dibattito verso la statica

L’assurda idea che sia «teoria» solo l’analisi economica dell’equilibrio, che impregna e sta alla base del paradigma dominante, deviò inevitabilmente il dibattito verso i problemi della statica. Per questo motivo, così come studiamo nel capitolo V, gli economisti non capirono la sfida di Mises e, o per il fatto di rendersi conto che la sua analisi non era di equilibrio non la considerarono come «teorica», ma tutt’al più relativa a questioni pratiche; o, come è successo con la maggior parte degli studiosi, interpretarono la sfida misesiana nei ristretti termini dell’equilibrio e la rigida «logica pura della scelta», senza rendersi conto che lo stesso Mises, sin dal principio, aveva stabilito in modo evidente che il socialismo non sollevava alcun problema in termini statici, e proprio per questo il suo argomento teorico contro il socialismo era essenzialmente dinamico e si basava nella sua teoria dei processi di interazione umana che avvengono nel mercato. Proprio per questo la deviazione del dibattito verso la statica è stata irrilevante (la statica, infatti, non aveva nulla a che vedere con la sfida teorica proposta da Mises contro il socialismo), e oltretutto indebita, per il fatto che ha reso completamente sterile la polemica teorica (il punto di vista statico ha impedito di vedere dove radicava il problema e di comprendere la sua natura essenzialmente insolubile). Nel capitolo V analizzeremo, inoltre, i diversi tentativi di «soluzione matematica» proposti dagli economisti socialisti, cominciando dall’argomento della «somiglianza formale» esistente in termini statici tra il mercato e il socialismo, e terminando con i contributi più depurati di Taylor e Dickinson. In seguito si effettuerà un dettagliato studio del «metodo di prova ed errore», concepito come sistema pratico di soluzione al corrispondente sistema di equazioni. Questo capitolo termina con un’analisi critica dei modelli «planometrici» che, fondati nei contributi dei teorici socialisti descritti nello stesso, si sono continuati a sviluppare fino ai nostri giorni con cocciuta insistenza. Oskar Lange e la «soluzione competitiva» Probabilmente, l’idea che Oskar Lange sia stato capace di confutare teoricamente l’argomento di Mises contro il socialismo è uno dei miti più importanti nella storia del pensiero economico. In effetti, sia i manuali e i libri di testo più conosciuti, sia praticamente tutte le fonti secondarie riguardanti il dibattito raccolgono, in una forma tanto categorica quanto superficiale, la versione mitica sopra menzionata secondo la quale Mises sia stato confutato da Lange. Questo mito, a sua volta, è stato tramandato, senza alcuna giustificazione né analisi critica, a due generazioni intere di economisti. Per questo motivo abbiamo considerato imprescindibile effettuare uno studio critico molto dettagliato e minuzioso della «soluzione competitiva» proposta da Oskar Lange, che includiamo nel capitolo VI e che, per il suo contenuto, estensione e profondità è forse una delle parti più innovative e illustrative del nostro sforzo di applicare la metodologia soggettivista all’analisi economica del socialismo. Di fatto, sarà sufficiente che il nostro studio contribuisca, insieme con altri contributi recenti sulla materia che saranno citati a tempo debito, almeno a far cadere definitivamente il mito che Mises sia stato confutato da Lange, per poterci considerare sufficientemente soddisfatti del nostro lavoro.

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Il «socialismo di mercato» come impossibile quadratura del cerchio

Il settimo e ultimo capitolo completa la nostra analisi sulla «soluzione competitiva» con lo studio dei contributi realizzati al rispetto, posteriormente a Oskar Lange, da parte di Dickinson, Durbin e Lerner; in questo capitolo giungeremo alla conclusione che la concorrenza e il socialismo, tanto quanto l’azione creativa e la coazione, sono concetti radicalmente ed essenzialmente contraddittori. Curiosamente, questa stessa posizione è stata sostenuta, cosa che studieremo in seguito, da parte di tutta una corrente di teorici socialisti che, guidati da Dobb, hanno sempre tacciato di ipocriti e visionari i loro colleghi sostenitori del socialismo di mercato. In seguito ad alcune considerazioni sul vero senso dell’impossibilità del socialismo si include alla fine di questo stesso capitolo un breve riassunto delle conclusioni più importanti del nostro studio. 3. ALTRE POSSIBILI LINEE DI RICERCA

L’analisi teorica del socialismo che si propone in questo lavoro non si esaurisce, come è logico, con lo stesso. Al contrario, consideriamo il nostro studio come un primo passo che apre il cammino a una serie di linee di ricerca che, seguendo il punto di vista metodologico sviluppato in quest’opera, riteniamo si possano intraprendere o rielaborare con risultati molto promettenti. Tra tutte queste future linee di ricerca potremmo evidenziare le seguenti:8 1. Analisi del denominato «socialismo autogestionario»

Anche se oggi si trova molto in discredito, soprattutto per il sonoro fallimento economico, sociale e politico del modello iugoslavo, riteniamo di grande interesse teorico l’applicazione del nostro approccio al «socialismo autogestionario» o «sindacalista», specialmente per i peculiari problemi di coordinazione che questo modello solleva a tutti i livelli, così come per il fatto che questo spesso sia stato definito come una «terza via», capace di risolvere i problemi che sollevano tanto il capitalismo come il socialismo, intesi nel loro senso tradizionale. 2. La cosiddetta «pianificazione indicativa»

Nonostante oggi sia praticamente relegata nel dimenticatoio, crediamo che lo studio della pianificazione indicativa sia necessario per i seguenti motivi. In primo luogo perchè questo modello ha avuto un nutrito gruppo di difensori, in special modo negli anni sessanta, che hanno tentato di giustificare le loro posizioni sulla base di argomenti teorici, molto simili nella loro essenza a quelli che stanno alla base del modello del «socialismo di mercato», e che a quei tempi non hanno praticamente ricevuto risposta. Per questo oggi, nonostante sia caduta in disuso, è necessario tornare ad analizzare adeguatamente la «pianificazione indicativa», prima di chiuderla definitivamente. In secondo 8 La lista, evidentemente, non pretende essere esaustiva e corrisponde allo schema di un secondo volume sul socialismo, continuazione di questo, il cui contenuto, in relazione con alcune delle linee di investigazione menzionate, è stato già, almeno parzialmente, elaborato.

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luogo, perchè, come conseguenza del curioso fenomeno che abbiamo appena descritto (cioè l’abbandono o l’oblio di una serie di posizioni teoriche senza aver effettuato lo studio necessario e la dovuta sentenza scientifica sulle stesse), diversi economisti dei paesi dell’Europa dell’est hanno avuto la pretesa di resuscitare di nuovo la «pianificazione indicativa» come panacea per rendere possibile la resurrezione delle loro economie. In terzo luogo, infine, è necessario risaltare che la nostra analisi del socialismo trova un perfetto campo di applicazione nella teoria della «pianificazione indicativa», dato che sono gli stessi argomenti teorici che spiegano l’impossibilità del socialismo, e che analizzeremo in questo libro, quelli che impediscono che la pianificazione indicativa possa riuscire a raggiungere gli obbiettivi che pretende. Lo stesso succede con tutto un insieme di tecniche che, come le tavole imput-output, molti economisti scientisti seguono cocciutamente pretendendo utilizzarle come uno strumento per rendere fattibile la pianificazione (che sia indicativa o meno).9 3. La salutare depurazione delle «responsabilità scientifiche»

Uno degli aspetti più curiosi in relazione al dibattito sull’impossibilità del calcolo economico socialista è quello relativo alla formazione e al mantenimento durante un lunghissimo numero di anni (quasi quaranta) del mito che il dibattito fosse stato «vinto» dai teorici socialisti e, per tanto, che il socialismo come modello non sollevasse alcun problema teorico. Del sorgere di questo mito sono responsabili in special modo, non solo gli autori che hanno elaborato le fonti secondarie riguardanti il dibattito, ma anche tutta una serie di economisti che durante tutti questi anni hanno dato per buona la versione più popolare senza disturbarsi ad approfondire per loro conto, o semplicemente hanno ignorato tutto il dibattito considerando evidente che il socialismo non sollevasse alcun problema teorico. Nonostante possiamo affermare che la maggior parte della comunità degli scienziati sociali, in relazione con il problema sollevato dal socialismo, non sia stata all’altezza del compito che l’umanità aveva diritto di esigere loro, fallendo anche al momento di compiere il suo importantissimo dovere scientifico di avvisare ed avvertire i cittadini dei gravi pericoli inerenti l’ideale socialista, esiste una grande differenza a livello individuale da parte di ogni teorico tra i casi di mala fede, negligenza, o semplice ignoranza. Per questo diventa imprescindibile portare a termine una molto salutare e formativa depurazione delle responsabilità scientifiche che, di fronte alla cittadinanza e al futuro della storia del pensiero economico, situi ogni teorico, indipendentemente dalla fama, nome o popolarità, raggiunta in modo contingente o passeggero, nel luogo che realmente gli corrisponda.10

9 È il caso, per esempio, dell’economista scientista Wasily Leontief che, sempre desideroso di trovare nuove «applicazioni» per la sua «creatura intellettuale» (tavole input-output), non ha dubbi al momento di proporre continui interventi e aggressioni nel corpo sociale. Si veda, a tal proposito, «Leontief and the Critique of Aggregative Planning», in Don A. Lavoie, National Economic Planning: What is Left?, Ballinger Publishing, Cambridge, Massachusetts 1985, pp. 93-124. 10 Un esempio di questo campo di ricerca si trova nell’interessantissimo lavoro di Don A. Lavoie «A Critique of the Standard Account of the Socialist Calculation Debate», pubblicato dal The Journal of Libertarian Studies. An interdisciplinary Review, volume V, n 1, inverno 1981, pp. 41-87.

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4. Conseguenze del dibattito nell’evoluzione e nello sviluppo futuro della scienza economica

La tesi probabilmente più audace sostenuta nel nostro lavoro è forse quella

che la caduta del socialismo avrà un profondo impatto sul paradigma oggi dominante e la forma di fare scienza economica nel futuro. Il fatto è che sembra evidente che qualcosa di cruciale ha fallito in Economia dal momento che un fatto tanto trascendentale non ha potuto essere adeguatamente analizzato con carattere previo, salvo rarissime eccezioni. Per fortuna, attualmente, e grazie al duro colpo ricevuto, siamo in condizione di valutare correttamente la natura e il livello della mancanza di lenti adeguatamente graduate degli «occhiali teorici» del paradigma dominante, che fino ad ora ha impedito alla professione di apprezzare e interpretare con la sufficiente chiarezza i fatti più rilevanti del mondo sociale. Non sarà, inoltre, necessario ricominciare da zero dato che gran parte dei nuovi strumenti analitici sono stati elaborati e perfezionati proprio come conseguenza e impulso della necessità della Scuola Austriaca di spiegare, difendere e depurare le sue posizioni durante il dibattito intorno alla possibilità del calcolo economico socialista.11

Anche se non è possibile enumerare qui tutte le aree della nostra disciplina che ne sono state influenzate né, tanto meno, sviluppare con dettaglio il nuovo contenuto di queste aree, possiamo, come esempio e senza la pretesa di essere esaustivi, enumerarne alcune. Tra tutte forse bisognerebbe cominciare con il problema del metodo adeguato per la nostra scienza. Il fatto è che sono proprio le stesse ragioni che rendono impossibile il socialismo (relative al carattere soggettivo, creativo, disperso e non articolabile dell’informazione che si utilizza nella società) quelle che rendono impossibili anche gli ideali di contrastazione empirica e misura specifica che fino ad oggi si sono mantenuti con tanta illusione quanta ingenuità. Tutto ciò senza che sia necessario riferirci agli effetti negativi che hanno avuto sullo sviluppo della nostra scienza il formalismo matematico e la perniciosa ossessione per le analisi basate sull’informazione completa e sull’equilibrio. Allo stesso modo, è necessario abbandonare la teoria funzionale della determinazione dei prezzi e sostituirla con una teoria dei prezzi che spieghi come questi si formano dinamicamente come risultato di un processo sequenziale ed evolutivo mosso dalla forza della funzione imprenditoriale; cioè mosso dalle azioni umane degli attori implicati nel processo, e non dall’intersezione di misteriose curve o funzioni carenti di qualsiasi contatto con la realtà, dato che l’informazione necessaria per elaborarle non esiste neppure nella mente degli attori implicati. È necessario, inoltre, abbandonare la rozza teoria statica della concorrenza «perfetta» e del monopolio, sostituendola con una teoria della concorrenza intesa come processo dinamico di rivalità prettamente imprenditoriale, che rende irrilevanti e inesistenti i problemi riguardanti il monopolio inteso in senso tradizionale, e che 11 Israel M. Kirzner ha reso manifesta la grande importanza che il dibattito sull’impossibilità del calcolo economico socialista ha avuto come catalizzatore all’ora di rendere possibile lo sviluppo, il perfezionamento e la corretta articolazione delle teorie della Scuola Austriaca, in generale, e, in particolare, dell’analisi e della comprensione della teoria della funzione imprenditoriale e dei processi dinamici di creatività e scoperta che si creano nel mercato. Si veda, a questo proposito, «The Economic Calculation Debate: Lessons for the Austrians», The Review of Austrian Economics, volume 2, Lexinton Books, Massachusetts 1988, pp. 1-18.

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pone l’accento nelle restrizioni di tipo istituzionale al libero esercizio dell’imprenditorialità in qualsiasi area del mercato.

La stessa teoria del capitale e dell’interesse si vede profondamente influenzata dalla concezione soggettivista che considera bene di capitale tutte e ognuna delle tappe intermedie, considerate soggettivamente come tali da parte dell’attore, all’interno del contesto dell’azione concreta in cui si vede immerso; è proprio il culmine di questa esperienza ciò che genera l’idea soggettiva del trascorso del tempo. Il capitale appare come una categoria mentale del calcolo economico o stima soggettiva da parte dell’attore del valore, a prezzi di mercato, di ognuna delle suddette tappe. Questo concetto chiarisce, inoltre, il carattere protagonista della preferenza temporale al momento di determinare l’interesse, così come l’inesistenza di alcuna relazione causale tra l’interesse e la produttività del capitale. Il credere in questa relazione si basa su tre differenti errori che però sono intimamente relazionati tra loro: l’analisi esclusiva di uno stato di equilibrio con aggiustamento perfetto, il considerare la produzione come un «processo» istantaneo che non richiede tempo, e il credere che il capitale sia un mitico «fondo» che possiede un’esistenza reale separata dalla mente umana e che si riproduce da solo.

È forse la teoria del denaro, del credito e dei mercati finanziari quella che costituisce la sfida teorica più importante per la nostra scienza nel secolo a venire. Ci azzardiamo ad affermare, infatti, che una volta colmato il «gap teorico» che rappresentava l’analisi del socialismo, il campo meno conosciuto e allo stesso tempo più trascendentale sia quello monetario, dove imperversano la coazione sistematica, gli errori metodologici e l’ignoranza teorica. Il fatto è che le relazioni sociali che implicano il denaro sono, di gran lunga, le più astratte e difficili da capire,12 per il fatto che la conoscenza generata e implicata da queste è la più vasta, complessa e inaccessibile; cosa che fa sì che la coazione sistematica in questa area sia, con differenza, la più dannosa e pregiudiziale. La teoria dell’interventismo, in generale, e quella dei cicli economici, in particolare, sono perfettamente inglobate nella definizione e nell’analisi del socialismo proposte in questo libro e spiegano chiaramente gli effetti perturbatori sull’organizzazione intratemporale e intertemporale del mercato che causa la coazione sistematica in tutte le aree e in special modo in quella monetaria e fiscale.

La teoria della crescita e dello sviluppo economico basata sull’equilibrio e sugli aggregati macroeconomici si è venuta elaborando senza tener conto dell’unico e vero protagonista del processo: l’essere umano e la sua perspicacia e capacità creativa imprenditoriale. È per tanto necessario ricostruire tutta la teoria della crescita e del sottosviluppo eliminando tutti gli elementi che giustifichino la coazione sistematica che fino ad ora l’hanno resa dannosa e sterile, focalizzandola nuovamente sullo studio teorico dei processi di scoperta delle opportunità di sviluppo che non vengono sfruttate, per la mancanza dell’imprescindibile elemento imprenditoriale. Qualcosa di simile possiamo dire 12 «The operation of the money and credit structure has, with language and morals, been one of the spontaneous orders most resistant to efforts at adequate theoretical explanations, and it remains the object of serious disagreement among specialist … The selective processes are interfered with here more than anywhere else: selection by evolution is prevented by government monopolies that make competitive experimentation impossible» F. A. Hayek, The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, The University of Chicago Press, Chicago 1989, pp. 102-103.

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riguardo a tutta la cosiddetta economia del benessere, che, fondata sul fantasmagorico concetto paretiano di efficienza, si rende irrilevante e inutile, dato che esige per la sua trattamento concreto un intorno statico e di informazione completa che non si dà mai nella vita reale. L’efficienza, quindi, più che dai criteri paretiani dipende e deve essere definita in termini di capacità della funzione imprenditoriale di coordinare in modo spontaneo la scoordinazione che insorge nelle situazioni di disequilibrio. La teoria dei beni «pubblici» fin dal principio è stata costruita in termini strettamente statici e di equilibrio, presupponendo che le circostanze che determinano la cosiddetta «offerta congiunta» e la «non rivalità nel consumo» siano date e non cambieranno mai. Dal punto di vista della teoria dinamica della funzione imprenditoriale, qualsiasi apparente situazione di bene «pubblico» crea una chiara opportunità di essere scoperta ed eliminata attraverso la corrispondente creatività imprenditoriale; per questo motivo la prospettiva dinamica dei processi imprenditoriali esercitati liberamente tende a rendere vuoto l’insieme dei beni «pubblici», facendo sparire in questo modo uno degli alibi più banali per giustificare in molte aree sociali la coazione sistematica e istituzionale contro il libero esercizio della funzione imprenditoriale.

Infine, dobbiamo fare un breve accenno alla teoria della scelta pubblica e alla denominata analisi economica del diritto e delle istituzioni, che, attualmente, si dibattono per sbarazzarsi dall’influenza malsana del modello statico basato sull’informazione completa e che sta motivando un’analisi pseudoscientifica di molte norme, sulla base di alcuni presupposti metodologici identici a quelli che a suo tempo si sono voluti utilizzare per giustificare il socialismo e che lasciano totalmente da parte l’analisi dinamica ed evolutiva dei processi sociali di tipo spontaneo generati e stimolati dall’imprenditorialità. Il fatto è che risulta evidentemente contraddittorio pretendere di analizzare le norme e le regole basandosi su un paradigma che presuppone l’esistenza di informazione completa riguardo i benefici e i costi che derivano dalle stesse, dato che, se esistesse tale informazione, le regole e le norme non sarebbero necessarie (potrebbero sostituirsi più efficacemente con semplici mandati), e, se c’è qualcosa che giustifica l’emergere evolutivo del diritto, questo qualcosa è proprio l’ignoranza non sradicabile nella quale si vede costantemente immerso l’essere umano.

Potremmo menzionare molti altri campi di investigazione (teoria della popolazione, analisi economica degli ingressi fiscali, la redistribuzione, l’ecologia di mercato ecc.), però crediamo che con le aree sopra menzionate abbiamo già illustrato sufficientemente il cammino che riteniamo intraprenderà nel futuro la scienza economica, una volta depurata dai vizi teorici e metodologici che la caduta del socialismo ha messo in evidenza. Ci auguriamo, inoltre, che tutto ciò porti allo sviluppo di una vera scienza sociale al servizio dell’umanità, molto più amplia, ricca e esplicativa. 5. Reinterpretazione e analisi storica dei distinti tipi reali di socialismo

In questo ambito di investigazione si tratta di rielaborare, alla luce dell’analisi economica del socialismo che proponiamo in questo libro, il lavoro fatto nel campo dei «sistemi economici comparati», e che nella maggior parte, per la carenza dei necessari strumenti analitici, fino ad ora ha evidenziato importanti difetti. L’obbiettivo è, per tanto, portare a termine un dettagliato studio di

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reinterpretazione storica di ognuno dei distinti tipi di socialismo che sono esistiti e continuano a esistere nel mondo reale, con la finalità non solo di illustrare la teoria, ma anche di osservare fino a che punto i fatti sembrano svilupparsi, o meno, secondo i dettami della teoria. 6. Lo sviluppo di una teoria sull’inammisibilità etica del socialismo

È necessario chiedersi se gli sforzi effettuati per trovare un fondamento teorico all’idea di giustizia e alle sue implicazioni siano vittima o no dei vizi metodologici e analitici criticati nel nostro lavoro. O, per dirla in altro modo, bisogna provare a ricostruire la teoria della giustizia abbandonando il paradigma statico e di informazione completa, per dare spazio alla realtà creativa e incerta dell’azione umana, in modo da poter studiare fino a che punto il socialismo, oltre che essere un errore intellettuale e un fallimento storico, sia o meno eticamente inammissibile. 7. Elaborazione di una teoria sulla prevenzione e sullo smantellamento del

socialismo

Se si giunge alla conclusione che il socialismo, oltre che essere un errore intellettuale e un fallimento storico, è eticamente inammissibile, sarà infine necessario elaborare una teoria tattica e strategica sullo smantellamento e sulla prevenzione del socialismo. Si tratterà di studiare le difficoltà specifiche che suppone lo smantellamento di ogni tipologia storica di socialismo («reale», socialdemocratico, autogestionario, ecc.), valutando in generale i vantaggi e gli inconvenienti delle distinte alternative o corsi d’azione, e, in particolare, del «gradualismo versus la rivoluzione», secondo le circostanze specifiche che si possono dare in ognuno dei casi particolari. La prevenzione, infine, acquisisce un’importanza capitale, dato il carattere ricorrente, sinuoso ed essenzialmente corruttore dei meccanismi che fomentano in ogni momento la resurrezione del socialismo e che rende necessario lo stare continuamente allerta, non solo in campo scientifico, ma anche all’ora di difendere e fomentare le istituzioni, le abitudini, i principi e i comportamenti regolati che qualsiasi contesto sociale sano e libero da coazioni esige. 4. CONCLUSIONE

Era necessario effettuare tutte le anteriori considerazioni per situare dovutamente nel suo contesto il nostro studio sul socialismo e sulla coazione istituzionale. Solo un’adeguata comprensione della teoria generale dell’azione umana può chiarire le inevitabili conseguenze che sorgono sempre quando si tenta di impedire con la forza il libero esercizio dell’azione imprenditoriale. Il centro della nostra analisi è, per tanto, l’essere umano, inteso come soggetto attore e creativo, che lotta coraggiosamente nel corso della storia per manifestare ed esercitare la sua natura più intima, libera dagli ostacoli e coazioni che, in modo sistematico e con i pretesti più disparati e ingiustificati, gli si vuole imporre.

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CAPITOLO II

Dal momento che non è possibile capire il concetto di socialismo senza prima capire l’essenza della funzione imprenditoriale, questo capitolo si dedica a studiare il concetto, le caratteristiche e gli elementi basici dell’imprenditorialità. La nostra idea della funzione imprenditoriale è molto precisa e allo stesso tempo generica. È in stretta relazione con un concetto dell’azione umana intesa, da un lato, come una caratteristica essenziale ed eminentemente creativa di ogni essere umano e, dall’ altro lato, come un insieme di capacità di coordinamento che sono quelle che rendono possibile in modo spontaneo la nascita, il mantenimento e lo sviluppo della civiltà. Infine, la nostra analisi dell’imprenditorialità ci permetterà di proporre una definizione originale di socialismo, inteso come «malattia sociale» i cui sintomi più caratteristici sono un disadattamento generalizzato e un esteso scoordinamento dei comportamenti individuali e dei processi sociali che costituiscono la vita nella società.

1. DEFINIZIONE DELLA FUNZIONE IMPRENDITORIALE.

In un senso ampio e generale la funzione imprenditoriale coincide con la stessa azione umana. In questo senso si potrebbe affermare che la funzione imprenditoriale è esercitata da qualsiasi persona che agisce per modificare il presente e raggiungere i propri obbiettivi nel futuro. Benché questa definizione a prima vista possa sembrare troppo ampia e non in linea con gli attuali usi linguistici, bisogna tener conto del fatto che essa risponde a una concezione dell’imprenditorialità sempre più elaborata e studiata dalla scienza economica1 e che, inoltre, è pienamente conforme all’originale significato etimologico del termine empresa. In effetti, tanto il termine spagnolo empresa quanto le espressioni francese e inglese entrepreneur2 procedono etimologicamente dal verbo latino in

1 Colui che ha scritto il principale trattato sulla concezione della funzione imprenditoriale sviluppata in questo libro è Israel M. Kirzner, Professore di Economia dell’Università di New York. Kirzner è autore di una trilogia (Competition and Entrepreneurship, Perception, Opportunity and Profit e Discovery and the Capitalist Process; libri pubblicati da The University of Chicago Press, Chicago 1973, 1979 e 1985 rispettivamente; del primo di questi libri esiste una traduzione in spagnolo, pubblicata nel 1975 a Madrid da Unión Editorial, con il titolo Competencia y Función Empresarial) in cui amplia e approfondisce impeccabilmente i diversi aspetti della concezione di imprenditorialità che era stata sviluppata inizialmente dai suoi maestri Ludwig von Mises e Friedrich A. Hayek. Inoltre, Kirzner ha dato alla luce un altro libro tutto dedicato a studiare le implicazioni che ha, nel campo dell’etica sociale, la sua concezione dell’ imprenditorialità, intitolato Discovery, Capitalism, and Distributive Justice, pubblicato da Basil Blackwell, Oxford 1989. Infine, quando questo capitolo era già stato scritto, è apparso un altro notevole libro di Kirzner, The Meaning of Market Process. Essays in the Development of Modern Austrian Economics, Routledge, Chapman & Hall, Londra 1992, che raccoglie, insieme ai contributi più recenti dell’autore, una serie di lavori pubblicati precedentemente che, quando è stato possibile, sono già stati presi in considerazione nel presente libro. In Spagna l’analisi economica basata sulla funzione imprenditoriale, lasciando da parte i miei libri, è stata trattata tra gli altri da Josè T. Raga, «Proceso Económico y Acción Empresarial», in Homenaje a Lucas Beltrán, ed. Moneda y Crédito, Madrid 1982, pp.597 a 619; da Pedro Schwartz nel suo Empresa y Libertad, Unión Editorial, Madrid 1981, specialmente nel suo Capitolo III, pp. 107 a 148; e anche da Juan Marcos de la Fuente, El impresario y su función social, Fundación Cánovas del Castillo (3.ª edición), Madrid 1983. 2 È curioso osservare come nella lingua inglese si sia prodotta una trasposizione letterale del termine francese entrepreneur. Questa trasposizione è stata relativamente tardiva, e così, per esempio, nella traduzione in inglese, apparsa nel 1821, del Tratado de Economía Política di Juan Bautista Say (Trattato di economia politica, Cugini Pomba e Comp., Torino, 1854), è chiaro come ancora non si sia verificata questa trasposizione terminologica, poiché il traduttore, C.R. Prinsep, si era visto costretto a tradurre goffamente l’espressione francese entrepreneur con adventurer. In questo senso si possono consultare, per esempio, le pagine 329 e 330 dell’edizione inglese citata, ristampata nel 1971 da Augustus M. Kelley a New York. Stuart Mill, da parte sua, si lamenta che nella sua lingua non esista un termine che si possa equiparare al francese entrepreneur quando afferma nel 1871 che «it is to be regretted that this word –undertaker- is not familiar to an English ear. French political economists enjoy a great advantage in being able to speak currently of: le profits de l’entrepreneur». Principles of Political Economy, riedizione di Augustus M. Kelley, Fairfield

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prehendo-endi-ensum, che significa scoprire, vedere, percepire, rendersi conto di, afferrare, e l’espressione latina in prehensa porta chiaramente con sé l’idea di azione, con il significato di prendere, afferrare, appropriarsi di. Insomma, impresa è sinonimo di azione e così in Francia il termine entrepreneur viene utilizzato già da molto tempo, fin dall’alto Medio Evo, per designare le persone incaricate di effettuare importanti azioni,3 generalmente collegate alla guerra, o di portare a termine i grandi progetti di costruzione delle cattedrali. Nella nostra lingua spagnola, uno dei significati del termine empresa, secondo il Diccionario della Real Academia Española, è quello di «acción ardua y dificultosa que valorosamente se comienza ( azione ardua e difficile che si intraprende coraggiosamente) ». E sempre dal Medio Evo si è cominciato a utilizzare il termine per denominare gli emblemi di certi ordini di cavalleria che indicavano l’impegno, sotto giuramento, di realizzare una determinata e importante azione.4 Orbene, il significato di impresa come azione è unito necessariamente e inesorabilmente a un atteggiamento imprenditoriale, che consiste nel tentare continuamente di cercare, scoprire, creare o rendersi conto di nuovi fini e mezzi (tutto ciò in accordo con il significato etimologico già visto di in prehendo). L’azione umana: fine, valore, mezzo e utilità

Aver definito la funzione imprenditoriale riferendola al concetto di azione umana esige che chiariamo che significato diamo a questa. L’azione umana è qualsiasi comportamento o condotta deliberata.5 Ogni uomo, quando agisce, vuole raggiungere determinati fini che avrà scoperto essere importanti per lui. Denominiamo valore l’apprezzamento soggettivo, psichicamente più o meno intenso, che chi agisce dà al suo fine. Mezzo è tutto ciò che chi agisce ritiene soggettivamente adeguato a raggiungere un fine. Definiamo utilità la valutazione che chi agisce dà al mezzo, in funzione del valore del fine che egli ritiene che quel mezzo gli permetterà di raggiungere. In questo senso, valore e utilità sono le due facce di una stessa moneta, già che il valore soggettivo che chi agisce dà al fine che persegue si proietta sul mezzo che ritiene utile per ottenerlo, proprio tramite il concetto di utilità. 1976, nota a piè della pagina 406. Mill qui si riferisce , quasi letteralmente, al titolo dell’epigrafe III del Capitolo VII del libro 2.º della 16ª edizione del Traité d’Économie politique di J.B. Say (ristampa di Slatkine, Ginevra 1982, p. 368). 3 Bert F. Hoselitz, «The Early History of Entrepreneurial Theory», in Explorations in Entrepreneurial History3, n.º 4, 15 aprile 1951, pp. 193-220. Versione spagnola nel Cap. 9 di J.P. Spengler e W.R. Allen, El pensamento económico de Aristóteles a Marshall, Ed. Tecnos, Madrid 1971. 4 Così, per esempio, possiamo leggere all’inizio del capitolo II della Prima Parte dell’opera immortale di Cervantes come don Chisciotte, «se vio en el campo, cuando le asaltó un pensamiento terrible, y tal, que por poco le hiciera dejar la comenzada empresa; y fue que le vino a la memoria que no era armado caballero, y que, conforme a la ley de la caballería, ni podía ni debía tomar armas con ningún caballero, y puesto que lo fuera, había de llevar armas blancas, como novel caballero, sin empresa en el escudo, hasta que por su esfuerzo la ganase (si vide in campo, quando lo assalì un pensiero terribile, tale da fargli quasi lasciare l’impresa incominciata; il fatto è che gli venne in mente che non era cavaliere armato, e che, secondo la legge della cavalleria, non poteva né doveva prendere le armi contro nessun cavaliere, e che, anche se lo fosse stato, avrebbe dovuto portare armi bianche, da novello cavaliere, senza impresa sullo scudo, fino a che se la fosse meritata con i suoi sforzi)» (il corsivo, com’è logico, è mio e non di Cervantes). Si veda la pagina 69 del volume primo della Edición Crítica di Vicente Gaos, pubblicata da Editorial Gredos, Madrid 1987. 5 Riguardo al concetto dell’azione umana e ai suoi principali elementi bisogna consultare specialmente il Trattato di Economia di Ludwig von Mises intitolato Human Action: A Treatise on Economics, terza edizione riveduta, Henry Regnery Company, Chicago 1966, pp. 11 a 29 e 251 a 256. Mises afferma testualmente che «every actor is always en entrepreneur and speculator» (p. 252), e anche che «entrepreneur means acting man in regard to the changes occurring in the market» (p. 254). Esiste una traduzione in spagnolo del libro di Mises fatta da Joaquín Reig Albiol e pubblicata (4.ª ed. da Unión Editorial, Madrid 1986) con il titolo di La Acción Humana, Tratado de Economía (ed. it. L’Azione umana, UTET, Torino, 1959). Può essere utile anche la lettura del libro Action and Purpose, di Richard Taylor, pubblicato da Humanities Press in New Jersey nel 1980, anche se a nostro giudizio Taylor non insiste quanto dovrebbe sul fatto che l’essenza dell’azione umana consiste nell’afferrare o scoprire nuovi fini e mezzi piuttosto che assegnare in modo efficiente mezzi dati a fini già prestabiliti. Nello stesso errore, ma in modo ancora più grave, cade Tadeusz Kotarbinsky, Praxiology, An Introduction to the Sciences of Efficient Action, Polish Scientific Publishers, Varsavia 1965.

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Scarsità, piano di azione e atto di volontà

I mezzi, per definizione, devono essere scarsi, dal momento che se non lo fossero non verrebbero neanche presi in considerazione al momento di agire. Cioè, dove non c’è penuria non c’è azione umana.6 Fini e mezzi non sono mai dati, ma al contrario, sono il risultato dell’essenziale attività imprenditoriale che consiste proprio nel creare, scoprire o, semplicemente, rendersi conto di quali sono i fini e i mezzi importanti per chi agisce in ogni circostanza della sua vita. Una volta che chi agisce crede di aver scoperto quali sono i fini che valgono la pena e i mezzi che ritiene alla sua portata per raggiungerli, incorpora gli uni e gli altri, quasi sempre tacitamente,7 in un piano di attuazione,8 che si intraprende e si mette in pratica come conseguenza di un atto personale di volontà.9 Concetto soggettivo di tempo: passato, presente e futuro

Ogni azione umana si sviluppa sempre nel tempo, ma non inteso nel suo significato determinista, newtoniano, fisico o analogico, bensì nella sua concezione soggettiva, cioè, così come il tempo viene soggettivamente sentito e sperimentato da colui che agisce all’ interno del contesto di ciascuna azione.10 Secondo questa concezione soggettiva del tempo, chi agisce sente ed esperimenta il suo percorso secondo come agisce, cioè va creando, scoprendo o, semplicemente, rendendosi conto di nuovi fini e mezzi in conformità e accordo con l’essenza della funzione imprenditoriale già svolta. Così, in modo continuo, si produce nella mente di chi agisce una specie di fusione tra le 6 In questo senso, definire l’economia come «quella scienza che studia l’azione umana influenzata dalla penuria» (Avelino García Villarejo e Javier Salinas Sánchez, Manual de Hacienda Pública, editorial Tecnos, Madrid 1985, p. 25) è un evidente pleonasmo, dal momento che ogni azione umana presuppone la penuria. Come dice bene Mises (Human Action, cit., p. 93) «where man is not restrained by the insufficient quantity of things available, there is no need for action». 7 Più avanti spiegheremo come l’informazione o le conoscenze più importanti per l’azione umana siano difficilmente articolabili e piuttosto di tipo tacito che di natura esplicita. 8 Il piano è la rappresentazione mentale di tipo prospettico che chi agisce si fa delle varie tappe, dei vari elementi e delle possibili circostanze che possono essere in relazione con la sua azione. Il piano, pertanto, è un’organizzazione personale dell’informazione pratica che possiede e che va scoprendo chi agisce, nel contesto di ciascuna azione. In questo senso, si può affermare che ciascuna azione implica, man mano che chi agisce va generando nuova informazione, un processo continuo di pianificazione individuale o personale. Diverso è il concetto di pianificazione centrale che, come vedremo, risponde alla necessità dell’organo direttivo di avere un sistema socialista per articolare, nel modo più formale e coordinato possibile, i mezzi che riesce a mobilizzare forzatamente per raggiungere il fine prefissato. La pianificazione centrale fallisce perché è incapace di ottenere l’informazione pratica necessaria. Il problema che si pone, pertanto, non è se pianificare o meno, ma, al contrario, dando per scontato che la pianificazione è imprescindibile in ogni azione umana, se viene fatta da un individuo, che è l’unico che possiede l’informazione pratica necessaria, o da un organo coercitivo a lui estraneo e che non possieda tale informazione. Si veda l’articolo di F:A. Hayek «The New Confusion about Planning» in New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge & Kegan Paul, Londra 1978, pp.232-246. Esiste un’altra classificazione di diversi casi di pianificazione (integrale, parziale, indicativa e individuale) e tutte, a eccezione di quella individuale, presentano un’irresolubile contraddizione di tipo epistemologico, che definiremo «paradosso della pianificazione» (si veda la nota 11 e il comma c) dell’epigrafe 6 del Cap.III). 9 Secondo San Tommaso d’Aquino, «voluntatis autem motivum et obiectum est finis» (cioè «il fine è il motivo e l’oggetto della volontà»). Suma Teológica, 1-2, Q.7, a4, B.A.C., Madrid 1954, volume IV, p. 301. 10 Sul concetto soggettivo, sperimentale e dinamico del tempo come unico applicabile al campo dell’azione umana e della scienza economica, bisogna specialmente citare il Capitolo IV dell’ opera The Economics of Tme and Ignorance di Gerald P. O’Driscoll e Mario J. Rizzo, pubblicata da Basil Blackwell, Oxford 1985, pp. 52 a 70. Questa concezione del tempo era già stata anticipata da Bergson, per il quale «la durée toute pure est la forme que prend la succession de nos états de conscience quand notre moi se laisse vivre, quand il s’abstient d’établir une séparation entre l’etat presente t les états antérieurs». Vedere p. 67 dell’ Essai sur les Donnés Inmédiates de la Conscience, in Oeuvres di Henry Bergson, Presses Universitaires de France, Parigi 1959.

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esperienze del passato che raccoglie nella sua memoria e la sua proiezione simultanea e creativa verso il futuro sotto forma di immaginazioni o aspettative. Futuro, questo, che non è mai determinato, ma che chi agisce va immaginando, creando e facendo passo dopo passo. Creatività, sorpresa e incertezza

Il futuro è, pertanto, sempre incerto, nel senso che deve ancora accadere e chi agisce ne ha solo certe idee, immaginazioni o aspettative che spera di realizzare con la sua azione personale e con l’interazione con altri “attori”. Il futuro, inoltre, è aperto a tutte le possibilità creative dell’uomo, per cui ciascun “attore” gli si pone di fronte con una incertezza inestirpabile, che potrà diminuire grazie a comportamenti ponderati propri e altrui (istituzioni) e se agisce bene ed esercita bene la funzione imprenditoriale, ma che non sarà capace di eliminare totalmente. Il carattere aperto e illimitato dell’incertezza di cui abbiamo parlato fa sì che non siano applicabili al campo dell’azione umana le nozioni tradizionali della probabilità oggettiva e soggettiva, e nemmeno la concezione bayesiana sviluppatasi riguardo a quest’ultima. Questo si verifica non solo perché non si conoscono neppure tutte le alternative o casi possibili, ma anche perché chi agisce possiede solamente determinate credenze o convinzioni soggettive -denominate da Mises «probabilità» di casi o eventi unici11 - che secondo come si modificano o si ampliano tendono a variare a sorpresa, cioè in modo radicale e non convergente, tutta la sua «mappa» di credenze e di conoscenze. In questo modo chi agisce scopre continuamente situazioni completamente nuove che prima non era stato nemmeno capace di concepire.12

11 Human Action, cit., pp. 110-118. Nello schema che segue si raccolgono le principali differenze che esistono, secondo Mises, tra i concetti di probabilità applicabili al mondo della scienza naturale e al mondo della scienza dell’azione umana: Mondo della scienza naturaleMondo dell’azione umana1. Probabilità di classe: si conosce o si può riuscire a conoscere il comportamento della classe, ma non il comportamento individuale dei suoi elementi. 1. «Probabilità» di caso o evento unico; non esiste la classe, ma si conoscono alcuni fattori che influenzano l’evento unico e altri no. La stessa azione provoca, o crea, tale evento.2. Esiste una situazione di rischio,assicurabile per tutta la classe. 2. C’è incertezza inestirpabile, dato il carattere creativo dell’azione umana. L’incertezza non è, pertanto, assicurabile.3. La probabilità è matematizzabile3. Non è matematizzabile4. Vi si arriva mediante la logica e l’indagine empirica. Il teorema di Bayes permette di avvicinare la probabilità di classe, man mano che appare nuova informazione. 4. Si scopre mediante la comprensione e la valutazione imprenditoriale. Ogni nuova informazione modifica ex novo tutta la mappa di credenze e aspettative (concetto di sorpresa).5. È oggetto di indagine da parte dello scienziato naturale. 5. Concetto tipico utilizzato dall’attore-imprenditore, o dallo storiografo. 12 «Surprise is that dislocation and subversion of received thoughts, which springs from an actual experience outside of what has been judged fully possible, or else an experience of a character which has never been imagined and thus never assessed as either possible or impossible; a counter-expected or else an unexpected event». G.L. Shackle, Epistemics and Economics, Cambridge University Press, Cambridge 1972, p. 422. Esiste una traduzione in spagnolo di Francisco Gonzáles Aramburu, pubblicata a Madrid dal Fondo de Cultura Económica, nel 1976, con il titolo Epistémica y Economía (la traduzione in spagnolo della citazione riportata all’inizio di questa nota si trova alla p. 438 di quest’ultima edizione) Gli anglosassoni utilizzano il termine serendipity (che secondo Gustavo Villapalos- ABC, Madrid, 3 gennaio 1992, p.3- possiamo tradurre in spagnolo con serendipidad (serendipità) per descrivere la capacità tipicamente imprenditoriale che consiste nell’accorgersi di opportunità che sorgono a sorpresa senza essere cercate deliberatamente. Il termine deriva etimologicamente dall’arabo sarandih, antico nome di Ceilán, e ha acquisito il suo attuale significato grazie a Horace Walpole che lo ha utilizzato per la prima volta nel secolo XVIII, ispirandosi alle scoperte fortuite che spesso facevano gli eroi del racconto di origine persiana «Las Tres Princesas de Serendip». Si veda la lettera di Horace Walpole a Mann datata 28 gennaio 1754 in cui Walpole sottolinea che gli eroi del racconto citato «were always making discoveries, by accidents and sagacity, of things they were not in quest of». E conclude che «This discovery, indeed, is almost of that kind which I call Serendipity». Si veda l’ Oxford English Dictionary, 2nda edizione,

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Il costo come concetto soggettivo. Il beneficio imprenditoriale

Ogni volta che chi agisce si rende conto che desidera un certo fine e scopre e seleziona determinati mezzi per raggiungere quel fine, rinuncia contemporaneamente a raggiungere altri fini diversi da quello, che per lui ex-ante hanno minor valore, e che ritiene che si potrebbero raggiungere utilizzando alternativamente quegli stessi mezzi a sua disposizione. Definiremo costo il valore soggettivo che chi agisce dà ai fini a cui rinuncia quando decide di seguire e intraprendere un determinato corso di azione. Cioè, l’azione implica sempre una rinuncia; il valore che chi agisce dà a quello a cui rinuncia è il suo costo, e questo, per sua stessa essenza, consiste in una valutazione, stima o giudizio nettamente soggettivo.13 Generalmente, ogni essere umano agisce perché soggettivamente ritiene che il fine prefissato abbia per lui un valore superiore al costo che pensa di sostenere, cioè, perché spera di ottenere un beneficio imprenditoriale.14 Il beneficio è, pertanto, il guadagno che si ottiene dall’azione umana e costituisce l’incentivo che spinge o motiva ad agire. Nelle azioni senza costo il valore soggettivo del fine e il beneficio coincidono, e in seguito tratteremo di come ogni azione umana contenga sempre una componente imprenditoriale pura, essenzialmente creativa, che non ha bisogno di incorrere in costo alcuno, e che è proprio quella che ci ha portato, in senso lato, a identificare i concetti di azione umana e di funzione imprenditoriale. Inoltre, dato che il valore del fine, dunque, include, integra o incorpora il beneficio o guadagno, a partire da ora, considereremo, in varie occasioni, il fine e il beneficio quasi come sinonimi, senza soffermarci ogni momento a specificare la distinzione che c’è fra i due e di cui abbiamo già trattato. Razionalità e irrazionalità. Errore e perdita imprenditoriale

L’azione umana è per definizione sempre razionale,15 nel senso che, ex-ante, chi agisce cerca e seleziona sempre i mezzi che crede più adeguati a raggiungere i fini che ritiene valgano la pena. Questo è, senza dubbio, compatibile con il fatto che, ex-post, chi agisce scopra che ha commesso un errore imprenditoriale, cioè, che è incorso in perdite imprenditoriali, nello scegliere determinati fini o mezzi senza rendersi conto che ne esistevano degli altri per lui maggiormente redditizi. Ma l’osservatore esterno non può mai qualificare come irrazionale un’azione, dato il carattere essenzialmente soggettivo che hanno fini, costi e mezzi. Per questo, nel campo dell’economia,

vol. XV,Clarendon Press, Oxford 1983, p.5. Da parte sua, Gregorio Marañon si riferisce alla stessa idea quando afferma: «La creazione del genio si distingue da quella degli uomini volgari nel fatto che ciò che viene creato da lui è qualcosa di inaspettato e sorprendente.» El Greco y Toledo, Obras Completas, editrice Espasa Calpe, Madrid 1971, p.421. 13 Vedere l’opera L.S.E. Essays on Cost, edita da J.M. Buchanan e G.F. Thirlby, New York University Press, New York 1981. Specialmente le pp. 14 e 15. 14 «Profit, in a broader sense, is the gain derived from action; it is the increase in satisfaction (decrease in uneasiness) brought about; it is the difference between the higher value attached to the result attained and the lower value attached to the sacrifices made for its attainment; it is, in other words, yield minus cost. To make profit is invariably the aim sought by any action». Ludwig von Mises, Human Action, cit., p.289. Per Mises il fatto che un’impresa ottenga perdite indica che sta indebitamente utilizzando scarse risorse di cui c’è più urgente necessità in altre linee di produzione. Questa idea, finalmente, sembra essere stata perfettamente capita da Giovanni Paolo II per il quale «quando un’impresa dà benefici significa che i fattori produttivi sono stati utilizzati adeguatamente e che le necessità umane corrispondenti sono state debitamente soddisfatte». Si veda il suo Centesimus Annus, Promoción Popular Cristiana, Madrid 1991, Cap. IV, n.º 35, p. 71. 15 L’economia, pertanto, non è una teoria sulla scelta o decisione (ex-ante sempre razionale per definizione), ma una teoria sui processi sociali di coordinamento che, indipendentemente dal carattere razionale di tutte le decisioni in essi implicate, potranno essere più o meno adattate a seconda di quale sia la perspicacia mostrata nell’esercizio dell’azione imprenditoriale da parte dei diversi “attori”. Si veda I.M. Kirzner, The Meaning of the Market Process, op. cit., pp. 201-208. Inoltre, non possiamo fare a meno di sottolineare che è proprio il carattere essenzialmente soggettivo degli elementi dell’azione umana (fini, mezzi e costi) quello che, in modo solo apparentemente paradossale, conferisce piena oggettività all’economia, nel senso che questa è una scienza teorica le cui conclusioni sono applicabili a qualsiasi tipo di azione (prasseologia).

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possiamo affermare che l’azione umana è un presupposto fondamentale nel senso che si tratta di un concetto di tipo assiomatico che non può essere riferito a nessun altro né spiegato ulteriormente. Il carattere assiomatico del concetto di azione umana è, d’altro canto, evidente, poiché criticarlo o metterlo in dubbio implica cadere in una contraddizione logica senza soluzione, dal momento che ogni critica ha bisogno di un azione, cioè, di un’azione umana per portarla a termine.16 Utiltà marginale e preferenza temporale

Infine, essendo i mezzi scarsi per definizione, chi agisce tenderà a raggiungere prima quei fini che per lui abbiano più valore e poi gli altri che ritenga relativamente meno importanti. Per questo, ogni unità di mezzo della quale disponga e che sia intercambiabile e rilevante nel contesto della sua azione, tenderà ad essere valutata dall’ “attore” in funzione del fine meno importante che crede di poter raggiungere con una qualsiasi di esse (legge dell’utilità marginale). Inoltre, visto che si intraprende l’azione puntando a ottenere un determinato fine e che ogni azione si sviluppa nel tempo e, pertanto, ha una durata determinata, l’ “attore” cercherà, ceteris paribus, di raggiungere il suo fine al più presto. Cioè, in circostanze uguali, chi agisce attribuirà sempre maggior valore ai fini temporalmente più vicini e sarà disposto a intraprendere azioni di maggiore durata temporale se ritiene che con ciò potrà raggiungere fini che per lui hanno maggior valore (legge della preferenza temporale).17

2. CARATTERISTICHE DELLA FUNZIONE IMPRENDITORIALE. Funzione imprenditoriale e perspicacia.

La funzione imprenditoriale in senso stretto, consiste basicamente nello scoprire e afferrare (prehendo) le opportunità di raggiungere un qualche fine o, se si preferisce, di ottenere un qualche guadagno o beneficio, che si presentano nell’ambiente, agendo di conseguenza per trarne profitto. Kirzner dice che l’esercizio dell’imprenditorialità implica una speciale perspicacia (alertness), cioè un continuo stare all’erta, che fa sì che l’essere umano possa scoprire e rendersi conto di ciò che succede intorno a lui.18 Forse Kirzner utilizza il termine inglese «alertness» perché il termine entrepreneurship (funzione imprenditoriale) è di origine francese e nella lingua inglese non suggerisce l’idea di prehendo che ha nelle lingue romanze continentali. In ogni modo, in spagnolo il qualificativo persicaz (perspicace) è assolutamente adeguato alla funzione imprenditoriale, poiché si applica, secondo il Diccionario della Real Academia Española, «a la vista o mirada muy aguda y que alcanza mucho (alla vista o sguardo molto acuto e che riesce a cogliere molto)». Questa idea si adatta perfettamente all’attività che esercita l’imprenditore al momento di decidere quali saranno le 16 Ludwig von Mises, Human Action, cit., pp. 19-22. Ci sembra che Mises faccia un concessione inutile e indegna di lui quando afferma che fintanto che non si scopra in che modo il mondo naturale esterno determini i pensieri umani, l’azione umana continuerà ad essere un presupposto fondamentale (ultimate given). Non solo riteniamo con F.A.Hayek che sia impossibile che la mente umana possa riuscire a spiegare se stessa (The Sensory Order, The University of Chicago Press, Midway reprint, Chicago 1976, pp. 184 a 191. Ed. it. L'ordine sensoriale: i fondamenti della psicologia teorica, Rusconi, Milano, 1990); ma anche che tutti i deterministi cadono in una contraddizione logica insolubile, dal momento che vogliono arrivare ad acquisire un’informazione riguardo al modo in cui il mondo esterno determina il pensiero che, essendo determinato a sua volta, in base al suo stesso criterio non potrebbe essere affidabile. Si veda M.N. Rothbard, Individualism and the Philosophy of Social Sciences, Cato Institute, San Francisco 1980, pp. 5-10. 17 Cioè, sia la legge dell'utilità marginale che quella della preferenza temporale non sono leggi empiriche o psicologiche, ma sono implicazioni logiche del concetto essenziale di azione umana. Per Mises, «the Law of Marginal Utility is already implied in the category of action» e «time preference is a categorical requisite of human action». Mises, Human Action, cit., pp. 124 e 484. 18 Israel M. Kirzner, Competition and Entrepreneurship, cit., pp. 65 e 69.

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sue azioni e valutare il loro effetto nel futuro. Lo stare all’erta, benché sia accettabile come caratteristica dell’imprenditorialità per trasmettere l’idea di attenzione o vigilanza, credo che in ogni caso sia leggermente meno adatto del qualificativo «perspicace», forse perché implica un atteggiamento chiaramente un po’ più statico. D’altro canto, bisogna prendere in considerazione che esiste una grande somiglianza tra la perspicacia che deve dimostrare lo storiografo al momento di selezionare e interpretare i fatti rilevanti del passato che gli interessano e la perspicacia che deve dimostrare l’imprenditore in relazione ai fatti che ritiene che accadranno nel futuro. Per questo Mises afferma che gli atteggiamenti dello storiografo e dell’imprenditore sono molto simili, e arriva addirittura a definire l’imprenditore come colui che guarda al futuro con occhi di storiografo.19 Informazione, conoscenza e imprenditorialità

Non si può capire a fondo la natura della funzione imprenditoriale così come stiamo avvicinandoci ad essa, senza capire in che modo essa modifica o fa cambiare l’ informazione o conoscenza che possiede chi agisce. Da un lato, percepire o capire nuovi fini e mezzi presuppone una modifica della conoscenza di chi agisce, nel senso che scopre nuova informazione. Dall’altro, questa scoperta modifica tutta la mappa o contesto di informazione o conoscenza che il soggetto possiede. Comunque, possiamo porci la seguente essenziale domanda: che caratteristiche hanno l’informazione o la conoscenza importanti per l’esercizio della funzione imprenditoriale? Studieremo dettagliatamente sei caratteristiche basiche di questo tipo di conoscenza: 1) è una conoscenza soggettiva di tipo pratico, non scientifico; 2) è una conoscenza esclusiva; 3) si trova dispersa nella mente di tutti gli uomini; 4) è in maggior parte una conoscenza tacita e, pertanto, non articolabile; 5) è una conoscenza che si crea ex nihilo, dal niente, proprio mediante l’esercizio della funzione imprenditoriale; e 6) è una conoscenza trasmissibile, in maggior parte in modo non cosciente, attraverso processi sociali estremamente complessi, il cui studio costituisce l’oggetto di indagine della Scienza Economica. Conoscenza soggettiva e pratica, non scientifica

In primo luogo, la conoscenza che stiamo analizzando, il più importante o rilevante per quel che riguarda l’esercizio dell’azione umana, è prima di tutto una conoscenza soggettiva di tipo pratico e non di natura scientifica. Conoscenza pratica è tutto ciò che non può essere rappresentato in modo formale, ma che il soggetto va acquisendo o apprendendo attraverso la pratica, cioè, attraverso la stessa azione umana esercitata nei rispettivi contesti. Si tratta, come dice Hayek, della conoscenza rilevante in ogni tipo di circostanze particolari che riguardano le loro coordinate soggettive nel tempo e nello spazio.20 Insomma, stiamo parlando di una conoscenza di valutazioni umane concrete, 19 «Acting man looks, as it were, with the eyes of a historian into the future», Human Action, cit. p. 58. 20 San Tommaso d’Aquino definisce le circostanze particolari come «accidentia individualia humanorum actuum» (cioè, gli accidenti individuali degli atti umani) e afferma che, a parte il tempo e il luogo, la più importante di queste circostanze particolari è quella che si riferisce al fine che persegue chi agisce («principalissima est omnium circumstantiarum illa quae attingit actuum ex parte finis»). Vedere Suma Teológica, Parte I-II, Q7, art. 1e2, volume IV, B.A.C., Madrid 1954, pp. 293-294 e 301. D’altro canto, bisogna mettere in evidenza che la distinzione tra i concetti di «conoscenza pratica» e «conoscenza scientifica» la dobbiamo a Michael Oakeshott (Rationalism in Politics, Methuen, Londra 1962; questo libro è stato magnificamente ristampato e ampliato con il titolo di Rationalism in Politics and Other Essays, Liberty Press, Indianapolis 1991, e specialmente le pp. 12 e 15; ed è altrettanto essenziale il suo libro On Human Conduct, Oxford University Press, Oxford 1975, ristampato da Clarendon Paperbacks, Oxford 1991, pp. 23-25, 36, 78-79 e 119-121) ed è parallela alla distinzione di Hayek tra «conoscenza dispersa» e «conoscenza centralizzata», a quella fatta da Michael Polanyi tra «conoscenza tacita» e «conoscenza articolata» e a quella di Mises che abbiamo già commentato tra la conoscenza degli «eventi unici» e la conoscenza del comportamento di tutta una «classe di fenomeni». L’avvicinamento dai diversi punti di vista di questi quattro autori ai diversi tipi basici di conoscenza si può riassumere nel quadro seguente:

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cioè, tanto dei fini che vuol raggiungere chi agisce, quanto della sua conoscenza riguardo ai fini che egli crede che vogliono raggiungere o perseguire altri “attori”. Allo stesso modo, si tratta di una conoscenza pratica dei mezzi che chi agisce crede di avere alla sua portata per raggiungere i suoi fini, e in particolare, di tutte le circostanze, personali o no, che chi agisce considera potenzialmente rilevanti all’interno del contesto di ogni azione concreta.21

Due tipi diversi di CONOSCENZA

TIPO A TIPOB

Pratico

(tradizionale)

Scientifico (o tecnico) Disperso

Centralizzato

Tacito Articolato

di «eventi unici»di «classi» ECONOMIA

(conoscenza tipo B su Conoscenza tipo A)

I rapporti tra entrambi i distinti tipi di conoscenza sono complessi e poco studiati. Da un lato, ogni conoscenza scientifica (tipo B) ha una base tacita non articolabile (tipo A). E i progressi scientifici e tecnici (tipo B) si materializzano immediatamente in nuove conoscenze pratiche (tipo A) più fruttuose e potenti. L’Economia, da parte sua, sarebbe una conoscenza tipo B (scientifica) sui processi di creazione e trasmissione della conoscenza pratica (tipo A). Si capisce ora che per Hayek il rischio principale dell’Economia come scienza radica nel fatto che, dal momento che consiste nel teorizzare sulle conoscenze tipo A, si arrivi a credere che, in qualche modo, chi la coltiva («scienziato dell’ economia») possa impossessarsi del contenuto specifico delle conoscenze pratiche tipo A. O addirittura arrivare a ignorare completamente il contenuto specifico della conoscenza pratica, secondo la critica così precisa di Oakeshott, per il quale il razionalismo, nella sua versione più pericolosa, esagerata ed erronea, consisterebbe in «the assertion that what I have called practical knowledge is not knowledge at all, the assertion that, properly speaking, there is no knowledge which is not technical knowledge» (Michael Oakeshott, Rationalism in Politics and Other Essays, cit., p. 15). 21 Vedere soprattutto gli importanti articoli seminali di F.A. Hayek Economics and Knowledge (1937) e The Use of Knowledge in Society (1945), che sono inclusi nel libro Individualism and Economic Order, Henry Regnery, Chicago 1972, e concretamente le pagine 35-56 e 77-91. È necessario rilevare che questi due articoli di Hayek sono tra i più importanti e trascendentali per la Scienza Economica. Tuttavia, soprattutto il primo di questi articoli dimostra che, quando fu scritto, esisteva ancora una certa confusione nella mente dell’autore riguardo al carattere dell’Economia come scienza. In effetti, una cosa è che l’Economia studi basicamente processi di trasmissione di informazione pratica, il cui contenuto concreto dipende dalle circostanze di ogni momento e luogo, e altra cosa ben diversa , come in alcuni punti sembra voler suggerire erroneamente Hayek, che la Scienza Economica sia , per questa ragione, una scienza con un certo contenuto empirico. Tutto il contrario, proprio il fatto che lo scienziato non può mai disporre dell’informazione pratica dispersa che hanno coloro che sono osservati, rende inevitabile che l’economia sia essenzialmente una scienza teorica, non empirica, che studia la forma, ma non il contenuto specifico dei processi imprenditoriali di creazione e trasmissione di informazione pratica (e che sarebbero oggetto di valutazione e indagine da parte dello storiografo o dell’imprenditore, secondo che siano accaduti o no). Questa stessa osservazione critica ad Hayek, da un punto di vista leggermente diverso, è raccolta nel notevolissimo articolo di Israel M. Kirzner intitolato «Hayek, Knowledge and Market Processes» incluso in Perception, Opportunity and Profit, cit. pp. 13 a 33.

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Conoscenza esclusiva e dispersa

La conoscenza pratica è una conoscenza di tipo esclusivo e disperso. Ciò significa che ogni uomo-agente possiede solamente alcuni, per così dire, «atomi» o «bits» dell’informazione che si genera e si trasmette globalmente a livello sociale,22 ma che paradossalmente solo lui possiede, cioè, solo lui conosce e interpreta in modo cosciente. Pertanto, ciascun uomo che agisce ed esercita la funzione imprenditoriale, lo fa in modo strettamente personale e irripetibile, dal momento che comincia con cercare di raggiungere fini od obbiettivi secondo una visione e conoscenza del mondo che solo lui possiede in tutta la sua ricchezza e varietà di sfumature, e che è irripetibile in modo identico in nessun altro essere umano. Pertanto, la conoscenza alla quale ci riferiamo non è qualcosa di dato, che è disponibile per tutti in qualche mezzo materiale di immagazzinamento di informazione (giornali, Riviste specializzate, libri, computer, ecc.). Al contrario, la conoscenza importante per l’azione umana è una conoscenza di tipo essenzialmente pratico e strettamente esclusivo, che si «trova» solo sparpagliata nella mente di tutti e ciascuno degli uomini e donne che agiscono e che costituiscono l’umanità. Nella figura II-1 introdurremo dei simpatici pupazzi che ci accompagneranno per tutto questo libro, con l’unico scopo di aiutarci a rendere più grafica l’analisi in esso contenuta.23

Figura II-1

In questa figura vogliamo rappresentare due esseri umani reali di carne e ossa, che denominiamo «A» e «B». Ognuna delle persone che rappresentano «A» e «B» possiede una conoscenza sua propria o esclusiva di se stessa, cioè, che l’altra non ha; e c’è di più, dal punto di vista di un osservatore esterno, in questo caso noi, possiamo dire che «esiste» una conoscenza, che noi come osservatori non abbiamo, e che si trova dispersa tra «A» e «B», nel senso che «A» ne possiede una parte, e «B» un’altra. Così, per esempio, supponiamo che l’informazione che possiede «A» sia quella di voler raggiungere un fine «X» (che rappresentiamo con la freccia sulla sua testa e che è diretta verso «X») e che con lo scopo di raggiungere tale fine possiede una certa conoscenza pratica importante nel contesto dell’azione (questo insieme di conoscenza o informazione pratica è rappresentato dall’aureola di lineette che «A» ha intorno alla testa). Il caso di «B» è simile, solo che il fine che vuole raggiungere è molto diverso, in questo caso «Y» (rappresentato da una freccia sotto i suoi piedi, e che è diretta verso «Y»); l’insieme di informazione pratica che l’”attore” «B»

22 Thomas Sowell, Knowledge and Decision, Basic Books, New York 1980, pp. 3-44. Dobbiamo menzionare, tuttavia, che a nostro parere, Sowell è ancora molto influenzato dalla concezione neoclassica dell’equilibrio e non riesce a capire adeguatamente il ruolo dell’imprenditorialità. In questo senso, si veda I.M. Kirzner, «Prices, the Communication of Knowledge and the Discovery Process», in The Political Economy of Freedom, Essays in Honor of F.A.Hayek, Philosophia Verlag, Monaco 1984, pp.202-203. 23 Senza alcun dubbio, già Adam Smith era cosciente del fatto che la conoscenza pratica era essenzialmente una conoscenza sparpagliata o dispersa quando scrisse: «What is the species of domestic industry which his capital can employ, and of which the produce is likely to be of the greatest value, every individual, it is evident, can, in his local situation, judge much better than any statesman or lawgiver can do for him» (il corsivo è mio). Tuttavia, non solo non ha espresso del tutto chiaramente l’idea, (ogni individuo non solo conosce «molto meglio», ma è l’unico che conosce pienamente le sue particolari circostanze), ma non è stato nemmeno capace di portarla alle sue estreme conseguenze per quel che riguarda l’impossibilità di incaricare un organo centrale di occuparsi di tutte le questioni umane (poiché ritiene che ciò presupporrebbe un «carico di attenzione inutile, ma non un’impossibilità logica)». An Inquiry into the Nature and Causes of The Wealth of Nations, «The Glasgow Edition», Liberty Classics, Indianapolis 1981, volume I, p. 456, paragrafo 10.(ed. it. Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, I.S.E.D.I., Milano 1976). ( La rappresentazione grafica dei processi di trasmissione di informazione pratica e dispersa è molto difficile e noi abbiamo optato per effettuarla mediante i simpatici pupazzi del testo. Speriamo che la nostra analisi di pupazzi o «uomini stecco» (stickman analysis) si introduca con forza nella scienza economica del futuro.

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considera importante nel contesto della sua azione, diretta a raggiungere «Y», viene rappresentata allo stesso modo con l’aureola di lineette che ha attorno alla testa.

In molte azioni semplici chi agisce, individualmente, possiede l’informazione necessaria a raggiungere il fine che si prefigge senza bisogno di doversi relazionare per nulla con altri “attori”. In questi casi, che si dia corso o no all’azione è il risultato di un calcolo economico o giudizio estimativo che effettua chi agisce, soppesando e paragonando direttamente il valore soggettivo che dà al fine che vuole raggiungere con il costo o valore che dà a quello a cui rinuncia nel caso che voglia raggiungere il fine scelto. Tuttavia, sono poche e molto semplici le azioni in cui chi agisce può prendere questo tipo di decisioni direttamente. La maggior parte delle azioni in cui ci vediamo implicati sono azioni molto più complesse, del tipo di quelle che spiegheremo qui di seguito. Immaginiamo che, così come abbiamo riprodotto nella figura II-1, «A» ha un gran desiderio di raggiungere il fine «X», ma per questo ha bisogno dell’esistenza di un mezzo «R» che non ha a sua disposizione e che non sa dove né come si può ottenere. Contemporaneamente, supporremo che «B» si trovi in un altro luogo, che voglia raggiungere un fine molto diverso (il fine «Y») a cui dedica tutto il suo sforzo, e che conosce o «sa di» o ha a sua disposizione una gran quantità di una risorsa «R» che egli non considera utile o idoneo per raggiungere il suo fine, ma che, casualmente, è quello di cui «A» avrebbe bisogno per poter raggiungere il suo obbiettivo desiderato («X»). Inoltre, dobbiamo sottolineare anche che, come succede nella maggior parte dei casi reali, «X» e «Y» sono contraddittori, cioè, che ogni “attore” persegue fini diversi, con un’intensità diversa, e con una conoscenza relativa, riguardo ad essi e riguardo ai mezzi alla sua portata, non coincidente o disadatta (questo spiega l’espressione sconsolata con cui abbiamo disegnato i nostri pupazzi). Più avanti vedremo in che modo l’esercizio della funzione imprenditoriale rende possibile il superamento di questo tipo di comportamenti contraddittori o scoordinati. Conoscenza tacita non articolabile

La conoscenza pratica è, in maggior parte, una conoscenza di tipo tacito non articolabile. Questo significa che chi agisce sa come fare o effettuare determinate azioni (know how), ma non sa quali sono gli elementi o parti di quello che sta facendo, e se essi sono certi o falsi (know that).24 Così, per esempio, quando una persona impara a giocare a golf, non sta imparando un insieme di norme oggettive di tipo scientifico che gli permettano di fare i movimenti necessari come risultato dell’applicazione di una serie di formule della fisica matematica, ma, piuttosto, il processo di apprendimento consiste nell’acquisizione di una serie di abitudini pratiche di condotta. Allo stesso modo, possiamo citare, seguendo Polanyi, l’esempio di colui che impara ad andare in bicicletta cercando di mantenere l’equilibrio muovendo il manubrio dalla parte in cui comincia a cadere e causando in questo modo una forza centrifuga che tende a mantenere dritta la bicicletta, e tutto questo senza che praticamente nessun ciclista sia cosciente né conosca i principi della fisica sui quali si basa la sua abilità. Al contrario, quello che il ciclista utilizza è piuttosto il suo «senso dell’equilibrio», che in qualche modo gli indica come deve comportarsi in ogni momento per non cadere. Polanyi giunge ad affermare che la conoscenza tacita è di fatto il principio dominante di ogni conoscenza.25 Anche la conoscenza più altamente formalizzata e scientifica è sempre il

24 Questa distinzione è stata generalizzata da quando essa fu enunciata già nel 1949 da Gilbert Ryle, nel suo noto articolo «Knowing How and Knowing That», incluso in The Concept of Mind, Hutchinson’s University Library, Londra 1949. 25 Michael Polanyi, The Study of Man, The University of Chicago Press, Chicago 1959, pp. 24-25. Ogni studioso di economia dovrebbe leggere questo libricino, che è un vero gioiello della scienza sociale. Altre importanti opere di Polanyi sono The Logic of Liberty, Personal Knowledge e Knowing and Being, tutte pubblicate da The University of Chicago Press, Chicago 1951, 1958 e 1969, rispettivamente (La logica della libertà, Rubettino, 2002;La conoscenza personale, verso una filosofia post-critica, Milano, Rusconi, 1990; Conoscere ed essere: saggi, Armando, Roma, 1988). In spagnolo si può consultare il suo articolo «Ciencia, Fe y Sociedad», pubblicato a Santiago del Cile dal Centro de Estudios Públicos, nella sua rivista Estudios Públicos, n.º 29, estate 1988, pp. 271-330. Michael Polanyi (1891- 1976) –

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risultato di un’intuizione o atto di creazione, che non sono altro che manifestazioni della conoscenza tacita. A parte che la nuova conoscenza formalizzata che possiamo acquisire grazie alle formule, ai libri, ai grafici, alle mappe, ecc., è importante soprattutto perché aiuta a riorganizzare tutto il nostro contesto di informazione da punti di vista diversi, più ricchi e fruttuosi, il che apre nuove possibilità per l’esercizio dell’intuizione creativa. L’impossibilità di articolare la conoscenza pratica si manifesta, pertanto, non solo «staticamente», nel senso che ogni affermazione apparentemente articolata porta con sé informazione solo nella misura in cui viene interpretata grazie a un insieme di convinzioni e conoscenze non articolabili, ma anche «dinamicamente», poiché il processo mentale utilizzato per portare a termine qualsiasi tentativo di articolazione è in se stesso essenzialmente un conoscere tacito e non articolabile.26

Bisogna insistere sul fatto che ogni conoscenza tacita, per sua stessa natura, è difficilmente articolabile. Se chiediamo a una giovane signorina che ha appena comperato una gonna di un determinato colore il perché della sua scelta o del suo acquisto, la cosa più probabile è che ci risponda che l’ha comperata «perché sì» o, semplicemente, «perché le piaceva», senza che sia capace di darci una spiegazione più dettagliata e formalizzata del perché della sua scelta. Altro tipo di conoscenza non articolabile che gioca un ruolo essenziale nello sviluppo della società è quello formato da abitudini, tradizioni, istituzioni e norme giuridiche che costituiscono il diritto, rendono possibile la società, e gli esseri umani imparano a obbedire, senza che siamo capaci di teorizzare o articolare dettagliatamente il ruolo preciso che svolgono tali norme e istituzioni nelle diverse situazioni e nei diversi processi sociali in cui intervengono. Si può dire la stessa cosa per quel che riguarda il linguaggio e anche, per esempio, per quel che riguarda la contabilità finanziaria e dei costi che l’imprenditore utilizza per guidare la sua azione e che non è altro che una conoscenza o una tecnica pratica che, utilizzata all’interno di un determinato contesto di economia di mercato, serve agli imprenditori come guida per l’azione generalizzata per aiutarli a raggiungere i propri obbiettivi, ma senza che loro, per la maggior parte, siano capaci di formulare una teoria scientifica di contabilità né, ancor meno, di spiegare in che modo questa aiuti nei complicati processi di coordinamento che rendono possibile la vita sociale.27 Possiamo pertanto concludere che l’esercizio

fratello di Karl Polanyi (1886-1964)- è stato un uomo di orizzonti molto ampi e ha sviluppato la sua attività scientifica nel campo della chimica, della filosofia, della politica, della sociologia e dell’economia. L’esempio della bicicletta è preso dalla p. 144 di Knowing and Being. Polanyi fa risalire l’idea che ci sono limiti nella capacità di articolare il pensiero umano a certi contributi che hanno origine nel campo della matematica e specialmente all’opera di Kurt Gödel. Vedere Personal Knowledge, opera citata, p.259. Hayek, da parte sua, afferma che «Gödel’s theorem is but a special case of more general principle applying to all conscious and particularly all rational processes, namely the principle that among their determinants there must always be some rules which cannot be stated or even be conscious». Vedere F.A. Hayek «Rules, Perception and Intellegibility» in Studies in Philosophy, Politics and Economics, Simon and Schuster, New York 1969, p. 62. Il teorema di Gödel è siluppato nel suo «Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Matematica und verwandter Systeme I», pubblicato in Monatshefte für Matematik und Physic, n.º 38, anno 1931, pp. 173-198 (esiste una traduzione inglese pubblicata nei Collected Works of Kurt Gödel, volume I, Oxford University Press, Oxford 1986, pp. 145-196; edizione spagnola di Jesús Monterín, Alianza Editorial, Madrid 1989). 26 In questa stessa linea di pensiero, mi ha dato grande soddisfazione leggere il magnifico libro di Roger Penrose The Emperors New Mind. Concerning Computers, Minds and the Laws of Physics, pubblicato da Oxford University Press, Oxford 1989 (esiste una traduzione in spagnolo che dobbiamo a Javier García Sanz e che è stata pubblicata a Madrid da Mondadori España, nel 1991, con il titolo La Nueva Mente del Emperador), e che spiega dettagliatamente, in varie occasioni, la grande importanza che ha il pensiero non articolabile o convertibile in parole anche per le menti scientifiche più importanti (per esempio, pp. 423-425). Questa stessa idea è stata già esposta, parecchi anni fa, dal nostro grande Gregorio Marañón, al riferire un a conversazione privata che aveva avuto con Bergson poco prima della sua morte e in cui il pensatore francese gli aveva confessato quanto segue: «Io sono sicuro che le grandi scoperte di Cajal non sono state altro che verifiche oggettive di fatti che il suo cervello aveva previsto come vere realtà.» Cajal y su Tiempo, in Obras Completas, Espasa Calpe, Madrid 1971, volume VII, p. 331. K. Lorenz, da parte sua, afferma che: «No important scientific fact has ever been “proved” that has not previously been simply and immediately seen by intuitive Gestalt perception.» Vedere «The Role of Gestalt Perception in Animal and Human Behaviours», in Aspects of Form, casa editrice L.L. Whyte, Londra 1951, p. 176. 27 Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, Cambridge University Press, Cambridge 1985. Lavoie aggiunge che se i costi fossero qualcosa che fosse possibile stabilire in modo oggettivo, scientifico e universale, il prendere decisioni nella vita economica potrebbe ridursi a obbedire a una serie di regole completamente articolate e specificate,

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della funzione imprenditoriale così come l’abbiamo definita (capacità di scoprire e apprezzare opportunità di guadagno, adottando un comportamento cosciente per trarne vantaggio) consiste in una conoscenza di tipo basicamente tacito non articolabile. Carattere essenzialmente creativo della funzione imprenditoriale.

La funzione imprenditoriale non ha bisogno di nessun mezzo perché la si possa esercitare. Cioè, l’imprenditorialità non presuppone nessun costo e, pertanto, è essenzialmente creativa.28 Questo carattere creativo della funzione imprenditoriale si esprime nel fatto che essa dà luogo a dei benefici che, in certo senso, sorgono dal nulla e che definiremo benefici imprenditoriali puri. Per ottenere benefici imprenditoriali non è necessario, quindi, disporre previamente di alcun mezzo, ma semplicemente esercitare bene la funzione imprenditoriale. Possiamo illustrare questo fatto partendo dalla situazione descritta nella figura II-1. Basta rendersi conto della situazione di squilibrio o scoordinamento che esiste tra «A» e «B», perché sorga, immediatamente, l’opportunità di un beneficio imprenditoriale puro.29 Così, nella figura II-2, si suppone che una terza persona, in questo caso «C», sia quella che esercita la funzione imprenditoriale, poiché scopre l’opportunità di guadagno inerente allo squilibrio o scoordinamento che c’era nel grafico della figura II-1 (rappresentiamo con una «lampadina che si accende» il fatto che «C» si rende conto di quella opportunità; com’è logico, nella pratica la funzione imprenditoriale potrà essere esercitata da «A», da «B», o simultaneamente, con uguale o diversa intensità, da ognuno di loro, benché per i nostri scopi sia più grafico considerare in questo caso che venga portata a termine da una terza persona «C»).

Figura II-2

In effetti, basta che «C» si metta in contatto con «B» e gli offra di comperare quella risorsa, di cui dispone in abbondanza e a cui praticamente non dà importanza, per una determinata quantità, poniamo per 3 unità monetarie, cosa che soddisferà enormemente «B», dal momento che non avrebbe mai potuto immaginare di poter ottenere tanto per la sua risorsa. In seguito, un volta realizzato lo scambio, «C» potrà mettersi in contatto con «A» e vendergli questa risorsa che «A» tanto necessita per portare a termine il fine che si è proposto, vendendoglielo, poniamo, per 9 unità monetarie (se «C» non ha denaro, potrà ottenerlo, per esempio, convincendo qualcuno a prestarglielo temporaneamente). Pertanto, come conseguenza dell’esercizio della funzione

ma dato che i costi sono qualcosa di soggettivo e che possono essere conosciuti da chi agisce solo nel contesto di ciascuna azione concreta, la pratica della funzione imprenditoriale non può essere articolata dettagliatamente né rimpiazzata da nessun criterio oggettivo di tipo scientifico (opera citata, pp. 103-104). 28 Per San Tommaso d’ Aquino, «creare est aliquid ex nihilo facere» (cioè, creare è fare qualcosa partendo dal nulla). Suma Teológica, Part. I, Q 45, art. 1 e ss, B.A.C., vol. II, 1948, p. 740. Non condividiamo la tesi secondo la quale solo Dio è capace di creare, poiché anche l’uomo crea costantemente ogni volta che esercita la funzione imprenditoriale. L’ex nihilo per San Tommaso ha un significato eccessivamente materialista, mentre per noi si verifica ogni volta che l’uomo percepisce o si rende conto di qualcosa che prima non aveva neppure concepito (ibidem, p.756). Giovanni Paolo II sembra propendere per la nostra interpretazione nella sua enciclica Laborem Exercens (Ediciones Paulinas, Madrid 1981), quando afferma che l’uomo «imita e rispecchia l’azione stessa del Creatore dell’Universo» (n.° 4 e 25), anche se a volte confonde il concetto di azione umana con il concetto di «lavoro» (vedere anche la nota 30). 29 Nella nostra ottica ogni azione umana ha una componente eminentemente creativa, senza bisogno di distinguere tra la creatività imprenditoriale nell’ambito economico e la creatività in altri ambiti umani (artistici, sociali, ecc.), come fa erroneamente Nozick, quando non si rende conto che l’essenza della creatività è la stessa in tutti gli ambiti, e che il concetto e le caratteristiche della funzione imprenditoriale che stiamo analizzando sono applicabili a ogni azione umana, indipendentemente dal tipo di azione di cui si tratta. Vedere Robert Nozick, The Examined Life, Simon and Schuster, New York 1989, p.40.

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imprenditoriale da parte di «C», questi ha ottenuto, ex nihilo, un beneficio imprenditoriale puro di 6 unità monetarie.30

Ora ci interessa soprattutto sottolineare che, come conseguenza di questo atto di imprenditorialità, si sono prodotti tre effetti di straordinaria importanza. Da un lato, la funzione imprenditoriale ha creato nuova informazione che prima non esisteva. In secondo luogo, questa informazione è stata trasmessa a tutto il mercato. E, in terzo luogo, come conseguenza di questo atto imprenditoriale, gli agenti economici implicati hanno imparato ad agire gli uni in funzione degli altri. Queste conseguenze dell’imprenditorialità sono così importanti che vale la pena studiarle attentamente una ad una. Creazione di informazione

Ogni atto imprenditoriale implica la creazione ex nihilo di una nuova informazione. Questa creazione ha luogo nella mente di quella persona , quella rappresentata dal pupazzo «C» nel nostro esempio, che prima di tutto esercita la funzione imprenditoriale. Effettivamente, nel momento in cui 30 Che la funzione imprenditoriale sia assolutamente creativa e che, pertanto, i benefici imprenditoriali puri sorgano dal nulla, ci può portare a fare la seguente digressione teologica: ammettendo per fini dialettici che esista un Essere supremo, creatore di tutte le cose dal nulla, ritenendo, come abbiamo visto, la funzione imprenditoriale una creazione ex nihilo di benefici imprenditoriali puri, sembra chiaro che l’uomo assomiglia a Dio proprio quando esercita la funzione imprenditoriale pura! Questo significa che l’uomo, più che homo sapiens, è homo agens o homo impresario, che assomiglia a Dio più che quando pensa, quando agisce, cioè quando concepisce e scopre nuovi fini e mezzi. Per di più, potremmo costruire tutta una teoria della felicità, secondo la quale, ciò che dà più felicità all’uomo è assomigliare al suo Creatore, cioè la causa di maggiore felicità per l’uomo sarebbe rendersi conto dei propri obbiettivi e raggiungerli ( cosa che implica agire ed esercitare la funzione imprenditoriale). Nonostante a volte, senza alcun dubbio, commettiamo molteplici errori imprenditoriali, soprattutto per quel che riguarda la scelta dei fini che si dovrebbero perseguire (fortunatamente, l’uomo non è sperduto, ma ha determinate guide che lo aiutano in questo campo, come possono essere l’etica e la religione). Spero che la mia digressione non sembri al Professor Kirzner, uomo di profonde convinzioni religiose, l’«uso sacrilego di una metafora teologica». Vedere Israel M. Kirzner Discovery, Capitalism, and Distributive Justice, Basil Blackwell, Oxford 1989, p. 40. Giovanni Paolo II, come abbiamo già detto nella nota 28, nella sua enciclica Laborem Exercens (Ediciones Paulinas, Madrid1981), sembra propendere verso la nostra interpretazione quando afferma che l’uomo imita e rispecchia «l’azione stessa del Creatore dell’Universo» (n.° 4 e n.° 25), agendo come un vero «cooperatore» di Dio (n.° 25) e partecipando al piano originale e all’opera del Creatore (n.° 25). Tuttavia, sembra a volte che Giovanni Paolo II confonda il concetto di «azione umana» con il concetto di «lavoro», introducendo un’inesistente dicotomia di azioni umane (quelle riferite al «lavoro» strictu sensu, e quelle riferite al «capitale»). Il vero problema sociale non è l’opposizione tra «lavoro» e «capitale», ma se sia legittimo utilizzare in modo sistematico l’aggressione o violenza istituzionale contro la capacità creativa che l’uomo esercita quando agisce, così come a che tipo di norme e leggi debba sottomettersi ogni azione. Inoltre, l’autore dell’enciclica non si rende conto che se si sta riferendo all’azione umana in generale, non ha senso parlare, come lì si fa (n.° 19), del diritto di ricevere una «giusta remunerazione», dato che ogni “attore” ha diritto, come vedremo, al risultato integro (sia beneficio o perdita) della sua creatività o azione imprenditoriale; e se sta parlando del lavoro in senso stretto come fattore di produzione, teoricamente gli si elimina radicalmente ogni possibilità creativa. Per fare queste riflessioni mi è stato molto utile l’articolo di Fernando Moreno, «El Trabajo según Juan Pablo II», in Cristianismo, Sociedad Libre y Opción por los Pobres, Editor Eliodoro Matte Larrain, Centro de Estudios Públicos, Cile 1988, pp. 395-400. La concezione, o almeno il linguaggio e l’articolazione, da parte di Giovanni Paolo II sulla capacità imprenditoriale o l’azione umana creativa, come fattore decisivo della vita sociale, è notevolmente migliorata nella sua successiva enciclica Centesimus Annus, dove già si riferisce espressamente al fatto che il fattore decisivo è «l’uomo stesso, cioè la sua capacità di conoscenza, nelle sue due varianti di conoscenza scientifica e di conoscenza pratica (quella necessaria per «intuire e soddisfare le necessità degli altri»). Queste conoscenze permettono all’essere umano di «esprimere la sua creatività e sviluppare le sue capacità», così come di essere introdotto in quella «rete di conoscenza e di intercomunicazione» che costituisce il mercato e la società. E Giovanni Paolo II conclude che «è sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano (io direi, piuttosto, dell’azione umana) disciplinato e creativo e quello delle capacità di iniziativa e di spirito intraprendente, come parte essenziale del lavoro stesso» (Centesimus Annus, Promoción Popular Cristiana, Madrid 1991, Capitolo IV, n.° 31, 32 e 33, pp. 66-67). Senza alcun dubbio l’enciclica Centesimus Annus mette in evidenza che la concezione dell’economia da parte del Sommo Pontefice si è enormemente modernizzata facendo un importante balzo qualitativo dal punto di vista scientifico, che lascia sorpassata gran parte dell’antica dottrina sociale della Chiesa, e addirittura supera importanti settori della stessa scienza economica che continuano ancora ad essere ancorati al meccanicismo e non sono stati capaci di far posto nei propri «modelli» al carattere eminentemente creativo e dinamico della funzione imprenditoriale. Si veda Michael Novak, The Catholic Ethic and the Spirit o f Capitalism, Free Press, New York 1993.

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«C» si rende conto che esiste una situazione come quella descritta, in cui sono implicati «A» e «B», nella sua mente si crea una nuova informazione che prima non aveva. Ma accade anche che, quando «C» intraprende l’azione e si mette in contatto con «A» e «B», anche nella mente di «A» e «B» si crea una nuova informazione. Così, «A» si rende conto che quella risorsa che gli mancava e di cui aveva tanto bisogno per raggiungere il suo fine è disponibile in altri luoghi del mercato in quantità maggiore di quella che pensava e che, pertanto, può intraprendere ormai senza problemi l’azione che non cominciava per mancanza della suddetta risorsa. Da parte sua, «B» si rende conto che quella risorsa che possedeva in così grande quantità e a cui non dava valore, è molto ricercata e desiderata da altre persone e che, pertanto, può venderla a buon prezzo. Inoltre, parte della nuova informazione pratica che ha origine nella mente di «C» quando esercita la funzione imprenditoriale, e che sorge poi nella mente di «A» e «B», viene raccolta in modo molto riassuntivo o compresso in una serie di prezzi o rapporti storici di intercambio( cioè, che «B» ha venduto a 3 e che «A» ha comperato a 9). Trasmissione di informazione

La creazione imprenditoriale di informazione implica contemporaneamente una trasmissione di tale informazione al mercato. Di fatto, trasmettere qualcosa a qualcuno è far sì che quel qualcuno generi o crei nella sua mente parte dell’informazione che noi avevamo creato o scoperto precedentemente. Nel nostro esempio, non solo è stata trasmessa precisamente a «B» l’idea che la sua risorsa è importante e che non deve sciuparla; e ad «A» l’idea che può procedere alla ricerca del fine che si era proposto e che non cominciava per mancanza di quella risorsa; ma anche che tramite i rispettivi prezzi, che sono un sistema di trasmissione molto potente, dato che trasmettono molta informazione a costo molto basso, si comunica, in ondate successive, a tutto il mercato o a tutta la società, il messaggio che la risorsa in questione deve essere conservata ed economizzata, dal momento che ce n’è richiesta; e contemporaneamente, che tutti quelli che non intraprendono azioni pensando che quella risorsa non esiste, possono ottenerla e andare avanti con i rispettivi piani di attuazione. Com’è logico, l’informazione rilevante è sempre soggettiva e non esiste al di fuori delle persone che siano capaci di interpretarla o scoprirla, di modo che sono sempre gli esseri umani quelli che creano, percepiscono e trasmettono l’informazione. L’idea erronea che l’informazione sia qualcosa di oggettivo ha origine nel fatto che parte dell’informazione soggettiva creata in modo imprenditoriale si plasma «oggettivamente» su segnali ( prezzi, istituzioni, norme, «imprese», ecc.) che possono essere scoperte e interpretate soggettivamente da molti nel contesto delle loro azioni particolari, facilitando così la creazione di nuove informazioni soggettive più ricche e complesse. Tuttavia, e nonostante le apparenze, la trasmissione di informazione sociale è fondamentalmente tacita e soggettiva, cioè non espressa e articolata, e allo stesso tempo molto compendiata (di fatto si trasmette e si capta soggettivamente il minimo indispensabile per coordinare il processo sociale); cosa che, d’altro canto, permette di sfruttare al meglio la limitata capacità della mente umana di creare, scoprire e trasmettere costantemente nuova informazione. Effetto apprendistato: coordinamento e regolazione

Infine, è indispensabile sottolineare come gli agenti «A» e «B» abbiano imparato ad agire uno in funzione dell’altro. Cioè, «B», come conseguenza dell’azione imprenditoriale originalmente intrapresa da «C», non dilapida né spreca più la risorsa di cui disponeva, ma invece, seguendo il proprio interesse, lo mantiene e lo conserva. «A», da parte sua, disponendo di quella risorsa, può raggiungere il suo fine e intraprende l’azione che prima non poteva portare a termine. L’uno e l’altro, pertanto, imparano ad agire in modo coordinato, cioè a modificare e a disciplinare il proprio comportamento in funzione dell’altro essere umano. E inoltre, imparano nel miglior modo

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possibile: senza rendersi conto che stanno imparando e motu proprio, cioè, volontariamente e nel contesto di un piano in cui ciascuno segue i suoi fini e interessi particolari. Questo, e nessun altro, è il nucleo del processo, tanto meraviglioso quanto semplice ed efficace, che rende possibile la vita in società.31 Infine, osserviamo che l’esercizio dell’imprenditorialità da parte di «C» rende possibile non solo un’azione coordinata, che prima non esisteva, tra «A» e «B», ma anche che costoro portino a termine un calcolo economico nel contesto delle loro rispettive azioni, con dati e informazione di cui prima non disponevano e che permettono loro di raggiungere, con molte possibilità di successo, i loro rispettivi fini. Riassumendo, il calcolo economico da parte di ciascun “attore” diviene possibile grazie all’informazione che si genera nel processo imprenditoriale. O, espresso in altro modo: senza l’esercizio della funzione imprenditoriale non si genera l’informazione necessaria perché ogni “attore” possa calcolare o stimare adeguatamente il valore di ogni corso d’azione alternativo. Cioè, senza funzione imprenditoriale non è possibile il calcolo economico.32 Allo stesso tempo, le osservazioni precedenti costituiscono gli insegnamenti più importanti ed elementari della scienza sociale, e ci permettono di concludere che la funzione imprenditoriale è, senza alcun dubbio, la funzione sociale per eccellenza, dato che rende possibile la vita in società regolando e coordinando il comportamento individuale dei suoi membri. Senza funzione imprenditoriale non è possibile concepire l’esistenza di nessuna società.33 Arbitraggio e Speculazione

31 È necessario sottolineare che, come vedremo parlando dell’arbitrarietà e della speculazione, l’essere umano, grazie all’imprenditorialità, impara a disciplinare il proprio comportamento anche in funzione delle circostanze e delle necessità di esseri umani futuri, che non sono ancora nati (coordinamento intertemporale). Inoltre, questo processo non si potrebbe ripetere anche se gli esseri umani, sia obbedendo agli ordini coercitivi di un dittatore benevolo, sia per il proprio desiderio filantropico di aiutare l’umanità, si proponessero deliberatamente di regolare tutte le situazioni di scoordinamento sociale, ma rinunciando a cercare e a sfruttare qualsiasi beneficio o guadagno. In effetti, in assenza di guadagno o di beneficio che funga da incentivo, non sorge neppure l’informazione pratica necessaria per agire coordinando le situazioni di scompenso sociale ( questo indipendentemente dal fatto che, una volta perseguito e ottenuto il beneficio imprenditoriale, chi agisce decida di utilizzarlo a fini caritativi ecc.). Una società in cui i suoi membri dedicassero la maggior parte del loro tempo ad «aiutare deliberatamente il prossimo» e non ad agire in modo imprenditoriale, sarebbe una società tribale di tipo pre-capitalista, incapace di mantenere una parte della popolazione che oggi abita nel mondo. È, pertanto, teoricamente impossibile che i principi di «solidarietà» e altruismo possano servire da guida di comportamento per l’essere umano in un ordine che, come quello sociale, si basa su una serie di relazioni astratte con molteplici altri individui che non sarebbe mai possibile arrivare a conoscere e dei quali solo si percepiscono informazioni e segnali dispersi sotto forma di prezzi, norme in senso materiale e istituzioni. I principi di «solidarietà» e altruismo sono, pertanto, atavismi tribali che si possono applicare solo nei piccoli gruppi primari e all’interno di un numero molto ridotto di partecipanti che hanno tra loro un’intima conoscenza della propria situazione personale. Anche se non si può dire niente contro l’attività che molti esseri umani realizzano nella società per soddisfare le proprie necessità più o meno ataviche o istintive di mostrarsi «solidali» o altruisti con il «prossimo», sì si può affermare categoricamente che cercare di organizzare coercitivamente la società basandosi su tali principi di «solidarietà» e altruismo non solo è teoricamente impossibile, ma farebbe scomparire la civiltà così come la conosciamo oggi, eliminano sia i «lontani» che i «prossimi», di modo che rimarrebbero ben pochi da poter aiutare. Veder F.A. Hayek, The Fatal Conceit, opera citata, p. 13. 32 La parola «calcolo» deriva etimologicamente dall’espressione latina calx-calcis, utilizzata, tra altre cose, per definire il gesso che veniva utilizzato nell’abbaco greco e romano. Una definizione più precisa del calcolo economico si troverà più avanti, a p. 72. 33 Kirzner dice che la funzione imprenditoriale permette di scoprire ed eliminare gli errori che si verificano nella società e che passano inosservati. Tuttavia, questa concezione dell’errore non mi sembra pienamente soddisfacente, poiché essa stessa implica un giudizio dalla posizione di un ipotetico essere onnisciente che conoscerebbe tutte le situazioni di squilibrio che si verificano nella società. A nostro modo di vedere, il concetto di errore ha senso solo in termini soggettivi, cioè, solamente se chi agisce si rende conto, a posteriori, che non avrebbe dovuto perseguire un determinato fine, o che non avrebbe dovuto utilizzare determinati mezzi, poiché avendo agito, è andato incontro a costi, cioè, ha rinunciato a ottenere fini che per lui hanno più valore di quelli che ha ottenuto (questo significa che ha avuto perdite imprenditoriali). Inoltre, si consideri che l’eliminazione di errori nel senso oggettivista di Kirzner viene di solito apprezzata da chi agisce come mossa fortunata che dà luogo a importanti guadagni o benefici imprenditoriali. Israel M. Kirzner «Economics and Error», in Perception, Opportunity and Profit, The University of Chicago Press, Chicago 1979, pp. 120-137.

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Da un punto di vista temporale, l’imprenditorialità si può effettuare in due modi diversi: in modo sincronico o in modo diacronico. Il primo viene definito arbitraggio, ed è la funzione imprenditoriale esercitata nel presente (intendendo come tale quello considerato come presente temporale dall’ottica di chi agisce)34 tra due luoghi o situazioni diversi della società; il secondo viene definito speculazione, ed è l’imprenditorialità esercitata tra due momenti di tempo differenti. Si potrebbe pensare che nel caso dell’arbitraggio ciò che la funzione imprenditoriale fa è scoprire e trasmettere un’informazione che già esiste ma che è dispersa, mentre nella speculazione si crea e si trasmette informazione «nuova». Tuttavia, questa distinzione è puramente artificiale, poiché scoprire quello che «esisteva», ma che non si sapeva esistesse, equivale a creare. Pertanto, non si può ritenere che esista alcuna differenza, qualitativamente e teoricamente, tra l’arbitraggio e la speculazione. Entrambi i tipi di imprenditorialità danno luogo al coordinamento sociale (intratemporale nel caso dell’arbitraggio e intertemporale nel caso della speculazione) e creano tendenze dello stesso tipo verso l’equilibrio e il coordinamento. Diritto, moneta e calcolo economico

Nel nostro esempio grafico, difficilmente «C» avrebbe potuto esercitare la sua funzione imprenditoriale creativa se qualsiasi altra persona, con la forza, gli avesse potuto sottrarre il prodotto di quella funzione; o se «A» o «B», per esempio, lo avessero ingannato non consegnandogli la risorsa o le unità monetarie promesse. Tutto questo significa che l’esercizio della funzione imprenditoriale, e in generale dell’azione umana, esige che le persone in essa implicate mostrino costantemente e ripetutamente determinate linee o regole di condotta, cioè, che siano conformi al diritto. Questo diritto è costituito da una serie di norme che si sono andate formando e depurando in modo evolutivo e consuetudinario. Definiscono fondamentalmente il diritto di proprietà (several property, nella terminologia più recente di Hayek)35 e si possono ridurre ai principi essenziali di rispetto della vita, di stabilità del possesso conseguito pacificamente, di trasferimento mediante consenso e di compimento delle promesse fatte.36 Si può studiare dettagliatamente la base delle norme giuridiche che rendono possibile la vita in società da tre punti di vista diversi ma complementari: l’utilitarista, l’evoluzionista-consuetudinario e quello della teoria dell’etica sociale dei diritti di proprietà. Questo tipo di analisi, tuttavia, supera di molto l’ambito del nostro lavoro, per cui, in ogni caso, ora metteremo in evidenza solamente che, benché il diritto renda possibile l’esercizio dell’azione umana, e pertanto il sorgere e lo svilupparsi della società e della civiltà, a sua volta il diritto è un risultato evolutivo, non pianificato coscientemente da nessuno, dell’esercizio stesso della funzione imprenditoriale. Le istituzioni giuridiche, e in generale tutte le istituzioni sociali (linguaggio, denaro, mercato, ecc.), sorgono così da processi evolutivi in cui un numero molto grande di persone apporta ciascuna, lungo l’arco della storia, il suo piccolo «granello di sabbia» di informazione pratica e creatività imprenditoriale, dando luogo in modo spontaneo, e d’accordo con la nota teoria di Menger, a delle istituzioni37 che sono prodotto, senza alcun dubbio, dell’interazione di molti uomini, ma che non sono state pianificate né organizzate

34 «The present qua duration is the continuation of the conditions and opportunities given for acting. Every kind of action requires special conditions to which it must be adjusted with regard to the aims sought. The concept of present is therefore different for various fields of actions». Ludwig von Mises, Human Action, cit., p.101. 35 F.A. Hayek, The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, cit., p.12. 36 «We have now run over the three fundamental laws of nature, that of the stability of possession, of its transference by consent, and of the performance of promises. ‘Tis on the strict observance of those three laws, that the peace and security of human society entirely depend; nor is there any possibility of establishing a good correspondence among men, where these are neglected. Society is absolutely necessary for the well-being of men; and these are as necessary to the support of society.» David Hume, A Treatise of Human Nature, Oxford University press 1981, LibroIII, Parte II, Sezione VI, p.526 (ed. it., Trattato sulla natura Umana, Laterza, Roma). 37 Riteniamo che istituzione sia ogni schema, norma o modello ripetitivo di condotta, indipendentemente dall’ambito- linguistico, economico, giuridico, ecc.- in cui si verifica.

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coscientemente da nessuno di loro.38 Questo accade perché nessuna mente umana possiede la capacità intellettuale necessaria per acquisire né per comprendere l’enorme volume di informazione pratica che è intervenuta nella graduale generazione, consolidamento e ulteriore sviluppo di quelle istituzioni. Si verifica così la paradossale realtà che le istituzioni più importanti ed essenziali per la vita dell’uomo in società (linguistiche, economiche, legali e morali) non hanno potuto essere create deliberatamente dall’uomo stesso, mancandogli la capacità intellettuale necessaria, ma sono sorte a poco a poco dal processo imprenditoriale di interazioni umane, estendendosi poi a gruppi sempre più ampi mediante il meccanismo di apprendimento e imitazione inconsapevole spiegato prima. Inoltre, la nascita e il perfezionamento delle istituzioni rende possibile, attraverso un tipico processo di feedback o retro-alimentazione, un processo imprenditoriale di interazioni umane sempre più ricco e complesso. Per lo stesso motivo per cui l’uomo non ha potuto creare deliberatamente le proprie istituzioni,39 non può neanche capire pienamente il ruolo globale che giocano quelle che già esistono in ogni momento della storia. Le istituzioni e l’ordine sociale che le genera sono progressivamente più astratti nel senso che non si può né identificare né conoscere l’infinita varietà di conoscenze particolari e di fini individuali che hanno e perseguono gli esseri umani che agiscono al loro interno. Le istituzioni, a loro volta, sono segnali molto potenti, poiché, essendo esse norme o abitudini ripetitive di condotta, orientano l’azione degli esseri umani.

Fra tutte queste istituzioni, forse la più astratta e, pertanto, la più difficile da capire è quella del moneta. In effetti, la moneta o mezzo di scambio generalmente accettato è una delle istituzioni più vitali per l’esistenza e lo sviluppo della nostra civiltà e, tuttavia, sono molto pochi coloro che riescono anche solo a intuire in che modo il denaro renda possibile una moltiplicazione esponenziale nelle possibilità di interazione sociale e di creatività imprenditoriale, e che ruolo

38 Carl Menger, Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften und der Politischen Ökonomie insbesondere, Editrice Duncker Humblot, Leipzig 1883. Il termine utilizzato da Menger per definire «le conseguenze non intenzionali delle azioni individuali» è Unbeabsichtigte Resultante. In concreto, Menger dice che il fenomeno sociale è caratterizzato dal fatto che si presenta come «die unbeabsichtigte Resultante individueller, d.i. individuellen Interessen verfolgender Bestrebungen der Volksglieder … die unbeabsichtigte soziale Resultante individuell teleologischer Faktoren» (p. 182). Si può consultare anche il Prologo di Lawrence H. White all’edizione inglese del libro di Menger intitolato Investigations into the Method of the Social Sciences with Special Reference to Economics, New York University Press, New York 1985, pp. vii a viii e p. 158 ( dove è tradotta in inglese la p. 182 della versione originale tedesca). Si deve consultare anche l’articolo di F.A. Hayek «The Results of Human Action but not of Human Design», in Studies in Philosophy, Politics and Economics, cit., pp. 96-105. A volte si afferma che fu Adam Ferguson il primo a riferirsi esplicitamente a questo tipo spontaneo di fenomeni sociali; in effetti, alla p. 187 del suo An Essay on the History of Civil Society, T. Caddell in the Strand, Londra1767, possiamo leggere che «Nations stumble upon establishments, which are indeed the result of human action, but not the execution of any human design», e aggiunge la famosa frase attribuita da De Retz a Cromwell secondo cui l’uomo non arriva mai così in alto come quando non sa dove va («on ne montait jamais si haut que quand on ne sait pas où l’on va»); esiste una traduzione in spagnolo rivista e corretta da Juan Rincón Jurado, pubblicata dall’ Instituto de Estudios Politicos, Madrid 1974 ( la citazione chiave si trova alla p. 155). Tuttavia, Ferguson raccoglie una tradizione molto più antica e che attraverso Montesquieu, Bernard de Mandeville e gli scolastici spagnoli del secolo XVI risale addirittura, come vedremo all’inizio del Capitolo IV, fino a tutta una corrente del pensiero classico di Roma e della Grecia. 39 Dobbiamo pertanto respingere il concetto di legge in San Tommaso d’Aquino che, definendola come «rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata» (Suma Teológica, opera citata, Tomo VI, 1955, p. 42 Parte I-II, Q90, art. 4), considera erroneamente la legge come un prodotto deliberato del ragionamento umano. In questo senso, San Tommaso è un precursore del «falso razionalismo» che critica Hayek, dal momento che ritiene che la ragione umana possa sapere molto di più di ciò di cui è capace. Questo razionalismo spurio e ascientifico culminerà nella Rivoluzione Francese, con il trionfo dell’utilitarismo e, nel campo del diritto, con il positivismo kelseniano e con le posizioni di Thiebaut. Si veda F.A. Hayek, «Kinds of Rationalism», in Studies in Philosophy, Politics and Economics, cit., Capitolo V, pp. 82-96. Più di recente, Hayek ha criticato il fatto che Aristotele, anche senza cadere negli estremi socialisti di Platone, non sia mai stato capace di capire pienamente l’esistenza di ordini sociali di tipo spontaneo né l’idea essenziale di evoluzione (si veda The Fatal Conceit.The Errors of Socialism, cit., pp. 45-47) dando il via con ciò alla nascita di una corrente ingenuamente scientista che ha oppresso e resa inutile gran parte della scienza sociale sviluppata fino ai nostri giorni.

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giochi facilitando e rendendo possibili i complicatissimi e sempre più difficili calcoli economici che una società moderna esige.40 41

Nel nostro schema elementare di esercizio dell’imprenditorialità, abbiamo dato per scontato che esiste il denaro e che, pertanto, «A», «B» e «C»erano disposti a portare a termine determinati scambi per ottenere in cambio certe unità monetarie. Il denaro è molto importante perché, come ha dimostrato Mises, è un denominatore comune che rende possibile il calcolo economico, in relazione con tutti quei beni e servizi che sono oggetto del commercio o dell’interscambio umano. Per calcolo economico dobbiamo intendere, pertanto, ogni calcolo approssimativo in unità monetarie sui risultati di diversi corsi d’azione. Questo calcolo economico viene verificato da tutti coloro che agiscono ogni volta che esercitano la funzione imprenditoriale, ed è possibile solamente grazie all’esistenza del denaro e all’informazione di tipo pratico che l’esercizio dell’imprenditorialità crea, genera e trasmette costantemente.42 Ubiquità della funzione imprenditoriale

Tutti gli uomini, quando agiscono, in misura maggiore o minore, con maggiore o minore successo, esercitano la funzione imprenditoriale. Cioè, la funzione imprenditoriale come

40 Per l’esattezza Menger, nella sua teoria sull’origine del denaro, ritiene che esso costituisca uno dei casi più importanti e paradigmatici della sua teoria sulla nascita, lo sviluppo e l’evoluzione spontanea delle istituzioni sociali. Si vedano le pp. 152 e seguenti dell’edizione inglese delle Untersuchungen citata nella nota 38. 41 Un’altra istituzione di interesse economico è costituita dall’ente di organizzazione economica che, disgraziatamente, in spagnolo viene chiamato «empresa (impresa)» e che, seguendo l’esempio anglosassone, si dovrebbe chiamare esclusivamente «firma (azienda)» per evitare la confusione fra il concetto di azione umana o imprenditorialità e il concetto di azienda, che non è altro che un’istituzione in più, di importanza relativa, che nasce nel mercato quando chi agisce ritiene che una certa organizzazione sia spesso conveniente per i propri interessi. Pensiamo che esista tutta una corrente del pensiero economico che tende ad esagerare l’importanza delle aziende o imprese commerciali come oggetto di ricerca dell’economia. L’azienda non è altro che una delle molte istituzioni frutto dell’interagire umano e si può capire la sua nascita e la sua evoluzione solo partendo dalla teoria già esposta della funzione imprenditoriale. I teorici dell’azienda o impresa commerciale non solo camuffano, confondono e ignorano il carattere soggettivo dell’imprenditorialità, ma tendono anche a oggettivare e a limitare indebitamente all’azienda il campo di ricerca dell’economia. Si veda, per esempio, R.H. Coase, «The Nature of the Firm», Economica, n.º 4, novembre 1937 (ristampato nel Capitolo II di The Firm, the Market and the Law, The University of Chicago Press, Chicago 1988, pp. 33 a 35); e A.A. Alchian, «Corporate Management and Property Rights», in Economic Policy and the Regulations of Corporate Securities, American Enterprise Institute, Washington D.C. 1969, pp. 342 e ss. Una critica dettagliata a questa corrente di pensiero si può trovare in Israel M. Kirzner, Competition and Entrepreneurship, opera citata, pp. 52 e ss. Si veda anche la citazione 50 del Capitolo IV. 42 Per Ludwig von Mises, «economic calculation is either an estimate of the expected outcome of future action or the establishment of the outcome of past action», Human Action: A Treatise on Economics, opera citata, p. 210 e anche dalla 198 alla 231. In questo senso, Murray N. Rothbard non sembra capire che il calcolo economico pone sempre un problema di creazione e trasmissione di informazione dispersa ed esclusiva senza la quale non può essere portato a termine, come mette in rilievo nelle sue osservazioni riguardo alla polemica sul calcolo economico espresse nella sua recente opera Ludwig von Mises: Scholar, Creator and Hero, Ludwig Von Mises Institute, 1988, Capitolo 5, pp. 35-46. La posizione di Rothbard sembra aver origine nel desiderio quasi ossessivo di mettere in risalto più le differenze che le somiglianze che esistono fra Mises e Hayek. Anche se è certo che, come indica Rothbard, la posizione di Hayek a volte sia stata interpretata in termini troppo ristretti come se si riferisse a un semplice problema derivato dal carattere disperso della conoscenza esistente, lasciando da parte i problemi che pongono l’incertezza e la futura generazione di conoscenza e che sono stati messi in particolare risalto da Mises, riteniamo che entrambi i punti di vista possano essere facilmente collegati, poiché sono strettamente connessi, e nel prossimo capitolo li esporremo in modo articolato nella rispettiva rubrica dell’argomento statico e dell’argomento dinamico contro la possibilità del calcolo economico socialista. Si veda specialmente Murray N. Rothbard, «The End of Socialism and the Calculation Debate Revisited», The Review of Austrian Economics, volume 5, n.º 2, 1991, p. 66. E anche Joseph T. Salerno, «Ludwig von Mises as Social Rationalist», Review of Austrian Economics, 4, 1990, pp. 36-48, e «Why Socialist Economy is Impossible, a Postscript to Mises», Economic Calculation in the Socialist Commonwealth, Ludwig von Mises Institute, Auburn, Alabama 1990. Si veda anche la fine della nota 16 del Capitolo IV.

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«componente chimicamente pura» ha il dono dell’ubiquità. Così, per esempio, il lavoratore la esercita quando è informato e decide se cambiare lavoro o no, se accettare un’offerta, se respingerne un’altra, ecc. Se fa la scelta giusta, otterrà un lavoro più avvincente di quello che avrebbe ottenuto in altre circostanze. Se sbaglia, le sue condizioni di lavoro potrebbero essere peggiori di quello che sarebbero in un altro situazione. Nel primo caso, raccoglierà benefici imprenditoriali, e nel secondo perdite. Anche il capitalista esercita costantemente la funzione imprenditoriale quando, per esempio, decide di assumere un dirigente invece di un altro, o se valuta se vendere o no una delle sue imprese, o se entrare in un determinato settore, o se adottare nel suo portafoglio di investimenti una determinata combinazione di rendita fissa e variabile ecc. Infine, anche il consumatore, agisce costantemente in modo imprenditoriale, quando cerca di scegliere il bene di consumo che più gli piace, quando è informato sulle novità che compaiono sul mercato, o, al contrario, quando decide di non continuare a perdere tempo cercando nuove opportunità, ecc. Pertanto, nella realtà storica di ogni giorno, in tutte le azioni o imprese concrete si esercita costantemente, in misura maggiore o minore, con maggiore o minore successo, la funzione imprenditoriale. Essa viene esercitata da tutte le persone che agiscono nel mercato, non importa in che modo lo fanno, e, di conseguenza, i benefici e le perdite imprenditoriali puri appaiono nella pratica quasi sempre mescolati ad altre categorie economiche di introiti (salari, rendite, ecc.). Solo una dettagliata ricerca di tipo storico ci permetterà di identificare in ciascun caso dove si trova la funzione imprenditoriale più significativa, o chi l’ha esercitata, nel contesto di ciascuna azione o impresa concreta. Il principio essenziale

Dunque, ciò che è veramente importante da un punto di vista teorico non è chi esercita concretamente la funzione imprenditoriale (benché in pratica questa sia proprio la cosa più importante), ma il fatto che, non esistendo restrizioni istituzionali o legali al suo libero esercizio, ogni uomo possa esercitare al meglio le sue doti imprenditoriali creando nuova informazione e traendo profitto dall’informazione pratica di tipo esclusivo che sia riuscito a scoprire nelle circostanze di ciascun momento.

Non è compito dell’economista, ma piuttosto dello psicologo, studiare più dettagliatamente l’origine della forza innata dell’uomo che lo fa muovere in modo imprenditoriale in tutti i suoi campi di azione. Qui e adesso, ci interessa solamente sottolineare il principio essenziale che l’uomo tende a scoprire l’informazione che gli interessa, per cui, se esiste libertà riguardo il raggiungimento di fini e interessi, essi stessi fungeranno da incentivo,43 e faranno sì che colui che esercita la funzione imprenditoriale motivata da quell’incentivo percepisca e scopra continuamente l’informazione pratica rilevante per raggiungere i fini stabiliti. E, al contrario, se per un motivo qualsiasi si limita o si chiude il campo all’esercizio dell’imprenditorialità in un’area determinata della vita sociale (mediante restrizioni coercitive di tipo legale o istituzionale), allora gli esseri umani non prenderanno neanche in considerazione la possibilità di ottenere o raggiungere fini in quelle aree proibite o limitate, per cui, non essendo possibile il fine, esso non fungerà da incentivo, e di conseguenza non si potrà percepire né scoprire alcuna informazione pratica rilevante per ottenerlo. Infatti, neppure le persone interessate saranno coscienti, in queste circostanze, dell’enorme valore e del gran numero di fini che non si possono più raggiungere come conseguenza 43 Incentivo, secondo il Diccionario della Real Academia, è ciò «che muove o spinge a desiderare o a fare una cosa» e, pertanto, coincide con la definizione che abbiamo dato di beneficio o guadagno. Il beneficio o guadagno soggettivo che si vuole ottenere con un’azione umana costituisce proprio l’incentivo o stimolo che spinge ad agire in tale azione. In teoria, e benché questa non sia la sede più adatta per spiegare più a fondo l’essenza psichica dell'imprenditorialità, quanto più chiaramente si visualizza l’obbiettivo e con quanta maggiore intensità psichica lo si persegue, più significativo sarà, da un lato, il flusso di idee creative importanti per raggiungere quel fine, e a sua volta, e dall’altro lato, chi agisce riuscirà più facilmente a distinguere e a respingere tutto il magma di informazione irrilevante che potrebbe distrarlo. Inoltre, si deve consultare la p. 368 del Cap. VII, in cui si specificano due significati diversi del termine «incentivo», quello statico e quello dinamico.

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di questa situazione di restrizione istituzionale.44 Cioè, nello schema di pupazzi delle Figure II-1 e II-2, ci rendiamo conto di come, se esiste libertà nell’esercizio dell’azione umana, la «lampadina imprenditoriale» si potrà accendere liberamente in qualsiasi circostanza di squilibrio o scoordinamento sociale, mettendo in moto il processo di creazione e di trasmissione di informazione che darà luogo al coordinamento dello squilibrio che permette e rende possibile la vita in società. Al contrario, se in una determinata area si impedisce l’esercizio dell'imprenditorialità, allora non è possibile in nessun caso che si «accenda la lampadina imprenditoriale», cioè, non è possibile che l’imprenditore scopra la situazione esistente di squilibrio che, pertanto, potrà continuare indefinitamente inalterata o addirittura aggravarsi. Adesso capiamo la grande saggezza contenuta nell’antico proverbio che dice «occhio che non vede, cuore che non duole» e che è direttamente applicabile al caso che ci interessa. Poiché si verifica il paradosso che l’uomo non è in grado di dispiacersi o di valutare quello che perde quando non può agire o esercitare liberamente la sua funzione imprenditoriale.45

Infine, ricordiamo che ogni uomo-attore possiede alcuni atomi di informazione pratica che, come abbiamo visto, tende a scoprire e a utilizzare per raggiungere un fine; informazione che, nonostante la sua importanza sociale, solo lui ha o possiede, cioè, solo lui conosce e interpreta in modo cosciente. Sappiamo già che non ci riferiamo all’informazione formulata dalle riviste specializzate, dai libri, dai giornali, dai computer, ecc. L’unica informazione o conoscenza rilevante a livello sociale è quella che è conosciuta o riconosciuta in modo cosciente, anche se nella maggior parte dei casi solo tacitamente, da qualcuno in ciascun momento storico. Inoltre l’uomo, ogni volta che agisce ed esercita la funzione imprenditoriale, lo fa in un modo caratteristico, proprio di lui solo, cioè personale e irripetibile, che ha origine nel tentativo di raggiungere degli obbiettivi o una visione del mondo che fungano da incentivi e che, nelle loro diverse caratteristiche e circostanze, solo lui possiede. Questo fa sì che ogni essere umano ottenga delle conoscenze o delle informazioni che scopre solo in funzione dei loro fini e circostanze e che non sono ripetibili in modo identico da nessun altro essere umano.46

44 Per anni e anni gli studenti dei paesi dell’Est,e specialmente dell’estinta Unione Sovietica, hanno perso migliaia e migliaia di ore scrivendo a mano i loro appunti dai libri di consultazione nelle biblioteche, senza sapere che l’esistenza di fotocopiatrici avrebbe potuto ridurre o eliminare completamente questo lavoro. Solo quando hanno scoperto che in Occidente si utilizzavano quelle macchine su larga scala e la loro diretta applicazione, tra le altre cose, al campo dello studio e della ricerca, hanno cominciato a sentirne la mancanza e a richiederne la presenza e l’utilizzo. Questi casi sono molto evidenti in quelle società che sono comparativamente più controllate di quelle dei paesi occidentali. Tuttavia, non dobbiamo cadere nell’autocompiacimento o nell’errore di pensare che le società occidentali siano prive di casi simili, poiché non siamo coscienti di quanto si perda in esse, a causa dell’ interventismo, se non esistono altre società sistematicamente meno restrittive che ci possano servire da termine di paragone. 45 Il primo ad enunciare il principio essenziale analizzato in questo paragrafo è stato Samuel Bailey, quando ha detto che ogni azione richiede «minute knowledge of a thousand particulars which will be learnt by nobody but him who has an interest in knowing them». A Defense of Joint-Stock Banks and Country Issues, James Ridgeway, Londra 1840, p.3. Si veda anche il paragrafo su «Il Socialismo come oppio del popolo» del prossimo Capitolo III. 46 León Felipe, in uno dei suoi momenti di maggiore ispirazione, disse:

Nadie fue ayer ni va hoy

ni irá mañana hacia Dios

por este mismo camino que yo voy.

Para cada hombre guarda un rayo nuevo de luz el sol

y un camino virgen Dios.

(Nessuno è stato ieri né va oggi né andrà domani verso Dio lungo lo stesso cammino per cui vado io. Per ogni uomo il sole riserva un raggio nuovo di luce e Dio un cammino vergine). León Felipe, Obras Completas, Editorial Losada, Buenos Aires 1963, «Prologuillo», p. 25.

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Da qui l’enorme importanza che ha il fatto di non sprecare la funzione imprenditoriale di nessuno. Anche le persone più umili, socialmente meno considerate, e meno formate dal punto di vista della conoscenza articolata, possiedono con carattere esclusivo almeno piccoli pezzi o piccole parti di conoscenza o di informazione che potranno avere un valore determinante nel corso degli eventi storici.47 Da questo punto di vista risulta evidente il carattere essenzialmente umanista della concezione dell’imprenditorialità che stiamo spiegando e che fa dell’economia la scienza umanistica per eccellenza. Competenza e funzione imprenditoriale

La funzione imprenditoriale, per sua natura e definizione, è sempre competitiva.48 Questo vuol dire che, una volta che chi agisce scopre una determinata opportunità di guadagno e agisce per trarne profitto, tale opportunità di guadagno sparisce, e ormai nessun altro può apprezzarla e trarne vantaggio. E allo stesso modo, se la possibilità di guadagno si scopre solo parzialmente o, pur avendola totalmente scoperta, chi agisce ne trae solo un vantaggio parziale, parte di quella opportunità rimarrà latente perché qualcun altro la scopra e ne tragga vantaggio. Il processo sociale è, pertanto, nettamente competitivo, nel senso che i diversi “attori” rivaleggiano tra loro, in modo cosciente o incosciente, per apprezzare prima di tutti le opportunità di guadagno e trarne vantaggio.49 All’interno del nostro schema raccolto nel grafico dei pupazzi, è come se la funzione imprenditoriale, più che rappresentata da una sola «lampadina» come abbiamo fatto noi per ragioni di semplificazione, si manifestasse nell’apparizione simultanea e successiva di molteplici «lampadine», e ciascuna di esse rappresentasse i molteplici e svariati atti imprenditoriali di diagnosi e sperimentazione delle soluzioni più nuove e diverse ai problemi di scoordinamento sociale, che rivaleggiano e competono fra di loro per fare la cosa giusta e per prevalere.

Ogni atto imprenditoriale scopre, coordina ed elimina squilibri sociali e, in funzione del suo carattere essenzialmente competitivo, fa sì che tali squilibri, una volta scoperti e coordinati, non possano più essere scorti ed eliminati da nessun altro “attore”. Si potrebbe pensare erroneamente che il processo sociale mosso dall’imprenditorialità potrebbe arrivare, per la sua stessa dinamica, a fermarsi o a scomparire, una volta che la forza dell’imprenditorialità avesse scoperto ed esaurito tutte le possibilità esistenti di riequilibrio sociale. Tuttavia, il processo imprenditoriale di coordinamento sociale non si ferma né si esaurisce mai. E questo perché l’atto elementare di coordinamento, che abbiamo spiegato nelle Figure II-1 e II-2, consiste basicamente nel creare e trasmettere nuova informazione che per forza deve modificare la percezione generale di obbiettivi e di mezzi di tutti gli “attori” implicati. Questo, a sua volta, dà luogo all’illimitata comparsa di nuovi squilibri che presuppongono nuove opportunità di guadagno imprenditoriale, e così via, in un processo dinamico che non finisce mai, e che fa costantemente avanzare la civiltà. Cioè, la funzione imprenditoriale non solo rende possibile la vita in società, dal momento che coordina il 47 «Todo ser humano vivo, aun el más humilde, crea sólo con vivir (ogni essere umano vivo, anche il più umile, crea per il solo fatto di vivere)», Gregorio Marañon, El Greco y Toledo, Obras Completas, Editorial Espasa Calpe, Madrid 1971, Volumen VII, p. 421. 48 Competizione deriva etimologicamente dal latino cumpetitio (simultaneità multipla di richieste su una cosa alla quale si deve aggiudicare un padrone) formata da cum, con e petere, chiedere, iniziare, cercare, il Diccionario della Real Academia la definisce come la «rivalidad entre dos o más que aspiran a obtener la misma cosa (la rivalità fra due o più che aspirano a ottenere la stessa cosa)». La competizione consiste, pertanto, in un processo dinamico di rivalità e non in quello denominato «modello di competizione perfetta», in cui molteplici offerenti fanno la stessa cosa e vendono tutti allo stesso prezzo, nel quale, cioè, paradossalmente, nessuno compete. Si veda il mio articolo «La crisis del Paradigma Walrasiano», El País, 17 dicembre 199°, p. 36. 49 Vedere Israel M. Kirzner, Competition and Entrepreneurship, cit., pp. 12-13, e Discovery and the Capitalist Process, cit., pp. 130-131. Kirzner sottolinea che l’unico requisito per garantire che il processo sociale sia competitivo è che esista libertà di accesso, cioè, assenza in tutte le aree sociali di restrizioni legali o istituzionali al libero esercizio della funzione imprenditoriale.

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comportamento squilibrato dei suoi membri, ma permette anche lo sviluppo della civiltà, creando continuamente nuovi obbiettivi e nuove conoscenze che si diffondono a ondate successive a tutta la società; e inoltre, e questo è molto importante, permette anche che questo sviluppo sia il più umanamente possibile appropriato e armonioso in ogni circostanza storica, perché gli squilibri che si creano costantemente man mano che avanza lo sviluppo della civiltà, e nasce e sorge nuova informazione, a loro volta tendono a essere scoperti ed eliminati dalla stessa forza imprenditoriale dell’azione umana.50 Cioè, la funzione imprenditoriale è la forza che unisce la società e rende possibile il suo sviluppo armonioso, dato che essa tende ugualmente a coordinare gli inevitabili e necessari squilibri che si verificano in tale processo di sviluppo.51 La divisione della conoscenza e l’ordine «estensivo» di cooperazione sociale

Data la limitata capacità della mente umana di assimilare informazione, così come il crescente volume di costante creazione di nuova informazione da parte del processo sociale messo in moto dalla forza imprenditoriale, è chiaro che lo sviluppo della società esige una continuo ampliamento e approfondimento della divisione della conoscenza. Questa idea, che originariamente era stata enunciata in una prima versione, goffa e oggettivista, con la denominazione di divisione del lavoro,52 vuol dire, semplicemente, che il processo di sviluppo presuppone, dal punto di vista

Figura II-3 50 Il processo imprenditoriale dà luogo, pertanto, a una specie di continuo «Big Bang» sociale che permette la crescita senza limite della conoscenza. Secondo Frank J. Tipler, Professore di Matematica e Fisica dell’Università di Tulane, il limite massimo di espansione della conoscenza sulla terra è di 10 (alla sessantaquattresima) bits ( per cui sarebbe possibile aumentare 100.000 milioni di volte i limiti fisici di crescita considerati fino a ora), essendo possibile dimostrare matematicamente che una civiltà umana con base spaziale potrebbe espandere la sua conoscenza, la sua ricchezza e la sua popolazione senza limite. E conclude: «Much nonsense has been written on the physical limits to economic growth by physicists who are ignorant of economics. A correct analysis of the physical limits to growth is possible only if one appreciates Hayek’s insight that what the economic system produces is not material things, but immaterial knowledge.» Si veda Frank J. Tipler, A Liberal Utopia, in «A Special Symposium on the “Fatal Conceit” by F.A. Hayek», Humane Studies Review, volume 6, n.º 2, inverno 1988-89, pp. 4-5 (pubblicato in spagnolo in Cuadernos del Pensamiento Liberal, n.º 12, Unión Editorial, Madrid 1991, pp. 69-72). E anche il notevolissimo libro di John D. Barrow e Frank J. Tipler, The Anthropic Cosmological Principle, Oxford University Press, Oxford 1986, e soprattutto le sue pp. 658-677. 51 Nel grafico della figura II-3 possiamo analizzare una situazione elementare come quella descritta nel testo. In effetti «A» può intraprendere la sua azione perché grazie alla funzione imprenditoriale esercitata da «C» scopre che c’è sufficiente risorsa R. Successivamente, a un quarto soggetto «D», in seguito all’azione intrapresa da «A», viene in mente che a sua volta potrebbe perseguire l’obbiettivo «Z» se disponesse della risorsa «S» che non sa dove può trovare, ma che è disponibile per l’agente «E» in altre parti del mercato. Sorge pertanto, come conseguenza dell’informazione creata nel primo atto imprenditoriale, un nuovo squilibrio fra «D» ed «E», che crea una nuova opportunità di guadagno che rimane in attesa di essere scoperta e messa o frutto da qualcuno. E così via. 52 Sulla «Legge della Divisione del Lavoro» e la sua generalizzazione, la «Legge di Associazione di Ricardo, bisogna consultare le sensate considerazioni di Mises nel suo Human Action, cit., pp. 157-165. Si può consultare anche: Ludwig von Mises, Nationalökonomie: Theorie des Handelns und Wirtschaftens, The International Carl Menger Library, 2ª edizione, Philosophia Verlag, Monaco 1980, pp. 126-133 (qui Mises utilizza l’espressione «Vergesellschaftungsgesetz» per riferirsi alla «Legge di Associazione»). Come dice bene Robbins (Politics and Economics, Macmillan, Londra 1963, p. 141), è merito di Mises quello di essersi reso conto che la Legge dei Costi Comparativi di Ricardo non è altro che un caso particolare di una legge molto più ampia, la «Legge di Associazione», che spiega come la cooperazione tra i più capaci e i meno capaci porti benefici a entrambi, a patto che ciascun essere umano scopra in modo imprenditoriale che ci guadagna se si specializza in quell’attività in cui abbia un vantaggio comparativo relativo migliore. Mises, però, non riesce neanche in questo luogo a liberarsi di tutti i resti oggettivisti che da Adam Smith impregnano la teoria della Legge della Divisione del Lavoro. Si dovrà aspettare fino alla pagina 709 del suo Human Action perché si riferisca, ora esplicitamente, alla divisione intellettuale del lavoro, che noi nel testo abbiamo chiamato divisione della conoscenza o informazione.

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verticale, una conoscenza sempre più profonda, specializzata e dettagliata che, per la sua espansione orizzontale, esige un volume sempre maggiore di esseri umani (cioè, un incremento costante della popolazione). Questa crescita della popolazione è, a sua volta, conseguenza e condizione necessaria per lo sviluppo della civiltà, dato che la capacità della mente umana è molto limitata e non è capace di duplicare il volume di informazione pratica necessario se essa crea continuamente in modo imprenditoriale e il numero di menti e di esseri umani non aumenta in parallelo. Nella figura II-4 si descrive in modo grafico questo processo di approfondimento

Figura II-4

ed estensione nella divisione della conoscenza pratica e dispersa in cui consiste lo sviluppo della società mosso dalla funzione imprenditoriale. 53

I numeri della Figura II-4 servono ad identificare i diversi esseri umani. Le lettere rappresentano la conoscenza pratica di ciascun essere umano indirizzata a fini concreti. Le «lampadine accese» fra le frecce del centro della figura indicano l’atto imprenditoriale di scoperta dei vantaggi dello scambio e della divisione orizzontale della conoscenza: in effetti, nella seconda linea si osserva come ciascun essere umano non duplica ormai la conoscenza ABCD di tutti gli altri, ma si specializza il 2 in AB e il 3 e il 4 in CD, scambiandosi l’un l’altro il prodotto della loro azione imprenditoriale. Le lampadine ai lati rappresentano la creazione imprenditoriale di nuova informazione che provoca un aumento nella divisione verticale della conoscenza. In effetti, le nuove idee nascono se non è indispensabile duplicare tutta la conoscenza dispersa degli “attori” in ciascuno di loro. E il fatto che la conoscenza sia sempre più profonda e complessa esige un aumento della popolazione, cioè, la comparsa di nuovi esseri umani (numeri 5, 6, 7 e 8) che a loro volta possano creare nuova informazione e imparare quanto ricevuto dai «padri», estendendolo a tutta la società tramite lo scambio. Insomma, non è possibile conoscere o sapere sempre più in più aree concrete senza che aumenti il numero di esseri umani. O, detto in altro modo, il limite principale allo sviluppo della civiltà è una popolazione bloccata, dunque impossibilitata a continuare il processo di approfondimento e specializzazione della conoscenza pratica necessario allo sviluppo economico.54 53 È necessario considerare che ci risulta quasi impossibile illustrare graficamente neanche le caratteristiche più importanti del processo sociale mosso dall’imprenditorialità e che Hayek ritiene che è probabilmente la struttura più complessa che c’è nell’universo («the extended order is probably the most complex structure in the universe». The Fatal Conceit, cit., p. 127). Questo «ordine estensivo di cooperazione sociale» che stiamo descrivendo in questo capitolo è, d’altra parte, l’esempio più tipico di ordine spontaneo, evolutivo, astratto e non programmato, che Hayek definisce Cosmos e oppone all’ordine deliberato, costruttivista o organizzato (taxis). Vedere F.A. Hayek, Law, Legislation and Liberty, The University of Chicago Press, Chicago 1973, volume I, Capitolo 2, pp. 35-55. 54 «We have become civilized by the increase of our numbers just as civilization made that increase possible: we can be few and savage, or many and civilized. If reduced to its population of ten thousand years ago, mankind could not preserve civilisation. Indeed, even if knowledge already gained were preserved in libraries, men could make little use of it without numbers sufficient to fill the jobs demanded for extensive specialisation and division of labour. All knowledge available in books would not save ten thousand people spared somewhere after an atomic holocaust from having to return to a life of hunters and gatherers.» F.A. Hayek, The Fatal Conceit, cit., p.133. Pertanto, il processo, che prima abbiamo qualificato come sorprendente e meraviglioso big bang sociale, si basa su un importantissimo fenomeno di feedback o retro-alimentazione: il suo sviluppo rende possibile mantenere volumi crescenti di popolazione, i quali, a loro volta, alimentano di nuovo e danno impulso in modo ancora più potente al futuro sviluppo o espansione del big bang sociale, e così via. Pertanto, e dopo migliaia di anni, finalmente siamo stati capaci di spiegare e razionalizzare in termini scientifici il comandamento biblico contenuto nella Genesi (I,28) di «Sed fecondo y multiplicaos, y llenad la tierra y sometedla (Siate fecondi e moltiplicatevi, e riempite la terra e sottomettetela)» (Biblia de Jerusalén, Desclée de Brouwer, Bilbao 1970, p.2).

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Creatività versus massimizzazione

La funzione imprenditoriale, o, se si preferisce, l’azione umana, non consiste essenzialmente nell’assegnare mezzi dati a fini anch’essi dati in modo ottimale, ma consiste basicamente, come abbiamo già visto, nel percepire, apprezzare e rendersi conto di quali siano i fini e i mezzi, cioè, nel cercare e scoprire nuovi fini e mezzi in modo attivo e creativo. Per questo bisogna essere particolarmente critici verso la goffa e ristretta concezione dell’economia che ha origine in Robbins e nella sua nota definizione di essa come scienza che studia l’utilizzazione di mezzi scarsi suscettibili di usi alternativi per la soddisfazione delle necessità umane.55 Questa concezione presuppone, pertanto, una conoscenza data dei fini e dei mezzi, per cui il problema economico si riduce a un problema tecnico di pura assegnazione, massimizzazione od ottimizzazione; l’uomo robbinsiano è un automa o una caricatura umana che si limita a reagire in modo passivo di fronte agli avvenimenti. In opposizione a questa concezione di Robbins bisogna sottolineare la posizione di Mises, secondo cui l’uomo, addirittura più che un homo sapiens è un homo agens o homo impresario che agisce. Più che assegnare mezzi dati a fini dati in modo esclusivo, quello che l’uomo fa in realtà è cercare costantemente nuovi fini e mezzi, imparando dal passato e usando la sua immaginazione per scoprire e creare il futuro passo a passo.56 Inoltre, come ha ben dimostrato Kirzner, anche l’azione che sembra puramente massimizzatrice od ottimizzatrice possiede sempre una componente imprenditoriale, poiché è necessario che , previamente, l’“attore” in essa implicato si sia reso conto che tale corso d’azione, così automatico, meccanico e reattivo, è il più conveniente.57 Cioè, la concezione robbinsiana non è che un caso particolare, relativamente poco importante, inglobato dalla concezione misiana, che è molto più generale, ricca ed esplicativa della realtà sociale. Conclusione: il nostro concetto di società

Insomma, potremmo concludere definendo la società58 come un processo (cioè, una struttura dinamica) di tipo spontaneo, vele a dire, non progettato coscientemente da nessuno; molto complesso, poiché è costituito da migliaia di milioni di persone con un’infinita varietà di obbiettivi, gusti, valutazioni e conoscenze pratiche; di interazioni umane (che basicamente sono relazioni di scambio che in molti casi si plasmano su prezzi monetari e si effettuano sempre secondo delle norme, usanze o regole di condotta); mosse tutte dalla forza della funzione imprenditoriale; che costantemente crea, scopre e trasmette informazione, equilibrando e coordinando in modo competitivo i piani contraddittori degli individui; e rendendo possibile la vita in comune di tutti loro con un numero e una complessità e ricchezza di sfumature ed elementi sempre maggiori.59 55 Lionel Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, Macmillan, Londra 1972, p. 16. Il riconoscimento che Robbins tributa a Mises nel prologo di questo libro, dimostra che Robbins ha assimilato gli insegnamenti di Mises in modo povero e confuso. 56 Per questo in Mises l’economia è sottomessa o integrata in una scienza molto più generale e ampia, una teoria generale dell’azione umana o funzione imprenditoriale che egli definisce prasseologia. Vedere Human Action, cit., parte prima, pp. 11 a 200. Hayek, da parte sua, afferma che se per la nuova scienza che nasce come generalizzazione dell’economia «a name is needed the term «praxeological» sciences…now clearly defined and extensively used by L. v. Mises would appear to be most appropriate». The Counter-Revolution of Science, Free Press of Glencoe, New York 1952, p. 209. 57 Israel M. Kirzner, Discovery, Capitalism and Distributive Justice, cit., p. 36 e ss. Kirzner inoltre critica dettagliatamente i tentativi falliti di restringere il concetto della funzione imprenditoriale all’interno della struttura metodologica dell’equilibrio e del paradigma neoclassico. 58 Riteniamo che, in senso lato, i concetti di società e mercato coincidano, per cui la definizione che diamo di società nel testo è pienamente applicabile al mercato. D’altra parte, quando il Diccionario della Real Academia ci dà l’accezione di «concurrencia de gente (insieme di persone)» in relazione al termine «mercato», sembra che, in linea con noi, stia considerando come sinonimi i termini «società» e «mercato». 59 Ad essere precisi, l’oggetto della Scienza Economica sarebbe quello di studiare questo processo sociale proprio come lo abbiamo descritto. Così, Hayek ritiene che l’scopo essenziale dell’ Economia sia quello di analizzare come, grazie all’ordine sociale spontaneo, traiamo vantaggio da un enorme volume di informazione pratica, che non si trova in nessun posto in modo centralizzato, ma che è disperso o disseminato nella mente di milioni di individui.

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3. FUNZIONE IMPRENDITORIALE E CONCETTO DI SOCIALISMO

L’analisi, abbastanza dettagliata e profonda, della funzione imprenditoriale che abbiamo fatto fino ad ora era necessaria, poiché la nostra definizione di socialismo, come vedremo, si basa o ha fondamento nel concetto dell’imprenditorialità. In effetti, in questo libro definiremo sempre il socialismo come ogni restrizione o aggressione istituzionale contro il libero esercizio dell’azione umana o funzione imprenditoriale. Dedicheremo il prossimo capitolo ad analizzare dettagliatamente questa definizione e tutte le sue implicazioni. Per il momento è sufficiente indicare che in molti casi la restrizione o aggressione istituzionale ha origine in un desiderio deliberato di migliorare il processo di coordinamento sociale e di raggiungere determinati fini o obbiettivi. Cioè, in alcune occasioni l’aggressione istituzionale contro l’azione umana che presuppone il socialismo potrà avere un’origine basata sulla tradizione e la storia, come accade in determinate società pre-capitaliste ancorate, per esempio, al sistema di caste; tuttavia, il socialismo come fenomeno moderno e indipendentemente dal suo tipo o dalla sua classe, nasce come un tentativo deliberato di voler, mediante la coercizione istituzionale, «migliorare» la società, rendere più efficace il suo sviluppo e il suo funzionamento, e raggiungere dei fini che si ritengono «giusti». Per tutte queste ragioni, possiamo completare la definizione di socialismo che abbiamo appena proposto nel modo seguente: socialismo sarebbe qualunque sistema di restrizione o di aggressione istituzionale contro il libero esercizio dell’azione umana o funzione imprenditoriale che si suole giustificare a livello popolare, politico e scientifico, come un sistema capace di migliorare il funzionamento della società e di raggiungere determinati fini e obbiettivi che si ritengono buoni. Uno studio profondo del socialismo, così come lo abbiamo appena definito, esige un’analisi teorica del concetto e delle sue implicazioni che ci permetta di chiarire se sia o no un errore intellettuale la convinzione che sia possibile migliorare il sistema di coordinamento sociale attraverso la coercizione istituzionale che implica qualsiasi forma di socialismo. Allo stesso modo, è necessario effettuare una studio interpretativo di tipo empirico o storico in relazione ai diversi casi di socialismo che sono identificabili nella realtà, interpretazione che possa completare ed arricchire le conclusioni che si siano tratte dalla ricerca teorica. E, infine, sarebbe necessario intraprendere un’analisi nel campo della teoria dell’etica sociale, al fine di chiarire se, dal punto di vista, etico sia ammissibile o no l’aggressione contro l’essenza più intima dell’essere umano: la sua capacità di agire in modo creativo. Proprio come abbiamo affermato nell’Introduzione, dedicheremo i prossimi capitoli di questo libro a trattare per esteso la prima di queste questioni, lasciando a ricerche future le necessarie analisi di tipo storico ed etico.

Secondo Hayek, lo scopo dell’Economia consiste nello studiare questo processo dinamico di scoperta e trasmissione dell’informazione che riceve continuamente impulso dalla funzione imprenditoriale e che tende a equilibrare e a coordinare i piani individuali, rendendo possibile con ciò la vita in società. Questo e non altro è il problema economico essenziale, per cui Hayek è specialmente critico riguardo allo studio dell’equilibrio che, secondo lui, manca di interesse scientifico, dal momento che in esso si parte dalla supposizione che tutta l’informazione sia data, e che, pertanto, il problema economico fondamentale sia già stato previamente risolto. Vedere Hayek «Economics and Knowledge» e «The Use of Knowledge in Society», in Individualism and Economic Order, cit., pp. 51 e 91.

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CAPITOLO 3

IL SOCIALISMO

Dopo aver analizzato nel capitolo precedente il concetto di funzione imprenditoriale, inizieremo questo capitolo spiegando in maniera dettagliata in cosa consiste il socialismo, e come questo non permetta l’emergere delle tendenze coordinatrici che rendono possibile la vita in società. Studieremo, in concreto, gli effetti del socialismo sugli incentivi e sulla generazione dell’informazione, così come la perversa deviazione nell’esercizio della funzione imprenditoriale che questo motiva. Spiegheremo, inoltre, in che senso il socialismo sia un errore intellettuale, e come la sua naturale essenza sia unica, indipendentemente dal fatto che storicamente si sia plasmato in differenti tipologie o classi, le cui principali peculiarità proveremo a isolare. Infine, chiuderemo questo capitolo con un'analisi critica dei concetti alternativi di socialismo che tradizionalmente sono stati usati. 1. DEFINIZIONE DI SOCIALISMO

Definiremo il socialismo come qualsiasi sistema di aggressione istituzionale contro il libero esercizio della funzione imprenditoriale. Per aggressione o coercizione dobbiamo intendere qualsiasi tipo di violenza fisica o minaccia di violenza fisica che si inizia e si esercita contro l’agente da parte di un altro essere umano o di un gruppo di esseri umani. Come conseguenza di questa coercizione, la persona, che altrimenti avrebbe esercitato liberamente la sua funzione imprenditoriale, per evitare mali peggiori si vede forzata ad agire in un modo diverso rispetto a come avrebbe agito in circostanze distinte, modificando, per tanto, il suo comportamento e adeguandolo ai fini dell’individuo o degli individui che lo condizionano.1 Possiamo considerare 1 Il dizionario della Reale Accademia spagnola definisce la coercizione come la «forza o violenza che si esercita contro una persona per far sì che esegua una certa cosa». Questo termine procede dal latino cogere, spingere e da coactionis, che faceva riferimento alla riscossione delle imposte. Sul concetto di coercizione e sui suoi effetti sull’agente si consulti il volume di F. A. Hayek, The Constitution of Liberty, Routledge, Londra, riedizione del 1990. Si vedano, in particolare, le pagine 20-21 dell’edizione inglese. Murray N. Rothbrad, invece, definisce l’aggressione come segue: «Aggression is defined as the initiation of the use or the threat of physical violence against the person or property of someone else». Si veda, a tal proposito, Murray N. Rothbard, For a New Liberty, Macmillan Publishing, New York 1973, p. 8 (edizione italiana: Per una nuova libertà, Liberilibri, Macerata 1996). La coercizione può essere di tre tipi: autistica, binaria e triangolare. Si definisce come autistica l’aggressione che suppone un comando diretto specificamente a un soggetto, che modifica il comportamento dell’agente sotto coercizione, senza che però questa coercizione influenzi nessuna interazione dello stesso con un altro essere umano; chiameremo aggressione binaria quella in cui l’organo direttore forza l’agente con la finalità di ottenere da questo qualche cosa, contro la sua volontà, si tratta, cioè, di quel caso in cui l’organo direttore forza in suo favore uno scambio tra lo stesso governo e l’agente condizionato; coercizione triangolare è invece quella in cui il mandato e la coercizione dell’organo

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l’aggressione, così definita, come l’azione antiumana per eccellenza. Questo perché la coercizione impedisce che una persona eserciti liberamente la sua funzione imprenditoriale, impedisce cioè, basandoci sulla definizione data nel capitolo anteriore, che il soggetto persegua i suoi fini, utilizzando a questo scopo i mezzi che, d’accordo con le informazioni in suo possesso, crede o considera alla sua portata per raggiungere il suo scopo. L’aggressione, pertanto, è un male perché impedisce che l’essere umano sviluppi l’attività che gli è propria e che gli corrisponde intimamente.

L’aggressione può essere di due tipi: sistematica o istituzionale, e asistematica o non istituzionale. Questo secondo tipo di coercizione, che ha un carattere disperso, arbitrario e più difficilmente prevedibile, influenza l’esercizio dell’imprenditorialità nella misura in cui l’attore stimi come più o meno probabile che dentro il contesto di un’azione concreta si vedrà costretto all’esercizio della stessa da un terzo agente che potrebbe riuscire a togliergli per mezzo della violenza i risultati della sua stessa creatività imprenditoriale. Pur essendo l'aggressione asistematica più o meno grave a seconda delle circostanze in cui si verifica, l’aggressione istituzionale o sistematica, per l’esercizio coordinato dell’interazione umana, è decisamente più grave e costituisce il nucleo essenziale della definizione di socialismo che abbiamo dato. In effetti, la coercizione istituzionale si caratterizza per il fatto di essere estremamente prevedibile, ripetitiva, metodica e organizzata.2 Questa aggressione sistematica direttore si dirigono a forzare uno scambio tra due agenti distinti. Questa classificazione la dobbiamo a Murray N. Rothbard, Power and Market, Government and the Economy, Institute for Humane Studies, Menlo Park, California, 2 ed. 1970, pp. 9-10. 2 Il primo a distinguere (nel giugno del 1850) tra i concetti di coercizione sistematica e asistematica è stato F. Bastiat, La legge, la biblioteca di Libero, Roma 2005. Ovviamente non includiamo nel concetto di aggressione sistematica descritto nel testo il livello minimo di coercizione di tipo istituzionale necessario per prevenire e correggere gli effetti negativi che produce l'aggressione arbitraria non istituzionale o asistematica. Questo livello minimo di coercizione istituzionale è quello che lo stesso aggressore non istituzionale desidera che gli si proporzioni, al di fuori dell’ambito della sua aggressione asistematica, per poter godere pacificamente della stessa. La soluzione al problema che si propone in ogni società al momento di prevenire e correggere gli effetti dell’aggressione asistematica o non istituzionale esige lo sviluppo di una teoria etica dei diritti di proprietà, il cui fondamento principale giace nella considerazione che l’agente è il giusto proprietario del risultato della sua creatività imprenditoriale, esercitata senza intraprendere contro nessuno alcun tipo di aggressione o coercizione. Riteniamo che sia socialismo qualsiasi ampliamento dell’ambito della coercizione sistematica al di sopra del minimo necessario per il mantenimento delle istituzioni giuridiche che definiscono e regolano il diritto di proprietà. Lo stato è l’organizzazione della coercizione istituzionale o sistematica per eccellenza e, in questo senso, sempre che si abbassi il minimo di coercizione necessaria per prevenire e sradicare l’aggressione asistematica, lo stato e il socialismo si convertono in concetti intimamente uniti. Anche se non è questo il luogo adatto per esporre i differenti argomenti sostenuti nell’interessante polemica che si sta sviluppando nel campo della teoria liberale tra coloro che difendono un sistema di governo strettamente limitato e coloro che sostengono il sistema anarco-capitalista o libertario, è necessario precisare come questi ultimi sostengano che sia utopico pensare che un'organizzazione monopolistica della coercizione possa autolimitarsi efficacemente, e, difatti, tutti i tentativi storici di limitare il potere statale al livello minimo sopra menzionato hanno fallito; ed è per questo che questi teorici propongono un

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contro l’imprenditorialità ha come principale conseguenza il fatto di impossibilitare e deviare in modo perverso l’esercizio dell’imprenditorialità in tutte quelle aree della società nelle quali la misura menzionata incida nella forma più efficace. Nel grafico a seguire rappresentiamo la situazione tipica che risulta dall’esercizio sistematico della coercizione.

Figura III-1

Nella figura III-1 supponiamo che in modo sistematico e organizzato si impedisca mediante la coercizione il libero attuare umano di «C» in relazione con «A» e «B» in un area concreta della vita sociale. Ciò viene rappresentato dalle linee verticali che separano «C» da «A» e «B».Come conseguenza di ciò

sistema di organizzazioni competitive con partecipazione volontaria per far fronte al problema della definizione e difesa dei diritti di proprietà, così come della prevenzione e repressione della delinquenza. A parte il fatto che, se lo stato strettamente limitato si finanzia coattivamente con le tasse, cioè aggredendo sistematicamente la cittadinanza e la sua libertà di azione nel campo della definizione e difesa del diritto di proprietà, allora in senso stretto si potrebbe definire socialista anche lo Stato limitato. I difensori del governo limitato, da parte loro, sostengono che anche le agenzie private di difesa si vedrebbero costrette a raggiungere tra loro accordi sui principi e sull’organizzazione, cosa che, di nuovo, renderebbe inevitabile il riemergere di fatto dello Stato come risultato del proprio processo di evoluzione sociale. Riguardo il contenuto di questa interessante polemica si possono citare, tra le altre, le seguenti opere: David Friedman, The Machinery of Freedom, Open Court, Illinois, 1989 (trad. it., L’ingranaggio della libertà, Liberilibri, Macerata 1997); Murray N. Rothbard, For a New Liberty, Macmillan, New York, 1973; e The Ethics of Liberty, Humanities Press, New Jersey, 1982, capitolo 23 (trad. it. L’etica della libertà, Liberilibri, Macerata, 2001); Robert Nozick, Anarchy State and Utopia, Basic Books, New York, 1974 (trad. it. Anarchia, Stato e Utopia, Le Monnier, Firenze, 1981). Da parte sua, Hayek, non si è espresso categoricamente sulle future possibilità di sviluppo di un sistema anarco-capitalista. Contro questo sistema segnala il fatto che fino ad oggi in nessun processo di evoluzione sociale è sorta una società senza Stato, anche se poi sottolinea che, in ogni caso, il processo evolutivo di sviluppo sociale ancora non si è fermato, pertanto è impossibile sapere oggi se in futuro lo Stato dovrà scomparire, convertendosi in una triste e oscura reliquia storica, o se, al contrario, potrà sopravvivere come Stato minimo con un potere strettamente limitato (si scarta a lungo termine l’esistenza dello Stato interventista o del socialismo reale, data l’impossibilità teorica di entrambi questi modelli). Si vedano, a tal proposito, le pp. 10-20 dell’edizione italiana de La fatale arroganza. Gli errori del socialismo, opera già citata in precedenza. Giovanni Paolo II, da parte sua (Centesimus Annus, op. cit., capitolo V, n 48, pp. 90-91), segnala che il primo dovere dello Stato è quello di garantire la sicurezza della libertà individuale e della proprietà, in modo che «chi lavora e produce possa godere dei frutti della sua fatica e, per tanto, si senta stimolato a lavorare efficacemente e onestamente», aggiungendo che con carattere addizionale lo Stato deve intervenire solamente in circostanze di eccezionale urgenza, in modo temporaneo e sempre sulla base del principio di sussidiarietà con la società civile. Infine segnaliamo che, in molte società, l’aggressione sistematica viene esercitata dallo Stato non solamente in modo diretto, ma in molteplici aree viene esercitata anche con il suo consenso e la sua complicità, da parte di gruppi o associazioni che, come i sindacati, in pratica godono del «privilegio» di poter esercitare impunemente la violenza sistematica contro il resto della cittadinanza.

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non è possibile, per il fatto che la coercizione sistematica lo impedisce sotto minaccia di gravi conseguenze, che «C» scopra e approfitti dell’opportunità di beneficio che avrebbe se potesse interagire liberamente con «B» e con «A». È di fondamentale importanza capire che l’aggressione non solo impedisce lo sfruttamento dell’opportunità di guadagno, ma addirittura la scoperta di tale opportunità.3 Come abbiamo spiegato nel capitolo precedente, la possibilità di ottenere guadagni o benefici agisce come incentivo per scoprire tali opportunità. Per questo motivo accade che, se una determinata area della vita sociale si trova ristretta a causa della coercizione sistematica, gli agenti tendono ad adattarsi a tale situazione, la danno per scontata, e allora non creano, né scoprono, né si rendono conto delle opportunità di guadagno latenti. Questa situazione la rappresentiamo nel nostro grafico cancellando con una x la lampadina che, d’accordo con ciò che abbiamo convenuto in precedenza, rappresenta l’atto creativo della scoperta imprenditoriale pura.

Com’è logico, se l’aggressione incide sistematicamente in un’area sociale e, come conseguenza di ciò, non è possibile l’esercizio dell’imprenditorialità in quell’area, non si produrrà nessuno degli altri effetti tipici dell’atto imprenditoriale che abbiamo analizzato nel capitolo precedente. In primo luogo, non si creerà né si trasmetterà nuova informazione da alcuni agenti ad altri e, in secondo luogo, e questo è ancora più preoccupante, non si produrrà il necessario aggiustamento nei casi di mancanza di coordinazione sociale. Il fatto è che, non essendo concessa la libertà di approfittare delle opportunità di beneficio, non esisterà alcun incentivo a che gli agenti si rendano conto delle situazioni di mancanza di aggiustamento e di coordinazione sociale che man mano vanno emergendo. Riassumendo, non si creerà informazione, questa non verrà trasmessa da alcuni agenti ad altri e gli esseri umani non impareranno a disciplinare il loro comportamento in funzione di quello altrui.

Nella figura III-1 vediamo come, per il fatto che «C» non può esercitare la funzione imprenditoriale, il sistema si mantiene continuamente privo di coordinazione: «A» non può perseguire il fine «Y» per la mancanza di una risorsa che «B» possiede in abbondanza e che non sa come utilizzare e per questo motivo la utilizza male e la dilapida, senza essere cosciente che esiste un «A» che la necessiterebbe con urgenza. D’accordo con la nostra analisi possiamo concludere, pertanto, che il principale effetto del socialismo, tale e come lo abbiamo definito, è quello di impedire che agiscano le forze coordinatrici che rendono possibile la vita in società. Significa ciò che i sostenitori del socialismo sostengono una società caotica e priva di coordinazione? Assolutamente no. Salvo rare eccezioni, infatti, coloro che propongono l’ideale socialista lo difendono perché tacitamente o esplicitamente credono o pensano che il sistema di coordinazione sociale, non solo non sarà disturbato dall’esistenza dell’aggressione istituzionale e sistematica che teorizzano, ma, al contrario, sarà molto più efficace per il fatto che verrà esercitata la coercizione sistematica da parte di un organo direttore che suppongono dotato di informazioni e conoscenze (sia per quanto riguarda i fini che i mezzi) molto migliori a livello quantitativo e qualitativo di quelli che possano possedere a livello individuale gli agenti condizionati. Da questo punto 3 «Lì dove l’interesse individuale viene soppresso violentemente, viene sostituito da un oneroso e oppressivo sistema di controllo burocratico che sterilizza qualsiasi genere di iniziativa e creatività», Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 1 maggio 1990, op. cit., capitolo III, n 25, terzo paragrafo, p. 55.

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di vista possiamo ora completare la definizione di socialismo data all’inizio di quest’epigrafe affermando che socialismo è qualsiasi tipo di coercizione o aggressione sistematica e istituzionale che restringe il libero esercizio della funzione imprenditoriale in una determinata area sociale e che viene esercitata da parte di un organo direttore che si prende carico delle necessarie funzioni di coordinazione sociale in quell’area specifica. Nell’epigrafe successiva analizzeremo fino a che punto il socialismo, tale come l’abbiamo appena definito, sia o meno un errore intellettuale. 2. IL SOCIALISMO COME ERRORE INTELLETTUALE

Nel capitolo precedente abbiamo visto come la vita sia possibile grazie al fatto che gli individui, spontaneamente e senza rendersi conto, imparano a modificare il loro comportamento adattandolo alle necessità altrui. Questo processo incosciente di apprendimento è il risultato naturale dell’esercizio della funzione imprenditoriale da parte dell’essere umano. In tal modo, ogni persona interagendo con tutte le altre inizia in maniera spontanea un processo di aggiustamento e di coordinazione nel quale continuamente si crea, scopre e trasmette nuova informazione – tacita, pratica e dispersa – da alcune menti ad altre. Il problema che propone il socialismo, poiché consiste essenzialmente in un'aggressione istituzionale contro il libero esercizio dell’azione umana o funziona imprenditoriale, è se sia possibile che mediante il meccanismo coattivo si verifichi quel processo di aggiustamento e coordinazione delle condotte dei distinti esseri umani, le une in funzione delle altre, che è imprescindibile per il funzionamento della vita in società; e tutto ciò nell'ambito di una costante scoperta e di nuova creazione di informazione pratica che renda possibile l’avanzamento e lo sviluppo della civiltà. L’ideale che propone il socialismo è, quindi, molto audace e ambizioso,4 dato che implica il credere non solo che il meccanismo di coordinazione e aggiustamento sociale potrà essere condotto dall’organo direttore che esercita istituzionalmente la coercizione nell’area sociale interessata, ma anche che questo aggiustamento potrà essere addirittura migliorato mediante tale procedimento coattivo.

Nella figura III-2 rappresentiamo in forma schematica il concetto di socialismo che abbiamo definito in precedenza. Nel livello «inferiore» della figura si trovano gli esseri umani che, dotati di conoscenza o informazione pratica, cercano di interagire liberamente gli uni con gli altri, sebbene in determinate aree tale interazione non sia possibile come conseguenza della coercizione istituzionale. Rappresentiamo questa coercizione mediante le linee verticali che separano i pupazzetti di ogni terna. Nel livello superiore «rappresentiamo» l’organo direttore che esercita istituzionalmente la coercizione in determinate aree della vita sociale.5 Le frecce verticali di senso 4 Lo stesso Ludwig von Mises ha affermato che «the idea of socialism is at once grandiose and simple. We may say, in fact, that it is one of the most ambitious creations of the human spirit, so magnificent, so daring, that it has rightly aroused the greatest admiration. If we wish to save the world from barbarism we have to refuse socialism, but we cannot trust it carelessly aside». Socialism, An Economic and Sociological Analysis, Liberty Classics, Indianapolis 1981, p. 41. 5 Questa stessa terminologia viene utilizzata da Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus Annus, dove testualmente afferma, in un contesto di critica allo Stato

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contrario che provengono dai pupazzi di sinistra e destra di ogni terna, rappresentano l’esistenza di piani personali scoordinati che caratterizzano una situazione di mancanza di coordinamento sociale. I casi di mancanza di coordinamento non possono venire scoperti ed eliminati imprenditorialmente a causa della coercizione istituzionale all’esercizio dell’imprenditorialità. Le frecce che provengono dalla testa del pupazzo direttore e si dirigono verso ognuno degli esseri umani rappresentati nel livello più basso rappresentano i decreti coattivi in cui si plasma l’aggressione istituzionale tipica del socialismo e mediante i quali si pretende obbligare i cittadini ad attuare in modo coordinato e a perseguire il fine «F» considerato «giusto» da parte dell’organo direttore.

Il decreto può essere definito come qualsiasi istituzione o disposizione specifica con contenuto concreto che, indipendentemente da quale sia la sua apparenza giuridica formale, proibisce, ordina e obbliga a effettuare azioni determinate in circostanze particolari. Il decreto si caratterizza per il fatto di non permettere che l’essere umano eserciti liberamente la sua funzione imprenditoriale in quell’area sociale sulla quale incide. I decreti, inoltre, sono creazioni deliberate dell’organo direttore che esercita la coercizione istituzionale, e mediante questi pretende obbligare tutti i cittadini a compiere o perseguire, non i loro fini particolari, ma i fini di colui che esercita il governo o il comando.6

E dunque noi affermiamo che il socialismo è un errore intellettuale perché non è teoricamente possibile che l’organo incaricato di esercitare l’aggressione istituzionale disponga dell’informazione sufficiente per poter dare un contenuto coordinatore ai suoi mandati. «assistenziale» o del Benessere, che «una struttura sociale di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di un gruppo sociale di ordine inferiore, privandolo dei suoi compiti» (op. cit., capitolo V, n 48, quarto paragrafo, pp. 91-92). La coercizione tipica dell’ordine superiore potrà essere esercitata, in ultima istanza, da parte di un’unica persona o, come avviene normalmente, da parte di un gruppo di persone che agirà generalmente in forma organizzata, anche se non per questo coerente. In un caso e nell’altro l’aggressione viene effettuata da parte di un numero relativamente ridotto di esseri umani in confronto con il totale della popolazione condizionata che costituisce il gruppo sociale di ordine inferiore. 6 F. A. Hayek contrappone al concetto di decreto quello di legge in senso materiale, che possiamo definire come la norma astratta di contenuto generico che si applica a tutti gli esseri umani allo stesso modo senza tenere in conto alcuna circostanza particolare. Contrariamente a ciò che abbiamo detto nel testo riguardo al decreto, la legge stabilisce un ambito dentro il quale è possibile che ogni agente crei e scopra nuova conoscenza e che possa beneficiarsi della stessa perseguendo i suoi fini particolari cooperando con gli altri e tutto ciò indipendentemente da quali siano questi fini, sempre e quando agisca nel rispetto della legge. Le leggi, inoltre, a differenza dei decreti, non sono creazioni deliberate della mente umana, ma hanno un'origine consuetudinaria; sono, cioè, istituzioni che si sono venute formando durante un periodo di tempo molto lungo come conseguenza della partecipazione di molti individui, ognuno dei quali, con il suo comportamento, è andato incorporando alle stesse il suo piccolo granello di esperienza e informazione. Questa distinzione chiara tra legge e decreto in molte occasioni non viene percepita da parte della maggioranza delle persone, come conseguenza dell’evoluzione della legislazione statale che, per lo più, si costituisce quasi esclusivamente di decreti che vengono promulgati in forma di legge. Si veda F. A. Hayek, Los Fundamentos de la Libertad. Nel riquadro III-1 di questo capitolo elenchiamo nel dettaglio in che modo il socialismo corrompe la legge e la giustizia, sostituendole con l’arbitraria imposizione di decreti.

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Figura III-2

Questa semplice affermazione, che approfondiremo nel dettaglio, si può

sviluppare da due punti di vista distinti però complementari: innanzitutto dal punto di vista dell'insieme degli esseri umani che costituiscono la società e che sono vittime della coercizione; in secondo luogo, dal punto di vista dell’organizzazione coattiva che esercita l’aggressione in forma sistematica. A continuazione analizzeremo separatamente il problema che pone il socialismo da ognuno di questi punti di vista. 3. L’IMPOSSIBILITÀ DEL SOCIALISMO DAL PUNTO DI VISTA DELLA SOCIETÀ L’argomento «statico»

In primo luogo, dal punto di vista degli esseri umani che interagiscono tra loro e che compongono la società (quello che nella figura III-2 chiamiamo livello «inferiore»), è necessario ricordare che ognuno di loro possiede, con carattere esclusivo, un'informazione pratica e dispersa che per lo più è di natura tacita e, per tanto, non articolabile. Ciò fa sì che sia logicamente impossibile concepire la possibilità della sua trasmissione all’organo direttore (che nella figura III-2 chiamiamo livello «superiore»). In effetti, non si tratta solo del fatto che il volume aggregato dell’informazione pratica utilizzata in modo disperso da parte di tutti gli esseri umani a livello individuale sia di entità tale da non rendere possibile concepire una sua cosciente acquisizione da parte dell’organo direttore, ma anche del fatto che, soprattutto, tale volume si trova disperso nella mente di tutti gli uomini sotto forma di conoscenza tacita non articolabile; proprio per questo non può essere espressa in modo formale né esplicitamente trasmessa ad alcun centro direttivo.

Nel capitolo precedente abbiamo già osservato che l’informazione rilevante per la vita sociale si crea e si trasmette in forma implicita, decentralizzata e dispersa, cioè non cosciente né deliberata. I diversi agenti sociali, dunque, imparano a disciplinare il loro comportamento in funzione del prossimo, senza però rendersi conto esplicitamente del fatto che sono protagonisti del processo di apprendimento sopra citato, e senza rendersi altresì conto che stanno adattando il loro comportamento a quello degli altri esseri umani: sono semplicemente coscienti del fatto che stanno agendo, cioè cercando di raggiungere i propri fini particolari utilizzando i mezzi alla propria portata. Pertanto, la conoscenza di cui stiamo parlando è una conoscenza di cui dispongono solo gli esseri umani che agiscono in società e questa conoscenza, per sua propria natura, non può essere trasmessa esplicitamente a nessun organo coattivo di tipo centrale. Proprio perché questa conoscenza è imprescindibile per poter coordinare a livello sociale i diversi comportamenti individuali, rendendo così possibile l'esistenza stessa della società, e poiché tale conoscenza non può essere trasmessa all’organo direttore, per il suo

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carattere non articolabile, è logicamente assurdo pensare che un sistema socialista possa funzionare.7 L’argomento dinamico

Il socialismo è impossibile non solo perché l’informazione che possiedono gli agenti non è, per sua propria natura, esplicitamente trasmissibile, ma anche perché, da un punto di vista dinamico, gli esseri umani, al momento di esercitare la funzione imprenditoriale, cioè al momento di agire, creano e scoprono costantemente nuova informazione. Difficilmente si potrà trasmettere all’organo direttore l’informazione o la conoscenza che ancora non è stata creata, ma che continuamente sorge come risultato del processo sociale nella misura in cui questo non si veda aggredito.

Figura III-3

Nella figura III-3 rappresentiamo ali agenti che continuamente scoprono

nuova informazione durante il processo sociale. Durante il trascorrrere del tempo inteso, come abbiamo visto in precedenza, nel suo senso soggettivo e bergsoniano, coloro che esercitano la funzione imprenditoriale nell’interazione con altri esseri umani costantemente si accorgono di nuove opportunità di guadagno che cercano di sfruttare. Come conseguenza di ciò, l’informazione che ognuno possiede va cambiando costantemente. Ciò viene rappresentato nel grafico con le diverse lampadine che si accendono man mano che trascorre il tempo. È evidente, quindi, che è impossibile che l’organo direttore faccia propria l’informazione necessaria per coordinare la società attraverso i decreti, non solo per il fatto che quest’informazione è, come abbiamo visto in precedenza, di tipo disperso, esclusivo e non articolabile, ma anche perché

7 Nelle parole del proprio Hayek: «This means that the, in some respects always unique, combination of individual knowledge and skills, which the market enables them to use, will not merely, or even in the instance, be such knowledge of facts as they could list and communicate if some authority ask them to do so. The knowledge of which I speak consist rather of a capacity to find out particular circumstances, which becomes effective only if possessors of this knowledge are informed by the market which kind of things and services are wanted, and how urgently they are wanted.» Si veda «Competition as a Discovery Process» (1968), in New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge and Kegan Paul, Londra, 1978, p. 182. Allo stesso modo, nella pag. 51 del capitolo II del volume I, intitolato «Rules and Order», dell’opera di Hayek, Law, Legislation and Liberty, The University of Chicago Press, Chicago, 1973 (esiste una traduzione italiana dell’opera dal titolo: Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1986) possiamo leggere le seguenti parole: «This is the gist of the argument against interference or intervention in the market order. The reason why such isolated commands requiring specific actions by members of the spontaneous order can never improve but must disrupt that order is that they will refer to a part of a system of interdependent actions determined by information and guided by purposes known only to the several acting persons but not to the directing authority. The spontaneous order arises from each element balancing all the various factors operating on it and by adjusting all its various actions to each other, a balance which will be destroyed if some of the actions are determined by another agency on the basis of different knowledge and on the service of differents ends» (corsivo nostro).

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l’informazione si modifica continuamente e si crea dal nulla man mano che trascorre il tempo e si esercita liberamente la funzione imprenditoriale. È piuttosto difficile credere che sia possibile trasmettere in ogni momento all’organo direttore l'informazione di cui ha bisogno per poter coordinare la società, informazione che tra l'altro non è ancora stata creata dal processo imprenditoriale stesso e che non si potrà mai generare se questo processo è vittima della coercizione istituzionale.

Quando, per esempio, albeggia e potrebbe piovere oppure accadere qualsiasi altro evento meteorologico, il contadino si rende conto del fatto che, come conseguenza di tale cambio della situazione, deve modificare il suo piano riguardante i vari lavori che deve realizzare durante il giorno; e ciò accade senza che sia in grado di articolare formalmente le ragioni che lo portano a prendere quella decisione. Non è possibile, per tanto, trasferire quell’informazione, che è il risultato di molti anni di esperienza e di lavori realizzati in campagna, a un ipotetico organo direttore (per esempio a un Ministero dell’Agricoltura che si trova nella capitale) nell’attesa di ricevere istruzioni. Lo stesso può dirsi di qualsiasi altra persona che eserciti in un determinato contesto la funzione imprenditoriale e che debba decidere se investirà o no in una determinata azienda o settore, se comprerà o venderà determinati titoli o azioni, se assumerà o meno determinate persone perché collaborino con il suo lavoro, e così via. Possiamo considerare, pertanto, che l’informazione pratica non solo si trova, per così dire, incapsulata, nel senso che non è accessibile all’organo superiore che esercita l’aggressione istituzionale, ma anche che, oltre a trovarsi incapsulata, si modifica continuamente e si genera nuovamente, man mano che gli agenti vanno creando il futuro.

Ricordiamo che, infine, nella misura in cui la coercizione socialista viene esercitata in forma continua ed efficace, ciò rende impossibile la libera persecuzione di fini individuali, dato che questi non funzioneranno come incentivi e non potrà scoprirsi o generarsi a livello imprenditoriale l’informazione pratica necessaria per coordinare la società. Per tanto, l’organo direttore si trova di fronte a un dilemma insolubile, dato che necessita assolutamente dell’informazione che genera continuamente il processo sociale, informazione che però in nessun caso può ottenere, per il fatto che se interviene coattivamente in tale processo, distrugge la sua capacità di creare informazione e se non interviene non ottiene alcuna informazione.

Possiamo concludere che, dal punto di vista del processo sociale, il socialismo è un errore intellettuale, dato che non è possibile concepire che l’organo direttore, cui spetta il compito di intervenire attraverso decreti, possa ottenere l’informazione necessaria per coordinare la società, e ciò accade per i seguenti motivi: primo per ragioni di volume (è impossibile che l’organo che deve intervenire assimili coscientemente l’enorme volume di informazione pratica disseminata nella mente degli esseri umani); secondo, dato il carattere essenzialmente intrasferibile all’organo centrale dell’informazione necessaria (per la sua natura tacita e non articolabile); terzo, perché, oltre a ciò, non può trasmettersi l’informazione che ancora non è stata scoperta o creata da parte degli agenti e che emerge solamente come risultato del libero processo di esercizio della funzione imprenditoriale; e quarto, perché l’esercizio della coercizione impedisce al processo imprenditoriale la scoperta o la creazione dell’informazione necessaria per coordinare la società.

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4. L’IMPOSSIBILITÀ DEL SOCIALISMO DAL PUNTO DI VISTA DELL’ORGANO DIRETTORE

In secondo luogo, ed ora dal punto di vista di quello che abbiamo chiamato nelle nostre figure livello «superiore», cioè, dal punto di vista di quella persona o gruppo di persone, più o meno organizzate, che in forma istituzionale e sistematica esercitano l’aggressione contro il libero esercizio della funzione imprenditoriale, è necessario fare una serie di considerazioni che confermano ulteriormente la conclusione che il socialismo non sia altro che un errore intellettuale.

Ammettiamo pure, per effetto dialettico e seguendo Mises,8 che l’organo direttore (non ha alcuna importanza che si tratti di un dittatore o duce, di una élite, di un gruppo di scienziati o intellettuali, di un dipartimento ministeriale, di un insieme di deputati eletti democraticamente da parte del «popolo», o, infine, di una combinazione qualsiasi, più o meno complessa, di alcuni o tutti questi elementi) sia dotato della massima capacità tecnica e intellettuale, di esperienza e saggezza, e non ultimo delle migliori intenzioni che umanamente si possano concepire (tuttavia, presto vedremo che queste ipotesi non si danno nella realtà e per quali motivi). Quello che però non possiamo ammettere in nessun caso è che l’organo direttore sia dotato di capacità sovraumane né che abbia il dono dell’onniscienza, che sia cioè capace di assimilare, conoscere e interpretare, simultaneamente, tutta l’informazione disseminata e privativa che si trova dispersa nella mente di tutti gli esseri umani che agiscono nella società e che questi generano e creano continuamente ex novo.9 La verità è che l’organo direttore, a volte chiamato anche organo di pianificazione o intervento

8 Ludwig von Mises, L’azione umana, UTET, Torino 1959. 9 Qual è il prezzo giusto o matematico delle cose?, si chiedevano gli scolastici spagnoli dei secoli XVI e XVII, giungendo alla conclusione che il prezzo giusto dipende da un numero così grande di circostanze particolari, che solo Dio può riuscire a conoscerlo, quindi per ciò che concerne gli esseri umani, il prezzo giusto è quello che risulta spontaneamente dal processo sociale, cioè il prezzo di mercato. In tal senso si esprime Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus Annus (op. cit., capitolo IV, n 32, p. 66) nella quale sostiene che il giusto prezzo sia «stabilito di comune accordo in seguito a una libera negoziazione». È possibile che alla radice o nel fondamento del socialismo si occulti l’atavico desiderio di voler essere come Dio, o meglio, di credersi Dio, e, per tanto, che si possa disporre di una conoscenza o informazione molto maggiore di ciò che è umanamente possibile. Allo stesso modo il cardinale gesuita Juan de Lugo (1583-1660) ha scritto che «pretium iustum mathematicum, licet soli Deo notum» (Disputationes de Iustitia et Iure, Lione, 1643, volume II, D. 26, S. 24, N. 40). Da parte sua, Juan de Sala, anche lui gesuita e professore di filosofia e teologia in diverse università spagnole e a Roma, d’accordo con Juan de Lugo, ha affermato, riferendosi alla possibilità di conoscere il prezzo giusto che «quas exacte comprehendere et ponderare Dei est, non hominum» (Commentarii in Secundam Secundae D. Thomas de Contractibus, Lione, 1617, Tr. De Empt et Vent, IV, n 6, p. 9). Altre interessati citazioni di scolastici spagnoli dell’epoca sono state raccolte da F. A. Hayek nel suo libro Law, Legislation and Liberty, op. cit., volume II, pp. 178-179. Un ottimo riassunto degli importanti contributi alla scienza economica da parte degli scolastici spagnoli dei secoli XVI e XVII si può trovare nell’articolo di Murray N. Rothbard intitolato «New Light on the Prehistory of the Austrian School», The Foundations of Modern Austrian Economics, Sheed and Ward, Kansas City, 1976, pp. 52-74.

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centrale o parziale, per lo più disconosce, o ha solo un’idea molto vaga su quale sia la conoscenza disponibile in forma dispersa nella mente di tutti gli agenti che possono ritrovarsi ad essere sottomessi ai suoi ordini. Esiste, pertanto, una possibilità praticamente nulla che il pianificatore possa riuscire a sapere che cosa cercare o come cercarlo e dove trovare gli elementi di informazione dispersa che si generano continuamente nel processo sociale e di cui ha fondamentale bisogno per coordinarlo e controllarlo.

L’organo di coercizione, inoltre, per forza deve essere composto da esseri umani in carne ed ossa con tutte le loro virtù e i difetti che, come qualsiasi altro agente, avrà dei fini personali che fungeranno da incentivi per scoprire l’informazione rilevante in funzione dei propri interessi particolari. La cosa più probabile, quindi, è che gli uomini che costituisco l’organo direttore, se esercitano bene la loro intuizione imprenditoriale dal punto di vista dei propri fini o interessi, generino l’informazione e l’esperienza necessaria per, per esempio, mantenersi indefinitamente al potere e giustificare e razionalizzare i loro atti di fronte a loro stessi e a terzi, esercitare la coercizione in forma sempre più sofisticata ed efficace, presentare ai cittadini la loro aggressione come qualcosa di inevitabile e positiva, ecc., ecc.; in contrapposizione, cioè, secondo l’ipotesi della «benintenzionalità» esposta al principio del paragrafo precedente, questi saranno gli incentivi più comuni che avranno la meglio sugli altri e, soprattutto, sull’interesse di scoprire l’informazione pratica concreta e rilevante che esiste in ogni momento nella società e che è necessaria per rendere possibile il suo funzionamento coordinato attraverso i decreti. Questa peculiare motivazione determina, inoltre, il fatto che l’organo direttore non riesce neppure a rendersi conto, cioè ad essere cosciente di quale sia il grado di ignoranza inestirpabile in cui si trova, sprofondando sempre più in un processo di progressivo allontanamento da quelle realtà sociali che ha la pretesa di controllare.

L’organo direttore, inoltre, sarà incapace di effettuare alcun calcolo economico nel senso che,10 indipendentemente da quali siano i suoi fini (e possiamo anche supporre che siano i fini più «umani» e «moralmente elevati») non potrà sapere se i costi per perseguirli avranno per il proprio organo direttore un valore superiore al valore che esso attribuisce soggettivamente ai fini perseguiti. Il costo non è altro che il valore soggettivo che l’agente attribuisce a ciò a cui rinuncia al momento di agire per perseguire un determinato fine. È 10 L’impossibilità di effettuare i calcoli economici senza far uso dell’informazione o della conoscenza pratica dispersa che si genera solamente nel libero mercato è stato l’originale e geniale contributo di Mises nel 1920, nel suo articolo «Die Wirtschaftsrechnung im sozialistischen Gemeinwesen», pubblicato nel Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, volume 47, pp. 86-121. La versione inglese di questo articolo si trova, con il titolo «Economic Calculation in the Socalist Commonwealth», nell’opera edita da F. A. Hayek Collectivist Economic Planning, Augustus M. Kelley, Clifton 1975, pp. 87-130. L’idea chiave di Mises è a pagina 102, quando dice che: «the distribution among a number of individuals of administrative control over economic goods in a community of men who take part in the labour of producing them, and who are economically interested in them, entails a kind of intellectual division of labour, which would be not possible without some system of calculating production and without economy» (le parti in corsivo sono nostre e non di Mises). Dedicheremo tutto il capitolo seguente a studiare nel dettaglio tutte le implicazioni dell'affermazione misesiana, e l’analisi del successivo dibattito a cui Mises stesso ha dato inizio.

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evidente che l’organo direttore non può assumere l’informazione e la conoscenza necessarie per rendersi conto del costo reale nel quale incorre secondo la sua scala di valore, dato che l’informazione sulle circostanze specifiche di tempo e luogo necessaria per stimare i costi si trova dispersa nella mente di tutti gli esseri umani o agenti che costituiscono il processo sociale e che vengono condizionati dall’organo direttore (eletto democraticamente o meno) incaricato di esercitare in forma sistematica l’aggressione sul corpo sociale.

In questo senso, se definiamo il concetto di responsabilità come la qualità di quell’azione che si esercita avendo precedentemente conosciuto e tenuto conto dei costi della stessa attraverso il corrispondente calcolo estimativo di tipo economico, possiamo concludere che l’organo direttore, indipendentemente da come sia composto e per il fatto stesso di essere impossibilitato a vedere e percepire i costi nei quali incorre, tenderà sempre ad agire in forma irresponsabile. Si dà, quindi, l’insolubile paradosso che quanto più l’organo direttore si impegna a pianificare o a controllare una determinata area della vita sociale, meno possibilità avrà di raggiungere i propri obiettivi, per il fatto di non poter in nessun modo assumere tutta l’informazione necessaria per organizzare in modo coordinato la società. Inoltre, contribuirà in tal modo a creare nuove e più importanti distorsioni, precisamente nella misura in cui la sua coercizione sarà esercitata nella forma più efficace limitando in questo modo la capacità imprenditoriale degli esseri umani.11 Non possiamo fare a meno di concludere, per tanto, con l'affermare che è un grave errore pensare che l’organo direttore possa fare gli stessi calcoli economici dell’impresario individuale. Al contrario, più ci eleviamo nell’organizzazione socialista più informazione pratica di prima mano, imprescindibile per effettuare il calcolo economico, verrà persa, col risultato di rendere impossibile il calcolo economico stesso, proprio nella misura in cui si rende difficile il libero attuare umano da parte dell’organo di coercizione istituzionale. 5. PERCHÉ LO SVILUPPO DEI COMPUTER CONTRIBUISCE A RENDERE IMPOSSIBILE IL SOCIALISMO

Spesso abbiamo sentito l’affermazione, proveniente da diverse persone che non capiscono bene la natura peculiare della conoscenza rilevante per la società, che lo straordinario avanzamento nel campo dell’informatica e dei computer potrebbe rendere possibile teoricamente e praticamente il funzionamento del sistema socialista. Nonostante ciò, una semplice argomentazione di tipo teorico ci permetterà di dimostrare che non sarà mai possibile che, attraverso lo sviluppo dei sistemi informatici, si possa giungere alla soluzione del problema di ignoranza inestirpabile che essenzialmente grava sul socialismo. 11 «The paradox of planning is that it cannot plan, because of the absence of the economic calculation. What is called a planned economy is no economy at all. It is just a system of groping about in the dark. There is no question of a rational choice of means for the best possible attainment of the ultimate ends sought. What is called conscious planning is precisely the elimination of conscious purposive action.» Ludwig von Mises, Human Action, op. cit., pp. 700-701. Sul «paradosso della pianificazione» e il concetto di responsabilità si veda l’epigrafe 6 di questo capitolo.

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Supponiamo dunque che il frutto di tutto lo sviluppo tecnologico nel campo dell’informatica sia disponibile sia per l’organo direttore che per i diversi esseri umani agenti che intervengono nel processo sociale. Se la supposizione è corretta, la capacità di scoprire e creare nuova informazione – pratica, dispersa e tacita – si incrementerà enormemente come conseguenza dei nuovi strumenti informatici disponibili per gli agenti in tutti gli ambiti in cui esercitano la loro funzione imprenditoriale. L’ingente quantità e qualità della nuova informazione generata imprenditorialmente con l’aiuto dei nuovi strumenti informatici progressivamente acquisirà una profondità e un dettaglio sempre maggiori, fino a diventare addirittura inconcepibili dal punto di vista della conoscenza odierna. E, com’è logico, continuerà ad essere impossibile che l’organo direttore possa acquisire questa informazione dispersa, anche se avesse a disposizione i più moderni, capaci e rivoluzionari computer di ogni generazione.

Con ciò vogliamo dire che la conoscenza generata dal processo sociale, rilevante a effetti imprenditoriali, continuerà sempre ad essere una conoscenza di tipo tacito e disperso, e pertanto non trasmissibile ad alcun centro direttore, e il futuro sviluppo dei sistemi informatici e dei computer incrementerà ancora di più il grado di complessità del problema per l’organo direttore, dato che la conoscenza pratica generata con l’aiuto di tali sistemi diventerà progressivamente sempre più complessa, voluminosa e ricca.12 Per tanto, non solo lo sviluppo dell’informatica e dei computer non può facilitare il problema del socialismo, ma anzi lo rende molto più difficile, poiché permette di creare e generare a livello imprenditoriale un volume molto maggiore di informazione pratica, con un grado di complessità e dettaglio sempre più ricco e profondo e, in ogni caso, sempre maggiore rispetto a quello che sarà mai capace di acquisire a livello informatico l’organo direttore. Nella figura III-4 facciamo una rappresentazione grafica di questo argomento.

Figura III-4

D’altro canto, è necessario sottolineare che le macchine e i programmi

informatici che l’uomo elabora non riusciranno mai ad agire o a esercitare la funzione imprenditoriale, cioè a creare ex nihilo o dal nulla nuova informazione pratica, scoprendo e approfittando delle nuove opportunità di guadagno che prima non era possibile captare.13 12 Esisterà sempre, cioè, un «lag» o salto qualitativo in quanto al grado di complessità che possa assumere l’organo direttore con i suoi strumenti informatici e quella creata spontaneamente e in maniera decentrata da parte di agenti sociali che dispongano di strumenti simili (almeno della stessa generazione) e che sempre sarà molto più complessa. È stato forse Michael Polanyi a spiegare meglio di nessun altro questo argomento quando ha affermato che «our whole articolate equipment turns out to be a merely a tool box, a supremely effective instrument for deploying our inarticolate faculties. And we need not esitate to conclude that the tacit personal coefficent of knowledge predominate also in the domain of explicit knowledge and represents therefore at all levels man’s ultimate faculties for acquiring and holding knowledge… Maps, graphs, books, formulae, etc. offer wonderful opportunities for reorganizing our knowledge from ever new point of view. And this reorganization is itself, as a rule, a tacit performance.» Si veda The Study of Man, op. cit., pp. 24-25. Allo stesso modo si veda l’argomento di Rothbard che commentiamo nella nota 84 del sesto capitolo. 13 Inoltre, d’accordo con Hayek, riteniamo una contraddizione logica pensare che la mente umana possa un giorno riuscire a spiegare se stessa, e riuscire a riprodurre il

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L’«informazione» che viene immagazzinata nei computer non è un informazione «risaputa», cioè assimilata o interpretata coscientemente da parte delle menti umane, capace di convertirsi in informazione pratica rilevante dal punto di vista sociale. L’«informazione immagazzinata» nel disco di un computer, o in qualsiasi altro supporto informatico, è identica all’«informazione» contenuta in libri, grafici, mappe, periodici o riviste specializzate, tutti mezzi che costituiscono un semplice strumento utile all’agente nel contesto di azioni concrete e rilevanti per il conseguimento dei propri fini particolari. Detto in altro modo, l’«informazione immagazzinata» non è informazione nel senso di conoscenza pratica rilevante, interpretata, saputa, e utilizzata da parte dell’attore nel contesto di un’azione concreta.

È evidente, inoltre, che l’informazione pratica che ancora non esiste per il fatto di non essere ancora stata scoperta o creata a livello imprenditoriale, non può essere trattata con mezzi informatici. I sistemi informatici, quindi, non sono di alcun aiuto al momento di rendere possibile la coordinazione del processo sociale attraverso i decreti, coordinazione che solamente funziona come conseguenza del carattere essenzialmente creativo dell’azione umana. I computer possono solamente trattare l’informazione che è già stata creata e che si è potuta articolare, e sono, indubbiamente, uno strumento molto utile e potente al servizio dell’agente. Sono però incapaci di creare, scoprire, o rendersi conto di nuove opportunità di guadagno o beneficio, cioè di agire a livello imprenditoriale. I computer sono strumenti al servizio dell’agente, però non agiscono e non saranno mai capaci di farlo. Ciò significa che l’informazione che può essere elaborata dai computer deve essere un’informazione articolata, formalizzata e oggettiva. Tuttavia, l’informazione rilevante a livello sociale è un informazione essenzialmente non articolabile e sempre soggettiva. Per questo i computer non solo sono incapaci di creare nuova informazione, ma sono anche incapaci di trattare l’informazione già creata dal momento che, come succede nei processi sociali, è essenzialmente di natura non articolabile. Nell’esempio della figura II-2 del capitolo II, anche se «A» e «B» fossero capaci di articolare nel dettaglio e in modo formalizzato quelle risorse che necessitano per conseguire i loro fini, e potessero in qualche modo trasmettere questa informazione a una gigantesca e modernissima base di dati, l’atto con cui una mente umana (quella di «C») si rende conto del fatto che la risorsa di uno suo funzionamento nel generare nuova informazione. L’argomento di Hayek, già esposto in precedenza nella nota 16 del capitolo II, è che un ordine, costituito da un determinato sistema concettuale di categorie, può rendersi conto di e anche spiegare ordini più semplici rispetto a lui (che siano cioè composti da un sistema di categorie più semplice), però non è possibile concepire né che riesca a spiegarsi o ad autoriprodursi né a spiegare ordini più complessi, dato che non è possibile concepire che un sistema di categorie spieghi se stesso, o spieghi una struttura o sistema concettuale di categorie più complesso. Si veda F. A. Hayek, The Sensory Order, op. cit., pp. 185-188 (trad. it.: L’ordine sensoriale: I fondamenti della psicologia teorica, Rusconi, Milano 1990). Si vedano, a tal proposito, anche le tesi proposte contro le future possibilità dello sviluppo dell’intelligenza artificiale da parte di Roger Penrose nel suo volume, citato nella nota 26 del capitolo precedente. Infine segnaliamo che, anche se il progetto del paradigma dell’intelligenza artificiale avesse successo in futuro (cosa che considero impossibile per le ragioni già esposte), non sarebbe altro che creazione di nuove intelligenze «umane», che finirebbero con l'inserirsi nel processo sociale complicandolo ed allontanandolo sempre di più dall’ideale socialista (devo questa tesi al mio buon amico Luis Reig Albiol).

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potrebbe essere utilizzata per i fini dell’altro è un atto imprenditoriale di pura creatività, soggettivo e non assimilabile agli schemi oggettivi e formalizzati propri delle macchine. Perché il computer possa orientare l’azione in modo adeguato è necessario non solo che l’informazione gli venga trasmessa in modo articolato, ma anche che venga previamente programmato. Gli deve cioè essere indicata in modo formale e dettagliato la regola o norma d’azione in funzione della quale in ogni occasione in cui una persona, per esempio, avesse una risorsa «R» con un determinato livello di abbondanza, la stessa passasse a essere utilizzata da quella persona che persegue il fine «X». L’esistenza formalizzata di questa norma, però, presuppone che si sia già scoperto il corso d’azione adeguato dal punto di vista imprenditoriale, relativo all’utilizzo delle risorse «R» per il conseguimento dei fini «X»; è perciò evidente che i sistemi informatici possono solamente applicare conoscenze già scoperte a situazioni date, però non possono mai creare informazione in relazione con situazioni che ancora non sono ancora state scoperte e in cui prevale la creazione ex novo della conoscenza soggettiva, tacita e dispersa tipica del processo sociale.

Riporre la fiducia nei computer in quanto strumenti che possano rendere possibile il socialismo è assurdo come pensare che in una società molto meno avanzata l’invenzione della stampa e di altri strumenti più elementari utilizzati per raccogliere e trattare l’informazione articolata rendesse possibile il disporre della conoscenza pratica e soggettiva rilevante a livello sociale. Il risultato della scoperta dei libri e della stampa ha avuto effetti del tutto opposti: ha reso la società ancora più ricca e difficile da controllare. Se l’organo direttore potesse applicare i computer più moderni a una società in cui la continua generazione di nuova informazione pratica venisse ridotta al minimo, il problema del socialismo potrebbe diventare al limite un poco meno grave, senza però riuscire mai a risolversi davvero,. Questo risultato si potrebbe raggiungere solamente con un rigidissimo sistema che attraverso l'uso della forza, da un lato impedisse al massimo l’esercizio della funzione imprenditoriale, dall’altro proibisse agli esseri umani di disporre di qualsiasi tipo di computer, macchine, strumenti di calcolo, libri ecc. Solamente in questa ipotetica società di bruti schiavizzati il problema del calcolo economico nel socialismo potrebbe risultare relativamente meno complesso. Tuttavia, neppure in circostanze così estreme il problema troverebbe una soluzione teorica, dato che l’essere umano ha, anche se si trova nelle condizioni più avverse, una capacità imprenditoriale creativa innata che è impossibile controllare.14

14 La tesi esposta nel testo rende evidente quanto sia assurdo pensare che, come fanno molti «intellettuali» che non comprendono il funzionamento della società, sia «evidente» che man mano che la società diventa più complessa, più diventi necessario e imprescindibile l’intervento esogeno e coattivo di tipo istituzionale. Questa idea ha la sua origine nelle parole di Benito Mussolini: «Siamo stati i primi ad affermare che, man mano che la civilizzazione assume forme più complesse, bisogna restringere la libertà dell’individuo sempre più», citato da F. A. Hayek in The Road to Servdom (trad. it. La via della schiavitù, Rusconi, Milano 1995). Tuttavia, come abbiamo dimostrato in precedenza, la realtà logico-teorica è l’opposto: man mano che aumentano la ricchezza della società e lo sviluppo della civilizzazione, sempre più difficile diventa il realizzarsi del socialismo. Se la società, invece, è più arretrata e l’organo direttore possiede migliori mezzi di immagazzinamento dell’informazione, il problema del socialismo appare meno complicato (anche se dal punto di vista logico e teorico il

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Le considerazioni precedenti spiegano perché non deve sorprendere il fatto che siano proprio gli scienziati informatici e i programmatori di «software» più preparati i professionali più scettici all’ora di valutare le possibilità di applicare l’informatica per controllare e organizzare i processi sociali. A questi, infatti, non solo risulta evidente il principio che se l’informazione incorporata alla macchina non è esatta, i risultati moltiplicheranno gli errori («garbage in, garbage out»), ma la loro esperienza rende loro consapevoli che, più grandi e complicati sono i programmi che hanno l'obiettivo di sviluppare, più difficile sarà depurarli dai vizi logici, rendendo possibile in questo modo il loro funzionamento. Pensare, quindi, che si possa programmare un processo sociale con un grado di complessità tale da incorporare le capacità creative essenziali dell’essere umano è fuori discussione. Oltre a ciò dobbiamo considerare che gli ultimi progressi dell’informatica, invece di aiutare l’interventista, cosa che aveva illuso le pretese e i sogni di molti «ingegneri sociali», si sono prodotti precisamente grazie alla ricezione in questo campo delle intuizioni e conoscenze sviluppate dagli economisti teorici dei processi sociali spontanei, in generale, e da Hayek, in particolare, le cui idee oggi vengono considerate di enorme importanza pratica per potenziare e facilitare la creazione e lo sviluppo di nuovi programmi informatici.15 6. ALTRE CONSEGUENZE TEORICHE DEL SOCIALISMO

Nei paragrafi precedenti abbiamo dimostrato come il socialismo sia un errore intellettuale che ha la sua origine nella presunzione o fatale arroganza di credere che l’uomo è abbastanza intelligente da poter organizzare la vita in società.16 In quest’epigrafe analizzeremo in forma breve e sistematica le

socialismo risulta comunque impossibile, sempre che venga esercitato su esseri umani dotati nel loro agire di un’innata capacità imprenditoriale). 15 Dobbiamo citare in questo luogo un piccolo gruppo di «informatici» che ha introdotto i contributi della Scuola Austriaca di Economia alla comunità di teorici dell’informatica, sviluppando, inoltre, un nuovo programma di ricerca scientifica chiamato: «Agoric Systems» (che etimologicamente deriva dal termine greco utilizzato per indicare «il mercato») e che si basa nel considerare che la teoria dei processi di mercato è chiave al momento di conseguire nuovi avanzamenti nel campo dell’informatica. Dobbiamo, in particolare, citare Mark S. Miller e K. Eric Drexler, dell’università di Stanford (si veda a tal proposito il loro libro «Markets and Computation: Agoric Open Systems», in The Ecology of Computation, ed. B. A. Huberman, North Holland, Amsterdam, 1988); e anche l’articolo che riassume questo programma: «High-tech Hayekians: Some Possibile Research Topics in the Economics of Computation» di Don Lavoie, Howard Baetjer e William Tulloh, Market Process, volume 8, primavera del 1990, pp. 120-146; si consulti inoltre la bibliografia di questo articolo. 16 La presunzione fatale è proprio il titolo dell’ultima opera di F. A. Hayek, The Fatal Conceit. The Erors of Socialism, The Collected works of F. A. Hayek, ed. W. W. Bartley III, The University of Chicago Press, Chicago 1989 (trad. it. La presunzione fatale: gli errori del socialismo, Rusconi, Milano 1997). Lo stesso Hayek, in una intervista fattagli recentemente a Madrid da Carlos Rodríguez Braun, ha sostenuto che l’essenza del suo libro era dimostrare che: «è una presunzione, una millanteria, credere che si possa raggiungere una conoscenza tale da poter ordinare la vita in società, vita che in realtà è il risultato di un processo che utilizza la conoscenza dispersa di milioni di persone

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conseguenze che inesorabilmente si producono quando l’uomo, ignorando l’impossibilità logica che suppone il socialismo, si impegna a stabilire un sistema istituzionale di coercizione che, in misura maggiore o minore, restringa il libero esercizio dell’azione umana. Mancanza di coordinazione e disordine sociale

a) Abbiamo già analizzato come, per il fatto di impedire in maggior o minor misura l’esercizio della funzione imprenditoriale, si rende impossibile il fatto che questa possa scoprire le situazioni di mancanza di coordinazione che emergono nella società. Per il fatto di impedire coattivamente che gli agenti approfittino delle opportunità di guadagno che la mancanza di coordinazione genera, tali opportunità di guadagno non saranno neppure percepite dall’agente che, pertanto, non si renderà conto della loro esistenza e le lascerà sfuggire senza approfittarne; e, anche se casualmente un agente sottoposto a coercizione si rendesse conto o percepisse un’opportunità di guadagno, ciò sarebbe irrilevante, per il fatto che la coercizione istituzionale stessa gli impedirebbe di agire per approfittarne.

D’altra parte, non è possibile neppure concepire che l’organo direttore incaricato di esercitare la coercizione istituzionale sia capace, attraverso i suoi ordini e decreti, di coordinare il comportamento sociale. Per fare ciò, dovrebbe disporre di un’informazione che non è in grado di acquisire, dato che questa si trova disseminata e dispersa in forma esclusiva nella mente di tutti gli agenti che costituiscono la società.

Pertanto, la prima conseguenza che emerge è che il risultato di stabilire un sistema socialista sarà una mancanza di coordinazione generalizzata a livello sociale, caratterizzata dal fatto che sistematicamente una molteplicità di agenti si comporteranno in modo contraddittorio, senza agire in funzione del comportamento degli altri e senza rendersi conto che stanno commettendo a livello generale errori di tipo sistematico. Come conseguenza di ciò, molte azioni umane si vedranno frustrate e non potranno portarsi a termine per colpa della mancanza di coordinazione esistente. Questa frustrazione dei piani o mancanza di coordinazione generalizzata si ripercuoterà sull’essenza stessa della vita sociale e si manifesterà tanto intratemporalmente che intertemporalmente; cioè sia in relazione con le azioni che si effettuano nel presente, sia rispetto alla vitale e imprescindibile coordinazione che deve esistere in ogni processo sociale tra le azioni presenti e le azioni future.

Per Hayek la parola «ordine» si riferisce a ogni processo nel quale una moltitudine di elementi di diversa specie si relazionano tra loro in modo che la conoscenza di una parte dell’insieme permetta di formulare sull'insieme di aspettative adeguate che si rivelano vere.17 D’accordo con questa definizione, diventa evidente il ruolo del socialismo come distruttore della coordinazione sociale, dato che, nella misura in cui rende difficile o addirittura impossibile il necessario aggiustamento tra i comportamenti privi di coordinazione a livello individuale, allo stesso modo rende difficile o addirittura impossibile che gli differenti. Pensare che possiamo pianificare questo processo è completamente assurdo.» Si veda la Revista de Occidente, n 58, marzo del 1986, pp. 124-135. 17 F. A. Hayek, Rules and Order, volume I di Law, Legislation and Liberty, opera citata, capitolo II, pp. 35-54 e José Ortega y Gasset, Mirabeau o el Politico, Obras Completas, Revista de Occidente, Madrid 1947, vol. 3, p. 603.

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esseri umani agiscano basandosi su aspettative riguardanti il comportamento dei loro simili che non risultino frustrate, per il fatto che permane occulta e non viene eliminata la mancanza di coordinazione sociale esistente ogni volta che si rende difficile il libero esercizio della funzione imprenditoriale. Pertanto, il desiderio volontarista di «ordinare» la società con decreti coattivi genera essenzialmente disordine. Più complesso è l’ordine sociale, nel senso Hayekiano del termine, più diventa impossibile l’ideale socialista, dato che un volume molto maggiore di decisioni e attività dovrà essere affidato a persone e dipenderà da circostanze che saranno completamente sconosciute a coloro che si impegnano a «reggere» la società.

b) Paradossalmente, l'assenza di coordinazione a livello sociale molto spesso si utilizza come pretesto per giustificare ulteriori dosi di socialismo, ovvero di aggressione istituzionale in nuove aree della vita sociale o con un livello di profondità e controllo ancora maggiori. Ciò accade di solito perché, anche se l’organo direttore non è capace di rendersi conto in maniera dettagliata delle azioni contraddittorie e prive di coordinazione che concretamente produce il suo stesso intervento, prima o poi percepisce che il processo sociale in generale non funziona. Questa circostanza, dal punto di vista della limitata capacità di comprensione che ha l’organo direttore, viene giudicata da questo come un risultato logico della «mancanza di collaborazione» dei cittadini che non vogliono compiere correttamente i suoi decreti e i suoi ordini, e ciò fa sì che questi siano sempre più ampi, dettagliati e coattivi. Questo aumento di grado del socialismo produrrà nel processo sociale una mancanza di coordinazione ancora maggiore che verrà utilizzata per giustificare nuove «dosi» di socialismo, e così via. In questo modo si spiega, pertanto, l’irresistibile tendenza del socialismo al totalitarismo, inteso come regime che tende a «esercitare un forte intervento in tutti gli ambiti della vita».18 In altre occasioni questo processo totalitario di crescita progressiva della coercizione viene accompagnato da continui sconvolgimenti o cambi repentini di politica, come modificare radicalmente il contenuto dei decreti, l’area su cui si applicano o entrambi, e tutto ciò con la vana speranza che la «sperimentazione» asistematica di nuovi tipi e nuovi gradi di interventismo permettano risolvere gli insolubili problemi emersi.19

c) I gradi di intervento coattivo in cui si plasma il socialismo producono alcuni effetti o risultati sociali che di solito sono del tutto contrari rispetto a quelli che l'organismo direttore stesso pretendeva raggiungere. Dato che questo organismo mira a raggiungere i propri fini attraverso decreti coattivi che

18Diccionario de la Real Accademia Española de la Lengua, secondo significato. 19 Su questo tema, anche l’acutissimo Michael Polanyi è caduto nell'errore comune di pensare che questo tipo di sperimentazione pianificatrice, essendo incapace di produrre effetti pratici, sarebbe relativamente innocua e poco pericolosa, ignorando il profondo danno alla coordinazione sociale che suppone l’implementare gli utopici programmi di ingegneria sociale. Si veda il suo libro The Logic of Liberty, op. cit., p. 111. I responsabili degli organismi di coercizione non sono capaci di spiegarsi come, nonostante i loro sforzi, l’ingegneria sociale non funziona o funziona sempre peggio e finiscono sprofondando nell’ipocrisia o nella disperazione, accusando dell’avverso sviluppo degli eventi o il castigo divino – come fece il Conde Duque de Olivares, come vedremo nella nota 49, o la «mancanza di collaborazione o cattiva volontà della stessa società civile» (come fece Felipe Gonzalez Márquez nel suo discorso all’università Carlos III di Madrid nel giorno della Costituzione, il 6 dicembre del 1991).

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incidono direttamente sulle aree sociali più influite da questi fini o più in relazione con essi, ne risulta, paradossalmente, che tali decreti impediscono l’esercizio più efficace dell’azione umana in queste aree. Ciò significa che si paralizza, in special modo dove è più necessaria, la forza imprenditoriale che è imprescindibile per coordinare la sopra menzionata area sociale e per raggiungere i fini perseguiti. Quindi, invece di prodursi il necessario processo di aggiustamento, questo si ritrae, e invece del raggiungimento dei fini proposti, il risultato del processo sociale si allontana da questi. Da parte loro i decreti, a seconda dell'efficacia con cui vengono imposti, distorcono in maggiore o minore misura l’esercizio imprenditoriale, dato che non solo non permettono l'acquisizione dell’informazione pratica necessaria, ma anche demotivano la sua creazione e non possono venir utilizzati come guida verso la coordinazione da parte degli agenti economici. Questo effetto autodistruttivo del socialismo, chiamato anche «paradosso dell’interventismo o della pianificazione», è noto da molto tempo, anche se solo recentemente è stato formulato nei termini precisi della funzione imprenditoriale.20

d) Anche se l’effetto di inibire la creazione di informazione pratica che ha il socialismo si manifesta in tutte le aree sociali, forse l’area economica è quella in cui tutto ciò risulta più evidente. In primo luogo, per esempio, la mancanza di qualità dei beni e servizi prodotti è una delle manifestazioni più tipiche dell’assenza di coordinazione socialista, e la ragione di ciò poggia sull’assenza di incentivi per generare informazione e scoprire quali siano i veri desideri, per quanto riguarda gli standard di qualità, sia da parte degli attori che costituiscono il processo sociale, che da parte dei membri stessi dell’organismo direttore.

In secondo luogo, le decisioni riguardanti gli investimenti diventano del tutto arbitrarie per il fatto di che non si dispone dell’informazione necessaria che possa permettere, in relazione con tali decisioni, una stima minima attraverso il calcolo economico, sia a livello quantitativo che qualitativo. Stando così le cose,

20 Probabilmente il primo che ha esplicitato quest’effetto autodistruttivo della coercizione istituzionale è stato Eugen von Böhm-Bawerk nel suo articolo «Macht order ökonomishes Gesetz?», pubblicato in Zeitschrift für Volkswirtschaft, Sozialpolitik und Verwaltung, Vienna, volume XXIII, dicembre 1914, pp. 205-271. Quest’articolo è stato tradotto in inglese nel 1931 da J. R. Mez e si trova pubblicato con il titolo di «Control or Economic Law?» in Shorter Classic of Eugen von Böhm-Bawerk, volume I, Libertarian Press; South Holland, Illinois 1962, pp. 139-199. In concreto, nella pagina 192 della versione inglese leggiamo: «… any situation brought about by means of “power” may again bring into play motives of self interes, tending to oppose its continuance». Posteriormente Ludwig von Mises continuò su questa stessa linea nel suo Kritik des Interventionismus: Untersuchungen zur Wirtschaftspolitik und Wirtschaftsideologie der Gegenwart, pubblicato da Gustav Fisher, Jena 1929; tradotto in inglese con il titolo di A Critique of Interventionism, Arlington House Publishers, New York, 1977. Mises conclude così: «all varieties of interference with the market phenomena not only fail to achieve the ends aimed at by their authors and supporters, but bring about a state of affairs which – from the point of view of their authors’ and advocates’ valuations – is less desirable than the previous state of affairs which they were designed to alter». Posteriormente, merita di essere mcitato il lavoro di M. N. Rothbard Power and Market. Government and the Economy, Institute for Human Studies, Menlo Park, California 1970. Ciononostante, consideriamo che colui che ha più brillantemente trattato questo tema sia Israel M. Kirzner nel suo splendido articolo «The Perils of Regulation: A Market Process Approach», compreso nella sua opera Discovery and the Capitalist Process op. cit., pp. 119 e 149.

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non si può mai sapere qual è il costo d’opportunità di ogni investimento (impossibile da stimare in un contesto socialista), e tutto ciò anche se viene imposta alla società intera la tassa di preferenza temporale dell’organismo direttore. D’altro canto, la mancanza d’informazione dell’organismo direttore non permetterà neppure fare un calcolo minimamente credibile delle quote di deprezzamento dei beni di capitale. Pertanto, gli investimenti delle risorse e dei fattori produttivi in un contesto socialista si dimostrano generalmente sbagliati e in molte occasioni, come ulteriore aggravante, si crea un carattere ciclico più o meno erroneo dell’economia, come risultato dei repentini cambi di politica tipici di questo sistema e che abbiamo già commentato nella parte finale del capoverso b).

In terzo luogo, il socialismo provoca un grave problema di scarsità generalizzata a tutti i livelli sociali. La ragione alla base di questo fenomeno sta nel fatto che la coercizione istituzionale elimina alla radice la possibilità che la enorme forza dell’ingegno imprenditoriale umano si dedichi sistematicamente a scoprire le situazioni di scarsità così come a cercare nuove e più efficaci forme per eliminarle. D’altro canto, l’impossibilità di calcolare economicamente i costi porta, come abbiamo visto in precedenza, a dilapidare gran parte delle risorse produttive in investimenti privi di senso, cosa che aggrava e rende ancora più acuto il problema della scarsità.21 Inoltre, accanto alla scarsità di determinate risorse, risulta un parallelo inefficiente e ridondante eccesso di altre, non solo a causa degli errori di produzione commessi, ma anche perché gli agenti economici si accaparrano e conservano tutti i beni e le risorse che possono, dato che la scarsità sistematica rende insicura e incerta l’adeguata somministrazione dei beni, dei servizi e dei fattori di produzione.

Infine, gli errori nell’assegnazione delle risorse sono ancora più gravi in relazione con la mano d’opera, che tende ad essere sistematicamente male impiegata, dando luogo a un elevato volume di disoccupazione, più o meno nascosto, a seconda di quale sia il contesto socialista, e che è uno dei risultati più tipici della coercizione istituzionale sul libero esercizio della funzione imprenditoriale nei processi sociali in relazione al mondo del lavoro. 21 Questa caratteristica del socialismo, consistente nel fatto le decisioni a tutti i livelli vengano prese senza prendere in considerazione i costi in cui si incorre, è stata battezzata da János Kornai con l’espressione «soft budget constraint», definizione che, pur avendo ottenuto un certo successo, crediamo sia eccessivamente influenzata solamente dalle manifestazioni più ovvie che ha il problema fondamentale nelle organizzazioni industriali (impossibilità di generare l’informazione che il calcolo di costi esige se non esiste una funzione imprenditoriale libera). Per questo motivo, purtroppo, questo argomento è stato ignorato, o non è stato apprezzato a sufficienza e in modo adeguato da parte di molti studiosi. Si veda, János Kornai, Economics of Shortage, North Holland, Amsterdam, 1980. Più recentemente, tuttavia, Kornai è stato capace di riformulare la sua teoria nei termini della funzione imprenditoriale, dimostrando di aver finalmente capito l’essenza della tesi austriaca riguardante la pianificazione. Si veda, a tal proposito il suo «The Hungarian Reform Process: Visions, Hopes and Reality», Journal of Economic Literature, volume XXIV, dicembre 1986, rieditato in Visions and Reality: Market and State, Harvester, Londra 1990, pp. 156-157. Su questo stesso tema altrettanto interessanti sono i lavori di Jan Winiecki, soprattutto The Distorted World of Soviet-Type Economies, Routledge, Londra 1988 e 1991, e Economic Prospects East and West: A View from the East, CRCE, Londra 1987.

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Informazione erronea e comportamenti irresponsabili Il socialismo non solo è caratterizzato dal fatto di inibire la creazione di

informazione, ma anche di mettere in marcia una serie di processi che attraggono e generano, sistematicamente, informazione erronea o sbagliata, dando luogo a un comportamento irresponsabile a livello generalizzato

a) A livello dell’organismo direttore che esercita la coercizione sistematicamente, non c’è nulla che garantisce che questo sia capace di rendersi conto delle opportunità concrete di guadagno che emergono nel processo sociale. Visto che questo organismo non dispone dell’informazione pratica delle persone vittime della coercizione, non possiamo ritenere che possa essere capace di scoprire, salvo in casi molto isolati e semplicemente grazie alla fortuna o alla casualità, quali sono i casi esistenti di mancanza di coordinazione sociale. Inoltre, anche se un membro dell’organismo direttore scoprisse l’esistenza di una situazione di mancanza di coordinazione, la cosa più probabile è che tale «scoperta» venga occultata a causa dell'inerzia che è propria dell’organizzazione coattiva che, salvo in pochissime occasioni, non ha alcun interesse nell’evidenziare problemi impopolari la cui soluzione esige sempre cambiamenti e misure «moleste». D’altra parte, l’organismo direttore non può neppure essere cosciente della grave situazione di ignoranza insolubile in cui si trova. Per questo motivo, l’informazione che si genera attraverso l’imposizione di decreti sarà un’informazione piena di errori, sbagli e essenzialmente irresponsabile, dato che l’organismo direttore, nel suo processo di decisione, non è in grado di rendersi conto del vero costo o valore delle alternative a cui rinuncia quando decide di seguire un determinato corso d‘azione, per il fatto di non poter attingere all’informazione pratica e dispersa riguardante tali alternative.22

b) Il fatto che l’organismo direttore si trovi inesorabilmente separato dal processo sociale da un velo di ignoranza inestirpabile, attraverso la quale può solamente distinguere gli aspetti più rozzi ed evidenti, fa sì che questo si concentri sempre sul raggiungimento dei suoi obiettivi in modo estensivo e volontarista. Volontarista nel senso che pretende di raggiungere i propri fini attraverso la mera volontà coattiva plasmata in decreti concreti. Estensiva nel senso che il raggiungimento di tali fini si misura e valuta semplicemente in base 22 Consideriamo che un’azione sia «responsabile» quando l’attore che la intraprende calcola il costo in cui incorrono sia lui sia le altre persone con lui relazionate, come conseguenza di tale azione. Il costo è il valore soggettivo che l’agente dà a ciò a cui rinuncia al momento di agire e si può stimare adeguatamente solo se si dispone della necessaria informazione soggettiva, tacita e pratica, relativa sia alle proprie circostanze particolari, sia alle circostanze degli altri soggetti o persone con cui si interagisce. Se, per il fatto di non permettere il libero esercizio della funzione imprenditoriale (coercizione sistematica) o di non definire e difendere adeguatamente i corrispondenti diritti di proprietà (coercizione asistematica), quest’informazione pratica non può né generarsi né trasmettersi, i costi non possono essere percepiti dall’attore, e, come conseguenza di ciò, la sua azione tende a rendersi irresponsabile. Sul concetto di responsabilità si consulti l’articolo di Garret Hardin, «An Operational Analysis of Responsability», in Managing the Commons, editato da Garret Hardin e John Baden, W. H. Freeman, San Francisco 1977, p. 67. Quest’irresponsabilità tipica del socialismo fa sì che il fenomeno di distruzione dei beni comuni (che Garret Hardin ha chiamato «tragedia») si estenda in un regime socialista a tutte le aree sociali in cui incide (M. Rothschild, Bionomics, Henry Holt, New York 1990, capitolo II).

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ai parametri più facilmente definibili, articolabili e trasmissibili, cioè quelli di tipo meramente statistico o quantitativo e che ignorano, o non incorporano sufficientemente, tutte le sfumature qualitative e soggettive che costituiscono il contenuto di maggior valore e più caratteristico dell’informazione pratica che si trova dispersa nella mente degli esseri umani.

La proliferazione, l’utilizzo eccessivo e la preponderanza delle statistiche sono, quindi, altre caratteristiche del socialismo, e non è affatto strano che la parola «statistica» abbia la sua origine etimologica proprio nel termine utilizzato per denominare l’organizzazione di coercizione istituzionale per antonomasia.

c) L’effetto combinato della generazione sistematica di un’informazione erronea, che porta a comportamenti irresponsabili a livello generalizzato, insieme con il carattere volontarista ed estensivo nel perseguire i fini da parte dell’organismo direttore che esercita la coercizione ha conseguenze tragiche anche sull’ambiente naturale. Generalmente, il contesto naturale si deteriora soprattutto in quelle aree e zone geografiche in cui il socialismo incide maggiormente (aree, cioè, in cui si permette una minore libertà all’esercizio della funzione imprenditoriale), e questo deterioramento sarà tanto maggiore quanto più profondo sarà il grado di intervento coattivo.23 Effetto corruzione

Il socialismo ha l’effetto di corrompere o deviare in modo perverso la forza

della funzione imprenditoriale in cui si plasma ogni azione umana. Il Dizionario della Reale Accademia Spagnola ci dice che corrompere significa «sprecare, depravare, danneggiare, far marcire, pervertire e viziare». Nello specifico, riferisce che questo effetto distruttore incide soprattutto in relazione con le istituzioni sociali, intese come abitudini ripetitive di comportamento. Ebbene la corruzione è una delle conseguenze più tipiche ed essenziali del socialismo, nella misura in cui tende sistematicamente a pervertire il processo di formazione e trasmissione di informazione che si genera nella società.

a) Dal punto di vista degli esseri umani vittime della coercizione o dell’amministrazione, costoro scoprono presto a livello imprenditoriale che hanno più possibilità di raggiungere i loro fini se, invece di cercare di scoprire e trovare una soluzione per la mancanza di coordinazione sociale approfittando delle opportunità di guadagno che crea l’assenza di coordinazione, dedicano il loro tempo, attività e ingegno per cercare di influenzare i meccanismi decisionali dell’organismo direttore. Ciò implica che un volume impressionante di ingegno umano – sempre maggiore tanto più intenso diventa il socialismo – verrà dedicato costantemente a ideare forme nuove e più efficaci per influenzare

23 Il misticismo reverenziale per le statistiche trova la sua origine nel proprio Lenin: «bring statistics to the masses, make it popular, so that the active population learn by themselves to understand and realize how much and what kind of work must be done». Traduzione della p. 33 del Die Nächsten Aufgaben der Sowietmacht, Berlino 1918, realizzata da F. A. Hayek, Collectivist Economic Planning, Augustus M. Kelley, Clifton 1975, p. 128. Sull’eccessiva produzione di statistiche che avviene sotto l’interventismo, così come sul grave danno sociale, costo e inefficacia che le stesse generano, si consulti l’articolo di Stephen Gillespie, «Are Economic Statistics Overproduced?», Public Choice, volume 67, n. 3, dicembre 1990, pp. 227-242. Sul rapporto tra socialismo e medio ambiente si veda Anderson T. L. e Leal D. R., Ecologia de mercado, Unión Editorial, Madrid 1993.

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l’organismo direttore con la speranza di ottenere vantaggi per il raggiungimento dei propri fini. Il socialismo, quindi, non solo impedisce che ogni membro della società impari a disciplinare il proprio comportamento in funzione a quello altrui, ma crea anche un fortissimo incentivo per i diversi individui e gruppi a raggiungere il potere o la capacità di influire sull’organismo direttore, con la finalità di utilizzare i decreti coattivi per imporre agli altri con la forza vantaggi o privilegi di tipo particolare. In questo modo, lo spontaneo processo sociale coordinatore si corrompe e viene sostituito da un processo di lotta per il potere, in cui il conflitto e la violenza sistematica tra i differenti individui e gruppi sociali che cercano di influenzare il potere si trasformano nella nota dominante e più caratteristica della vita in società. Gli esseri umani, pertanto, come conseguenza del socialismo, perdono l’abitudine a comportarsi moralmente (cioè seguendo principi o norme ripetitive di comportamento), e modificano lentamente la propria personalità e forma di agire diventando sempre più amorali (cioè meno sottomessi a principi) e aggressivi.24

b) In secondo luogo, un’altra manifestazione dell’effetto corruttore del socialismo si produce quando quei gruppi, o persone, che non sono riusciti ad impossessarsi del potere si vedono obbligati a dedicare una parte molto importante del loro ingegno o attività imprenditoriale a cercare di deviare o evitare gli effetti per loro più negativi o drastici dei decreti coattivi, concedendo a cambio privilegi, vantaggi, o determinate consegne di beni e servizi a quelle persone incaricate di controllare, vigilare e portare a termine il compimento di tali decreti. Quest’attività corruttrice è di tipo difensivo, dato che serve come vera e propria «valvola di sfogo» e permette una certa diminuzione del danno sociale che genera il socialismo. Inoltre, ha l’effetto positivo di rendere possibile il mantenimento di alcuni vincoli sociali minimamente coordinatori, anche nel caso di aggressione socialista più acuta. In ogni caso la corruzione, o perversa deviazione della funzione imprenditoriale che stiamo commentando avrà, come sottolinea adeguatamente Kirzner,25 un carattere sempre superfluo e ridondante.

24 Nessuno forse ha espresso meglio di Hans–Hermann Hoppe l’effetto corruttore del socialismo, quando afferma che «the redistributions of chances for income acquisition must result in more people using aggression to gain personal satisfaction and/or more people becoming more aggressive, i. e., shifting increasingly from non aggressive to aggressive roles, and slowly changing their personality as a consequence of this; and this change in the character structure, in the moral composition of society, in turn leads to another reduction in the level of investment in human capital». Si veda A Theory of Socialism and Capitalism, Kluwer Academic Publishers, Londra 1989, pp. 16-17. Allo stesso modo si veda il mio articolo «El Fracaso del Estado Social», ABC, 8 de Abril de 1991, pp. 102-103. Un’altra manifestazione dell’effetto corruttore del socialismo consiste nell’incrementare in modo generalizzato la «domanda sociale» di decreti e regolamenti coattivi emanati dallo Stato e che sorge come effetto combinato delle seguenti cause: 1) il desiderio di tutti i gruppi d’interesse di ottenere privilegi a spese del resto della cittadinanza; 2) l’impossibile ed ingenua illusione che un maggior numero di regolamenti possa diminuire l’insicurezza giuridica che predomina ovunque come risultato del crescente e contraddittorio groviglio legislativo; 3) la prostituzione delle abitudini di responsabilità individuale che soggettivamente e inconsciamente vengono rinforzati dall’accettazione del paternalismo statale e dai sentimenti di dipendenza rispetto all’autorità. 25 Si veda Israel M. Kirzner, «The Perils of Regulation: A Market Process Approach», in Discovery and the Capitalistic Process, op. cit., pp. 144-145. La necessità di

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c) Infine, in terzo luogo e dal punto di vista dell’organismo direttore, cioè dell’insieme di persone più meno organizzate che esercitano sistematicamente la coercizione, anche costoro tenderanno ad esercitare in forma perversa la loro capacità imprenditoriale, cioè il loro ingegno umano. L’obiettivo essenziale della loro attività si dirigerà a cercare di mantenersi al potere, giustificando la loro azione coercitiva di fronte al resto degli agenti. Secondo quale sia il tipo concreto di socialismo di cui si tratti (totalitario, democratico, conservatore, scientista, ecc.) varieranno i dettagli e le peculiarità dell’attività corruttrice del potere. Ciò che ora ci interessa risaltare è che la perversa attività imprenditoriale di colui che in ultima istanza controlla l’organismo direttore tenderà in forma creativa a generare e stimolare situazioni in cui quel potere possa essere aumentato o esteso, oppure venir giustificato.26 In questo modo, influenzare l’organismo di coercizione mantenendo per lo meno l’apparenza del compimento dei suoi decreti, insieme con l’alto grado di arbitrarietà e discrezionalità dello stesso, fa sì che le relazioni di amicizia siano considerate vitali in un regime socialista. Potremmo, quindi, considerare che un sistema è tanto più interventista quanto più le relazioni di amicizia sono necessarie, importanti ed estese a più aree sociali (proprio le aree su cui si interviene maggiormente), a scapito delle tipiche interazioni che si danno nel mondo libero e che, per il loro carattere più astratto e impersonale, lasciano le considerazioni di amicizia in secondo piano, subordinato sempre all’obiettivo essenziale di raggiungere i propri fini servendo nel miglior modo possibile gli interessi degli altri che si manifestano attraverso il mercato. L’amicizia nei confronti di chi è al potere e il servilismo che le è proprio spesso generano, inoltre, una curiosa «Sindrome di Stoccolma», grazie alla quale si mantengono sorprendenti sentimenti di «comprensione» e cameratismo, da parte dell’essere umano vittima della coercizione verso colui che istituzionalmente lo condiziona e gli impedisce di sviluppare liberamente la sua essenza creativa. 26 Si veda, a tal proposito, «Competition and Political Enterpreneurship: Austrian Insights into Public Choice Theory», di Thomas J. Dilorenzo, in The Review of Austrian Economics, edito da Murray N. Rothbard e Walter Block, volume 2, Lexington Books, Lexington 1988, pp. 59-71. Nonostante pensiamo che siano molto rilevanti i contributi della Scuola della Scelta Pubblica che si riferiscono all’analisi del funzionamento delle burocrazie e degli organi politici incaricati di esercitare la coercizione istituzionale, siamo d’accordo con Dilorenzo quando afferma che l’analisi di questa scuola fino ad ora si è vista troppo influenzata dalla sua eccessiva vicinanza con la metodologia dell’economia neoclassica, per il fatto di essere, cioè, eccessivamente statica e utilizzare gli strumenti formali propri dell’analisi economica dell’equilibrio, e non concedere spazio sufficiente all’analisi dinamica basata sulla teoria della funzione imprenditoriale. L’introduzione della concezione imprenditoriale porta a concludere che l’attività istituzionale coattiva è molto più perversa di quanto abbia evidenziato tradizionalmente la Scuola della Scelta Pubblica, che in generale non ha citato la capacità dell’organismo direttore di creare a livello imprenditoriale nuove e più efficaci azioni e strategie perverse e corruttrici. I contributi più importanti della Scuola della Scelta Pubblica in questa area sono stati riassunti da William Mitchel, The Anatomy of Government Failures, International Institute of Economic Research, Los Angeles 1979; J. L. Migué e G. Bélanger, «Toward a General Theory of Managerial Discretion», pubblicato in Public Choice, n. 17, 1974, pp. 27-43; William Niskanen, Bureaucracy and Representative Government, Adine-Atherton Press, Chicago 1971; Gordon Tullock, The Politics of Bureaucracy, Public Affairs Press, Washington D.C. 1965; e anche la pionieristica opera di Ludwig von Mises, Bureaucracy, Arlington House, New Rochelle, New York 1969. Ho riassunto in lingua spagnola i principali argomenti di tutta questa letteratura nel mio articolo «Derechos de propiedad y gestion privada de los recursos de la naturaleza», Cuadernos del Piensamiento Liberal, n. 2, Unión Editorial,

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per esempio, si fomenterà l’apparizione di gruppi di interesse privilegiati che appoggiano il potere, in cambio dei privilegi e i guadagni che questo può proporzionar loro. Inoltre, tutti i sistemi socialisti tenderanno ad abusare della propaganda di tipo politico, in cui sempre si cerca di dare una versione idillica degli effetti dei decreti dell’organismo direttore sul processo sociale, risaltando in special modo quanto negative sarebbero le conseguenze sociali se tali interventi non esistessero. L’inganno sistematico della popolazione, la distorsione dei fatti, la creazione artificiale di false crisi per convincere il pubblico che è necessario che il potere si mantenga e si rafforzi, ecc., sono tutte caratteristiche dell’effetto perverso e corruttore che il socialismo ha sui suoi stessi organismi o centri di potere.27 Queste caratteristiche saranno comuni sia ai massimi organismi di decisione dell’aggressione istituzionale sia agli organismi intermedi di tipo burocratico che è necessario utilizzare per stabilire e seguire i decreti coattivi. Queste organizzazioni burocratiche di tipo secondario tenderanno sempre ad espandersi esageratamente, a cercare appoggi di gruppi concreti d’interesse e a creare una necessità artificiale della loro esistenza esagerando i «benèfici» risultati del loro intervento e occultando sistematicamente i perversi effetti dello stesso.

Per concludere, il carattere megalomane del socialismo è evidente. Non solo le organizzazioni burocratiche tendono ad espandersi eccessivamente senza limite, ma cercano inoltre istintivamente di riflettere le loro macrostrutture nel corpo sociale su cui agiscono, forzando con ogni tipo di pretesto fittizio la formazione di unità, organizzazioni e imprese sempre più grandi, dato che credono che ciò faciliti la loro attività di controllo del compimento dei decreti coattivi che vengono emanati dal potere. Inoltre, ciò dà loro una falsa sensazione di sicurezza rispetto al genuino sforzo imprenditoriale, che nelle sue origini è sempre il risultato di un microprocesso eminentemente personalista e creativo.28 Economia occulta o «irregolare»

Un’altra conseguenza tipica del socialismo è che questo crea un’inesorabile reazione sociale, consistente nel fatto che i diversi agenti, all’interno delle loro possibilità, disobbediscono sistematicamente ai decreti coattivi che provengono Madrid, marzo 1986, pp. 13-30, e in Estudios de Economia Politica, Unión Editorial, Madrid 1994, pp. 229-249. 27 Proprio perché il socialismo genera corruzione ed immoralità, saranno sempre i più corrotti, immorali e privi di scrupoli, cioè quelli più abituati ed esperti nel violare la legge, esercitare la violenza ed ingannare i cittadini, quelli che probabilmente raggiungeranno il potere. Più volte nella storia questo principio si è dimostrato vero nei contesti più vari ed è stato già spiegato analiticamente in tutti i dettagli da F. A. Hayek nel 1944 nel capitolo X («Why the worst get on top») del suo libro The Road to Serfdom, The University of Chicago Press, Chicago, edizione del 1972, pp. 134-152. 28 François Revel, El Estado Megalómano, Planeta, Madrid 1981. Secondo Camino José Cela, Premio Nobel per la Letteratura del 1989, «el Estado se divorcia de la naturaleza y salta por encima de los países, las sangres y las lenguas. El dragón de Leviatán ha abierto sus fauces para devorar al hombre ... Entre los mil engranajes del Estado pululan los vermenes de sus servidores, bulle la gusanera que aprendió a saber, en mala hora, que debe conservar el cuerpo parasitado.» El Dragón del Leviatán, lezione magistrale pronunciata all’UNESCO nel luglio del 1990, ne «Los Intelectuales y el Poder», ABC del 10 luglio 1990, pp. IV e V, Madrid.

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dall’organismo direttore, effettuando una serie di azioni e interazioni al margine dello schema regolare che i decreti vogliono stabilire. Sorge così tutto un processo sociale alle spalle di quello che viene considerato da parte dell’organo direttore come «regolare» e che rende evidente fino a che punto la coercizione istituzionale sia, a lungo termine, condannata al fallimento per il fatto che va contro la più intima essenza dell’agire umano. Per questo in molte occasioni all’organismo direttore non rimane altra soluzione che esercitare il potere tollerando o consentendo implicitamente l’esistenza e lo sviluppo di processi sociali di tipo «irregolare» paralleli alle rigide strutture che emana. L’apparizione, quindi, di una società o di un’economia occulta, sommersa o «irregolare» è una caratteristica inseparabile del socialismo, e si crea sempre, nella misura in cui e nelle aree in cui questo esercita la sua attività coattiva. Le caratteristiche di base della corruzione e dell’economia sommersa sono le stesse tanto nei paesi vittima del socialismo reale quanto nei paesi con economie miste, con l’unica differenza che in questi ultimi la corruzione e l’economia sommersa appaiono e si sviluppano proprio in quelle aree della vita sociale nelle quali lo Stato interviene.29

Arretratezza sociale (economica, tecnologica, culturale)

a) È evidente che il socialismo presuppone un’aggressione alla creatività umana e, quindi, allo sviluppo della società e all’avanzamento della civilizzazione. In effetti, nella misura in cui impedisce con la forza, attraverso decreti coattivi, il libero esercizio dell’azione umana, gli agenti non possono creare né scoprire nuova informazione, frenando in questo modo l’avanzamento della civiltà. Detto in altro modo, il socialismo presuppone l’innalzamento sistematico di una serie di barriere che impediscono la libera interazione umana e congelano lo sviluppo sociale. Quest’effetto incide su tutte le aree dell’evoluzione sociale, e non solamente su quelle strettamente economiche. Possiamo concludere, quindi, che una delle caratteristiche più tipiche del sistema socialista è la sua lentezza nell’innovare e nell’introdurre le innovazioni tecnologiche che si stanno scoprendo. In questo modo, i sistemi socialisti si trovano sempre in ritardo rispetto ai loro diretti concorrenti per quanto riguarda lo sviluppo e l’applicazione pratica delle nuove tecnologie.30 E ciò accade nonostante il fatto che, in modo estensivo e volontarista come sempre, i socialisti pretendano forzare con decreti lo sviluppo tecnologico della società, creando rimbombanti istituti o consigli dedicati alla ricerca scientifica e a

29 Uno splendido riassunto sullo stato teorico della questione relativa all’economia irregolare, così come della letteratura più rilevante, si può trovare nei lavori di Joaquín Trigo Portela e Carmen Vázquez Arango La Economia Irregular (Generalitat de Catalunya, Barcellona, 1983) e Barreras a la Creacion de Empresas y Economia Irregular (Istituto de Estúdios Economicos, Madrid 1988). È interessantissimo, per la sua capacità di illustrare la tesi teorica sviluppata nel testo applicandola al caso specifico del Perù, il libro El Otro Sendero. La Revolucion Informal, di Hernando de Soto, Editorial Diana, Messico 1987. 30 V. A. Naishul ha segnalato, inoltre, che il sistema socialista non tollera i cambi e le innovazioni, poiché generano sconvolgimenti sociali a catena nella rigida organizzazione economica. Si veda, a tal proposito, il suo libro The Supreme and Last Stage of Socialism, CRCE, Londra 1991, Capitolo V, «The Birthmarks of Developed Socialism», pp. 26-29 e in particolare la pagina 28, «Hostility to Change».

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pianificare lo sviluppo futuro di nuove tecnologie. Ciononostante, l'organizzazione stessa di questi organismi burocratici per lo sviluppo dell’innovazione è la manifestazione più chiara e palese che il sistema si trova bloccato per quanto riguarda il progresso scientifico e tecnico. Il fatto è che è impossibile pianificare la futura evoluzione di una conoscenza che non è stata ancora creata e che emerge solo in un contesto di libertà imprenditoriale che non può essere simulato attraverso decreti.

b) Le considerazioni precedenti possono essere applicate a qualsiasi altra sfera in cui si produca, in forma spontanea, un costante sviluppo e una evoluzione sociale. Ci riferiamo, in concreto, alle aree di tipo culturale, artistico, linguistico e, in generale, a tutte quelle che sono il risultato dell’evoluzione spontanea e dello sviluppo delle abitudini e dei costumi sociali. La cultura non è altro che uno spontaneo risultato del processo sociale in cui interagiscono una molteplicità di individui apportando ognuno il suo piccolo «granello» di esperienza, originalità e capacità di visione. Se questo processo si vede condizionato sistematicamente da parte del potere, si blocca, si corrompe e si può persino interrompere totalmente (di nuovo l’organismo direttore pretenderà mostrarsi come il «paladino» dello sviluppo culturale, creando ogni tipo di organismo, ministero, consiglio o commissione con il compito di spingere e «fomentare», attraverso decreti, lo «sviluppo» della cultura).31

c) Per quanto riguarda l’evoluzione e lo sviluppo di nuove abitudini di tipo sociale, è fondamentale che, nella misura in cui questi permettono che gli esseri umani imparino quale deve essere il loro comportamento in relazione alle circostanze, ai prodotti, ai servizi, ecc., vadano emergendo nel processo di sviluppo sociale. Non c’è niente di più tragico che osservare una società congelata per colpa dell’aggressione istituzionale esercitata in pregiudizio dell’interazione dei suoi membri, e che impedisce e rende difficile il processo di apprendimento necessario per far fronte alle nuove minacce, sfide ed opportunità che emergono costantemente.32 31 Jaques Garello è l’autore di una magnifica analisi degli effetti pregiudiziali del socialismo sulla cultura, riferendosi specialmente al caso francese. Si consulti il suo articolo Cultural Protectionism, Mont Pèlerin Society Regional Meeting, Parigi 1984. 32 Uno degli esempi che illustrano più graficamente l’argomento esposto nel testo è quello riguardante gli effetti negativi che ha, sull’apprendimento sociale riguardo il comportamento in relazione alle droghe, l’aggressione sistematica da parte del potere sulla sua produzione, distribuzione e consumo. In effetti, esistono molteplici droghe in relazione alle quali la coercizione storicamente non è stata così importante, cosa che ha permesso che la società, attraverso un processo di adattamento mosso dalla funzione imprenditoriale, abbia generato un’importante volume di informazione e di esperienze che hanno reso possibile che gli esseri umani imparassero a comportarsi adeguatamente con tali sostanze. Questo, per esempio, è ciò che è successo in molte società con droghe come il vino e il tabacco. Non è possibile, tuttavia, che si produca un processo di questo tipo con sostanze scoperte più di recente e che, sin dal principio, sono state sottomesse a un sistema di coercizione istituzionale molto rigido che, a parte aver ottenuto solo un assoluto fallimento, ha impedito che gli individui sperimentassero e imparassero quale doveva essere il loro comportamento con le stesse. A tal proposito si veda Guy Sorman, Esperando a los Barbaros, Seix Barral, Barcellona 1993, pp. 327-337.

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La prostituzione dei concetti tradizionali di legge e giustizia. La perversione morale che crea il socialismo a) Abbiamo visto nel capitolo precedente come il processo sociale, mosso dall’impeto della funzione imprenditoriale, sia possibile grazie a un insieme di norme di carattere consuetudinario che emergono da questo. Queste abitudini di condotta costituivano il diritto contrattuale privato e il diritto penale, e non erano state create deliberatamente da nessuno, ma erano istituzioni evolutive che sorgevano come risultato dell’informazione pratica ad esse incorporata da parte di un numero molto elevato di agenti durante un periodo estremamente dilatato di tempo. Il diritto, inteso in questa particolare accezione, appare come costituito da una serie di norme o leggi nel senso materiale, generali (applicabili, cioè, a tutti allo stesso modo) e astratte (dato che stabiliscono semplicemente un ampio ambito per l’azione individuale, senza prevedere alcun risultato concreto del processo sociale).

Il socialismo, basandosi sull’aggressione istituzionale e sistematica contro l’azione umana esercitata mediante una serie di ordini o decreti coattivi, implica la sparizione del concetto tradizionale di legge, concetto che abbiamo spiegato nel paragrafo precedente, e la sua sostituzione con un «diritto» spurio, costituito da un insieme di ordini, regole e decreti di tipo amministrativo nei quali si spiega quale deve essere il contenuto concreto del comportamento di ogni essere umano. In questo modo, nella misura in cui il socialismo si estende e sviluppa, le leggi nel senso tradizionale finiscono per non servire più come norme di riferimento per il comportamento individuale, e il loro ruolo viene progressivamente preso dagli ordini o decreti coattivi che emanano dall’organo direttore (democraticamente eletto o meno). La legge perde progressivamente, in tal modo, il suo ambito di applicazione pratico, venendo ridotta a quegli ambiti, regolari o irregolari, che non vengono raggiunti efficacemente dall’incidenza diretta del regime socialista.

D’altro canto, e come effetto secondario di enorme importanza, gli agenti, per il fatto di perdere il riferimento che costituisce la legge in senso materiale, modificano progressivamente la loro personalità e perdono l’abitudine di adattarsi a norme generali di carattere astratto, motivo per cui, progressivamente, assimilano sempre peggio e rispettano sempre meno le norme tradizionali di condotta. Oltre a ciò, dato che eludere il mandato è in molte occasioni un’esigenza imposta dalla necessità stessa di sopravvivere, e in altre una manifestazione del successo della funzione imprenditoriale corrotta o perversa che, come abbiamo visto, il socialismo sempre genera, il non compiere la norma passa ad essere considerato, dal punto di vista generale della popolazione, più come una lodevole manifestazione dell’ingegno umano che deve essere cercata e fomentata, che come una violazione di un sistema di norme che pregiudica la vita in società. Il socialismo, quindi, incita a violare la legge, la vuota del contenuto e la corrompe, togliendole completamente il prestigio a livello sociale e facendo si che i cittadini, come conseguenza di ciò, perdano qualsiasi rispetto per questa.

b) La prostituzione del concetto di legge che abbiamo spiegato nel paragrafo anteriore, inesorabilmente viene accompagnata da vicino da una parallela prostituzione del concetto e dell’applicazione della giustizia. La giustizia, nel senso tradizionale del termine, consiste nell’applicazione, in modo uguale per tutti, delle norme astratte di condotta di tipo materiale che costituiscono il diritto

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privato e il diritto penale. Non è, pertanto, casuale il fatto che la giustizia sia stata sempre rappresentata con gli occhi bendati, dato che la giustizia dovrebbe essere prima di tutto cieca, nel senso che non dovrebbe lasciarsi influenzare all’ora di applicare il diritto «né dagli omaggi del ricco, né dalle lacrime del povero».33 Il socialismo, per il fatto di corrompere sistematicamente il concetto tradizionale di diritto, modifica anche questa concezione tradizionale della giustizia. In effetti nel sistema socialista, la «giustizia» consiste innanzitutto nell’arbitraria stima realizzata dall’organismo centrale, sulla base dell’impressione più o meno emotiva che gli produce il «risultato finale» e concreto del processo sociale che crede di percepire e che cerca di organizzare dall’alto attraverso decreti coattivi. Non sono più, pertanto, i comportamenti umani ad essere sottoposti a giudizio, ma il loro «risultato» percepito all’interno di un contesto spurio di «giustizia», cui si aggiunge l’aggettivo di sociale con il fine di renderla più attraente per coloro che la subiscono.34 Dal punto di vista

33 «Siendo juez no hagas injusticia, ni por favor del pobre, ni por respeto al grande: con justicia juzgarás a tu prójimo», Levítico, capitolo 19, versetto 15; «os haré despreciables ... porque os fijais en las personas al aplicar la ley», Malaquias 1, 2, 9, Biblia de Jerusalén, Desclée de Brouwer, Bilbao 1971, pp. 164 e 1642. 34 Il termine «sociale» svuota e modifica completamente il senso di qualsiasi parola cui viene applicato (giustizia, stato di diritto, democrazia, ecc.). Altri termini che si utilizzano allo stesso modo per nascondere la realtà con connotazioni più attraenti sono, per esempi, gli aggettivi «popolare» e «organica» spesso usati come aggettivi della parola «democrazia». Gli americano definiscono questi aggettivi che si utilizzano per ingannare sistematicamente i cittadini «termini-donnola» (weasel words), ovvero termini che permettono l’uso di parole enormemente attraenti (come giustizia e democrazia) con un senso che è proprio il contrario rispetto a quello che realmente possedevano. L’espressione «termini-donnola» proviene dal noto verso di Shakespeare che si riferisce alla capacità di questo animale di svuotare un uovo senza rovinare il guscio («I can suck melancholy out of a song, as a weasel sucks eggs»), As you like it, Atto II, Scena V, 11, in The Riverside Shakespeare, Houghton Mifflin, Boston 1974, p. 379). Su questo argomento si deve consultare il capitolo 7 del libro The Fatal Conceit di Hayek (op. cit.). Un altro termine il cui senso è stato corrotto è quello di solidarietà, che oggi si utilizza come alibi per giustificare la violenza statale che si considera legittima nel caso in cui venga diretta ad «aiutare» gli oppressi. Ciononostante, il senso tradizionale del termine solidarietà è un altro totalmente diverso e fa riferimento alle interazioni umane che emergono nel processo sociale spontaneo mosso dall’imprenditorialità. In effetti, il termine solidarietà deriva dal latino solidare (saldare o unire) e significa, secondo il Dizionario della Reale Accademia Spagnola, «l’adesione circostanziale alle imprese di altri». Il mercato, tale come lo abbiamo definito, è, pertanto, il meccanismo o sistema di solidarietà per eccellenza tra gli esseri umani. In questo senso, non c’è nulla di più antisolidale dell'imporre con la forza e dall’alto principi di «solidarietà» tanto miopi come parziali. Inoltre, il problema dell’ignoranza inestirpabile dell’organo di controllo influenzerà inesorabilmente anche coloro che concepiscono la «solidarietà» solamente nella ristretta concezione dell’aiuto ai necessitati, dato che sarà inefficiente e ridondante se verrà esercitata dallo Stato e non dagli individui interessati ad aiutare il prossimo volontariamente. Dà particolare soddisfazione osservare come Giovanni Paolo II, nella recente enciclica Centesimus Annus, non solo si riferisca al mercato come a una «catena di solidarietà che si estende progressivamente» (op. cit., capitolo IV, n 43, terzo paragrafo, p. 83), ma affermi anche che «conosce meglio le necessità e può soddisfarle in maniera più adeguata chi si trova vicino a queste o chi si trova vicino al necessitato», e per questo critichi lo stato assistenziale e «solidale» che «al momento di intervenire direttamente e

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opposto, cioè quello della giustizia tradizionale, non esiste niente di più ingiusto del concetto di «giustizia» sociale, dato che quest’ultima si basa in una visione, impressione o stima dei «risultati» dei processi sociali al margine di quale sia stato il comportamento individuale di ogni agente dal punto di vista delle norme del diritto tradizionale.35 La funzione del giudice nel diritto tradizionale è puramente intellettuale, dato che non deve lasciarsi influenzare né dalle proprie inclinazioni emotive né dalla propria personale percezione del risultato della decisione giudiziaria su ognuna delle parti. Se, come succede nel socialismo, si impedisce l’applicazione oggettiva del diritto e si permette che si prendano decisioni giuridiche in base alle impressioni più o meno soggettive e emotive, scompare qualunque traccia di sicurezza giuridica e presto gli agenti cominceranno a rendersi conto che qualsiasi pretesa potrebbe raggiungere tutela giudiziale semplicemente riuscendo a impressionare favorevolmente il giudice. Come conseguenza di ciò, si creerebbe un fortissimo incentivo per litigare e fare causa, cosa che, insieme con la situazione caotica creata dal groviglio di decreti coattivi sempre più imperfetti e contraddittori, metterebbe i giudici in una situazione di sovraccarico tale che il loro lavoro si farebbe sempre più insopportabile e inefficiente. E così successivamente, in un processo di progressiva decomposizione che potrebbe finire solo con la virtuale sparizione della giustizia nel suo senso tradizionale, così come dei giudici che non sarebbero altro che semplici burocrati al servizio del potere, incaricati di controllare il compimento dei decreti coattivi che emanano da esso. Nelle pagine 132 e 133 raccogliamo in un quadro sistematico le più importanti differenze che esistono tra il processo spontaneo basato sulla funzione imprenditoriale e sulla libera interazione umana e il sistema di organizzazione basato sul decreto e sulla coercizione istituzionale (socialismo) per quanto riguarda la loro opposta incidenza sui concetti di diritto e di giustizia e sulla loro applicazione.

c) La perdita delle abitudini di adattamento del comportamento individuale a norme di tipo generale che si sono formate per tradizione e la cui intima funzione sociale non è completamente compresa da parte di nessuna mente, è un’altra delle caratteristiche più tipiche del socialismo. La morale a tutti i livelli si debilita o addirittura sparisce sostituita da un riflesso del misticismo dell’organismo direttivo della società e che cerca di riprodursi anche a livello del comportamento individuale di ogni agente. D’accordo con questo criterio, deve prevalere, anche a livello individuale, il tipico volontarismo socialista per quanto riguarda il raggiungimento dei fini che si perseguono più per capriccio o «decreti» personali alimentati dai propri desideri e istinti ed enunciati ad hoc da parte del soggetto in ogni caso particolare che mediante l’esercizio dell’interazione umana sottomessa a norme generali di carattere morale e legale.

Così, per esempio, tra i massimi esponenti di questa perversione morale frutto del socialismo possiamo recensire Lord Keynes, uno dei maggiori togliere la responsabilità alla società provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con un enorme aumento delle spese» (op. cit., capitolo V, n 48, 5., p. 92). 35 Il migliore trattato critico del concetto spurio di giustizia sociale è stato scritto da F. A. Hayek; si veda The Mirage of Social Justice, secondo volume di Law, Legislation and Liberty, op. cit.

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sostenitori della coercizione sistematica e dell’interventismo nell’area monetaria e fiscale, e che spiegava, in questo senso, la sua posizione «morale» come segue: «Rifiutavamo qualsiasi obbligo di sottometterci a norme generali. Proclamavamo il diritto di giudicare ogni caso secondo i propri meriti e ci credevamo in possesso della sapienza, l’esperienza e l’autodominio sufficienti per farlo i modo corretto. Si trattava di una parte essenziale del credo che con violenza e aggressività difendevamo, attitudine che, per gli altri, era la nostra più visibile e inquietante caratteristica. Ripudiavamo completamente la morale stabilita, così come qualsiasi convenzione derivata dal sapere tradizionale. Eravamo, quindi, nel senso più stretto del termine, contrari alla morale. Non riconoscevamo l’esistenza di nessun obbligo morale né sanzione intima suscettibile di servirci come guida. Rivendicavamo di fronte al cielo il diritto di essere giudici unici della nostra causa»; e aggiungeva: «Per ciò che riguarda me, è già troppo tardi per adottare un’altra postura. Rimango e rimarrò sempre un immorale».36

Il socialismo appare così, simultaneamente, come un prodotto naturale del razionalismo falso e esagerato del cosiddetto «Secolo dei Lumi» e allo stesso tempo come un risultato dei più bassi e atavici istinti e passioni umane. In effetti, poiché i razionalisti ingenui credono che non esistono limiti alla capacità della mente umana, si ribellano, come Keynes, Rousseau e tanti altri, contro le istituzioni, abitudini e comportamenti che rendono possibile l’ordine sociale, i quali, per definizione, non possono essere completamente razionalizzati, e che si qualificano irresponsabilmente di «repressive e inibitorie tradizioni sociali». Il paradossale risultato di questa «deificazione» della ragione umana non significa altro che eliminare i principi morali, le norme e gli schemi di condotta che hanno reso possibile l’evoluzione della civilizzazione, gettando inevitabilmente l’uomo, privo di guide e riferimenti vitali per poter agire, fra le braccia delle sue più ataviche e primitive passioni.37

36 Si tratta della traduzione all’italiano della citazione delle pagine 25 e 26 del volume I del libro di F. A. Hayek Law, Legislation and Liberty, che a sua volta è stata estratta dal libro di John Maynard Keynes, Two Memories, pubblicato a Londra nel 1949, pp. 97-98. La citazione testuale in inglese dice: «We entirely repudiated a personal liability on us to obey general rules. We claimed the right to judge every individual case on its merits, and the wisdom, experience, and selfcontrol to do so succesfully. This was a very important part of our faith, violently and aggressively held, and for the outer world it was our most obvious and dangerous characteristic. We repudiated entirely customary morals, conventions and traditional wisdom. We were, that i sto say, in the strict sense of the term, immoralists. We recognized no moral obligations, no inner sanction, to conform or obey. Before heaven we claimed to be our own judge in our own case … So far as I am concerned, it is too late to change. I remain, and always will remain, an immoralist.» Allo stesso modo, si veda il testo di Robert Skydelsky, John Maynard Keynes: Hopes Betrayed, 1883-1920, Macmillan, Londres 1983, pp. 142-143. 37 Si veda F. A. Hayek, The Fatal Conceit, opera citata, Capitolo I.

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QUADRO III-1 PROCESSO SOCIALE SPONTANEO Basato sulla funzione imprenditoriale (interazione sociale non aggredita)

SOCIALISMO (Aggressione istituzionale e sistematica contro la funzione imprenditoriale e l’azione umana)

1) La coordinazione sociale si produce spontaneamente, grazie alla funzione imprenditoriale che continuamente scopre ed elimina la mancanza di coordinazione sociale, che si plasma in opportunità di beneficio (Ordine spontaneo)

1) Si cerca di imporre la coordinazione sociale dall’alto in forma deliberata e coattiva attraverso decreti, ordini e regolamenti coattivi che emanano dal potere (ordine gerarchico – da hieros, che significa sacro e archein, comandare – e organizzato)

2) Il protagonista del processo è l’uomo, che agisce e esercita la funzione imprenditoriale creativa.

2) Il protagonista del processo è il governante (democratico o no) e il funzionario (quella persona che agisce in base a ordini e regolamenti amministrativi emanati dal potere).

3) I vincoli dell’interazione sociale sono di tipo contrattuale, e le parti implicate scambiano beni e servizi d’accordo con norme giuridiche di tipo materiale (Legge).

3) I vincoli dell’interazione sociale sono di tipo egemonico; alcuni comandano e altri obbediscono. Nel caso di una «democrazia sociale», le «maggioranze» condizionano le «minoranze».

4) Predomina il concetto tradizionale di legge in senso materiale, intesa come norma astratta di contenuto generale, che si applica a tutti senza eccezioni e senza considerare nessuna circostanza particolare.

4) Predomina il decreto o regolamento che, indipendentemente dalla sua apparenza come legge formale, è un ordine specifico di contenuto concreto che costringe ad agire in un determinato modo in circostanze particolari e che non si applica ugualmente a tutti.

5) Le leggi e istituzioni che rendono possibile il processo sociale non sono state create deliberatamente, ma hanno un origine evolutivo e consuetudinario, e incorporano un enorme volume di esperienza e informazione pratica accumulata nel corso di generazioni e generazioni.

5) I decreti e i regolamenti sono emanazioni deliberate del potere organizzato, e sono altamente imperfetti ed erronei vista la situazione di ignoranza inestirpabile nella quale il potere si trova sempre in relazione con la società.

6) Il processo spontaneo rende possibile la pace sociale, visto che tutti gli agenti, all’interno dell’ambito della legge, approfittano della loro conoscenza pratica ed inseguono i loro fini individuali, cooperando pacificamente tra loro e disciplinando spontaneamente il loro comportamenti in funzione degli altri esseri umani che inseguono fini diversi.

6) Esige che un fine o un insieme di fini prevalga e si imponga su tutti gli altri attraverso il sistema dei decreti. Ciò genera conflitti e violenze sociali irresolubili e interminabili, che impediscono la pace sociale.

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7) La libertà viene intesa come assenza di coercizione o aggressione (tanto istituzionale come asistematica).

7) La «libertà» viene intesa come il poter raggiungere i fini concreti che si desiderino in qualsiasi momento (attraverso un semplice atto di volontà, decreto o capriccio).

8) Prevale il senso tradizionale della giustizia, che presuppone l’applicazione della legge materiale a tutti senza eccezioni, indipendentemente dai risultati concreti che emergono nel processo sociale. L’unica uguaglianza che si persegue è l’uguaglianza di fronte alla legge, applicata da una giustizia cieca di fronte alle differenze particolari dell’uomo.

Prevale il senso spurio di «giustizia nei risultati» o «giustizia sociale», intesa come uguaglianza nei risultati del processo sociale, al margine di quale sia stato il comportamento (corretto o meno dal punto di vista del Diritto tradizionale) degli individui implicati nello stesso.

9) Prevalgono le relazioni di tipo astratto, economico e commerciale. I concetti spuri di lealtà, «solidarietà» e ordine gerarchico non si tengono in considerazione. Ogni agente disciplina il suo comportamento in base alle norme di diritto materiale e partecipa a un ordine sociale universale, non esistendo per lui né «amici» né «nemici», né vicini né lontani, ma soltanto molteplici esseri umani, la maggior parte di questi sconosciuti, con i quali interagire in modo mutuamente soddisfacente e sempre più ampio e complesso (senso corretto del termine solidarietà).

9) Nella vita sociale prevale l’aspetto politico e i legami basici sono di tipo «tribale»: a) lealtà al gruppo e al suo capo; b) rispetto dell’ordine gerarchico; c) aiutare il «prossimo» conosciuto («solidarietà») e dimenticare o addirittura disprezzare gli «altri» esseri umani più o meno sconosciuti, membri di un'altra «tribù», dei quali si sospetta e che si considerano come «nemici» (senso spurio e miope del termine «solidarietà»).

Il Socialismo come «oppio del popolo»

L’ultimo effetto sistematico del socialismo è quello di far sì che sia molto difficile che i cittadini scoprano quali siano le conseguenze negative che esso provoca. Il socialismo, per sua propria natura, impedisce il sorgere dell’informazione rilevante necessaria per criticarlo o eliminarlo. Gli agenti, rendendosi conto che viene loro impedito l’esercizio creativo della loro azione umana, non sono neppure coscienti che smettono di essere creativi nell’ambiente istituzionale coercitivo in cui sono immersi.

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Come recita il vecchio proverbio «occhio non vede, cuore non duole».38 Si crea così una falsa illusione in cui i diversi agenti identificano l’organo coercitivo con l’esistenza di quei beni e servizi che si considerano essenziali per la vita e che apparentemente sono da esso forniti. Non si prende neanche in considerazione che il risultato imperfetto degli ordini coercitivi potrebbe essere ottenuto in un modo molto più creativo, produttivo ed efficace mediante la libera azione imprenditoriale. Come conseguenza, aumentano l’autocompiacimento, il cinismo e la rassegnazione. Solo l’esistenza dell’economia sommersa, e la conoscenza di ciò che succede in altri regimi meno socialisti, può portare a scatenare i meccanismi di disobbedienza civile che sono necessari a smantellare, per via evolutiva o rivoluzionaria, il sistema istituzionale e organizzato di coercizione contro l’essere umano. Inoltre il socialismo, come tutte le droghe, porta all’«assuefazione» e all’«irrigidimento», poiché come abbiamo visto tende a giustificare dosi sempre più elevate di coercizione e rende molto doloroso e difficile che gli esseri umani che riescono a rendersi indipendenti da esso possano riacquistare le abitudini e i comportamenti regolari di tipo imprenditoriale non basati sulla coercizione.39 Conclusione: Carattere essenzialmente antisociale del socialismo

Se ricordiamo la nostra definizione del concetto di società data alla fine del capitolo precedente, è ora evidente in che senso non ci sia nulla di più antisociale che il socialismo stesso. In effetti, la nostra analisi teorica ha messo in evidenza come, nella sfera morale, il socialismo corrompa i principi morali che costituiscono le regole di comportamento imprescindibili per mantenere il tessuto sociale, togliendo prestigio alla legge e incitando a violarla, pervertendone così il concetto e ponendo fine alla giustizia nel senso tradizionale della parola. Nella sfera politica il socialismo tende inevitabilmente al totalitarismo, poiché la coercizione sistematica tende a estendersi in tutti gli interstizi della società, distruggendo la libertà e la responsabilità individuale. Sul piano materiale, il socialismo impedisce e, in gran misura, rende difficile la produzione di beni e servizi, e costituisce, pertanto, un impedimento per lo sviluppo economico. Nell’area culturale il socialismo rende difficile la creatività, impossibilitando lo sviluppo e l’apprendimento di nuove regole di comportamento e rendendo difficile la scoperta e l’introduzione dell’innovazione. E nel campo scientifico, il socialismo non è altro che un errore

38 Miguel de Cervantes ( El Quijote, opera citata, Capitolo 67) utilizza la versione «Occhi che non vedono, cuore che non si spezza», ed è ammissibile anche la forma «Occhi che non vedono, cuore che non piange» (si veda alle pp. 327-328 del Diccionario de los Refranes, di Juana G. Campos e Ana Barella, Annesso XXX al Boletín de la Real Academia Española, Madrid 1975). 39 La situazione da questo punto di vista è, se possibile, ancora più grave nella socialdemocrazia che nel «socialismo reale», poiché gli esempi e le situazioni alternative che potrebbero aprire gli occhi ai cittadini sono quasi inesistenti, e le possibilità di nascondere gli effetti negativi del socialismo democratico mediante la demagogia e le razionalizzazioni ad hoc sono quasi totali. Perciò, caduto il «paradiso» del socialismo reale, il vero «oppio del popolo» è oggi la socialdemocrazia. In questo senso si vedano le pp. 26-27 del mio Prologo all’edizione spagnola del volume I delle Obras Completas de F. A. Hayek (La Fatal Arrogancia. Los Errores del Socialismo, opera citata).

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intellettuale, che ha origine nel pensare che la capacità della mente umana sia molto superiore a ciò che è in realtà e che, pertanto, sia possibile ottenere l’informazione necessaria per migliorare la società in modo coercitivo.40 Insomma, il socialismo costituisce l’attività antiumana e antisociale per eccellenza, poiché esso si basa sulla coercizione sistematica contro la più intima essenza dell’essere umano: la sua capacità di agire creativamente e liberamente. 7. DIVERSI TIPI E CLASSI DI SOCIALISMO

Dopo aver enunciato la definizione teorica di socialismo, aver spiegato perché questo è un errore intellettuale e aver studiato le conseguenze teoriche che esso produce, in questo paragrafo analizzeremo i casi particolari più importanti di socialismo sorti storicamente. Con ciò ci proponiamo, in un primo approccio, di collegare la nostra analisi teorica con la realtà, utilizzandola per interpretare le caratteristiche particolari più importanti per ogni tipo di socialismo. Tutti i casi che menzioneremo hanno in comune il fatto di essere sistemi socialisti, cioè, di basarsi sistematicamente sull’aggressione istituzionale contro il libero esercizio della funzione imprenditoriale. Come vedremo, le differenze tra gli uni e gli altri giacciono non solo nei motivi o nei fini generali che si propongono ma soprattutto nel grado di estensione e profondità con cui si esercita l’aggressione intellettuale. Il socialismo reale o delle economie di tipo sovietico

Questo sistema è caratterizzato dalla grande estensione e profondità con cui si esercita l’aggressione istituzionalizzata sull’azione umana individuale e, concretamente, tale aggressione si manifesta sempre al cercar di impedire il libero esercizio della funzione imprenditoriale in rapporto ai cosiddetti beni economici di ordine superiore o fattori materiali di produzione. Fattori materiali di produzione (beni di capitale e risorse della natura) sono tutti quei beni economici che non soddisfano direttamente necessità umane, ma che richiedono l’intervento di altri fattori di produzione, e specialmente del lavoro umano, per dar luogo ai beni e servizi di consumo, attraverso un processo produttivo che richiede tempo. Dal punto di vista della teoria dell’azione umana, sono fattori materiali di produzione o beni economici di ordine superiore, tutte le tappe intermedie considerate soggettivamente come tali dall’agente, nelle quali si plasma un processo di azione prima di giungere al suo fine ultimo. Pertanto ci rendiamo conto del tremendo effetto che ha l’aggressione istituzionalizzata se questa si estende all’area dei fattori di produzione, poiché essa è destinata a influenzare, in misura maggiore o minore e in modo sostanziale, tutte le azioni umane. Perciò, per molto tempo questo tipo di socialismo è stato considerato come il socialismo più puro o socialismo per antonomasia. Viene anche 40 Usando le parole dello stesso F. A. Hayek: « On the moral side socialism cannot but destroy the basis of all morals, personal freedom and responsibility. On the political side, it leads sooner or later to totalitarian government. On the material side it will greatly impede the production of wealth, if it does not actually cause impoverishment.» Si veda il suo «Socialism and Science», in New Studies in Phylosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, Routledge, Londra 1978, p. 304.

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chiamato socialismo reale e, per molti teorici e pensatori non abituati alla teoria dinamica della funzione imprenditoriale, è, di fatto, l’unico tipo di socialismo esistente. Per quanto riguarda i motivi, il socialismo di tipo reale si propone, generalmente in modo molto appassionato, non solo di «liberare l’umanità dalle sue catene», ma anche di ottenere un'uguaglianza nei risultati che si considera l’ideale per antonomasia della «giustizia». Sarebbe molto interessante effettuare uno studio dettagliato delle caratteristiche principali e dell’evoluzione di questo primo tipo di socialismo, che attualmente si trova in una situazione di decisa decadenza. Socialismo Democratico o socialdemocrazia

Si tratta del tipo più popolare di socialismo nell’attualità. Storicamente nasce come una separazione tattica dal socialismo di tipo reale, distinguendosi da esso per il fatto che si propone di raggiungere il suo obiettivo utilizzando allo scopo i tradizionali meccanismi democratici che si sono formati nei paesi occidentali. In seguito, e soprattutto come conseguenza dell’evoluzione della socialdemocrazia in stati come la Germania Occidentale41 e in altri, il socialismo democratico è andato gradualmente abbandonando il suo obiettivo di «socializzare» i mezzi o fattori di produzione, e ponendo sempre maggiore enfasi sull’idea di esercitare l’aggressione sistematica e istituzionalizzata soprattutto nell’area fiscale e con il desiderio di rendere uguali le «opportunità sociali» e i risultati del processo sociale.

È necessario sottolineare che, al contrario dell’impressione che il socialismo di stile socialdemocratico vuole suscitare nel pubblico, la differenza tra il socialismo reale e il socialismo democratico non è una differenza categorica o di classe, ma è solamente una differenza di grado. In effetti, l’estensione e la profondità che raggiunge l’aggressione istituzionale nella socialdemocrazia è molto elevata, sia per quel che riguarda il numero di aree e di processi sociali interessati, sia per ciò che si riferisce al grado di coercizione effettiva che si esercita sull’azione di milioni di esseri umani che si vedono espropriare sistematicamente per via fiscale una parte molto importante dei risultati della loro creatività imprenditoriale, e che allo stesso tempo sono costretti a intervenire tramite decreti e regolamenti in molteplici azioni che non intraprenderebbero volontariamente, o che porterebbero a termine in modo diverso. Anche i motivi che il socialismo democratico si prefigge di solito sono apparentemente «nobili», come quello di favorire la «redistribuzione» del reddito e della ricchezza e di ottenere in generale un «migliore funzionamento» della società. Inoltre, questo sistema tende a creare l’illusione che, essendo il suo ideale prioritario proprio quello «democratico», non esista nessun problema riguardo all’aggressione istituzionale, dal momento che essa viene esercitata in ultima istanza da «rappresentanti» eletti democraticamente dai cittadini. Si nasconde così che le conseguenze teoriche del socialismo si verificano inesorabilmente, indipendentemente dal fatto che l’organismo direttivo sia costituito o meno da rappresentanti del popolo eletti democraticamente. E il 41 Sulla nascita e lo sviluppo della socialdemocrazia nella Germania Occidentale si possono vedere le sagge considerazioni fatte al rispetto da Hans-Hermann Hoppe nel suo A Theory of Socialism and Capitalism, opera citata, Capitolo 4. In particolare le pp. 61-64.

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fatto che esistano o meno elezioni democratiche non modifica affatto il basilare problema di inestirpabile ignoranza in cui si trova ogni organismo direttivo incaricato di esercitare la coercizione sistematica. L’aggressione, indipendentemente dal fatto che abbia origine o meno in un sistema democratico, si prefigge sempre di impedire in misura maggiore o minore l’interazione umana basata sulla funzione imprenditoriale creativa, per cui rende impossibile il coordinamento sociale, e di qui sorgono le altre conseguenze teoriche proprie del socialismo che abbiamo già analizzato.

Il problema basilare che si pone nella convivenza sociale non è, pertanto, se essa sia o meno organizzata «democraticamente», ma, al contrario, il grado di estensione e profondità con cui si esercita la coercizione sistematica contro la libera interazione umana. In questo senso, lo stesso Hayek chiarisce che, se il cosiddetto «ideale democratico» implica il porre a disposizione degli organi di rappresentanza popolare un illimitato potere istituzionale di aggressione, in quel senso esso non può essere considerato democratico. E si schiera a favore di un sistema in cui prevalga, prima di tutto, un limite al potere statale e la sfiducia verso la sua tipica aggressione istituzionale, sostenuto da una serie di organi che si auto compensano, integrati da rappresentanti eletti democraticamente. Sistema politico che egli propone di chiamare «demarchia».42

Infine, nel socialismo democratico è presente in tutta la sua estensione il concetto di «illusione» descritto nel paragrafo precedente: essendosi generalizzato questo sistema in misura maggiore o minore in tutti i paesi che non sono a regime di socialismo reale, non esiste un sistema sociale paragonabile che faccia vedere ai cittadini le conseguenze negative dell’aggressione istituzionale socialdemocratica e che alimenti, come sta succedendo con il socialismo reale, le necessarie correnti, rivoluzionarie o meno, per il suo smantellamento e la sua riforma. Nonostante tutto ciò, a livello popolare si stanno evidenziando sempre più le conseguenze negative dello Stato aggressore socialdemocratico, grazie agli ultimi progressi sia in campo teorico43 sia in campo pratico (poiché di fatto, e nonostante i molteplici tentativi

42 F.A. Hayek, The political Order of a Free People, volume III di Law, Legislation and Liberty, opera citata, pp. 38 a 40. Hayek afferma esplicitamente a p. 39: «Though I firmly believe that government ought to be conducted according to principles approved by a majority of the people, and must be so run if we are to preserve peace and freedom, I must frankly admit that if democracy is taken to mean government by the unrestricted will of the majority I am not a democrat, and even regard such government as pernicious and in the long run unworkable» (il corsivo è nostro). Di seguito, Hayek giustifica il suo ripudio del termine «democrazia» affermando che la radice greca kratos viene dal verbo kratein e convoglia un’idea di «forza bruta» o «mano dura» che è incompatibile con l’esercizio del governo democratico sottoposto alla legge, definita in senso materiale, e applicabile a tutti allo stesso modo («isonomia» ). 43 Ci riferiamo concretamente ai principali contributi della Escuela de la Elección Pública (Scuola Della Scelta Pubblica) e alla Teoría del Intervencionismo (teoria dell’Interventismo) sviluppata dalla Scuola Austriaca. A tale proposito bisogna riportare qui i commenti e la bibliografia citati nella nota 26 di questo capitolo. Un riassunto dettagliato dei motivi per cui la gestione pubblica e burocratica è destinata al fallimento benché la sua base sia «democratica» lo si può trovare nel mio articolo «Derechos de Propriedad y Gestión Privada de los Recursos de la Naturaleza (Diritti di Proprietà e Gestione Privata delle Risorse Naturali)», in Cuadernos del Pensamiento Liberal, n.º 2, marzo 1986, Unión Editorial, Madrid pp. 13-30, riportato nelle mie Lecturas de Economía Política, volume III, Unión Editorial, Madrid 1987, pp. 25 a 43.

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fatti, la socialdemocrazia non è stata in grado di mantenere una perfetta calma di fronte al fallimento del socialismo reale), e il tutto fa sì che in un numero sempre maggiore di società si stiano cominciando certe tendenze, già più o meno consolidate, volte a diminuire l’area e la profondità della coercizione sistematica che è parte sostanziale della socialdemocrazia. Socialismo conservatore o «di destra»

Possiamo definire il socialismo conservatore o «di destra» quello che utilizza l’aggressione istituzionale per mantenere lo status quo sociale e le situazioni di privilegio ottenute da determinate persone o gruppi di persone. L’obiettivo essenziale del socialismo «di destra» è, pertanto, quello di mantenere le cose così come stanno, impedendo che il libero esercizio della funzione imprenditoriale e della azione umana creativa possano scombinare lo schema prestabilito di organizzazione sociale. Per raggiungere questo obiettivo, il socialismo «di destra» ricorre all’aggressione sistematica e istituzionalizzata a tutti i livelli necessari. In questo senso non esiste altra distinzione tra il socialismo conservatore e il socialismo democratico se non quella dei diversi motivi che ispirano l’uno o l’altro e dei diversi gruppi sociali che l’uno o l’altro intendono privilegiare.

Il socialismo conservatore o «di destra» si caratterizza anche per il suo accentuato paternalismo, inteso come il tentativo di congelare il comportamento degli esseri umani assegnando loro dei ruoli che, come produttori o consumatori, sono considerati adeguati dall’organo di controllo conservatore. Inoltre, in questo tipo di socialismo, si cerca generalmente di imporre con decreti determinati comportamenti che si considerano morali o religiosi.44

In stretta relazione con il socialismo conservatore o «di destra» troviamo il cosiddetto socialismo militare, che viene definito da Mises come quel socialismo in cui tutte le istituzioni vengono fondate con il fine di fare la guerra, e in cui la scala di valori per determinare lo status sociale e la rendita dei cittadini si basa, in modo esclusivo o preferenziale, sulla posizione che ciascuno di loro occupa in rapporto alle forze armate.45 Allo stesso modo si possono considerare classi del socialismo conservatore o di destra il socialismo gremiale e il socialismo agrario, che si propongono, rispettivamente, di organizzare la società sulla base di una struttura gerarchica di maestri, gestori,

44 Hans-Hermann Hoppe è il teorico che ha spiegato in modo più brillante il socialismo conservatore o di destra. Vedere A Theory of Socialism and Capitalism, opera citata, Capitolo V. 45 Ludwig von Mises, Socialism, An Economic and Sociological Analysis, Liberty Press, Indianapolis 1981, p. 220 (Traduzione in inglese di J. Kahane dall’opera Die Gemeinwirtshaft:Untersuchungen über den Sozialismus, pubblicata da Gustav Fischer a Jena nel 1922). Esiste una traduzione in spagnolo di Luis Montes de Oca pubblicata con il titolo Socialismo. Análisis Económico y Sociológico, 3ª edizione, Western Books Foundation, New York 1989. Mises sottolinea come il socialismo militare non possa competere sul suo terreno bellico con quelle società nelle quali si può esercitare l’attività imprenditoriale creativa, e di fatto riporta come il grande impero militare comunista degli Incas fu distrutto molto facilmente da un manipolo di spagnoli (pp. 222-223).

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capoccia, ufficiali e operai o dividere con la forza la terra tra determinati gruppi sociali.46

Infine, è necessario mettere in risalto come il conservatorismo sia una filosofia contraria a qualsiasi innovazione e creatività, ancorata nel passato, che diffida di tutto quello che possono creare i processi di mercato, ed essenzialmente opportunista e orfana di principi generali, per cui tende a raccomandare che l’esercizio della coercizione istituzionale venga affidato al criterio ad hoc di governanti «saggi e buoni». Insomma, il conservatorismo è una dottrina oscurantista che ignora completamente, in generale, come funzionano i processi sociali mossi dall’imprenditoralità e, in particolare, qual è il problema di ignoranza inestirpabile da47 cui si trovano sommersi tutti i suoi governanti.

L’ingegneria sociale o socialismo scientista48

Il socialismo scientista è quello patrocinato dagli scienziati e intellettuali che

credono che, per il fatto di disporre di un’informazione o di conoscenze articolate «superiori» a quelle del resto dei cittadini, sono autorizzati a consigliare e a guidare l’uso sistematico della coercizione a livello sociale. Il

46 Sul socialismo gremiale e quello agrario si può consultare Mises, Socialism, op.cit., pp.229 a 232 e 236 a 237. 47 F.A. Hayek, «Por qué no soy conservador», post scriptum aggiunto a Los Fundamentos de la Libertad, opera citata, pp. 417 a 430 (traduzione di «Why I am not conservative», The Constitution of Liberty, opera citata, pp. 397-411). 48 La nostra Real Academia non riconosce l’esistenza del termine «cientismo», che noi utilizziamo. Il termine più simile che possiamo trovare nel suo dizionario è «cientificismo» che nella sua 5ª accezione è definito come «La tendenza a dare eccessivo valore alle nozioni scientifiche o presumibilmente scientifiche». Gregorio Marañón, anche se in qualche occasione ha utilizzato pure il termine «cientismo», sembra propendere definitivamente per il termine «cientificismo», che considera come una «caricatura della scienza» e definisce come lo «sfoggio eccessivo di una scienza che non si possiede», concludendo che «il quid è che lo scientificismo sta da una categoria dogmatica, eccessiva e acritica, a tutto il suo vasto sapere, abusando della sua posizione e del suo credito, per mettere d’ accordo, discepoli e ascoltatori, con ruote di mulino» (il corsivo è nostro, non di Marañón). Si veda «La Plaga del Cientificismo», capitolo XXXII di Cajal: Su Tiempo y el Nuestro, volume VII delle sue Obras Completas, Espasa Calpe, Madrid 1971, p. 360-361. Ciononostante, riteniamo che il termine “cientismo” sia più esatto che “cientificismo”, poiché, di fatto, si riferisce più a un abuso della scienza per se che a una forma abusiva di fare scienza («cientifico» viene dal latino: scientia, scienza e facere, fare). Da parte sua, il termine scientism si utilizza in inglese per designare l’indebita applicazione dei metodi propri delle scienze naturali, della fisica e della tecnica e ingegneria al campo delle scienze sociali («A thesis that the methods of the natural sciences should be used in all areas of investigation including philosophy, the humanities, and the social sciences», si veda il Webster’s Third New International Dictionary of the English Language Unabridged, volume III, p. 2033, G .&G. Merriman, Chicago 1981). Infine, Manuel Seco, nel suo noto Diccionario de Dudas y Dificultades de la Lengua Española (Espasa Calpe, 9ª ed., Madrid 1990, p. 96) ritiene che non ci sia niente da obiettare in quanto alla maneggevolezza dei termini ciencismo e ciencista, che noi comunque consideriamo inferiori a cientismo e cientista, poiché questi ultimi si costruiscono partendo dal termine latino scientia (e non in base alla parola spagnola ciencia), che è la radice anche delle corrispondenti espressioni francese e inglese.

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socialismo scientista è particolarmente pericoloso, visto che legittima gli altri tipi di socialismo da un punto di vista intellettuale, e di solito va particolarmente d’accordo sia con il socialismo democratico sia con il dispotismo illuminato proprio del socialismo «di destra». Trae origine dalla tradizione intellettuale del cosiddetto razionalismo cartesiano o costruttivista, secondo la quale la ragione dell’intellettuale può tutto, e, concretamente, ha creato o inventato deliberatamente tutte le istituzioni sociali, per cui può modificarle e pianificarle a suo piacimento. Questo «razionalismo» non riconosce, pertanto, limiti alle possibilità della ragione umana e, ossessionato dagli impressionanti progressi nel campo delle scienze naturali, della tecnica e dell’ingegneria, si propone di usare gli stessi metodi nell’area sociale, costruendo un’ingegneria sociale che sia capace di organizzare la società in un modo più «giusto» ed «efficiente».

Il principale errore in cui incorre l’intellettuale socialista o l’ingegnere sociale scientista è quello di supporre che si possa arrivare a osservare, articolare, immagazzinare e analizzare in modo centralizzato con mezzi scientifici l’informazione pratica dispersa che gli agenti creano e trasmettono costantemente nel processo sociale. O, detto in altro modo, lo scientista crede di potersi e doversi situare al livello superiore dell’organismo direttivo socialista, in virtù della sua maggiore conoscenza e della sua situazione di superiorità intellettuale rispetto al resto dei cittadini, e che tutto questo lo autorizzi a coordinare la società basandosi su mandati e regolamenti di tipo coercitivo.49 49 Questa comune arroganza dell’intellettuale socialista è illustrata perfettamente dalla leggenda secondo la quale Alfonso X Il Saggio «fu così insolente e arrogante per la grande conoscenza che aveva delle scienze umane, e per i segreti della natura che conosceva, che arrivò a dire in sprezzo alla provvidenza e alla somma sapienza del Creatore universale che se lui fosse stato tra i suoi consiglieri al tempo della creazione del mondo, e di ciò che in esso è contenuto, e si fosse trovato con lui, alcune cose sarebbero state fatte meglio di come furono fatte, e altre non sarebbero nemmeno state fatte o sarebbero state modificate o corrette». Secondo la leggenda, questa blasfemia del Re fu castigata con una terribile tempesta di fulmini, tuoni e vento che incendiò l’Alcazar di Segovia, dove dimorava il Re con la sua corte, incendio in cui ci furono molti morti e feriti e nel quale lo stesso Re si salvò miracolosamente, pentendosi poi del suo smisurato orgoglio. Questa grande tempesta estiva che incendiò L’Alcazar di Segovia e quasi costò la vita al Re scoppiò il 26 agosto del 1258 e, pertanto, è un fatto storico rigorosamente constatato. Si veda al rispetto la magnifica opera biografica su Alfonso X El Sabio, di Antonio Ballesteros Beretta, Edizioni «El Albir», Barcellona 1984, pp. 209-211, dove si valutano criticamente tutte le versioni di questa leggenda e il suo nesso con i fatti a essa relativi che si sono potuti contestare storicamente. Benché sembri che questa leggenda sia apocrifa, non c’è dubbio che il carattere scientista del re «Saggio» si manifestò almeno nelle rigorose disposizioni per controllare e fissare i prezzi che aveva infruttuosamente stabilito per impedire la loro naturale e inevitabile crescita, che peraltro egli stesso aveva causato svalutando sistematicamente la moneta; come pure nel suo tentativo, fallito anch’esso, di sostituire il tradizionale diritto di successione di Castiglia con il diritto di Las Partidas, considerato più «scientifico», cosa che lo mise contro suo figlio e futuro re, Sancho, dando luogo a una guerra civile che amareggiò gli ultimi anni della sua esistenza. Un altro personaggio storico che illustra alla perfezione il fallimento del costruttivismo scientista in materia sociale è quello del Conte-Duca de Olivares, Favorito del re Felipe IV e massimo responsabile dei destini dell’Impero spagnolo durante gran parte del suo regno. La buona fede, la capacità di lavoro e gli sforzi fatti dal Conte-Duca furono tanto smisurati quanto fallimentari. In effetti, il principale difetto del Conte-Duca fu che «per temperamento, desiderava organizzare tutto», e che non poteva resistere all’ambizione

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Il razionalismo cartesiano non è altro che un falso razionalismo nella misura in cui non riconosce i limiti propri della ragione umana.50 Cade nel gravissimo errore intellettuale, valutato particolarmente per il fatto che proviene da esseri umani che si suppone godano di una maggiore informazione intellettuale e che per tanto dovrebbero essere più umili al momento di valutare le proprie possibilità, di supporre che le norme e le istituzioni sociali che rendono possibile il processo di interazione umana siano un risultato cercato di proposito, creato e disegnato dall’uomo. Non capiscono che quelle istituzioni e quelle norme possono essere il risultato di un processo evolutivo in cui, lungo un periodo molto ampio di tempo, sono intervenuti milioni e milioni di uomini, ciascuno di loro apportando la loro piccola eredità di informazione ed esperienza pratica generata lungo tutto il processo sociale. Proprio per questo non è possibile che queste istituzioni siano il risultato di una creazione deliberata della mente umana, che non ha la capacità necessaria per assumere tutta l’informazione o la conoscenza pratica che tali istituzioni contengono.

Hayek ha fatto riferimento alla sequela di errori in cui cadono tutti gli scienziati socialisti, e che egli riassume nei seguenti quattro: 1) l’idea che non sia ragionevole seguire un corso di azione che non si può giustificare scientificamente o provare per mezzo dell’osservazione empirica; 2) l’idea che non sia ragionevole seguire un corso di azione che non si capisce (per il suo carattere tradizionale o di abitudine o di usanza); 3) l’idea che non sia ragionevole seguire un determinato corso di azione a meno che il suo proposito non sia stato esplicitamente specificato a priori (in questo grave errore sarebbero incappati intellettuali del calibro di Einstein, Russel e lo stesso Keynes); e 4) l’idea, intimamente legata alle precedenti, che non sia ragionevole intraprendere nessun corso di azione a meno che i suoi effetti non siano stati completamente previsti in precedenza, che siano ritenuti benefici da un punto di vista utilitaristico e che siano pienamente osservabili una volta che si intraprenda l’azione.51 Questi sono i quattro errori di base che commette l’intellettuale socialista, e tutti sono dovuti all’errore fondamentale di considerare

di dominare tutte le sfere della vita sociale. Egli stesso, nella tappa finale del suo governo, giunse addirittura ad esprimere il suo «profondo scoraggiamento nel vedere che qualsiasi rimedio si tentasse di porre produceva esattamente l’effetto contrario a quello che si cercava», anche se non riuscì mai a capire che quel risultato non era altro che la conseguenza naturale e inesorabile del cercare di controllare e organizzare con la forza tutta la Società, per cui non attribuì mai la situazione disastrosa in cui lasciò la Spagna alla sua gestione, ma alla collera di Dio per la depravazione morale dell’epoca. Si veda il magnifico studio di J.H. Elliot, El Conde-Duque de Olivares, Edit. Crítica, Barcellona 1990, e soprattutto le pp.296 e 388. 50 F. A. Hayek, «Kinds of Rationalism», in Studies in Philosophy, Politics and Economics, Simon and Schuster, New York 1967, pp.82 a 95. 51 F. A. Hayek The Fatal Conceit: The Errors of Socialism, opera citata, pp. 61 e 62. L’utilitarismo si basa in modo identico sullo stesso errore intellettuale del socialismo, dal momento che ritiene che lo scienziato utilitarista disporrà dell’informazione necessaria, in relazione ai benefici e ai costi, per prendere decisioni «obiettive». Tuttavia, dato che tale informazione non è disponibile in modo centralizzato, l’utilitarismo è impossibile come filosofia politico-sociale, per cui non rimane altro rimedio che agire all’interno della legge e dei principi stabiliti del comportamento (morale). Inoltre, e anche se sembra paradossale, data l’ignoranza profondamente radicata dell’essere umano, non c’è nulla di più utile e pratico che agire in base a principi, rinunciando a qualsiasi utilitarismo ingenuo e miope.

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che l’informazione pratica che creano e utilizzano gli osservatori possa essere imparata, analizzata e migliorata in modo «scientifico» dall’osservatore intellettuale.

D’altra parte, ogni volta che l’ingegnere sociale crede di scoprire una contraddizione o uno scompenso nel processo sociale e giustifica o consiglia «scientificamente» l’introduzione di un determinato mandato che implichi una coercizione o un’aggressione istituzionalizzata volta a risolvere tale scompenso, commette, in aggiunta, altri quattro tipi di errore, 1) quello di non rendersi conto che con tutta probabilità la sua «osservazione» riguardo al problema sociale scoperto è sbagliata, per il fatto di non aver potuto incorporare tutta l’informazione pratica rilevante¸ 2) per il fatto di ignorare che, se di fatto tale scompenso esiste, la cosa più probabile è che siano già stati messi in atto i processi spontanei di tipo imprenditoriale che tenderanno a eliminarlo, con una rapidità ed efficacia molto maggiori di quelle del mandato coercitivo proposto; 3) che se prevale il consiglio dello scienziato e si procede all’«accordo» sociale per via coercitiva, la cosa più probabile è che quella tipica manifestazione del socialismo fermi, impedisca o renda impossibile il necessario processo imprenditoriale della scoperta e dell’eliminazione dello scompenso, per cui il decreto dell’ingegneria sociale, invece di risolvere il problema posto lo renderà ancora più grave, rendendo impossibile la sua eliminazione; e 4) l’intellettuale socialista ignora in modo specifico che, come conseguenza del suo modo di agire, si modificherà tutto il contesto di riferimento per l’esercizio dell’azione umana e della funzione imprenditoriale, rendendole superflue e perverse, e orientandole, come abbiamo visto, verso aree nelle quali normalmente non dovrebbero intervenire (corruzione, acquisto di favori dal governo, economia sommersa, ecc).52 Infine, è necessario aggiungere che l’ingegneria sociale si basa su un’erronea concezione metodologica della scienza dell’economia e della società, basata sullo studio esclusivo degli stadi finali di equilibrio, e sull’arrogante presunzione che tutta l’informazione necessaria sia data e sia disponibile a favore dello scienziato, presupposti e caratteristiche, questi, che, in pratica, sono riusciti a impregnare, rendendola inutile, la maggior parte dell’analisi economica sviluppata ai nostri giorni.53

Altri tipi di socialismo (cristiano-solidale, sindacalista, ecc.)

Il socialismo di tipo solidale o «cristiano» sorge quando, giudicando

negativamente da un punto di vista «morale» determinati risultati del processo sociale, si giustifica l’uso istituzionale e sistematico della coercizione per

52 Devo queste quattro considerazioni critiche alle raccomandazioni pseudo-scientifiche a favore dell’esercizio della coercizione da parte dell’ingegnere sociale a Israel M. Kirzner, «The Perils of Regulation: A Market Process Approach», in Discovery and The Capitalist Process, opera citata, pp. 136 a 145. 53 Norman P. Barry,The Invisible Hand in Economics and Politics. A Study in the Two Conflicting Explanations of Society: End-States and Processes, Institute of Economic Affairs, Londra 1988. Nei prossimi capitoli avremo l’opportunità di vedere come i teorici scientisti ancorati nell’equilibrio siano stati incapaci di capire l’argomento misiano sull’impossibilità del calcolo economico nelle economie socialiste, e studieremo anche, come uno dei sottoprodotti più importanti di tale polemica, le inconsistenze metodologiche dell’analisi economica moderna basata sull’equilibrio.

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modificare tali situazioni di «ingiustizia». In questo senso, non esiste alcuna differenza tra il socialismo cristiano basato sulla «santa coercizione» e gli altri tipi di socialismo che abbiamo già analizzato, e se ora segnaliamo quest’ultimo a parte, è per i diversi motivi di tipo più o meno religioso che lo giustificano. Un’altra caratteristica tipica del socialismo cristiano è che si basa su una totale mancanza di conoscenza di come funzionano i processi sociali mossi dalla forza dell’imprenditorialità. Nei giudizi morali emessi prevale prima di tutto una vaga idea della «solidarietà» con il prossimo o vicino, senza capire che il processo sociale di interazione umana rende possibile lo sviluppo della civilizzazione non solo per i «vicini», ma anche per i lontani e sconosciuti, in modo spontaneo e attraverso un processo in cui gli uni e gli altri collaborano cercando di raggiungere i loro fini particolari pur senza conoscersi. Infine, il socialismo cristiano non considera moralmente negativa la coercizione, se questa è rivolta al conseguimento di fini moralmente superiori. Tuttavia, la coercizione sistematica, anche se «santa», non cessa di essere coercizione antiumana e, pertanto, non è altro che socialismo con tutte le conseguenze analitiche che gli sono proprie e che abbiamo già enumerato.54

Da parte sua, il socialismo sindacalista vuole esercitare, in forma sistematica e istituzionale, la coercizione per creare una società in cui i lavoratori siano i proprietari diretti dei mezzi di produzione. Questo socialismo, a volte definito autogestionista, non cessa di essere socialismo nella misura in cui ricorre a un uso generalizzato e sistematico della coercizione e, pertanto, riproduce tutte le caratteristiche e conseguenze del socialismo già analizzate in questo capitolo. Tuttavia, il socialismo sindacalista dà luogo, per di più, a forme particolari di scoordinamento che non compaiono in altri tipi di socialismo, specialmente se non si limita a una semplice ridistribuzione della ricchezza, ma cerca di permanere come sistema economico e sociale duraturo. Queste tipiche particolarità sono state analizzate teoricamente con una certa profondità, e le conclusioni della teoria si sono viste perfettamente illustrate dai pochi casi storici in cui, come in Yugoslavia, si è effettivamente voluto mettere in pratica il socialismo sindacalista.55 8. CRITICA DEI CONCETTI ALTERNATIVI DI SOCIALISMO Il concetto tradizionale e il processo di formazione del nuovo concetto

54 Sul socialismo cristiano è particolarmente importante il libro Religion, Economics and Social Thoughts, edito da Walter Block e Irwing Hexham e pubblicato dal Fraser Institute, Vancouver, Canada 1989. E anche le pp. 223 a 226 del libro di Mises Socialism già citato. 55 Sul socialismo sindacalista, in generale, e sul suo tentativo di applicazione nel caso iugoslavo, in particolare, si può consultare Svetozar Pejovich, «The Case of Self- Management in Yugoslavia», in Socialism: Institutional, Philosopical and Economic Issues, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1987, pp. 239-249 e la bibliografia lì citata. E anche E. Furubotn e S. Pejovich, «Property Rights, Economic Decentralization, and the Evolution of the Yugoslavian Firm», Journal of Law and Economics, n.º 16, 1973, pp.275-302.

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Tradizionalmente si è definito il socialismo come quel sistema di organizzazione sociale basato sulla proprietà statale dei mezzi di produzione.56 Questa definizione, che praticamente coincide con la definizione di «socialismo reale» data precedentemente, per molto tempo è stata la più diffusa per ragioni di tipo storico e politico, ed è stata la definizione utilizzata originariamente da Mises nel suo trattato critico sul socialismo del 1922.57 In seguito, è stata considerata da lui stesso e dal resto della scuola come punto di riferimento per tutta la successiva polemica sull’impossibilità del calcolo economico socialista che avremo l’opportunità di studiare dettagliatamente nei prossimi capitoli.

Tuttavia, fin dalle sue origini, questa definizione tradizionale di socialismo dimostra di essere assai poco soddisfacente. Da un lato, per il suo evidente carattere statico, dato che viene enunciata in funzione dell’esistenza o meno di una determinata istituzione giuridica (il diritto di proprietà) in rapporto a una specifica categoria economica (i mezzi di produzione). Di modo che utilizzare questa definizione di socialismo richiede, prima di tutto, di spiegare che cosa si intende per diritto di proprietà e quali implicazioni ha tale concetto nell’area dell’economia. Inoltre, la stessa polemica sull’impossibilità del socialismo ha messo in evidenza come i diversi scienziati in essa implicati avessero tra loro serie difficoltà di comunicazione, proprio per il diverso significato e per il diverso contenuto che consideravano impliciti nel loro concetto di diritto di proprietà. Infine, la definizione tradizionale sembra escludere dal suo ambito l’interventismo e la regolazione economica che, pur non esigendo una completa statalizzazione dei mezzi di produzione, produce degli effetti di scoordinamento qualitativamente molto simili. Per tutti questi motivi, sembra molto conveniente continuare a cercare e trovare una definizione di socialismo che sia alla radice stessa della sua essenza, più libera possibile da concetti che potessano prestarsi a interpretazioni equivoche e che, così come i processi sociali ai quali si deve applicare, abbia un mercato di carattere dinamico.

D’altra parte, una delle conseguenze più importanti della stessa polemica sull’impossibilità del calcolo economico socialista è stato lo sviluppo e il perfezionamento da parte degli economisti della Scuola Austriaca (Mises, Hayek, e soprattutto Kirzner) di una teoria della funzione imprenditoriale in cui questa appare come la forza protagonista e creatrice di tutti io processi sociali. La scoperta che è proprio l’innata capacità imprenditoriale dell’uomo, attraverso la sua azione creativa, a rendere possibile la vita in società, scoprendo le disparità sociali e creando e trasmettendo l’informazione necessaria perché ciascun agente impari a disciplinare il proprio comportamento in funzione del resto dei suoi consimili, ha indicato definitivamente la via per la quale si dovrebbe dirigere l’elaborazione di un concetto di socialismo veramente scientifico.

56 Effettivamente, il Diccionario della Real Academia definisce letteralmente il socialismo come il «sistema di organizzazione sociale ed economica basato sulla proprietà e amministrazione collettiva e statale dei mezzi di produzione». 57 Per Mises, «the essence of socialism is this: all means of production are in the exclusive control of the organized community. This and this alone is socialism. All other definitions are misleading». Ludwig von Mises, Socialism, opera citata, p.211. Per i motivi che abbiamo evidenziato nel testo, crediamo che Mises si sia sbagliato quando ha fatto questa affermazione così drastica.

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Il successivo passo importante nel processo di formazione di una definizione adeguata di socialismo è stato fatto da Hans- Hermann Hoppe nel 1989.58 Hoppe ha messo in evidenza che la caratteristica essenziale del socialismo è quella di basarsi su un’aggressione o interferenza istituzionalizzata contro il diritto di proprietà. La sua definizione è più dinamica e, pertanto, molto più operativa della definizione tradizionale. Qui ormai non si tratta se esistano o meno diritti di proprietà, ma se si eserciti istituzionalmente, cioè in modo ripetitivo e organizzato, la coercizione o violenza fisica contro i diritti di proprietà. Benché consideriamo la definizione di Hoppe un importante passo avanti, tuttavia non ci sembra ancora completamente soddisfacente, poiché, da un lato, esige di specificare o definire ab initio che cosa si intenda per diritto di proprietà e, dall’altro, in essa non si menziona affatto l’esercizio della funzione imprenditoriale come protagonista di tutti i processi sociali.

Combinando l’intuizione di Hoppe, nel senso che tutto il socialismo implica l’utilizzazione sistematica della coercizione, con gli ultimi apporti della teoria della funzione imprenditoriale dovuti al Professor Kirzner, giungiamo alla conclusione che la definizione più adeguata di socialismo è quella che è stata proposta e utilizzata in questo capitolo, e secondo la quale socialismo è ogni sistema organizzato di aggressione istituzionale contro la funzione imprenditoriale e l’azione umana. Questa definizione ha il vantaggio, in primo luogo, di essere facilmente comprensibile a tutti, senza la necessità di esigere a priori una minuziosa spiegazione riguardo a ciò che si intende per diritto di proprietà e quale debba essere il suo contenuto. Chiunque capisce che l’azione umana può essere o meno aggressiva e che, anche se non lo è, o se si limita specificamente a difendersi da aggressioni esterne di tipo arbitrario o asistematico, quella azione resta comunque la manifestazione più intima e tipica dell’essere umano e, pertanto, qualcosa di completamente legittimo che è necessario rispettare.

Riteniamo dunque che la nostra definizione di socialismo sia la più adeguata perché viene impostata entro i termini dell’azione umana e pertanto della più intima essenza dell’uomo. Inoltre, il socialismo viene concepito come un’aggressione istituzionalizzata proprio contro quelle forze che rendono possibile la vita in società, e in questo senso l’affermazione che non c’è niente di più antisociale del sistema socialista stesso è solo apparentemente paradossale. Il mettere in evidenza questa realtà è uno dei principali pregi della definizione di socialismo che proponiamo. Senza alcun dubbio, il processo di interazione sociale libero da aggressioni esige il compimento di tutta una serie di norme, regole o abitudini di condotta. L’insieme di tutte loro costituisce il diritto in senso materiale, cioè, la cornice entro la quale si possono portare pacificamente a termine le azioni umane. Però il diritto non è qualcosa di precedente all’esercizio dell’azione umana, ma è un risultato evolutivo e consuetudinario dello stesso processo sociale di interazione. Perciò, in accordo con la nostra definizione, il socialismo non è un sistema di aggressione istituzionale contro una conseguenza evolutiva della funzione imprenditoriale (il diritto di proprietà), ma è un sistema di aggressione contro l’azione umana o la stessa funzione imprenditoriale. La nostra definizione di socialismo permette di 58 Hans-Hermann Hoppe, A Theory of Socialism ans Capitalism, opera citata, p. 2. Hoppe afferma che «socialism, by no means an invention of XIX’s century Marxism but much older, must be conceptualized as an institutionalized interference with or aggression against private property and private property claims».

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mettere direttamente in relazione la teoria della società con una teoria sul diritto, sulla sua nascita, il suo sviluppo e la sua evoluzione. E, inoltre, è perfettamente compatibile con il fatto che, sul piano teorico, consideriamo che i diritti di proprietà sorgano dal processo sociale non coercitivo, quali siano i diritti di proprietà giusti, e fino a che punto il socialismo sia o meno ammissibile eticamente. Socialismo e interventismo

Un altro vantaggio della definizione di socialismo che abbiamo proposto è

che essa ingloba al suo interno il sistema sociale basato sull’interventismo. In effetti, sia che si consideri l’interventismo come una tipica manifestazione del socialismo, sia, come è più comune, come un sistema intermedio tra il «socialismo reale» e il processo sociale libero,59 è evidente che, poiché ogni misura interventista consiste in una aggressione alle istituzioni coercitivamente esercitata in una determinata area sociale, l’interventismo, indipendentemente da quale sia il suo grado, la sua classe o la sua motivazione, è socialismo dall’ottica della nostra definizione e, pertanto, dovrà inesorabilmente produrre tutti gli effetti di scoordinamento analizzati dettagliatamente in questo capitolo.

L’equiparazione dei termini socialismo e interventismo, lungi dall’essere un ampliamento ingiustificato dei significati che quei termini abitualmente portano con sé, è un’esigenza analitica della teoria dei processi sociali basati sulla funzione imprenditoriale. In effetti, al principio i primi teorici della Scuola Austriaca che si sono occupati dell’interventismo lo hanno considerato come una categoria concettuale diversa dal socialismo, ma man mano che andava avanzando la polemica sull’impossibilità del calcolo economico socialista le frontiere tra i due hanno perso poco a poco i loro contorni, fino a giungere ai tempi attuali, nei quali è divenuto evidente per coloro che coltivavano la teoria della funzione imprenditoriale che non esiste alcuna differenza qualitativa tra il socialismo e l’interventismo,60 anche se si può ammettere che nell’uso

59 Questo senso è quello derivato dalla 2ª accezione che compare per il termine «interventismo» nel Diccionario della Real Academia Española: «sistema intermedio tra l’individualismo e il collettivismo che affida all’azione dello Stato la direzione e il sostegno, nella vita del paese, dell’iniziativa privata.» Tuttavia, il dizionario si contraddice con questa accezione basata sul carattere «intermedio» dell’interventismo e adotta una posizione estremamente vicina a quella che abbiamo esposto nel testo quando leggiamo che lo stesso dizionario si riferisce al «socialismo» come alla «regolazione da parte dello Stato delle attività economiche e sociali, e della distribuzione dei beni», definizione, questa, molto vicina a quella dell’interventismo data dal suddetto dizionario, e che ci dà l’impressione che, dal suo punto di vista, consideri entrambi i termini –socialismo e interventismo- quasi sinonimi. 60 Così, per esempio, Don Lavoie ha recentemente concluso che, in relazione all’«interventismo», «it can be shown to be self-defeating and irrational on much the same grounds on which Mises pronounced complete central planning impossible… piecemeal government interference into the price system must be seen as similarly obstructive of this same necessary discovery procedure, and therefore as distortive of the knowledge which it generates. Thus the calculation argument may be used to explain many of the less-than-total failures resulting from government tinkering with the price system, in fundamentally the same way that it explains the utter economic ruin inevitably resulting from the attempted abolition of the price system». Vedere «Introduction», The Journal of Libertarian Studies, volume V, n.º I, inverno 1981, p. 5.

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colloquiale l’uno e l’altro termine si utilizzino per riferirsi ai diversi gradi in cui si può manifestare una stessa realtà.

Inoltre, la definizione di socialismo proposta permette alla scienza di svolgere l’importante compito di smascherare i tentativi, molto abituali al giorno d’oggi in molteplici ambiti politici, sociali e culturali, di cercare di immunizzare l’interventismo dai naturali e inevitabili effetti che su di esso necessariamente ha lo sgretolamento economico, sociale e politico di quello che non è altro che il suo più vicino antecedente e ispiratore intellettuale: il «socialismo reale». Socialismo reale e interventismo sono, al massimo, solo due manifestazioni di diverso grado di intensità di una stessa realtà coercitiva e istituzionale, e condividono integralmente lo stesso essenziale errore intellettuale e le stesse perniciose conseguenze sociali.61

L’inutilità dei concetti «idilliaci» di socialismo

Risulta inutile definire il socialismo basandosi su valutazioni idilliache di tipo

soggettivo. Questo tipo di definizioni, che fin dall’inizio sono state preponderanti, non sono mai scomparse completamente e recentemente hanno acquisito nuovo impulso come un sottoprodotto dello smantellamento del «socialismo reale» e del tenace desiderio di molti «intellettuali» di salvare dal rogo almeno un concetto idilliaco del socialismo che potesse mantenere una qualche attrattiva popolare. Non è raro, pertanto, rincontrare definizioni che identificano il socialismo con l’«armonia sociale», l’«unione armoniosa dell’uomo con la natura»,62 o la «semplice massimizzazione del benessere Da parte sua, in varie occasioni Israel Kirzner si è riferito al parallelismo esistente tra il «socialismo» e l’«interventismo». Si veda il suo «Interventionism and Socialism: A Parallel» in «The Perils of Regulation: A Market-Process Approach», Capitolo 6 di Discovery and the Capitalist Process, opera citata, p.121 e seguenti. Dobbiamo criticare l’idea, difesa anche da Mises in alcune occasioni, che il calcolo economico sia possibile nel sistema interventista, dal momento che tale calcolo è impossibile proprio nelle aree in cui si è intervenuti, e se in generale si possono fare dei calcoli è perché il sistema non estende il suo intervento a tutta la società (e con il grado che caratterizza il socialismo reale). 61 La nostra definizione di socialismo non è, d’altro canto, così ampia come quella proposta da Alchian, secondo la quale «Government is socialism, by definition», dal momento che questo autore conclude che almeno un minimo di socialismo è imprescindibile per il mantenimento di un’economia di mercato. In primo luogo, perché come abbiamo già messo in evidenza (si veda la precedente nota 2), non si può considerare incluso nel concetto di socialismo il minimo imprescindibile di coercizione istituzionale necessario per prevenire e correggere gli episodi isolati di coercizione asistematica. E in secondo luogo, perché non è chiaro per quale motivo quel minimo debba essere fornito per forza da un’organizzazione monopolista di tipo statale. Armen Alchian e William R.Allen, University Economics, Elements of Inquiry, Wadsworth Publishing, Belmont, California, 3ª Edizione, 1971, pp. 627-628. 62 Si veda un riferimento a queste definizioni «idilliache» nell’articolo di Alec Nove «Socialism» nel volume 4 di The New Palgrave. A Dictionary of Economics, Macmillan Press, Londra 1987, p.398. Nove conclude con una definizione tradizionale di socialismo secondo la quale «a society may be seen to be a socialist one if the major part of the means of production of goods and services are not in private hands, but are in some sense socially owned and operated, by state, socialized or cooperative enterprises». Incidentalmente, Nove rivela alla p. 407 di questo stesso articolo di non capire o conoscere affatto la teoria dinamica della funzione imprenditoriale, poiché

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sociale».63 Tutte queste definizioni mancano di contenuto se non permettono di spiegare se l’autore che le propone vuole giustificare o meno l’esercizio sistematico della coercizione istituzionale contro il libero interagire umano. Pertanto, sarà necessario evidenziare in ciascun caso quando ci troviamo davanti a un semplice e rozzo opportunismo o davanti al desiderio deliberato di mascherare sotto un bel trucco l’aggressione istituzionale, o, semplicemente, di fronte a casi di confusione intellettuale e mancanza di idee chiare. Si potrà un giorno riabilitare il termine «socialismo»?

Anche se non impossibile, risulta molto dubbio e altamente improbabile che il

senso del termine «socialismo» basato su un così grave errore intellettuale e frutto di un’arroganza scientista così fatale possa, in futuro, andare incontro a un cambiamento tale da permettere la riabilitazione del termine e la sua ridefinizione sulla base di un’analisi teorica dei processi sociali libera da errori scientifici. L’unica possibilità che questo succeda dovrebbe basarsi sulla ridefinizione del socialismo utilizzando il concetto di società come ordine e processo spontanei mossi dall’innata capacità imprenditoriale dell’uomo, che abbiamo esposto e spiegato dettagliatamente nel capitolo precedente. In questo modo scomparirebbe il carattere essenzialmente antisociale che ha il concetto attuale di socialismo ed esso verrebbe a significare ogni sistema non coercitivo e rispettoso dei processi di libera interazione umana, convertendosi, pertanto, in sinonimo di termini che, come «liberalismo economico» o «economia di mercato», attualmente portano con sé un senso rispettoso dei processi sociali spontanei e che minimizza la coercizione sistematica esercitata su di loro dallo Stato.64 Tuttavia, il disincanto e la delusione causati dall’intensa e continua persecuzione dell’ideale socialista uniti alla natura essenzialmente arrogante dell’essere umano, in tutti i campi e specialmente in quello scientifico, politico e sociale, rendono quasi impossibile concepire che, nella pratica, un giorno si possa produrre questa positiva evoluzione semantica.

mette nello stesso sacco Mises e l’«Utopia di Chicago e critica il capitalismo per il fatto di essere molto lontano dai modelli di «perfetta competenza» dei libri di testo. 63 Questa è al definizione proposta da Oskar Lange nel 1942, quando attraversava la sua epoca più «liberale» e non si era ancora avvicinato al più duro stalinismo degli ultimi anni. In effetti, nella conferenza tenuta da Oskar Lange nel Club Socialista dell’Università di Chicago l’8 di maggio del 1942 affermò che «By a socialist society, I mean a society in which economic activities, particularly production, is carried on in such a way as to maximise the welfare of the population.» Aggiungendo inoltre che, nella sua definizione «the accent is rather on the purpose than on the means». Si vedano le Conferenze di Oskar Lange su «The Economic Operation of a Socialist Society: I e II», edite da Tadeusz Kowalik nel suo «Oskar Lange’s Lectures on the Economic Operation of a Socialist Society», riprodotte in Contributions to Political Economy, n.º 6, 1987, pp. 3 e 4. 64 Si presenterebbe così un caso in cui un termine si riabiliterebbe acquisendo un significato scientificamente coerente e che sarebbe proprio il contrario del processo di corruzione semantica che al giorno d’oggi produce il qualificativo «sociale» a tutti i concetti ai quali viene aggiunto, proprio come abbiamo già descritto nella precedente nota 34.

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CAPITOLO IV

LUDWIG VON MISES E L’INIZIO DEL DIBATTITO SUL CALCOLO ECONOMICO In questo e nei seguenti capitoli, ci proponiamo analizzare nel dettaglio il dibattito sull’impossibilità del calcolo economico nelle economie socialiste. Questo dibattito, per la statura scientifica delle personalità implicate, per il livello teorico e le influenze che ha avuto nel successivo sviluppo della nostra scienza, è uno dei più importanti e carico di conseguenze nella storia del pensiero economico. Descriveremo i contributi più rilevanti di ogni autore, così come le fasi e gli aspetti più significativi della polemica. Inoltre, svilupperemo un’analisi critica della versione più affermata, e a nostro parere erronea, del suo contenuto e della sua evoluzione, e proveremo a dare diverse spiegazioni del perché questa versione è stata dominante fino in tempi recenti. Inizieremo questo primo capitolo analizzando gli antecedenti storici del dibattito, e studiando in profondità il contributo fondamentale di Ludwig von Mises che ne diede inizio.

1. ANTECEDENTI Solo la nascita di un’adeguata comprensione del funzionamento della società e del mercato come ordine spontaneo risultato dalla costante interazione di milioni di esseri umani poteva, nella storia del pensiero economico, rendere evidente che il socialismo è un errore intellettuale e, pertanto, impossibile tanto teorica quanto praticamente. Nonostante il concetto di società che abbiamo esposto nei due capitoli precedenti possa farsi risalire a più di duemila anni,1 la verità è che lo stesso è andato costruendosi con grandi difficoltà attraverso i secoli, costantemente in lotta con quel razionalismo costruttivista che giustifica la coazione e la violenza sistematiche, a cui in maniera intuitiva e inevitabile si orienta l’intelletto umano. Dall’antico kosmos dei greci, inteso come ordine naturale o spontaneo creato indipendentemente dalla volontà degli esseri umani, e la più antica tradizione giuridica romana,2 passando per i contributi a noi più vicini di Mandeville, Hume, Adam Smith e Menger, fino ad arrivare a Mises, Hayek e il resto dei pensatori liberali contemporanei, c’è tutto un cammino denso di difficoltà e in molte delle sue tappe completamente allagato dalla “marea nera” del scientismo. L’idea di base che costituisce l’essenza della nostra critica al socialismo è che nessun essere umano o gruppo di esseri umani può disporre delle informazioni o conoscenze necessarie o indispensabili per organizzare e coordinare la società tramite mandati coattivi. Questa idea sorge come corollario naturale al concetto di società intesa come ordine spontaneo. Pertanto, non sorprende che, nonostante la stessa non sia stata enunciata in forma elaborata se non in tempi molto recenti, in realtà almeno in maniera 1 Una magnifica sintesi dell’evoluzione nella storia del pensiero sul concetto della società intesa come ordine spontaneo può trovarsi nell’articolo di F.A. Hayek intitolato «Dr. Bernard Mandeville», incluso nel suo New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, op. cit., pp. 249-266. 2 Nei due capitoli precedenti abbiamo voluto sottolineare l’intima relazione che esiste tra il nostro concetto della società e del diritto, inteso nel suo senso materiale come insieme di norme astratte di applicazione generale a tutti gli esseri umani in egual maniera. Solo il contesto che intende il diritto in tal senso rende possibile l’esercizio della funzione imprenditoriale e dell’azione umana e, insieme, la costante creazione e trasmissione di informazione dispersa che caratterizza lo sviluppo della civilizzazione. Non è, per tanto, pura coincidenza che i principali autori classici di diritto romano abbiano fatto parte della tradizione filosofica che trattiamo.

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embrionaria quest’idea sia stata difesa in tempi di gran lunga anteriori. Infatti, ad esempio, grazie a Cicerone sappiamo che per Catone il sistema giuridico romano era di molto superiore agli altri perché «si basava sul genio di molti uomini e non di un solo uomo; non fu istituito in una generazione ma durante un periodo di molti secoli e molte generazioni di uomini. Poiché non è mai esistito un uomo tanto intelligente da poter prevedere ogni cosa; e anche se potessimo concentrare tutti i cervelli dentro la testa di un solo uomo, gli sarebbe impossibile tenere in considerazione tutto allo stesso tempo, senza aver accumulato l’esperienza che deriva dalla pratica esercitata durante il trascorso di un lungo periodo della storia».3 Molti secoli dopo, Montesquieu e Turgot approfondiscono la stessa idea ed affermano, in forma ancora più rilevante per il problema di cui qui ci occupiamo, che è contraddittorio pensare che lo Stato possa avere allo stesso tempo in testa sia i grandi progetti che tutti i minimi dettagli necessari per organizzarli.4 Poco più di un secolo dopo, nel 1854, Gossen ripete quasi alla lettera la stessa idea, con il merito però di farlo, per la prima volta, espressamente come una critica al sistema comunista, giungendo alla conclusione che l’autorità centrale prevista dal comunismo col proposito di assegnare coattivamente i diversi tipi di lavoro e le loro retribuzioni si sarebbe presto resa conto di essersi assunta un

3 «Nostra autem res publica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquod constitutum saeculis et aetatibus, nam neque ullum ingenium tantum extitisse dicebat, ut, quem res nulla fugerent, quisquam aliquando fuisset, neque cuncta ingenia conlata in unum tantum posse uno tempore providere, ut omnia complecterentur sine rerum usu ac vetustate.» Marco Tullio Cicerone, De Re Publica, II, 1-2, The Loeb Classical Library, Cambridge, Massachusetts, 1961, pp. 111-112. Esiste una buona traduzione spagnola di Antonio Fontán, Sobre la República, Gredos, Madrid 1974, pp. 86-87. Nonostante ciò, considero migliore la traduzione del paragrafo citato realizzata da Bruno Leoni, che è, fondamentalmente, quella che riportiamo nel nostro testo. Si veda Bruno Leoni, Freedom and the Law, Liberty Fund, Indianapolis, terza edizione ampliata, 1991 I edizione 1961, II edizione, 1972 (esiste una traduzione italiana dal titolo La libertà e la legge, Liberilibri, Macerata, 1994). Il libro di Leoni è eccezionale sotto ogni punto di vista, non solo perché mette in evidenza il parallelismo esistente, da un lato, tra il mercato e il diritto consuetudinario o Common Law e, dall’altro, tra la legislazione positiva e il socialismo, ma anche perché Leoni fu il primo giurista a rendersi conto che la tesi di Ludwig von Mises sull’impossibilità del calcolo economico nel socialismo non è che un caso particolare del “principio più generale secondo cui nessun legislatore potrebbe da solo, senza alcun tipo di collaborazione continua da parte di tutto il popolo coinvolto, stabilire le norme che regolano la condotta di ognuno in quella perpetua catena di relazioni che ognuno di noi ha con tutti gli altri. Non c’è sondaggio di opinione pubblica, referendum o consultazione che metta veramente i legislatori in una posizione che dia loro la capacità di determinare queste norme, allo stesso modo nessuno di questi procedimenti potrebbe dare ai direttori di un’economia pianificata la possibilità di scoprire la domanda e l’offerta dei beni e dei servizi. Inoltre, non si deve confondere la vera e propria condotta con l’espressione di opinioni come quelle che emergono da un’elezione, o da un sondaggio, e non si deve neppure confondere l’espressione verbale dei desideri con la vera domanda di mercato.” Bruno Leoni, La Libertad y La Ley, op. cit., p. 28 (il corsivo è mio). Sull’opera di Bruno Leoni, fondatore della prestigiosa rivista Il Politico, nel 1950, si deve consultare l’Omaggio a Bruno Leoni, edito da Pasquale Scaramozzino, Ed. A. Giuffrè, Milano 1969, e anche l’articolo «Bruno Leoni in Retrospect», di Peter H. Aranson, Harvard Journal of Law and Public Policy, estate 1988. Leoni, come Polanyi, fu un uomo polifacetico che svolse un’intensa attività nei settori dell’università, dell’avvocatura, dell’impresa, dell’architettura, della musica e della linguistica. Morì tragicamente assassinato da uno dei suoi inquilini da cui tentava di farsi pagare l’affitto, la notte del 21 novembre del 1967, all’età di 54 anni. 4 In effetti, Montesquieu scrive nel suo Spirito delle Leggi (1748): «C’est dans ces idées que Cicéron disait si bien: “Je n’aime point qu’un même peuple soit en même temps le dominateur et le facteur de l’univers”. En effect, il faudrait supposser que chaque particulier dans cet État et tout l’État même, eussent toujours la tête pleine de grands projects et cette même tête remplie de petits; ce qui est contradictoire.» Oeuvres Complètes. Avec des notes de Dupin, Crevier, Voltaire, Mably, Servant, La Harpe, etc., Chez Fermin Didot Frères Libraires, Parigi 1843 (p. 350, De L’Esprit de Lois, Parte IV, Libro XX, Capitolo VI). Nonostante ciò, Bastiat evidenzia come lo stesso Montesquieu sia caduto in qualche occasione nella trappola dell’ingegneria sociale, come quando elogiò i suoi supposti effetti benefici sugli antichi, F. Bastiat, «La Legge», op. cit. pp. 209-211. A.R.J. Turgot, «Éloge de Gournay» (1759) Ouvres, Guillaumin, Parigi 1844, vol. I, pp. 275 e 288.

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compito che avrebbe oltrepassato di gran lunga le capacità di qualunque essere umano.5 Vent’anni dopo, l’anche lui economista tedesco Albert Schäffle, immediato predecessore di Menger alla cattedra di Economia Politica di Vienna, evidenzia che, senza imitare il sistema di determinazione dei valori dei processi di mercato, sarebbe inconcepibile che un organismo di pianificazione centrale potesse assegnare efficientemente in forma quantitativa e qualitativa i mezzi alla società.6 E alla fine del secolo, Walter Bagehot7 osserva acutamente che gli uomini primitivi erano incapaci di realizzare persino i calcoli meno complessi per stimare benefici e costi, concludendo che in ogni società industriale è imprescindibile la contabilità in unità monetarie per stabilire i costi di produzione. Il contributo successivo che dobbiamo menzionare è quello di Vilfredo Pareto. La valutazione che dobbiamo fare dell’influenza di Pareto nel successivo dibattito sul calcolo economico socialista è ambivalente. Da un alto, la sua influenza fu negativa nella misura in cui si concentrò sull’analisi matematica dell’equilibrio economico, in cui si presuppone sempre come punto di partenza che tutta l’informazione necessaria per svilupparlo sia disponibile, aprendo con ciò la strada all’idea, sviluppata in seguito da Barone e ripetuta, come vedremo, fino alla sazietà da molti altri economisti, che il problema del calcolo economico nelle economie socialiste potrebbe essere risolto matematicamente, nell’identico modo in cui lo stesso era stato impostato e risolto dagli economisti matematici dell’equilibrio nel caso di un’economia di mercato. Nonostante ciò, è necessario evidenziare che né Pareto né Barone sono completamente colpevoli dell’erronea

5 Hermann Heinrich Gossen, Entwicklung der Gesetze des Menschlichen Verkehrs und der daraus Fliessenden Regeln für Menschliches Handeln, Ed. Friedrich Vieweg und Sohn, Braunschweig 1854, p. 231. «Darum würde denn die von Kommunisten projectierte Zentralbehörde zur Verteilung der verschiedenen Arbeiten sehr bald die Erfahrung machen, dass sie sich eine Aufgabe gestellt habe, deren Lösung die Kräfte einzelner Menschen weit übersteigt.» Esiste una magnifica traduzione all’inglese dell’opera di Gossen realizzata da Rudolph C. Bliss e pubblicata da The M.I.T. Press a Cambridge, Massachusetts 1983, con il titolo The Laws of Human Relations and The Rules of Human Action Derived Therefrom. La citazione che abbiamo qui riportato in tedesco si trova alla p. 255 della versione inglese con il testo seguente: «Consequently, the central authority –projected by the communists– for the purpose of allocating the different types of labor and their rewards would soon find that it has set itself a task that far exceeds the power of any individual» (il corsivo è mio). La terza edizione tedesca del libro di Gossen (Berlino, R.L. Praga 1927) presenta un’estesa Introduzione («Einleitung») di cui è autore F.A. Hayek e in cui si argomenta che Gossen fu più un precursore della scuola matematica di Walras e Jevons, che della Scuola Austriaca propriamente detta. Questa Introduzione è stata recentemente tradotta in inglese da Ralph Raico e pubblicata in The Trend of Economic Thinking. Essays on Political Economists and Economic History, volume III di The Collected Works of F.A. Hayek, Routledge, Londra 1991, pp. 352-371. In questo medesimo senso deve interpretarsi il contenuto della lettera di Carl Menger a Léon Walras datata 27 gennaio 1887 in cui Menger trova solamente alcuni punti in comune con Gossen, senza però che esista concordanza nei punti fondamentali («nur in einigen Punkten, nicht aber in den entscheidenden Fragen zwischen uns Übereinstimmung, bez Ähnlichkeit der Auffassung»). Si veda William Jaffé, Correspondence of Léon Walras and Related Papers, North-Holland, Amsterdam 1965, volume 2, p. 176, lettera n.º 765. 6 Die Quintessenz des Sozialismus, 18.ª edizione, Editoriale F.A. Perthes, Gotha 1919, pp. 51-52 (la 1ª edizione è del 1874). In effetti, Menger ottenne la cattedra grazie al fatto che questa era rimasta improvvisamente vacante quando nel febbraio1871 Schäffle fu nominato Ministro del Commercio. A proposito dell’indiscussa influenza che ebbe la sezione meno storicista della Scuola di Economia Politica tedesca anteriore a lui (Roscher, Hermann, Knies, etc.) su alcuni dei contributi fondamentali di Menger deve consultarsi l’interessante articolo di Eric W. Streissler, «The influence of German Economics on the work of Menger and Marshall», pubblicato in Carl Menger and his Legacy in Economics, edito da Bruce J. Caldwell, Annual Supplement to volume 22 of History of Political Economy, Duke University Press, Durham 1990, p. 31-68. Una critica dettagliata del libro di Schäffle sul socialismo fu realizzata da Edward Stanley Robertson nel suo articolo su «The Impracticability of Socialism», contenuto in A Plea for Liberty. An argument against socialism and socialistic legislation, consisting of an Introduction by Herbert Spencer and Essays by Various Writers, Thomas Mackay (ed.), pubblicato in origine nel 1891 e rieditato nel 1981 da Liberty Classics, Indianapolis, pp. 35-79. 7 Walter Bagehot, Economic Studies, Longmans Green, Londra 1898, pp. 54- 58. (Esiste un’altra edizione pubblicata da Kelley, Clifton, New Jersey 1973.)

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interpretazione che abbiamo appena analizzato, poiché entrambi esplicitamente manifestarono l’impossibilità di dare una soluzione al corrispondente sistema di equazioni senza disporre dell’informazione determinata dal mercato stesso. In concreto, nel 1897 Pareto giunse addirittura ad affermare che la soluzione al sistema di equazioni descrittivo dell’equilibrio «nella pratica si trovava ben al di là della capacità dell’analisi algebrica… essendo in quel caso necessario un cambio di ruoli, poiché la matematica non avrebbe potuto continuare a soccorrere l’economia politica, anzi, al contrario, sarebbe l’economia politica a venire in aiuto della matematica. In altre parole, anche nel caso in cui tutte le equazioni fossero conosciute nella realtà, l’unico procedimento valido per risolverle sarebbe osservare la soluzione reale che il mercato avrebbe già dato.»8 Pareto nega esplicitamente la possibilità che si possa disporre di tutta l’informazione necessaria, neppure per enunciare il sistema di equazioni che permetterebbe descrivere l’equilibrio e, allo stesso tempo, propone un problema sussidiario, quello dell’impossibilità algebrica di risolvere nella pratica il sistema di equazioni che lo descrive formalmente. D’accordo con Pareto, Enrico Barone evidenzia nel noto articolo del 1908 riguardo all’applicazione allo stato collettivista del paradigma enunciato per la prima volta da Pareto che, nonostante si potrebbe vincere la difficoltà pratica di risolvere algebricamente il citato sistema di equazioni (la qual cosa non costituisce un’impossibilità teorica), in ogni caso sarebbe inconcepibile (e, per tanto, ora sì, teoricamente impossibile) ottenere tutta l’informazione necessaria per determinare i coefficienti tecnici che la formulazione del corrispondente sistema di equazioni richiede.9

8 Per la sua straordinaria importanza, riportiamo integralmente l’epigrafe n.º 217 del Capitolo III del Manuel D’Économie Politique di Pareto, rieditato dalla Libreria Droz, a Ginevra, nel 1966, pp. 233 e 234: «Les conditions que nous avons énumérées pour l’équilibre économique nous donnent une notion générale de cet équilibre. Pour savoir ce qu’étaient certains phènomènes nous avons dû étudier leur manifestation; pour savoir ce que c’était que l’équilibre économique, nous avons dû rechercher comment il était déterminé. Remarquons, d’ailleurs, que cette détermination n’a nullement pour but d’arriver à un calcul numérique des prix. Faisons l’hypothèse la plus favorable à un tel calcul; supposons que nous ayons triomphé de toutes les difficultés pour arriver à connaître les données du problème, et que nous connaissions les ophélimités de toutes les merchandises pour chaque individu, toutes les circonstances de la production des marchandises, etc. C’est là déjà une hypothèse absurde, et pourtant elle ne nous donne pas encore la possibilité pratique de résoudre ce problème. Nous avons vu que dans le cas de 100 individus et de 700 marchandises il y aurait 70.699 conditions (en réalité un grand nombre de circonstances, que nous avons jusqu’ici négligées, augmenteraient encore ce nombre); nous aurons donc à résoudre un système de 70.699 équations. Cela dépasse pratiquement la puissance de l’analyse algébrique, et cela la dépasserait encore davantage si l’on prenait en considération le nombre fabuleux d’équations que donnerait une population de quarente millions d’individus, et quelques milliers de marchandises. Dans ces cas les ròles seraient changés: et ce ne seraient plus les mathématiques que viendraient en aide à l’économie politique, mais l’économie politique qui viendrait en aide aux mathématiques. En d’autres termes si on pouvait vraiment connaître toutes ces équations, le seul moyen accesible aux forces humaines pour les résoudre, ce serait d’observer la solution pratique que donne le marché.» (il corsivo è mio). Esiste una traduzione inglese di Ann S. Schwier, pubblicata con il titolo Manual of Political Economy, Augustus M. Kelley, New York 1971 (la citazione anteriore si trova alla p. 171 di questa edizione). 9 Enrico Barone, «Il Ministro della Produzione nello Stato Collettivista», Giornale degli Economisti, sett.-ott. 1908, tradotto in inglese da F.A. Hayek con il titolo «The Ministry of Production in the Collectivist State», in Collectivist Economic Planning, ed. da F.A. Hayek, Augustus M. Kelley, Clifton 1975, Appendice A, pp. 245 a 290. In concreto, Enrico Barone dice che: «It is not impossible to solve on paper the equations of the equilibrium. It will be a tremendous –a gigantic– work: but it is not an impossibility ... But it is frankly inconceivable that the economic determination of the technical coefficients can be made a priori... This economic variability of the technical coefficients is certainly neglected by the collectivists... It is on this account that the equations of the equilibrium with the maximum collective welfare are not soluble a priori, on paper» (pp. 287-288). È quasi inconcepibile che dopo queste chiare affermazioni di Barone numerosi economisti, molti di loro come Schumpeter anche insigni, abbiano affermato che Barone risolse il problema dell’impossibilità teorica del socialismo proposta da Mises. Queste affermazioni evidenziano che tali economisti, primo, non capirono la natura del problema proposto da Mises; secondo, che non lessero attentamente né Barone né Pareto; e terzo, che la supposizione di informazione completa utilizzata per

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Nonostante questi chiari (e isolati) avvertimenti, abbiamo affermato che la nostra valutazione dei contributi di Pareto e Barone è ambivalente. In effetti, nonostante entrambi gli autori, come abbiamo visto, facciano esplicito riferimento non solo alla difficoltà pratica di risolvere il corrispondente sistema di equazioni, ma, evidenzino anche l’insanabile impossibilità teorica di ottenere tutta l’informazione necessaria per descrivere l’equilibrio, entrambi, al momento di iniziare un nuovo paradigma scientifico nel campo dell’economia, basato sull’utilizzo del metodo matematico con il fine di descrivere almeno in termini formali il modello di equilibrio, si vedono inesorabilmente forzati a supporre che, almeno in quegli stessi termini formali, l’informazione necessaria sia disponibile. Di modo che, nonostante le eccezioni en passant di Pareto e Barone, un gruppo molto numeroso degli economisti che hanno portato avanti il loro paradigma non riesce ad afferrare che l’analisi matematica dell’equilibrio possiede solamente, al massimo, un valore ermeneutico o interpretativo, ma non aggiunge nulla alla possibilità di risolvere teoricamente il problema che si presenta a ogni organo direttivo che pretenda di ottenere l’informazione pratica necessaria per pianificare e coordinare coattivamente la società. Il primo articolo che tratta in forma sistematica l’insolubile problema economico che si presenterebbe a una società collettivista si deve all’economista olandese Nicolaas G. Pierson.10 L’articolo di Pierson è specialmente meritevole, soprattutto dal momento che venne scritto nel 1902. Pierson mette in evidenza che il problema del valore in generale, e in particolare il problema che solleva tutta azione umana riguardo alla necessità di valutare fini e mezzi, è cosostanziale alla natura umana, e pertanto esisterà sempre, non potendo venir annullato dall’istituzione di un sistema socialista. Pierson, inoltre, menziona la grande difficoltà di calcolare e valutare in una situazione in cui non esistono prezzi, criticando gli impacciati progetti di un’istituzione pratica del comunismo che erano stati enunciati fino ad allora e, in concreto, il calcolo economico in ore di lavoro. Comunque, e nonostante tutti questi importanti contributi, Pierson ebbe solamente brillanti intuizioni e non fu capace di arrivare appieno al cuore del problema che suscita il carattere disperso dell’informazione pratica che costantemente si genera e si trasmette nel mercato, e si dovrà aspettare fino al fondamentale contributo del professor Mises perché questo problema sia, per la prima volta, enunciato chiaramente.11 Poco prima di Mises, anche Wieser intuisce il problema economico fondamentale, quando nel 1914 afferma che in economia l’azione dispersa di milioni di individui è molto più efficace che l’organizzazione dall’alto da parte di un unico centro di potere, poiché descrivere formalmente l’equilibrio è un miraggio capace de ingannare anche le menti più brillanti. Barone (1859-1924) ebbe, da parte sua, una vita intensa e curiosa piena di vicissitudini e dedicata, oltre che all’economia matematica, al giornalismo e alla scrittura di copioni cinematografici (utilizzando le ampie conoscenze di storia militare che aveva acquisito come Colonnello in Capo dell’ufficio di storia dell’Alto Stato Maggiore), partecipando attivamente all’incipiente sviluppo dell’industria cinematografica italiana. Su Barone può consultarsi l’articolo di Del Vecchio, «L’opera scientifica di Enrico Barone», Giornale degli Economisti, novembre 1925; così come l’articolo «Barone» di F. Caffè, The New Palgrave: A Dictionary of Economics, op. cit., volume I, pp. 195-196. 10 Nicolaas G. Pierson, «Het Waardeproblem in een socialistische Maatschappij», pubblicato nel periodico olandese De Economist, volume I, 1902, pp. 423- 56. Posteriormente, questo articolo fu tradotto in inglese da G. Gardiner con il titolo «The problem of Value in the Socialist Community», e incluso come Capitolo II di Collectivist Economic Planning, op. cit., pp. 41 a 85. Pierson (1839-1909), molto influenzato dalla Scuola Austriaca, fu Governatore della Banca Centrale, Ministro delle Finanze e Primo Ministro olandese. Si veda l’interessante biografia di questo grande economista e uomo di stato olandese di J.G. Van Maarseveen, Erasmus University, Rotterdam 1981, così come l’articolo di Arnold Heertje «Nicolaas Gerard Pierson», pubblicato nel volume III del The New Palgrave. A Dictionary of Economics, pp. 876. 11 Nonostante ciò, Mises generosamente afferma che Pierson «clearly and completely recognized the problem in 1902» (Socialism, op. cit., p. 117). Curiosamente, nello stesso luogo, e questa volta riguardo a Barone, Mises manifesta che «Barone did not penetrate to the core of the problem». Esiste una edizione italiana di questa opera edita da Rusconi con il titolo Socialismo, analisi economica e sociologica, Milano, 1990.

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quest’ultimo non potrebbe mai «riuscire a essere informato sulle innumerevoli possibilità economiche esistenti».12 Infine, il sociologo tedesco Max Weber, nella sua opera magna Economia e Società pubblicata postuma nel 1922, dopo un lungo periodo di elaborazione, tratta espressamente i problemi economici che si presenterebbero qualora si tentasse di mettere in pratica il socialismo. In concreto, Weber insiste nell’affermare che specialmente i calcoli proposti da determinati socialisti non potrebbero portare a una soluzione razionale del problema prospettato. Inoltre, Weber sottolinea in particolare che la conservazione e l’utilizzo razionale del capitale possono essere assicurati solamente in una società basata sul libero scambio e sull’uso del denaro, allo stesso modo in cui la perdita e la distruzione generalizzate delle risorse economiche cui porterebbe un regime socialista e, dunque, senza calcolo economico razionale, renderebbero impossibile mantenere gli elevati livelli di popolazione che nella sua epoca si erano raggiunti nelle aree più densamente popolate.13 Non abbiamo motivo di non credere a Weber quando afferma, in nota a piè di pagina, di essere venuto a conoscenza del fondamentale articolo di Mises quando il suo libro era già stato dato alle stampe. Da ultimo, e in stretta relazione con i lavori di Max Weber e Mises, possiamo segnalare il contributo del professore russo Boris Brutzkus che, a inizio degli anni venti, e come conseguenza delle sue ricerche sui problemi pratici che portò l’insediamento del comunismo nella Russia sovietica, propone delle conclusioni molto simili a quelle sviluppate da Mises e Max Weber, giungendo ad affermare esplicitamente che il calcolo economico nelle società a pianificazione centrale dove non esistono prezzi di mercato è un’impossibilità teorica.14 In pratica, questi sono i contributi più importanti che costituiscono la preistoria intorno al dibattito sull’impossibilità del calcolo economico nelle economie socialiste. Comune

12 Si veda la nota 4 del prossimo capitolo. 13 Max Weber, Economy and Society, University of California Press, Berkeley 1978, Capitolo II, punti 12, 13 e 14, pp. 100 e seguenti (ed. Italiana: Economia e società, terza edizione, Edizioni di Comunità, Milano, 1974). In concreto, Max Weber conclude che: «Where a planned economy is radically carried out, it must further accept the inevitable reduction in formal, calculatory rationality which would result from the elimination of money and capital accounting. This fundamental, and in the last analysis, unavoidable element of irrationality is one of the important sources of all “social” problems, and above all of the problems of socialism» (p. 111). Weber cita anche l’articolo del professor Mises (p. 107), sottolineando che era venuto a conoscenza dello stesso solo quando il suo libro era già stato scritto ed era pronto per la stampa, per cui possiamo considerare che i contributi dell’uno e dell’altro autore furono concepiti indipendentemente da entrambi. Inoltre, a Max Weber corrisponde il merito indiscutibile di essere stato il primo a evidenziare che il socialismo rende impossibile la crescita e lo sviluppo della popolazione. In effetti, per Max Weber «the possibility must be considered that the maintenance of a certain density of population within a given area is possible only on the basis of accurate calculation. Insofar as this is true, a limit to the possible degree of socialization would be set by the necessity of maintaining a system of effective prices», The Theory of Social and Economic Organization, edito da The Press of Glencourt, New York 1964, pp. 184-185. Il fatto è che, secondo la nostra analisi del Capitolo III, l’estensione e approfondimento della divisione della conoscenza è impossibile in un regime socialista, poiché la libera creazione e trasmissione di nuova informazione pratica non è permessa. Ciò comporta la necessità di duplicare un enorme volume di informazione che, a causa della limitatezza della mente umana, obbliga a mantenere un’economia di mera sussistenza con un ridotto volume di popolazione. 14 I contributi di Brutzkus furono inizialmente pubblicati in russo, nella rivista Economist, negli anni 1921 e 1922. In seguito vennero tradotti in tedesco nel 1928 con il titolo Die Lehren des Marxismus im Lichte der russischen Revolution (Edit. H. Sack, Berlino 1928); e infine tradotti in inglese e inclusi nell’opera dell’autore Economic Planning in Soviet Russia, pubblicata da Routledge, Londra 1935. (Esiste una riedizione pubblicata nel 1982 da Hyperion Press, Westport, Connecticut.) Recentemente i contributi di Brutzkus sono stati valutati molto positivamente, soprattutto per aver saputo combinare gli aspetti storici e teorici del problema, evitando la dissociazione tra teoria e pratica che dopo di lui ebbe un posto preponderante nel dibattito. Si veda il libro di Peter J. Boettke, The Political Economy of Soviet Socialism (The Formative Years 1918-1928), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, Olanda 1990, pp. 30-35 e 41-42.

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denominatore di tutte è che in generale affrontano in maniera molto imperfetta e intuitiva l’essenza del problema che presenta il socialismo e che, come abbiamo analizzato nel dettaglio nel capitolo precedente, consiste nell’impossibilità teorica che l’organo di pianificazione centrale possa arrivare a disporre dell’informazione pratica necessaria per organizzare la società. Inoltre, nessuno di questi contributi fu capace di risvegliare dal letargo i teorici socialisti che, in generale, e nella più pura tradizione marxista, si limitavano a criticare il sistema capitalista, senza però portare alcuna luce al problema fondamentale di come avrebbe dovuto funzionare il socialismo nella pratica. Solamente Kautsky, spronato dall’articolo già commentato di Pierson, ebbe il coraggio, violando il tacito accordo esistente tra i marxisti, di cercare di indicare come avrebbe dovuto essere la futura organizzazione socialista, riuscendo con ciò solamente a rendere evidente la sua assoluta incomprensione su quale fosse il problema economico fondamentale segnalato da Pierson.15 Dopo di lui, si sarebbe dovuto aspettare fino al contributo fondamentale di Mises per trovare analisi di un certo interesse effettuate da un punto di vista socialista. La sola eccezione è costituita dall’opera del Dr. Otto Neurath,16

15 Ci riferiamo alla conferenza pronunciata da Kautsky a Delft il 24 aprile 1902, il cui testo inglese comparve nel 1907 con il titolo The Social Revolution and on the Morrow of the Revolution, editoriale Twenty Century Press, Londra. Antecedenti della posizione di Kautsky possono trovarsi nell’opera di G. Sulzer, Die Zukunft des Sozialismus, pubblicata a Dresda nel 1899. 16 Otto Neurath, Durch die Kriegswirtschaft zur Naturalwirtschaft, G.D.W. Callwey, Monaco 1919. (Esiste una traduzione all’inglese, «Through War Economy to Economy in Kind», in Empiricism and Sociology, Editorial D. Reidel, Dordrecht, Olanda 1973.) È necessario ricordare che Otto Neurath durante un breve intervallo di tempo fu direttore della Zentralwirtschaftsamt di Baviera, che fu l’agenzia che si occupava dei piani di socializzazione durante la Räterepublik o casa sovietica del regime rivoluzionario bavarese che prese brevemente il potere a Monaco nella primavera del 1919. Una volta che la rivoluzione fallì, quando Neurath fu processato, Max Weber testimoniò in sua difesa. Neurath morirà nel 1945. Un’idea simile a quella di Otto Neurath fu citata da Otto Bauer nella sua opera Der Weg zum Sozialismus («Il cammino verso il socialismo»), pubblicato a Vienna da Ignaz Brand nel 1919. In quest’opera Bauer difende, come Neurath, la possibilità del calcolo economico in natura, vale a dire, senza utilizzare unità monetarie. Recentemente, i contributi di Neurath sono stati rivalutati dall’economista spagnolo Juan Martínez-Alier nel suo Ecological Economics, Basil Blackwell, Oxford, seconda edizione 1990, pp. 212-218. È interessante sottolineare che sia Neurath che Bauer avevano assistito regolarmente al seminario di Böhm- Bawerk che vide Ludwig von Mises tra i partecipanti più attivi fino al 1913. Così come gli interventi di Neurath si caratterizzarono più per il suo fanatico fervore marxista che per la sua acutezza intellettuale, Otto Bauer, anche lui marxista, non ebbe altra scelta che ammettere che la teoria marxista del valore era insostenibile e che la «risposta» a Böhm-Bawerk da parte di Hilferding aveva evidenziato solamente l’incapacità di quest’ultimo autore di comprendere quale fosse la natura del problema. A partire da quella data, Mises decise di scrivere un’analisi critica del socialismo, le cui idee fondamentali furono frutto delle sue riflessioni e osservazioni effettuate durante il servizio militare nella I Guerra Mondiale come capitano di artiglieria, prima nel fronte orientale (Carpazi), e, dopo aver contratto la febbre tifoidea, a partire dal 1917, nel Dipartimento di Economia del Ministero della Difesa Austriaco. Riguardo a ciò, si veda l’interessante autobiografia intellettuale di Ludwig von Mises intitolata Notes and Recollections, commentata e tradotta dal tedesco all’inglese da Hans F. Senholz, Libertarian Press, South Holland, Illinois 1978, pp. 11, 40-41, 65-66 e 110-111. In ogni caso, le idee di Mises sul socialismo erano il logico corollario alla notevole integrazione teorica effettuata da Mises già nel 1912 (Theorie des Geldes und der Umlaufsmittel, Duncker & Humblot, Monaco e Lipsia 1912; esistono tre traduzioni in spagnolo, una di Antonio Riaño, pubblicata a Madrid da Aguilar nel 1936 con il titolo di Teoría del Dinero y del Crédito; un’altra di José María Clarmunda Bes, pubblicata con lo stesso titolo da Ediciones Zeus, Barcellona 1960; e una terza di Juan Marcos de la Fuente, Unión Editorial, Madrid 1997. La migliore edizione inglese è quella pubblicata da Liberty Press, Indianapolis, nel 1981, con il titolo The Theory of Money and Credit, tradotta dal tedesco da H.E. Batson, con prologo di Murray N. Rothbard) tra il mondo soggettivo delle valutazioni individuali (ordinale) e il mondo esterno delle valutazioni di prezzi di mercato stabiliti in unità monetarie (cardinale). Il ponte tra l’uno e l’altro mondo è possibile ogni volta che si verifica una azione di scambio interpersonale, che, motivata dalle diverse valutazioni soggettive delle parti, è plasmata in un prezzo monetario di mercato, o relazione storica di intercambio in unità monetarie che ha una esistenza reale quantitativa determinata, e che può essere utilizzata posteriormente dall’imprenditore come informazione preziosa per valutare l’evoluzione futura degli avvenimenti e prendere decisioni (calcolo economico). È, dunque, evidente che impedendo con la forza la libertà dell’azione umana, i cambiamenti

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che nel 1919 pubblicò un libro dove affermava che le esperienze della I Guerra Mondiale avevano «dimostrato» che la pianificazione centrale poteva perfettamente realizzarsi in natura. Fu proprio il libro di Neurath a motivare la folgorante risposta di Ludwig von Mises, concretizzatasi in una conferenza pronunciata nel 1919, che costituì la base del suo trascendentale articolo pubblicato nella primavera dell’anno seguente, nel 1920.17

2. IL CONTRIBUTO ESSENZIALE DI LUDWIG VON MISES Se c’è qualcosa che mette d’accordo tutti coloro che partecipano al dibattito sul calcolo economico socialista è il fatto che lo stesso inizia ufficialmente con il famoso articolo di Mises comparso nel 1920 con il titolo di «Die Wirtschaftsrechnung im Sozialistischen Gemeinwesen», ovvero, «Il Calcolo Economico nella Comunità Socialista.»18 Questo articolo riporta il contenuto della conferenza pronunciata da Mises l’anno precedente

volontari interpersonali non si verificherebbero, e si distruggerebbe in tal modo quel ponte tra il mondo soggettivo delle valutazioni dirette (ordinale) e il mondo esterno dei prezzi (cardinale), rendendo così totalmente impossibile il calcolo economico. Devo questa importantissima idea sull’evoluzione e coerenza del pensiero misiano a Murray N. Rothbard, «The End of Socialism and The Calculation Debate Revisited», The Review of Austrian Economics, volume 5, n.º 3, 1991, pp. 64-65. Nonostante ciò, credo che Rothbard, nel suo desiderio di sottolineare le differenze esistenti tra Hayek e Mises, non si renda conto che la frattura della connessione scoperta da Mises tra il mondo delle valutazioni soggettive interiori e il mondo esterno dei prezzi solleva innanzitutto un problema di mancanza di creazione e trasmissione della conoscenza o informazione (esistente e futura) necessarie per rendere possibile il calcolo economico, per cui i contributi di Mises e Hayek, con le loro evidenti e inevitabili differenze di enfasi e sfumature, può considerarsi che facciano parte indistinguibile della stessa argomentazione fondamentale contro il calcolo economico socialista: quello di Mises maggiormente orientato ai problemi di tipo dinamico, mentre Hayek in determinate occasione ha forse dato l’impressione di concentrarsi di più sulla problematica rappresentata dal carattere disperso della conoscenza esistente. Si veda, anche, a questo proposito la nota 42 del Capitolo II. 17 Due magnifiche analisi sulla «preistoria» del dibattito sul calcolo economico sono quella di F.A. Hayek, «Nature and History of the Problem», in Collectivist Economic Planning, op. cit., pp. 1 a 40; e quella di David Ramsay Steele, intitolata «Posing the problem: the Impossibility of Economic Calculation under Socialism», pubblicata nel Journal of Libertarian Studies, volume V, n.º I, inverno 1981, pp. 8 a 22. Oltre ai lavori citati che costituiscono la cosiddetta «preistoria», fino all’apparizione di Mises, e come ben evidenzia Rothbard («The End of Socialism and the Calculation Debate Revisited», op. cit., p. 51), il problema del socialismo era sempre concepito più come politico e in relazione con gli «incentivi», che di natura economica. Tra questa tipologia di lavori ingenuamente critici del socialismo risalta per brillantezza l’opera di William Hurrell Mallock, A Critical Examination of Socialism, originariamente pubblicata nel 1908 e riedita nel 1990 da Transaction Publishers, New Brunswick. 18 Pubblicato in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, volume 47, aprile 1920, pp. 86-121. Questo articolo fu posteriormente tradotto in inglese da S. Adler con il titolo «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth» e inglobato come Capitolo III in Collectivist Economic Planning (1933), op. cit., pp. 87 a 130. Il contenuto di questo articolo è riportato da Mises, quasi letteralmente, nell’opera che pubblica due anni dopo, nel 1922, criticando sistematicamente in ogni aspetto il socialismo: Die Gemeinwirtschaft. Untersuchungen über den Sozialismus, Gustav Fischer, Jena 1922, tradotta in inglese da J. Kahane nel 1936 e pubblicata con il titolo Socialism: An Economic and Sociological Analysis, pubblicata in varie edizioni e vari luoghi, la migliore restando quella di Liberty Classics, Indianapolis 1981 (pp. 95-197). Molto di recente, la versione inglese dell’articolo seminale di Mises è stata splendidamente rieditata con una doppia introduzione di Yuri N. Maltsev (dell’Accademia di Scienze dell’estinta URSS) e di Jacek Kochanowicz (Professore di Economia del’Università di Varsavia); e include un post-scriptum di Joseph T. Salerno intitolato «Why a Socialist Economy is Impossible» (The Ludwig von Mises Institute, Auburn University, Auburn, Alabama 1990). Nonostante l’articolo di Mises non sia stato tradotto in spagnolo, esiste una traduzione accettabile di Die Gemeinwirtschaft, per opera di Luis Montes de Oca, pubblicata con il titolo Socialismo. Análisis Económico y Sociológico nel 1961 in Messico da Editorial Hermes; nel 1968 a Buenos Aires dall’Istituto Nazionale di Pubblicazioni di Buenos Aires; rieditata, per la terza volta, da Western Books Foundation (WFB), New York 1989; e, per la quarta (corretta), da Unión Editorial, Madrid 2003. Questa stessa opera venne tradotta in francese e pubblicata con una prefazione di François Perroux nel 1952 (Librairie de Médecis, Parigi).

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(1919) davanti alla Nationalökonomische Gesellschaft (Società Economica) nella quale contestava la tesi del libro di Otto Neurath dello stesso anno. È difficile esagerare l’enorme impatto che ebbe l’articolo di Mises tra i suoi colleghi economisti professionisti e tra i teorici del socialismo. La sua logica fredda e precisa, la chiarezza espositiva e lo spirito provocatore rendevano impossibile che le sue tesi fossero ignorate, così come era accaduto con coloro che lo avevano preceduto. Così, Otto Leichter sottolinea che a Mises corrisponde l’onore di aver richiamato, per la prima volta, l’attenzione dei teorici del socialismo sulla necessità di risolvere il problema del calcolo economico.19 E l’economista socialista Oskar Lange, di cui avremo la possibilità di parlare per esteso più avanti, scrisse, in tono ironico, che i contributi di Mises alla teoria del socialismo erano tali che gli si sarebbe dovuta dedicare una statua in un luogo d’onore nel salone più importante dell’organismo di pianificazione centrale di ogni stato socialista.20 Forse, dopotutto, e alla luce dei recenti avvenimenti storici accaduti nei paesi dell’Est, non stupirebbe che le ironiche affermazioni di Lange si ritorcessero come un boomerang contro di lui, e che in molte piazze delle capitali delle vecchie nazioni comuniste si vedano erigere statue del giovane Mises, a sostituzione di quelle già abbattute e distrutte dei vecchi leader marxisti.21 Carattere e contenuto fondamentale del contributo di Mises Il contributo essenziale di Mises è già contenuto, per la prima volta, all’interno dell’analisi teorica sui processi di creazione e trasmissione dell’informazione pratica che costituiscono la società e che abbiamo analizzato in dettaglio nei Capitoli II e III di questo libro. Mises è ancora piuttosto impacciato nell’utilizzo della terminologia, e più che parlare di informazione pratica dispersa, si riferisce a un certo tipo di divisione intellettuale del lavoro, che secondo lui costituisce l’essenza del mercato, e che proporziona e genera l’informazione che rende possibile il calcolo o la valutazione economica che ogni decisione imprenditoriale esige. Concretamente, Mises afferma che «the distribution among a number of individuals of administrative control over economic goods in a community of men who take part in the labour of producing them, and who are economically interested in them, entails a kind of intellectual division of labour, which would not be possible without 19 «To Ludwig von Mises really belongs the merit of having so energetically drawn the attention of socialists to this question. However, little it was the intention of Mises to contribute by this criticism to the positive development of socialist theory and praxis, yet honour must be given where honour is due», Die Wirtschaftsrechnung in der Sozialistischen Gesellschaft, Verlag der Wiener Volksbuchhandlung, Vienna 1923, p. 74. Ho preso la traduzione in inglese di questa citazione dalla p. 5 del libro Economic Calculation in the Socialist Society, di Trygve J.B. Hoff, pubblicato da Liberty Press, Indianapolis, 1981. 20 «A statue of Professor Mises ought to occupy an honourable place in the great hall of the Ministry of Socialization or of the Central Planning Board of a socialist state ... both as an expression of recognition for the great service rendered by him and as a memento of the prime importance of sound economic accounting.» Oskar Lange, «On the Economic Theory of Socialism», pubblicato in Review of Economic Studies, ottobre 1936, p. 53. Questo articolo fu riprodotto nel libro On the Economic Theory of Socialism, edito da B.E. Lippincott, The University of Minnesota Press, Minneapolis 1938 e 1964, pp. 55-143. (Esiste una traduzione spagnola di Antonio Bosch e Alfredo Pastor, pubblicata da Editorial Ariel, Barcellona 1973.) Di recente l’articolo di Oskar Lange è stato parzialmente rieditato in Friedrich A. Hayek. Critical Assesments, ed. da J.C. Wood e R.N. Woods, Routledge, Londra 1991, Capitolo 17, pp. 180-201. 21 La statua di Mises è già stata collocata, per lo meno, nella biblioteca del Dipartimento di Teoria Economica dell’Università di Varsavia dove Oskar Lange diede le sue lezioni, e proprio vicino a quello che fu il suo ufficio. La collocazione del busto di Mises avvenne in una breve ed emotiva cerimonia nel settembre 1990 e fu possibile grazie a George Koetter (si veda Free Market, volume 9, n.º 2, febbraio 1991, p. 8, e The Journal of Economic Perspectives, volume 5, n.º 3, estate 1991, pp. 214-215).

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some system of calculating production and without economy».22 Due anni dopo, nel 1922, nel suo trattato sistematico sul socialismo, Mises torna a ripetere la stessa idea in maniera ancora più articolata, in questo modo: «In societies based on the division of labour the distribution of property rights effects a kind of mental division of labour, without which neither economy nor systematic production would be possible».23 E cinque anni dopo, nel 1927, nell’opera Liberalismus, Mises conclude esplicitamente che la sua analisi si basa sull’impossibilità che nel socialismo possa generarsi l’informazione pratica in forma di prezzi di mercato necessaria per rendere possibile la divisione intellettuale della conoscenza che una società moderna esige e che sorge solamente come conseguenza della capacità creativa dell’azione umana o funzione imprenditoriale: «The decisive objection that economics raises against the possibility of a socialist society is that it must forgo the intellectual division of labour that consists in the cooperation of all entrepreneurs, land owners and workers as producers and consumers in the formation of market prices».24 Un altro contributo essenziale di Mises fu lo scoprire che l’informazione creata e generata costantemente dal mercato sorge dall’esercizio della capacità imprenditoriale, in funzione delle circostanze precise di tempo e luogo che solo possono essere notate da ogni uomo nel contesto nel quale si trova ad agire. La conoscenza pratica imprenditoriale, dunque, nasce nel mercato come conseguenza del ruolo particolare che ogni attore ricopre nel processo produttivo, in modo che, se si impedisce il libero esercizio dell’imprenditorialità e si tenta di organizzare coattivamente tutta la società dall’alto, gli imprenditori, non potendo agire in libertà, cesseranno di esserlo, e non si renderanno neppure conto dell’informazione che smetteranno di acquisire e creare, e ciò indipendentemente da quanto brillanti possano essere stati i loro studi o le qualifiche professionali di tipo dirigenziale.25 In effetti, Mises ci dice che «the entrepreneur’s commercial attitude and

22 Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», in Collectivist Economic Planning, op. cit., p. 102. («La distribuzione del controllo amministrativo sui beni economici tra gli individui della società che partecipano alla produzione esige una sorta di divisione intellettuale del lavoro che non è possibile senza un sistema di calcolo e senza un mercato.») 23 Ludwig von Mises, Socialism, op. cit., p. 101. Vale a dire, in italiano: «Nelle società basate sulla divisione del lavoro, la distribuzione dei diritti di proprietà dà luogo a una specie di divisione intellettuale o mentale del lavoro, senza la quale non sarebbe possibile alcun tipo di produzione né di economia.» Stimiamo che la traduzione spagnola di Luis Montes de Oca (Socialismo, op. cit., p. 109), anche se non erronea, non è del tutto azzeccata, poiché dice quanto segue: «La repartición, entre numerosos individuos, de la facultad de disponer de los bienes económicos en la sociedad que se funda en la división del trabajo, realiza una especie de división del trabajo intelectual, sin la que sería imposible el cálculo de la producción y de la economía.» («La spartizione, tra numerosi individui, della facoltà di disporre dei beni economici in una società fondata sulla divisione del lavoro, comporta una sorta di divisione del lavoro intellettuale, senza la quale sarebbe impossibile il calcolo della produzione e dell’economia.») 24 Ludwig von Mises, Liberalism, Cobden Press, San Francisco 1985 (Liberalismo, Rubettino, 1997). «L’obbiezione definitiva dell’economia contro il socialismo è che il socialismo esige di rinunciare alla divisione intellettuale del lavoro che è risultato della cooperazione tra tutti gli imprenditori, i proprietari terrieri, e i lavoratori, in qualità di produttori e consumatori, e che si concretizza nella definizione dei prezzi di mercato.» L’edizione originale di quest’opera apparve nel 1927 con il titolo Liberalismus, pubblicata da Gustav Fischer a Jena. Esiste una traduzione spagnola di Joaquín Reig Albiol, pubblicata da Unión Editorial, Madrid, in due edizioni (1977 e 1982). 25 Quest’idea essenziale di Mises ha un chiarissimo antecedente in Carl Menger, come ha messo in evidenza il contenuto del quaderno di appunti che il Principe ereditario Rudolf elaborò a partire dal 1876, praticamente dettato da Menger, che era stato ufficialmente nominato suo tutore e maestro. In effetti, nelle pp. 50- 51 del 6.º taccuino degli appunti sopra citati possiamo leggere: «A government cannot possibly know the interest of all citizens. In order to help them it would have to take account of the diverse activities of everybody ... However carefully designed and well intentioned institutions may be, they never will suit everybody. Only the individual himself knows exactly his interests and the means to promote them ... Even the most devoted civil servant is but a blind tool within a big machine who treats all problems in a stereotyped manner with regulations and instructions. He can cope neither with the requirements of

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activity arises from his position in the economic process and is lost with its disappearance. When a successful businessman is appointed the manager of a public enterprise, he may still bring with him certain experiences from his previous occupation, and be able to turn them to good account in a routine fashion for some time. Still, with his entry into communal activity he ceases to be a merchant and becomes as much a bureaucrat as any other placeman in the public employ. It is not a knowledge of bookkeeping, of business organization, or of the style of commercial correspondence, or even a dispensation from a commercial high-school which makes the merchant, but his characteristic position in the production process which allows for the identification of the firm’s and his own interests.»26 Mises sviluppa ed amplia questa stessa idea nel suo trattato sul socialismo, giungendo alla chiara e breve conclusione che «an entrepreneur deprived of his characteristic role in economic life ceases to be a business man. However much experience and routine he may bring to his new task he will still be an official in it.»27

contemporary progress nor with the diversity of practical life. Therefore it seems impossible that all economic activities be treated in a stereotyped way, following the same rule with utter disregard for individual interests» (Archiduque Rudolf, Principe ereditario d’Austria, Politische Oekonomie, Hefte, gennaio-agosto 1876, manoscritto originale del Principe stesso, depositato in Osterreichisches Staatsarchiv. Questi appunti, scoperti dalla storica Brigitte Hamann, furono tradotti in inglese da Monika Streissler e David F. Good. Abbiamo utilizzato questa traduzione così come viene citata da Erich W. Streissler, Carl Menger on economic policy: The Lectures to Crown Prince Rudolf, contenuto in Carl Menger and his Legacy in Economics, edito da Bruce J. Caldwell, Annual Supplement to volume 22, History of Political Economy, Duke University Press, Durham 1990, pp. 107-130 e, in particolare, le pp. 120-121). È curioso evidenziare che, per Mises, la tragica morte dell’archiduque Rudolf fu dovuta al fatto che Carl Menger, cosciente del pernicioso effetto che avrebbe avuto sull’Impero Austro–Ungarico il proliferare dell’avvelenata corrente intellettuale contro il liberalismo, «had transmitted this pessimism to his young student and friend, Archduke Rudolf, successor to the Austro-Hungarian throne. The Archduke committed suicide because he despaired about the future of his empire and the fate of European civilization, not because of a woman (he took a young girl along in death who, too, wished to die, but he did not commit suicide on her account).» Si veda Notes and Recollections, op. cit., p. 34. 26 Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», in Collectivist Economic Planning, op. cit., pp. 120-121. («L’azione e l’attitudine commerciale dell’imprenditore sorgono dalla sua posizione nel processo economico e vanno perdute quando tale posizione cessa. Quando un buon imprenditore è nominato gerente di una società pubblica, potrebbe forse applicare qualcuna delle sue precedenti esperienze al suo nuovo lavoro di routine. In realtà, inevitabilmente smette di essere un imprenditore e si trasforma in un burocrate qualunque. Il fatto è che, ciò che rende tale un imprenditore non è il conoscere la contabilità, l’organizzazione imprenditoriale, la conformità commerciale, e neppure un titolo di una scuola di scienze imprenditoriali, ma solamente il fatto di occupare una posizione caratteristica all’interno del processo produttivo, e che è l’unica in grado di permettergli di identificare quali siano gli interessi, personali e della sua compagnia, che deve perseguire.»). Si veda al proposito l’interessante articolo del mio amico W. Keizer, «The Property Rights Basis of von Mises’ Critique of Socialism», manoscritto in attesa di pubblicazione presentato alla First European Conference on Austrian Economics, Università di Maastrich, 9-10 aprile 1992. 27 Ludwig von Mises, Socialism, op. cit., p. 191. Luis Montes de Oca tradusse questa citazione nel modo seguente: «El empresario a quien se priva de la posición característica que tenía en la vida económica, deja de ser hombre de negocios. Por muchas que sean la experiencia y la práctica que la iniciativa particular aporte a su nuevo empleo, no dejará de ser más que un alto funcionario.» («L’imprenditore privato della posizione caratteristica che aveva nella vita economica, smette di essere un uomo d’affari. Nonostante tutta l’esperienza e la pratica con cui possa arricchire il suo nuovo lavoro, non potrà essere altro che un alto funzionario.») Si veda la p. 216 di Socialismo, op. cit. Pertanto, è evidentemente assurda la dicotomia di Salerno («Ludwig von Mises as Social Rationalist», op. cit., pp. 45 e 55) secondo cui per Mises il problema del socialismo era un problema relativo al calcolo economico e non alla conoscenza dispersa, poiché entrambi sono indissolubilmente uniti. Mises stesso non solo insistette, come abbiamo già visto dal principio, sull’importanza della «posizione caratteristica» dell’imprenditore al momento di proporzionargli informazione, ma concepì sempre l’economia come una scienza il cui oggetto non erano cose bensì

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Il socialismo, pertanto, nella misura in cui impedisce con la forza il libero esercizio dell’imprenditorialità nell’area essenziale dei fattori di produzione (beni di capitale e risorse naturali), non permette né la creazione né la trasmissione dell’informazione pratica che sarebbe necessaria perché l’organo di pianificazione centrale possa assegnarli in modo adeguato. Poiché detta informazione non si sviluppa, la stessa non può essere tenuta in considerazione nel calcolo estimativo necessario in ogni decisione economica razionale. In questo modo l’organo centrale di controllo non sa neppure, al momento di prendere le decisioni e agire, se sta rinunciando a raggiungere determinati obiettivi o fini che, dal suo punto di vista, potrebbero avere un’importanza maggiore. Le decisioni economiche nel socialismo sono, pertanto, arbitrarie e si svolgono nell’oscurità più assoluta. Arrivati a questo punto, è molto importante evidenziare che la tesi di Mises è una tesi teorica sull’errore intellettuale che qualunque idea socialista implica, dal momento che non è possibile organizzare la società tramite mandati coattivi, data l’impossibilità che l’organo di controllo riesca ad ottenere l’informazione necessaria per farlo. La tesi di Mises è una tesi teorica sull’impossibilità pratica del socialismo.28 O, se si preferisce, è la tesi teorica per antonomasia, poiché la teoria non è che un’analisi astratta, formale e qualitativa della realtà, che però mai deve perdere il nesso con la stessa, ma che, al contrario, deve piuttosto essere il più rilevante possibile per i casi e i processi che avvengono nella vita reale. È, comunque, completamente inesatto pensare che l’analisi di Mises si riferisca all’impossibilità del socialismo dal punto di vista del modello formale di equilibrio o «logica pura dell’elezione», come molti e prestigiosi autori, come vedremo più avanti, incapaci di distinguere tra «teoria» e analisi dell’equilibrio, affermarono in modo erroneo. In effetti, già lo stesso Mises nel 1920 con grande cura si preoccupò di negare espressamente che la sua analisi fosse applicabile al modello dell’equilibrio, il quale, dal momento che presuppone nella sua enunciazione che tutta la informazione necessaria deve essere disponibile, fa sì che il problema economico fondamentale che suppone il socialismo si consideri, per definizione, risolto ab inizio e, per tanto, che non venga considerato dal teorico dell’equilibrio. Al contrario, il problema risiede, per l’appunto, nel fatto che l’organo di controllo, al momento di emettere un editto o un mandato a favore o contro un determinato progetto economico, manca dell’informazione necessaria per sapere se abbia agito o meno correttamente, per cui non può effettuare alcun calcolo o valutazione economica. Se si suppone che l’organo di controllo possieda tutta l’informazione necessaria e che, inoltre, non si verifichino cambiamenti, è evidente che non può sorgere nessun problema di calcolo economico, dal momento che dal principio si considera che tale problema non esiste. Così, Mises ci dice: «the static state can dispense with economic calculation. For here the same events in economic life are ever recurring; and if we assume that the first disposition of the static socialist economy follows on the basis of the final state of the competitive economy, we might at all events conceive of a socialist production system which is rationally controlled from an economic point of view. But this is only conceptually possible. For the moment, we leave aside the fact that a static state is informazione o conoscenza intese come realtà spirituali («Economics is not about things and tangibile objects, it is about men, their meanings and actions», Human Action, op. cit., p. 92). 28 «The dichotomy between "theoretical" and "practical" is a false one. In Economics, all arguments are theoretical. And since economics discusses the real world, these theoretical arguments are by their nature practical ones as well.» Murray N. Rothbard, Man, Economy and State. A Treatise on Economic Principles, volume II, Nash Publishing, Los Angeles 1970, p. 549. In effetti, non c’è nulla di più pratico che una buona teoria e sia l’argomentazione di Mises che quella degli economisti matematici che lo criticarono sono teoriche, ma accade che l’argomentazione di Mises sia un’argomentazione teorica rilevante anche per la pratica reale del funzionamento dell’economia di mercato e del socialismo; mentre l’argomentazione degli economisti matematici è un’argomentazione teorica irrilevante, dal momento che è riferita a un modello di equilibrio in cui si presuppone che, per definizione, il problema economico sia già stato risolto, considerando che tutta l’informazione necessaria sia data e si trovi a disposizione dell’organo di controllo.

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impossible in real life, as our economic data are for ever changing, so that the static nature of economic activity is only a theoretical assumption corresponding to no real state of affairs.»29 La tesi di Mises è, per tanto, una tesi di tipo teorico sull’impossibilità logica del socialismo, quando però si considerino una teoria e una logica sull’azione umana e sui veri processi sociali, dinamici e spontanei che la generano, e non una «logica» o una «teoria» costruite sull’azione meccanica esercitata in un contesto di perfetto equilibrio da parte di esseri «onniscienti», inumani e lontani dalla realtà. O, come chiarì perfettamente Mises due anni dopo nel suo libro sul socialismo: «Under stationary conditions there no longer exists a problem for economic calculation to solve. The essential function of economic calculation has by hypothesis already been performed. There is no need for an apparatus of calculation. To use a popular but not altogether satisfactory terminology we can say that the problem of economic calculation is of economic dynamics: it is no problem of economic statics.»30 Questa affermazione di Mises combacia alla perfezione con la tradizione più caratteristica della Scuola Austriaca, così come era stata iniziata da Menger, sviluppata in seguito da Böhm-Bawerk, e portata avanti nella sua terza generazione dallo stesso von Mises. Effettivamente, per Mises «what distinguishes the Austrian School and will lend it immortal fame is precisely the fact that it created a theory of economic action and not of economic equilibrium or non action.»31 Non deve dunque meravigliare che, non essendo necessario alcun calcolo economico in una situazione di equilibrio, solamente i rappresentanti di una scuola che, come quella Austriaca, concentrarono il loro programma di ricerca scientifica sull’analisi teorica dei processi dinamici reali che si danno nel mercato, e non sullo sviluppo di modelli meccanici di equilibrio più o meno parziali o generali, fossero in grado di scoprire il teorema dell’impossibilità del calcolo economico socialista. È stato dunque dimostrato che il nucleo essenziale della teoria sull’impossibilità del socialismo che abbiamo spiegato nel dettaglio nei capitoli II e III di questo volume si trova già enunciato in maniera esplicita nell’articolo scritto da Mises nel 1920 e che ora stiamo commentando. Il lavoro di Mises ebbe forte impatto sul suo giovane allievo F.A. Hayek che, di conseguenza, abbandonò il socialismo «benintenzionato» della prima giovinezza e,

29 Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», In Collectivist Economic Planning, op. cit., p. 109. («L’economia in stato di equilibrio può esistere senza calcolo economico, dato che in tali circostanze gli eventi economici si ripetono in forma ricorrente; e se supponiamo che il punto di partenza di un’economia socialista di carattere statico coincide con lo stato finale di una economia competitiva, sarebbe possibile concepire un sistema socialista di produzione razionalmente controllato dal punto di vista economico. In realtà, questa possibilità ha un interesse solo concettuale, dal momento che lo stato di equilibrio è impossibile nella vita reale, dove l’informazione economica è in continuo cambiamento, per cui il modello statico è solo una supposizione teorica senza alcuna connessione con le circostanze che avvengono nella vita reale.»). 30 Ludwig von Mises, Socialism, op. cit., pp. 120-121. Questo passo lo traduce Montes de Oca nella seguente forma: «En la sociedad estacionaria no existe ya tarea por resolver que necesite del cálculo económico, porque la que tendría que haber sido resuelta lo ha sido antes ya. Si queremos emplear expresiones muy extendidas, a menudo un poco erróneas, podríamos decir: el cálculo económico es un problema de la economía dinámica y no de la economía estática.» («Nella società stazionaria non esiste compito da risolvere che necessiti del calcolo economico, perché quello che avrebbe dovuto essere risolto, è già stato fatto in precedenza. Se vogliamo utilizzare espressioni molto diffuse, e spesso erronee, potremmo dire: il calcolo economico è un problema dell’economia dinamica e non dell’economia statica») Socialismo, op. cit., pp. 132-133. Non ha, pertanto, nessun senso l’affermazione di Salerno secondo cui il problema del calcolo economico in Mises è un mero problema de massimizzazione robbinsiana in cui i fini e i mezzi sono stabiliti (Joseph T. Salerno, «Ludwig von Mises as Social Rationalist», op. cit., p. 46). Da un punto di vista dinamico né i fini né i mezzi sono stabiliti, ma si devono creare e devono essere scoperti in ogni momento. Calcolare implica guardare verso il futuro e creare, pertanto, nuova informazione. 31 «Ciò che distingue la Scuola Austriaca e le proporzionerà fama immortale è precisamente il fatto di aver sviluppato una teoria della azione economica e non della “non azione” o “equilibrio economico”.» Si veda l’autobiografia intellettuale di Mises, Notes and Recollections, op. cit., p. 36

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da allora, dedicò un notevole sforzo intellettuale a depurare e ampliare i contributi del suo maestro.32 Non può, dunque, essere accettata la tesi essenzialmente erronea, secondo cui esistono due tesi distinte contro la possibilità del calcolo economico nelle economie socialiste. La prima di queste tesi sarebbe di tipo semplicemente algebrico o computazionale, e sarebbe stata espressa inizialmente da Mises, secondo cui il calcolo economico non sarebbe possibile laddove non esistano prezzi che permettano il calcolo di guadagni e perdite; e l’altra di natura epistemologica, sviluppata principalmente da F.A. Hayek e in virtù della quale il socialismo non potrebbe funzionare data l’impossibilità che l’organo di pianificazione centrale possa disporre dell’informazione pratica rilevante e necessaria per organizzare la società.33 Al contrario, per Mises entrambe le tesi, quella computazionale e quella epistemologica, non sono altro che le due inscindibili facce della stessa medaglia dal momento che, da un lato, non è possibile effettuare alcun calcolo economico, né le corrispondenti valutazioni, se non si può disporre dell’informazione necessaria per concretizzarlo sotto forma di prezzi di mercato e, dall’altro, tale informazione sorge costantemente come conseguenza del libero esercizio della funzione imprenditoriale che in continuazione rileva le relazioni degli scambi o i prezzi di mercato del passato, e cerca di fare una valutazione e scoprire quali saranno i prezzi di mercato futuri, agendo di conseguenza e contribuendo a creare con tale azione l’effettiva formazione dei prezzi futuri. Seguendo le parole di Mises stesso, scritte nel 1922: «It is the speculative capitalists who create the data to which he has to adjust his business and which therefore gives direction to his trading operations.»34 Le considerazioni precedenti non impediscono che si debba ritenere che il lavoro pionieristico di Mises del 1920 fosse ancora ben lontano dai raffinati e depurati contributi che Hayek e lo stesso Mises avrebbero realizzato nei decenni successivi, e che sarebbero culminati con lo sviluppo dell’analisi della funzione imprenditoriale e dei processi di creazione dell’informazione che ne risultano, che già abbiamo esposto nei capitoli II e III di questo volume. D’altra parte, è necessario ricordare che il contributo iniziale di Mises era ancora molto influenzata da un ambiente marxista antecedente a cui voleva rispondere e che lo portò a evidenziare nella sua analisi tanto la necessità dell’utilizzo del denaro quanto l’esistenza di prezzi per rendere possibile il calcolo economico. Con il fine, pertanto, di situare l’articolo di Mises del 1920 nel contesto adeguato, dedicheremo il prossimo punto a studiare nel dettaglio quale fu il contesto marxista che prevaleva nel mondo accademico ed intellettuale in cui si districò Mises negli anni immediatamente precedenti il 1920 e con cui familiarizzò intimamente nel seminario che Böhm-Bawerk tenne fino al sopraggiungere della I Guerra Mondiale.

3. IL FUNZIONAMENTO DEL SOCIALISMO SECONDO MARX Non vi è dubbio che Mises abbia elaborato il suo lavoro pionieristico avendo in mente il concetto marxista del socialismo che prevaleva in Europa a inizi degli anni venti. Perciò è

32 «My thinking was inspired largely by Ludwig von Mises’ conception of the problem of ordering a planned economy ... But it took me a long time to develop what is basically a simple idea», in F.A. Hayek «The Moral Imperative of the Market», pubblicato in The Unfinished Agenda. Essays on the political economy of government policy in honour of Arthur Seldon, Institute of Economic Affairs, Londra 1986, p. 143. 33 Diversi autori sono caduti nell’errore di credere che l’argomentazione computazionale non implica l’argomentazione epistemologica e viceversa. Così, ad esempio, Chadran Kukathas, Hayek and Modern Liberalism, Clarendon Press, Oxford 1989, p. 57; Murray N. Rothbard, Ludwig von Mises: Scholar, Creator and Hero, Ludwig von Mises Institute, 1988, p. 38, e i lavori di J.T. Salerno già citati. 34 Ludwig von Mises, Socialism, pagina 121. «Sono gli imprenditori coloro che creano l’informazione secondo cui ognuno adatta i suoi affari e che, pertanto, orienta le loro operazioni commerciali.»

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necessario dedicare questo spazio per chiarire, in primo luogo, quali erano le idee che aleggiavano nell’ambiente in quell’epoca su un tema così importante. La prima questione che si deve porre è se Karl Marx avesse o meno le idee chiare su come avrebbe dovuto funzionare in pratica il sistema socialista che auspicava. Questa è una questione importante, non solo perché Mises in diverse occasioni accusò Marx e i suoi seguaci di cercare di evitare ogni analisi critica del sistema socialista semplicemente argomentando che detta analisi sarebbe irrilevante e utopica, dal momento che il socialismo sarebbe arrivato come risultato inesorabile dell’evoluzione del capitalismo stesso, ma anche perché in più lo stesso Marx considerò che, nel suo schema teorico, la speculazione minuziosa e dettagliata sugli aspetti concreti del socialismo del futuro non era «scientifica». Nonostante le precedenti affermazioni, e nonostante non vi sia dubbio che la citata posizione marxista sia stata abusivamente e sistematicamente utilizzata per evitare la discussione teorica sulle possibilità reali del funzionamento del socialismo, riteniamo che, nell’analisi critica del capitalismo che costituisce il centro dell’argomentazione marxista, si debba distinguere chiaramente, anche se in modo implicito ed embrionario, un’analisi su come, d’accordo con Marx, avrebbe dovuto nella pratica funzionare il socialismo.35 Secondo noi Marx era talmente influenzato e ossessionato dal modello di adattamento e di equilibrio ricardiano, che tutta la sua teoria cerca di giustificare un equilibrio normativo, nel senso che, secondo Marx, si deve stabilire una «organizzazione» dall’alto, imposta coattivamente dal proletariato, che metta fine alle caratteristiche tipiche del capitalismo. È necessario mettere in evidenza che, paradossalmente, e riguardo all’analisi positiva e dettagliata delle realtà economiche del sistema capitalista, Marx si concentra, principalmente, sullo studio dei disequilibri che avvengono nel mercato, di modo che la teoria marxista risulta essere, innanzi tutto, una teoria del disequilibrio che, in determinate occasioni, ha anche curiose coincidenze con l’analisi dei processi di mercato sviluppata dagli economisti della Scuola Austriaca in generale e dagli stessi Mises e Hayek in particolare. In tal modo, curiosamente, fino a un certo punto Marx capì in che modo il mercato, inteso come ordine spontaneo ed impersonale, attuasse come processo creatore e di trasmissione di informazione che rendeva possibile una certa organizzazione nella società. In effetti, in Grundrisse leggiamo: «It has been said and may be said that this is precisely the beauty and the greatness of it, this spontaneous interconnection, this material and mental metabolism which is independent of the knowing and willing of individuals, and which presupposes their reciprocal independence and indifference. And certainly, this objective connection is preferable to the lack of any connection, or to a merely local connection resting on blood ties, or on primeval, natural or master-servant relations.»36 (il corsivo è mio e non di Marx). Per di più, Marx riconosce esplicitamente il ruolo che giocano le istituzioni nel permettere l’acquisizione e la trasmissione dell’informazione pratica nel mercato e la loro importanza per la conoscenza degli agenti economici: «Together with the development of this alienation, and on the same basis, efforts are made to overcome it: institutions emerge whereby each individual can acquire

35 Siamo, pertanto, fondamentalmente d’accordo con Don Lavoie, il cui capitolo sul socialismo marxista consideriamo essere uno dei più brillanti della sua opera Rivalry and Central Planning, op. cit., Capitolo II, pp. 28 a 47. Si veda anche il libro di N. Scott Arnold, Marx’s Radical Critique of Capitalist Society. A Reconstruction and Critical Evaluation, Oxford University Press, Oxford 1990. 36 Karl Marx, Grundrisse: Foundations of the Critique of Political Economy, Random House, New York 1973, p. 161. La traduzione all’italiano potrebbe essere la seguente: «Secondo quanto si è detto, si può affermare che la bellezza e la grandezza del mercato consistono proprio nella sua spontanea interconnessione, in quello speciale metabolismo materiale e mentale che è indipendente dalla conoscenza e dalla volontà degli individui e che presuppone la loro reciproca indipendenza e indifferenza. E, certamente, questa connessione oggettiva è preferibile all’assenza assoluta di connessione, o a connessioni di tipo meramente locale basate sui legami di sangue, o su relazioni di tipo primitivo, naturale o di servitù».

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information about the activity of all others and attempt to adjust his own accordingly ... Although the total supply and demand are independent of the actions of each individual, everyone attempts to inform himself about them, and this knowledge then reacts back in practice on the total supply and demand.»37 Se Marx, dunque, condanna il mercato lo fa proprio perché lo mette in contrasto con un sistema economico «ideale» nel quale gli individui sono capaci di subordinare tutte le loro relazioni sociali ad un controllo comune di tipo centralizzato e coattivo, che si suppone renderà possibile che tutto il processo sociale sia il risultato di un’organizzazione cosciente e deliberata e non, come succede nel mercato, di un processo impersonale non pianificato né controllato coscientemente da nessuno e, pertanto, «alienante». Inoltre, questo controllo organizzato della società deve portarsi a termine tramite l’elaborazione dettagliata a priori di un piano che permetta l’organizzazione capillare di tutta la società, allo stesso modo in cui un architetto disegna in ogni dettaglio i piani dell’edificio che sta progettando prima di costruirlo: «What distinguishes the worst architect from the best of bees is this, that the architect raises his structure in imagination before he erects it in reality.»38 È dunque attraverso questo contrasto tra l’«anarchia» della produzione propria dell’ordine spontaneo del mercato e l’«organizzazione perfetta» che si suppone risulti dalla pianificazione centrale che Marx critica il capitalismo e difende il sistema socialista che, secondo lui, lo sostituirà inesorabilmente. Non è difficile notare che l’errore fondamentale di Marx risiede nel confondere i concetti di informazione pratica e informazione scientifica, da un lato, e dall’altro nel pensare che l’informazione pratica abbia un carattere oggettivo e possa essere «assorbita» dall’organo centrale di pianificazione. Marx ignora il carattere soggettivo, privato, disperso, tacito e non articolabile dell’informazione pratica, che abbiamo esposto dettagliatamente nel capitolo II di questo volume, e non si rende conto che, da un punto di vista logico, non solo è impossibile l’organizzazione centralizzata dei cambiamenti sociali, ma, inoltre, lo sviluppo e la creazione costante di nuova informazione è risultato esclusivo del processo imprenditoriale capitalista e non è riproducibile in maniera coattiva e centralizzata. Ovverosia, il sorgere di nuove tecnologie, prodotti, metodi di distribuzione, e, in generale, il generarsi di nuova informazione imprenditoriale è logicamente possibile solo attraverso il processo spontaneo di mercato che Marx tanto criticò e che è stimolato dalla forza dell’imprenditorialità. E in questo senso sorge il paradosso che, dal suo stesso punto di vista, il socialismo marxista è un socialismo utopico, poiché un’adeguata conoscenza della natura logica dell’informazione creata e utilizzata nel mercato ci porta inesorabilmente alla conclusione che è impossibile che questo, per le sue stesse forze di evoluzione e sviluppo tecnico ed economico, porti a un

37 Ibidem, p. 161. «In contemporanea allo sviluppo dell’alienazione si fanno sforzi per superarla: nascono istituzioni dove ogni individuo acquisisce informazione sull’attività degli altri, cercando di adattare la loro convenientemente ... Nonostante l’offerta e la domanda totali siano indipendenti dall’azione di ogni individuo, ciascuno tenta di informarsi sulle stesse, in modo che questa conoscenza nella pratica influisca a sua volta sull’insieme della domanda e dell’offerta». 38 Karl Marx, Capital: A Critique of Political Economy, volume I, «The Process of Capitalist Production», International Publishers, New York 1967, p. 178 (edizione italiana, Il capitale: critica dell’economia politica, Newton Compton, Roma 1976). Vale a dire, in italiano, «ciò che distingue il peggiore architetto dalla migliore delle api è che l’architetto concepisce la struttura del suo edificio nell’immaginazione prima di realizzarla nella realtà». (Esiste una traduzione spagnola di Wenceslao Roces, pubblicata in Messico dal F.C.E. nel 1946. E un’altra di Cristian Fazio stampata nell ex–Unione Sovietica, da Editorial Progreso, Mosca 1990). In altri scritti Marx è ancora più esplicito riguardo alla sua difesa della pianificazione centrale come unico mezzo per organizzare l’attività economica: «The united cooperative societies are to regulate national production upon a common plan, thus taking it under their own control and putting an end to the constant anarchy and periodical convulsions which are the fatality of capitalist production», p. 213 di «The Civil War in France: Address of the General Council», in The First International and After: Political Writings, edito da D. Fernbach, Random House, NewYork, volume III, pp. 187-268.

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ordine sociale basato sull’organizzazione centralizzata e coattiva di tutta l’informazione pratica. Proprio questo è l’errore fondamentale di Marx, al punto che tutti gli altri errori in materia economica e sociale non possono considerarsi altro che risultati o conseguenze particolari di questo essenziale errore di partenza. In tal modo, ad esempio, la sua teoria del valore lavoro non è che la naturale conseguenza di considerare che l’informazione sia qualcosa di oggettivo ed inequivocabilmente distinguibile dal punto di vista di un osservatore esterno. Noi, al contrario, sappiamo che il valore non è che un’idea o un’informazione di tipo soggettivo, disperso ed inarticolabile, ovvero, una valutazione o una proiezione della mente umana sui fattori o i mezzi economici, psicologicamente tanto più intensa quanto più l’attore pensi soggettivamente che detti mezzi gli saranno più utili per raggiungere i fini prefissati. Questa concezione erronea della teoria del valore invalida allo stesso modo tutta la teoria marxista del plusvalore o sfruttamento. Non si tratta solamente del fatto che l’analisi di Marx abbia ignorato volontariamente quei mezzi economici che, non essendo merci, non presuppongono alcun tipo di lavoro nel loro processo di elaborazione, ma anche che, come ha magistralmente evidenziato Böhm-Bawerk,39 l’analisi marxista ignora totalmente 39 Riassumendo, le argomentazioni principali contro la teoria oggettiva del valore lavoro e del suo principale corollario, la teoria marxista dello sfruttamento, sono le seguenti: In primo luogo, non è vero che tutti i beni economici sono prodotto del lavoro. Da un lato, esistono i beni della natura che, essendo scarsi e utili per raggiungere fini umani, costituiscono beni economici anche se non presuppongono alcun tipo di lavoro. D’altra parte, è evidente che due diversi beni, anche richiedendo una uguale quantità di lavoro, possono avere valore molto diverso se il periodo di tempo che ci vuole per la loro produzione è diverso. In secondo luogo, il valore dei beni è qualcosa di soggettivo, dal momento che, come abbiamo già spiegato nel secondo capitolo, il valore non è che una stima fatta dall’uomo al momento di agire proiettando sui mezzi l’importanza che ritiene abbiano per realizzare un determinato fine. Per questo, beni che presuppongano una grande quantità di lavoro possono avere un valore molto ridotto, e addirittura non valere nulla, se in seguito l’attore si rende conto che sono privi di utilità per raggiungere un qualunque fine. In terzo luogo, i teorici del valore-lavoro cadono in una contraddizione irrisolvibile e nel ragionamento circolare, dal momento che se il lavoro determina il valore dei beni economici ed è a sua volta determinato nella sua valutazione dal valore dei beni economici necessari per produrlo e mantenere la capacità produttiva del lavoratore, si va a finire ragionando circolarmente senza che si riesca a spiegare cosa determini, in ultima istanza, il valore. E, da ultimo, in quarto luogo, è evidente che coloro che difendono la teoria dello sfruttamento non conoscono evidentemente la legge della preferenza temporale e, pertanto, la categoria logica che suppone che a parità di circostanze i beni presenti hanno sempre un valore superiore ai beni futuri. Risultato di questo errore è che si pretende che al lavoratore si paghi più di ciò che produce realmente, quando argomentano che gli si riconosca, quando svolge il suo lavoro, integralmente il valore di un bene che sarà prodotto solamente dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Tutte queste considerazioni critiche verso la teoria marxista del valore sono analizzate con grande dettaglio nell’opera classica di Eugen von Böhm-Bawerk «The Exploitation Theory», in Capital and Interest, Libertarian Press, South Holland, Illinois 1959, volume I, Capitolo 12, pp. 241 a 321 (esiste una traduzione spagnola con prologo di Joaquín Reig Albiol pubblicata con il titolo La Teoría de la Explotación, Unión Editorial, Madrid 1976). Questa opera di Böhm-Bawerk è la traduzione inglese del primo volume della sua opera magna Kapital und Kapitalzins, che con il sottotitolo «Geschichte und Kritik der Kapitalzins-Theorien» fu pubblicata in quattro edizioni (1884, 1900, 1914 e 1921). Inoltre, Böhm-Bawerk scrisse un articolo inteso ad evidenziare le inconsistenze e contraddizioni in cui era caduto Marx nel tentativo di risolvere nel III volume de Il Capitale gli errori e le contraddizioni della sua teoria dello sfruttamento così come era stata inizialmente sviluppata nel I volume della stessa opera. Questo articolo si intitola «Zum Abschluss des Marxschen Systems», pubblicato nelle pp. 85 a 205 di Staatswissenschaftliche Arbeiten-Festgaben für Karl Knies zur Fünfundsiebzigsten Wiederkehr, Haering, Berlino 1896. Io ho utilizzato una traduzione inglese pubblicata con il titolo «The Unresolved Contradiction in the Marxian Economic System», Capitolo IV di Shorter Classics of Eugen von Böhm- Bawerk, volume I, Libertarian Press, South Holland, Illinois 1962, pp. 201 a 302 (esiste una traduzione spagnola di questo articolo pubblicata con il titolo «Una Contradicción no resuelta en el Sistema Económico Marxista», Libertas, n.º 12, maggio 1990, pp. 165 a 296, Buenos Aires). Nel campo marxista, solo Rudolph Hilferding (1877-1941) cercò, senza successo, di contestare le argomentazioni di Böhm-Bawerk in «Böhm-Bawerk’s Marx Kritik», pubblicato nel 1904 nel I volume dei Marx- Studien, I.Brand, Vienna. Commentando questo articolo di Hilferding, Böhm-Bawerk conclude che «nothing in it has caused me to change my opinion in any respect»,

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la categoria della preferenza temporale e il fatto che ogni azione umana, in generale, e ogni processo produttivo, in particolare, implica tempo. Marx pretende, dunque, che al lavoratore si paghi non il valore di ciò che produce, ma decisamente più di quanto produce, poiché esige che gli si paghi per intero il valore del suo apporto al processo produttivo, valutandolo però non al momento in cui ogni apporto si produce, ma in un momento successivo, in cui il processo produttivo complessivo è già stato portato a termine. E tutto ciò senza bisogno di menzionare che l’analisi del plusvalore di Marx fa cadere in un circolo vizioso incapace di fornire alcuna spiegazione. Marx credeva che lo stato socialista ideale avrebbe dovuto organizzare la società come un’«immensa industria», completamente organizzata dall’alto in forma «razionale». Solo così si eviterebbero, nella sua opinione, le inefficienze e le ridondanze proprie del sistema capitalista e, soprattutto, si potrebbe abolire tutte le relazioni di mercato in generale, e, in particolare, eliminare la circolazione di denaro inteso come mezzo di scambio. In questo modo, Marx ci dice esplicitamente che «in the case of socialized production the money capital is eliminated. Society distributes labour-power and means of production to the different branches of production. The producers may, for all it matters receive paper vouchers entitling them to withdraw from the social supplies of consumer goods a quantity corresponding to their labour-time. These vouchers are not money. They do not circulate.»40 E altrove, riferendosi di nuovo a questi buoni, Marx dice che sono «... no more money than a ticket for the theatre».41 Questa idea di Marx è quella che poi passa ai suoi discepoli, ed è diffusa nella sua versione più conosciuta da Friedrich Engels nel suo Anti-Dühring. Secondo Engels «la società non deve fare altro che calcolare quante ore di lavoro ci sono volute per una macchina a vapore, per un ettolitro di cereali dell’ultimo raccolto, o per cento metri quadrati di tessuto di una determinata qualità… La società non assegnerà un valore ai prodotti finiti; non esprimerà il fatto lampante che la produzione di cento metri quadrati di tessuto esige, ad esempio, mille ore di lavoro nella forma sciocca e equivoca con cui si fa oggi… Senz’altro, la società avrà la necessità di sapere di quanto lavoro c’è bisogno per produrre qualunque oggetto d’uso; dovrà organizzare il piano di produzione in funzione degli strumenti di produzione, primo fra tutti la forza lavoro. In ultima analisi saranno gli effetti utili dei diversi oggetti d’uso –messi in comparazione prima tra di loro e poi con la quantità di lavoro necessario a realizzarli- quelli che determineranno il piano di produzione. Il problema si risolverà semplicemente senza l’intervento del famoso “valore”.»42 È dunque nel contesto di queste tesi di Marx43 e dei suoi discepoli più si veda Capital and Interest, op. cit., volume I, pp. 472. Il proprio Otto Bauer, teorico socialista che aveva assistito, come Hilferding e Mises, al Seminario di Böhm-Bawerk, arrivò addirittura a manifestare a Mises stesso che Hilferding non riuscì neppure a capire l’essenza della critica di Böhm-Bawerk a Marx. Si veda Mises, Notes and Recollections, op. cit., p. 40. 40 «Nel caso della produzione socializzata il denaro è eliminato. In questo modo si distribuiscono il lavoro e le risorse nei diversi rami della produzione. I produttori possono, a tutti gli effetti, ricevere buoni di carta che diano loro diritto a ritirare dall’offerta sociale di beni di consumo una quantità degli stessi che corrisponda al tempo di lavoro effettuato: questi tagliandi non sono denaro. Non circolano.» Karl Marx, Capital: A Critique of Political Economy, volume II, «The Process of Circulation of Capital», International Publishers, New York 1967, p. 358. 41 «Non sono più denaro che un biglietto del teatro.» Karl Marx, Capital: A Critique of Political Economy, volume I, «The Process of Capitalist Production», op. cit., p. 94. 42 Friedrich Engels, Anti-Dühring o «La Revolución de la Ciencia» de Eugenio Dühring. Introducción al Estudio del Socialismo, Editorial Claridad, Buenos Aires, terza edizione, 1970, pp. 320-321 (ed. Italiana: Anti-Duhring, Dialettica della natura, Editori Riuniti, Roma 1974). 43 Marx considerò, inoltre, che le versioni intervenzionista e sindacalista del socialismo erano «utopiche». L’intervenzionismo, poiché tentava di mantenere la forma anarchica di produzione tipica del mercato, correggendola mediante mandati isolati provenienti dal governo finalizzati a conseguire i fini socialisti. A questo riguardo, Marx accettò pienamente le argomentazioni contrarie all’intervenzionismo della Scuola Classica di Economia e considerò che la legislazione di tipo sociale e lavorativa non avrebbe mai potuto raggiungere i suoi scopi, allo stesso modo in cui è impossibile cambiare il fatto che esiste la legge di gravità.

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vicini che si può capire l’enfasi dell’articolo di Mises apparso nel 1920 sulla necessità dell’esistenza del denaro e dei prezzi monetari per rendere possibile il calcolo economico che, insieme ad altri aspetti, commenteremo con maggiore dettaglio nel punto a seguire.

4. CONSIDERAZIONI ADDIZIONALI INTORNO AL CONTRIBUTO DI MISES La refutazione misiana di Marx La dimostrazione data da Mises del fatto che il socialismo implica un’impossibilità logica non è, dunque, solamente un’argomentazione teorica riguardo alle possibilità di sviluppo futuro del socialismo, ma in realtà presuppone, ed è molto importante ricordarlo, un azzeccato attacco frontale contro il cuore stesso dell’analisi di Karl Marx. In effetti, Mises concorda pienamente con Marx nel considerare che in uno stato di equilibrio, e supponendo che tutta l’informazione sia oggettiva e disponibile per l’organismo centrale di controllo, non ci sarebbe bisogno di denaro o di alcun mezzo di scambio. Così, Mises afferma espressamente: «Money is necessarily a dynamic factor; there is no room left for money in a static system.»44 Quindi, come abbiamo visto, l’argomentazione essenziale di I salari, pertanto, non possono essere aumentati in modo sostanziale tramite decreti ufficiali anche supponendo che lo Stato o il governo abbiano il desiderio sincero di farlo. I sindacalisti, da parte loro, sarebbero utopici poiché non sono mai stati capaci di spiegare come le diverse industrie e società indipendenti controllate dai lavoratori potrebbero riuscire a coordinare le attività in modo razionale dal punto di vista della società nel suo insieme. Marx non si rese conto del fatto che, come abbiamo dimostrato nel testo, dal suo punto di vista anche il socialismo sviluppato da lui era utopico, poiché la creazione dell’informazione necessaria per rendere possibile lo sviluppo economico, tecnologico e sociale è incompatibile con la pianificazione centrale e coattiva. 44 «Il denaro non è necessariamente un fattore dinamico; non vi è alcuno spazio per il denaro in un sistema statico.» Ludwig von Mises, Human Action, op. cit., p. 249. Inoltre, Mises considera, d’accordo con Marx, che il cosiddetto «denaro», utilizzato nell’equilibrio, non avrebbe affatto tale natura. Non che affermi, Marx, che sarebbe semplicemente un tagliando identico come funzione a quello di un ingresso per il teatro, ma piuttosto che «it is merely a numéraire, an ethereal and undetermined unit of accounting of that vague and indefinable character which the fancy of some economists and the errors of many laymen mistakenly have attributed to money». In un altro passo della sua Azione Umana, p. 417, Mises aggiunge che «it is impossible to assign any function to indirect exchange, media of exchange and money within an imaginary construction the characteristic mark of which is unchangeability and rigidity of conditions. Where there is no uncertainty concerning the future there is no need for any cash holding. As money must necessarily be kept by people in their cash holdings, there cannot be any money. The use of media of exchange and the keeping of cash holdings are conditioned by the changeability of economic data. Money in itself is an element of change; its existence is incompatible with the idea of a regular flow of events in an evenly rotating economy.» D’altro canto, l’analisi migliore che conosco sulle differenze esistenti tra il concetto di denaro in un sistema di economia di mercato e un sistema socialista si trova in Trygve J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, Liberty Press, Indianapolis 1981, Capitolo VI, «Money in the formation of prices of consumer goods in a socialist society with each choice of goods and occupation», e, in particolare, le pp. 101-115. Hoff evidenzia chiaramente che pur utilizzando lo stesso termine «denaro» nelle economie di mercato e in quelle socialiste, in realtà si sta parlando di cose radicalmente diverse, non solo perché negli stati socialisti i prezzi hanno una funzione meramente parametrica (ovverosia retrospettiva o di adeguamento e non prospettiva nel senso di inglobare e creare nuova informazione), ma perché, inoltre, nei sistemi socialisti si possono acquisire solamente beni di consumo e l’unico negozio disponibile è quello dello Stato.

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Mises non è riferita a un tanto ipotetico quanto impossibile modello di equilibrio in cui non si producono cambiamenti e tutti i disequilibri sociali scompaiono poiché sono coattivamente organizzati dall’alto da un organo centrale di pianificazione che possiede tutta l’informazione rilevante. Al contrario, per Mises, in queste circostanze impossibili da realizzarsi nella pratica, non ci sarebbe problema di calcolo economico alcuno. Il contributo essenziale di Mises consiste, precisamente, nell’aver dimostrato che è teoricamente impossibile che nel mondo reale un organo di pianificazione centrale possa organizzare coattivamente la società. In questo senso, il contributo di Mises non solo rende evidente l’impossibilità logica del socialismo, ma è anche l’argomentazione teorica definitiva contro Marx. È evidente che solo qualcuno che, come Mises, avesse una conoscenza tanto sottile e profonda di come funzionano i processi di mercato nella vita reale avrebbe potuto rendersi conto che il calcolo economico e l’organizzazione sociale fuori dal mercato non sono possibili. Nonostante ciò, è necessario chiarire che i concetti di prezzo di mercato e concorrenza che Mises utilizza e la cui assenza rende impossibile il calcolo economico fuori dal mercato non hanno niente a che vedere con i concetti di «prezzo» e «concorrenza» utilizzati dai teorici neoclassici dell’equilibrio. Per Mises, prezzo è ogni relazione storica di scambio che sorge necessariamente nel processo competitivo mosso dalla forza della funzione imprenditoriale, e non un semplice concetto parametrico che indica i termini in cui ogni alternativa debba offrirsi in funzione delle altre. Ancora più importante è che, per Mises, il termine concorrenza possiede un significato che virtualmente è proprio il contrario di quello utilizzato dalla corrente neoclassica. Mentre il cosiddetto «modello di concorrenza perfetta» si riferisce a un determinato stato di equilibrio in cui tutti gli attori si limitano passivamente a vendere il medesimo prodotto a un prezzo stabilito, per Mises concorrenza significa un processo dinamico di rivalità tra imprenditori che, più che vendere a prezzi stabiliti, prendono continuamente decisioni e iniziano nuove azioni e scambi che generano e creano nuova informazione, la quale viene plasmata o materializzata costantemente sotto forma di nuovi prezzi di mercato. Più avanti, nel capitolo dedicato a Oskar Lange, avremo l’opportunità di studiare con maggiore dettaglio le differenze esistenti tra i concetti di prezzo e concorrenza utilizzati da Mises e quelli utilizzati dagli economisti neoclassici. Ciò che ci interessa evidenziare ora è che Mises, nel suo articolo originale del 1920, incentrò la sua sfida basicamente nella visione della pianificazione centrale che era implicita nelle tesi di Marx e che abbiamo già commentato. Dal momento che Marx negò esplicitamente la necessità dell’uso di prezzi monetari, è naturale che Mises insistesse con particolare impegno sulla necessità dell’esistenza di prezzi e denaro per rendere possibile il calcolo economico. Solo più tardi, quando i socialisti che partecipavano al dibattito avranno finalmente riconosciuto la necessità dell’esistenza del denaro e dei prezzi, anche se intesi questi ultimi in senso strettamente parametrico, per rendere possibile il calcolo economico, Hayek svilupperà fino alle estreme conseguenze l’argomento, inizialmente affrontato dal suo maestro Mises, che il calcolo economico esige veri prezzi di mercato, e non semplicemente prezzi parametrici, per cui non è possibile l’esercizio dell’imprenditorialità e neppure l’aggiustamento né la coordinazione che la società esige senza l’esistenza di mercati veramente competitivi e di proprietà privata dei fattori di produzione. È necessario ripetere, comunque, che, come già abbiamo dimostrato, tutti gli argomenti esenziali di questa tesi fondamentale che posteriormente verrà depurata e perfezionata da Hayek e dallo stesso Mises, riguardo al ruolo dell’informazione o conoscenza pratica dispersa nel mercato, erano già stati sviluppati, seppure in forma embrionaria, nel contributo iniziale dato da Mises nel 1920.

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Il calcolo monetario di benefici e perdite Nella seconda parte del suo articolo del 1920, intitolata «La natura del calcolo economico», Mises distingue tre tipologie di valutazioni diverse che ogni attore o impresario può effettuare al momento di agire, e che lui chiama rispettivamente valutazioni primarie, valutazioni di consumo e valutazioni di produzione. Se le valutazioni primarie e le valutazioni di consumo sono realizzate direttamente dall’attore, mediante un calcolo in natura che richiede semplicemente comparare nella scala dei valori soggettiva di ogni attore il luogo che occupano i diversi fini e i mezzi di consumo necessari per raggiungerli, le valutazioni di produzione, al contrario, sono decisamente più complesse, specialmente in una struttura produttiva come quella moderna che si compone di una rete molto complessa di diverse tappe di produzione, interconnesse le une con le altre in modo molto complicato e presupponendo ognuna tempistiche molto diverse. In questo caso, come bene sottolinea Mises, «the mind of one man alone is too weak to grasp the importance of any single one among the countlessly many goods of higher order.»45 In effetti, le decisioni relative ai fattori di produzione sono talmente complesse da richiedere valutazioni che possono realizzarsi solo se si aggrega anche l’informazione proveniente dai prezzi monetari che risultano dal processo di mercato stesso. Il fulcro di questo processo è costituito precisamente dalle valutazioni dei benefici e delle perdite che gli impresari fanno costantemente al momento di agire nel mercato dei fattori di produzione. In effetti, ogni volta che trovano un’occasione di guadagno agiscono approfittandone, acquisendo fattori di produzione a un prezzo di mercato o costo monetario che ritengono sarà inferiore al prezzo di vendita che si otterrebbe dal bene di consumo una volta che questo sia stato prodotto. Le perdite, al contrario, indicano che è stato commesso un errore al momento di agire, e che si sono dedicate risorse alla produzione di determinati servizi e beni di consumo quando ne esistevano altri più urgenti o più importanti da produrre (quelli che generano guadagni anziché perdite). Logicamente, gli imprenditori, comprando e vendendo fattori di produzione e intraprendendo processi produttivi, non «agiscono» adattandosi semplicemente a chimerici «prezzi» di tipo parametrico, ma creano attivamente e continuamente veri prezzi di mercato in cui inconsciamente vanno aggregando l’informazione che in ogni momento generano e scoprono. Senza denaro, senza proprietà privata e senza libertà nell’esercizio della funzione imprenditoriale non è possibile generare, scoprire e trasmettere costantemente questa informazione né, pertanto, creare i prezzi di marcato che costituiscono l’elemento o la materia prima essenziale del calcolo economico che rende possibile l’organizzazione della vita nella società. La sufficienza pratica del calcolo economico Per Mises, tre sono i vantaggi del calcolo economico nel modo in cui lo vediamo realizzarsi in una economia reale di mercato. In primo luogo, il calcolo economico rende possibile che si prendano in considerazione le valutazioni degli agenti economici che intervengono nel processo sociale; in secondo luogo, il calcolo economico orienta l’azione, nel senso che indica che tipo di processi produttivi devono essere intrapresi e quali no, cosa resa possibile attraverso gli indicatori o i «segnali» che per gli imprenditori presuppongono le valutazioni di perdita e guadagno che si realizzano costantemente; e, in 45 «La mente dell’uomo è troppo limitata per poter apprezzare l’importanza di uno solo tra gli incalcolabili e molteplici fattori di produzione.» Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», in Collectivist Economic Planning, op. cit., p. 102.

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terzo luogo, il calcolo economico permette che molte delle valutazioni legate all’azione si riducano al denominatore comune delle unità monetarie. Mises ammette, e si preoccupa di sottolinearlo adeguatamente, che né il calcolo economico né la funzione del denaro sono perfetti in un’economia di mercato. Questo accade perché il denaro, come mezzo di scambio, sta costantemente modificando in diverse direzioni e in maniera imprevedibile il suo potere d’acquisto. E riguardo al calcolo economico, esistono determinati beni e servizi che non presuppongono compravendita nel mercato, essendo in pratica res extra commercium, e, pertanto, non permettono di effettuare valutazioni in termini di prezzi monetari (di fatto, tutta l’argomentazione di Mises si basa sull’analisi delle conseguenze che si avrebbero al convertire in res extra commercium tutti i beni di capitale). Inoltre, l’apparente esattezza della contabilità (finanziaria e di costi) è ingannevole, poiché le sue espressioni numeriche racchiudono e nascondono il fatto che tutte loro si basano su giudizi soggettivi di natura strettamente imprenditoriale su come evolveranno i fatti futuri. Mises illustra questa idea con l’esempio del calcolo delle quote di ammortamento che, come espressione contabile del deprezzamento, implicano sempre una valutazione di tipo imprenditoriale su quale sarà il prezzo di mercato che un domani avrà il fattore di produzione da sostituire, quando questo sarà esaurito fisica o tecnologicamente. Ma, nonostante le insufficienze e imperfezioni, il calcolo economico è l’unica guida che esiste nella società per scoprire i disequilibri che sorgono nella stessa, orientando l’azione degli esseri umani per scoprirli e riorganizzarli, rendendo con ciò possibile la vita nella società. Date le caratteristiche che possiede l’informazione pratica e dispersa che già abbiamo analizzato nel Capitolo II, non esiste alcuna alternativa al calcolo economico di mercato e, nonostante lo stesso si basi sempre su valutazioni soggettive e sull’informazione proporzionata da prezzi di mercato che non sono mai di equilibrio, permette che, come minimo, gli imprenditori evitino di considerare innumerevoli possibilità e alternative di azione che, pur essendo tecnologicamente possibili, non sarebbero economicamente adeguate. Vale a dire, il calcolo economico fa sì che le possibilità che gli imprenditori devono considerare si concentrino in un numero molto ridotto di alternative e possibilità che appaiono a priori come potenzialmente vantaggiose, semplificando così enormemente il processo decisionale dell’attore. Mises conclude affermando che «admittedly, monetary calculation has its inconveniences and serious defects, but we have certainly nothing better to put in its place, and for the practical purposes of life monetary calculation as it exists under a sound monetary system always suffices».46 Il calcolo come problema di carattere essenzialmente economico (e non tecnico) Per Mises, l’instaurazione di un regime socialista suppone l’eliminazione dell’economia razionale, giacché con ciò si rende impossibile l’esistenza di veri prezzi e di vero denaro, nel senso che entrambi hanno in un’economia reale di mercato. Nell’iniziale concezione marxista che abbiamo già studiato, secondo la quale i prezzi e il denaro dovrebbero essere aboliti, è evidente che il calcolo economico scomparirebbe completamente. Ed è a criticare questa proposta che Mises dedica gran parte del contenuto del suo articolo. Non cambia molto se, come vedremo più avanti, i socialisti, in una seconda linea di difesa, permettono l’esistenza di alcuni «prezzi» di tipo parametrico, fissati dall’autorità di

46 Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», in Collectivist Economic Planning, op. cit., p. 109. («Bisogna ammettere che il calcolo monetario ha inconvenienti e difetti seri, ma di certo non abbiamo nulla con cui sostituirlo, e nella pratica il calcolo effettuato in un sistema monetario solido è sempre sufficiente.»

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controllo, e alcune «unità monetarie» che a ben vedere sono più semplici unità di calcolo che altro, poiché in questo modo riportiamo il problema all’impossibilità che suppone il creare e trasmettere nuova informazione pratica laddove l’esercizio della funzione imprenditoriale non è libero. L’esercizio sistematico della coazione istituzionale fa sì che l’informazione non possa sorgere né trasmettersi, e perciò in nessun caso potrà concentrarsi nella «mente» dell’organo direttivo né essere utilizzata dallo stesso. Il problema che prospetta il socialismo non è, pertanto, un problema di tipo tecnico o tecnologico in cui si ritengono prestabiliti i fini e i mezzi, così come il resto dell’informazione necessaria per risolvere un mero problema di massimizzazione. Il problema che prospetta il socialismo è, d’altra parte, strettamente economico: sorge quando i fini e i mezzi sono molti, competono tra loro, la conoscenza degli stessi è dispersa nella mente di innumerevoli esseri umani e va generandosi costantemente ex novo, e, pertanto, non si possono conoscere tutte le possibilità e alternative esistenti né l’intensità relativa con cui si vogliono ottenere.47 L’ingegnere, al momento di risolvere un problema di massimizzazione, suppone sempre che esistano determinate alternative nel mercato, determinati prezzi di equilibrio, e che entrambi siano noti. Ma il problema economico è ben diverso e consiste precisamente nell’arrivare a scoprire quali sono le alternative di fini e di mezzi, così come i prezzi di mercato che si daranno nel futuro. Ovvero, consiste nell’appropriarsi dell’informazione necessaria per impostare e risolvere il problema tecnico. Il calcolo economico è una valutazione resa possibile grazie all’informazione che il processo imprenditoriale crea e genera costantemente, e se questo si impedisce con la forza, l’informazione non sorge e il calcolo economico diventa impossibile. La concentrazione imprenditoriale e il calcolo economico La tesi sviluppata da Mises può essere applicata, allo stesso modo, per analizzare il limite teorico nella crescita di qualunque «organizzazione imprenditoriale» che esiste in un’economia di mercato. In effetti, possiamo ritenere che l’impresa, nel senso di «società», non è che un’«isola organizzatrice» o di «pianificazione» volontaria all’interno del marcato,

47 La nostra concezione di «economico» non coincide, dunque, con la concezione più generalizzata di origine robbinsiana utilizzata dai teorici dell’equilibrio, e secondo cui il «problema economico» consiste nell’assegnazione di risorse che sono scarse ma conosciute a fini anch’essi prestabiliti. Per noi questo concetto dell’«economia» è limitato, di scarso interesse scientifico e riduce la nostra scienza a una semplice amalgama, ristretta e miope, di tecniche massimizzatrici. Non deve sorprendere, d’altra parte, che legioni di pseudo economisti, che altro non sono che tecnici in massimizzazione, siano incapaci di apprezzare con la scarsa strumentazione intellettuale della loro tecnica quali siano le ragioni teoriche che rendono impossibile il socialismo. Lo sviluppo della nostra scienza rimarrà zavorrato se i suoi coltivatori non saranno capaci di distinguere chiaramente le radicali differenze esistenti tra scienza e tecnica nel campo dell’economia e, col pretesto di fare scienza, si continueranno a rifugiarsi nell’area, molto più facile, comoda e sicura, nonostante le apparenze, di una tecnica scientificamente irrilevante, poiché il suo sviluppo è possibile solamente presupponendo che i problemi economici veramente interessanti (generare e scoprire l’informazione necessaria) siano già stati risolti precedentemente. Infine, dobbiamo aggiungere che, dal momento che la soluzione del problema economico può essere raggiunta solo in modo spontaneo e decentralizzato attraverso il libero esercizio dell’interazione umana o funzione imprenditoriale, per noi l’economia si trasforma in una scienza generale dell’azione umana e delle sue implicazioni (praxeologia), la cui materia prima non sono cose oggettive (beni, servizi, etc.), ma enti soggettivi di tipo spirituale (idee, stime, informazione). La concezione austriaca dell’economia come scienza non strettamente massimizzatrice (in termini statici e matematici) proviene dallo stesso Menger. In questo senso A.M. Endres arriva addirittura a far riferimento al «principio mengeriano della non massimizzazione». Si veda «Menger, Wieser, Böhm-Bawerk, and the Analysis of Economic Behaviour», in History of Political Economy, volume 23, n.º 2, estate 1991, pp. 279-299 e in particolare la nota n.º 5 al piè della p. 281.

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che sorge spontaneamente nella misura in cui i suoi promotori scoprono in un’ottica di impresa che in determinate circostanze tale sistema è il più adatto per conseguire i propri obiettivi. Ogni impresa presuppone un minimo di organizzazione e di pianificazione, attraverso cui determinate risorse economiche, umane e materiali vengono organizzate in accordo con i piani e i mandati provenienti dalla direzione. Ebbene, dal punto di vista dell’argomentazione iniziale di Mises, è evidente che la possibilità di organizzare efficacemente un’impresa si vede inesorabilmente limitata dalla dimensione della stessa: esisterà sempre una certa dimensione critica, a partire dalla quale il volume e tipo di informazione di cui avrà bisogno l’organo di gestione per dirigere efficacemente la sua impresa sarà talmente grande e complesso, che oltrepasserà di molto le sue capacità interpretative e di comprensione, per cui ogni crescita addizionale risulterebbe inefficiente e ridondante. Nei termini del calcolo economico, l’argomentazione può essere espressa affermando che in ogni impresa l’integrazione verticale avrà un limite massimo imposto dal fatto che, una volta aggregate tutte le tappe al processo produttivo imprenditoriale, spariscono dal mercato gli scambi in relazione ad alcune di esse e pertanto non sorgono i prezzi di mercato corrispondenti per alcuni dei beni di capitale. Sarà allora che i trasferimenti verticali in ogni impresa non potranno essere effettuati con l’aiuto del calcolo economico, per cui ci sarà la tendenza a commettere errori ed inefficienze di tipo sistematico che presto o tardi renderanno evidente all’imprenditore che, se non vuole rischiare la capacità competitiva della sua impresa, sarà meglio decentralizzare e non continuare con l’integrazione verticale dell’impresa stessa.48 Vale a dire, in un mercato libero non potrà mai verificarsi una completa integrazione verticale in relazione con le tappe di qualunque processo produttivo, dal momento che ciò impedirebbe che venisse portato a termine il calcolo economico necessario. Per tanto, nel mercato esiste una legge economica che stabilisce un limite massimo alla dimensione relativa di ogni impresa.49 Inoltre, possiamo affermare anche che, quanto più si fa ampia, profonda e dettagliata la divisione della conoscenza, e, pertanto, quanto più si fanno complessi i processi sociali ed economici, più difficile sarà per una impresa l’integrazione verticale e l’ampliamento della sua dimensione, dal momento che più grande sarà il volume e più elevato il grado di complessità dell’informazione che dovrebbero interpretare e utilizzare i suoi organi di

48 Come afferma giustamente Murray N. Rothbard, «if there were no market for a product, and all of its exchanges were internal, there would be no way for a firm or for anyone else to determine a price for the good. A firm can estimate an implicit price when an external market exists; but when a market is absent, the good can have no price, whether implicit or explicit. Any figure could be only an arbitrary symbol. Not being able to calculate a price a firm could not rationally allocate factors and resources from one stage to another.» Man, Economy and State. A Treatise on Economic Principles, Nash Publishing, Los Angeles 1970, volume II, pp. 547-548. 49 Questa argomentazione venne difesa nel 1934 da Fritz Machlup secondo cui, «whenever a firm (or concern) supplies the output of one of its departments as an input to another of its departments instead of selling it in a competitive market at a price established by supply and demand, the problem of artifical transfer prices or of jumbled cost-and-reserve figures arises. There may still be calculations, but not according to the economic principle of what Mises termed "economic calculations."» «Closing Remarks», in The Economics of Ludwig von Mises. Toward a Critical Reappraisal, edito da Laurence S. Moss, Sheed and Ward, Kansas City 1976, e la bibliografia citata nella p. 116. F.A. Hayek, dal canto suo, giunse a una conclusione molto simile in un altro contesto quando affermò: «To make a monopolist charge the price that would rule under competition, or a price that is equal to the necessary cost, is impossible, because the competitive or necessary cost cannot be known unless there is competition. This does not mean that the manager of the monopolized industry under socialism will go on against his instructions, to make monopoly profits. But it does mean that since there is no way of testing the economic advantages of one method of production as compared with another, the place of monopoly profits will be taken by uneconomic waste.» Si veda «Socialist Calculation II: The State of the Debate (1935)», Capitolo VIII di Individualism and Economic Order, Gateway Editions, Chicago 1972, p. 170. Incluso in Socialismo y guerra, Vol. 10, Obras Completas de F.A. Hayek, Unión Editorial, Madrid, 1998.

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gestione. Una delle conseguenze più tipiche della cosiddetta, erroneamente, «rivoluzione tecnologica» che in realtà altro non è che il semplice processo di espansione e approfondimento della divisione della conoscenza proprio delle moderne economie di mercato, è stata quella di invertire, a parità di circostanze, la tendenza alla crescita delle «economie di scala». È sempre più evidente che in molte occasioni è più redditizio investire separatamente in imprese diverse piuttosto che farlo attraverso holdig o conglomerati; e molte imprese di grandi dimensioni stanno scoprendo che possono competere con le piccole solamente cercando di incentivare e favorire il sorgere di iniziative interne di tipo imprenditoriale (intrapreneurship).50 Il fatto è che persino le potenzialità di un piccolo personal computer hanno reso obsolete innumerevoli «organizzazioni volontarie di pianificazione», molte delle quali di notevoli dimensioni, che finora erano considerate tipiche del mercato, e addirittura imprescindibili. Questa argomentazione dimostra anche che la teoria di Marx secondo cui esiste un’inesorabile tendenza all’interno del sistema capitalista che porta verso la concentrazione delle imprese è erronea: la concentrazione delle imprese non andrà oltre quel punto in cui le esigenze di conoscenza o informazione da parte dell’organo incaricato della gestione superino la sua capacità di comprensione. Se un’impresa aumenta continuamente la sua dimensione, arriverà un momento in cui si troverà in una situazione sempre più difficile, nel senso che dovrà prendere le sue decisioni sempre più «alla 50 Questa argomentazione concorda con l’analisi realizzata dal Professor Ronald H. Coase sulla natura della «società» (intesa come «organizzazione» interna di tipo volontario) e sui fattori determinanti la sua dimensione e sviluppo, in confronto all’utilizzo del sistema alternativo rappresentato da interrelazioni esterne che Coase erroneamente qualifica come relazioni basate sull’utilizzo del mercato e del sistema di prezzi. Secondo Coase, «it is easy to see when the State takes over the directions of an industry that, in planning it, it is doing something which was previously done by the price mechanism. What is usually not realized is that any businessman, in organizing the relations among his departments, is also doing something which could be organized through the price mechanism ... In a competitive system, there is an “optimum amount of planning”! ... The important difference between these two cases is that economic planning is imposed on industry, while firms arise voluntarily because they represent a more efficient method of organizing production.» «The Nature of the Firm», The Firm, the Market and the Law, The University of Chicago Press, Chicago 1988, nota n.º 14 al piè della p. 37, e anche The Nature of the Firm, Origins, Evolution and Development, ed. da Oliver E. Willisamson e Sidney G. Winter, Oxford University Press, Oxford 1991, pp. 30-31. La tesi misiana sarebbe, pertanto, complementare a quella di Coase, nel senso che l’organizzazione imprenditoriale non solo avrebbe benefici decrescenti e costi crescenti, ma, inoltre, supporrebbe un costo proibitivo non appena il mercato per determinati fattori di produzione cominciasse a scomparire. Esiste, pertanto, all’interno dei processi di mercato, una salvaguardia interna di fronte alla possibilità della sua eliminazione attraverso un’integrazione verticale volontaria, salvaguardia costituita dalla necessità vitale di ogni imprenditore di orientare la sua azione sulla base del calcolo economico. È necessario evidenziare che, secondo noi, nonostante in determinati aspetti riteniamo notevole l’analisi di Coase, riteniamo che egli non sia stato capace di oltrepassare il limite teorico che presuppone il riconoscere esplicitamente la funzione imprenditoriale. Tutta la teoria di Coase insiste ossessivamente sull’esistenza di «costi di transazione», il cui concetto presuppone che esista l’informazione necessaria per identificare e calcolare tali costi. In realtà, il problema economico non è, fondamentalmente, un problema di costi di transazione, ma un problema imprenditoriale, vale a dire, di scoperta e creazione dell’informazione necessaria, per quanto riguarda nuovi fini, come per quel che riguarda nuovi mezzi per raggiungerli. Come a dire, la teoria di Coase continua a essere una teoria statica o di equilibrio, che presuppone un quadro predeterminato di fini e mezzi e che ignora che prima del problema di «costi di transazione» viene il problema, molto più rilevante, di rendersi conto o meno dal punto di vista imprenditoriale di quali siano le direzioni più adeguate per l’azione. Ovvero, «i costi di transazione» possono non esistere se non vengono scoperti, e quelli che soggettivamente vengano ritenuti tali, possono cessare di esserlo in qualunque momento o essere modificati radicalmente se avvengono innovazioni o nuove scoperte imprenditoriali. Non si tratta, pertanto, del fatto che l’informazione sia prestabilita, ma in modo disperso o disseminato, essendo molto «costoso» riuscire a ottenerla, ma del fatto che l’informazione non è prestabilita, e se si esercita bene la funzione imprenditoriale, si può creare o scoprire costantemente nuova informazione pratica senza costo alcuno: nei processi sociali dinamici il problema economico non è rappresentato dai «costi di transazione» ma l’inefficienza-X, o, se si preferisce, il genuino errore imprenditoriale, e si risolve solamente tramite l’esercizio creativo e non coattivo della funzione imprenditoriale.

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cieca», ovverosia, senza disporre dell’informazione necessaria per scoprire e valutare le diverse alternative di produzione o corsi d’azione che potrebbero sottoporsi al suo controllo. Mancando l’aiuto dell’informazione che proporzionano i prezzi di mercato e la funzione imprenditoriale esercitata dai concorrenti, il suo comportamento sarà sempre più arbitrario e ridondante. La pianificazione centrale, pertanto, non può considerarsi il risultato inesorabile della futura evoluzione del capitalismo: la stessa evoluzione del mercato fissa un limite alla possibilità di centralizzazione di ogni impresa stabilito, precisamente, dalla capacità di assimilare informazione da parte dei suoi organi di gestione e dallo sviluppo sempre più profondo, complesso e decentralizzato della divisione sociale della conoscenza.51

5. PRIME PROPOSTE SOCIALISTE DI SOLUZIONE AL PROBLEMA DEL CALCOLO ECONOMICO

Il calcolo economico in natura L’idea che un’economia socialista potrebbe organizzarsi senza l’utilizzo del denaro può ricondursi, come abbiamo visto nella sezione precedente, a Carlo Marx. In effetti, in quel nirvana o modello di equilibrio che Marx pensa possa e debba essere forzato coattivamente dall’organo direttivo, non vi è la necessità di utilizzare il denaro, giacché si suppone di possedere tutta l’informazione e che non possano esistere cambiamenti. Basta che vengano prodotti sempre gli stessi beni e servizi, e che questi vengano distribuiti in modo uguale agli stessi individui. Quest’idea passa da Marx a Engels, e da lì a una serie di teorici che, in modo più o meno esplicito, considerano che il calcolo economico non dovrebbe presentare alcun problema anche se il denaro non esistesse.52

51 Si chiude così il circolo della refutazione teorica di Marx. Questa refutazione si inizia cronologicamente con l’analisi critica di Böhm-Bawerk sulla teoria marxista del plusvalore o dello sfruttamento e la teoria oggettiva del valore–lavoro, che mise in evidenza l’inanità dell’analisi critica marxista contro il capitalismo. Il circolo si chiude con il contributo di Ludwig von Mises, che rappresenta un proiettile demolitore e definitivo contro Marx, all’evidenziare che il sistema alternativo socialista è teoricamente impossibile poiché al suo interno non è possibile il calcolo economico, contributo da cui si deduce anche, come importante sottoprodotto o corollario, la dimostrazione che è falsa la teoria marxista sul processo di concentrazione capitalista. 52 Tra gli autori che ritennero possibile il calcolo economico in una economia senza denaro è necessario evidenziare Karl Ballod, N. Bucharin, Otto Neurath, Carl Landauer e A.B. Tschayanoff. In generale, l’idea di questi autori è che lo stato dovrebbe definire le necessità di ogni cittadino in funzione di criteri «oggettivi» stabiliti dai tecnici (biologi, agronomi, etc.). In seguito, il corrispondente dipartimento o istituto di statistica dovrebbe pianificare quanti beni di consumo (scarpe, pantaloni, camicie, etc.) si dovrebbero produrre nell’arco di tempo di un anno. Questi beni di consumo sarebbero poi distribuiti in modo identico tra i cittadini. Le opere principali degli autori socialisti che difesero il calcolo in natura, oltre a quella già citata di Otto Neurath Durch die Kriegswirtschaft zur Naturalwirtschaft, e la sua Wirtschaftsplan und Naturalrechnung: von der sozialistischen Lebensordnung und von kommenden Menschen, Laub, Berlino 1925, sono le seguenti: Alexander Tschayanoff, «Zur Frage einer Theorie der Nichtkapitalistischen Wirtschaftssysteme», pubblicata in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik 1923, n.º 51, pp. 577 a 613; N.I. Bukharin e E. Preobrazhensky, The ABC of Communism: A Popular Explanation of the Program of the Communist Party of Russia, University of Michigan Press, Ann Arbor 1966; Karl Ballod, Der Zukunftsstaat: Wirtschaftstechnisches Ideal und Volkswirtschaftliche Wirklichkeit, la quarta edizione pubblicata a Berlino, Edit. Laub 1927; e, da ultimo, Carl Landauer, Planwirtschaft und Verkehrswirtschaft, Duncker & Humblot, Monaco 1931. Una descrizione dettagliata delle proposte di questi autori si può trovare in Trygve J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, op. cit., pp. 50 a 80. A proposito dell’economista Karl Ballod e la sua influenza sulle origini della pianificazione in Unione Sovietica, si possono consultare le pp. 12 e 13 dell’opera Les Economies Socialistes, di François Seurot, Presses Universitaires de France, Parigi 1983. L’opera di Ballod fu pubblicata in russo in 6 edizioni tra il 1903 e il 1906, e i suoi principi furono seguiti da

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Il problema delle proposte di effettuare il calcolo economico in natura è, indipendentemente dal fatto che sia impossibile che l’informazione necessaria possa essere disponibile per l’organo di coazione centrale, semplicemente che non è possibile effettuare alcun calcolo, né di addizione né di sottrazione, tra quantità eterogenee. In effetti, se l’organo direttivo decide di consegnare, ad esempio, in cambio di una determinata macchina, 40 maiali, 5 tonnellate di farina, 1 tonnellata di burro e 200 uova, come può sapere se non sta consegnando, dal punto di vista delle proprie valutazioni, più di quanto dovrebbe? O, per dirla in altro modo, sarebbe possibile per l’ organismo di controllo ottenere fini di maggior valore qualora dedicasse quelle risorse a altri rami di attività? A loro discolpa, forse, il fatto che al principio i teorici socialisti non furono capaci di comprendere il problema insolubile che suppone per il socialismo il carattere soggettivo, disperso ed inarticolabile dell’informazione, ma ciò che non si può certo perdonare è che siano caduti nell’errore grossolano di pensare che si sarebbero potuti effettuare calcoli razionali senza utilizzare come comune denominatore alcuna unità monetaria. D’altra parte, il problema che suscita il calcolo in natura non riguarda solo le decisioni relative alla produzione, ma si fa anche sentire a proposito delle decisioni riguardanti la distribuzione dei beni e dei servizi di consumo. Il fatto è che esistono molteplici beni e servizi di consumo che non possono essere divisi in parti uguali tra ciascuno dei cittadini, per cui è assurdo pensare a un sistema di assegnazione che non utilizzi unità monetarie.53 Possiamo pertanto concludere applicando ai teorici socialisti che considerarono possibile il calcolo in natura il seguente ironico commento di Mises su Landauer: «Landauer cannot understand that –and why– one is not permitted to add and substract figures of different denominations. Such a case is of course beyond help.»54 Nonostante le argomentazioni precedenti, non dobbiamo lasciarci prendere dall’erronea impressione che il motivo fondamentale per cui è impossibile il calcolo economico in natura consista nell’impossibilità di addizionare, sottrarre e in generale operare con quantità eterogenee. Il cuore dell’argomento fondamentale per cui è impossibile il calcolo economico senza utilizzare prezzi di mercato e denaro è quello che abbiamo già descritto nel dettaglio nel capitolo III e che si basa sul carattere soggettivo, disperso ed inarticolabile della conoscenza pratica umana. Dunque non si tratta del fatto che, anche qualora la conoscenza umana non avesse queste caratteristiche, sarebbe impossibile calcolare economicamente in natura non potendo fare operazioni con quantità eterogenee, ma piuttosto è vero il contrario: anche qualora un essere ipotetico avesse la capacità di effettuare tali calcoli in natura, continuerebbe comunque a sussistere l’impossibilità logica vicino da Krjijanovskij quando Lenin gli incaricò la missione di elaborare il Piano di Elettrificazione (Piano Goelro) nel 1920. Su Karl Ballod (1864-1933), che prese lo pseudonimo di Atlanticus, dall’opera Nova Atlantis (1627) di Francis Bacon, si può consultare con profitto l’opera di Juan Martínez-Alier Ecological Economics, op. cit., pp. 199-205. Le conclusioni di Martínez-Alier non tengono in considerazione, comunque, l’essenza dell’imprenditorialità spiegata nei Capitoli II e III, e neppure in che modo le risorse naturali sono particolarmente compromesse laddove la funzione imprenditoriale non può agire libera da intralci istituzionali, dal momento che non si creava l’informazione necessaria per prendere decisioni adeguate sulle stesse. In questo senso si veda il mio «Derechos de Propiedad y Gestión Privada de los Recursos de la Naturaleza», in Cuadernos del Pensamiento Liberal, op. cit. 53 Lo stesso teorico socialista Karl Kautsky ridicolizzò le idee di Neurath sul calcolo in natura e concluse che «it is obvious that bookkeeping in natura would soon lead to inextricable chaos.» Citato da T.J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, op. cit., p. 79. Hoff, inoltre, dimostra con grande precisione che non è possibile nessuna delle proposte di distribuzione in natura di beni e servizi di consumo presentate dai vari teorici socialisti (e di cui arriva a considerare addirittura 8 versioni diverse divise in due grandi gruppi). Si vedano le pp. 54 a 70 dell’opera citata. Anche l’economista russo Boris Brutzkus, da parte sua, ritenne assurde le proposte di Bukharin e Tschayanoff riguardo alla possibilità di effettuare calcoli economici in natura (Economic Planning in Soviet Russia, op. cit., p. XVII). 54 Ludwig von Mises, Socialism, op. cit., nota al piè della pagina 119. «Landauer non riesce a capire perché è impossibile sommare e sottrarre quantità eterogenee. Stando così le cose, è impossibile continuare ad aiutarlo.»

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che lo stesso riuscisse ad assimilare tutta l’informazione necessaria. La tesi dell’informazione è, pertanto, la tesi essenziale, e quella della difficoltà del calcolo in natura è una tesi senz’altro potente, ma di carattere sussidiario. Il calcolo economico in ore lavorative Il fatto che Marx abbia adottato la teoria oggettiva del valore–lavoro spiega il motivo per cui diversi teorici socialisti abbiano considerato naturale cercare di risolvere il problema che stiamo trattando attraverso il calcolo in ore lavorative. Nonostante questa «soluzione» sembri condurci direttamente alla polemica sulla teoria oggettiva versus la teoria soggettiva del valore, tuttavia, l’analisi sulla possibilità di effettuare il calcolo economico in ore lavorative è indipendente dalla posizione che si adotti su quale sia la teoria corretta del valore (oggettiva o soggettiva). La soluzione proposta dai sopraccitati teorici, enunciata in breve, consiste nel fatto che l’organo dirigente segua la traccia del numero di ore di lavoro di ciascun lavoratore. In seguito, ciascun lavoratore riceverà dall’organo di controllo un determinato numero di buoni, che corrisponderanno al numero di ore lavorate e che potranno essere utilizzati per ottenere in cambio una predeterminata quantità dei beni e servizi di consumo prodotti. La distribuzione del prodotto sociale sarà effettuata stabilendo un registro statistico del numero di ore lavorative richieste dalla produzione di ciascun bene e servizio, assegnando questi ultimi a quei lavoratori disposti a consegnare in cambio i corrispondenti buoni rappresentanti le ore lavorative corrispondenti a ognuno. In questo modo, ogni ora lavorativa darebbe diritto a ottenere l’equivalente in beni e servizi prodotti durante la stessa. È evidente che i buoni non sono denaro, e che non esistono prezzi di mercato per i beni e i servizi, vale a dire, relazioni di scambio stabilite volontariamente da parte di compratori e venditori, dal momento che la proporzione in cui si assegnano beni e servizi in cambio dei buoni è stabilita in funzione del numero di ore lavorative che esige la produzione di ciascun bene.55

55 Il procedimento del calcolo economico in ore lavorative descritto nel testo fu enunciato in precedenza nelle sue linee fondamentali da Karl Marx in Crítica del Programa de Gotha (pubblicata nell’ex Unione Sovietica con lo stesso titolo, Edit. Progreso, Mosca 1977, in particolare le pp. 16-17), quando scrisse: «La Società gli consegna un buono che attesta che ha venduto una tale quantità di lavoro (dopo aver sottratto la quantità di lavoro per il fondo comune),e con questo buono ritira dai depositi sociali di mezzi di consumo la parte equivalente alla quantità di lavoro che ha reso. La stessa quota di lavoro che ha dato alla società sotto una forma, la riceve da quest’ultima sotto una forma diversa.» L’autore che con maggiore convinzione difese la possibilità del calcolo economico in ore lavorative fu Otto Leichter nel suo libro Die Sprengung des Kapitalismus: Die Wirtschaftsrechnung in der Sozialistischen Gesellschaft, Edit. Verlag der Wiener Vollsbuchhandlung, Vienna 1923. Paradossalmente, il libro di Leichter include una critica molto severa alle proposte del calcolo in natura. Le idee di Leichter furono posteriormente sviluppate e depurate da Walter Schift in Die Planwirtschaft und ihre ökonomische Hauptprobleme, Berlino 1932. La soluzione di Leichter fu specificamente contestata da Mises nel suo articolo «Neue Beiträge zum Problem der Sozialistischen Wirtschaftsrechnung», pubblicato in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, n.º 51, 1924, pp. 488 a 500. Esiste un articolo in inglese che commenta il contenuto di questo lavoro di Mises scritto da William Keizer con il titolo «Two Forgotten Articles by Ludwig von Mises on the Rationality of Socialist Economic Calculation», pubblicato in The Review of Austrian Economics, volume I, Lexington Books, Massachusetts 1987, pp. 109 a 122. In questo lavoro il secondo articolo di Mises che si commenta è «Neue Schriften zum

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D’accordo con Mises, il calcolo economico in ore lavorative presenta due problemi insolubili di tipo specifico. In primo luogo che, anche all’interno della stessa teoria oggettiva del valore–lavoro, non può essere applicato il criterio proposto di calcolare utilizzando dette ore in relazione con tutti quei processi produttivi in cui si utilizzino risorse naturali che non siano riproducibili. In effetti, è evidente che non sarà possibile attribuire alcun numero di ore lavorative a quelle risorse naturali (ad esempio il carbone) che, permettendo di raggiungere determinati scopi, sono economicamente scarseggianti e non possono essere create utilizzando ore lavorative. Vale a dire che, non potendosi utilizzare il lavoro per creare queste risorse, non si possono considerare ore lavorative per effettuare il calcolo economico necessario che esigerebbe decisioni non arbitrarie in relazione alle stesse. Ma la verità è che esiste anche una seconda argomentazione specifica contro il calcolo economico in ore lavorative. Questa argomentazione si basa sulla considerazione che l’ora lavorativa non è una quantità uniforme ed omogenea. In effetti, non esiste un «fattore lavoro», ma innumerevoli tipi, categorie e classi diverse di lavoro che, in assenza del denominatore comune costituito dai prezzi monetari stabiliti nel mercato per ogni tipologia di lavoro, non possono essere addizionate o sottratte a causa del loro carattere essenzialmente eterogeneo. Non si tratta solo del fatto che alcuni lavoratori siano decisamente più efficienti di altri, e che l’efficacia del lavoro di ogni singolo lavoratore possa variare a seconda del momento, le circostanze e le condizioni in cui si sviluppa, ma anche che le tipologie di servizi che proporziona il fattore lavoro sono talmente varie e vanno modificandosi con tanta frequenza che, di fatto, costituiscono classi assolutamente eterogenee che presentano un problema identico a quello che già abbiamo analizzato nella sezione precedente riguardo al calcolo economico in natura, e che si basa sull’impossibilità di utilizzare nei calcoli quantità di tipo eterogeneo. La dottrina tradizionale marxista ha preteso di far fronte a questo problema cercando di riassumere le diverse tipologie di lavoro nel cosiddetto «lavoro semplice socialmente necessario». In realtà, tale riduzione delle ore delle diverse tipologie di lavoro alle ore di lavoro più semplice si può effettuare solamente se esiste un processo di mercato in cui le une e le altre sono scambiate a un prezzo determinato dai diversi agenti economici. In assenza di questo processo di mercato, ogni giudizio comparativo sulle diverse tipologie di lavoro sarà arbitrario, e ciò implicherà necessariamente la scomparsa del calcolo economico razionale. Il problema consiste, dunque, nel fatto che non è possibile ridurre le diverse tipologie di lavoro ad un denominatore comune senza l’esistenza previa di un processo di mercato. Il fatto è che il problema che suscita il ridurre ore lavorative eterogenee a un’unità comune è solamente un caso particolare del problema più generale, che abbiamo già commentato, che suscitava il calcolo in natura e che consisteva nell’impossibilità di ridurre fattori eterogenei di produzione a una unità comune. Infine, dobbiamo ripetere, come nel caso precedente, che nonostante si potesse concepire la soluzione dei due problemi specifici citati (calcolo economico in relazione alle risorse naturali non riproducibili e impossibilità di trovare un denominatore comune per le ore lavorative), continuerebbe a sussistere il problema fondamentale, ovvero il fatto che non è possibile che l’organismo di pianificazione riesca ad assimilare tutta l’informazione pratica rilevante che si trova dispersa nella mente dei milioni di agenti che costituiscono la società.

Problem der Sozialistischen Wirtschaftsrechnung», pubblicato nella stessa rivista (volume 60, 1928, pp. 187 - 190) e in cui Mises analizza i contributi di J. Marschak, Otto Neurath e Boris Brutzkus.

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Il calcolo economico in unità di utilità Da ultimo, diversi autori socialisti che, basandosi sulle argomentazioni avanzate da Mises, capirono l’impossibilità di effettuare il calcolo in ore di fattore lavoro pensarono che il problema potesse risolversi utilizzando come unità di calcolo le «unità dell’utilità».56 In realtà, questa proposta è forse ancora più assurda di quella relativa al calcolo economico in ore lavorative. L’utilità è un concetto strettamente soggettivo, risultato della valutazione realizzata da ciascun individuo su ciascuna unità di mezzo di cui dispone nel contesto di ogni azione concreta in cui si vede implicato. Non è necessario misurare l’utilità, è sufficiente confrontare quella derivata da diversi corsi di azione al momento di prendere una decisione. E non è neppure necessario osservare l’utilità nei diversi individui (ciò esigerebbe che potessimo introdurci nelle menti delle persone e fonderci con le loro personalità, valutazioni ed esperienze). L’utilità, pertanto, non può essere osservata, apprezzata né misurata da nessun organismo centrale di coazione. Inoltre, neppure l’uomo che agisce, al momento di prendere le sue decisioni, «misura» l’utilità, ma effettua semplicemente comparazioni tra l’utilità che crede gli proporzioneranno le diverse alternative. I prezzi di mercato, d’altra parte, non esprimono equivalenze né misurano utilità,57 ma sono semplicemente relazioni storiche di intercambio che dimostrano che vennero fatte valutazioni soggettive diverse e in senso contrario tra le parti che intervennero negli scambi, rendendoli possibili. È inevitabile concludere che il problema che solleva il tentativo di usare l’utilità come unità per il calcolo economico è insolubile, non solo perché l’utilità non può essere percepita, ma anche perché non esiste unità o denominatore comune di utilità intersoggettiva che possa essere misurato ed utilizzato nella pratica del calcolo economico. Il concetto di utilità è talmente soggettivo ed elusivo che l’argomentazione contro la possibilità di effettuare un calcolo economico basandosi su unità di utilità ci porta nuovamente all’argomento base fondamentale, ovverosia, all’impossibilità che l’organismo centrale di coazione possa assimilare l’informazione pratica necessaria che si trova dispersa nelle menti di tutti gli agenti economici e che in ogni momento si plasma in una serie interminabile e sempre mutabile di valutazioni personali o giudizi di utilità su fini e mezzi.58 56 Stanislav Strumilin (1877-1974), negli articoli pubblicati in Ekonomitscheskaja Shishni, n.i 237, 284 e 290 (23 ottobre, 17 dicembre e 24 dicembre 1920, rispettivamente), affermò che non riteneva possibile il calcolo economico utilizzando ore lavorative, se questo concetto non si completava con l’uso di unità di utilità. Una spiegazione dettagliata del suo sistema di calcolo economico, abbandonato da Lenin quando questi reintrodusse il mercato e il denaro nella fase della N.E.P., si può consultare nell’articolo di M.C. Kaser su Strumilin pubblicato in The New Palgrave. A Dictionary of Economics, op. cit., volume IV, p. 534. Boris Brutzkus, nella sua opera già citata, criticò con dovizia di dettagli la possibilità di effettuare il calcolo economico in unità di utilità. Da parte sua, anche Karl Kautsky affermò con veemenza l’impossibilità del calcolo economico in ore lavorative, considerando imprescindibile per renderlo possibile, iniziare dai prezzi storici di mercato esistenti prima che si stabilisse l’economia di tipo socialista (forse come via indiretta per raccogliere le relazioni di utilità). Si veda la sua opera Die Proletarische Revolution und ihr Programm, Editorial Dietz Nachfolger, Berlino 1922. La proposta di Kautsky venne ribattuta abbondantemente dall’articolo di Mises pubblicato in Archiv nel 1924 e che abbiamo citato nella nota precedente. 57 «Todo necio, /confunde valor y precio.», Antonio Machado «Proverbios y Cantares» LXVIII, Poesías Completas, Edizione Critica di Oreste Macrí, Espasa Calpe, Madrid, volume I, p. 640 e anche p. 820. 58 Uno studio brillante sui diversi autori che in lingua tedesca cercarono di rispondere alla sfida di Mises e che, in maggior parte, abbiamo citato nelle note precedenti, è stato recentemente pubblicato da Günther K. Chaloupek, «The Austrian Debate on Economic Calculation in a Socialist Economy», History of Political Economy, volume 22, n.º 4, inverno 1990, pp. 659-675, e, in particolare, tutta la bibliografia lì citata. La polemica in lingua tedesca sul calcolo economico, meno conosciuta di quella che in seguito si sviluppò nel mondo anglosassone, si completa con le opere che appoggiarono decisamente la posizione di Mises e che Chaloupek non cita. Si veda in particolare Max Weber, «Wirtschaft und Gesellschaft», in Grundriss der Sozialökonomie, volume

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III, Tubinga 1922, pp. 45-59; Adolf Weber, Allgemeine Volkswirtschaftslehre, 4ª edizione, Monaco e Lipsia 1932, volume II, p. 369; C.A. Verrijn Stuart, «Winstbejag versus behoeftenberrediging», Overdruk Economist, volume 76, n.º 1, pp. 18 e ss.; e Pohle-Halm, Kapitalismus und Sozialismus, 4.ª edizione, Berlino 1931, pp. 237 e ss.

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CAPITOLO V

L’ILLECITA DEVIAZIONE DEL DIBATTITO VERSO LA STATICA: I CONCETTI DI SIMILITUDINE FORMALE E LA COSIDDETTA «SOLUZIONE MATEMATICA»

In questo capitolo ci prefiggiamo di spiegare come, dopo la provocazione iniziale di Mises, i socialisti che parteciparono al dibattito cercarono immediatamente di concentrare i propri sforzi nel tentativo di trovare una soluzione al problema che, in termini prettamente statici, avrebbe comportato il socialismo. Questo sforzo non era assolutamente necessario e, pertanto, riteniamo «illecita» questa deviazione dei teorici socialisti verso la statica, dal momento che Mises stesso aveva già sottolineato che, in termini statici, il socialismo non comportava alcun problema per il calcolo economico. Cercheremo di spiegare a che cosa può essere dovuto un così grave errore di interpretazione da parte dei socialisti riguardo a quale fosse il punto in discussione. In concreto, analizzeremo gli effetti nefasti che ebbero sul dibattito in questione sia il paradigma dell’analisi economica del mercato in stato di equilibrio sia le argomentazioni sviluppate per evidenziare la similitudine formale esistente, in termini prettamente statici, tra il mercato e il modello socialista. Poi analizzeremo la «soluzione matematica» proposta in diverse varianti dai teorici socialisti, e termineremo con l’analisi della risposta che Mises, Hayek e Robbins diedero a tutto questo insieme di tentativi di «soluzione». 1. LE TESI DI SIMILITUDINE FORMALE Nel capitolo precedente abbiamo visto come l’ala più trita della tradizione socialista abbia sostenuto ingenuamente che all’interno del socialismo si sarebbe potuto prescindere dalle categorie economiche di valore e di interesse, che erano state scoperte e studiate per le economie di tipo capitalista da parte dei teorici della Scuola Classica. Di fronte a questo atteggiamento, diversi economisti si affrettarono a dimostrare che anche all’interno di un regime economico di socialismo ideale, in cui tutta l’informazione fosse disponibile e non si producessero cambiamenti (modello di equilibrio), esisterebbero comunque le categorie basilari di valore e di interesse. Questa posizione, che in un primo momento fu enunciata in termini logico–verbali e, in seguito, in termini matematici con un alto livello di formalizzazione, ebbe dunque origine per il desiderio di impressionare i teorici socialisti che ingenuamente avevano creduto possibile prescindere dalla categoria di valore. E però, se per dimostrare che anche in una situazione di equilibrio il sistema comunista ideale doveva comunque mantenere le categorie basilari di valore e di interesse si faceva la concessione teorica di considerare il problema economico fondamentale (vale a dire, quello di riuscire a ottenere tutta la informazione necessaria) come un dato di fatto, ciò ebbe come conseguenza l’illecita deviazione del dibattito verso un’area, quella della statica, in cui questo stesso dibattito non aveva alcun senso, comportando con ciò una grande confusione, non solo tra i partecipanti al dibattito, ma anche tra coloro che posteriormente ne analizzarono e valutarono il contenuto e le principali conclusioni. Effettivamente, se si supponeva che nei modelli di equilibrio, formalizzati o meno matematicamente, tutta l’informazione si trovasse disponibile e fosse addirittura immutabile, ciò portava quasi inevitabilmente ad affrontare il problema del calcolo economico socialista come un problema meramente algebrico o computazionale che consisteva semplicemente nel trovare un procedimento pratico che permettesse di portare a

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termine la soluzione matematica dei sistemi di equazioni corrispondenti. In questo modo, la tesi di similitudine formale, concepita originariamente per confutare i teorici socialisti, venne in seguito utilizzata da questi ultimi per ovviare al problema economico fondamentale che presupponeva il socialismo (ovvero, come poteva essere possibile che l’organo di pianificazione centrale potesse ottenere tutta l’informazione necessaria che nella realtà si trova disseminata nella mente di milioni di agenti economici). Si incappa così nell’errore di credere che il problema consista solamente nella difficoltà pratica di risolvere numerosi e complessi sistemi di equazioni, senza che però si arrivi a comprendere che il socialismo di per sé comporta comunque specifici problemi di impossibilità teorica. Per tanto, questo fenomeno mette perfettamente in evidenza come il grande pericolo dell’applicazione del metodo matematico in economia stia nel fatto che lo stesso metodo matematico nasconde, anche alle menti più brillanti, quali siano i problemi economici davvero rilevanti.1 Le tesi di similitudine formale di Eugen von Böhm-Bawerk e Friedrich von Wieser Il 1889 è stato probabilmente un anno fondamentale per quanto riguarda le tesi di similitudine formale. Effettivamente, in quell’anno vede la luce il libro di Friedrich von Wieser dal titolo Der Natürliche Wert (Valore naturale), uno dei cui obiettivi fondamentali era dimostrare che, anche in una comunità o in uno stato la cui organizzazione economica fosse organizzata seguendo i principi del comunismo, i beni economici non avrebbero cessato di avere valore. Per Wieser le leggi elementari del valore sono, pertanto, indipendenti dal contesto istituzionale e sociale considerato, e per ciò dovrebbero essere tenute in considerazione anche in qualunque sistema di tipo socialista. L’analisi di Wieser è un’analisi di equilibrio che rende evidente come la logica della scelta che le è propria deve essere identica tanto in un sistema di mercato come in un sistema socialista. È proprio questa la tesi della similitudine formale tra i due sistemi.2 1 Nonostante per Mises l’utilizzo del metodo matematico sia devastante, a prescindere da in quale area della scienza economica venga applicato, il problema del calcolo economico fu forse quello che più chiaramente gli permise di rendersi conto di come il metodo matematico ignori semplicemente i processi di mercato e nasconda il problema teorico fondamentale del socialismo che consiste in come possa organizzarsi la società se viene impedito il libero esercizio dell’imprenditorialità; e tutto ciò ci fa capire perché con tanto ardore e tanta fermezza abbia affermato che «the mathematical method must be rejected not only on account of its barrenness. It is an entirely vicious method, starting from false assumptions and leading to fallacious inferences. Its syllogisms are not only sterile; they divert the mind from the study of the real problems and distort the relations between the various phenomena.» Ludwig von Mises, Human Action, op. cit., p. 350. 2 Friedrich von Wieser, Der Natürliche Wert, Ed. A. Hölder, Vienna 1889. Esiste una traduzione inglese di C. A. Malloch pubblicata con il titolo Natural Value da Augustus M. Kelley, New York, 1971. Nella p. 60 di questa edizione leggiamo: «Even in a community or state whose economic affairs were ordered on communistic principles, goods would not cease to have value... That value which arises from the social relation between amount of goods and utility, or value as it would exist in the communist state, we shall henceforth call “Natural Value”». Dopo aver letto questo libro con particolare attenzione, ritengo che il concetto di «valore naturale» di Wieser sia assurdo e fantasmagorico. Si tratta di un concetto di valore applicabile solamente a un ipotetico modello di equilibrio che nella realtà non può esistere. Questo porta Wieser all’errore di credere che il valore sia qualcosa di oggettivo e a ritenere possibile il confronto interpersonale delle utilità. Wieser avrebbe potuto evitare questo e altri gravi errori nel suo libro se, maggiormente in linea con la vera tradizione «austriaca» iniziata da Menger, avesse affiancato alla sua analisi lo studio dei processi dinamici del marcato e non un fantasmagorico modello di equilibrio. Mises dunque critica energicamente Wieser per aver abbandonato e tradito il paradigma iniziato da Menger focalizzato nello studio, a carattere generale e di interrelazione, dei processi di mercato, concludendo che Wieser «was not a creative thinker and in general was more harmful than useful. He never really understood the gist of the idea of subjectivism in the Austrian School of thought, which limitation caused him to make many unfortunate mistakes. His imputation theory is untenable. His ideas on value calculation

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In quello stesso anno 1889, Eugen von Böhm-Bawerk, nel secondo volume della sua opera magna Capitale e Interesse, sviluppa una tesi molto simile a quella di Wieser ma riferita alla categoria dell’interesse. Per Böhm-Bawerk l’interesse è una categoria economica fondamentale che dovrà essere presente in qualunque sistema economico, tanto capitalista che comunista. Di modo che il tanto criticato concetto di «plusvalore» o «sfruttamento», proprio del sistema capitalista, lungi dallo scomparire in un regime di tipo socialista, dovrà essere comunque mantenuto dal suo Stato o organo di controllo, dal momento che in nessun sistema economico è possibile prescindere dalle categorie di preferenza temporale e di interesse.3

Nonostante questi contributi avessero l’obiettivo di rendere evidente che le categorie di valore e di interesse avrebbero dovuto esistere necessariamente anche all’interno di un regime socialista, poiché Wieser, e in misura minore anche Böhm-Bawerk, si era basato su argomentazioni di equilibrio in cui si presupponeva che tutta l’informazione necessaria fosse disponibile, ciò diede adito a che il loro punto di vista fosse inglobato senza grosse difficoltà all’interno del paradigma neoclassico focalizzato sull’equilibrio, per il quale il problema del calcolo economico socialista era percepito solamente come un problema di tecnica operativa per risolvere un enorme numero di equazioni. Ciononostante, a discolpa dei succitati autori austriaci è necessario ammettere che per lo meno furono coscienti del fatto che il modello da loro utilizzato era molto difficile, se non impossibile, da realizzarsi nella pratica.

justify the conclusion that he could not be called a member of the Austrian School, but rather was a member of the Lausanne School (Léon Walras et al and the idea of economic equilibrium)». Ludwig von Mises, Notes and Recollections, op. cit., p. 36. Questa deviazione di Wieser viene completamente ignorata da Mark Blaug nel commento a seguire in cui, d’altra parte, in modo brillante e conciso tratteggia la nota differenziale più caratteristica della Scuola Austriaca: «The Austrians at one and the same time rejected Marshall’s partial equilibrium analysis and the kind of economics that Walras advocated, which was, in the first place, an economics explicitly formulated in mathematical terms and, in the second place, an “end-state” rather than a “process” economics, that is, one that focused attention on the nature of equilibrium outcomes and not of the process by which equilibria are attained. The Austrians had no sympathy for Walras’ analysis of the existence and uniqueness of multimarket equilibrium in terms of the metaphor of simultaneous equations and even less for his discussions of multimarket equilibrium in terms of price adjustments to net excess demand. Indeed all the Austrians, including Wickstead and Robbins, eschewed the very notion of a determinate theory of pricing and underlined discontinuities and indivisibilities, being perfectly content with a general tendency toward equilibrium that is never in fact completely realized.» Mark Blaug, «Comment on O’Brien’s “Lionel Robbins and the Austrian Connection”», in Carl Menger and His Legacy in Economics, Bruce J. Caldwell (ed.), op. cit., p. 186. Non possiamo esimerci dal commentare brevemente che ha fatto molto clamore la recente conversione di Mark Blaug che, dopo aver disdegnato olimpicamente la Scuola Austriaca, ha abiurato il modello di equilibrio generale e il paradigma neoclassico-walrasiano, concludendo che «I have come slowly and extremely reluctantly to view that they (La Scuola Austriaca) are right and that we have all been wrong». Appraising Economic Theories, Blaug y de Marchi (ed.), Edward Elgar, Londra 1991, p. 508. E, anche se meno categorico, il suo Economics Through the Looking Glass, Institute of Economic Affairs, Occasional Paper 78, Londra 1988, p. 37. Si veda anche, The Economic Journal, Nov. 1993, p. 1571. 3 Abbiamo già riportato la tesi di Böhm-Bawerk contro la teoria marxista dello sfruttamento, riassunta ampiamente nella nota 39 del Capitulo IV. Concretamente, Böhm-Bawerk conclude: «Income from capital is today reviled by the socialists as an exploitational gain, a predacious deduction from the product of labor. But it would not disappear under socialism. On the contrary, the socialistically organized state would itself be the one to maintain it in full force as against the workers - and it would be compelled so to maintain it ... Nothing in the world can or will change the fact that possessors of present goods, when they exchange them for future goods, obtain an agio ... Interest is proven to be an economic category which arises from elemental economic causes and hence will appear everywhere, irrespective of the type of social or juridical organization, provided there exists an exchange of product for future goods»; pp. 345 e 346 di Positive Theory of Capital, volume II di Capital and Interest, op. cit., epigrafe 5 («Interest under Socialism»).

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Concretamente, nel 1914 Wieser giunse addirittura a intuire la tesi essenziale di Mises sul calcolo economico socialista riguardo all’impossibilità che l’organo di pianificazione centrale potesse arrivare ad ottenere l’informazione pratica necessaria. In effetti, per Wieser «the private economic system is the only historically tried form of a large social economic combination. The experience of thousands of years furnishes proof that, by this very system, a more successful social joint action is being secured, than by universal submission to one single command. The one will and command which, in war and for legal unity, is essential and indispensable as the connecting tie of the common forces, detracts in economic joint action from the efficacy of the agency. In the economy, though it has become social, work is always to be performed fractionally ... Part–performances of this sort will be executed far more effectively by thousands and millions of human beings, seeing with thousands and millions of eyes, exerting as many wills: they will be balanced, one against the others, far more accurately than if all these actions, like some complex mechanism, had to be guided and directed by some superior control. A central prompter of this sort could never be informed of countless possibilities, to be met in every individual case, as regards the utmost utility to be derived from given circumstances or the best steps to be taken for future advancement and progress».4 Il contributo di Enrico Barone come tesi di similitudine formale Già nel primo paragrafo del capitolo precedente abbiamo avuto occasione di commentare determinati aspetti dell’opera di Enrico Barone apparsa nel 1908 con il titolo «Il Ministro della Produzione nello Stato Collettivista», tradotta poi in inglese da F. A. Hayek e pubblicata nella sua Collectivist Economic Planning.5 Ciò che ora ci interessa mettere in evidenza è in che modo Barone segua il cammino iniziato da Wieser che consisteva nello sviluppare le tesi di similitudine formale tra il capitalismo e il socialismo. La novità più importante introdotta da Barone consiste nella sua critica al carattere «impacciato e impreciso» delle tesi di similitudine formale espresse dai suoi predecessori (principalmente Wieser e, in misura minore, Böhm-Bawerk), arrivando addirittura ad affermare che lui sarebbe stato capace di esporre e dimostrare rigorosamente attraverso un’analisi matematica quello che fino ad allora era stata solamente un’«intuizione imperfetta».6 In realtà, è nostro dovere criticare questa posizione assai presuntuosa di Barone poiché, secondo noi, la presunta «precisione

4 Friedrich von Wieser, Social Economics, Augustus M. Kelley, New York 1967, pp. 396-397. Quest’opera è la traduzione inglese di A. Ford Hinrichs di Theorie der Gessellschaftlichen Wirtschaft, pubblicata da J.C.B. Mohr Editore, Tubinga 1914. «Il sistema economico privato è l’unica maniera di riuscire a ottenere un’estesa organizzazione economica a livello sociale che si sia intentata storicamente. L’esperienza di migliaia di anni prova che questo sistema assicura un’interazione sociale con maggiore successo che se si cercasse di ottenerla attraverso la sottomissione universale a un unico centro di potere. Il potere unico, imprescindibile in caso di guerra per mantenere l’unione, diminuisce l’efficacia economica della interazione sociale. In economia l’azione, anche se nettamente sociale, avviene sempre in modo frazionato. Il suo esercizio è decisamente più efficiente quando viene effettuato da migliaia e anzi milioni di individui che vedono attraverso migliaia e milioni di occhi ed è plasmata in altrettanti gesti volontari. Ogni azione, in questo modo, si coordina con tutte le altre in modo più esatto che se fossero guidate e dirette da un organo di controllo centrale attraverso chissà quale complicatissimo meccanismo. Un organo superiore di questo tipo non potrebbe mai arrivare ad ottenere tutta l’informazione sulle innumerevoli possibilità di ogni caso specifico, né sul migliore utilizzo che si potrebbe fare delle circostanze concrete, né sui passi che sarebbe necessario compiere per rendere possibile lo sviluppo futuro e il progresso della società.» 5 Si veda la nota 9 del Capitolo IV. 6 Si consultino le pp. 257-258 del libro pubblicato da F. A. Hayek, Collectivist Economic Planning, op. cit.

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matematica» viene raggiunta a discapito quasi totale della rilevanza e della capacità esplicativa del modello dal punto di vista dell’analisi economica. In effetti, a differenza di Wieser, in Barone l’economia non è più concepita come un processo sociale costituito da un insieme di interrelazioni tra diversi attori che agiscono in modo cosciente perseguendo determinati fini, e si trasforma semplicemente in un insieme di relazioni funzionali e di bilanci quantitativi tra beni materiali. Quella che prima era un’analisi economica genetico–causale più o meno rigorosa, ben radicata nelle categorie di fini e mezzi di ogni attore, ora si trasforma in un insieme meccanico di relazioni funzionali in cui gli esseri umani non intervengono, il tempo non ha alcun valore, e i «prezzi» non sono il risultato di interazioni umane ma sorgono semplicemente per l’intersezione di due curve o sono semplici soluzioni numeriche di un sistema simultaneo di equazioni. Barone, pertanto, illustra con chiarezza gli effetti della colonizzazione degenerativa dell’economia da parte dall’insieme di tecnici ed ingegneri formatisi nella tradizione meccanicista di Laplace. Per tutto ciò che è stato detto fino ad ora non deve sorprendere che l’analisi di Barone sia forzata ed essenzialmente statica e, pertanto, irrilevante dal punto di vista della critica misiana al socialismo. In effetti, nelle prime quaranta pagine del suo articolo Barone considera che l’informazione necessaria relativa sia all’ammontare del capitale sia alle relazioni tecniche tra i diversi fattori di produzione e i gusti e le finalità individuali sia stabilita e universalmente acquisita.7 Solo verso la fine del suo articolo, come abbiamo avuto occasione di vedere nel capitolo precedente (primo paragrafo), di sfuggita e in maniera piuttosto veloce e confusa, Barone ci fa sapere che l’informazione che inizialmente aveva supposto disponibile per elaborare formalmente in termini matematici la sua tesi in realtà non potrebbe mai essere totalmente acquisita.

È pertanto evidente che al contrario dell’erronea interpretazione del dibattito che è stata fino ad ora preponderante a causa della sua imprecisa e interessata descrizione dovuta a Oskar Lange e J. A. Schumpeter, non è assolutamente vero che Enrico Barone abbia confutato prima di Mises la tesi di quest’ultimo riguardo all’impossibilità del calcolo economico socialista. In effetti, come abbiamo già dimostrato citando lo stesso Mises, 8 la sua è una tesi di tipo dinamico e si riferisce all’impossibilità che l’organo centrale possa ottenere l’informazione pratica rilevante di cui ha bisogno per pianificare l’economia. Di modo che Mises stesso fu il primo ad indicare che nell’immaginario nirvana dell’equilibrio il problema da lui sollevato non avrebbe avuto ragione di esistere. Barone, pertanto, non confuta Mises, dal momento che nella sua analisi di similitudine formale parte proprio dal supporre che l’informazione necessaria sia acquisita e che il problema economico sollevato da Mises si trovi risolto ab initio. Inoltre, come abbiamo già visto, non solo Barone non confuta Mises, ma, al contrario, alla fine del suo articolo concorda esplicitamente, anche se in modo vago e approssimativo, con l’idea essenziale che poi avrebbe costituito il cuore della tesi misiana, ovvero, il fatto che è logicamente impossibile pensare che la conoscenza che si suppone acquisita per poter elaborare il corrispettivo sistema di equazioni matematiche possa ottenersi attraverso un meccanismo diverso che non consista nell’osservazione dei risultati dei processi di mercato; idea questa che, come abbiamo già osservato, lo stesso Pareto, ancor prima di Barone, aveva evidenziato perfettamente.9

7 Ibidem, p. 247. 8 Si vedano le citazioni letterali di Mises nelle note 29 e 30 del Capitolo IV. 9 Si veda la nota 8 del Capitolo IV.

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Altri teorici della similitudine formale: Cassel e Lindhal Le precedenti tesi di similitudine formale furono raccolte nel 1918 da Cassel il quale, sia per quanto riguarda la determinazione dei prezzi che per il mantenimento del tasso di interesse, sostenne che la situazione in un’economia socialista era formalmente simile a quella di un’economia di mercato. Cassel giunse addirittura ad affermare che «i principi della determinazione dei prezzi sono validi per tutta l’economia e non dipendono dalla particolare organizzazione della produzione», e anche che la cosiddetta concorrenza perfetta era «necessaria come condizione teorica per la realizzazione del principio dello stabilire i prezzi in base ai costi». Tutto ciò lo portò a concludere che «l’organizzazione socialista può essere considerata teoricamente più semplice» addirittura del sistema di mercato. Le idee di Cassel ebbero un’influenza indiretta molto negativa sull’andamento del dibattito, poiché costituirono la base teorica della tesi di dottorato di Kläre Tisch, che nel 1932 diresse Schumpeter e che tanto lo influenzò nel convincerlo che già i teorici della similitudine formale (Pareto, Barone, etc.) avessero risolto prima di Mises il problema del calcolo economico che quest’ultimo aveva sollevato. Le idee di Cassel sopravvissero per anni tra i suoi discepoli e ancora nel 1939 Erik Lindhal continuava a portare avanti paro paro le tesi di similitudine formale, ignorando tutto ciò che fino a quella data aveva già consegnato il dibattito sul calcolo economico socialista.10 2. ANALISI DELLA «SOLUZIONE MATEMATICA» Abbiamo già stabilito, nell’interpretare il contributo di Marx, che in ultima analisi il suo modello ideale di società poteva considerarsi un modello di equilibrio che egli riteneva possibile e conveniente ottenere attraverso una forzatura coattiva da parte di un organo di pianificazione centrale. Posteriormente abbiamo visto come diversi teorici abbiano sviluppato le condizioni formali di quel modello di equilibrio e, supponendo che il problema economico fondamentale di ottenere l’informazione disponibile fosse risolto ab initio, abbiano fatto sì che diversi autori credessero che il problema che presentava il socialismo fosse solamente il problema algebrico di trovare soluzione matematica a un sistema di equazioni più o meno complesso e numeroso. Così, divenne lentamente comune l’dea che i teorici della similitudine formale tra il

10 Erik Lindhal, Studies of the Theory of Money and Capital (1939), Augustus M. Kelley, New York 1970. Lindhal dedica tutta un’epigrafe al «Pricing Problem in a Community with a Centralized Planning» (pp. da 69 a 73), concludendo che «the Central Authority will have to solve a problem of exactly the same nature as the Central Bank in a community with free entrepreneurship». Dobbiamo essere specialmente critici con l’analisi «dinamica» di Lindahl che, supponendo che l’informazione rilevante sia fruibile in qualunque momento, è, dal nostro punto di vista, una semplice analisi statica, in cui le variabili e i parametri sono semplicemente riferite a diversi momenti di «tempo», inteso in modo determinista o newtoniano, e in cui, pertanto, sono completamente assenti i concetti di incertezza, di mancanza di informazione, e di capacità creativa dell’azione umana e della funzione imprenditoriale. Lindhal, a sua volta, continua la tradizione delle tesi di similitudine formale sviluppate da Gustav Cassel nel 1918 e che abbiamo già commentato. Gustav Cassel, Economía Social Teórica, Editorial Aguilar, Madrid 1960, pp. 101-105 e 202-205. Si tratta della traduzione spagnola di Miguel Paredes della quinta edizione della sua Theoretische Sozialökonomie, Lipsia 1932. Esiste una buona traduzione inglese di S. L. Barron dal titolo The Theory of Social Economy, Augustus M. Kelley, New York 1967. Si veda anche la nota 18 e i commenti critici a Cassel inseriti da George Halm in «Further Considerations on the Possibility of Adequate Calculation in a Socialist Community», in Collectivist Economic Planning, op. cit., pp. 184-186.

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capitalismo e il socialismo (Wieser, Barone, etc.) avessero dimostrato che, contrariamente a quanto sostenuto da Mises, fosse «teoricamente» possibile il calcolo economico socialista, e che se quest’ultimo sollevava qualche difficoltà, era solo la difficoltà algebrica di risolvere i corrispettivi sistemi di equazioni. Abbiamo dimostrato, d’altro canto, come questa interpretazione sia completamente sbagliata. Identificare teoria e analisi dell’equilibrio è inammissibile e assolutamente ingiustificato, poiché, in ogni caso, l’analisi dell’equilibrio costituirà solamente una parte della teoria economica (forse la più irrilevante). L’analisi di Mises, come abbiamo già evidenziato in precedenza, è un’analisi teorica riferita però, seguendo la migliore tradizione della Scuola Austriaca, ai problemi dinamici che avvengono all’interno della società, e di conseguenza all’impossibilità da parte dell’organo di pianificazione di ottenere l’informazione pratica rilevante che utilizzano e creano continuamente gli agenti economici. E ciò non significa, come molti pensano, che anche se l’organo centrale riuscisse effettivamente ad ottenere tutta l’informazione necessaria questa non potrebbe essere calcolata a causa dell’enorme difficoltà pratica di risolvere algebricamente i corrispettivi sistemi di equazioni, ma che il problema è proprio il contrario: anche qualora in un determinato momento si riuscissero a risolvere i complicatissimi e numerosi sistemi di equazioni prospettati dai teorici della similitudine formale, resterebbe comunque in piedi il problema teorico e logico irrisolvibile di riuscire ad ottenere tutta l’informazione rilevante necessaria per formulare tali equazioni. La deviazione del dibattito verso la statica, motivata inizialmente dai teorici della similitudine formale, nascose, dunque, a molte e valide menti quale fosse il problema economico fondamentale sollevato da Mises riguardo al socialismo, e portò all’errata opinione che il calcolo economico si sarebbe potuto effettuare semplicemente migliorando le tecniche di soluzione algebrica dei corrispettivi sistemi di equazioni. A continuazione, analizzeremo nel dettaglio il contenuto delle più importanti proposte di «soluzione matematica». L’articolo di Fred M. Taylor Il primo tentativo serio di risolvere matematicamente il problema prospettato dalla pianificazione centrale fu intrapreso da Fred M. Taylor in una conferenza dal titolo «The Guidance of Production in a Socialist State» (Guida alla produzione in uno stato socialista) pronunciata il 27 dicembre 1928 per il suo insediamento come presidente dell’American Economic Association.11 L’articolo di Taylor, breve ed ambiguo, divide l’analisi del problema del calcolo economico in due parti. La prima, in cui esplicitamente suppone che tutto il sapere o informazione necessaria si trovi disponibile. E la seconda, a cui dedica molto poco spazio, in cui cerca di trovare un sistema per riuscire a ottenere detta informazione. 11 Si tratta del discorso presidenziale pronunciato alla 41.ª riunione annuale dell’American Economic Association a Chicago, Illinois, il 27 dicembre 1928. Posteriormente, il discorso venne riportato nell’American Economic Review, volume XIX, n.º 1 (marzo 1929). L’articolo venne incluso anche nelle pagine 41- 54 del libro pubblicato da Benjamin E. Lippincott con il titolo On the Economic Theory of Socialism, McGraw Hill, New York 1964. Fortunatamente, esiste una traduzione spagnola di Antonio Bosch Doménech e Alfredo Pastor Bodmer, pubblicata con il titolo «La Orientación de la Producción en un Estado Socialista» nelle pp. da 44 a 57 del libro Sobre la Teoría Económica del Socialismo, traduzione spagnola del volume già citato pubblicato da B. E. Lippincott, e che è stato pubblicato da Editorial Ariel, Barcelona, in quattro edizioni (l’ultima nel dicembre 1973). È curioso notare che Fred Manville Taylor (1855-1932), che non ha nulla a che vedere con Frederick Winslow Taylor –autore di The Principles of Scientific Management– fu un grande difensore del laissez faire e del sistema aureo, ma il suo orientamento metodologico in favore dell’analisi dell’equilibrio (in questo caso parziale e marshalliano) lo portò inesorabilmente a ritenere che il problema del calcolo economico avrebbe potuto essere risolto senza grosse difficoltà.

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Il lavoro di Taylor è il primo che riprende nuovamente dopo Mises le analisi statiche o in termini di equilibrio, che presuppongono che tutta l’informazione necessaria si trovi disponibile e che, pertanto, il problema del calcolo economico sia solo un problema di calcoli o di tecnica matematica. Il calcolo economico, secondo Taylor, potrebbe essere realizzato utilizzando tavole aritmetiche in cui si dovrebbero raccogliere in termini quantitativi le valutazioni relative a ogni fattore di produzione e che lui chiama «tavole di valutazione dei fattori». Ebbene, secondo Taylor il socialismo dovrebbe organizzarsi sulla base della vendita di qualunque bene e servizio a un prezzo che coincidesse con il rispettivo costo di produzione, calcolato utilizzando le tavole succitate. Dal momento che Taylor, lungo quasi tutto il suo articolo, ritiene esplicitamente che l’organo centrale dello stato socialista possa disporre con un sufficiente grado di esattezza dei dati numerici necessari per elaborare dette tavole, cade in un’evidente petitio principii, poiché implicitamente suppone che il problema economico fondamentale del socialismo sia risolvibile. Taylor è dunque il primo ad incappare nell’evidente errore in cui cade tutta l’ampia letteratura socialista che, con la pretesa di ignorare gli aspetti davvero rilevanti di tipo dinamico che prospetta il calcolo economico socialista, focalizza la sua analisi negli aspetti strettamente algebrici o matematici propri del modello statico dell’equilibrio.

L’errore fondamentale che commette tutta questa letteratura sta, come recentemente è stato evidenziato da Gerald P. O’Driscoll, non tanto nel tipo di risposta che si da al problema, quanto nell’erronea domanda che ci si pone riguardo allo stesso.12 In effetti, la domanda scientificamente rilevante sul calcolo economico non è, come invece ritengono i teorici socialisti del modello di equilibrio, se sia o meno possibile risolvere algebricamente le corrispettive formule matematiche, nel caso in cui tutta l’informazione necessaria per elaborarle fosse disponibile, ma, al contrario, la domanda rilevante è se da un punto di vista logico e teorico sia possibile riuscire ad ottenere tutta l’informazione necessaria per formulare le corrispettive equazioni.

Solo alla fine, Taylor dedica le ultime cinque pagine del suo articolo a proporre molto brevemente un procedimento pratico che permetta di ottenere, con un certo grado di esattezza, l’informazione necessaria per elaborare le sue «tavole di valutazione dei fattori». Più avanti avremo occasione di commentare, con dovizia di dettagli, il contenuto del famoso metodo di «prova ed errore» che egli propone, nonostante in questo frangente ci interessi solamente sottolineare come Taylor stesso abbia considerato la prima parte del suo articolo, quella relativa all’analisi statico del socialismo, la più importante e quella che costituiva il suo principale contributo al tema del calcolo economico socialista.

12 Gerald P. O’Driscoll, nel suo articolo «A Tribute to F.A. Hayek», pubblicato in The Cato Journal, volume IX, n.º 2, autunno 1989, pp. da 345 a 352, ci dice: «Fundamental advances seldom come through providing new answers to old questions. Fundamental advances occur when someone poses new questions. What constitute a lasting contribution in economics is asking a new question, setting a new direction of research ... The basic reason most economists did not understand the theoretical argument against socialism is that they were asking the wrong question. Hayek’s opponents kept asking whether an economic czar could efficiently allocate resources if he had all the necessary information. The answer to that question is, of course, “Yes”. Hence, in the mythology of economic history the defenders of socialism are credited with having “refuted” Mises and Hayek. The defenders did not such thing, they simply posed and answered a different and irrelevant question» (pp. 345 e 348).

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Il contributo di H. D. Dickinson A differenza di ciò che accadde con l’articolo di Taylor che abbiamo appena commentato, che in pratica fu ignorato e non ebbe grande eco neanche al momento della sua pubblicazione, la proposta esplicita e dettagliata di una «soluzione» al problema del calcolo economico socialista proposta da Henry Douglas Dickinson nel suo articolo «Price Formation in a Socialist Community» (La formazione dei prezzi in una comunità socialista), pubblicato nel 1933 nell’Economic Journal,13 costituì la prima pietra del lungo e acceso dibattito che si sviluppò in lingua inglese riguardo al calcolo economico socialista e al quale parteciparono, tra gli altri, Maurice H. Dobb e Abba P. Lerner.

Dickinson parte dal considerare che, anche se in teoria l’elaborazione di un sistema walrasiano di equazioni simultanee sarebbe alquanto difficile, nella pratica il problema potrebbe semplificarsi in modo significativo attraverso un processo di raggruppamento in cui si mettessero insieme tutti quei beni e servizi che avessero maggiore relazione tra loro. In questo modo Dickinson pensa che si potrebbe stabilire un sistema di equazioni sufficientemente semplificato per poter essere risolto matematicamente attraverso i procedimenti tradizionali e senza la necessità di ricorrere ai processi di mercato. Curiosamente, Dickinson fa esplicitamente riferimento al «problema» del carattere disperso del sapere che si dà nei processi di mercato, affermando che l’ignoranza delle opportunità economiche che è tipica in un’economia di mercato sarebbe eliminata all’interno del regime socialista grazie alla pubblicità sistematica dell’«informazione» relativa alla produzione, ai costi, alle vendite, all’inventario e, in generale, a tutti i dati statistici di qualche rilevanza. Concretamente, Dickinson conclude che in un sistema socialista tutte le aziende lavorerebbero come se fossero «di cristallo», vale a dire, senza alcun segreto, e mantenendo totale «trasparenza informativa» verso l’esterno.14

13 H. D. Dickinson, «Price Formation in a Socialist Community», Economic Journal, n.º 43, giugno 1933, pp. da 237 a 250. Dickinson (1899-1969) fu alunno di Cannan e cattedratico a Bristol fino al 1964. David Collard ci dice che «Dick, as he was universally known, was a much loved, unworldly, eccentric fihura with a keen sense of fun and a most astute mind». Se veda a tal proposito l’articolo dedicato a questo simpatico personaggio a p. 536 del volume I, The New Palgrave: A Dictionary of Economics, op. cit. Lo stesso Hayek manifesta rispetto e affetto verso la figura di Dickinson, anche dove lo critica con maggiore durezza. 14 Notiamo, dunque, che l’ossessione dei socialisti e degli interventisti per la «trasparenza informativa» viene da lontano. Quest’idea, che si basa su un errore di valutazione riguardo al tipo di informazione che viene utilizzata nei processi di mercato si è diffusa ed ha ottenuto grande popolarità persino nei paesi occidentali, plasmandosi in svariate occasioni in disposizioni esagerate che finiscono per creare un carico quasi insopportabile per molte imprese che vengono obbligate a generare un ingente volume di «informazione» statistica e contabile superfluo e costoso, e che è stato incapace di migliorare anche minimamente il livello di organizzazione ed efficienza delle società coinvolte. In quest’area, così come in molte altre, hanno trovato convergenza l’interesse dei socialisti, che credono che il promuovere grandi imprese e la «trasparenza informativa» faciliti il loro sforzo di organizzazione tramite mandati, e quello dei teorici dell’equilibrio, che ritengono che un miglioramento nell’«informazione» statistica possa facilitare il conseguimento e il mantenimento di mercati «efficienti», ovvero, più vicini a quelli dei propri modelli; entrambi spalleggiati, come è naturale, dai gruppi privilegiati di interesse che traggono immediato beneficio dalle succitate (auditori, contabili, professori di contabilità, registratori mercantili, etc.). Tutti costoro hanno un concetto sbagliato dell’informazione, poiché le statistiche non sono altro che «acqua passata che non fa muovere le pale del mulino», possono essere interpretate soggettivamente nelle forme più svariate e non solo non aiutano nei processi di organizzazione imprenditoriale, ma anzi li rendono più difficili nella misura in cui gli imprenditori si lasciano influenzare dalla loro apparente «esattezza», e tutto ciò indipendentemente dai problemi di aumento dei costi e di cattiva assegnazione di risorse dovuti all’imposizione coattiva di obblighi esagerati in materia contabile e di «informazione», che superano di molto il livello che esige normalmente il traffico mercantile. Si veda, a questo proposito, l’articolo di Benito Arruñada «El coste de la información contable», España Económica, maggio 1991, pp. 8-11, in cui a ragione si critica per questi e altri

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Queste affermazioni di Dickinson ci sembrano sorprendenti e difficili da condividere. La sua ingenuità è, d’altra parte, dovuta alla sua completa ignoranza di come funziona un’economia di mercato. In primo luogo, Dickinson non capisce che il modello di equilibrio generale, così come venne teorizzato da Walras e Pareto, è solo un semplice modello di similitudine formale in cui l’unica cosa che i suoi teorizzatori vogliono evidenziare è il tipo di informazione che sarebbe necessaria per stabilire e mantenere una situazione di equilibrio. Ma né Pareto né Walras si fecero illusioni riguardo alla possibilità di ottenere tutta l’informazione necessaria attraverso procedimenti diversi da quelli di mercato.15 Il problema, pertanto, non è un problema computazionale che consiste nel risolvere una serie di equazioni simultanee di tipo walrasiano (anche qualora dette equazioni venissero formulate in modo semplificato raggruppando, come propone Dickinson, tutti i beni e i servizi più similari tra loro), ma il problema riguarda come riuscire a ottenere l’informazione pratica di tipo soggettivo che si crea e si trova in forma solamente dispersa e che è necessaria per formulare i parametri e le variabili di dette equazioni.

Il fatto che il sapere disperso non solleverebbe alcun problema in un sistema socialista nel quale dominasse il principio della «trasparenza informativa» e della pubblicità generalizzata di tutte le statistiche è un’argomentazione totalmente erronea. Da un lato, l’informazione non è qualcosa di statico e oggettivo che si trova sempre disponibile in un luogo ben preciso, e se non si estende a tutti è solamente per problemi di costi o di restrizioni deliberate della pubblicità. Al contrario, l’informazione è qualcosa di essenzialmente soggettivo e dinamico che si crea costantemente ex novo come conseguenza dell’impeto della funzione imprenditoriale all’interno di un contesto di economia di mercato. E dunque se non si permette il libero esercizio dell’imprenditorialità, e l’economia viene organizzata coattivamente dall’alto attraverso decreti, come è già stato ampiamente dimostrato nei Capitoli II e III di questo libro, l’informazione pratica rilevante e necessaria per coordinare il processo sociale non si genererà neppure. Non ha alcun senso, dunque, proclamare vuoti principi generali riguardo alla «trasparenza informativa» o all’estensione della pubblicità, se la restrizione istituzionale al libero esercizio dell’imprenditorialità impedisce il generarsi dell’informazione necessaria. E, d’altra parte, il cambiamento continuo e il carattere dinamico dell’informazione rendono totalmente inutile e irrilevante l’«informazione» esistente di tipo storico che, anche se si riuscisse a raggrupparla in statistiche dettagliate e fosse distribuita gratuitamente con totale trasparenza, conserva nient’altro che un valore meramente storico o «archeologico», se è vero che, come accade in tutta economia reale e non congelata, le circostanze cambiano, si scoprono nuovi fini e nuovi mezzi, e si genera costantemente nuova informazione. La tesi che in un’economia reale neppure la più estesa e dettagliata pubblicazione di statistiche possa essere di una qualche utilità, dati i continui cambiamenti che fanno sì che l’informazione

motivi la riforma contabile e mercantile recentemene imposta dal governo socialista in Spagna. E anche l’articolo di Stephen Gillespie «Are economic statistics overproduced?», Public Choice, volume 67, n.º 3, dicembre 1990, pp. 227-242. 15 «It is perfectly true that Vilfredo Pareto and Enrico Barone had shown which information a socialist planning authority would have to possess in order to perform its task. But to know which kind of information would be required to solve a problem does not imply that it can be solved if the information is dispersed among million of people.» F. A. Hayek, «Two pages of fiction: The Impossibility of Socialist Calculation», in The Essence of Hayek, pubblicato da Chiaki Nishiyama e Kurt R. Leube, Hoover Institution Press, Stanford University, California 1984, p. 58.

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statistica sia obsoleta ancora prima della sua pubblicazione, fu anticipata già nel 1912 dall’economista olandese N. G. Pierson.16

Infine, dobbiamo concludere sottolineando che solo sei anni dopo, nel 1939, lo stesso Dickinson ammise che nonostante in un primo momento (nel 1933) avesse pensato che la sua soluzione matematica potesse rappresentare un procedimento fattibile per effettuare il calcolo economico in un regime socialista, in un secondo momento aveva cambiato radicalmente idea, e si era reso conto che si era sbagliato perché «the data themselves which would have to be fed into the equation machine, are continuously changing».17 Come sappiamo, era proprio questa la tesi per cui gli austriaci, fin dall’inizio, avevano rifiutato qualunque tipo di soluzione «matematica». La soluzione matematica nella letteratura tedesca Anche in lingua tedesca vari autori hanno cercato di proporre una soluzione «matematica» al problema posto dal calcolo economico. Tra loro merita una particolare menzione la già citata dottoressa Kläre Tisch che, nella sua tesi di dottorato elaborata sotto la direzione di Joseph A. Schumpeter e partendo da Cassel e Walras, concluse che era possibile costruire un sistema di equazioni con tante equazioni come incognite che, una volta risolto, potrebbe risolvere il problema del calcolo economico. Cade nello stesso errore il Dr. Herbert Zassenhaus, benché egli stesso riconosca esplicitamente che tale sistema potrebbe essere utilizzato supponendo che il Ministero di Produzione fosse a conoscenza previamente di tutta l’informazione necessaria e che non si producessero alterazioni in tale informazione durante il periodo di soluzione del problema. Né la dottoressa Tisch né il Dr. Zassenhaus si rendono conto, pertanto, che il problema fondamentale consiste precisamente nello stabilire come l’organo di pianificazione potrebbe riuscire a procurarsi l’informazione di cui ha bisogno per formulare il suo sistema di equazioni.18

16 «And as regards the fixing of prices, the socialistic state would soon find that no mathematical formula was of any avail, and that the only means by which it could hope to solve the problem were exact and repeated comparisons between present and future stocks and present and future demand; it would find that prices could not be fixed once and for all, but would have to be altered frequently. Not the theory of averages but the value of things in exchange would, in most cases, have to serve as its guide in fixing prices; and why should it reject the services of that guide?» Nicolaas Gerard Pierson, Principles of Economics, Macmillan, Londra 1912, volume II, p. 94 (traduzione inglese di A. Wotzel). 17 Ovvero, «perché i dati stessi che si dovrebbero inserire nel computer sono in costante cambiamento». Henry Douglas Dickinson, Economics of Socialism, Oxford University Press, Oxford 1939, p. 104. 18 La proposta della dottoressa Kläre Tisch è inclusa nella sua tesi di dottorato diretta da Joseph Schumpeter e intitolata Wirtschaftsrechnung und Verteilung im Zentralisch Organisierten Sozialistischen Gemeinwesen (Università di Bonn, Wuppertal-Elberfeld 1932). Hayek imputa agli errori di questa tesi di dottorato e all’ignoranza e sovrastima reverenziale che aveva Schumpeter riguardo all’analisi matematica i suoi errori su questo tema e l’aver concretamente dato forma e reso popolare (Capitalismo, Socialismo y Democracia, Casa Editrice Aguilar, Madrid 1971, p. 230. Traduzione italiana: Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, Edizioni di Comunita, 1955) il mito grossolano che, addirittura prima dello stesso Mises, Pareto e Barone erano riusciti a risolvere il problema del calcolo economico socialista. Si veda The Essence of Hayek, opera citata, pp. 59 e 60. Per quanto riguarda l’apporto di Zassenhaus, è contenuto nel suo articolo «On the Theory of Economic Planning», International Economic Papers, n.º 6, anno 1956, pp. 88 a 107. Si tratta di una traduzione in inglese dell’articolo pubblicato inizialmente in tedesco nel 1934 con il titolo «Über die Ökonomische Theorie der Planwirtschaft», pubblicato su Zeitschrift für Nationalökonomie, volume V, anno 1934. Le proposte di Tisch e Zassenhaus sono analizzate e criticate dettagliatamente da Trygve J.B. Hoff nella sua opera Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata, pp. 207 a 210. Sono ugualmente degne Possibilities of

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3. CONSEGUENZE NEGATIVE PER IL DIBATTITO DELLA «SOLUZIONE MATEMATICA» La principale conseguenza negativa della «soluzione matematica» proposta da Taylor e Dickinson nello sviluppo del dibattito sul calcolo economico socialista è stata quella di deviare l’attenzione di coloro che vi partecipavano verso i problemi dell’ economia statica. In effetti, la «soluzione matematica» risponde a un problema posto in modo non corretto (se sia possibile o no il calcolo economico in condizioni statiche, disponendo, cioè, di tutta l’informazione necessaria e supponendo che non si verifichino cambiamenti di nessun tipo). In questo senso, la «soluzione matematica» ha comportato un indubbio passo indietro nell’altezza teorica del dibattito e ha distratto le menti dal problema economico fondamentale così come era stato posto inizialmente da Mises. Questo problema economico fondamentale era basicamente un problema teorico di dinamica economica, che stabiliva l’impossibilità di effettuare il calcolo economico in assenza di un processo di mercato mosso dall’imprenditorialità, essendo questo l’unico che fa continuamente in modo che gli agenti economici scoprano l’informazione pratica e dispersa necessaria per effettuare valutazioni in prospettiva su costi e benefici.

Un’altra conseguenza negativa della «soluzione matematica» è stata quella di aver creato l’impressione erronea che sia Hayek che Robbins, di fronte alle proposte di Taylor e Dickinson, si siano ritirati a una «seconda linea di difesa», riconoscendo che era possibile il calcolo economico in una prospettiva «teorica», ma confermando l’impossibilità pratica che esso potesse essere portato a termine per rigide ragioni di operatività algebrica, cioè, per la difficoltà pratica di risolvere i sistemi di equazione corrispondenti. Riteniamo che questa versione dei fatti, a parte il fatto che si basa sul grave errore metodologico, che abbiamo già commentato, di identificare «teoria» con «analisi economica dell’equilibrio», non corrisponde alla realtà per le seguenti ragioni:

1. In primo luogo, per Hayek l’argomentazione essenziale riguardo all’impossibilità del calcolo economico non consiste nella difficoltà pratica di risolvere algebricamente un sistema di equazioni molto numeroso, ma, al contrario, ha le sue radici nell’insolubile problema teorico-dinamico di supporre che l’organo centrale di controllo possa ottenere l’informazione pratica e soggettiva che si trova e si crea in modo sparso nei milioni di teste degli agenti economici. In effetti, Hayek, nel suo articolo intitolato «The Present State of the Debate» (Lo stato attuale del dibattito) pubblicato nel 1935, ci dice che l’essenziale problema economico della soluzione matematica è che «… the usual theoretical abstractions used in the explanation of equilibrium in a competitive system include the asumption that a certain range of technical knowledge is “given”… It is hardly necessary to emphasize that this is an absurd idea even in so far as that knowledge is concerned which can properly be said to “exist” at any moment of time. But much of the knowledge that is actually utilized is by no means “in existence” in this ready-made form».18 Poi, per Hayek, il problema fondamentale che pone il

Adequate Calculations in a Socialist Community» pubblicato su Collectivist Economic Planning, opera citata, pp. 131 a 200. 18 F.A. Hayek, «The Present State of the Debate», in Collectivist Economic Planning, opera citata, pagina 210. La traduzione in italiano di questa citazione potrebbe essere la seguente: «Le astrazioni teoriche utilizzate usualmente per spiegare l’equilibrio di un sistema competitivo includono il presupposto che la conoscenza tecnica necessaria sia “data”… È quasi superfluo sottolineare che tale presupposto è completamente assurdo compreso per quello che si riferisce alla conoscenza che si può considerare che “esista” in ogni momento del tempo. Ma la maggior parte della conoscenza che si utilizza nella realtà non si può considerare in nessun modo che “esista” in una forma “prestabilita”.»

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calcolo economico non ha niente a che vedere con il problema strettamente «algebrico» relativo alla difficoltà di risolvere il corrispondente sistema di equazioni.

2. Quando Hayek menziona il problema pratico di risolvere il sistema di equazioni, vi si riferisce come a un problema di natura o rango molto diversi dal problema fondamentale menzionato nel numero precedente, e in ogni caso gli dà un’importanza strettamente secondaria o sussidiaria, trattandolo, potremmo dire, quasi «di sfuggita», quando afferma che «now the magnitude of this essential mathematical operation will depend on the number of unknowns to be determined. The number of these unknowns will be equal to the number of commodities which are to be produced… At present we can hardly say what their number is, but it is hardly an exaggeration to assume that in a fairly advanced society, the order of magnitude would be at least in the hundred of thousands. This means that, at each successive moment, every one of the decisions would have to be based on the solution of an equal number of simultaneous differential equations, a task which, with any of the means known at present, could not be carried out in a lifetime».19 D’altra parte, dobbiamo aggiungere che, del tutto indipendentemente dalle ragioni per cui l’informatica è incapace di risolvere i problemi del calcolo economico e che sono già stati analizzati dettagliatamente nel Capitolo III, concentrandoci ora strettamente sul problema algebrico che pone un sistema di equazioni molto numeroso, ha significato piuttosto poco rispetto alla sua soluzione il progresso impressionante delle tecniche informatiche e lo sviluppo straordinario della capacità dei computer che si è avuta negli ultimi anni. In effetti, Samuelson e Nordhaus commentano che, con i computer più moderni, e utilizzando le tecniche sviluppate da H. Scarf e H. Kuhn nelle decadi degli anni 60 e 70, attualmente si può riuscire a risolvere con relativa facilità problemi di equilibrio economico composti da 50 mercati e 10 o 20 tipi diversi di consumatori. Questi problemi potrebbero ampliarsi, con i supercomputer più moderni di ultima generazione, fino a risolvere sistemi di equazioni formulati in relazione a 100 diverse classi di fattori di produzione, 10.000 mercanzie e 100 tipi diversi di consumatori.20 Queste grandezze sono 19 F.A.Hayek, «The Present State of the Debate», su Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 212. L’argomento, pertanto, è parallelo a quello esposto da Pareto nel 1897 (si veda la nota 8 del precedente Capitolo IV), e si potrebbe tradurre così: «Ora, la grandezza di questa operazione matematica dipenderà dal numero di incognite da determinare…Il numero di incognite sarà uguale al numero di beni che si dovranno produrre… È molto difficile valutare quale sarebbe tale numero, ma non è un’esagerazione supporre che in una società moderna ci muoviamo in grandezze dell’ordine di centinaia di migliaia. Questo significa che, in ogni momento successivo, ognuna delle decisioni dovrà essere basata sulla soluzione di un numero ugualmente grande di equazioni differenziali, compito questo che, con i mezzi attualmente disponibili , non potrebbe essere portato a termine neppure nell’arco di un’intera vita.» 20 P.A. Samuelson e W.D. Nordhaus, Economía, 12.ª edizione, McGraw Hill, Madrid 1986, p. 830 (ed. italiana, Economia, Zanichelli, Milano, 1987). Questa edizione del noto libro di testo di Samuelson e Nordhaus ha il merito di riconoscere la validità dell’argomentazione essenziale di Hayek, quando aggiunge testualmente alla fine della nota 1 a piè della pagina citata che: «pero aun cuando se fabricaran computadoras superrápidas – miles de veces más poderosas que las actuales – todavía tendríamos que enfrentarnos a otro obstáculo inamovibile: No contamos con la más mínima parte de los datos necesarios para resolver un gran problema de equilibrio general. (Anche se si fabbricassero computer super rapidi – mille volte più potenti degli attuali – ci troveremmo comunque di fronte a un altro ostacolo inamovibile: Non conosciamo neanche la minima parte dei dati necessari per risolvere un grande problema di equilibrio generale)». Disgraziatamente, questa idea fondamentale è relegata da Samuelson e Nordhaus alla fine di una nota a piè di pagina, e non è inclusa nel testo principale del loro conosciuto trattato. E inoltre, tale idea è in contraddizione con il contenuto del libro alle pp. 839 e 840, nelle quali si fa brevemente un riassunto del dibattito pieno di confusioni, e in cui risulta chiaro che gli autori non erano riusciti a capire qual è il problema economico fondamentale enunciato da Mises e Hayek in relazione al calcolo economico socialista. E tutto ciò senza che sia necessario dover citare l’affermazione già inclusa nell’edizione del 1989 del libro di testo di Samuelson (vergognosa, almeno nell’ottica degli avvenimenti accaduti nei paesi dell’Est da quell’anno e della conoscenza che, per la prima volta, è affiorata

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enormemente lontane dal numero di beni e servizi diversi che si possono identificare in un’economia non molto avanzata com’è quella sovietica, e che supera di molto i 12 milioni di prodotti. E su questa stessa linea, Sir Alec Nove recentemente si è riferito al commento dell’ accademico Fedorenko, secondo il quale la formulazione e soluzione del problema del calcolo economico che poneva l’ultimo piano quinquennale dell’estinta Unione Sovietica si potrebbe portare a termine solo in un periodo di 30.000 anni.21 Nonostante queste cifre sembrino impraticabili, non dobbiamo lasciarci ingannare pensando che costituiscano la ragione fondamentale del fallimento socialista, dal momento che anche se in futuro, mediante l’informatica, si potessero risolvere in un decimo di secondo sistemi di centinaia di milioni di equazioni, rimarrà sempre in piedi l’impossibilità che si possa ottenere in modo coercitivo l’informazione economica necessaria per formulare tali sistemi di equazioni.

3. Una possibile spiegazione del malinteso sulla posizione di Hayek si può trovare nell’ordine espositivo che egli stesso ha seguito.22 In effetti, per criticare la «soluzione matematica», Hayek segue un ordine simile a quello che si vedrebbe obbligata a seguire qualsiasi persona che si trovasse di fronte a un problema puramente algebrico. Così, in primo luogo, si riferisce al problema di formulare le corrispondenti equazioni. È qui dove Hayek fa riferimento al problema teorico fondamentale relativo all’impossibilità di ottenere l’informazione necessaria per portare a termine tale formulazione. In seguito, Hayek dice che, benché ammettendo ai fini dialettici che si sarebbero potute formulare le equazioni descrittive del sistema di equilibrio, sarebbe praticamente impossibile risolvere algebricamente tale sistema. È chiaro che l’enfasi di Hayek continua a essere incentrata sull’argomentazione teorica fondamentale relativa all’impossibilità di ottenere l’informazione necessaria per formulare le equazioni corrispondenti, e che al problema della soluzione algebrica viene data solo un’importanza sussidiaria.23 Ma il fatto che, a fini espositivi, abbia seguito l’ordine

sul funzionamento reale di quelle economie proveniente direttamente dagli stessi interessati) e secondo la quale «the Soviet economy is proof that, contrary to what many skeptics had earlier believed, a socialist command economy can function and even thrive», Paul A. Samuelson, Economics, 13ª edizione, McGraw Hill, New York 1989, p.837. 21 «This is but one of the difficulties attributable to the sheer scale of the required coordination between multimillion plan instructions. Academician Fedorenko quipped that next year’s plan, if fully checked and balanced, might be ready in 30,000 years time…» Vedere l’articolo «Planned Economy», di Alec Nove pubblicato nel volume III di The New Palgrave: A Dictionary of Economics, McMillan, Londra 1987, pp. 879 a 885. La citazione è presa dalla pagina 881: Sfortunatamente, neanche Alec Nove si rende conto di qual è il problema economico fondamentale che pone il socialismo, e continua a ritenere che tale problema sia costituito solo dal problema algebrico di risolvere il corrispondente sistema di equazioni. Concretamente, Alec Nove scrive «per sentito dire» e fa capire che non ha letto o non ha capito l’argomentazione fondamentale di Mises quando afferma che: «critics, such as Barone and L. von Mises, pointed out some major weaknesses in this approach to socialist planning: the number of calculations required would be enormous...». Sappiamo che l’argomentazione essenziale di Mises contro il calcolo economico socialista non è questo (di fatto Mises neanche lo menziona espressamente), ma che, anche se si riuscisse a risolvere complicatissimi sistemi di equazioni, nel socialismo non si potrebbe mai disporre dell’ informazione necessaria a formularli. 22 Don Lavoie, nel suo notevolissimo libro Rivalry and Central Planning, opera citata, p.91, aggiunge anche l’argomentazione che, a parer suo, Hayek ha commesso un errore strategico nell’includere nel suo Collectivist Economic Planning (opera citata, 1935) la sua traduzione inglese dell’articolo di Barone pubblicato nel 1908, poiché questo articolo menzionava (e solo di sfuggita) che la pianificazione, basandosi su un sistema di equazioni walrasiano, era impraticabile, basicamente per le difficoltà che poneva la soluzione del corrispondente sistema di equazioni. E Lavoie conclude perfettamente che: «However, to at least Mises and Hayek if not also Robbins, the problem was formulating the equations – not solving them. In a world of complexity and continuous change, the central planners would lack the knowledge of the coefficients that go into the equations» (p. 91). 23 Forse Lionel Robbins è stato il meno chiaro al momento di insistere sul carattere meramente sussidiario dell’argomentazione sulla difficoltà pratica di risolvere algebricamente il sistema di equazioni walrasiane. É come

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indicato forse può spiegare che molti commentatori del dibattito lo abbiano mal interpretato nel supporre che Hayek si sia ritirato a «una seconda linea di difesa» rifugiandosi in difficoltà di tipo pratico al momento di risolvere un sistema di equazioni più che in argomentazioni teoriche di impossibilità logica, interpretazione, questa, che manca di fondamento e che lo stesso Hayek ha recentemente confutato con ogni dettaglio.24

4. Ludwig von Mises è stato particolarmente chiaro al momento di dimostrare che l’argomento della difficoltà della soluzione algebrica del sistema di equazioni non solo è, come credeva Hayek, di natura sussidiaria o secondaria, ma è anche completamente inutile e teoricamente irrilevante.25 Per Mises il problema fondamentale è che la conoscenza necessaria per formulare le equazioni di equilibrio non può mai essere disponibile in modo centralizzato. Inoltre, nel 1940 esprime l’argomentazione addizionale che non era stata sviluppata precedentemente da Hayek che, anche se si potesse arrivare a enunciare un sistema di equazioni descrittivo di una situazione di equilibrio (cosa impossibile da portare a termine utilizzando conoscenze proprie di una situazione di disequilibrio e che sono le uniche disponibili nella vita reale), questo non sarebbe di nessun aiuto all’ora di indicare all’organismo di pianificazione o di controllo che decisioni si dovrebbero prendere o quali passi concreti si dovrebbero fare per passare dalla situazione reale di disequilibrio nella quale si incontrasse alla situazione ideale di equilibrio ricercata. O, riportando le parole dello stesso Mises, «it was a serious mistake to believe that the state of equilibrium could be computed, by means of mathematical operations, on the basis of the knowledge of conditions in a non-equilibrium state. It was no less erroneous to believe that such a knowledge of the conditions under a hypothetical state of equilibrium could be of any use for acting man in his search for

se Robbins vedesse così chiaramente l’assurdità di pensare a una soluzione pratica di quel tipo, da non preoccuparsi di sviluppare in modo depurato l’argomento basico fondamentale di tipo teorico. Tuttavia, a discolpa di Robbins, si può dire che le sue osservazioni sul calcolo economico sono incluse, con carattere secondario, in un libro dedicato ad analizzare problemi di altro tipo (la diagnosi delle cause della Grande Depressione). Alla p. 151 della sua opera The Great Depression, pubblicata da McMillan, New York, nel 1934, dopo aver affermato che «sulla carta» si può concepire che il problema del calcolo economico si potrebbe risolvere mediante una serie di calcoli matematici, conclude che «but in practice this solution is quite unworkable. It would necessitate the drawing up of millions of equations on the basis of millions of statistical tables based on many more millions of individual computations. By the time the equations were solved the information on which they were based would have become obsolete and they would need to be calculated anew. The suggestion that a practical solution of the problem of planning is possible on the basis of the Paretian equations simply indicates that those who put it forward have not begun to grasp what these equations mean.» 24 «I feel I should perhaps make it clear that I have never conceded, a sit often alleged, that Lange had provided the theoretical solution of the problem, and I did not thereafter withdraw to pointing out practical difficulties. What I did say (in Individualism and Economic Order, page 187) was merely that from the factually false hypothesis that the central planning board could command all the necessary information, it could logically follow that the problem was in principle soluble. To deduce from this observation the ‘admission’ that the real problem can be solved in theory is a rather scandalous misinterpretation. Nobody can, of course, transfer to another all the knowledge he has, and certainly not the information he could discover only if market prices told him what was worth looking for.» Vedere l’articolo di F.A. Hayek pubblicato nell’aprile del 1982 su Economics Affairs con il titolo «Two Pages of Fiction: The Impossibility of Socialist Calculation», ristampato come Capitolo 4 del libro The essence of Hayek, edito da Chiaki Nishiyama e Kurt R. Leube, Hoover Institution, Stanford University Press, Stanford 1984, p. 58. 25 In effetti, per Mises, «there is therefore no need to stress the point that the fabulous number of equations which one would have to solve each day anew for a practical utilization of the method would make the whole idea absurd even if it were really a reasonable substitute for the market’s economic calculation. Therefore the construction of electronic computers does not affect our problem». Ludwig von Mises, Human Action, opera citata, p. 715 e ultima riga della nota 11 della p. 715. E ugualmente, e nello stesso senso, Esteban F. Thomsen, nel suo profondo Prices and Knowledge: A Market Process Perspective, Routledge, Londra 1992, pp. 83-86.

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the best possible solution of the problems with which he is faced in his daily choices and activities».26 4. IL METODO DI «PROVA ED ERRORE»

Già fin da un principio, nel 1935, Hayek aveva dubitato che Taylor e Dickinson in realtà avessero in mente, per risolvere il problema del calcolo economico, un sistema basato nella soluzione matematica letterale del corrispondente sistema di equazioni walrasiano. Anzi, Hayek credeva che ciò che in realtà proponevano gli apporti ambigui di Taylor e Dickinson fosse la ricerca reiterata di una soluzione al sistema di equazioni walrasiano attraverso un procedimento basato sul metodo di «prova ed errore».27

Cronologicamente, è stato Taylor il primo a riferirsi in modo esplicito al metodo di «prova ed errore». In effetti, per Taylor il metodo di prova ed errore consiste nel cercare di trovare una serie di soluzioni ipotetiche fino a che se ne trovi una che sia chiaramente quella corretta.28 Dickinson, da parte sua, è stato un po’ meno esplicito e si è riferito solamente a un «processo di approssimazione successiva» verso la soluzione corretta.29 26 Questa brillantissima argomentazione addizionale di Mises, che fino ad ora non è stato ancora possibile confutare, fu pubblicata per la prima volta in tedesco, nell’epigrafe IV («Die Gleichungen der mathematischen Katallaktik») del capitolo dedicato a confutare i tentativi di soluzione al problema del calcolo economico compreso nel suo Nationalökonomie: Theorie des Handelns und Wirtschaftens, Edizioni Union, Ginevra 1940 pp. 641- 645. Precedentemente, nel 1938, le idee essenziali di questo paragrafo erano state pubblicate in francese con il titolo «Les équations de l’économie mathématique et le problème de calcul économique en régime socialiste» (Revue d’Économie Politique, 1938, pp. 1055-1062, riprodotto nella stessa rivista 50 anni dopo nel numero 97 [6] di novembre-dicembre del 1987 con un Commento di Jean Bénard che evidenzia il fatto che neanche questo autore capisce i problemi economici implicati dal calcolo economico socialista). In seguito l’argomento è stato ampliato e sviluppato più dettagliatamente in inglese, Human Action, opera citata, pp. 710 a 715. La citazione del testo è quella delle pp. 714-715 e potrebbe essere tradotta come segue: «È stato un grave errore quello di credere che lo stato di equilibrio si potesse computare per mezzo di operazioni matematiche sulla base della conoscenza ottenuta in situazioni di disequilibrio. Non meno erronea è stata la credenza che tale conoscenza delle condizioni esistenti in un ipotetico stato d’equilibrio potesse essere di qualche aiuto all’agente nella sua ricerca delle migliori soluzioni possibili ai problemi che si trova di fronte nelle sue scelte e attività quotidiane.» 27 «It is improbable that anyone who has realized the magnitude of the task involved has seriously proposed a system of planning based on comprehensive systems of equations . What has actually been in the minds of those who have mooted this kind of analysis has been the belief that, starting from a given situation, which was presumably to be that of the pre-existing capitalistic society, the adaptation to the minor changes which occur from day to day could be gradually brought about by a method of trial and error». F.A. Hayek, «The Present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 213. 28 «The method of trial and error … which consists of trying out a series of hypothetical solutions till one is found which proves a success». Fred M. Taylor «The guidance of Production in a Socialist State», in On the Economic Theory of Socialism, opera citata, p. 51. 29 Henry D. Dickinson, «Price Formation in a Socialist Community», opera citata, p. 241. Tra le proposte di Taylor e Dickinson che ebbero luogo rispettivamente nel 1928 e nel 1933, anche un altro americano, Willet Crosby Roper, nel 1931, propone il metodo di prova ed errore e crede che i successivi momenti di penuria che si dovessero manifestare nel sistema economico sarebbero, in ogni caso, una chiara indicazione affinché l’autorità centrale modifichi le sue istruzioni e si avvicini alla soluzione «corretta». Tuttavia, e benché Roper non nasconda la sua forte simpatia verso il socialismo, è pienamente cosciente delle enormi difficoltà che, nella pratica, comporterebbe l’applicazione del metodo di prova ed errore che lui stesso propone. Concretamente afferma: «This description of the process makes it seem rather simple and easily accomplished. It is a question, apparently, of adjusting a few mistakes at the beginning and then sitting down to watch the system work. But again, we ignore the almost incredible complication of the economic process…At the establishment of a price system with perhaps only one or two considerable errors (an almost unbelievable assumption), those one or two

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Benché non sia semplice dedurre con chiarezza e dettaglio che cosa intendessero Taylor, Roper e Dickinson per «metodo di prova ed errore», data l’ambiguità e confusione dei loro scritti, all’inizio questo metodo si propone come una variante della «soluzione matematica» che vuole evitare la fastidiosa necessità di risolvere algebricamente l’estremamente complesso sistema che se ne deriva. In effetti, sia questi autori che, come vedremo più avanti, lo stesso Lange, ritenevano che, essendo la soluzione matematica la più appropriata, quando esistevano difficoltà pratiche per trovare la soluzione del corrispondente sistema di equazioni, si poteva arrivare a un’approssimazione molto buona di tale soluzione mediante un procedimento di «prova ed errore». Per questo, basterebbe che dall’inizio si adottassero le «soluzioni di equilibrio» ereditate dal sistema capitalista vigente con carattere previo all’introduzione del socialismo. A partire da lì, sarebbe necessario solo andare effettuando le modifiche marginali che fossero necessarie per «riportare» il sistema in equilibrio ogni volta che si verificassero dei cambiamenti.

La forma pratica di portare avanti questo metodo consisterebbe nell’ordinare ai gestori e ai responsabili dei diversi settori, industrie e imprese di trasmettere continuamente all’organo centrale di pianificazione le loro conoscenze relative alle diverse circostanze della produzione in generale e, in particolare, alle diverse combinazioni dei fattori produttivi. Secondo l’informazione che andasse ricevendo, l’organo centrale di pianificazione fisserebbe, in modo provvisorio o per tentativi, tutta una serie di «prezzi», che dovrebbero essere comunicati ai gestori delle imprese perché questi calcolassero le quantità che sarebbero in grado di produrre a tali prezzi e agissero di conseguenza. L’attività dei gestori porterebbe alla luce l’esistenza di errori, che si tradurrebbero in scarsezza (se la domanda superasse l’offerta) o in eccessi (se succedesse il contrario) di produzione. La scarsezza o l’eccesso in una determinata linea di produzione indicherebbe all’organo di pianificazione centrale che il prezzo stabilito non era corretto e che, pertanto, avrebbe dovuto essere modificato convenientemente al rialzo o al ribasso secondo la necessità. E così di seguito fino a trovare il nuovo «equilibrio» tanto cercato. In questo consiste, in poche parole, il contenuto del metodo di «prova ed errore», tanto «celebrato».

Critica del metodo di prova ed errore

Il metodo di prova ed errore che abbiamo appena descritto, non solo è di un’apparente «semplicità» totalmente ingannevole, ma, per le ragioni che esporremo di seguito, è anche incapace di risolvere il problema economico fondamentale che pone il socialismo.

In primo luogo, è teoricamente assurdo pensare che il sistema capitalista reale possa mai trovarsi in una «situazione di equilibrio». Nel sistema capitalista i prezzi che vengono fissati dalle parti sono «prezzi di mercato» che sono sottoposti a continui cambiamenti spinti dalla forza creativa dell’imprenditorialità, e non «prezzi di equilibrio» che in qualche modo possano

errors would involve changes extending through the whole structure. If the number of serious mistakes were greater, it would take a considerable time and a great deal of careful calculation to reach a position of equilibrium, where the factors would be priced exactly according to marginal productivity, where these prices would be equal for factors of equal efficiency, and where the whole theoretical system of stable equilibrium was realised. As a matter of fact, this equilibrium could be reached only in a static economy which can never exist.… It seems safe to say that the pricing apparatus necessary for an efficient centralized collectivism, is, at best, only a remote possibility.» E conclude dicendo: «It indicates that the best chance for success of a socialist society lies in a decentralized organization which retains, so far as possible, the strong features of capitalism». Willet Crosby Roper, The Problem of Pricing in a Socialist State, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1931, pp.58, 59, 60 e 62.

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essere «ereditati» come un punto di partenza affidabile dal sistema socialista. I teorici socialisti, pertanto, non solo manifestano una profonda incomprensione di come funziona il mercato, ma cadono anche nel curioso paradosso di ammettere che, dal punto di vista della loro concezione sbagliata, il mercato, per il fatto di trovarsi normalmente «in equilibrio», funziona molto «meglio» di come fa effettivamente nella realtà. Noi sappiamo, al contrario, che il mercato non si trova mai «in equilibrio» e che questo lungi dall’essere un’«imperfezione», è la sua caratteristica più intima e tipica, per cui risulta particolarmente patetico che i teorici socialisti abbiano dovuto rinunciare a criticare il mercato per il fatto di non essere in equilibrio in ossequio all’interesse tattico di poter presentare un metodo di prova ed errore che renda possibile il socialismo e che si concepisce che possa essere elaborato solo a partire dai «prezzi di equilibrio» del tanto vituperato sistema capitalista.

In secondo luogo, non è ammissibile supporre che i cambiamenti che si produrrebbero nel sistema economico, una volta che questo passasse dal capitalismo al socialismo, sarebbero relativamente poco importanti. Al contrario, i cambiamenti e le distorsioni sarebbero di tali proporzioni in tutti i campi economici e aree sociali, che sarebbe necessaria un’assoluta e completa ristrutturazione di tutto il sistema di prezzi. Tutto ciò sarebbe conseguenza, non solo della scomparsa del diritto di proprietà dei fattori di produzione e del drastico cambiamento nella distribuzione del reddito che derivano da ogni cambiamento rivoluzionario da un sistema economico a un altro, ma anche della percezione, completamente diversa, da parte dei diversi agenti economici, di quali dovrebbero essere i loro fini e mezzi alla loro portata, in funzione della diversa posizione che ognuno di essi si troverebbe ad occupare nella nuova scala sociale e del terribile grado di coercizione e di rigidità istituzionale introdotta a danno della libera capacità di agire in modo imprenditoriale in tutte le aree sociali. Pertanto, considerare che si potrebbero prendere come punto di partenza i prezzi esistenti nel sistema economico capitalista proprio prima dell’introduzione del socialismo effettuando, in modo marginale, solo i piccoli aggiustamenti di «dettaglio» che fossero necessari per mantenere il sistema in equilibrio, è teoricamente inammissibile.30

In terzo luogo, e anche se si potesse ammettere per fini puramente dialettici che il cambiamento dal capitalismo al socialismo non tocca in modo significativo il sistema di prezzi, è indispensabile considerare che solo in circostanze molto particolari un eccesso o una scarsità del prodotto può implicare un indicatore affidabile per un organismo centrale di pianificazione riguardo a ciò che si deve fare con il suo prezzo. Concretamente, è necessario che esistano opportunità di scelta e che queste siano percepite e sentite come tali dai diversi agenti economici, perché la scarsità o l’eccesso di prodotto indichino se è necessario o no alzare o ridurre il prezzo prefissato. Cioè, là dove non esistono o non si percepiscono alternative, la scarsità non significa molto, dal momento che è forzata dalla circostanza che 30 F.A. Hayek, «The Present State of the Debate», in Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 213. Hayek, in questo senso, non fa altro che seguire l’intuizione sviluppata inizialmente da Mises, che già nel 1920 affermò: «The transition to socialism must, as a consequence of the levelling out of the differences in income and the resultant readjustments in consumption, and therefore production, change all economic data, in such a way that a connecting link with the final state of affairs in the previously existing competitive economy becomes impossible». Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», in Collectivist Economic Planning, opera citata, pp. 109-110. Questo argomento va collegato con quello già anticipato nella precedente nota 27, di modo che l’argomentazione basica misiana iniziata nel 1920 si completa e si perfeziona durante 20 anni, concludendosi così: 1.º È impossibile considerare che la situazione di partenza corrisponda a uno stato di equilibrio; 2.º È impossibile calcolare lo stato finale di equilibrio per mancanza di informazione; 3.º Anche se si ammettesse per fini puramente dialettici che i problemi menzionati in 1.º e 2.º fossero stati risolti, non si disporrebbe di nessuna guida per orientare le innumerevoli azioni necessarie per passare dallo stato iniziale di equilibrio allo stato finale di equilibrio (argomento culmine di Mises spiegato nella nota 27).

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non esistono o non si sa che esistano beni e servizi dello stesso tipo ma di diversa qualità o disponibili a prezzi diversi, o addirittura beni e servizi che, anche se diversi, in maggiore o minore misura possano essere utilizzati come succedanei o sostitutivi. La scarsità, pertanto, non è un sintomo che indica automaticamente che il prezzo debba essere alzato, poiché in molte occasioni la cosa più economica sarà quella di cercare di sviluppare, introdurre e provare nuovi prodotti alternativi.

In quarto luogo, perché una scarsità sia significativa o possa aiutare minimamente l’organo centrale di pianificazione a prendere decisioni, è ugualmente indispensabile che non siano stati emessi un eccesso di «certificati» che diano diritto ad acquisire fattori di produzione e beni e servizi di consumo (non diciamo «unità monetarie», dal momento che, come abbiamo spiegato precedentemente, il concetto di «denaro» è radicalmente diverso in un sistema socialista da quello che si utilizza in un sistema capitalista). In effetti, se c’è un eccesso di emissione di unità «monetarie» si produrrà una «scarsità» generalizzata di beni, servizi e risorse produttive senza che essa indichi in alcun modo in forma precisa di quanto si dovrebbe alzare il prezzo di ciascuno dei beni e servizi o dei fattori di produzione, né in che misura di dovrebbe aumentare la produzione di ogni loro tipo e classe.31

In quinto luogo, se, com’è la cosa più normale, la scarsità finisce per manifestarsi come una caratteristica cronica e ricorrente del sistema socialista, gli agenti economici (consumatori, gestori, ecc.) prima o poi impareranno dall’esperienza, e la loro propria ed innata capacità «imprenditoriale» li porterà a cercare di appropriarsi di qualsiasi bene che sia acquisibile in cambio delle corrispondenti «unità monetarie». Si produce, così, una fuga generalizzata verso i valori reali da parte di tutti gli agenti economici, che cercheranno di acquisire qualsiasi cosa, anche se non ne hanno una necessità assoluta o immediata, dato che si rendono conto che la scarsità è la nota dominante del sistema economico e che tanto vale acquisire qualsiasi tipo di bene, anche se non se ne ha bisogno, in previsione che nel futuro esso non sia più disponibile e, comunque, possa avere una qualche utilità. Questo fenomeno si riproduce in modo identico nel campo della produzione. Così, Kornai ha spiegato molto chiaramente come, in un sistema socialista, i gestori e i responsabili industriali scoprono presto che la scarsità dei diversi input e fattori di produzione è la regola dominante con carattere cronico. Il gestore, inoltre, si rende conto che non perde niente per il fatto di tenere un inventario molto elevato di fattori di produzione, dato che il suo costo finanziario, non esistendo una rigorosa limitazione di budget, non comporta nessun vero problema. Al contrario, il fatto che non si possa raggiungere nessun obbiettivo fissato in modo coercitivo dall’ organo di pianificazione, dovuto alla scarsità di qualche materiale o di qualche fattore di produzione, sì che comporta un rischio reale molto significativo per il gestore. Come conseguenza di tutto questo, si tende in modo generalizzato e continuo a richiedere e ad accumulare in eccesso e senza alcuna misura ogni tipo di input e fattori di produzione, compresi quelli che non sono strettamente necessari, per cui la scarsità generalizzata delle risorse si converte inesorabilmente nella nota dominante del sistema economico socialista.32 È evidente, pertanto, che sarà impossibile che un organo centrale di pianificazione pretenda di trovare un’ipotetica soluzione di equilibrio mediante un procedimento di «prova ed errore» che si basi sull’osservazione delle scarsità che si manifestino nel sistema economico, se esso

31 In modo molto grafico Trygve J.B. Hoff ci spiega che «just as in tennis a score of 6-0, 6-0 gives no indication of how much better the winner is, so stocks of unsold goods do not reveal how strongly the different goods are desired», Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata, pp. 117-118. 32 Si vedano le opere di János Kornai Economics of Shortage, North Holland, Amsterdam 1980, e Growth Efficiency and Shortage, University of California Press, Berkeley 1982..

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stesso è intensamente contaminato da tali scarsità, in modo cronico e costante e in relazione a tutti i beni economici di consumo e ai fattori di produzione di tutta la società.33

In sesto luogo, bisogna metter in risalto che il sistema economico non è un mero conglomerato di beni e servizi isolati, in relazione ai quali si possa ritenere che una scarsità o un eccesso di prodotto indichi automaticamente che il prezzo debba aumentare o diminuire. Al contrario, il sistema economico dà luogo continuamente a un insieme intimamente correlato di beni e servizi di consumo e di fattori di produzione. Così, per esempio, può accadere che non si manifesti la scarsità di un bene e, tuttavia, esso sia divenuto scarso, essendo tale circostanza camuffata dall’esistenza o inesistenza di altri beni messi in relazione direttamente o indirettamente come sostitutivi o complementari. O, al contrario, che sembri esserci scarsità, ma che le circostanze siano tali che, più che un aumento di prezzo, ne derivi un migliore utilizzo dei beni sostitutivi esistenti. Tutto questo significa che l’organo centrale di pianificazione non potrebbe lasciarsi guidare dalla scarsità o dall’eccesso di beni considerati individualmente, ma che dovrebbe conoscere e controllare la situazione di scarsità o di eccesso di tutti i beni considerati nel loro insieme e correlati tra di loro, cosa che, evidentemente, rende impossibile l’esercizio di un metodo che, come quello di «prova ed errore», si vuole applicare in modo isolato e individuale ad ogni bene e servizio.34

In settimo luogo, Ludwig von Mises argomenta che il metodo di prova ed errore è applicabile solamente per affrontare quei problemi nei quali la soluzione corretta sia resa riconoscibile da una serie di fatti e indizi incontrovertibili e indipendenti dallo stesso metodo di prova ed errore. Al contrario, le circostanze sono totalmente diverse quando l’unica indicazione possibile che si è raggiunta la soluzione corretta è radicata proprio nel fatto che vi si sia arrivati mediante l’applicazione del metodo o procedimento che si considera appropriato per la soluzione del problema. Ovvero, detto in altro modo, il metodo di prova ed errore può servire quando esiste una conoscenza di riferimento rispetto alla quale andare adattando per tentativi la soluzione corrispondente. Se, come accade nel sistema socialista, tale riferimento non esiste per il fatto di aver eliminato il processo imprenditoriale di mercato corrispondente, all’organismo centrale di pianificazione mancherà la guida necessaria per cercare di avvicinarsi alla soluzione corretta, utilizzando il meccanismo della prova ed errore. E che non si dica che queste «guide» sono costituite proprio dalle circostanze «obbiettive» di eccesso o di scarsità che si vengano verificando, poiché a parte il fatto che, come abbiamo già visto, tali guide non sono né oggettive né indicano inequivocabilmente quello che bisogna fare, esse stesse nascono come risultato endogeno dell’applicazione del metodo di prova ed errore stesso,per cui non costituiscono nessuna guida di riferimento oggettivo, ma solamente le manifestazioni successive, arbitrarie e aleatorie, di un processo circolare di scoordinazione e inefficacia che non porta a niente. In un’economia in cui esiste la libertà di esercizio della funzione imprenditoriale sì che si potrebbe, in un certo senso, dire che, esercitando 33 Hoff indica, ugualmente, che in queste circostanze costituisce un altro problema insolubile la gradualità dell’incremento del prezzo che deve essere stabilito dall’organo centrale di pianificazione ogni volta che si verifica un periodo di scarsità. Per Hoff, il fatto che esista scarsità non indica né trasmette nessuna conoscenza relativa a come si deve effettuare (cioè, in relazione a quali beni specifici e in quale misura) il corrispondente aumento dei prezzi. Si veda su Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata, p. 119 34 Devo questo argomento a Robert Bradley, del Dipartimento di Economia dell’ Università di Huston. Si veda «Socialism and the Trial and Error Proposal», incluso come Parte IV del suo articolo «Market Socialism: A Subjectivist Evaluation», The Journal of Libertarian Studies, volume V, n.º1, inverno del 1981, pp. 28-29. Bradley conclude: «It is logically possible that a good and its substitutes all have equilibrating prices, yet their prices not be indices of the scarcity. In this case, the bad prices merely camouflage each other. So we can see that monitoring individual prices is not enough; the CPB would have to be in command of all price interrelationships. Thus the “trial and error” method becomes inadequate since it only applies to prices individually» (p.29).

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l’imprenditorialità, i diversi agenti economici agiscono mediante un procedimento di «prova ed errore», avvicinandosi alle soluzioni adeguate, tendendo, cioè, a scoprire e a coordinare i casi di disadattamento che si verificano nella società. E così perché la funzione imprenditoriale correlata dei diversi agenti va generando un’informazione che non potrebbe nascere dall’attività isolata e indipendente di ciascuno di loro, per quanto metodo di prova ed errore volessero applicare da soli, e che costituisce la «materia prima» imprescindibile ad effettuare la contabilità per stimare i benefici e i costi relativi ad ogni azione umana. In questo modo, e seguendo la guida che offre il calcolo di perdite e guadagni, gli agenti economici tendono ad agire in modo coordinato. Al contrario, se si impedisce in modo coercitivo il libero esercizio della funzione imprenditoriale, si elimina l’unico processo che rende possibile l’adattamento coordinato dei diversi comportamenti individuali che costituiscono la vita sociale e, di conseguenza, si elimina l’unica guida esterna che permette a ciascun agente di scoprire se si sta o no avvicinando alla soluzione più adeguata per lui.35

D’altro canto, e in ottavo luogo, la grande debolezza del metodo di prova ed errore è radicata nel fatto che presuppone che la comunità sia statica e che, pertanto, la totalità delle circostanze e delle condizioni sociali rimarranno inalterate mentre si porta a termine la «prova» e si mette in luce il suo possibile «errore». Tuttavia, se si considera che, come succede sempre nella realtà, gli adattamenti danno luogo a cambiamenti che influenzano in modo generalizzato, in maggiore o minore misura, tutti i prezzi dei fattori produttivi e dei beni e servizi di consumo, allora qualsiasi «correzione» che si cerchi di effettuare come conseguenza di errori realmente o apparentemente percepiti, si farà sempre troppo tardi e, pertanto, avrà un carattere profondamente ingannevole. Cioè, come ha messo in luce Hayek,36 l’utilizzazione del metodo di «prova ed errore» non è fattibile nel mondo reale nel

35 D’accordo con Ludwig von Mises: «The method of trial and error is applicable in all cases in which the correct solution is recognizable as such by unmistakable marks not dependent on the method of trial and error itself … Things are quite different if the only mark of the correct solution is that it has been reached by the application of a method considered appropriate for the solution of the problem. The correct result of a multiplication of two factors is recognizable only as the result of the correct application of the process indicated by arithmetic. One may try to guess the correct result by trial and error. But here the method of trial and error is no substitute for the arithmetical process. It would be quite futile if the arithmetical process did not provide a yardstick for discriminating what is incorrect from what is correct… If one wants to call entrepreneurial action an application of the method of trial and error, one must not forget that the correct solution is easily recognizable as such; it is the emergence of a surplus of proceeds over costs. Profit tells the entrepreneur that the consumers approve of his ventures; loss, that they disapprove. The problem of socialist economic calculation is precisely this: that in the absence of market prices for the factors of production, a computation of profit or loss is not feasible». Human Action, opera citata, pp. 704 e 705. 36 Queste sono le parole dello stesso Hayek: «Almost every change of any single price would make changes of hundreds of other prices necessary and most of these other changes would by no means be proportional, but would be affected by the different degrees of elasticity of demand, by the possibility of substitution and other changes in the method of production. To imagine that all this adjustment could be brought about by successive orders by central authority when the necessity is noticed, and that then every price is fixed and changed until some degree of equilibrium is obtained is certainly an absurd idea… To base authoritative price-fixing on the observation of a small section of the economic system is a task which cannot be rationally executed under any circumstances». «The Present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 214. E cinque anni dopo, nel 1940, Hayek, nella sua risposta a Lange, ha affermato ancora più chiaramente: «It is difficult to suppress the suspicion that this particular proposal (the trial and error method) has been born out of an excessive preoccupation with problems of the pure theory of stationary equilibrium. If in the real world we have to deal with approximately constant data, that is, if the problem were to find a price system which then could be left more or less unchanged for long periods, then the proposal under consideration would not be so entirely unreasonable. With given and constant data such state of equilibrium could indeed be approached by the method of trial and error. But this is far from being the situation of the real world, where constant change is

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quale si stanno costantemente producendo cambiamenti. Ogni cambiamento individuale implica una serie praticamente innumerevole di influenze sui prezzi sulla qualità e tipo di beni che si producono nella società, di modo che non esiste nessuna possibilità che attraverso il metodo di prova ed errore si ottenga la convergenza verso un’ipotetica soluzione di equilibrio, prima che nuovi e ulteriori cambiamenti nell’informazione la trasformino in qualcosa do ormai totalmente obsoleto e sfasato. Se nel mondo reale non si producessero cambiamenti e l’informazione, rimanendo costante, non si modificasse, il problema di trovare un sistema di prezzi di equilibrio attraverso il metodo di prova ed errore potrebbe sembrare più fattibile, se si pensasse che l’esistenza dell’equilibrio potrebbe costituire un punto di riferimento un po’ più chiaro con cui paragonare le diverse soluzioni provate per tentativi; ma il mondo reale, e al contrario di ciò che possano supporre i teorici socialisti, non è in equilibrio né è statico, per cui l’utilizzazione del metodo di prova ed errore per cercar di trovare una soluzione al corrispondente sistema di equazioni è impossibile.

Il nono e ultimo luogo, l’argomento più importante contro il metodo di prova ed errore è che ignora completamente la teoria della funzione imprenditoriale che abbiamo spiegato nel Capitolo II. Il problema essenziale è chi va a esercitare il metodo di prova ed errore. Se il fatto di prendere decisioni riguardo all’adozione di soluzioni trovate per tentativi non viene portata a termine dagli agenti economici concreti che possiedono l’informazione pratica, è chiaro che il metodo di prova ed errore non porterà in nessun posto per le ragioni annotate nel Capitolo III. Da un lato, all’organo centrale di pianificazione mancherà l’informazione pratica rilevante che si crea ed è disponibile solo nella mente degli esseri umani che agiscono esercitando la funzione imprenditoriale. Dall’altro lato, l’informazione necessaria per coordinare e modificare la società non si creerà e non si genererà neppure se non esiste libertà nell’esercizio della funzione imprenditoriale da parte di tutti gli esseri umani. E se quell’informazione neppure si genera, difficilmente si potrà trasmettere a un organo centrale di pianificazione. Così come abbiamo già accennato, il metodo di prova ed errore, se deve avere alcun senso, deve essere esercitato a livello individuale e nel contesto di un’economia di mercato in cui esista completa libertà per l’esercizio della funzione imprenditoriale, così come la possibilità di appropriarsi senza alcun ostacolo dei frutti della propria creatività imprenditoriale. Inoltre, ricordiamo che l’informazione ha un carattere strettamente soggettivo e che, di fronte agli stessi fatti osservabili del mondo esteriore, l’informazione interpretativa che può generare l’agente sarà diversa secondo quali siano le sue circostanze particolari e quelle del contesto in cui si muove. Di fronte a una determinata scarsità, in termini economici non può ispirare nessuna tranquillità il fatto che l’organo di pianificazione centrale, in modo automatico, applichi una regola prefissata (produrre più bene X, o alzare il suo prezzo in una determinata percentuale), già che è sicuro che lasciando libero il processo imprenditoriale, la creatività umana di fronte a questi stessi fatti oggettivi dia luogo a soluzioni radicalmente diverse. Così, di fronte a un problema di scarsità, invece di alzare il prezzo, la cosa più giusta può essere quella di dedicare l’ingegno imprenditoriale a trovare nuove soluzioni a quel problema, sviluppando beni sostitutivi, cercando nuove alternative a cui non si era ancora pensato, ecc… In questo modo si mette in evidenza l’impossibilità logica che il metodo di prova ed errore possa servire ad adattare la soluzione di un ipotetico sistema di equazioni che renda possibile il calcolo economico in una società in cui non si permette il libero esercizio della funzione imprenditoriale. In queste circostanze, all’organo centrale di pianificazione mancherà l’informazione pratica rilevante, che non sarà creata neppure dagli agenti economici che

the rule». «Socialist Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, opera citata, p. 188.

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partecipano al sistema e, di conseguenza, non esisterà nessuna guida che tenda a coordinare gli scompensi continui che possano verificarsi nella società. L’utilizzazione centralizzata del metodo di prova ed errore non porta, pertanto, a nessuna soluzione di equilibrio né è capace di orientare l’ipotetico organismo centrale di coercizione riguardo a quali debbano essere le decisioni o le misure che bisogna adottare per coordinare il processo sociale.37 5. L’IMPOSSIB ILITÁ TEORICA DELLA PIANOMETRIA38

Le precedenti osservazioni critiche al metodo di soluzione al problema del calcolo economico socialista mediante la «prova ed errore» sono interamente applicabili alla vasta letteratura39 che, posteriormente al dibattito e più recentemente, si è venuta sviluppando da parte degli economisti della scuola dell’equilibrio generale, sotto la denominazione generica di «pianometria». Questa linea di ricerca utilizza un insieme vario di tecniche matematiche molto sofisticate, che comprendono la programmazione lineare e non lineare, la programmazione con numeri interi, una parte molto importante della teoria cibernetica della decisione, così come diversi procedimenti informatici di approssimazione iterativa. L’obbiettivo essenziale di

37 Bisogna qui riprodurre, con carattere complementare, le critiche al metodo di «prova ed errore» proposto da Oskar Lange e che includiamo nel paragrafo corrispondente del capitolo seguente. 38 Questo termine è stato reso popolare da J. Wilczynski per il quale «planometrics is a branch of economics concerned with the methodology of constructing economic plans especially arising at the optimal plan, with the aid of modern mathematical methods and electronic computers», The Economics of Socialism, George Allen & Unwin, Londra 1978, 3.ª edizione, p. 17, e anche le pp. 24 e 46. A volte, per denominare questa branca dell’economia, si è usato anche il termine «computopia» o quello di «teoria dei meccanismi per l’assegnazione delle risorse», denominazioni che dobbiamo rispettivamente a Egon Neuberger («Libermanism, Computopia and Visible Hand: The Questiono of Informational Efficiency», American Economic Review, «Papers and Proceedings», maggio 1966) e a Leonid Hurwicz («The Design of Mechanisms for resource Allocation», American Economic Review, n.º 63, maggio 1973). 39 Riguardo alla letteratura relativa alla «pianometria» si possono consultare, per esempio, le opere di K.J. Arrow e L. Hurwicz, Studies in Resource Allocation Processes, Cambridge University Press, Cambridge 1977; Leonid Hurwicz, «The Design of Mechanisms for Resource Allocation», American Economic Rewiew, n.º 63, 2, maggio 1973; John P. Hardt e altri (editori), Mathematics and Computers in Soviet Economic Planning, Yale University Press, New Haven, Connecticut, 1967; Benjamin N. Ward, «Linear Programming and Soviet Planning», incluso nell’opera di Hardt citata, e The Socialist Economy. A Study of Organizational Alternatives ,Random House, New York 1967. Nella p. 94 del magnifico libro di Don Lavoie Rivalry and Central Planning, già citato, si trova un riassunto esauriente e dettagliato di tutta la bibliografia esistente in lingua inglese sul tema di riferimento. In lingua tedesca, non possiamo fare a meno di menzionare il riassunto della letteratura sulla pianometria che dobbiamo a Christian Seidl contenuto nel suo articolo «Allokations Mechanismus Asymmetrische Information und Wirtschaftssystem», pubblicato su Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik, n.º 197 (3), 1982, pp. 193 a 220. Un riassunto tanto breve quanto buono del contenuto degli apporti fatti fino ad ora in questo campo e le loro principali difficoltà si trova nel recente libro di John Bennet intitolato The Economic Theory of Central Planning (Basil Blackwell, Londra 1989) e specialmente nel suo Capitolo 2, pp. 9 a 37. Ed è interessante anche il lavoro di Peter Bernholz «Information, Motivation and the Problem of Rational Economic Calculation in Socialism», incluso come Capitolo 7 nel libro Socialism: Institutional, Philosophical and Economic Issues, Svetozar Pejovich (ed.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, olanda 1987, pp. 161 a 167. Infine, bisogna menzionare la scuola sovietica sviluppatasi sotto gli auspici di Leonid V. Kantorovich che, preoccupata in modo ossessivo dallo sviluppo e dal perfezionamento delle tecniche di ottimizzazione, non è mai stata capace di capire il problema economico (non «tecnico») che pone il socialismo, né, pertanto di proporzionare nessuna soluzione al processo di lenta decomposizione del modello sovietico. Si veda «L.V. Kantorovich: The Price Implications of Optimal Planning», Roy Gardner, Journal of Economic Literature, volume XXVIII, giugno 1990, pp. 638-648 e tutta la bibliografia ivi citata.

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questi modelli è quello di scoprire a priori tutta una configurazione di prezzi di equilibrio. Cioè, in anticipo rispetto a quello che determinerebbe spontaneamente il mercato, si cerca di trovare una soluzione che pre-coordini tutti i piani degli agenti economici e che, pertanto, renda superfluo il processo reale di coordinazione del mercato che, per sua stessa natura, si produce sempre a posteriori come conseguenza dell’impulso imprenditoriale. Insomma, quello che vogliono le tecniche della pianometria è, né più né meno, che rimpiazzare il processo competitivo imprenditoriale con un meccanismo che permetta di pre-coordinare la società in modo centralizzato.

È certo che, fino ad ora, non si è potuto mettere in pratica nessuno dei modelli pianometrici, e che gli stessi teorici socialisti riconoscono che le loro possibilità di applicazione sono molto limitate. Ciononostante, si continua a discutere che ciò si deve, più che altro, alle limitazioni che ancora esistono in quanto alla capacità informatica degli attuali computer, così come alla scarsità di personale sufficientemente qualificato e a difficoltà tecniche di ottenere l’informazione necessaria. Tuttavia, con il trascorrere degli anni, l’idea che sarebbe possibile rimpiazzare il mercato con un sistema onnicomprensivo di pianificazione informatizzata, portata a termine mediante i modelli della pianometria, è stata lentamente abbandonata addirittura dagli stessi autori che sviluppano questo programma di ricerca scientifica. Inoltre, il fallimento nell’applicazione delle tecniche pianometriche nei paesi dell’Est verificatosi negli anni settanta ha dato luogo, non solo all’abbandono di nuovi tentativi pratici in questo senso, ma anche a una profonda disillusione e a un profondo disinganno tra tutti coloro che avevano ingenuamente riposto le loro speranze in queste tecniche.40 Nonostante tutto ciò che è stato detto precedentemente, esistono ancora due ragioni importanti che giustificano ora uno studio separato della pianometria, proprio dopo aver analizzato dettagliatamente nel paragrafo precedente l’impossibilità teorica del metodo di «prova ed errore».

In primo luogo, bisogna sottolineare che diversi trattatisti in questo campo ancora affermano ingenuamente che, nonostante il fatto che fino ad ora si siano raccolti solamente fallimenti e frustrazioni, si può sperare che in futuro i successivi affinamenti della teoria e i prevedibili miglioramenti nella capacità informatica, rendano possibile ciò che fino ad ora non lo è stato. Così, per esempio, Musgrave, in uno studio in cui si valuta il risultato riguardo al

40 Sulla delusione riguardo all’applicazione dei modelli pianometrici, Michael Ellman afferma che «work on the introduction of management information and control systems in the soviet economy was widespread in the 1970’s, but by the 1980’s there was widespread scepticism in the USSR about their usefulness. This largely resulted from the failure to fulfil the earlier exaggerated hopes about the returns to be obtained from the introduction in the economy». Vedere l’articolo «Economic Calculation in Socialist Economies» di Michael Ellman, pubblicato nel volume II di The New Palgrave. A Dictionary of Economics, Mcmillan, Londra 1987, p. 31. Nello stesso senso si esprime Jan S. Prybila nel suo Market and Plan Under Socialism, Hoover Institution Press, Stanford 1987, p. 55. Da parte sua, Martin Cave, nel suo Computers and Economic Planning. The Soviet Experience (Cambridge University Press, Cambridge 1980), dopo aver messo in luce la profonda disparità e separazione esistente fra due gruppi di ricercatori costituiti, uno da coloro che dedicano i loro sforzi a formulare modelli astratti di pianometria, e l’altro da coloro che si dedicano a studiare i sistemi reali, arriva alla conclusione che lo scetticismo crescente sui modelli pianometrici come possibili sostituti del mercato hanno origine nel fatto che «they do not, nor are they intended to, do justice to the complexities of a centrally planned economy» (p. 38). Lo stesso Hurwicz, da parte sua, sembra essersi rassegnato a considerare che la pianometria ha solamente l’interesse di puro esercizio intellettuale, che corrisponderebbe a una prima tappa teorica del problema del calcolo economico (quella che consisterebbe nel «formulare» tale problema), tappa che in seguito sarebbe stata messa in pratica più dando spazio alle forze del mercato e adattando il piano alle sue realtà che al contrario, adattando, cioè, il mercato ai parametri del modello pianometrico (si veda il suo «Centralization and Decentralization in Economic Processes», pubblicato su Comparison of Economic Systems. Theoretical and Methodological Approaches, Alexander Extain (ed), University of California Press, Berkeley 1971, p. 81.

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dibattito sul calcolo economico, conclude che la pianificazione, come sistema efficiente, si potrebbe portare a termine lasciando che i pianificatori simulassero il mercato competitivo e applicando le tecniche informatiche corrispondenti. E Arrow, da parte sua, afferma che lo sviluppo della programmazione matematica e dei computer di alta velocità fanno sì che il sistema di pianificazione centrale non sembri più come qualcosa di impossibile da ottenere in futuro, visto che è fattibile simulare il funzionamento di un sistema decentralizzato semplicemente scegliendo l’algoritmo centralizzato corrispondente.41 D’accordo con questi e 41 L’errore di questi due autori risiede nella loro ignoranza dell’essenza del funzionamento dei processi di mercato che abbiamo spiegato nel Capitolo II di questo libro. Arrow è giunto addirittura ad affermare che «indeed, with the development of mathematical programming and high speed computers the centralized alternative no longer appears preposterous. After all, it would appear that one could mimic the workings of a decentralized system by an appropriately chosen centralized algorithm» (Kenneth J. Arrow, «Limited Knowledge and Economic Analysis», American Economic Review, volume 64, n.º di marzo del 1974, p. 5). Sembra quasi inevitabile che persino le menti più brillanti, come quella di Arrow, perdano la capacità di comprendere i problemi economici fondamentali nel momento in cui diventa ossessivo il loro interesse per l’analisi matematica dell’equilibrio. Musgrave, dal canto suo, commette il medesimo errore nel suo articolo «National Economic Planning: The U.S. Case», American Economic Review, n.º 67, febbraio 1977, pp. 50-54. Un altro autore che incappa in un errore simile a quello di Arrow e Musgrave, nonostante in questo caso sia più comprensibile per la sua appartenenza ideologica socialista, è Wilczynski, che arriva ad affermare che «the feasibility of the computational optimal prices conclusively refutes any grounds for the claim that rational pricing was impossible under socialism. Even though much remains to be done on the practical level, there is a sound theoretical basis. In fact, in some respects, socialism provides the possibility of improving on capitalism». Si veda The Economics of Socialism, op. cit., p. 138. Un altro trattatista che partendo dalla teoria dell’equilibrio generale è giunto alla conclusione che il modello walrasiano possa proporzionare senza problemi i principi essenziali per organizzare un’economia di pianificazione centrale è stato l’economista francese Maurice Allais. Allais, che all’inevitabile confusione mentale che produce l’utilizzo del metodo matematico in economia unisce una sua peculiare idiosincrasia, è giunto addirittura ad affermare che in un’economia di equilibrio e concorrenza perfetta l’interesse del capitale arriverebbe a sparire (idea chiaramente assurda, dal momento che anche in quelle circostanze sarebbe necessario far fronte alle necessarie quote di ammortizzazione del capitale, e anche le forze soggettive della preferenza temporale continuerebbero a esistere); Allais propone la nazionalizzazione del suolo e di stabilire i prezzi attraverso un’unità di misura basata su un’unità di tempo di «lavoro specializzato». Si veda Maurice Allais, «Le problème de la planification dans une économie collectiviste», pubblicado in Kyklos, luglio-ottobre 1947, vol. I pp. 254-280, vol. II, pp. 48-71. Riguardo a queste proposte assurde di Maurice Allais, Karl Pribram nella sua monumentale A History of Economic Reasoning (The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1983, p. 459) ci dice quanto segue: «It has been one of the strange episodes in the history of economic reasoning that radical minds, bent on overthrowing the existing economic order, nevertheless believed – or pretended to believe – that, contrary to any historical experience, the pattern for the organization of a “planned” economy could be supplied by a model of the Walrasian type in which full reliance was placed on the automatic working of equilibrating forces». Da ultimo, le stesse posizioni sono state adottate da due noti economisti dell’Est, Wlodzimierz Brus e Kazimierz Lasky, in un’opera molto recente nella quale come avremo occasione di vedere più avanti, dicono esplicitamente che Mises e Hayek avevano ragione nel dibattito sul calcolo economico socialista, e che non avevano avuto una risposta adeguata né da parte di Oskar Lange né nessun altro. Brus e Laski danno la colpa al modello neoclassico in generale e in particolare a quello walrasiano, per non aver tenuto conto di quella figura essenziale del sistema capitalista che è l’imprenditore. Allo stesso modo criticano il fatto che nel modello di «concorrenza perfetta» non si tenga in alcun conto l’inevitabile lotta e la rivalità che esiste tra gli imprenditori, che è costantemente generatrice di nuova informazione. E concludono che «the Walrasian model overlooks the true central figure of the capitalist system, namely the entrepreneur sensu stricto. Formally there are entrepreneurs in the Walrasian model, but they behave like robots, minimizing costs or maximizing profits with the data given. Their behaviour is that of pure optimizers operating in the framework of exclusively passive competition, reduced to reactive adjustment of positions to an exogenous change. This can scarcely be a legitimate generalization of competition, which in reality is a constant struggle affecting the data themselves. It is here that the static approach of the general equilibrium theory becomes particularly pronounced, contrary to the actual dynamics of a capitalist system». Si veda From Marx to the Market, Socialism in Search of an Economic System, Clarendon Press, Oxford 1989, p. 57. E nello stesso senso si può consultare il mio lavoro «La Crisis del Paradigma Walrasiano», pubblicato in El País, il 17 dicembre 1990, p. 36.

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altri autori, i miglioramenti nella programmazione lineare e nella tecnologia dei computer renderebbero possibile la soluzione del problema del calcolo economico socialista così come è stato posto da Mises e Hayek.

In secondo luogo, altri teorici della pianometria, e prima di tutti Hurwicz, ritengono non solo di aver affrontato l’argomentazione computazionale di Hayek (che, come già sappiamo, aveva per lui un’importanza del tutto secondaria), ma anche di aver aggiunto ai loro modelli pianometrici l’argomento essenziale relativo al carattere disperso dell’informazione.42 Così, Hurwicz parte dalla supposizione che, inizialmente, ogni agente economico disporrà solo di un’informazione di tipo privativo che gli altri non avranno (i consumatori riguardo alle loro rispettive preferenze, i produttori riguardo alle tecnologie a loro disposizione, ecc.); di modo che nei loro modelli pianometrici, non si prende mai in considerazione che le corrispondenti funzioni di produzione saranno note all’organismo centrale di pianificazione, ma, al contrario, tali funzioni saranno note solo agli agenti economici individuali. Inoltre, in molti modelli si presuppone che nemmeno i produttori conoscano tutte le loro funzioni di produzione, ma solo quella parte di esse in relazione alle quali hanno avuto un qualche tipo di esperienza. Dato il carattere dei prezzi come trasmettitori efficienti di informazione, l’unica conoscenza che, d’accordo con questi modelli, deve essere trasmessa tra l’organo centrale di pianificazione e gli agenti economici è solo quella corrispondente a una lista di «prezzi» che si riferiscono a tutti i beni e servizi dell’economia, e che deve essere resa pubblica dall’organismo centrale di pianificazione, come risposta a una lista di quantità prodotte di ciascun bene e servizio da parte di ogni agente economico. La trasmissione di questo immenso flusso di informazione dall’organo centrale di pianificazione agli agenti economici (prezzi) e dagli agenti economici all’organo centrale di pianificazione (quantità prodotte) non deve comportare nessun particolare problema, secondo i teorici della pianometria, soprattutto tenendo in considerazione gli ultimi avanzamenti nel campo delle comunicazioni teleinformatiche. Infine, 42 Si veda Leonid Hurwicz, «The Design of Mechanisms for Resource Allocation», op. cit., p. 5. Hurwicz recentemente così si vantava di aver inglobato nei suoi modelli i contributi di Hayek e Mises: «The ideas of Hayek (whose classes at the London School of Economics I attended during the academic year 1938-39) have played a major role in influencing my thinking and have been so acknowledged. But my ideas have also been influenced by Oskar Lange (University of Chicago 1940-42) as well as by Ludwig von Mises in whose Geneva Seminar I took part during 1938-1939» (Leonid Hurwicz, «Economic Planning and the Knowledge Problem: A Comment», in The Cato Journal, volume 4, n.º 2, autunno 1984, p. 419). La precedente affermazione di Hurwicz non fa altro che rendere evidente che, come ha evidenziato con tanta arguzia Don Lavoie, Hurwicz non capì mai né quale fosse il messaggio di Hayek né quello di Mises, e questo nonostante avesse assistito, come egli stesso afferma, alle loro lezioni e seminari. Effettivamente, nel pensiero di Hurwicz non solo è totalmente assente una teoria della funzione imprenditoriale, ma, inoltre, egli è assolutamente convinto che l’informazione sia qualcosa di oggettivo e, nonostante dispersa, trasmissibile con un significato univoco a tutti. Ignora, pertanto, le caratteristiche essenziali dell’informazione imprenditoriale che costituisce il cuore dei processi di mercato, e dunque la sua natura soggettiva ed in articolabile. Si veda l’interessante lavoro di Don Lavoie, The Market as a Procedure for Discovery and Conveyance of Inarticulate Knowledge, Working Paper, Department of Economics, George Mason University, novembre 1982. Inoltre, Hurwicz, come evidenzia nella sua risposta a Kirzner nell’articolo pubblicato nel Cato Journal che abbiamo appena citato, considera che il problema della conoscenza dispersa sia solo un problema di trasmissione di informazione esistente, e non si pone neppure il problema della creazione di nuova informazione, che è il più importante in un processo di mercato ed è quello che caratterizza l’essenza di tutta la teoria della funzione imprenditoriale sviluppata da Kirzner. Anche Frank Hahn cade negli stessi errori di Hurwicz, poiché, ancora nel 1988, osava affermare senza il minimo dubbio che prima o poi il «socialismo di mercato» sviluppato da Lange e Lerner sarebbe stato capace di costituire un’alternativa decisamente migliore all’economia di mercato del sistema capitalista. Si veda «On Market Economics», in Robert Skidelsky (ed.), Thatcherism, Chatto & Windus, 1988, e specialmente la p. 114. Una magnifica critica alla posizione di Frank Hahn può leggersi in Capitalism, Arthur Seldon, Basil Blackwell, Oxford 1990, Capitolo 6, pp. 124-144.

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diversi procedimenti di iterazione informatica permetteranno di modificare gradualmente i prezzi in funzione degli eccessi o delle scarsità che vengano alla luce, e così fino a raggiungere il corrispondente sistema di equazioni di equilibrio che risolva il problema economico posto. In questo modo si produce una specie di «dialogo informatico» tra l’organo centrale che stabilisce i prezzi per tentativi e gli agenti economici, che ricevono l’istruzione di produrre tutte le quantità possibili equiparando i prezzi ai corrispondenti costi marginali (cioè, avendo introiti e costi marginali uguali); quantità che vengono comunicate all’organismo centrale, che verifica di nuovo i prezzi, modificandoli e trasmettendoli un’altra volta agli agenti economici, e così successivamente fino a che scompaiono gli eccessi o le scarsità che potrebbero verificarsi di volta in volta nella pratica.

Nonostante l’«ingegnosità» della proposta pianometrica che abbiamo appena descritto, e che essenzialmente si allontana di poco dalle proposte di Oskar Lange fatte negli anni trenta e che analizzeremo molto dettagliatamente nel capitolo seguente, qui di seguito dimostreremo come, di fatto, i modelli pianometrici non sono stati capaci di incorporare, in nessun modo, gli apporti di Hayek riguardo al problema che presuppone il carattere disperso della conoscenza, per cui essi stessi divengono inservibili al momento di fornire una soluzione al problema che pone il calcolo economico socialista. Inoltre, faremo una digressione sul ruolo che l’informatica e i computer possono avere in relazione a questo tema, confermando che, come abbiamo già avuto l’opportunità di dimostrare nel Capitolo II di questo libro, il progresso dell’informatica, lungi dal facilitare la soluzione al problema del calcolo economico socialista, lo rende ancora più complicato e difficile.

Benché la critica precisa che abbiamo fatto al metodo matematico di «prova ed errore» nel paragrafo precedente sia applicabile a tutta la moderna teoria pianometrica, in aggiunta è necessario dar risposta ai ragionamenti specifici che abbiamo appena indicato. Non si tratta, come credono molti esperti in pianometria, che il problema sia stato teoricamente risolto, tenendo in conto anche il carattere disperso dell’informazione e rimanendo in attesa che si produca lo sviluppo necessario nella capacità informatica per mettere in pratica i modelli corrispondenti; ma, al contrario e come vedremo, i modelli pianometrici non hanno incorporato le caratteristiche essenziali della realtà che, essendo già state enunciate dagli economisti della Scuola Austriaca, rendono teoricamente impossibile il loro funzionamento, e questo in modo totalmente indipendente dallo sviluppo futuro che un domani avrà la capacità informatica, sia in hardware che in software.

In primo luogo, i modelli pianometrici in generale, e la teoria di Hurwicz in particolare, hanno incorporato il principio del carattere disperso dell’ informazione in un modo goffo e adulterato. Ed è così perché il fatto che l’informazione sia dispersa nella mente di ciascuno degli agenti economici è essenzialmente inseparabile dal suo carattere soggettivo e strettamente personale, proprio come abbiamo visto dettagliatamente nel Capitolo II di questo libro. Se non solo l’informazione è dispersa ma è anche personale e soggettiva, avrà un significato molto diverso per ogni agente economico e non potrà, pertanto, essere trasmessa con un significato inequivocabile a nessun centro di pianificazione. Cioè, lo stesso prezzo, lo stesso oggetto materiale esterno, la stessa quantità e le stesse esperienze avranno un significato, o saranno interpretati in modo molto diverso da una persona o un’altra. Si può dire lo stesso per quel che riguarda le diverse opzioni che si crede siano disponibili per portare a termine un determinato progetto, per raggiungere un determinato scopo, o per produrre un determinato bene o servizio. E, allo stesso modo, un eccesso di prodotto o una sua scarsità avranno un significato molto diverso secondo l’agente che li osserva e potranno dar luogo, secondo le circostanze, a comportamenti molto diversi (cercare di ridurre la domanda, creare beni sostitutivi o succedanei, cercare nuovi orizzonti, o qualsiasi combinazione di questi

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comportamenti, ecc.). Il carattere soggettivo dell’informazione annulla, pertanto, tutto il modello di Hurwicz, che si basa su un dialogo o trasmissione costante di un’informazione, che erroneamente si considera oggettiva, tra gli agenti (possessori di un’ipotetica conoscenza dispersa ma oggettiva) e l’organo centrale di pianificazione.

In secondo luogo, e in stretta relazione con l’argomento precedente, c’è il fatto, anche questo già commentato dettagliatamente nel Capitolo II, che la conoscenza rilevante per l’azione umana è in maggior parte una conoscenza tacita, cioè, non articolabile. Se la maggior parte della conoscenza utilizzata dall’uomo al momento di agire non si può formalizzare in termini articolati, difficilmente tale conoscenza potrà essere trasmessa in modo oggettivo da nessuna parte. Non si tratta solo del fatto che gli stessi prezzi o relazioni storiche di intercambio sono interpretati in modo molto diverso dagli agenti economici, ma che, inoltre, se tali prezzi portano con sé un qualche tipo di informazione per determinati agenti è perché costoro, a loro volta, in minore o maggiore misura, condividono un determinato patrimonio di conoscenze pratiche non articolabile sulle caratteristiche dei beni e servizi che sono stati scambiati e che hanno dato luogo a quei prezzi, così come su altre mille circostanze che considerano soggettivamente rilevanti nel contesto delle azioni in cui sono coinvolti. Così, per esempio, la parte articolata o formalizzata del messaggio che interpreta un agente quando si rende conto che si stanno scambiando chili di patate a 30 unità monetarie (in questo caso la parte articolata sarebbe che «il prezzo del chilo di patate è di 30 unità monetarie») è una minima parte del totale di informazione che l’agente sa, genera e utilizza nel contesto della sua azione concreta (e relativa al desiderio che ha di comperare patate, alle diverse qualità di patate che ci sono, alla conoscenza che ha della qualità delle patate che normalmente porta il suo fornitore, al piacere che gli dà cucinare con le patate e al piatto che preparerà per i suoi invitati, agli altri alimenti che preparerà con le patate, e così successivamente con altre migliaia di dettagli).43

Inoltre, in terzo luogo e già in una prospettiva più dinamica, per l’agente un prezzo o un insieme di prezzi ha un senso determinato solo in funzione del fatto che egli sia immerso in un determinato progetto o azione, cioè, che si sia compromesso nell’ottenimento di determinati fini o ideali, che solo lui immagina e persegue di cuore, in tutta la loro varietà di sfumature e di dettagli. Questo credere in un determinato progetto, immaginarlo e perseguirlo con piacere si basa su delle aspettative e delle sensazioni di tipo soggettivo che sono basicamente in articolabili e che pertanto non possono essere trasmesse a nessun centro di pianificazione. L’imprenditore che crede in un’idea e la persegue contro vento, corrente e marea, in molti casi, nonostante le circostanze più avverse e contro l’opinione della maggioranza, é possibile che alla fine riesca a raggiungere il suo obbiettivo e a ottenere i benefici corrispondenti. Lo scopo che persegue, il beneficio che vuole ottenere, o la verità a cui aspira, non è qualcosa di dato e che si vede con assoluta chiarezza, ma è piuttosto qualcosa che si intuisce, si concepisce, si immagina o si crea. Ed è precisamente questa tensione creativa quella che rende possibile la scoperta e la creazione dell’informazione che

43 «The articulate information supplied by prices is only informative because they are juxtaposed against the wide background of inarticulate knowledge gleaned from a vast experience of habitual productive activity. A price is not just a number. It is an indicator of the relative scarcity of some particular good or service of whose unspecified qualities and attributes we are only subsidiarily aware. Yet were these qualities of a good to change in the slightest respect this could change incremental decisions about the uses of the good just as significantly as a change in price ... Hayek was not contending that prices as numbers are the only pieces of information that the market transmits. On the contrary, it is only because of the underlying inarticulate meaning attached to the priced goods and services that prices themselves communicate any knowledge at all». Don Lavoie, The Market as a Procedure for Discovery and Conveyance of Inarticulate Knowledge, op. cit., pp. 32-33.

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sostiene e sviluppa la società. La tensione creativa nasce dalle disparità che si verificano nel mercato, o meglio, dalle diverse opinioni o interpretazioni a cui danno luogo gli stessi fatti, avvenimenti e circostanze che, tuttavia, sono interpretati in modo diverso dagli agenti economici. Questa tensione creativa è ignorata ed esplicitamente eliminata dai modelli pianometrici che, per voler ottenere una coordinazione a priori di tutto il sistema economico, eliminano alla radice la possibilità che gli agenti agiscano in modo creativo a causa dello stimolo che comporta per loro lo scoordinamento.44 Pertanto si rende inevitabile concludere che il dialogo o la trasmissione di informazione dispersa, così come propone Hurwicz, tra gli agenti economici e l’organo centrale di pianificazione è un’impossibilità teorica, dato che, da un lato, gli agenti economici, in grande misura, non sanno o sono privi della conoscenza che sarebbe indispensabile trasmettere,45 poiché tale conoscenza si genera solo in un processo in cui gli agenti possono esplicare liberamente la loro funzione imprenditoriale. E, d’altra parte, gli agenti non possono neppure trasmettere quello che sanno già, dato che, prevalentemente, ha un carattere tacito non articolabile. La conoscenza dell’imprenditore ha una forma non articolata, perché si tratta piuttosto di una «tecnica di pensiero» la cui applicazione dipende dal fatto che l’agente si trovi in un contesto tipico di economia di mercato, e si apprende solo intuitivamente man mano che si va esercitando in modo pratico.

44 Don Lavoie, nell’articolo che stiamo commentando, costruisce seguendo Polanyi una interessante analogia tra il ruolo che gioca la conoscenza non articolabile nell’area della ricerca scientifica e nell’area del mercato, e conclude: «market participants are not and could not be “price takers” any more than scientists could be “theory takers”. In both cases a background of unquestioned prices or theories are subsidiarily relied upon by the entrepreneur or scientist, but also in both cases the focus of the activity is on disagreeing with certain market prices or scientific theories. Entrepreneurs (or scientists) actively disagree with existing prices (or theories) and commit themselves to their own projects (or ideas) by bidding prices up or down (or by criticizing existing theories). It is only through the intricate pressures being exerted by this rivalrous struggle of competition (or criticism) that new workable productive (or acceptable scientific) discoveries are made or that unworkable (or unacceptable) ones are discarded... Without the “pressure” that such personal commitments impart to science and to the market, each would lose its “determining rationality”. It is precisely because the scientist has his reputation – and the capitalist his wealth – at stake that impels him to make his commitments for or against any particular direction of scientific or productive activity. Thus private property and the personal freedom of the scientist play analogous roles. When either form of personal commitment is undermined, for example when scientific reputation or economic wealth depend on loyalty to a party line rather than to a personal devotion to truth or a pursuit of subjectively perceived profit opportunities, each of these great achievements of mankind, science and our advanced economy, is sabotaged». Don Lavoie, The Market as a Procedure for Discovery and Conveyance of Inarticulate Knowledge, op. cit., pp. 34 e 35. Il lavoro di Polanyi in cui è presentata questa analogia tra il mercato e lo sviluppo scientifico è «The Republic of Science: Its Political and Economic Theory», inglobato in Knowing and Being, pubblicato da Marjorie Grene, The University of Chicago Press, Chicago 1969. 45 Fritz Machlup, Knowledge. Its Creation, Distribution and Economic Significance, volume III, The Economics of Information and Human Capital, Capitolo VI, «New Knowledge, Disperse Information and Central Planning». E specialmente la p. 200, dove si fa riferimento al fatto che «the knowledge of people’s preferences is not only dispersed over millions of minds and not only subject to continual change but that it has too many blank spaces to be transferred in the form of price-or-quantity responses. The described planning system cannot give the people what they want, because they themselves cannot know what they want if they do not know what they could have. A steady stream of innovations in a free-enterprise system keeps altering the “production possibilities”, including those that relate to new products and new qualities of existing products. Imaginative entrepreneurs, stimulated by anticipations of (temporary) profits, present consumers with options that have not existed hitherto but are expected to arouse responses of a kind different from those symbolized in the customary model of market equilibrium and in models of allocative equilibrium. The availability of new products makes a market system quite unlike the scheme of official indicators of quantities or prices announced by a central board and private proposals of prices or quantities submitted in response by the consuming public. The organized feedback shuttle allowing informed decisions by a planning board does not give a place to the phenomenon of innovation.»

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Che menti della categoria di Arrow e Hurwicz non abbiano capito quali sono le caratteristiche essenziali del tipo di conoscenza che utilizzano e generano gli agenti economici e, pertanto, ignorino i fondamenti più elementari del funzionamento del mercato, giustifica il fatto che nel 1982 Hayek non abbia potuto far altro che qualificare come «irresponsabili» entrambi gli autori, specialmente per il fatto di credere che la conoscenza pratica , soggettiva e non articolabile possa essere trasmessa sotto forma di «dialogo informatico» tra gli agenti economici e l’organo centrale di pianificazione, idea, questa, che Hayek ha duramente qualificato come «massima insensatezza di tutta la farsa» che costituisce la letteratura pianometrica.46

In quarto luogo, è necessario prendere in considerazione che i modelli pianometrici di adattamento dei prezzi esigono che, una volta che la corrispondente informazione `stata trasmessa all’organismo centrale di pianificazione, qualsiasi attività di commercio o di produzione cessi finché tale organo risolva il corrispondente problema di ottimizzazione e trasmetta di nuovo agli agenti economici l’informazione a cui sia giunto sui prezzi di equilibrio. Alcuni economisti, come Benjamin Ward, giungono addirittura all’assurda conclusione che tale sistema è molto più efficiente di quello di una reale economia di mercato, in cui si portano costantemente a termine scambi a prezzi che non hanno corrispondenza con quelli di equilibrio e che possono, pertanto, essere considerati «falsi». Che si qualifichino come «falsi» prezzi reali che esistono nel mercato per il fatto che non coincidono con dei «prezzi» ipotetici e sconosciuti che esistono solamente nella mente obnubilata dei teorici dell’equilibrio, è, come minimo, scioccante. Se è assurdo considerare falso qualcosa che esiste e si è verificato nella realtà come conseguenza della libera azione umana, è molto più assurdo se teniamo in considerazione che non si può arrivare a conoscere nessun vero «prezzo» di equilibrio. Inoltre, il grande vantaggio del processo di mercato rispetto al modello di adattamento pianometrico si fonda, precisamente, su questa possibilità che esiste nella vita reale di effettuare scambi presumibilmente «falsi». In effetti, mentre nel modello pianometrico si ferma ogni azione e scambio finché si trasmette l’informazione all’organo di pianificazione e questo risolve il corrispondente sistema di equazioni, si sta impedendo che milioni di agenti economici scoprano e creino nuova informazione, e anche che si effettuino molteplici azioni umane, tutto ciò a detrimento del processo di adattamento, coordinamento e sviluppo della società. Al contrario, nel processo reale di mercato mosso dalla forza imprenditoriale, nonostante non si raggiunga mai l’equilibrio (e che, pertanto, in questo senso tutti gli scambi della vita reale siano presumibilmente «falsi»), si genera costantemente nuova informazione e ogni situazione di mancanza di coordinazione o di disparità tende ad essere scoperta mediante la forza della perspicacia imprenditoriale, tendendo ad essere convenientemente coordinata e adattata. Precisamente, il principale vantaggio dei processi reali di mercato, in contrasto con i modelli pianometrici del «subastatore walrasiano», è che nei processi reali, 46 «It was probably the influence of Schumpeter’s teaching more than the direct influence of Oskar Lange that has given rise to the growth of an extensive literature of mathematical studies of “resource allocation processes” (most recently summarised in K. J. Arrow and L. Hurwicz, Studies in Resource Allocation Processes, Cambridge University Press, 1977). As far as I can see they deal as irresponsibly with sets of fictitious “data” which are in no way connected with what the acting individual can learn as any of Lange’s». «Two Pages of Fiction: The Impossibility of Socialist Calculation», originariamente pubblicato in Economic Affairs, aprile 1982 e ripreso in The Essence of Hayek (pubblicato da Chiaki Nishiyama e Kurtz R. Leube, Hoover Institution Press, Stanford University, Stanford, California, 1984, p. 60). E nella p. 61 della stessa opera Hayek aggiunge che «the suggestion that the planning authority could enable the managers of particular plants to make use of their specific knowledge by fixing uniform prices for certain classes of goods that will then have to remain in force until the planning authority learns whether at these prices inventories generally increase or decrease is just the crowning foolery of the whole farce».

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nonostante tutti gli scambi si effettuino costantemente a prezzi che non sono di equilibrio (e pertanto siano ancora una volta «falsi»), tuttavia funzionano bene teoricamente e praticamente, visto che qualsiasi mancanza di coordinazione o disparità crea l’incentivo necessario perché essi tendano ad essere scoperti ed eliminati dalla forza innata della funzione imprenditoriale. In questo modo si crea e si genera un’importantissima e vastissima informazione che viene trasmessa generalmente e successivamente a livello sociale. Al contrario, nei modelli pianometrici non solo si esige per il loro funzionamento il congelamento, per un determinato periodo, delle azioni umane e della creazione e produzione di nuova informazione, ma si elimina anche alla radice l’esercizio creativo dell’imprenditorialità, che è l’elemento chiave della coordinazione sociale.47

In quinto luogo, la principale debolezza che si trova al fondo di tutti i modelli pianometrici si fonda sulla tremenda minimizzazione e volgarizzazione del problema che presuppongono i costanti cambiamenti di mercato che si verificano in un’economia moderna e complessa. Una società moderna del mondo reale non si può permettere il lusso di aspettare che si «risolva» un problema di programmazione con implicazioni che interessano l’attività e la vita di tutti i suoi membri. Soluzione che è inoltre teoricamente impossibile, dato che non si può neppure porre il problema senza congelare né forzare in modo dittatoriale la realtà, data l’impossibilità che si trasmetta e si generi l’informazione necessaria per questo. Per illustrare quello che abbiamo appena affermato, Michael Ellman ci dice che furono necessari 6 anni solo per compilare l’informazione necessaria per porre un problema di programmazione lineare incaricato negli anni 60 dal Dipartimento di Pianificazione delle Industrie del Metallo dell’estinta Unione Sovietica, e che fu formulato con più di 1.000.000 di incognite e 30.000 restrizioni.48 Com’è logico, la «soluzione» di quel problema fu puramente immaginaria, visto che in quel periodo di 6 anni l’informazione rilevante si modificò, o si sarebbe dovuta

47 Benjamin N. Ward, The Socialist Economy. A Study of Organizational Alternatives, Random House, New York 1967, pp. 32-33. In questa stessa opera, nonostante Ward faccia alcuni fugaci riferimenti alle semplificazioni di questi modelli matematici (essenzialmente sul loro carattere statico e lineare), ritiene ciononostante che la comunicazione tra i diversi settori e l’organo di pianificazione non diventerebbe in nessun caso un collo di bottiglia poiché «involves at each round sets of numbers that should not exceed n² for any one unit, where n is the number of sectors, and is generally much less» (p. 61). Ma aggiunge che, qualora il periodo di tempo necessario per completare l’iter fosse troppo lungo, e anche qualora il processo potesse bloccarsi prima di essere stato completato, questo genererebbe comunque un piano che, pur non essendo ottimo, nella pratica costituirebbe un certo «miglioramento». Come ha ben evidenziato Don Lavoie, sembra incredibile che Ward non si sia reso conto che con questa tesi si abbandona la stessa ragione d’essere del processo di tâtonnement walrasiano, dal momento che se gli agenti economici devono bloccare ogni attività finché gli esperti di programmazione lineare abbiano calcolato la soluzione di equilibrio per poi adottare solamente una soluzione approssimativa e intermedia per quale motivo si dovrebbe dunque iniziare il processo pianometrico, se attraverso i meccanismi decentralizzati di mercato e il corrispondente sistema legale si può ottenere un risultato meno imperfetto senza la necessità di bloccare l’azione in nessun momento né di eliminare la creazione di nuova informazione e, inoltre, senza il costo aggiuntivo che presuppone l’intervento dei teorici pianometrici? Si veda Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, op. cit., p. 99. In un errore molto simile a quello di Ward cade Edmond Malinvaud, che partendo dallo studio del processo di determinazione del livello ottimale di produzione di beni pubblici, si concentrò poi nell’analisi dei processi iterativi di approssimazione alla soluzione ottimale di equilibrio in un sistema socialista. Si veda «A Planning Approach to the Public Good Problem», The Swedish Journal of Economics, volume 73, marzo 1971, pp. 96-112; e anche «Decentralized Procedures for Planning», in Activity Analysis in the Theory of Growth and Planning, pubblicato da E. Malinvaud e M. Bacharach, Macmillan, Londra 1967. Francamente, non è affatto facile capire l’ossessione di tutti questi autori di voler sostituire l’infinita varietà e ricchezza della vita sociale umana con un modello totalmente inflessibile, freddo e meccanico. 48 Michael Ellman, «Economic Calculation in Socialist Economies», in The New Palgrave. A Dictionary of Economics, volume II, op. cit., p. 31.

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modificare, in modo radicale. E il problema, per quando fu «risolto», era completamente cambiato, per cui la «soluzione» trovata era totalmente obsoleta. È chiaro che gli esperti in pianometria in un mondo reale e dinamico si vedrebbero perpetuamente condannati a perseguire alla cieca, per il fatto di non disporre della necessaria informazione, un’inesistente «soluzione» di equilibrio che non potranno mai raggiungere perche essa si trova in un processo di continuo cambiamento. Possiamo, pertanto, concludere con Peter Bernholz che, nelle condizioni reali di un’economia non statica, il calcolo economico razionale è impossibile se si utilizza un sistema pianometrico di pianificazione centrale.49

In sesto luogo, i teorici della picnometria non solo mostrano una profonda ignoranza di come funzionano i processi reali di mercato, ma ignorano anche elementi fondamentali della teoria dei sistemi informatici. Ricordiamo che l’«informazione» che si riesce ad immagazzinare nei computer ha una natura completamente diversa dall’informazione utilizzata coscientemente o praticata dagli agenti economici nel mercato. La prima è un’ «informazione» oggettiva di tipo articolato, la seconda è un’informazione soggettiva, tacita e di tipo pratico. Com’è logico, il secondo tipo di informazione, che è rilevante per i problemi economici, non può essere immagazzinata né trattata da mezzi informatici. Inoltre, è evidente che nemmeno l’informazione che non è stata ancora generata dal sistema economico può essere trasmessa né trattata con procedimenti informatici. Cioè, non solo l’informazione non articolabile di tipo pratico, ma anche gran parte dell’informazione articolata, è il risultato di un processo sociale di mercato e, pertanto, se non è stata generata dal mercato stesso, non può essere trasmessa né immagazzinata in nessun sistema informatico di immagazzinamento dati. D’altro canto, e forse questa è la cosa più importante, se si parte dalla considerazione che anche i livelli più complessi di ogni generazione di computer possono arrivare ad essere utilizzati in modo decentralizzato dagli stessi agenti economici (diversi agenti, imprenditori, organismi e istituzioni), è chiaro che, a livello decentralizzato e individuale, tali potenti macchine informatiche creeranno un contesto all’interno del quale si permetterà la nascita di una conoscenza pratica non articolabile, infinitamente più varia, complessa e ricca, che renderà impossibile, per ragioni di complessità, il suo trattamento informatico a livello centrale. Cioè, un sistema informatico potrebbe casualmente trattare ed eliminare sistemi di controllo più semplici o meno complicati di esso stesso, ma quello che non potrà fare è eliminare o cercare di risolvere sistemi o procedimenti con un livello di complessità superiori al suo, poiché ciascuno dei suoi elementi ha una capacità informatica qualitativamente di uguale complessità di quella dell’organo centrale di pianificazione. Infine, è chiaro che nessun computer può portare a termine, né potrà mai farlo, attività tipicamente umane di natura imprenditoriale. Cioè, un computer non potrà mai rendersi conto che un’informazione oggettiva è stata erroneamente mal interpretata e che, pertanto, esistono opportunità di beneficio o di guadagno non sfruttate fino ad ora. Un computer non potrà immaginare nuovi progetti non immaginati finora da nessuno. Un computer non potrà creare nuovi fini né nuovi mezzi, né perseguire, contro corrente, attività che non sono di moda, né lottare di cuore per portare avanti un’impresa in cui nessuno crede, e così via. Il computer, al più, potrà servire

49 «With different and changing production functions, the size of firms and the structure of industry become a problem. New goods and changing preferences also pose the problem of which firms or industries to expand, to contract, to abolish, or to create... Under these conditions the Central Planning Board will not be able to get the information necessary for reliable ex ante planning because of the nature and complexity of the situation. Rational calculation does break down if central planning is used». Peter Bernholz, «The Problem of Complexity under non Stationary Conditions», in «Information, Motivation and the Problem of Rational Economic Calculation in Socialism», in Socialism: Institutional, Philosophical and Economic Issues (editore Svetozar Pejovich), op. cit., p. 154.

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come un potente e utile strumento o attrezzo per il trattamento dell’«informazione» articolata per facilitare l’attività imprenditoriale dell’essere umano così come l’abbiamo descritta nel Capitolo II, ma mai per eliminare o rendere tale attività imprenditoriale ridondante o non necessaria.50 Inoltre, non solo l’informatica non può aiutare in nessun modo a sostituire i complessi processi di coordinamento spontaneo che si verificano nell’economia, ma, al contrario, sarà in ogni caso la teoria dei processi di mercato propria dell’economia politica quella che può aiutare a sviluppare una teoria più avanzata dell’informatica. Effettivamente, gli ultimi sviluppi nella teoria della scienza informatica relativa ai sistemi esperti e all’utopica «intelligenza artificiale» hanno messo in luce che solo mediante un’analisi profonda dei meccanismi di creazione e di trasmissione di informazione che si verificano nel mercato si sta ottenendo di avanzare significativamente in queste aree.51

Infine, non vogliamo concludere i nostri commenti sulla pianometria senza insistere ancora su fino a che punto l’utilizzo del metodo matematico in economia può generare importanti confusioni, ed essere altamente pregiudiziale se gli studi che la utilizzano non sono estremamente attenti. In particolare, il metodo matematico è adatto solo a descrivere sistemi di equilibrio, o, al massimo, goffe caricature ripetitive e meccaniche dei processi reali di cambiamento e creatività che si verificano nei mercati. Inoltre, il metodo matematico non permette la formalizzazione dell’essenza della funzione imprenditoriale, che è l’elemento chiave e basico di tutta la vita economica e sociale. L’economista matematico corre continuamente il rischio di arrivare a credere che i prezzi e i costi sono determinati da curve e funzioni che si intersecano tra di loro e non la conseguenza di determinate azioni o interazioni umane molto concrete. Può arrivare a credere che le funzioni con cui lavora abbiano un’esistenza reale e si possa arrivare a conoscerle. Può arrivare a credere, insomma, che l’informazione che presuppone data per costruire i suoi modelli potrebbe di fatto essere raccolta perché esiste in forma oggettiva in qualche luogo del mercato. In vista degli effetti che il metodo matematico in generale ha avuto sulle diverse aree dell’economia, e in particolare in relazione alle proposte che abbiamo studiato, relative al calcolo economico socialista, uno si chiede se questo metodo non avrà fatto più danno che utile nello sviluppo

50 Assar Lindbeck in La Economía Política de la Nueva Izquierda, Alianza Editorial, Madrid 1971, afferma che «es evidente que los ordenadores no pueden reemplazar a los mercados para engendrar información (acerca de las preferencias de los consumidores y la tecnología productiva) ni para crear incentivos con miras a un funcionamiento eficiente de acuerdo con las preferencias de los consumidores» («è evidente che i computer non possono rimpiazzare i mercati per generare informazione (sulle preferenze dei consumatori e la tecnologia produttiva) né per creare incentivi finalizzati a un funzionamento più efficiente a seconda delle preferenze dei consumatori»). E conclude che «las posibilidades de sustituir por ordenadores la competencia descentralizada en los mercados, a fin de manipular la información y calcular aproximaciones de la asignación óptima, son muy limitadas» («la possibilità di sostituire la concorrenza decentralizzata nei mercati con computer, al fine di manipolare l’informazione e calcolare approssimazioni sull’assegnazione ottimale sono molto limitate») (p. 86). Io direi piuttosto, per tutti i motivi spiegati nel testo principale, che tali possibilità sono nulle. 51 Si veda specialmente il contenuto dell’articolo e la bibliografia citata nel lavoro dal titolo «High-Tech Hayekians: Some Possible Research Topics in the Economics of Computation» di Don Lavoie, Howard Baetjer e William Tulloh, pubblicato nella rivista Market Process, volume VIII, primavera 1990, Gorge Mason University, pp. da 120 a 146. Non ci intratterremo nell’enumerare e analizzare nei dettagli altre insufficienze aggiuntive che i modelli pianometrici presentano ma già all’interno dell’ottica della metodologia stessa dell’economia dell’equilibrio e del benessere. Quegli aspetti critici non solo sono irrilevanti in confronto alle tesi essenziali che abbiamo visto nel testo, ma tra l’altro si possono leggere in qualunque manuale sul tema, come ad esempio The Economic Theory of Central Planning (Capitolo II), di John Bennet, già citato. Anche il lavoro di D. F. Bergun «Economic Planning and the Science of Economics», American Economic Review, giugno 1941 è piuttosto interessante.

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della nostra scienza.52 Il fatto è che l’argomentazione a favore dell’economia di mercato e contro il socialismo, così come è stata sviluppata da Mises e Hayek, è un’argomentazione totalmente diversa da quella della giustificazione dell’«impresa privata» che danno gli economisti matematici della «teoria del benessere», e che si basa sul fatto che la nozione di «concorrenza perfetta» rappresenta l’ideale paretiano di efficienza. L’argomento che stiamo sviluppando in questo libro non è, basicamente, che la concorrenza offra una combinazione «ottima» di risorse, ma che è un processo dinamico mosso da esseri umani in carne e ossa che tende a saldare e a coordinare la società. L’argomento essenziale non è che il sistema di «concorrenza perfetta» sia migliore del sistema di monopolio, ma che i mercati e l’azione umana non costretta favoriscono un processo di coordinazione. Pertanto, l’argomento che stiamo difendendo è di fatto radicalmente diverso dall’argomento standard della teoria dei libri di testo di microeconomia che, per tutti i motivi che abbiamo riportato, riteniamo basicamente irrilevante ed erroneo, sia che si consideri come un’analisi positiva dell’economia reale o come un’analisi normativa di come questa dovrebbe funzionare. La prova più evidente del carattere erroneo della «teoria del benessere» si fonda sul fatto che, paradossalmente, ha portato a pensare che mediante i suoi modelli e metodi si potrebbe risolvere il meccanismo di assegnazione delle risorse in un’economia pianificata in cui non esiste mercato. La teoria economica dell’equilibrio e del benessere, essendo nata all’inizio come una teoria descrittiva e positiva del funzionamento del mercato, ha finito per essere utilizzata per proporre, attraverso l’applicazione dei suoi metodi e modelli matematici, un sistema di calcolo economico in cui si elimina alla radice il funzionamento del mercato e la sua essenza più intima: la funzione imprenditoriale.53

52 Seguendo le parole dello stesso Mises: «The mathematical economist, blinded by the prepossesion that economics must be constructed according to the pattern of Newtonian mechanics and is open to treatment by mathematical methods, misconstrues entirely the subject matter of his investigations. He no longer deals with human action but with a soulless mechanism misteriously actuated by forces not open to further analysis. In the imaginary construction of the evenly rotating economy there is, of course, no room for entrepreneurial function. Thus the mathematical economist eliminates the entrepreneur from his thought. He has no need for this mover and shaker whose never ceasing intervention prevents the imaginary system from reaching the state of perfect equilibrium and static conditions. He hates the entrepreneur as a disturbing element. The prices of the factors of production, as the mathematical economist sees it, are determined by the intersection of two curves, not by human action.» Human Action, op. cit., p. 702. 53 Forse il primo teorico dell’equilibrio che si rese conto del carattere radicalmente diverso della tesi proposta da Mises e Hayek a favore del mercato sia stato Richard R. Nelson nel suo articolo «Assessing Private Enterprise: An Exegesis of Tangled Doctrine», pubblicato nel Bell Journal of Economics, n.º 12, 1, primavera del 1981. Sono d’accordo con l’affermazione di Nelson secondo cui la teoria economica «ortodossa» del benessere sia priva di importanza, anche se non condivido la sua idea che le teorie di Hayek in particolare, e della Scuola Austriaca in generale, pur importanti, si trovino in uno stadio di sviluppo ancora piuttosto rudimentale. Tale affermazione può essere vera solamente se, da un lato, si considera «sviluppato» tutto ciò che è stato costruito con un alto livello di formalismo, anche se falso e irrilevante, e se, d’altro canto, si ignorano i fondamentali contributi che la Scuola Austriaca ha portato a tutte le aree della scienza economica. Come abbiamo già visto alla fine della nota 2, anche Mark Blaug ha finito per comprendere perfettamente le differenze essenziali tra il paradigma austriaco e quello neoclassico, così come la totale irrilevanza di quest’ultimo.

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CAPITOLO VI

OSKAR LANGE E LA «SOLUZIONE COMPETITIVA»

In questo capitolo e nel successivo analizzeremo le diverse versioni elaborate dagli

analisti socialisti della cosiddetta «soluzione competitiva» al problema che pone il calcolo

economico. A questo scopo, dedicheremo questo capitolo prima di tutto a introdurre una

serie di considerazioni che collochino nel contesto dovuto le implicazioni più significative di

questa nuova proposta, analizzandone anche gli aspetti storici più importanti. In secondo

luogo, il resto del capitolo include uno studio dettagliato della «soluzione» sviluppata su

questa linea da Oskar Lange. Benché, a volte, la nostra analisi di Lange possa sembrare

eccessivamente ampia e minuziosa, sono tali gli errori di interpretazione del contributo di

questo autore-peraltro il più conosciuto e citato tra quelli realizzati dai teorici socialisti- che

risulta inevitabile portare a termine uno studio sufficientemente dettagliato e profondo dello

stesso. La nostra analisi della «soluzione competitiva» sarà completata nel capitolo

successivo, dedicato, tra gli altri aspetti, agli apporti di Dickinson, Durbin e Lerner.

1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

Una caratteristica comune delle diverse versioni della cosiddetta «soluzione competitiva»

è che, in misura maggiore o minore, pretendano sempre introdurre una specie di «quasi

mercato» (nella terminologia di Mises), nel quale i diversi agenti economici abbiano un

comportamento il più simile possibile a quello che hanno nel sistema capitalista. Vedremo,

analizzando in dettaglio i diversi apporti, come questi, in generale, siano caratterizzati

dalla loro natura ambigua e contraddittoria e, nella misura in cui i sistemi proposti

pretendono di continuare ad essere socialisti, limitando sistematicamente il libero esercizio

della funzione imprenditoriale, lascino senza risposta il problema inizialmente posto da

Mises e Hayek, relativo all’impossibilità del calcolo economico laddove non si generi e non

si crei l’informazione necessaria per effettuarlo.

Potremo ugualmente constatare che esistono due grandi classi di «soluzioni competitive».

La prima si concepisce come una semplice soluzione sussidiaria per rendere possibile,

nella pratica, il calcolo algebrico dei prezzi di equilibrio che proponeva la soluzione

matematica analizzata nel capitolo precedente. La seconda si concepisce come una

Page 164: Socialism o

2  

soluzione completamente autonoma nella quale si cercherebbe di ottenere il migliore dei

mondi, il socialismo e il capitalismo, dando luogo a un «socialismo di mercato» che, nella

sua forma più «decaffeinata» sarebbe difficile da distinguere dal socialismo democratico o

socialdemocrazia e che, nella sua versione più «originale» si prefigge di ottenere né più né

meno che la «quadratura del cerchio» per ciò che riguarda la soluzione di tutti i problemi

sociali.

In ogni caso, e in questo momento, non possiamo fare a meno di mettere in risalto fino

a che punto la generalizzazione delle proposte di «soluzione competitiva» da parte dei

teorici socialisti supponga un chiarissimo riconoscimento implicito della ragione che era

dalla parte di Mises nel suo apporto originale, pubblicato nel 1920, sull’impossibilità del

calcolo economico nelle economie socialiste. O, se si preferisce, che l’attacco della Scuola

Austriaca da parte di Mises e Hayek contro il socialismo è stato così devastante che, in

pratica, i teorici socialisti non hanno potuto far altro che rifugiarsi in una seconda debole

linea di difesa, costruita proprio basandosi sugli elementi essenziali di quel sistema

economico che tanto odiavano e volevano distruggere. Così Fritz Machlup ha messo in

evidenza che il successo di Mises è stato, di fatto, così completo che oggi, nella

professione economica, già nessuno dubita dell’impossibilità teorica e pratica della

pianificazione senza che esista un sistema di prezzi di tipo decentralizzato, benché

tuttavia la maggior parte dei teorici non solo continua ad essere, come minimo,

inspiegabilmente meschina all’ora di riconoscere il merito di Mises, ma continua anche a

non capire pienamente e a non dare risposta agli «elementi essenziali della sfida da lui

posta, e che altro non è che l’aver dimostrato teoricamente come in un sistema in cui non

esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione e libertà nell’esercizio della funzione

imprenditoriale non è possibile che si crei e generi l’informazione pratica, dispersa e

soggettiva che è imprescindibile per coordinare la società.1

                                                            1 Si veda, a tal proposito, Fritz Machlup, «The Economics of Information and Human Capital”, volume III di Knowledge. Its Creation,Distribution and Economic Significance, op. cit., p. 191: «At the present juncture of the discussion, writers on the theory or practice of central economic planning no longer doubt that a price mechanism is an indispensable tool of the planner’s task. The Mises challenge has definitely prevailed on this point, as it has also on a second: ”decentralized procedures” are manifestly accepted by the present protagonists of planning.» E alla p. 190 leggiamo: «… these discussions did not address the essence of the Mises challenge. The issue is not whether calculations are possible and practicable with all available “data” but whether the relevant data could become available to the central planning agency. The Mises challenge was that the information necessary for rational central planning could not be obtained and that market prices of privately owned means of production as well as products are required for a rational allocation of resources».

Page 165: Socialism o

3  

Pertanto non c’è da meravigliarsi che nemmeno i membri principali della Scuola

Austriaca che parteciparono al dibattito abbiano omesso di segnalare quanto fosse

significativo che i suoi oppositori socialisti abbandonassero la loro idea tradizionale in

favore della pianificazione centrale diretta da un organismo governativo come unica forma

”razionale” di organizzare la società e, girando di 180 gradi, cominciassero a

raccomandare, con maggiore o minore intensità, la reintroduzione della competizione.2

Così, per Mises,3 la rapidità nel trionfo della dimostrazione che non è possibile il calcolo

economico in un regime socialista non ha precedenti nella storia del pensiero economico,

di modo che i socialisti non hanno potuto fare a meno di ammettere la loro sconfitta finale

e hanno smesso di proclamare la tradizionale dottrina marxista che il socialismo era

superiore al capitalismo precisamente perché permetteva di eliminare il mercato, i prezzi e

la concorrenza; al contrario ora, con comica insistenza, vogliono giustificare il socialismo

argomentando che permette di mantenere il mercato e per di più cercano di dimostrare

                                                            2 Trygve J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society ,op. cit., p. 238. Hoff arriva ad affermare che alcune delle proposte della cosiddetta «soluzione competitiva» si situerebbero addirittura fuori dalla definizione stretta di socialismo e, pertanto, non dovrebbero ricevere nemmeno una risposta. Per noi l’affermazione di Hoff non è corretta nella misura in cui la nostra definizione di socialismo (ogni sistema di aggressione istituzionale al libero esercizio della funzione imprenditoriale) è molto ampia oltre che precisa e, pertanto, permette di applicare la critica al sistema socialista, sempre che ci sia, a qualche livello, tale tipo di aggressione in qualsiasi area, per piccola che sia, della vita sociale. 3 «It is therefore nothing short of a full acknowledgement of the correctness and irrefutability of the economists’ analysis and devastating critique of the socialists’ plans that the intellectual leaders of socialism are now busy designing schemes for a socialist system in which the market, market prices for the factors of production, and catallactic competition are to be preserved. The overwhelming rapid triumph of the demonstration that no economic calculation is possible under a socialist system is without precedent indeed in the history of human thought. The socialism cannot help admitting their crushing final defeat. They no longer claim that socialism is matchlessly superior to capitalism because it brushes away market, market prices and competition. On the contrary. They are now eager to justify socialism by pointing out that it is possible to preserve these institutions even under socialism. They are drafting outlines for a socialism in which there are prices and competition.» Ludwig von Mises, Human Action, op. cit., p. 706. Incidentalmente, se questa affermazione di Mises, come molte altre sue, poteva sembrere esagerata quando fu scritta nel 1949, è divenuta profetica, e i fatti, 40 anni dopo, gli hanno dato pienamente ragione, come ha recentemente riconosciuto il noto alunno socialista di Oskar Lange, Robert Heilbroner, per il quale: «Less than 75 years after it officially began, the contest between capitalism and socialism is over: Capitalism has won. The Soviet Union, China and Eastern Europe have given us the clearest possible proof that capitalism organizes the material affairs of humankind more satisfactorily than socialism… Indeed, it is difficult to observe the changes taking place in the world today and not conclude that the nose of the capitalist camel has been pushed so far under the socialist tent that the great question now seems how rapid will be the transformation of socialism into capitalism, and not the other way round, as things looked only half a century ago.» The Newyorker, 23 gennaio 1989. Si veda anche il recente articolo di Heilbroner «Analysis and Vision in the History of Modern Economic Thought», Journal of Economic Literature, volumeXXVIII, settembre 1990, pp. 1097-1114, e specialmente le pp. 1097 e 1110-1111. Heilbroner conclude che «Socialism has been a great tragedy in this century» e che «Mises was Right». Si veda anche l’intervista che Mark Skousen fece a Robert Heilbronen l’8 aprile 1991, pubblicata in Liberty, volume 4 , n.6, luglio 1991, pp. 45-50 e 63 (una versione ridotta di questa interessantissima intervista era stata precedentemente pubblicata da Forbes, il 27 maggio1991).

Page 166: Socialism o

4  

che mercato e capitalismo sono categorie storiche diverse che non devono

necessariamente implicarsi a vicenda.4

Nemmeno Hayek da parte sua e nel suo abituale tono cavalleresco, ha potuto evitare

singoli commenti sarcastici, sia nel suo articolo, riassumendo lo stato del dibattito apparso

nel 1935,5 così come nel suo lavoro del 1940 dedicato espressamente a criticare la

«soluzione competitiva».6 Hayek menziona fino a che punto sia significativo il fatto che i

giovani socialisti che hanno studiato i problemi economici posti dal socialismo con più

impegno e serietà, abbiano abbandonato l’idea che un’economia di pianificazione centrale

potrebbe funzionare, tendendo invece ad argomentare che la concorrenza si potrebbe

mantenere anche se fosse abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione. Si

abbandona così la tradizionale idea marxista secondo la quale la pianificazione non solo è

l’estremo opposto della concorrenza, ma anche che ha come obiettivo principale quello di

eliminarla, rendendo di fatto possibile il compimento del vero ideale socialista.

                                                            4 Gli sforzi tragicomici dei teorici del «socialismo di mercato» per convincere da un lato i propri compagni di viaggio socialisti e dall’altro il pubblico in generale che il «mercato» è un’istituzione che non ha nulla a che vedere con il capitalismo e che può essere ugualmente utilizzato con carattere strumentale e con successo dal socialismo si possono far risalire agli scritti di Oskar Lange. In effetti questo autore è giunto ad affermare che il mercato è una «rather old institution, an institution that is so characteristic of capitalism that it is frequently confused with capitalism but which actually is historically much older than capitalism»; e anche che «prices and money are not only characteristic of modern capitalism, but are an institution that has to be preserved in the socialist society» («The Economic Operation of a Socialist Society: I & II”, Contributions to Political Economy, n.6, 1987, pp. 7 e 13). Questa stessa idea è ripetuta con insistenza martellante dai moderni «socialisti di mercato». Così, per esempio, nel libro di Julian Legrand e Saul String (editori) intitolato Market Socialism, The Clarendon Press, Oxford 1989. Nella sua brillante analisi critica del socialismo di mercato intitolata Market Socialism:a Scrutiny. This Square Circle (Institute of Economic Affairs, Occasional Paper 84, Londra 1990), Anthony de Jasay ironicamente descrive la posizione dei «socialisti di mercato» su questo punto in questo modo: «Apologists for capitalism usurp the market, appropriating it as if the market –an efficient institution – depended for its functioning on capitalism – repugnant and alienating system. However, the suggestion that market and capitalism go together is but “a sleight of hand”. Traditional socialists fall for this trick, and think they dislike and mistrust market when in fact it is capitalism they reject. This is a confusion, failure to see that the market can be trained to serve socialist goals just as it now serves capitalist ones. Indeed, though the authors do not say so, they tacitly treat the market as a neutral tool in the hands of its political master who can use it in fashioning the kind of society he wants». 5 «So many of the younger socialists who have seriously studied the economic problems involved in socialism have abandoned the belief in a centrally planned economic system and pinned their faith on the hope that competition may be maintained even if private property is abolished.» F.A.Hayek, «The Present State of the Debate», in Collectivist Economic Planning, op. cit., p. 238. 6 «The first and most general point can be dealt with fairly briefly, although it is not unimportant if one wants to see these new proposals in their proper light. It is merely a reminder of how much of the original claim for the superiority of planning over competition is abandoned if the planned society is now to rely for the direction of its industries to a large extent on competition. Until quite recently, at least, planning and competition used to be regarded as opposites, and this is unquestionably still true of nearly all planners except a few economists among them», F.A. Hayek, «Socialist Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, op. cit., p. 186.

Page 167: Socialism o

5  

2. ANTECEDENTI STORICI DELLA «SOLUZIONE COMPETITIVA»

Prima degli apporti depurati che dobbiamo a Lange ,Dickinson, Durbine e Lerner sulla

«soluzione competitiva», la stessa si veniva sviluppando, anche se in forma goffa e

incompleta, sia in lingua tedesca che in lingua inglese. In lingua tedesca i primi sviluppi

teorici in questo campo nascono a partire dagli anni 20, come reazione contro l’articolo

seminale di Mises, basicamente per mano di Eduard Heimann e Karl Polanyi. Il loro

comune denominatore è quello di difendere una soluzione che si basi sull’esistenza di un

certo grado di “concorrenza” tra una serie di monopoli, o ”trusts”, che, sotto il controllo

sindacale o del governo, possano costituire la colonna vertebrale dell’organizzazione

economica del socialismo. In lingua inglese e con l’eccezione di alcune brevi osservazioni

di Ropper sull’argomento, esistono, all’inizio, pochissimi lavori scritti sulla «soluzione

competitiva», e il fatto che questa sia stata trattata e criticata anticipatamente da Mises e

Hayek, anteriormente all’apparizione dei lavori depurati di Lange, Dickinson, Durbin e

Lerner, evidenzia il fatto che la stessa si stava formando piuttosto per una tradizione orale

di seminario, sviluppata secondo come si sviluppavano le conseguenze della polemica, il

che spiega, inoltre, che gran parte delle idee che furono poi raccolte da questi autori erano

già «nell’aria» nell’ambiente accademico da vari anni.

Gli apporti di Eduard Heimann e Karl Polanyi

Tornando agli antecedenti in lingua tedesca, uno dei primi è quello che dobbiamo a

Eduard Heimann ed è compreso nel suo lavoro intitolato «Plusvalenza ed economia

collettiva:contributi critici e positivi alla teoria del socialismo», che apparve nel 1922.7

Heimann capisce l’importanza essenziale che hanno i prezzi e il mercato, ma, ciò

nonostante, desidera stabilire a tutti i costi un sistema socialista. Cerca di risolvere questo

evidente problema proponendo ciò che lui definisce una «concorrenza pacifica e

amichevole» (freundlichen Wettbewerb). Questa «concorrenza» sarebbe quella che si

effettuerebbe in modo ordinato e controllato tra i gestori delle diverse organizzazioni

imprenditoriali e settoriali in cui, secondo lui, si dovrebbe dividere il sistema economico. In

ogni caso Heimann, socialista di radici cristiane, continua a manifestare seri dubbi sul fatto

che la concorrenza e il socialismo siano, in ultima analisi, compatibili. Inoltre la sua onestà

                                                            7 Eduard Heimann, Meherwert und Gemein Wirtschaft: Kritische und Positive Beiträge zur Theorie des Sozialismus, pubblicato da Robert Englemann a Berlino, nell’anno 1922.

Page 168: Socialism o

6  

scientifica è fuori dubbio, dato che ammette in modo esplicito i grandi vantaggi della

concorrenza capitalista e, d’altro canto, fu uno dei primi teorici che, poco dopo lo stesso

Mises, riconobbe il grande problema di calcolo economico che dovrebbe affliggere tutto il

sistema socialista. Nonostante questo, Heimann sostiene che basterebbe che i gestori dei

diversi monopoli settoriali avessero scopi, ideali e interessi distinti, perché il risultato della

loro attività fosse altrettanto «competitivo» di quello che si produce costantemente in una

reale economia di mercato. In questo modo crede che non sorgerebbero problemi di

calcolo economico e che si manterrebbero la maggior parte dei vantaggi del sistema

competitivo, anche se non esistesse la proprietà privata dei mezzi di produzione e la

distribuzione del reddito fosse egualitario. Inoltre Heimann propone l’abolizione delle

rendite, degli interessi e dei dividendi, che finirebbero direttamente all’organo centrale di

coercizione. Infine i gestori di monopoli settoriali riceverebbero l’istruzione di fissare i loro

prezzi al livello dei costi incontrati, senza poter far uso, in nessun caso, del potere

monopolista che potesse essere loro concesso nella loro situazione.

Georg Halm ha sostenuto8 in una critica dettagliata alle proposte di Heimann, che la

«concorrenza» tra i gestori dei monopoli settoriali sarebbe solo una concorrenza «tra

virgolette». Da un lato non si riesce a capire come i gestori dei monopoli settoriali

potrebbero arrivare a conoscere i costi, non solo perché non si permette il libero esercizio

della concorrenza né la funzione imprenditoriale all’interno di ciascun settore, ma anche

perché le quote di ammortizzazione sono uno degli elementi essenziali al momento di

determinare il costo, e il suo calcolo dipende dal tasso di interesse, la cui fissazione a

livello centrale, non essendo il risultato di un processo competitivo, sarebbe

completamente arbitraria. Heimann, inoltre, non comprende che l’essenza del

funzionamento del mercato è l’esercizio della funzione imprenditoriale, che è la unica che

permette di scoprire e creare costantemente l’informazione pratica necessaria in ogni

contesto per portare a termine il calcolo economico. Per il fatto di impedire l’esercizio

dell’imprenditorialità in vastissime aree della vita economica, una tale produzione di

informazione non è possibile nel modello proposto da Heimann, per cui il problema del

calcolo economico rimane senza soluzione. In effetti non si capisce come i gestori dei

diversi monopoli potrebbero agire imprenditorialmente, non solo perché non possono

                                                            8 La critica di Halm alla proposta di Eduard Heimann si trova alle pp. 189 a 200 del libro Collectivist Economic Planniang già citato e che riprende l’epigrafe 25 dell’articolo di Georg Halm ivi incluso e che si intitola «Further Considerations on the Possibility of Adequate Calculation in a Socialist Community». Questo articolo fu incorporato da Hayek nel volume citato con il desiderio che Georg Halm riassumesse lo stato della questione così come era stata dibattuta nel mondo accademico tedesco fino al 1935.

Page 169: Socialism o

7  

utilizzare i corrispondenti benefici imprenditoriali (che, eliminati per definizione, non

agirebbero come incentivo imprenditoriale per scoprire e creare l’informazione necessaria

per portare a termine il calcolo economico), ma anche perché non avrebbero neanche la

possibilità di promuovere l’imprenditorialità all’interno dei propri settori.

Più di una decada prima di Halm, lo stesso Mises aveva già sottolineato9 l’enorme

vaghezza della proposta di Heimann, che si basa principalmente sul non chiarire quale

sarebbe il tipo di relazione esistente tra i diversi gruppi industriali e lo stato o organismo

centrale di pianificazione. Si tratta semplicemente di chiarire se i diversi settori

monopolizzati dovrebbero agire come veri proprietari dei rispettivi mezzi di produzione, nel

qual caso ci troveremmo di fronte a un sistema di tipo sindacalista simile a quello che si è

provato in Yugoslavia e con tutti i risultati perversi e di mancanza di coordinazione che le

sono propri; o se, al contrario, i corrispondenti organismi gremiali sarebbero

semplicemente di tipo gestionale, mentre la responsabilità ultima della coordinazione

economica globale ricadrebbe in un centro statale di pianificazione, nel qual caso i

problemi tipici del calcolo economico resi espliciti da Mises si presenterebbero

prepotentemente. Riassumendo, teoricamente non si può concepire una concorrenza

«controllata e pacifica» diversa dalla concorrenza liberale: la concorrenza o esiste o non

esiste, a seconda che l’esercizio della funzione imprenditoriale sia libera o no (sempre

sottomesso, come abbiamo visto nel capitolo II, ai tradizionali principi del diritto privato), e

le proposte di Heimann avrebbero senso solo in un irreale mondo statico, nel quale non si

producessero cambiamenti e tutta l’informazione necessaria per portare a termine il

calcolo economico fosse già disponibile con carattere previo. Infine, e questa

argomentazione critica di Mises è di grande trascendenza ed è stata clamorosamente

ignorata in forma sistematica dai successivi teorici del «socialismo di mercato», è assurdo

pensare che, così come propone Heimann, i prezzi si possano stabilire in funzione dei

costi. Tale proposta, d’accordo con Heimann, manca di senso non solo perché i costi sono

totalmente soggettivi e possono essere giudicati solo in modo imprenditoriale e in forma

tacita nel contesto di ciascuna azione concreta (costituendo, pertanto, un’informazione

non trasmissibile oggettivamente all’organo di pianificazione, né generabile direttamente

dall’organo stesso), ma anche perché, per di più, i costi monetari che si tengono in conto

nel calcolo economico personale non sono altro che stime di prezzi di fattori di produzione,                                                             9 La critica di Mises a Heimann si trova inizialmente raccolta nel suo articolo intitolato «Neue Beiträge zum Problem der Sozialistischen Wirtschaftsrechnung» pubblicato nel 1924 nel numero 51 di Archiv für Sozialwissenschaft und <sozialpolitik, pp. 488-500. Questo articolo, che abbiamo già citato, è riprodotto e ampliato nell’Appendice dell’opera di Mises Socialism ,pp .475-478.

Page 170: Socialism o

8  

per cui, ogni volta che ci si propone di ricorrere ai costi per fissare i prezzi, si sta cadendo

in un inevitabile ragionamento circolare che lascia il problema del calcolo economico

senza soluzione.

Karl Polianyi,10 nel suo articolo sul calcolo economico socialista pubblicato nel 1922,11

dopo aver affermato esplicitamente che il calcolo economico è impossibile in un sistema di

pianificazione centrale, ha anche fatto una proposta nebulosa di «socialismo gremiale» in

cui, da un lato, la «proprietà» dei mezzi di produzione si assegnerebbe a un organismo

centrale di pianificazione, mentre il diritto di disporre dei beni e servizi di produzione e

consumo si assegnerebbe alle associazioni gremiali di produzione corrispondenti. Si tratta,

pertanto, di una soluzione ambigua simile a quella di Heimann e in cui non si conosce

nemmeno chi, in ultima analisi, disporrebbe della facoltà di decisione definitiva: l’organo

centrale di coazione o le associazioni gremiali. Se l’organo centrale di pianificazione è

l’ultimo potere decisionale, ci troviamo nuovamente di fronte al problema di trovarsi con la

conoscenza dispersa, che rende impossibile il calcolo economico nei sistemi centralizzati;

se, al contrario, sono le associazioni professionali di tipo sindacalista quelle che in ultima

analisi esercitano sistematicamente coazione sui loro membri e prendono le decisioni, ci

troviamo di fronte a un socialismo sindacale carente di ogni capacità di coordinamento.12

                                                            10 Non si deve confondere Karl Polianyi (1886-1964) con suo fratello Michael Polianyi che, come abbiamo già visto, è stato uno dei principali creatori della teoria che la conoscenza tacita e dispersa rende impossibile il calcolo economico in ogni sistema in cui non esista libertà nell’esercizio dell’azione umana o funzione imprenditoriale. Sembra paradossale l’opposizione teorica tra i due fratelli, tanto attraente come quella esistente, per esempio, tra Ludwig von Mises e suo fratello Richard, che sviluppò un concetto positivista della probabilità e difese l’applicazione della matamatica e della statistica nel campo della ricerca delle scienze sociali, cosa che Ludwig von Mises ha sempre esplicitamente ripudiato. L’opposizione teorica non ha mancato di influenzare l’area delle relazioni personali tra entrambi i fratelli (Polianyi e Mises) che ebbero sempre fra loro un rapporto freddo e distante. 11 L’apporto di Karl Polianyi si trova nel suo articolo «Sozialistische Rechnungslegung», pubblicato nel 1922, nel n.° 49 dell’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, pp. 377-420. Posteriormente Karl Polianyi cercò di rispondere alle critiche ricevute, soprattutto da Mises e Felix Weil in un altro articolo, pubblicato nella stessa rivista nel 1924, n.° 52 pp. 218-228, con il titolo «Die Funktionelle Theorie der Gesellshaft und das Problem der Sozialistischen Rechnungslegung (Eine Erwiderung an Prof. Mises und Dr. Felix Weil)». 12 Le principali critiche alla proposta di Karl Polianyi le dobbiamo a Mises, e si trovano negli stessi luoghi in cui ha criticato gli apporti di Heimann (vedi nota n.°9); le pagine specifiche in cui critica Polianyi nel libro Socialism sono le 473-475. Possiamo menzionare anche l’articolo critico di Felix Weil intitolato «Gildensocialistische Rechnungslegung. Kritische Bemerkungen zu Karl Polianyi “Sozialistische Rechnungslegung”; in diesem Archiv 49/2, s. 377ff», pubblicato nel 1924 nel n.° 52 dell’ Archiv für Sozialwissenachaft und Sozialpolitik, pp. 196-217. Hoff (Economic Calculation in the Socialist Society, p. 243) sottolinea come Felix Weil qualifichi la proposta di Karl Polianyi come qualcosa di «impossibile e addirittura senza senso».

Page 171: Socialism o

9  

La critica anticipata da Mises, Heyek e Robbins contro la «soluzione competitiva».

Passando ora al mondo scientifico di lingua inglese, prima degli apporti di Lange,

Dickinson, Durbin e Lerner, a eccezione della breve trattazione fatta al rispetto da W.C.

Ropper,13 è poco ciò che si era elaborato in lingua inglese scritta in relazione alla

«soluzione competitiva». Nonostante questo, come abbiamo indicato anteriormente, c’era

già una dottrina relativamente sviluppata a livello accademico che permise che sia Mises

sia Hayek facessero, con carattere previo, una serie di osservazioni critiche a questo tipo

di proposte. Cronologicamente, le prime osservazioni che si sviluppano sulla «soluzione

competitiva» in generale si devono a Mises e appaiono sotto un’epigrafe dedicata al

«mercato artificiale» nella sua opera su Il Socialismo (Die gemein wirtschaft) apparsa nel

1922 e ampliata e tradotta in inglese nel 1936. Secondo Mises, il mercato è il «punto

focale» del sistema capitalista e costituisce la sua più intima essenza, di modo che solo

nel capitalismo è possibile che esso si sviluppi, e in nessun modo è possibile imitare

«artificialmente» il mercato e la concorrenza in un sistema socialista. Le ragioni che porta

Mises per dare fondamento a questa affermazione sono in pieno accordo con le

spiegazioni che abbiamo dato nel Capitolo II di questo libro sul carattere coordinativo della

funzione imprenditoriale, e dimostrano che Mises, tra il suo articolo iniziale del 1920 e

l’elaborazione del suo libro sul socialismo del 1922 (corretto e ampliato in occasione della

sua versione inglese nel 1936), seppure mantenendo le stesse idee, era migliorato in

modo molto significativo in quanto a espressione e articolazione verbale.

In effetti, come abbiamo già visto, Mises afferma esplicitamente che è l’impresario colui

che crea l’informazione pratica necessaria per portare a termine il calcolo economico. Per

dirlo con le sue parole: «It is the speculative capitalists (cioè gli imprenditori) who create

the data to which he has to adjust his business and which therefore gives direction to his

trading operations.»14 Ordunque, l’informazione si crea, si scopre o si «vede» solamente

se l’impresario persegue un fine che agisce da incentivo ad apprendere detta

informazione. L’incentivo è, pertanto, il fine o il beneficio che si vuole ottenere con l’azione,

e se l’impresario, non riconoscendosi il diritto di proprietà, non può raggiungere tale

obiettivo, beneficio o fine, non genererà neppure l’informazione necessaria a rendere                                                             13 Willet Crosby Ropper, The Problem of Socialist State, op. cit., pagine 60 e 62, nelle quali insiste sulla necessità di mantenere la concorrenza, e afferma esplicitamente che il grado di efficienza che ci si può asprttare da un sistema socialista dipenderà dal grado in cui lo stesso riesca a simulare la concorrenza che normalmente si sviluppa in un regime capitalista. Si veda ugualmente la nota 30 del capitolo V. 14 Ludwig von Mises, Socialism, opera citata, p. 121 (edizione italiana: Socialismo, analisi economica e sociologica, Rusconi, Milano 1990). In italiano: «Sono gli impresari coloro che creano l’informazione alla quale ciascuno adegua i suoi affari e che, pertanto, orienta le sue attività commerciali.»

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10  

possibile il calcolo economico e non si metterà in moto tutto il processo coordinativo che è

tipico di un’economia di mercato. Con parole di Mises: «Without the striving of the

enterpreneurs for profit… the successful functioning of the whole mechanism is not to be

thought of…The motive force of the whole process which gives rise to market process for

the factors of production is the ceaseless search on the part of the capitalists and the

enterpreneurs to maximize their profits.»15 Per questo non è possibile separare il mercato

e le sue funzioni tipiche – per quel che riguarda la formazione dei prezzi e la capacità

coordinativa degli atti individuali di coloro che vi partecipano, dall’istituzione della proprietà

privata dei mezzi di produzione. Cioè, nel momento in cui si elimina la proprietà privata dei

mezzi di produzione, diventa inutile dare istruzioni ai gestori delle imprese che si

comportino come fossero impresari, dal momento che li si «lascia alla cieca» quando si

toglie loro la possibilità di ottenere quelli che ritengono soggettivamente che potrebbero

essere i loro benefici.16

D’altra parte, e d’accordo con Mises, non serve a niente che un’ ipotetica «banca

statale» subasti i suoi capitali tra quei gestori che offrono la possibilità di ottenere un

maggiore «tasso di beneficio». «Such a state of affairs would simply mean that those

managers who where less cautious and more optimistic would receive capital to enlarge

their undertakings, while more cautious and more skeptical managers would go away

empty-handed. Under capitalism, the capitalist decides to whom he will entrust his own

capital.»17 Il processo, quindi, non si basa sull’offrire il massimo tasso di beneficio, ma

sull’informazione pratica che si genera in un mercato capitalista quando gli impresari

agiscono in forma speculativa e come risultato della tensione psicologica che si produce

fra loro stessi tra il loro desiderio di ottenere benefici e la loro stima soggettiva riguardante

la possibilità di andare incontro a perdite. L’informazione pratica che maneggia un gestore

che non si trovi nelle stesse condizioni di un impresario in un libero mercato non sarà mai

uguale a quella di quest’ultimo, e per questo, in ultima analisi, in un sistema socialista, la

decisione finale di tipo «imprenditoriale» la prenderà l’organo centrale di pianificazione

                                                            15 Ludwig von Mises, Socialism, p. 119: «Non si può concepire il funzionamento di tutto il meccanismo senza la ricerca impresariale del beneficio … poiché la motivazione di tutto il processo che dà luogo ai prezzi di mercato per i fattori di produzione si basa sulla ricerca senza fine del massimo beneficio da parte dei capitalisti e degli impresari.» 16 «If the prospect of profit disappears the mechanism of market loses its mainspring, for it is only this prospect which sets in motion and maintains it in operation.» Mises, Socialism, p.119. 17 Ludwig von Mises, Socialism, p. 121. Una traduzione in italiano di questa citazione potrebbe essere la seguente: «Una tale situazione significherebbe semplicemente che quei gestori che fossero meno cauti e più ottimisti riceverebbero capitali per ampliare le loro imprese, mentre i gestori più cauti e scettici rimarrebbero a mani vuote. Al contrario,nel sistema capitalista è il capitalista che decide a chi e in quali circostanze affidare il proprio capitale.»

Page 173: Socialism o

11  

incaricato di decidere a chi si daranno i corrispondenti fondi o capitali; organo centrale

che, come già sappiamo, non potrà mai accedere all’informazione pratica necessaria per

non agire arbitrariamente. Così conclude Mises «… the alternative is still either socialism

or a market economy», che però non si può concepire come via intermedia la possibile

esistenza di un «socialismo di mercato».18

Hayek, da parte sua, nelle ultime cinque epigrafi (che si dilungano per 25 pagine) del

suo articolo che riassume «Lo stato del dibattito» apparso nel 1935, e sotto la

denominazione di «pseudoconcorrenza», si occupò di criticare sia i modelli che erano stati

sviluppati nella letteratura tedesca, e che abbiamo esposto dettagliatamente parlando di

Heimann e Polianyi, sia le altre proposte di «socialismo di mercato» che si venivano

elaborando in forma verbale nei circoli economici di Londra dalla più giovane generazione

di economisti socialisti (e che fino a quella data del 1935 non si erano ancora espressi in

forma scritta).

Per quello che si riferisce al modello di «tradizione tedesca» di concorrenza tra

monopoli settoriali, ciascuno dei quali dovrebbe comportarsi seguendo , in generale, la

regola di uguagliare i prezzi ai costi e, in particolare, quella di produrre quel volume in cui i

prezzi e i costi marginali coincidessero, Hayek ripete e amplia più dettagliatamente gli

argomenti che abbiamo già presentato contro le proposte di Heimann e Polianyi, e che

inizialmente furono esposti da Mises, Halm e Weil. Da un lato,Hayek indica che se non si

permette la concorrenza intrasettoriale si rende impossibile, all’interno di ciascun settore,

la nascita dell’informazione su prezzi e costi che è necessaria per il calcolo economico.

Dall’altro lato, critica la proposta che i costi vengano utilizzati come guida per fissare i

prezzi o determinare un certo volume di produzione. Questo è così non solo perché, come

già sappiamo, i costi sono qualcosa di soggettivo che si può stabilire solo in un ambito di

mercato in cui si possano stimare convenientemente tutte le possibili opportunità alle quali

si rinuncia nell’agire, ma anche perché i costi dipendono sempre dalle aspettative che si

hanno sul futuro. Cioè, con le parole di Hayek, «the competitive or necessary cost cannot

be known unless there is competition»,19 e perciò è necessario che esista non solo vera

concorrenza tra i diversi settori, ma anche, e soprattutto, concorrenza tra le diverse

imprese a livello intrasettoriale. I costi, pertanto, non sono qualcosa che si possa

conoscere in forma oggettiva da parte di un organo di pianificazione o dai gestori di alcuni                                                             18 Ludwig von Mises, Socialism,p.123: «L’alternativa è o il socialismo o l’economia di mercato.» 19 F.A.Hayek, «The Present State of Debate», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 227: «i costi non si possono conoscere se non esiste concorrenza.»

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12  

monopoli settoriali, ma sono valutazioni soggettive stimate in funzione della capacità

imprenditoriale di ciascun agente economico che prende decisioni nel marcato.

Inoltre, l’utilizzazione del criterio del costo marginale implica, come ha già evidenziato

Mises, un ragionamento circolare che rende impossibile la sua applicazione. Non è solo

che i costi sono d’opportunità e soggettivi, ma anche che i computi numerici che si

tengono in conto sono precisamente i prezzi stimati dei fattori di produzione. Poi

difficilmente si possono determinare i prezzi in funzione dei costi quando questi ultimi non

sono altro che prezzi. Questo è chiaro soprattutto se si riflette sul ruolo che gioca

l’ammortizzazione del capitale come componente del costo. In effetti, il capitale non è altro

che il valore attuale di una serie futura di rendite o prezzi dei servizi di un bene di capitale

che devono essere stimati con carattere previo per calcolare il valore, oggi, di detto bene

e, per tanto, la sua quota di ammortizzazione come componente del costo. Poi è

impossibile determinare il prezzo in funzione del costo, dal momento che il suo

componente di ammortizzazione esige che si siano stimati previamante i prezzi futuri.

Usando le parole dello stesso Hayek: «Much of what is usually termed cost of production

is not really a cost element that is given independently of the price of the product but a

quasi-rent, or a depreciation quota which has to be allowed on the capitalized value of

expected quasi-rents, and is therefore dependent on the prices which are expected to

prevail.»20

D’altra parte, Hayek mette in risalto la possibilità di stabilire in un modo che non sia

puramente arbitrario quale sarà il settore o l’industria monopolizzata che costituirà

l’elemento di base del modello di sistema socialista che abbiamo commentato. Si

dovranno incorporare in ogni settore tutte le industrie o tappe intermedie che diano luogo a

un determinato bene o servizio finale di consumo? O, al contrario, si incorporeranno in

ciascun settore tutte le industrie o imprese che producano lo stesso bene intermedio? O si

dovrà utilizzare un qualche sistema che sia una combinazione di questi due? E’chiaro,

inoltre, che dal momento che ogni servizio e bene finale di consumo ha un diverso

significato soggettivo per ciascuna persona o organo decisionale, il concetto di settore o

industria, sia qual sia il criterio seguito, sarebbe puramente arbitrario e, inoltre, tali settori

non si potrebbero mantenere inalterati nel tempo, poiché al modificarsi i beni e servizi                                                             20 «Una gran parte di ciò che generalmente si denomina costo di produzione non è un elemento del costo che sia dato indipendentemente dal prezzo del bene, ma una quasi-rendita o quota di deprezzamento di cui bisogna tener conto al momento di calcolare il valore della capitalizzazione delle quasi-rendite che ci si attendeva e che, pertanto, dipende dai prezzi che ci si attende che debbano prevalere in futuro.» F.A. Hayek, «The Present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, op. cit., p.227.

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13  

prodotti o le tecnologie o i beni di capitale utilizzati, a parità di criterio, le imprese da

raggruppare in uno o nell’altro settore dovrebbero variare costantemente. Il concetto di

industria o settore è, pertanto, teoricamente assurdo: non si può stabilire in modo univoco

e oggettivo, e avrebbe senso solo in un mondo statico in cui l’informazione fosse data e in

cui non si producessero cambiamenti.21

Il secondo modello che Hayek analizza e critica è quello in cui si vuole permettere la

«pseudoconcorrenza» non solo a livello intersettoriale, ma anche a livello intrasettoriale,

cioè tra le diverse imprese di ciascun settore. In questo secondo modello, l’organo

centrale di pianificazione appare come una specie di «superbanca» che si appropria dei

benefici che si ottengano da tutte le imprese e settori, e si occupa di distribuire fra loro i

corrispondenti fondi di investimento. I mezzi di produzione sono a titolo pubblico, ma si

pretende che le diverse imprese si comportino in modo «competitivo» a livello individuale,

cioè cercando di ottenere «benefici» e di evitare «perdite».

Le osservazioni critiche che Hayek anticipa a questo secondo gruppo di proposte di

socialismo competitivo, nelle quali si suppone che la concorrenza si estenda al massimo

ambito compatibile con la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, e nelle quali l’organo

centrale di pianificazione interviene solo al momento di tenersi i benefici e distribuire i

corrispondenti fondi di investimento, se pure sono di un certo interesse, soprattutto perché

si possono considerare anticipazioni della moderna teoria economica dei diritti di proprietà

e dell’ analisi della Scuola della Scelta Pubblica quanto al comportamento dei burocrati e

funzionari,22 non includono, nonostante ciò, gli argomenti teorici essenziali che erano già

stati proposti da Mises. In effetti Hayek stabilisce che, anche se si permette la

«concorrenza» a tutti i livelli, se non esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione si

dovrà sviluppare o scoprire un qualche sistema alternativo per provare o verificare se i

gestori corrispondenti stanno agendo o no in modo corretto. Hayek enumera e analizza

una serie di possibili sistemi alternativi alla proprietà privata dei mezzi di produzione che si

                                                            21 F.A. Hayek, «The Present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, op. cit., p. 231. 22 La connessione con la moderna Scuola della Scelta Pubbilica si manifesta nel seguente riferimento che Hayek fa al problema che pone la burocrazia: «It will at best be a system of quasi-competition where the person really responsible will not be the entrepreneur but the official who approves his decision and where in consequence all the difficulties will arise in connection with freedom of iniciative and the assessment of responsibility which are usually associated with bureaucracy.» Vedere F.A. Hayek, «The present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, p. 237. Qui si potranno reiterare tutti gli argomenti sviluppati più recentemente dalla Scuola della Scelta Pubblica per ciò che si riferisce all’analisi economica degli effetti perversi del comportamento politico e burocratico e che abbiamo già citato in altro luogo (nota 26 del Capitolo III).

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14  

potrebbero ideare.23 Da un lato, l’esperienza passata di successi o fallimenti dei futuri

responsabili non è valida come criterio, dato che non interessa il passato ma il

comportamento di fronte al futuro che terrà il gestore corrispondente. Dall’altro lato, non è

nemmeno possibile discernere in modo oggettivo se un gestore sta agendo male perché

apparentemente raccoglie «perdite», se ciò che sta facendo è investire in modo adeguato

e, dall’ottica di un lasso di tempo più lungo, attende che quelle «perdite» si trasformino in

abbondanti «benefici». La stessa difficoltà la porrebbe lo stabilire un sistema di bonus o

«incentivi monetari» a favore dei gestori: la distribuzione di questi esige che si conosca

previamente e in modo oggettivo e inequivocabile se il corso di un’azione ha avuto

successo o ha fallito, cosa che non è possibile data la natura dispersa e non articolabile

dell’informazione implicata nel processo così come il carattere incerto che hanno tutti gli

avvenimenti futuri. Inoltre, un sistema di «bonus» genererebbe solamente un

comportamento eccessivamente ottimista e pazzo se non venisse compensato da «bonus

negativi» nei casi in cui si ottenessero perdite o si commettessero errori. Nonostante ciò,

lo stabilire sanzioni monetarie o di altro tipo in funzione della gravità delle perdite registrate

comporta, al contrario, il rischio di fare in modo che il comportamento imprenditoriale sia

eccessivamente conservatore. E così di seguito, concludendo Hayek che non esiste

nessun sistema alternativo che permetta di riprodurre o simulare nel socialismo i

comportamenti tipicamente competitivi a cui dà luogo la proprietà privata dei mezzi di

produzione.24

                                                            23 Le diverse proposte di incentivi o sistema di monitorizzazione del successo dei gestori in una «economia di mercato socialista» che Hayek analizza costituiscono per lui un problema di grande intersse torico che «in their pure form they raise the question of the rationale of private property in its most general and fundamental aspect». Vedere F.A.Hayek, «The Present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, p. 219. Sembra che, con questa affermazione, Hayek intraveda il programma di ricerca scientifica della moderna teoria economica dei diritti di proprietà che, sebbene molto irrigidito nei vizi del paradigma neoclassico di informazione completa e dell’equilibrio, attualmente sta raggiungendo un grado notevole di sviluppo. Nel prossimo capitolo completeremo la nostra analisi critica alle proposte di stabilire sistemi di bonus e incentivi per rendere possibile il regime socialista. 24 Vedere F.A.Hayek, «The Present State of the Debate», Collectivist Economic Planning, p. 238. Comunque non possiamo essere d’accordo con Hayek, e riteniamo che qui pecchi di eccesso di cavalleria verso i suoi oppositori, poiché egli stesso afferma che nonostante sia «illegitimate to say that these proposals are impossible in any absolute sense, it remains not the less true that these very serious obstacles to the achievement of the desired end exist and that there seems to be no way in which they can be overcome». Riteniamo, al contrario, per i motivi addotti nel testo, che sia impossibile che in assenza di proprietà privata si possa risolvere il problema del calcolo economico in un sistema in cui si estenda al massimo la concorrenza, ma nel quale la proprietà dei beni di produzione sia pubblica. Hayek, con questa affermazione, può dare a intendere che non esiste un’impossibilità logica, e che il problema è piuttosto un problema pratico di trovare degli incentivi adeguati che sostituiscano quelli che esistono nel mercato capitalista. Però il problema non è quello di trovare gli incentivi sostitutivi adeguati, ma il fatto che è teoricamente impossibile che, in assenza di proprietà privata, si risolva il problema del calcolo economico, poiché né i gestori generano la necessaria informazione, né l’organo centrale incaricato di distribuire i fondi corrispondenti dispone dell’informazione pratica necessaria per farlo in un modo che non sia completamente arbitrario.

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15  

Ordunque, nessuna delle anteriori possibili soluzioni né le critiche corrispondenti

toccano pienamente il cuore essenziale del problema, che non nasce solo dalla mancanza

degli incentivi necessari perché il sistema funzioni così come funzionano i processi di

mercato in un sistema capitalista, ma consiste anche di un problema non sradicabile di

conoscenza dispersa, così come lo stiamo spiegando seguendo le linee maestre già

esposte da Mises. In effetti, se i beni di produzione sono di proprietà pubblica e la

comunità, attraverso l’organo centrale di coazione, si appropria dei corrispondenti benefici,

dividendi e interessi, è chiaro che, da un lato, nessun agente individuale può appropriarsi

di quegli stessi benefici, poiché ciò andrebbe contro il modello di socialismo che si

propone e implicherebbe introdurre di nuovo la proprietà privata dei mezzi di produzione e

il sistema capitalista. Se ogni agente economico si vede per forza impossibilitato a

ricercare ciò che per lui è il fine o il beneficio, non scoprirà né vedrà la grande quantità di

informazione pratica rilevante che è necessaria per il calcolo economico e il

coordinamento dei processi sociali. Inoltre, anche se ingannando se stesso pensasse che

la sua situazione è «identica» a quella che avrebbe in una società capitalista e credesse di

vedere tale fine o beneficio (perché non gli importa che lo stesso, una volta ottenuto, sia

consegnato alla comunità, o semplicemente per caso o per qualsiasi altro motivo), è

evidente che, per poter ricercare quel fine e cominciare il corso di azione corrispondente,

dato che per definizione non dispone di risorse proprie, dovrà andare a richiederle al

corrispondente organo centrale di pianificazione che «rappresenti» la comunità. Pertanto,

sarà inevitabilmente il detto organo di pianificazione quello che, in ultima analisi, dovrà

prendere la decisione di fornire o no le risorse corrispondenti, pur mancando per questo,

come già sappiamo, dell’informazione pratica rilevante che si trova dispersa nella testa

degli agenti economici e che ha un carattere essenzialmente soggettivo e tacito, per cui il

detto organo statale tenderà inesorabilmente ad agire in modo arbitrario e privo di

coordinamento. Cioè, in assenza di proprietà privata dei fattori di produzione (o,

esprimendoci in altro modo, se uno non può appropriarsi dei benefici frutto della propria

creatività, costituire un capitale e trovare le risorse necessarie per nuove azioni) si

produce una dislocazione forzata tra gli agenti individuali potenzialmente possessori della

conoscenza dispersa (e diciamo «potenzialmente» perché a sua volta la conoscenza non

si genera in modo creativo per il fatto che si impedisce l’assunzione a livello particolare dei

corrispondenti fini o benefici), e l’organo centrale di pianificazione che, per quanto

possieda buonissime intenzioni, non potrà mai disporre della conoscenza dispersa che

potenzialmente genererebbero i cittadini e, pertanto, non avrebbero altra possibilità che

Page 178: Socialism o

16  

quella di decidere in forma arbitraria e priva di coordinamento a chi fornire le risorse a sua

disposizione.

Infine, non possiamo sorvolare su fatto che un anno prima di Hayek, nel 1934, Lionel

Robbins approfittò della sua opera su La Grande Depressione per fare dei brevi commenti

critici alle proposte di «socialismo competitivo». Per Robbins, non è sufficiente che i

gestori del sistema socialista cerchino di «beffare» la concorrenza, «facendosi

concorrenza» gli uni con gli altri al momento di vendere e comperare i corrispettivi prodotti

come se stessero svolgendo la loro attività in un sistema capitalista. Robbins ritiene che in

tali proposte si concepisca il sistema economico in modo semplicistico, come se fosse

qualcosa di statico in cui i prezzi e il resto dell’informazione si generano ipso facto in modo

oggettivo per la forza della domanda esercitata dai consumatori. Al contrario, Robbins

insiste che, nel mondo reale, i gusti, la tecnologia, le risorse e, in generale, tutta la

conoscenza si trovano in un processo di cambiamento continuo e che, pertanto, «the

entrepreneur must be at liberty to withdraw his capital altogether from one line of

production, sell his plant and his stocks and go into other lines. He must be at liberty to

break up the administrative unit.»25 Riassumendo, è necessario disporre della libertà di

vendere la proprietà se si deve generare l’informazione necessaria perché il mercato

funzioni, e ciò è chiaramente incompatibile con la proprietà pubblica dei mezzi di

produzione e il controllo centralizzato del sistema economico che, in ultima analisi, essa

implica. Vediamo, pertanto, come Robbins, insieme agli argomenti contro la soluzione di

calcolo o puramente algebrica che abbiamo già commentato precedentemente, faccia una

serie di commenti sulla «concorrenza artificiale» che, benché brevi, non vanno del tutto

fuori rotta.26

Terminiamo così la nostra analisi delle critiche inizialmente anticipate da Mises, Hayek

e Robbins contro la cosiddetta «soluzione competitiva», e che si basano sul carattere

disperso della conoscenza che rende impossibile il calcolo economico dove non c’è                                                             25 Lionel Robbins, The Great Depression, Macmillan, Londra 1934, p. 154. La traduzione italiana di questa citazione potrebbe essere: «L’imprenditore deve essere libero di ritirare il suo capitale da qualsiasi linea di produzione, vendere le sue installazioni e le sue azioni e investire in altri progetti. Deve avere la libertà di liquidare e dividere qualsiasi progetto di investimento.» 26 Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, opera citata (nota a piè pagina n.° 10, p. 159) fa notare che, paradossicamente, Robbins in questa breve analisi sembra allontanarsi dalla propria concezione «robbinsiana», in cui il soggetto economico è un semplice massimizzatore. Benchè sembri che Lavoie propenda per l’interpretazione che Robbins, in pratica, fu molto più austriaco di quanto facciano credere Kirzner e altri autori, io personalmente ritengo che l’interpretazione dinamica e austriaca dei processi di mercato di Robbins è stata, nella maggior parte dei casi, molto povera e confusa, non essendo egli capace di separare chiaramente una dall’altra interpretazione, e ancora meno di evitare che dalla lettura dei suoi lavori si deducesse quasi sempre la concezione statica.

Page 179: Socialism o

17  

proprietà privata dei mezzi di produzione. Di seguito, analizzeremo molto dettagliatamente

la proposta di «soluzione competitiva» elaborata de Oskar Lange.

3. L’APPORTO DI OSKAR LANGE: CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

La ragione per cui studiamo dettagliatamente il contributo dell’economista polacco

Oskar Lange si fonda, a parte l’importanza di questo autore nella storia del dibattito sul

calcolo economico socialista, sulla necessità di valutare la validità della versione più

generalizzata dei libri di testo che circolano su di esso come fonte secondaria e che, nella

maggioranza dei casi, fino ad ora davano per scontato che Oakar Lange aveva confutato

in modo efficace la sfida teorica lanciata contro il socialismo da Mises e Hayek. Vediamo

dunque come questa interpretazione che era divenuta un vero mito27 della scienza

economica, non corrisponda alla realtà; e, di fatto, i professionisti dell’economia, in modo

sempre più generalizzato, stanno cominciando a rendersi conto che il mito che «Lange fu

capace di ribattere a Mises» manca completamente di fondamento.

Nella vita scientifica di Oskar Ryszard Lange (1904-1965) si possono distinguere, per

ciò che si riferisce alla sua concezione del sistema socialista, quattro tappe ben

differenziate. La prima tappa è caratterizzata dalla sua difesa di un modello di socialismo

enormemente influenzato da quello sviluppato dai marxsisti austriaci in generale e, in

particolare, da Eduard Heimann e Karl Polanyi, che abbiamo già avuto l’occasione di

analizzare. Nella seconda tappa, Lange sviluppa il suo «modello classico», che ha radici

profonde nella teoria neoclassica del benessere, nella «soluzione» della «prova ed

errore», e a introdurre meccanismi decentralizzati di «concorrenza» con la finalità di

trovare le corrispondenti soluzioni di equilibrio. La terza è una tappa di ambiguità in cui

Lange, profondamente impressionato dalle critiche al suo sistema enunciate da F.A.

Hayek, e che non riuscì mai a contestare, raggiunge nelle sue proposte le maggiori quote

di «liberalismo», benché non sia mai giunto a renderle compatibili in modo esplicito e

soddisfacente con il suo ideale socialista. La quarta e ultima tappa, che va dal suo

ingresso nel partito comunista polacco fino alla sua morte, è caratterizzato da una decisa

«marcia indietro» rispetto alle sue anteriori proposte, nel senso che finisce per elogiare in

                                                            27 «Lange concocted what could only be called the Mythology of the Socialist Calculation Debate, a mythology which, aided and abetted by Joseph Schumpeter, was accepted by virtually all economists of whatever ideological stripe.» Murray N. Rothbard, «The End of Socialism and the Calculation Debate Revisited», The Reviw of Austrian Economics, volume 5, n.° 2, 1991, p. 53.

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18  

modo esplicito la teoria e la pratica del sistema stalinista, e alla fine si arriva addirittura a

ritrattare le sue «soluzioni competitive» (che non lo portavano se non ad un abbandono

esplicito del sistema socialista), per finire proponendo un rigido sistema di pianificazione

centrale di taglio stalinista in cui non crede, dato l’enorme avanzamento e sviluppo dei

sistemi informatici, che nessuna soluzione competitiva sia necessaria. Studieremo

dettagliatamente ciascuna di queste tappe.

Il modello di Lange-Breit

La prima proposta di Oskar Lange su come dovrebbe funzionare un sistema socialista

fu scritta assieme a Marek Breit nel 1934, in un capitolo intitolato «Il cammino verso

un’economia socialista pianificata», che fu incluso in un’opera collettiva sull’Economia

politica e tattica dell’organizzazione del socialismo, stampato a Varsavia quello stesso

anno.28 Il modello di Lange-Breit del 1934 è praticamente una copia del modello di

monopoli settoriali «competitivi» che avevano tentato di sviluppare negli anni venti

Heimann e Polianyi. In effetti, Lange e Breit concepiscono l’economia come un insieme di

«trusts settoriali» dotati di una grande autonomia e in cui i rappresentanti sindacali

dovrebbero avere una grande influenza riguardo alla loro gestione. I trusts, in ogni caso,

sono «coordinati» da una banca centrale che, oltre a controllare e supervisionare il loro

funzionamento, si occuperebbe di fornir loro le necessarie risorse finanziarie. Ognuno di

questi monopoli settoriali riceverebbe l’ordine di tenere una contabilità rigorosa e di

stabilire i prezzi in funzione dei costi di produzione. Com’è logico, tutta la proprietà dei

mezzi di produzione sarebbe pubblica e i corrispondenti benefici e dividendi dovrebbero

per forza essere trasferiti alla banca centrale. Per Lange e Breit è importante separare, per

quanto possibile, le organizzazioni economiche dall’autorità politica, e al fine di evitare che

i settori corrispondenti finiscano per essere dei monopoli che sfruttano il consumatore, si

dovrebbe stabilire per legge l’obbligo di dar impiego a tutti quei lavoratori che chiedessero

di essere impiegati in uno qualsiasi di essi.

Come si vede, Le proposte di Lange e Breit, come abbiamo già detto, praticamente

coincidono con quelle sviluppate negli anni 20 da Heimann e Polianyi e, pertanto, si                                                             28 Oskar Lange e Marek Breit, «Droga do Socjalistycznej Gospodarki Planowej» (Il cammino verso un’economia pianificata socialista) incluso nel libro Gospodarka-Polityka-Taktyca-Organizacja Socjalizmu (Economia politica e tattica dell’organizzazione socialista), pubblicato a Varsavia nell’anno 1934. Esiste una seconda edizione di questo lavoro pubblicata nel 1973 nel volume I dei Dziela (Lavori) di Oskar Lange, edizioni Polski Wydawnictwo Economiczne, Varsavia 1973.

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19  

possono applicare loro tutte le critiche che abbiamo studiato nei paragrafi precedenti e

che, in sostanza, furono enunciate da Mises e Hayek. Anche se non ripeteremo qui tutta

l’argomentazione contro questo tipo di modelli, è evidente il loro carattere ingenuo e

ambiguo, soprattutto perché non si tiene per niente in conto che la mancanza di

un’efficace concorrenza a livello intrasettoriale rende radicalmente impossibile il calcolo

economico. Lo stesso succede con l’insormontabile difficoltà di definire in modo oggettivo

che non sia puramente arbitrario i settori industriali di tipo monopolista. Inoltre, i gestori

responsabili dei settori corrispondenti non disporrebbero della necessaria libertà

imprenditoriale per creare e scoprire l’informazione che si richiede per il calcolo

economico. Questo fatto è particolarmente grave, perché fa sì che l’ordine di «produrre a

prezzi che coprano i costi» perda completamente virtualità, dato che questi mancano di

entità oggettiva e, in ultima analisi, in se stessi non sono altro che prezzi che la regola

stessa converte in una realtà inafferrabile, poiché la stessa implica cadere in un

incolmabile ragionamento circolare (specialmente per l’impossibilità di calcolare la

componente dei costi che implicano le quote di ammortizzazione). Infine, l’autorità della

banca centrale responsabile di fornire i fondi alle imprese e ai settori, come conseguenza

del problema insormontabile che pone il carattere disperso e soggettivo della conoscenza,

mancherà dell’informazione necessaria per svolgere il proprio compito di coordinamento in

modo capace e che non sia puramente arbitrario.

Riassumendo, né Lange né Breit tennero in conto né contestarono nessuna delle

critiche che Mises aveva fatto più di dieci anni prima ai modelli di monopoli «competitivi» di

Heimann e Polianyi, cosa che rende evidente che, non avendo letto i lavori di Mises

pubblicati dal 1920 al 1928, non erano coscienti dei problemi che poneva la loro proposta

per offuscamento ideologico e mancanza della necessaria e attenta riflessione su di essa.

Oppure, infine, che tacquero convenientemente le critiche misiane, che non menzionarono

e lasciarono senza risposta, per ragioni di tipo ideologico o di convenienza politica.

4. OSKAR LANGE E IL SUO MODELLO CLASSICO DI «SOCIALISMO DI MERCATO»

La seconda tappa nella vita scientifica di Lange, che, seguendo Tadeusz Kowalik,29 la

denomineremo tappa del modello classico di «socialismo di mercato», inizia con i suoi

                                                            29 Si veda l’articolo di Tadeusz Kowalik dedicato a «Oskar Ryszard Lange», pubblicato nel volume III di The New Palgrave. A Dictionary of Economics, op. cit., p. 126.

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articoli pubblicati nell’ottobre del 1936 e nel febbraio del 1937 con il titolo di «On the

Economic Theory of Socialism, Part I & II» (Sulla Teoria Economica Del Socialismo), e che

furono ristampati insieme al lavoro di Fred M. Taylor sul socialismo nel libro pubblicato con

lo stesso titolo e con una introduzione di Benjamin Lippincott nel 1938.30 Lange, dopo aver

ottenuto una borsa di studio della Fondazione Rockfeller, studiò nella London School of

Economics, e anche a Chicago, Berkeley e, soprattutto, ad Harvard,dove frequentò due

anni accademici completi e fu molto influenzato da Schumpeter, con cui scambiò

molteplici punti di vista, avendo, inoltre, l’opportunità di entrare in contatto e di lavorare

con i fratelli Alan e Paul Sweezy, economisti socialisti, così come con Wassily Leontief.

Frutto di tutta questa «atmosfera intellettuale» fu il lavoro intitolato «On tne Economic

Theory of Socialism», con cui Lange si proponeva, da un lato, di formulare la sua

convinzione che la teoria neoclassica dell’equilibrio, in generale, e specialmente la

cosiddetta «economia del benessere», costituivano, senza dubbio, il miglior fondamento

teorico del sistema socialista, e, dall’altro lato, e basandosi sull’idea anteriore, confutare

l’argomento di Mises sull’impossibilità teorica e pratica di portare a termine il calcolo

economico razionale in un sistema socialista. Vediamo in che modo Lange ha sviluppato

la sua argomentazione e se ha avuto successo o no nel confutare Mises.

Prezzi di mercato versus «prezzi parametrici»

La grande illusione di Lange consisteva nel credere che era possibile simulare lo stato

finale a cui tendono il processo di mercato e l’economia competitiva, ma senza che esista

un mercato capitalista, cioè proprietà privata dei mezzi di produzione e libero esercizio

della funzione imprenditoriale. Questa illusione si basava sul fatto di considerare che

sarebbe possibile arrivare a una lista di «prezzi parametrici» che, non essendo stati

determinati in un libero mercato, permettessero comunque il calcolo economico razionale

incorporando l’informazione rilevante e necessaria per lo stesso, rendendo così possibile

l’agire in modo coordinato dei diversi agenti economici della società. Vedremo come

                                                            30 La parte I di «On the Economic Theory of Socialism» viene pubblicato nell’ottobre del 1936 nel volume IV (1) della Review of Economic Studies, pp. 53-71. La parte II viene pubblicata nella stessa rivista, nel volume IV (2) corrispondente al febbraio del 1937, pp. 123-142. Entrambe sono comprese nelle pp. 55-143 del libro intitolato On the Economic Theory of Socialism edito e introdotto da Benjamin M. Lippincott, pubblicato da The University of Minnesota Press, Minneapolis 1938, e riedito nel 1964 da McGraw Hill a New York (pp. 55- 143). Esiste una dignitosa traduzione in spagnolo di cui sono autori Antonio Bosch Doménech y Alfredo Pastor Bodmer, pubblicata con il titolo di Sobre la Teoría Económica del Socialismo, ( Sulla Teoria Economica del Socialismo), per la casa editrice Ariel, Barcellona, in varie edizioni (noi utilizzeremo la 4.ª edizione del dicembre del 1973).

Page 183: Socialism o

21  

l’apporto di Lange si basi su un concetto sbagliato su come funzionano i processi di

mercato (o meglio, su un’assoluta ignoranza di tali processi, poiché Lange centra la sua

attenzione solo ed esclusivamente sul paradigma neoclassico dell’equilibrio, sulla teoria

economica del benessere e sul cosiddetto modello di «concorrenza perfetta»). Potremo

ugualmente constatare come, attraverso il procedimento che egli propone, non si risolve in

alcun modo il problema del coordinamento né del calcolo economico razionale di una

economia socialista, così come era stato scoperto ed esposto da Mises quindici anni

prima.

Per «prezzi parametrici» dobbiamo intendere i diversi termini o rapporti ai quali si

presentano o si offrono i diversi beni e servizi, e che determinano un comportamento

puramente passivo o di adattamento agli stessi da parte degli agenti economici. In effetti,

per Oskar Lange, la funzione essenziale dei prezzi è puramente parametrica e consiste

nel fatto che ogni agente economico «separately regards the actual prices as given data to

which he ha sto adjust himself».31 I prezzi parametrici sono, pertanto, una specie di ratios

o «relazioni astratte di intercambio» a cui, in principio, si può arrivare con qualsiasi

procedimento, sia o no arbitrario. I prezzi parametrici, d’altra parte, permettono di portare a

termine una «contabilità», intesa nel suo senso puramente formale o strumentale più

semplice. Però, com’è logico, i prezzi parametrici, in se stessi, non garantiscono che si

possa portare e termine un calcolo economico «razionale», cioè una funzione di

coordinamento del comportamento dei diversi agenti economici. Questo sarà possibile

solo se i prezzi menzionati riescono a incorporare l’informazione o la conoscenza

necessarie perché la funzione di coordinamento e il calcolo economico si possano portare

a termine.

L’argomento essenziale di Mises non aveva niente a che vedere con questo concetto

«parametrico» dei prezzi, ma si basava sul concetto di prezzi di mercato, cioè quelli

determinati come risultato del libero esercizio della funzione imprenditoriale, e in assenza

dei quali non si crea l’informazione necessaria per coordinare il comportamento degli

agenti economici e rendere razionale il calcolo economico degli stessi. Lange, al contrario,

crede che il concetto di prezzo di mercato di Mises non sia necessario per il calcolo

economico, e che per mezzo di prezzi semplicemente parametrici, non determinati in un

                                                            31 Oskar Lange, On the Economic Theory of Socialism, op. cit., 2.ª edizione, p. 70. Questa citazione la si trova tradotta a p 74 dell’edizione spagnola in questo modo. «Cada unidad por separado considera los precios que rigen en el mercado como datos a los que ella misma tiene que ajustarse». (Ogni unità separatamente considera i prezzi che controllano il mercato come dati a cui la stessa deve adattarsi).

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mercato competitivo nel quale esista la proprietà privata dei mezzi di produzione e il libero

esercizio della funzione imprenditoriale, si potrebbe, nonostante tutto, calcolare in forma

razionale; cioè, utilizzando l’informazione necessaria a questo scopo e coordinando

convenientemente il comportamento dei diversi agenti. Analizziamo paragrafo per

paragrafo come si sviluppa il ragionamento di Lange.

Il primo paragrafo di Lange

In effetti, Oskar Lange comincia il suo ragionamento teorico contro Mises in questo

modo: «Professor Mises’ contention that a socialist economy cannot solve the problem of

rational allocation of its resources is based on a confusion concerning the nature of prices.

As Wicksteed has pointed out, the term “price” has two meanings. It may mean either

price in the ordinary sense, i.e. the exchange ratio of two commodities on a market, or it

may have the generalized meaning of “terms on which alternatives are offered”. Wicksteed

says, “Price, then, in the narrower sense of ‘the money for which a material thing, a

service, or a privilege can be obtained’, is simply a special case of ‘price’ in the wider

sense of the terms on which alternatives are offered to us”. (P. H. Wicksteed, The

Common Sense of Political Economy, 2nd ed., London, 1933, pag. 28). It is only prices in

the generalized sense which are indispensable to solving the problem of allocation of

resources.»32

Ora commentiamo dettagliatamente questo paragrafo. Per cominciare, il fatto che

Wicksteed ci avverta che agli effetti dell’analisi specifica che farà, in quel momento

basicamente di equilibrio, sia conveniente utilizzare il termine «prezzo» in un senso

«ampio», cioè, come semplice relazione o termine al quale si offrono le alternative, non

implica in nessun modo che Wicksteed credesse che tali «prezzi» parametrici potessero

agire come reali sostituti dei prezzi di mercato là dove i prezzi di mercato non esistessero                                                             32 Oskar Lange, On the Economic Theory of Socialism, op. cit., pp. 59-60. Nelle pp. 63-64 della versione spagnola di quest’opera questo primo paragrafo di Lange che stiamo commentando si traduce in questo modo: «L’affermazione del professor Mises che un sistema socialista non può risolvere il problema della assegnazione razionale delle sue risorse si basa su una confusione riguardo alla natura dei prezzi. Così come ha indicato Wicksteed, il termine “prezzo” ha un doppio significato. Si può usare nella sua accezione comune, cioè, come la relazione di intercambio di due mercanzie in un mercato, o può avere il significato generalizzato di “termini nei quali si offrono le alternative”. Wicksteed dice. “Il ‘prezzo’, pertanto, nel senso stretto di ‘il denaro in cambio del quale si può ottenere un bene matariale, un servizio o un privilegio’ è semplicemente un caso speciale del prezzo definito nel suo significato più ampio dei termini sui quali ci vengono offerte le alternative” (P. H. Wicksteed, El Sentido Comύn de la Economia Política, 2.ª edizione, Londra 1933, p. 28). Per risolvere il problema dell’assegnazione delle risorse sono indispensabili solo i prezzi nel senso generalizzato.»

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o non si conoscessero. Al contrario, da esseri umani quali siamo, agendo costantemente

ci vediamo costretti a prendere decisioni e a dare valore a diverse alternative e, d’accordo

con Mises, non possiamo prendere questo tipo di decisioni in modo razionale se non

teniamo conto dei «veri prezzi di mercato» che annettano o contengano l’informazione

necessaria per essi stessi. Affermare che Mises si sbaglia nella sua argomentazione

sull’impossibilità del calcolo economico socialista, perché utilizza un concetto di prezzo

(«prezzo di mercato» ) troppo ristretto o limitato, è come affermare che il problema che

poneva Mises era solo un semplice problema di impossibilità di effettuare qualsiasi tipo di

«computi» o «calcoli algebrici» per il fatto di non disporre di nessun sistema numerico di

contabilità, sia qual sia il contenuto reale dei dati utilizzati da esso stesso, e non, come di

fatto ha posto, un problema di impossibilità di fare un calcolo economico razionale di tipo

coordinativo in assenza di prezzi che comprendessero l’informazione necessaria per

effettuarlo. Come ha affermato Hayek, che Lange dica che Mises si sbagliava perché

esige, in modo superfluo per il calcolo economico, l’utilizzazione di alcuni «prezzi di

mercato» intesi nel loro senso stretto e limitato, quando qualsiasi sistema parametrico di

prezzi permette di effettuare computi e calcoli, è talmente ingenuo, che sembra

«ingiustificabile in un pensatore che non sia influenzato da pregiudizi di tipo politico».33

L’essenziale, pertanto, è stabilire se nei prezzi parametrici che non siano di mercato si

possa arrivare a includere l’informazione che è indispensabile per calcolare razionalmente

e per coordinare i comportamenti squilibrati degli agenti sociali, problema che, come

vedremo, Oskar Lange non ha potuto risolvere in modo soddisfacente.

D’altra parte, Karen I. Vaughn ha indicato che Oskar Lange, nel paragrafo che stiamo

commentando, ha dimostrato una completa mancanza di comprensione di ciò che volle

                                                            33 In effetti, per dirla con le parole dello stesso Hayek: «That the “alternatives which are offered to us” become known to us in most instances only as money prices (prezzi di mercato in unità monetarie) is Mises’ chief argument. To turn this against him is an excusable legerdemain of which a thinker not prejudiced by political preconceptions should be incapable.» Si veda l’articolo di Hayek «Two Pages of Fiction: The Impossibility of Socialist Calculation» pubblicato in The Essence of Hayek, opera citata, p. 58, e il cui contenuto consideriamo essenziale per la critica di Lange in questo passaggio e, pertanto, lo seguiremo molto da vicino. Incidentalmente, Arthur Seldon ci racconta la storia di come è nato questo articolo di Hayek, che ricevette insiema a una lettera del suo autore nell’anno 1982 e nella quale questi gli indicava, tra altre cose, che era «particularly indignant about the steadily repeated silly talk of Oskar Lange having refuted Mises». Questo articolo fu pubblicato originariamente nel numero di aprile del 1982 sulla rivista Economic Affairs. Le «Due pagine di Romanzo» a cui fa riferimento l’«intrigante» titolo dell’articolo sono esattamente le pp. 60 e 61 dell’articolo di Lange ristampato nel libro edito da Lippincott che stiamo commentando, e che si sono citate abusivamente per dare fondamento, senza ulteriore discussione scientifica, al mito ingiustificato che Lange aveva confutato Mises. Si veda, in questo senso, le «Recollections» incluse in Hayek’s «Serfdom» Revisited, pubblicato dall’ Institute of Economic Affairs, Hobart-Paperback n.º 18, 1984, pp. XXVI e XXVII.

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dire Wicksteed in relazione ai prezzi.34 In effetti, per Wicksteed qualsiasi persona che

voglia portare a termine una decisione economica si porrà il problema essenzialmente

soggettivo di valutare il costo di opportunità che implica l’azione che sta considerando. Di

modo che quando qualcuno, per esempio, si propone se fare o no un acquisto, senza

alcun dubbio si informa, tra gli altri aspetti, del prezzo del bene in questione, o della

relazione di intercambio di quel bene con il denaro che c’è nel mercato. Ora, i «termini in

cui si offrono le alternative» a colui che agisce è qualcosa che costui valuta

soggettivamente e che comprende non solo la relazione di intercambio che indica il

prezzo, ma anche tutti gli altri elementi soggettivi che, in misura maggiore o minore, sono

valutati da chi agisce al momento di prendere la sua decisione. Pertanto, e come non

poteva essere da meno nel caso di Wicksteed, uno dei teorici soggettivisti più eminenti,

non è da distinguere la funzione parametrica dalle funzioni non parametriche dei prezzi,

ma una e le altre sono indissolubilmente unite nel concetto di «prezzo di mercato» e sono

sempre giudicate in modo soggettivo, congiunto e indivisibile da coloro che agiscono.35

Il secondo paragrafo di Lange

                                                            34 Vedere Philip Wicksteed, Common Sense of Political Economy, Routledge and Keagan Paul, Londra 1933, p.28. 35 Forse vale la pena la pena di riportare qui letteralmente le parole scritte su questo tema da Karen I. Vaughn: «It is instructive that Lange decided to quote Wicksteed’s formulation of the meaning of price in the beginning of his article; instructive primarily because it reveals Lange’s complete lack of understanding of exactly what Wicksteed was trying to show. In the Common Sense of Political Economy (London, Routledge & Keagan Paul, 1933), Wicksteed described the essentially subjective nature of the opportunity costs that faced anyone attempting to make a rational economic decision. That is, when one considers making a puechase, the price represents the market exchange value, but the “terms on which alternatives are offered” includes not only the market price, but all the subjective elements that must be calculated in one’s choice, the subjective value of all the foregone alternatives (p.28). Obviuosly, this has nothing to do with the distinction Lange was trying to make between market prices and centrally planned prices. The prices which Lange’s planning board would set, far from providing a more encompassing kind of price, would figure in an individual’s subjective calculus in exactly the same way as market prices more conventionally do. Individuals would still have to personally evaluate the whole range of alternatives, the ‘terms on which alternatives are offered’ to them, but the administered price would substitute for the market price. The real problem, then, of how legislated prices would be made to represent actual relative scarcities of the commodities available for exchange, could not be exorcised with an impressive incantation. Lange has still to show that the tâtonnement he prescribed could be made to yield measures of relative scarcity as well as market exchanges. This, he did not accomplish». Si veda a tal proposito la «Introduzione» di Karen I. Vaughn al libro di Trygve J. B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, op. cit., pp. xxii-xxiii. Forse il difetto più importante dell’ «Intoduzione», peraltro brillante, di Karen I. Vaughn che abbiamo appena citato è quello di non menzionare per niente gli apporti di Mises nel suo Human Action nel 1949, che in un altro luogo addirittura erroneamente e ingiustamente sottovaluta nell’affermare che «Mises’ so called final refutation in Human Action is mostly polemic and glosses over the real problems…». Si veda la «Critical Discussion of the Four Papers» in The Economics of Luswig von Mises: a Critical Reappraisal, Sheed and Ward, Kansas City 1976, p. 107. Infine si veda anche l’articolo di Karen I. Vaughn «Economic Calculation under Socialism: the Austrian Contribution», Economic Inquiry, volume XVIII, ottobre 1980, pp. 535-554, ristampato su Austrian Economics, Stephen Littlechild (ed.), Edward Elgar, Londra 1990, volume III, pp. 332-351.

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Vediamo ora come Lange spiega in che modo i «prezzi in senso ampio» (prezzi

parametrici) potrebbero essere conosciuti sia dai gestori delle industrie sia dall’organo

centrale di pianificazione del sistema socialista, e potrebbero riuscire a soppiantare in

modo soddisfacente i prezzi monetari di mercato che ci sono nel sistema capitalista.

Usando le parole dello stesso Oskar Lange: «The economic problem is a problem of

choice between alternatives. To solve the problem three data are needed: (1) a preference

scale which guides the acts of choice, (2) knowledge of the “ terms on which alternatives

are offered”; and (3) knowledge of the amount of resources available. Those three data

being given, the problem of choice is soluble».36 (Il corsivo è mio).

La prima osservazione che si deve fare è quella relativa al grossolano pleonasmo

dell’ultima frase. In effetti, come sa qualunque persona moderatamente colta,

l’espressione inglese «data» deriva dal latino datum-data, che si riferisce precisamente a

quella conoscenza o informazione che sono «date». Da parte sua, «given» è il participio

passato del verbo inglese «to give» che significa «dare». In conclusione, ciò che Lange

afferma letteralmente nella sua ultima frase è che , se l’ informazione che è data, è data, il

problema del calcolo economico è solubile. Hayek dice che questo tipo di espressioni

incolte («given data») o di «ridondanze semantiche» (nella terminologia più morbida di

Don Lavoie) sono utilizzate costantemente da Lange e, in generale, posseggono

un’attrattiva irresistibile e sono all’ordine del giorno per gli economisti matematici, e in

particolare per quelli che sviluppano la loro scienza in termini di equilibrio all’interno

del paradigma neoclassico-walrasiano, perché in qualche modo (per lo meno quello

semantico) tranquillizza la loro coscienza assicurando loro che sanno qualcosa che in

realtà non conoscono né potranno conoscere mai.37 Ebbene, è nella confusione creata dal

suddetto pleonasmo che si basa e radica tutto il contenuto della tanto vantata

«confutazione» da parte di Lange dell’argomentazione di Mises sull’impossibilità del

calcolo economico in un’economia socialista. In effetti, per Mises, il problema economico

fondamentale è come riuscire ad appropriarsi dell’informazione necessaria in assenza di

mercato, prezzi di mercato e libero esercizio della funzione imprenditoriale. Però, se si

suppone ab initio che tale informazione è data («given»), non esiste, com’è logico, nessun

                                                            36 Oskar Lange, On the Economic Theory of Socialism, opera citata, p. 60. La traduzione di questa citazione che troviamo alla p. 64 della versione spagnola già citata è la seguente: «Il problema economico è un problema di scelta tra alternative. Per risolvere il probema abbiamo bisogno di tre dati: (1) una scala di preferenze che guidi le scelte; (2) la conoscenza dei “termini per i quali si offrono le alternative”, e (3) la conoscenza della totalità delle risorse disponibili. Una volta conosciuti questi dati, si può risolvere il problema della scelta.» 37 The Essence of Hayek, opera citata, p. 54.

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problema di calcolo economico, dato che si parte dalla considerazione che lo stesso sia

già stato risolto fin dal principio. Pertanto, quello che ci vuole dire l’ultima frase del

paragrafo di Lange che stiamo commentando è, in ultima analisi, che «se si suppone che il

problema del calcolo economico sia stato risolto fin dal principio, allora il problema del

calcolo economico è risolto».

Lange ribadisce ancora di più il pleonasmo che stiamo commentando nella prima frase

del paragrafo seguente quando dice: «It is obvious that a socialist economy may regard

the data under 1 and 3 as given, at least in as great a degree as they are given in a market

economy».38

Noi ci possiamo chiedere: in che modo? Bene, contrariamente a quello che afferma

Lange senza nessun tipo di argomentazione, non è assolutamente ovvio che in

un’economia socialista l’informazione (neppure quella che si riferisce ai paragrafi 1 e 3)

possa essere «data» (o meglio, «conosciuta», visto che supponiamo che sia questo il

significato che Lange vuole dare all’espressione «given»), nello stesso modo e con lo

stesso grado di intensità con cui tale informazione si «da» (dovremmo piuttosto dire si

«vede», «scopre» o «crea») in un ‘economia di mercato. Il problema chiave è: A chi, o da

parte di chi o in che modo si arriva alla conoscenza dell’informazione? Perché, come

abbiamo studiato dettagliatamente nel Capitolo II, in un’economia di mercato

l’informazione in nessun modo è «data», ma, al contrario, è costantemente creata,

scoperta e avvertita da migliaia e migliaia di agenti economici che esercitano in modo

interattivo la loro funzione imprenditoriale all’interno di un contesto di economia di mercato

e di diritto di proprietà sui fattori di produzione. E’ inammissibile supporre fin dall’inizio,

come fa Lange, che quel processo di costante creazione e scoperta di nuova informazione

si possa emulare o replicare in un sistema socialista in cui, per definizione, non si

permette il libero esercizio della funzione imprenditoriale e in cui sono stati aboliti i diritti di

proprietà. E se in queste circostanze tale informazione non può neanche essere creata e

scoperta degli stessi agenti, molto meno potrà essere conosciuta da un ipotetico organo

centrale di pianificazione. L’informazione non si può considerare «data» a livello centrale,

non solo per il suo carattere soggettivo, pratico, disperso e non articolabile, ma anche                                                             38 «Risulta ovvio, d’altra parte, che un sistema socialista può considerare come dati i dati inclusi negli antecedenti paragrafi (1) e (2), al meno nella stessa misura in cui sono dati in un sistema capitalista». In questa traduzione abbiamo sottolineato la versione italiana (della traduzione spagnola) del pleonasmo inglese «data given». Certo la traduzione della casa editrice Ariel non è rigorosamente fedele su questo punto, poiché allontanandosi dall’originale inglese, menziona che si considerano come dati i tre tipi di dati (1), (2) e (3), e non solo i dati dei paragrafi (1) e (3), come dice testualmente Lange nell’originale inglese. Sobre la Teoría Económica del Socialismo, opera citata, p. 64.

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27  

perché non si genera neppure a livello degli agenti economici individuali quando questi

non possono esercitare liberamente la loro attività imprenditoriale. Non è necessario

sviluppare qui ulteriormente questo argomento chiave, già che è stato varie volte spiegato

dettagliatamente e da diversi punti di vista in altre parti di questo libro.

Il terzo paragrafo di Lange

Lange continua la sua argomentazione come segue: «The data under 1 may be either

given by the demand shedules of the individuals or be established by the judgement of the

authorities administering the economic system. The question remains whether the data

under 2 are accessible to the administrators of a socialist economy. Professor Mises

denies this. However, a careful study of price theory and of the theory of production

convinces us that the data under 1 and under 3 being given, the «terms on which

alternatives are offered» are determined ultimately by the technical possibilities of

transformation of one commodity into another, i.e., by the productions functions.»39

La prima cosa che attira la nostra attenzione in questo paragrafo è il riferimento che

abbiamo sottolineato alla «teoria dei prezzi» e alla «teoria della produzione», il cui

«attento» studio è quello che porta Lange ad affermare che, se l’informazione necessaria

(quella che si riferisce ai paragrafi 1 e 3 ) «è data», non esiste il problema del calcolo

economico, perché i termini in cui si scambiano o si presentano le diverse alternative

verranno dati dalle possibilità tecniche di trasformazione incorporate nelle corrispondenti

funzioni di produzione. Che Lange si appoggi esplicitamente sulla «teoria dei prezzi» e

sulla «teoria della produzione» del paradigma neoclassico-walrasiano, non solo mette in

evidenza l’«imperialismo scientifico» di questo paradigma (come se non esistesse nessun

altra teoria dei prezzi nella quale non si partisse dall’assurdo presupposto di considerare

che tutta l’informazione necessaria è data precedentemente), ma anche che, per di più,

mette in rilievo le enormi insufficienze e gli enormi pericoli che porta con sé la metodologia

                                                            39 Oskar Lange, On the Economic Theory of Socialism, pp. 60-61. La traduzione spagnola è alle pp. 64 e 65 della versione spagnola citata e, tradotta in italiano, è la seguente: «I dati compresi in (1) possono essere dati (o dai gradi di richiesta degli individui, o) dalle autorità che dirigono il sistema economico. Però rimane in piedi il problema di sapere se i dati capeggiati dal (2) sono accessibili ai dirigenti di un’economia socialista. Il professor Mises nega questa possibilità. Tuttavia, un attento studio della teoria dei prezzi e della teoria della produzione ci convince che , conosciuti i dati corrispondenti a (1) e a (3), i “termini per i quali si offrono le alternative” sono determinati, in ultima analisi, dalle possibilità tecniche di trasformazione di una mercanzia in un’altra, cioè dalle funzioni di produzione.» (La frase tra parentesi l’abbiamo tradotta noi e di nuovo corrisponde a un’imperdonabile dimenticanza dei traduttori.)

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basata sull’uso ossessivo della matematica, nell’analisi dell’equilibrio, e nell’ipotesi che il

problema economico fondamentale sia quello della semplice massimizzazione di funzioni

conosciute sottoposte a restrizioni anch’esse date. Non si tratta solo, come indica Mises,

del fatto che la «teoria economica dell’ equilibrio» sia un gioco intellettuale rilevante, ma

anche che, per di più, e questo è molto più grave, si trasformi in un gioco intellettuale che

corrompe anche le menti scientifiche più brillanti, dal momento che, facendole partire da

ipotesi irreali, le porta inevitabilmente a conclusioni errate. E tutto questo in un modo che

passa quasi nascosto e inavvertito tranne che dai teorici più profondi e sottili. La teoria

economica dell’equilibrio e del modello neoclassico-walrasiano è l’«oppio dello scienziato

dell’economia», che lo separa dalla realtà che dovrebbe studiare, lo fa cadere

nell’autocompiacimento più totale e lo immunizza contro la maggioranza delle possibilità

di cui potrebbe disporre per rendersi conto degli errori che sta commettendo. Lange si è

proposto di dimostrare come la teoria economica del benessere, sviluppata all’interno del

paradigma neoclassico-walrasiano, fosse il fondamento teorico più importante che si

potesse offrire al sistema socialista. Che la maggior parte dei teorici dell’equilibrio siano

stati d’accordo sul fatto che il suo modello analitico sia applicabile tanto a un sistema

capitalista quanto a un sistema socialista, e che lo stesso può servire di base per

giustificare la possibilità del calcolo economico in quest’ultimo, per noi toglie ogni

credibilità scientifica alla maggior parte della teoria dei prezzi del modello neoclassico. E,

precisamente, una delle tesi più importanti di questo libro è che l’analisi teorico-critica che

stiamo portando avanti, e che si è plasmata nella realtà pratica sui fatti di importanza

storica che sono accaduti nei paesi dell’Est, non solo suppone lo sgretolamento e il totale

discredito teorico e pratico del socialismo come sistema economico e sociale, ma anche

quello di gran parte della teoria economica neoclassica come paradigma scientifico serio

che valga la pena di essere preso in considerazione.

D’altro canto, non c’è da meravigliarsi che Lange, e in generale la maggioranza degli

autori dell’economia neoclassica, non capiscano come Mises sia capace di affermare che

il calcolo economico è «teoricamente impossibile» in un’economia socialista. È così,

perché per gli autori menzionati non c’è «teoria» otre quella che loro stessi sviluppano,

partendo, come abbiamo già visto, da alcune ipotesi che eliminano precisamente, fin dal

principio, la necessità di effettuare un qualsivoglia calcolo economico. Cioè, secondo

l’ottica neoclassica, il calcolo economico socialista è sempre, per definizione, teoricamente

possibile. Questi autori non concepiscono che possa esistere una teoria al di là di quella

che loro stessi si sono costruiti in termini di equilibrio e della massimizzazione e, in

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concreto, ignorano completamente il paradigma sviluppato dai teorici della Scuola

Austriaca in generale, e da Mises e Hayek in particolare, che si basa, fin dalle sue origini,

su uno studio teorico delle istituzioni reali che ci sono nella società e dei processi di

mercato mossi dalla forza della funzione imprenditoriale, e in cui non si suppone mai che

l’informazione sia «data», ma che si vada creando e generando costantemente, all’interno

di un contesto istituzionale determinato che rende possibile la coordinazione dei

comportamenti squilibrati degli esseri umani.40

Così, e in relazione a questo tema, Don Lavoie ha indicato che è quasi inevitabile che i

teorici neoclassici, supponendo nei loro modelli sull’economia di mercato che tutta la

conoscenza importante è data dagli agenti economici che vi partecipano, e che in certe

condizioni di carattere statico il mercato raggiunge un equilibrio determinato, quasi senza

rendersene conto arrivino a fare il piccolissimo passo che implica l’adottare simili ipotesi

per un modello socialista e giungano, pertanto, alla conclusione parallela che nel

socialismo è possibile raggiungere un equilibrio determinato.41 E Kirzner aggiunge che il

fatto che Lange non si rendesse conto di quale era la vera sfida posta da Mises contro il

                                                            40 Pertanto, i teorici neoclassici non capiscono che il calcolo economico dipende dall’esistenza di alcune istituzioni storicamente contingenti (quali l’esistenza di denaro, mercati e liberi scambi), categorie storiche queste che sono «special features of a certain state of society’s economic organization which did not exist in primitive civilizations and could possibly disappear in the further course of historical change». Human Action, op. cit., p. 201 e nota n.º 1 della stessa pagina, nella quale Mises aggiunge che «the German historical school expressed this by asserting that private ownership of the means of production, market exchange, and money are “historical categories”». In questo modo si chiarisce perfettamente l’inesistenza in Mises della «contraddizione spettacolare» che Lange gli attribuisce semplicemente perché l’economista austriaco gli sembra un «istituzionalista» che, allo stesso tempo, difende la validità universale della teoria economica. Lange non riesce a capire che la Scuola Austriaca, dalla sua fondazione ad opera di Carl Menger, abbia incentrato il suo programma di ricerca scientifica sull’analisi teorica (generale, astratta e storicamente non contingente) delle istituzioni (intese come schemi regolati di condotte o azioni umane, quali il denaro, il mercato, il diritto, ecc.) e i processi sociali di tipo evolutivo. Di fatto Menger dedicò i suoi Grundsätze a Roscher, dal momento che pensava che il suo apporto soggettivista e sulla nascita evolutiva delle istituzioni dava per la prima volta la necessaria base teorica alla scuola storicista (Savigny, Burke), rispetto al razionalismo cartesiano che cominciava già a inondare tutto. Gli occhiali teorici del paradigma neoclassico sono così mal graduati che impediscono a Lange di distinguere addirittura le circostanze più evidenti dell’ambiente scientifico in cui vive e che percepisce solo in un modo monocromatico e distorto. Si veda la nota al piede della pagina n. 6 di On tne Economic Theory of Socialism, opera citata. Così, per esempio, è curioso notare come il recente libro, di evidente influenza «austriaca», Economics as a Process (Richard N. Langlois, Cambridge University Press, New York 1986) ha come sottotitolo «Essays in the New Institutional Economics», e si tratta chiaramente, così come i lavori di Mises, di un libro di teoria economica (pertanto non «istituzionalista» o storicista) sulle istituzioni. Nonostante Lange, la teoria economica sui processi e istituzioni sociali è una cosa, e l’«istituzionalismo» è tutt’altra cosa. Ed è ugualmente di grande interesse il lavoro di Peter J. Boettke «Evolution and Economics: Austrians as Institutionalists», in research in the History of Economic Thought and Methodology, n.º 6, 1988. Si ricordi, infine, il contenuto della n. 2 del Capitolo V, e specialmente i commenti critici di Mark Blaug al paradigma neoclassico-walrasiano e la sua recente svolta verso i postulati della Scuola Austriaca. 41 «To the neoclassical participants in the debate, the relevant knowledge is assumed to be given to market participants, and the main analytic conclusion is that under certain static assumptions the capitalist equilibrium is determinate. It is a small step from this analysis to the adoption of similar assumptions and the arrival at similar conclusions for socialism.» Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, opera citata, p. 115.

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socialismo si deve al fatto che la sua conoscenza dell’economia era limitata, in generale,

alla teoria neoclassica dei prezzi e, in particolare, al modello di «concorrenza perfetta».

Questo modello, che ancor oggi è considerato nella maggior parte dei libri di testo

elementari come uno dei più importanti di fronte alla «comprensione» del sistema

economico reale, elimina alla radice ed è incapace di riconoscere il ruolo che esercita la

funzione imprenditoriale, scoprendo opportunità di beneficio e traendone profitto,

all’interno di un processo dinamico di costante aggiustamento e coordinazione

dell’economia. Dato che l’argomentazione di Mises si basa su un concetto di funzione

imprenditoriale che è del tutto sconosciuto al paradigma neoclassico, non ci si deve

meravigliare che Lange, mancando completamente degli strumenti analitici necessari,

arrivasse a credere che il mercato si comporta così come indicano i libri di testo e che,

pertanto, fosse possibile simulare in un’economia socialista il modello di equilibrio così

elegantemente esposto in essi.42

Abbiamo già visto in precedenza come, benché Lange ritenga che non ci sarebbe

problema a raccoglioere l’informazione del tipo 1 e 3, questo sia teoricamente impossibile

in assenza di una funzione imprenditoriale liberamente esercitata, dato che, in tal caso, la

rispettiva informazione non si genererà né si scoprirà (a parte l’impossibilità della sua

trasmissione a un organo centrale dato il suo carattere tacito e soggettivo). È

l’informazione del tipo 2, cioè quella relativa ai rapporti di scambio e alle funzioni di

produzione, quella che a Lange sembrava porre qualche problema, anche se afferma

subito che tale problema si potrebbe «risolvere» molto facilmente, essendo data

l’informazione corrispondente ai tipi 1 e 3 (cosa che, ripetiamo, sappiamo che è

impossibile ottenere). Il modo «straordinario» in cui Lange «risolve» questo problema

consiste nell’affermare in un sol colpo e senza alcuna prova o giustificazione che …«the

                                                            42 Queste le parole dello stesso Kirzner: «That Lange did not understand this nonparametric function of prices must certainly be attributed to a perception of the market system’s operation primarily in terms of perfectly competitive equilibrium (Indeed, it is this text book approach to price theory that Lange explicitily presents as his model for socialist pricing). Within this paradigm, as is now well recognized, the role of the entrepreneurial quest for pure profit, as the key element in bringing about price adjustment, is completely ignored. It is not difficult to see how Lange could conclude that such a (non entrepreneurial) system might be simulated under socialism.» Discovery and the Capitalist Process, opera citata, pp. 128-129. Sulla teoria economica dei processi di mercato basata sul concetto della funzione imprenditoriale (completamente estranea e specialmente critica del paradigma neoclassico-walrasiano) bisogna consultare non solo le opere di Mises e Hayek citate in questo libro, ma anche, e specialmente, tutti i lavori di Kirzner e, in generale, quelli del resto dei teorici dell’economia del paradigma austriaco. Sulla critica dell’equilibrio nell’analisi economica, fatta da un economista di prestigio dei paesi dell’Est, è interessante consultare anche il lavoro di János Kornai intitolato Anti-Equilibrium. On Economic Systems Theory and the Task of Research, casa editrice North Holland, Amsterdam 1971.

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administrator of the socialist economy will have exactly the same knowledge or lack of

knowledge, of the productions functions as the capitalist entrepreneurs have».43

Orbene, in quest’ultima affermazione, di carattere dogmatico, non essendo

accompagnata da nessuna prova o giustificazione teorica né empirica, si trova il cuore di

tutta la «confutazione» di Lange a Mises. Come sappiamo, l’essenza dell’argomentazione

di Mises è radicata nel fatto che rende manifesto che l’informazione generata dal libero

esercizio della funzione imprenditoriale non può essere riprodotta da un sistema nel quale

non esista già, per cui teoricamente è impossibile che gli «amministratori di un’economia

socialista» possano avere «esattamente» la stessa informazione di cui dispongono gli

imprenditori in un’economia capitalista. Sappiamo che l’informazione è qualcosa di

soggettivo e dinamico che si va creando e generando in ogni momento, secondo come le

opportunità di guadagno o beneficio siano percepite o apprese da coloro che le possano

ottenere liberamente nell’esercitare la propria funzione imprenditoriale. Se, per definizione,

la funzione imprenditoriale viene eliminata con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi

di produzione e se non esiste la possibilità che gli individui percepiscano liberamente fini e

obbiettivi e trattino di raggiungerli per farli propri, tali obbiettivi o fini non fungeranno da

incentivi e non si genererà l’informazione importante e necessaria per ottenerli. Quindi, per

definizione, là dove non esiste una funzione imprenditoriale libera non si potrà mai

supporre che si genererà l’informazione che risulta solo dal processo messo in moto da

quella. Pertanto non c’è da meravigliarsi che nel 1982 Hayek, e in ralazione a questa

sorprendente affermazione di Lange che stiamo commentando, abbia affermato quanto

segue: «This brazen (“cinica”) assertion is crucial for Lange’s refutation of Mises’

argument, but he offers no evidence or justification for it, even in this limited form confined

to production functions. Yet it has been expanded by Lange’s pupils into the even more

fantastic assertion that a central planning board “would receive exactly the same

information from a socialist economic system as did the entrepreneurs under the market

system” (Thus Robert L. Heilbroner, Between Capitalism and Socialism, New York 1980,

p. 88)… I am afraid this is a blatant untruth (“sfacciata falsità”), an assertion so absurd that

                                                            43 «I dirigenti di un’economia socialista avranno esattamente le stesse conoscenze, o la stessa mancanza di conoscenze, sulla funzione di produzione degli imprenditori capitalisti.» On the Economic Theory of Socialism. Questa citazione si trova alla p. 61 della versione inglese.

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32  

it is difficult to understand how an intelligent person could ever honestly make it. It asserts

a sheer impossibility which only a miracle could realize.»44

Dall’altro lato, non bisogna dimenticare che le cosiddette «funzioni di produzione» non

esistono nella vita reale. Ciò che avviene nella vita reale è un flusso continuo di

produzione di nuova informazione per quel che riguarda le diverse possibilità di combinare

fattori per ottenere un determinato bene o servizio. Questa informazione si va scoprendo a

tentoni come conseguenza dell’esercizio dell’imprenditorialità da parte degli agenti

economici implicati nella produzione. Questi agenti economici credono di vedere nuove

opportunità di guadagno, non solo modificando i beni e i servizi (per quel che riguarda la

loro presentazione e definizione, prezzo e qualità), ma anche innovando commercialmente

e tecnologicamente; e lo stesso succede, con un livello di complessità addirittura

superiore, in relazione ai mezzi di produzione in cui la costante scoperta di piccoli

cambiamenti che fino a quel momento erano passati inosservati, dà luogo al

conseguimento di importanti benefici. Difficilmente si può pensare che esistano delle

ipotetiche «funzioni di produzione», quando non esiste neppure l’informazione necessaria

per definirle, cioè , non è nota agli agenti economici implicati nel processo produttivo (né a

un organo di pianificazione né, ancor meno, ai tecnici o economisti per quanto

specializzati nella teoria della produzione), finché questa non venga creata poco a poco da

loro stessi in modo tacito, soggettivo e disperso. Il problema della produzione non è un

problema tecnico di funzioni che possano essere risolte in modo oggettivo. Al contrario, è

un problema umano nettamente imprenditoriale in cui, costantemente e all’interno del

contesto delle diverse azioni, si vanno provando e cercando nuove e svariatissime

                                                            44 «Questa sfacciata affermazione è cruciale nella confutazione da parte di Lange dell’argomentazione di Mises, e non è accompagnata da nessuna prova o giustificazione, neanche nella sua versione più ristretta, limitata alle funzioni di produzione. Nonostante ciò, la stessa confutazione è stata estesa dagli alunni di Lange alla affermazione, ancora più fantastica, secondo cui l’organo centrale di pianificazione “in un sistema socialista riceverebbe esattamente la stessa informazione che gli impresari ricevono in un’economia di mercato” (Così Robert L. Heilbroner, Entre el Capitalismo y el Socialismo, New York 1980, p. 88)…Temo che tutto ciò non sia altro che una sfacciata falsità, un’affermazione tanto assurda che è difficilmente comprensibile come una persona intelligente e onesta abbia potuto farla. Questa affermazione implica una pura impossibilità che solo un miracolo potrebbe portare a termine.» Vedere F. A. Hayek, «Two Pages of Fiction: The Impossibility of Socialist Calculation», in The Essence of Hayek, op. cit., pp. 55-56. Il riferimento a Heibroner era necessario, poiché, supponendo che l’informazione sarebbe disponibile non solo per i gestori delle imprese, come afferma Lange, ma anche all’organo centrale di pianificazione, sta affermando, se possibile, una impossibilità di un grado logico qualitativamente superiore, poiché all’impossibilità che gestori che non sono impresari vadano generando un’informazione imprenditoriale, si aggiunge il problema, ancora più grave, che comporta la trasmissione e la comprensione centralizzata di un volume infinito di informazione soggettiva, tacita e non articolabile, di tipo disperso e in costante cambiamento. Ricordiamo, a parziale scusa di Heilbronen, la sua recente ritrattazione e la constatazione del trionfo assoluto del capitalismo sul socialismo (si veda la citazione n.º 3 di questo capitolo), benché non sappiamo ancora se per Heilbronen tale trionfo sia un fatto empirico sorprendente senza una giustificazione teorica o se, al contrario, abbia già cominciato a intuire i grossolani errori in cui è incorso durante tutta la sua passata vita intellettuale.

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33  

combinazioni e alternative, che nel quadro di un’economia di mercato, e tenendo conto dei

prezzi che ci si aspetta che ci siano in essa così come il resto dell’enorme varietà di

informazioni di cui dispone l’agente, gli fanno vedere continuamente che esistono

possibilità di ottenere benefici soggettivi (cioè, «monetari ceteris paribus») che ritiene

valga la pena di perseguire.

Si rende evidente, pertanto, che in Lange c’è un’essenziale confusione tra due tipi

radicalmente distinti di conoscenza: quello «scientifico» e quello «pratico». In effetti,

sembra che Lange confonda così profondamente la «conoscenza pratica» che gli agenti

economici che attuano nella società generano giorno per giorno e hanno in forma

dispersa, con la «conoscenza scientifica» che l’economista crede di possedere per

teorizzare sui processi sociali, che, in ultima analisi, finisce per credere ingenuamente che

sia lo scienziato che l’organo di pianificazione potrebbero, nella vita reale e senza nessuna

difficoltà, ottenere tale «conoscenza pratica». E, tuttavia, i due tipi di conoscenza (quello

«pratico» e quello «scientifico») sono di natura radicalmente diversa. E cioè, benché la

«conoscenza scientifica», come accade nella scienza economica, si converta in una teoria

sulla «conoscenza pratica», questa sarà al massimo una teoria formale relativa ai processi

della sua creazione e trasmissione, ma che deve partire sempre, come base, dall’idea che

il teorizzare sulla «conoscenza pratica» non permette in alcun modo di superare

l’impossibilità teorica di arrivare al contenuto specifico della di quest’ultima da parte di un

osservatore esterno, sia costui uno scienziato o un organo di pianificazione. È

esattamente per questo motivo (cioè per l’impossibilità che il teorico si impossessi del

contenuto «materiale» della «conoscenza pratica» sulla quale teorizza,, così come per il

suo fallimento al momento di distinguere fra la «conoscenza pratica» e la «conoscenza

scientifica») per cui non solo non è possibile il calcolo economico in un sistema socialista,

ma anche che oltretutto manca di rilevanza la maggior parte della «teoria economica»

elaborata finora all’interno del paradigma neoclassico.

Il quarto paragrafo di Lange

Lange trasferisce questa confusione fra i due tipi di conoscenza ai due concetti di

prezzo che sono applicabili parallelamente a ciascuno di essi. In effetti, formano parte

dell’orbita della «conoscenza pratica» i prezzi di mercato che incorporano una gran parte

di esso e che sono continuamente creati e modificati per l’impulso della forza

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34  

imprenditoriale. Dentro l’orbita della «conoscenza scientifica» (sebbene sia necessario

riconoscere che questo è vero solo per la versione scientifica ristretta, povera e limitata

dell’equilibrio) si potrebbero inquadrare i «prezzi parametrici», nei quali, supponendo che

tutta l’informazione rilevante fosse data, si stabiliscono i termini nei quali si presentano le

diverse alternative, e il comportamento di ogni agente si adatta passivamente ad esse. La

grande confusione di Lange è radicata nel fatto di credere che i prezzi parametrici

possono incorporare l’informazione che contengono i prezzi di mercato. E, tuttavia, Lange

ha l’incredibile audacia di incolpare Mises di cadere nell’errore che proprio egli stesso sta

commettendo quando afferma che «Professor Mises seems to have confused prices in the

narrower sense, i.e. the exchange ratio of commodities on a market, with prices in the

wider sense of “terms on which alternatives are offered”. As in consequence of public

ownership of the means of production, there is in a socialist economy no market on which

capital goods are actually exchanged, there are obviously no prices of capital goods in the

sense of exchange ratios on a market. And hence Professor Mises argues, there is no

index of alternatives available in the sphere of capital goods. But this confusion is based

on a confusion of “price” in the narrower sense with “price” in the wider sense of an index

of alternatives. It is only in the latter sense that “prices” are indispensable for allocation of

resources, and on the basis of the technical possibilities of transformation of one

commodity into another, they are also given in a socialist economy.»45

Pertanto la confusione di Lange è conosciuta, poiché per lui I prezzi parametrici di

un’economia socialista incorporerebbero un’informazione (grazie alle corrispondenti

possibilità tecniche di trasformazione delle funzioni di produzione «conosciute») uguale a

quella che ci sarebbe in un’economia di mercato. Cioè, Lange confonde il prezzo

parametrico con il prezzo di mercato. Israel M. Kirzner, con la sua abituale perspicacia, ha

approfondito ancora di più questo punto mettendo in risalto che l’errore fondamentale di

Lange è quello di credere che il mercato tenda all’equilibrio attraverso un processo in cui

in nessun momento si altera il «carattere parametrico» della funzione dei prezzi, di modo

                                                            45 «Il professor Mises sembra aver confuso i prezzi in senso stretto, cioè le relazioni di scambio delle mercanzie in un mercato, con i prezzi nel senso più ampio di “termini nei quali si offrono le alternative”. Come, a causa della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, non esiste in una economia socialista un mercato nel quale si scambino realmente i beni di capitale, non ci sono evidentemente prezzi dei beni di capitale nel senso di rapporti di scambio in un mercato. Da ciò, il professor Mises conclude che non esiste alcun “indice delle alternative disponibili nella sfera dei beni di capitale”. Però questa affermazione si basa su una confusione fra il “prezzo” in senso stretto e il “prezzo” nel senso più ampio di indice di alternative. Solamente in quest’ultimo senso i “prezzi” sono indispensabili per l’assegnazione delle risorse, ed essendo basati sulle possibilità tecniche di trasformazione di una mercanzia in altra, sono dati anche in un sistema socialista.», On the Economic Theory of Socialism, p. 61.

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35  

che per tutta la durata di questo processo tutti gli agenti economici considerano i prezzi di

mercato come «dati», e semplicemente si adattano ad essi in modo passivo, senza che

sia possibile cercar di apportare loro alcun cambio. In questo modo Lange si sbaglia in

modo deplorevole nel suo modello interpretativo del mercato, poiché nel mercato reale il

carattere protagonista dei prezzi non consiste nella loro funzione parametrica, bensì, al

contrario, nella loro funzione non parametrica, che consiste nel fatto che gli imprenditori

scoprono costantemente divergenze nei prezzi e agiscono in modo da approfittare delle

corrispondenti opportunità di beneficio che queste generano, comprando e vendendo e,

pertanto, modificando e creando continuamente ex novo tali prezzi.46 I prezzi di mercato

sono dunque «non parametrici» nel senso che forniscono informazioni sulle disparità

esistenti, creano un incentivo per comperare e vendere e, in ultima analisi, vengono

continuamente modificati come conseguenza dell’esercizio e dell’impulso della funzione

imprenditoriale. Il comportamento degli agenti economici non è passivo o reattivo, anzi, al

contrario, è un comportamento tipicamente imprenditoriale, cioè, proattivo, e consiste nello

stare costantemente all’erta per scoprire, generare e trarre profitto in modo continuo da

nuove opportunità di beneficio. I prezzi non sono qualcosa di dato a cui si adattano le

persone ma, al contrario, sono le persone quelle che stanno agendo costantemente,

creando e modificando i prezzi. Inoltre, solo tramite questa funzione imprenditoriale e non

parametrica dei prezzi si vanno scoprendo i disaccordi di comportamento che esistono

nella società e si stabilisce nella stessa un processo o tendenza coordinativa di tipo

generale. Per questo, è chiaramente assurdo pensare, come fa Lange, che la funzione

non parametrica dei prezzi in un’economia di mercato, che è il risultato inseparabile del

libero esercizio della funzione imprenditoriale e unica causa delle tendenze di

coordinamento del processo sociale, possa essere simulata in un sistema in cui, per

definizione, la libera funzione imprenditoriale è stata completamente eliminata, e i prezzi si

considerano solo da una prospettiva parametrica.47

                                                            46 Nelle parole dello stesso Kirzner:«Lange failed to recognize that the distintive aspect of the market is the manner in which prices change, that is, that market prices are in fact treated non parametrically. It is one thing to imagine that socialist managers can be motivated to obey rules on the basis of centrally promulgated “prices”; it is quite another to take it for granted that the nonparametric function of price (in which, that is, price is not being treated as a datum but is subject to change by individual market participants), a function which depends entirely on entrepreneurial discovery of new opportunities for pure profit, can be simulated in a system from which the private entrepreneurial function is completely absent.» Israel M. Kirzner, Discovery and the Capitalist process, opera citata, p. 31. Sono di grande interesse anche le pp.126 a 129 dello stesso libro. 47 Questo stesso errore lo hanno commesso quei commentatori che, seguendo Schumpeter, avevano creduto che, anche prima di Mises, Vilfredo Pareto e Enrico Barone avessero «dimostrato» che il calcolo economico socialista era possibile. Come abbiamo già visto quando ci siamo riferiti a questi autori, l’unica

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                                                                                                                                                                                                     cosa che essi stessi stabilirono fu un argomento di similitudine formale; o, detto in altro modo, mostrarono formalmente di che tipo di informazione dovrebbe disporre un’autorità socialista per rendere possibile il calcolo economico in condizioni statiche. Però, evidentemente, una cosa è stabilire il tipo e la quantità di informazione necessaria per ottenere questo obbiettivo e una cosa molto diversa è risolvere il problema teorico di come ottenere tale informazione, cosa che, d’accordo con Mises e Hayek, è impossibile nel socialismo in funzione delle caratteristiche tipiche di tale sistema. Anzi, prima abbiamo visto (si vedano le note 8 e 9 del capitolo IV) che anche lo stesso Vilfredo Pareto e, in misura minore, Enrico Barone stabilirono espressamente che la conoscenza o informazione a cui ci stiamo riferendo non potrà mai essere ottenuta in assenza di mercato. Infine, come già sappiamo, cadono nello stesso errore gli autori della moderna teoria pianometrica sviluppata a partire da Arrow e Hurwicz e che abbiamo già analizzato dettagliatamente in altro luogo (si veda il comma 5 del Capitolo V). Gli economisti dell’Est, che, d’accordo con John Gray (Liberalisms: Essays in Political Philosophy, Routledge, Londra 1989, p. 174), sono tra gli scienziati dell’economia più colti e formati nella storia del pensiero economico, hanno cominciato a riconoscere in modo generalizzato l’argomentazione di Mises e Hayek che la soppressione delle istituzioni del mercato capitalista, rende impossibile il calcolo economico, in contrasto con la situazione dei loro colleghi dei paesi occidentali, che, nella maggioranza dei casi, sono perduti nelle fallacie del paradigma neoclassico-walrasiano. Tra questi economisti bisogna mettere in evidenza, per esempio, Wlodzimierz Brus e Kazimier Laski, soprattutto perché furono antichi alunni di Oskar Lange, e scrissero anche un libro insieme a lui (vedere Problemi di Economia Politica del Socialismo, Oskar Lange (ed.), Fondo de Cultura Economica, Messico 1974; l’articolo di Laski è sulle «condizioni per l’equilibrio generale tra produzione e consumo» ed è raccolto nelle pp. 108-151; e quello di Brus tratta dei «problemi di contabilità marginale nell’economia socialista» e si trova alle pp. 174-194). Oggi provoca emozione leggere le recenti affermazioni di questi economisti, nel senso che il modello neoclassico-walrasiano non ha alcuna utilità come fondamento teorico dell’economia socialista per il fatto di non considerare la funzione imprenditoriale e che, pertanto, la convinzione, fino a oggi molto diffusa, che Lange abbia confutato Mises manca completamente di fondamento. In effetti, nelle sue stesse parole, «the technological knowledge necessary to fill the elements of the Walrasian equations is not a datum but rather information which can only be discovered in the process of competitive struggle. Thus what matters is the peculiar entrepreneurial “thinking technique”, a kind of intuition, which is generated by actually finding oneself in a competitive situation… All this aspects are absent in Lange’s model of market socialism, which seems to corroborate the assertion that its claim to a convincing refutation of the Mises/Hayek challenge has been unjustified.» (Vedere la sua opera From Marx to the Market. Socialism in Search of an Economic System, Clarendon Press, Oxford 1989, p. 58). Un altro autore che vale la pena citare è l’ungherese János Kornai, che nel suo articolo «The Hungarian Reform Process» (Journal of Economic Literature, volume XXIV, n.º 4, dicembre 1986, pp. 17261728, riprodotto come Capitolo V del suo libro Vision and Reality, Market and State, edit. Harvester Wheatsheaf, New York 1990), afferma esplicitamente che Lange «lived in the sterile world of Walrasian pure theory» (p. 1727); e critica il lavoro nel dibattito della scuola neoclassica perché la sua «emphasis shifted one-sidedly to the issue of computing the correct price signals. What got lost was the crucial Mises-Hayek idea regarding rivalry. In a genuine market process actors participate who want to make use and can make use, of their specific knowledge and opportunities. They are rivals. In that sense the market is always in a state of dynamic disequilibrium. Some win and some lose. Victory brings rewards: survival, growth, more profit, more income. Defeat brings penalties: losses, less income, and in the ultimate case exit. Using the vocabulary of the present paper, the Mises-Hayek market implies a hard budget constraint and a buyer’s market. As long as the system and the policy do not assure the prevalence of these two conditions, there is no genuine market. The great shortcoming on the Lange model is that it does not even contemplate these conditions and many of Lange’s followers committed the same error» (pp. 1727-1728). Infine, l’economista russo Gabriel Temkin, nel suo articolo «On Economic Reforms in Socialist Countries: The Debate on Economic Calculation under Socialism Revisited» (Communist Economies, volume 1, n.º 1, 1989, pp. 31-59), afferma che «the Lange model lacks any trace of entrepreunership, whether in purely theoretical or in practical terms. Being wedded strongly to the General Equilibrium framework, entrepreunership is just defined away because, within that framework, there is no room for a theory of entrepreneurial choice… And, since neither the entrepreneur nor the market can be adequately stimulated in a socialist economy based on public ownership, it is only the routine task of a manager that can be, at best, reproduced. But here, again, the imitation would be far from exact or even close.» E Temkin , in onore di Mises, conclude che «perhaps the honorary statue of Mises, about which Lange quipped half a century ago, should after all be erected, if not on Red Square then in Budapest, closer to his native Austria» (p. 53). Io, personalmente, aggiungerei, visti gli avvenimenti storici accaduti nel resto dei paesi dell’Est, che la suddetta statua dovrebbe essere eretta nelle capitali di tutti gli stati che, ufficialmente, hanno cessato di essere socialisti, e specialmente a Berlino, Varsavia, Praga, Budapest e, anche, a Mosca (come abbiamo già segnalato nella nota 21 del capitolo IV, la

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5. ANALISI CRITICA DEL MODELLO CLASSICO DI LANGE

Un previo chiarimento terminologico

Qui di seguito prima di tutto descriveremo, e in un secondo momento analizzeremo in

modo critico, il modello di «soluzione competitiva» proposto da Oskar Lange.

Ciononostante, è imprescindibile fare previamente un chiarimento di tipo terminologico. In

effetti, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, alla «soluzione» proposta da Lange

manca solo aggiungere la qualificazione di «competitiva» se si dà a questo termine il

significato limitato e fuori luogo di concorrenza che si utilizza in quello che viene

denominato paradossalmente modello di «concorrenza perfetta». Cioè, la soluzione di

Lange è «competitiva» solo nella misura in cui nella stessa nessuno compete o rivaleggia,

poiché la «concorrenza» si concepisce solo in accordo con la situazione descritta in

termini statici dal modello neoclassico dell’equilibrio generale. Lo stesso si può dire

dell’utilizzazione dell’espressione «socialismo di mercato» da parte di Lange e dei suoi

seguaci. Quando in questa espressione si parla di «mercato», non si sta indicando un

mercato reale, cioè un processo sociale mosso dalla forza della funzione imprenditoriale e

le cui caratteristiche generali abbiamo spiegato dettagliatamente nel Capitolo II di questo

libro, ma, al contrario, ci si vuol riferire all’insieme di una serie di comportamenti passivi da

parte degli agenti economici con il presupposto che tutta l’informazione sia a loro

disposizione ed escludendo completamente qualsiasi esercizio creativo della funzione

imprenditoriale. Insomma, se nel modello classico di socialismo «di mercato» o

«competitivo» di Oskar Lange e dei suoi seguaci si utilizzano questi termini, è proprio

perché essi rimangono vuoti di contenuto e non hanno niente a che vedere con l’essenza

e la natura di entrambe le istituzioni nella vita reale. Fatto questo breve chiarimento

terminologico, passiamo qui di seguito a descrivere dettagliatamente il modello classico di

Lange così come si trova sviluppato nella versione originale del suo articolo «On the

Economic Theory of Socialism».48

Descrizione del modello

                                                                                                                                                                                                     statua di Mises si trova già, perlomeno, nella biblioteca del Dipartimento di Economia dell’Università di Varsavia, proprio di fianco a quello che era stato lo studio ufficiale di Oskar Lange). 48 Si vedano le pp. 65-89 della versione inglese ristampata nel 1964 con prologo di Lippincott di «On the Economic Theory of Socialism», opera citata.

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38  

Lange ritiene che la teoria neoclassica dei prezzi e della «concorrenza perfetta»

costituiscano il fondamento teorico ottimale per il sistema socialista, per cui comincia la

sua proposta ripassando dettagliatamente gli elementi tipici della teoria economica

dell’equilibrio così come sono spiegati in qualsiasi libro di testo. In effetti, d’accordo con il

paradigma neoclassico, nel modello di concorrenza «perfetta» l’equilibrio si raggiunge

sempre e quando siano presenti le tre condizioni seguenti: in primo luogo, una condizione

di tipo «soggettivo» consistente nel fatto che tutti gli individui che partecipano al sistema

economico raggiungano il loro «massimo» ai prezzi di mercato; in secondo luogo, una

condizione di tipo «oggettivo» costituita dal fatto che ai prezzi di equilibrio, l’offerta e la

domanda di ciascun bene e servizio siano identiche; e in terzo luogo , che il reddito di tutti

i consumatori sia uguale agli introiti provenienti dai servizi dei loro fattori produttivi.

Come si sa bene, la prima condizione si raggiunge sempre quando i consumatori

massimizzano la loro utilità e i produttori i loro benefici, cosa che, a sua volta, esige che i

consumatori uguaglino l’utilità marginale ponderata rispetto ai prezzi per ciascun bene e

servizio di consumo; e che, parallelamente, i produttori uguaglino le ratios di produttività

marginale ponderate rispetto ai prezzi relativi di ciascun fattore di produzione, producendo

quel volume per il quale i costi marginali siano identici al prezzo (o introito marginale) del

prodotto. Inoltre, a livello di tutta un’industria o settore, e supponendo una completa libertà

di entrata e di uscita, il prezzo del prodotto sarà uguale ai costi medi di produzione.

Tenendo in considerazione che il reddito dei consumatori sarà determinato dai prezzi dei

servizi dei fattori di produzione e che, in ogni momento, l’offerta e la domanda devono

mantenersi uguali, si può«determinare» l’insieme di prezzi necessari per equilibrare il

mercato, utilizzando per questo un processo tipicamente walrasiano di tâtonnement (o

serie successiva di tentativi) per cui, se le quantità offerte e richieste divergono, la

«concorrenza» tra compratori e venditori modificherà i prezzi fino a raggiungere il punto di

equilibrio.49 Avendo spiegato come in un «sistema capitalista» l’equilibrio si raggiunge

«teoricamente» e «praticamente» in questo modo, Lange in seguito si propone di

dimostrare che anche in una comunità socialista l’equilibrio si potrà ottenere mediante un

procedimento simile.

D’accordo con Lange, la prima condizione, che abbiamo chiamato «soggettiva», si

otterrebbe, per quello che riguarda i consumatori, permettendo loro, in modo identico a

                                                            49 «Tâtonnement and Recontracting», di Takashi Negishi, The New Palgrave. Un Dictionary of Economics, opera citata, volume IV, pp. 589-595.

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39  

quello spiegato per il sistema capitalista, di massimizzare la loro utilità in un mercato

pienamente «competitivo» di beni e servizi di consumo. Tuttavia, per quello che riguarda i

produttori, non si permetterebbe loro di mantenere un comportamento di massimizzazione

dei benefici, ma invece sarebbero sottomessi a due regole che verrebbero imposte in

modo coercitivo e controllate dall’organo centrale di pianificazione. Le due regole hanno

come finalità quella di simulare i risultati del comportamento di massimizzazione dei

produttori nel mercato e, pertanto, pensano di sostituire il principio della massimizzazione

del beneficio con ciascuno dei risultati prodotti da tale principio all’interno del modello di

«concorrenza perfetta».

In effetti, la prima regola consiste nel fatto che i produttori devono scegliere quella

combinazione di fattori che minimizzi i costi medi di produzione. La seconda regola, che si

rivolge ancora una volta ai gestori delle diverse imprese, consiste nel fatto che si deve

produrre quel volume per cui i costi marginali siano uguali ai prezzi. La produzione globale

a livello settoriale verrà determinata esigendo allo stesso modo il compimento della

seconda regola, ma questa volta non ai gestori di ciascuna impresa, ma ai responsabili di

ciascun settore, che dovranno aumentare o diminuire la produzione globale di ciascuna

industria secondo quanto richieda la applicazione della regola stessa. In questo modo,

d’accordo con Lange, il compimento della seconda regola a livello di ciascun settore

esercita la stessa funzione che ha, in un mercato competitivo, il principio di libertà di

entrata e di uscita.

Nel modello di Lange i prezzi dei beni e dei servizi di consumo, così come i salari, sono

determinati dal mercato, mentre l’organo centrale di pianificazione unicamente ed

esclusivamente fissa i «prezzi» dei fattori di produzione. In questo senso, all’inizio tutto

quello che deve fare l’organo di pianificazione centrale è stabilire dei «prezzi» per i fattori

di produzione che si possano scegliere intuitivamente o arbitrariamente. Tutte le decisioni

dei gestori a livello di impresa e di settore, così come le decisioni dei consumatori e dei

lavoratori, si portano a termine passivamente in funzione di tali «prezzi» e applicando le

regole menzionate, il che determina la quantità della domanda o dell’offerta per ciascun

bene e servizio. Se, in relazione ad alcuni beni di produzione, le quantità della domanda e

dell’offerta non coincidono, il prezzo dovrà essere riesaminato e modificato dall’organo

centrale di pianificazione, mediante un processo di «prova ed errore», che cesserà nel

momento in cui sia stato raggiunto il prezzo finale di equilibrio perché la domanda e

l’offerta si sono equiparati. I prezzi stabiliti dall’organo centrale di pianificazione per i fattori

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40  

di produzione, hanno, pertanto, un carattere puramente «parametrico»: determinano il

comportamento passivo degli agenti economici, che si devono semplicemente adattare a

quei dati e che, in ultima analisi, generano in modo «oggettivo» degli indicatori (eccesso o

scarsità di prodotto) che, «inequivocabilmente», portano l’organo centrale di coercizione a

modificare i prezzi nella misura e nel senso necessari a raggiungere l’equilibrio. Insomma,

l’organo centrale di pianificazione soppianta il ruolo del mercato per ciò che si riferisce all’

assegnazione dei beni di capitale, e il sistema socialista può, formalmente, raggiungere il

modello di «concorrenza perfetta», tramite lo stesso procedimento di «prova ed errore»

ideato da Walras per il «sistema competitivo» e che già Taylor aveva proposto otto anni

prima come «soluzione» per il sistema socialista.

Due interpretazioni del modello di Lange

Bisogna ora dare due interpretazioni diverse del modello di Lange, una ristretta e l’altra

ampia. O si tratta di un tentativo di «soluzione» al problema di tipo sussidiario, che a suo

tempo abbiamo denominato «computazionale» o di puro calcolo algebrico della soluzione

del sistema di equazioni dell’equilibrio walrasiano che abbiamo commentato studiando la

«soluzione matematica»; secondo questa interpretazione, il merito principale del modello

di Lange sarebbe quello di evitare la necessità di dover risolvere tale sistema, sia a mano,

sia con l’aiuto di procedimenti informatici. Tuttavia, supponendo che tutta l’informazione

necessaria per porre e calcolare il problema o sistema di equazioni sia già generata e

data (cioè, già esistente in qualche luogo del mercato), il modello di Lange non

risolverebbe il problema basico essenziale posto da Mises (cioè, che è impossibile che si

crei e trasmetta l’informazione necessaria per il calcolo economico in assenza di proprietà

privata dei mezzi di produzione e libero esercizio della funzione imprenditoriale).

Oppure, il modello di Lange vuole risolvere il problema basico posto da Mises, nel qual

caso vedremo che, se si impedisce il libero esercizio dell’imprenditorialità in aree molto

importanti e significative del mercato, non si genera l’informazione necessaria a rendere

possibile il calcolo economico, e tale modello fallisce al momento di tentare di risolvere la

sfida misiana. Come vedremo più avanti,50 esistono prove quasi irrefutabili che ci portano

alla convinzione che Lange considerò il suo modello come un mero artificio di tipo                                                             50 Si veda specialmente la citazione testuale dell’articolo di Lange su «The Computer and the Market» che abbiamo riportato alla fine di questo capitolo, nel paragrafo dedicato a studiare la «quarta tappa» della vita intellettuale di Lange, così come le considerazioni che facciamo in quelle stesse pagine e nelle seguenti.

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computazionale (e come poteva essere altrimenti, dato che non riuscì mai a comprendere

realmente in che cosa consisteva la sfida di Mises, e data soprattutto la visione distorta del

mondo economico che gli offrivano gli strumenti neoclassico-walrasiani che tanto lo

avevano ipnotizzato). Tuttavia, siccome in altre interpretazioni che si fanno di Lange e dei

suoi discepoli si considera che il modello vuole dare una risposta al problema basico di

creazione e trasmissione di informazione posto da Mises, qui di seguito svilupperemo la

nostra analisi critica del modello di Lange considerato nel suo significato più ampio, cioè,

come un tentativo di risolvere il vero problema posto da Mises.

Analisi critica dell’interpretazione più ampia del modello di Lange

Prima di tutto, bisogna stabilire che l’apporto di Lange incorpora e combina una serie di

elementi, (metodo di «prova ed errore», fissazione di prezzi in funzione dei costi

marginali, istruzioni dell’organo centrale di pianificazione ai gestori, ecc.), che quasi nella

loro totalità, anche se in modo isolato, erano già stati proposti anteriormente, come già

sappiamo, da altri teorici socialisti, mentre la principale innovazione di Lange consiste

nell’essere capace di relazionarli con migliore coerenza logica e sotto il comune

denominatore del modello neoclassico-walrasiano. In questo senso, bisogna ritenere che

qui siano stati riprodotti tutti i commenti e le osservazioni critiche che abbiamo fatto

anteriormente in relazione ai diversi elementi delle differenti «soluzioni» al problema del

calcolo economico socialista, che sono già stati analizzati e che in misura maggiore o

minore si incorporano nel modello di Lange. E, inoltre, non bisogna supporre che il lettore

incontri alcuna difficoltà nello scoprire e apprezzare che il fatto che nel modello di Lange

si amputi o impedisca il libero esercizio della funzione imprenditoriale in aree essenziali

del mercato e a diversi livelli rende impossibile che esso stesso implichi una soluzione per

il problema del calcolo economico in un sistema socialista. Se si impedisce il libero

esercizio dell’imprenditorialità in un ‘area essenziale (per esempio, quella dei beni di

capitale) si impedisce che la funzione imprenditoriale scopra, generi e trasmetta

l’informazione basica (di tipo pratico, soggettivo, disperso e non articolabile) che è

necessaria perché gli individui calcolino in forma razionale e adattino il proprio

comportamento in modo coordinato. È indispensabile, tuttavia, aggiungere una serie di

commenti critici particolarmente rilevanti e adattati al modello di Lange, e che crediamo

potranno illustrare in diverse istanze l’applicazione al modello della nostra argomentazione

essenziale.

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42  

1.º L’impossibilità di elaborare la lista dei beni di capitale

In primo luogo, dobbiamo chiederci: come può l’organo centrale di pianificazione fissare

i prezzi in modo parametrico per dei beni di capitale il cui tipo, numero, quantità, qualità e

caratteristiche non li conoscono nemmeno gli stessi agenti implicati nel processo

produttivo? Bene di capitale è ogni tappa intermedia in un processo di produzione

considerata soggettivamente come tale dall’ agente implicato in quel processo. O,

espresso in altro modo, tutto ciò che l’agente crede che gli serve per il conseguimento di

un fine ha il carattere di bene di capitale (sempre e quando non si tratti esclusivamente dei

servizi forniti dal fattore lavoro). Cioè, ciò che sia un bene di capitale lo sapranno solo gli

agenti implicati nel processo così come essi stessi lo vanno scoprendo in modo

imprenditoriale, e costituirà, pertanto, una conoscenza che per il suo carattere soggettivo,

pratico, disperso e non articolabile, è impossibile che possa essere posseduta dall’organo

centrale di pianificazione. E non si dica che, per elaborare le liste corrispondenti, ci si può

avvalere dell’esperienza, cioè, di quello che nel passato sembra aver costituito un bene di

capitale, dato che il concetto di bene di capitale, oltre che soggettivo, è un concetto

strettamente prospettico, cioè, determinato in funzione di come l’agente crede che in

futuro evolveranno gli eventi. Poi, che qualcosa in passato sia servito apparentemente per

raggiungere uno scopo, non è una garanzia che anche in futuro servirà allo stesso scopo.

Al contrario, solo quei beni che l’agente soggettivamente consideri che con le loro

peculiarità concrete (caratteristiche di qualità, posizione nel tempo e luogo adeguati, ecc.)

possano essere utili per raggiungere un determinato fine o per riuscire a terminare un

determinato progetto sarà un bene di capitale.

Dunque, non si tratta solo del fatto che sia impossibile che l’organo centrale di coazione

ottenga l’informazione dispersa relativa a quali sono i beni di capitale esistenti, ma anche,

per di più, e a livello degli stessi agenti economici, non si scoprirà , genererà, né creerà

neppure in modo efficace tale informazione nella misura in cui non possano esercitare

liberamente la loro funzione imprenditoriale. In effetti, se gli agenti economici non possono

agire in modo imprenditoriale, cioè, non possono ideare nuovi fini, aspirare a nuove

opportunità di beneficio e farle proprie, questa spinta di lucro non agirà come incentivo e,

pertanto, non si creerà nemmeno l’informazione pratica rilevante relativa ai fini e mezzi

che si creerebbe in una economia di libero mercato.

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43  

Questa prima argomentazione, di per sé, già rende teoricamente e praticamente

impossibile il modello di Lange e perciò esso non può in nessun modo implicare una

soluzione al problema del calcolo economico posto da Mises. In pratica, come indica

Hayek nella sua ampia contestazione a Lange pubblicata nel 1940, la fissazione di prezzi

parametrici da parte dell’organismo centrale di pianificazione sarà puramente arbitraria

non solo per ciò che riguarda le cifre scelte, ma, cosa molto peggiore, per ciò che riguarda

il tipo e numero di beni ai quali si fissi una cifra, e sarà riferita a una serie di grossolane

categorie uniformi di beni chiamati erroneamente «beni di capitale» che si crede si siano

considerati tali nel passato, e nelle quali non si potranno incorporare le distinzioni

necessarie d’accordo con le circostanze specifiche di tempo, luogo, qualità, ecc., che sono

proprio quelle che, apprezzate nel mondo imprenditoriale in termini soggettivi, danno il loro

carattere più intimo, essenziale e sottile di bene di capitale ai beni che osserviamo

all’esterno.51

2.º La completa arbitrarietà del periodo temporale di fissazione dei prezzi parametrici

In secondo luogo, i «prezzi parametrici» stabiliti e la lista di «beni di capitale» elaborata

non sono saranno arbitrarie, ma sarà anche totalmente arbitrario il periodo di tempo

durante il quale l’organo di pianificazione consideri che i prezzi debbano mantenersi

invariabili. Questo è uno dei punti in cui l’ambiguità di Lange è più evidente, dato che in un

luogo afferma che il riassestamento dei prezzi si farà sempre «alla fine dell’esercizio

contabile» e in altro luogo indica, en passant, che i riassestamenti dei prezzi si dovranno

effettuare «costantemente».52 Tanto in uno come nell’altro caso, il periodo sarà totalmente

arbitrario, poiché all’organo di pianificazione mancherà l’informazione che gli imprenditori                                                             51 Nelle parole dello stesso Hayek: «That the price fixing process will be confined to establishing uniform prices for classes of goods and that therefore distinctions based on the special circumstances of time, place, and quality will find no expression in prices is probably obvious. Without some such simplification, the number of different commodities for which separate prices would have to be fixed would be practically infinite. This means, however, that the managers of production will have no inducement, and even no real possibility, to make use of special opportunities, special bargains, and all the little advantages offered by their special local conditions, since all these things could not enter into their calculations.» Si veda F.A. Hayek, «Social Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, opera citata, p. 193. Riteniamo, però, che Hayek, nel luogo citato, non esponga con tutte le sue implicazioni l’argomento essenziale che abbiamo trattato nel testo. 52 Lange si dichiara a favore della prima soluzione alla p. 82 del suo articolo «On the Economic Theory of Socialism» (op. cit.) quando afferma: «Any price different from the equilibrium price will show at the end of the accounting period a surplus or a shortage of the commodities questioned.» E a favore della seconda soluzione quattro pagine più avanti (p.68), quando en passant dice che: «Adjustements of those prices wuold be constantly made». Nonostante le apparenze, Lange non ha le idee chiare e, pertanto, la confusione e ambiguità nel suo pensiero non può essere più evidente. Nella versione spagnola la traduzione di queste citazioni si trova alle pp. 86 e 91, rispettivamente.

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44  

hanno in una economia realmente competitiva per modificare i prezzi nel momento e per il

periodo di tempo che considerino più adeguato e opportuno per ottenere i propri fini.

L’organo centrale di pianificazione non potrà mai disporre di questa informazione, di modo

che se si sceglie l’esercizio contabile, sarà senza dubbio un periodo di tempo troppo

lungo, e se la decisione è ad hoc, secondo come si stima che evolvano gli eventi, dato che

l’organo centrale non può avere la conoscenza di prima mano che hanno gli agenti

economici riguardo a tali eventi, anche il prendere decisioni sarà un fatto puramente

arbitrario.

3.º L’inesistenza di un vero mercato per il lavoro e i beni e servizi di consumo

In terzo luogo, benché Lange affermi che dovrebbe esistere un mercato completamente

libero e competitivo per i beni e servizi di consumo, così come per il fattore lavoro, a uno

rimane l’impressione che tale «mercato» sarebbe «libero» e «competitivo» solo in termini

puramente nominali.53 In effetti, un mercato veramente competitivo per i beni e i servizi di

consumo esige l’esistenza, senza alcuna restrizione, di veri imprenditori o agenti liberi,

non solo dalla parte della domanda, ma anche da quella dell’offerta. Basta che compaia la

coercizione da una qualsiasi delle due parti, perché il mercato smetta di essere

competitivo. Non si capisce, dunque, in che modo i gestori del sistema socialista, che non

sono veri imprenditori visto che non possono cercare di ottenere liberamente il beneficio o

lucro (definito in termini soggettivi) che considerino più adeguato, potrebbero generare

l’informazione che si crea costantemente in un sistema capitalista, relativa al continuo

lancio di nuovi beni e servizi di consumo, il miglioramento di quelli esistenti, la modifica

nelle qualità, i cambi nella distribuzione commerciale, nella sua localizzazione fisica e

spaziale, sistemi di pubblicità ecc., ecc. I consumatori, pertanto, si vedranno obbligati a

scegliere nel ristretto «menù» di beni e servizi di consumo che offrono loro i gestori                                                             53 Henry D. Dickinson, uno dei più eminenti difensori della «soluzione competitiva» poco dopo Lange, riconosce esplicitamente che l’esistenza di un mercato competitivo e libero di beni di consumo sarebbe, nel socialismo di mercato, più una finzione che una realtà, e cinicamente sostiene che l’apparato di propaganda e pubblicità statale dovrebbe dedicarsi a creare tra i cittadini la falsa impressione di godere di libertà di scelta di beni e servizi di consumo. Con le sue stesse parole: «The powerful engine of propaganda and advertisement, employed by public organs of education and enlightenment… could divert demand into socialist desirable directions while preserving the subjective impression of free choice.» Vedere Henry Douglas Dickinson, Economics of Socialism, Oxford University Press, Oxford 1939, p. 32. Lo stesso Oskar Lange si toglie subito la maschera e dedica tutta la IV sezione del suo articolo «Sulla Teoria Economica del Socialismo» a esporre la tesi che il suo modello sarebbe applicabile anche se l’organo centrale di coercizione decidesse di impedire la libera scelta di beni e servizi di consumo e di posti di lavoro, imponendo a tutta la società le sue particolari preferenze al riguardo. Non c’è da stupirsi, pertanto, che, come vedremo poi, Lange terminasse la sua vita accademica lodando e giustificando il sistema stalinista.

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45  

socialisti. Lange, in particolare, e il resto dei «socialisti di mercato» in generale, abusano,

senza dubbio, del termine «mercato competitivo di beni di consumo» (e anche

dell’espressione «sovranità del consumatore» applicata a un sistema socialista), dato che

nel socialismo non c’è più «sovranità» o libertà di quella che avrebbe, per esempio, un

prigioniero che si definisse libero sempre e quando restringesse il suo operato all’ambito di

attività che gli permettono le quattro pareti della sua cella.54

4.º La futilità delle «regole» proposte da Lange

In quarto luogo, è impossibile che si possano applicare le regole proposte da Lange

relative, la prima di esse, ad adottare quella combinazione di fattori per mezzo della quale

si minimizzino i costi medi, e la seconda a produrre quel volume di produzione per mezzo

del quale si uguaglino i prezzi e i costi marginali. Che Lange abbia considerato le sue

«regole» come qualcosa di ovvio e fattibile è un’altra dimostrazione dell’ effetto

pregiudiziale che ebbe sulla sua formazione la teoria neoclassica dei costi in generale e,

in particolare, la convinzione molto diffusa che i costi siano qualcosa di oggettivo e che

vengano determinati da funzioni la cui informazione è «data». Tuttavia, come abbiamo

constatato chiaramente nel secondo capitolo di questo libro, i costi non sono altro che

apprezzamenti soggettivi del valore che per l’agente hanno quei fini a cui rinuncia quando

sceglie, agisce e si compromette in un determinato corso di azione. I costi sono valutazioni

soggettive su alternative perdute e, pertanto, costituiscono un’informazione imprenditoriale

tipica che è valutata o creata continuamente da ciascun agente, sempre e quando possa

esercitare liberamente la sua funzione e perspicacia imprenditoriale; e che, inoltre

incorpora completamente tutte le caratteristiche già analizzate per l’informazione

imprenditoriale, e specialmente il suo carattere soggettivo, pratico, disperso e non

articolabile. È chiaro che se i costi non sono dati (cioè, se non esistono funzioni di costi),

ma sono stimati soggettivamente per tentativi in modo continuato e in ciascun corso di

azione difficilmente si potranno istruire i gestori delle industrie perché seguano le «regole»

                                                            54 Devo questa analogia a Robert Bradley, «Market Socialism: A Subjectivist Evaluation», in The Journal of Libertarian Studies, opera citata, p. 39, nota 86. Lo stesso si può dire in relazione al presumibilmente competitivo «mercato di lavoro». Il fatto che un mercato di lavoro sia competitivo esige che sorgano continuamente nuove opportunità di impiego come risultato dei nuovi progetti di investimento, creazione di nuove imprese, nascita di nuove idee imprenditoriali, ecc., ed è impossibile concepire che tutto questo possa verificarsi nel modello di Lange, nel quale non ci sono imprenditori, ma semplicemente gestori che, come robots, si limitano a seguire una serie di regole imposte dall’alto.

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46  

menzionate, e ancor meno potrà l’organo centrale di pianificazione controllare

oggettivamente se tali regole si stanno seguendo o no.

La proposta di Lange non è altro che una dimostrazione che, nella pratica, la teoria

neoclassica dei costi, se non in termini puramente nominali, non è stata capace di

assorbire la rivoluzione soggettivista e, di fatto, continua ad essere ancorata al vecchio e

caduco «oggettivismo» di Ricardo e Marshall.55 Per questo, non bisogna stupirsi che

James Buchanan, forse in modo un po’ esagerato, abbia affermato che la totalità della

controversia riguardo alla possibilità del calcolo economico nelle economie socialiste si

basa su un’incomprensione da parte dei teorici socialisti sulla vera natura soggettiva dei

costi.56 E Jack Wiseman, recentemente scomparso, in un pregevole articolo pubblicato nel

1959, in cui tratta del problema che pongono i costi nella pianificazione economica

socialista, sottolinea il loro carattere soggettivo e li definisce come la valorizzazione delle

opportunità perdute al momento di scegliere un determinato corso di azione di fronte ad

altri piani e progetti potenziali. Questa stima soggettiva può essere realizzata solo dalla

persona che abbia incominciato i progetti corrispondenti e si traduce in una decisione,

molte volte implicita, se portare avanti o no un determinato piano d’azione. Questo

processo non genera mai un’informazione tale da permettere di fissare oggettivamente i

                                                            55 Purtroppo, i libri di testo moderni continuano ancora a fare un’esposizione carente di tutta la critica del paradigma neoclassico-walrasiana e delle condizioni di “optimum” che il modello di «concorrenza perfetta» offre all’interno dei parametri della teoria economica del benessere. Anzi, molti dei più prestigiosi si riferiscono perfino alle «regole di Lange», e affermano esplicitamente che esse permetterebbero di raggiungere lo stesso “optimum” in un’economia socialista, senza effettuare nessun tipo di sfumatura e trascurando i problemi che stiamo commentando in questo libro, e che non sono menzionati neanche en passant. Il danno che ciò causa nella formazione degli alunni di economia può tardare anni a risolversi e perfino arrivare ad essere irreversibile. In questo senso, e come esempio, si può menzionare il noto libro di J.P. Gould e C.E. Ferguson, Microeconomic Theory (Richard D. Irwin, Illinois 1980, p. 445; esiste una traduzione spagnola di Eduardo L. Suarez pubblicata con il titolo Teoría Microeconómica dal Fondo de Cultura Económica, Messico, 1983) dove si conclude, senza alcun tipo di sfumatura o commento, ciò che segue: «Proposition (Lange-Lerner Rule): To attain maximum social welfare in a decentralized socialist society, the state planning agency should solve the constrained maximization problem and obtain the shadow prices of all the inputs and outputs; publish this price list and distribuite it to all members of the society; and instruct all consumers and all plant manager to behave as thug they were satisfaction or profit-maximizers operating in perfectly competitive markets» (il corsivo è mio). In questo modo viene esposto in modo categorico in un «prestigioso» libro di testo ed elevato al grado di «conclusione scientifica» il massimo dell’assurdità. 56 Introduzione di James Buchanan a L.S.E. Essays on Costs, opera citata, pp. 3-10, e Cost and Choice, Marckham Publishing, Chicago 1969, pp. 21-26, 34-35, 41 e 96. Abbiamo detto che l’affermazione di Buchanan è un po’ esagerata perché la valutazione dei costi, pur essendo essenziale nel calcolo economico razionale, non è se non una parte dell’informazione totale che si crea, genera e trasmette in modo imprenditoriale (e che comprende anche la valutazione dei fini che si vanno a raggiungere). Per noi, il cuore della controversia, più che in una incomprensione riguardo alla vera natura soggettiva dei costi, consiste in un’essenziale incomprensione riguardo alla vera natura dell’azione umana e della funzione imprenditoriale, così come le abbiamo definite nel Capitolo II. Buchanan conclude: «Modern economic theorists measure their own confusion by the degree to which they accept the Lange victory over Mises, quite apart from the empirical record since established» (p. 5 di L.S.E. Essays on Costs).

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prezzi equiparandoli a dei dati di costi che siano stati previamente stabiliti in forma

oggettiva. Per questi motivi, Wiseman conclude che le «regole» di Lange non possono

presupporre nessuna guida per i gestori delle industrie socialiste e che, pertanto, qualsiasi

regola che si stabilisca in questo senso avrà un carattere arbitrario, tanto riguardo al suo

contenuto concreto, quanto riguardo alle possibilità del suo controllo pratico ed efficace da

parte dell’organo centrale di pianificazione.57

Serve a pochissimo, pertanto, che si diano istruzioni ai responsabili delle corrispondenti

fabbriche e imprese perché utilizzino quella combinazione di fattori per cui i costi medi

siano minimi. Dato il carattere soggettivo dei costi, questa regola è vuota di contenuto, e

vale tanto come dar loro l’ordine di «fare come meglio possono», ma senza permetter loro

di esercitare simultaneamente quelle azioni di tipo imprenditoriale che sono le uniche che

possono garantire il risultato voluto di ridurre i costi.58 In effetti, in un’economia di mercato

                                                            57 Queste sono le parole dello stesso Wiseman:«It is no longer possible, once uncertainty is admitted, to interpret the opportunity-cost problem as one of scarcity alone, to be solved by a choice between alternative factor inputs and product outputs with all prices known. That is, opportunity costs is no longer a simple question of summation and comparison of known data. Prices and other variables have to be estimated: opportunity cost decisions involve uncertainty (and therefore judgement) as well as scarcity. The cost problem now arises as a choice between alternative plans of action… Since opportunity costs cannot be treated simply as known money costs, but must be considered as estimates of foregone alternative revenues, it is no longer useful in conditions of uncertainty to speak of equality of marginal money cost and price as a property of an efficient resource distribution.» E conclude che, in un sistema socialista… «the marginal-cost rule, as normally framed, gives no clear guidance to those responsible for the organization of production in such an economy. Attempts to reinterpret the rule in such a way as to take account of uncertainty preclude the possibility of a direct check on the efficiency of collectivist managers in obeying that rule. Any indirect, objective, check used as a supplement to the marginal rule will in fact supplant that rule as the directive for managerial effort, and in any case no completely objective check is possible. Further, whatever rule or check is adopted, imperfectly competitive behaviour is to be expected.» (Vedere Jack Wiseman, «Uncertainty, Costs, and Collectivist Economic Planning», pubblicato su Economica, maggio del 1953, e ristampato come Capitolo IX del libro L.S.E. Essays on Costs, opera citata, pp. 229 e 243-235.) Alle stesse conclusioni era arrivato precedentemente G.F. Thirlby che nel suo pregevole articolo «The Ruler» (South African Journal of Economics, dicembre del 1946, ristampato come Capitolo VII del libro L:S:E: Essays on Costs già citato) afferma che ogni regola che stabilisca che esiste un qualche tipo di relazione oggettiva e discernibile tra gli introiti e i costi (sia che l’introito marginale sia uguale al costo marginale, o che il prezzo sia uguale al costo marginale, o che la totalità degli introiti sia uguale a quella dei costi, ecc.) «has not the objectivity that is by implication attributed to it; consequently that the application of the rule is impracticable». Per inciso, tutta questa teoria mette in evidenza il fatto che mancano di fondamento teorico tanto gran parte della teoria denominata «teoria della determinazione dei prezzi nei servizi pubblici» (Vedere Jack Wiseman, «The Theory of Public Utility Price: An Empty Box», Oxford Economic Papers, Oxford University Press, Oxford 1957, n.º IX) quanto gran parte dell’ «analisi economica del diritto» relativa alla legislazione anti-trust. 58 Paul Craig Roberts nel suo «Oskar Lange’s Theory of Socialist Planning: An Obscurant of Socialist Aspirations» (Capitolo V del suo Alienation and the Soviet Economy, Homes & Meir, New York 1990, e specialmente nelle pp. 96-98), giunge ugualmente alla conclusione che le «regole» di Lange non sono applicabili nella pratica. Anche se dobbiamo a Roberts alcuni apporti interessanti, come l’aver evidenziato l’incompatibilità tra il marxismo e il «socialismo di mercato», così come il carattere di pura razionalizzazione ad hoc e a posteriori della «pianificazione centrale» sovietica, pertanto così definita erroneamente, riteniamo la sua analisi del socialismo difettosa per il fatto di non essere sufficientemente soggettivista, cioè di non basarsi su uno studio delle conseguenze che l’uso della coercizione sistematica ha sugli esseri umani e sui processi sociali. Inoltre, non basta mostrare le contraddizioni esistenti tra il marxismo e il modello di Lange per screditarlo: se il modello di Lange si trasforma in una «speranza» per molti, sarà necessario confutarlo

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in cui si possa esercitare liberamente la funzione imprenditoriale, agli imprenditori nascono

continuamente nuove idee, intuizioni, ecc., sulla creazione di nuove combinazioni di beni

di capitale e nuove caratteristiche degli stessi, più economiche ed efficienti, che si

possono provare in modo imprenditoriale e che, se hanno successo, danno luogo ai

corrispondenti benefici imprenditoriali, e alla graduale eliminazione dei concorrenti; costoro

si vedono obbligati, se vogliono sopravvivere, a introdurre le migliorie e le novità già

scoperte e provate con successo. Nel sistema proposto da Lange tutto questo processo

non è portato a termine: non esiste la possibilità di esercitare liberamente la funzione

imprenditoriale, per cui l’informazione relativa ai procedimenti per ridurre i costi dei beni di

capitale neppure si produce. E anche se per caso si producesse, sarebbe irrilevante,

poiché il prezzo dei beni è prestabilito in modo parametrico dall’organo centrale di

pianificazione, e l’unica via d’uscita per il gestore che «per caso» avesse un’idea

imprenditoriale sarebbe quella di cercare di convincere l’organo centrale di pianificazione

che il bene in questione potrebbe essere prodotto in altro modo più economico ed

efficiente, per cui il suo prezzo dovrebbe ridursi. Questo compito, logicamente, è

impossibile, non solo per le difficoltà di trasmissione della conoscenza pratica, dispersa,

soggettiva e non articolabile già studiate varie volte, ma anche perché, per definizione e

d’accordo con il modello di Lange, l’organo centrale di pianificazione riduce i prezzi solo

quando si sia evidenziato, a posteriori, che esiste un eccesso di produzione, ma non

perché un gestore più o meno «sveglio» oppure «originale» creda che in futuro le cose si

potrebbero fare meglio in un altro modo.59

                                                                                                                                                                                                     con argomentazioni di maggior peso di quelle utilizzate da Roberts. D’altra parte, in Roberts non compare da nessuna parte la funzione imprenditoriale, la sua idea della sfida iniziale e degli apporti al dibattito di Mises e Hayek è povera e confusa, e centra il suo lavoro più sull’analisi, non molto soddisfacente a causa del suo carattere troppo «oggettivista», di Polanyi sulle strurrure «policentriche e gerarchiche» della società, che sulla teoria, sempre di Polanyi, sul carattere tacito e non articolabile della conoscenza pratica che, come già sappiamo, è molto più rilevante per lo studio teorico del socialismo. Infine, Roberts non si rende conto che l’imposizione dall’alto del «nirvana» costituito dal modello dell’equilibrio sociale, senza cambiamenti e in perfetta sintonia, risponde completamente alle aspirazioni di Marx (sparizione dell’alienazione, perché l’origine e l’andamento di ogni processo sociale è identificabile dai suoi partecipanti, e direzione «cosciente» dell’economia), per cui non deve stupire l’«attrazione fatale» che il socialismo (e l’interventismo) ha di solito per i teorici dell’equilibrio, anche se siamo d’accordo con Roberts sul fatto che il nesso con Marx si interrompe dal momento in cui si vuole ammettere certe istituzioni del mercato per facilitare il raggiungimento del suddetto equilibrio, come succede con il modello di «socialismo competitivo». Questa incompatibilità fra i criteri di assegnazione propri del mercato e la tradizionale ideologia socialista è stata spiegata, più recentemente, anche da Pawel H. Dembinski in The Logic of the Planned Economy. The Seeds of the Collapse, Clarendon Press, Oxford 1991, e specialmente pp. 68-69. 59 «In the discussion of this sort of problem, as in the discussion of so much of economic theory at the present time, the question is frequently treated as if the cost-curves were objectively given facts. What is forgotten is that the method which under given conditions is the cheapest is a thing which has to be discovered anew, sometimes almost from day to day, by the entrepreneur, and that, in spite of the strong inducement, it is by no means regularly the established entrepreneur, the man in charge of the existing plant,

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49  

Tutte queste argomentazioni si possono ripetere, allo stesso modo, in relazione alla

seconda «regola» di Lange, e anche a questa bisogna applicare, indipendentemente,

l’argomentazione che Mises e Hayek avevano già sviluppato in precedenza per criticare il

tentativo di utilizzare il «criterio del costo marginale» da parte dei teorici tedeschi Heimann

e Polanyi, che avevano proposto di organizzare il sistema socialista in base a un insieme

di «monopoli o trusts competitivi». In effetti, dobbiamo ricordare che la regola del costo

marginale non è utilizzabile perché non sono i costi che determinano i prezzi, ma tutto il

contrario, sono i prezzi che determinano i costi e, pertanto, la regola ha l’ambiguità di ogni

ragionamento circolare. Inoltre, dato che uno dei componenti più importanti del costo è la

quota di ammortizzazione o deprezzamento del bene di capitale, il suo calcolo esige che si

conosca il valore di sostituzione di quel bene di capitale nel futuro, cosa che non si può

portare a termine nel sistema proposto da Lange, visto che il suddetto valore dipenderà

sia dal prezzo parametrico, scelto arbitrariamente, che si dovesse stabilire in futuro, sia dal

risultato futuro del processo arbitrario di adattamento attraverso il metodo di «prova ed

errore» che propone Lange.

D’altro canto, Oskar Lange parla dei «costi marginali» come se essi fossero

indipendenti dal periodo di tempo considerato dal responsabile dell’industria o dell’impresa

in questione. È così perché nella letteratura dei teorici «socialisti di mercato» si distingue

radicalmente, da un lato, tra la regola a «breve termine» (senza che si specifichi in che

cosa consiste tale breve termine) di equiparare prezzi ai costi marginali, e una teoria di

investimento a «lungo termine» nella quale gli aumenti e diminuzioni dei beni di capitale                                                                                                                                                                                                      who will discover what is the best method. The force which in a competitive society brings about the reduction of price to the lowest cost at which the quantity salable at that cost can be produced is the opportunity for anybody who knows a cheaper method to come in at his own risk and to attract customers by underbidding the other producers. But, if prices are fixed by the authority, this method is excluded. Any improvement, any adjustment of the technique of production to changed conditions will be dependent on somebody’s capacity of convincing the S.E.C. (Supreme Economic Council) that the commodity in question can be produced cheaper and that therefore the price ought to be lowered. Since the man with the new idea will have no possibility of establishing himself by undercutting, the new idea cannot be proved by experiment until he has convinced the S.E.C. that his way of producing the thing is cheaper. Or, in other words, every calculation by an outsider who believes that he can do better will have to be examined and approved by the authority, which in this connection will have to take over all the functions of the entrepreneur.» Vedere F.A. Hayek, «Social Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, op. cit., pp. 196-197. É evidente che Lange non ha mai capito questo argomento di Hayek dal suo articolo «Ruolo della Pianificazione nell’Economia socialista» (Problemi di Economia Politica del Socialismo, opera citata) dove, benché riconosca l’enorme difficoltà pratica di stabilire prezzi in funzione dei costi marginali, ritiene che ci sia una buona approssimazione pratica a questo obbiettivo utilizzando i costi medi variabili che hanno le imprese con costo più alto in ogni settore (pp. 32 a 34). Lange non capisce che l’approssimazione pratica che propone è una cifra puramente arbitraria che si ricava da un’interpretazione di fatti del passato e che non ha niente a che vedere con il concetto di costo che è necessario per rendere possibile il calcolo economico razionale, per cui la regola che propone servirebbe solo ad equiparare i prezzi a delle cifre nominali di «costi» esagerate, per il fatto che queste includono e nascondono qualsiasi tipo di inefficienza e ridondanza.

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sono considerati in modo esplicito. Tuttavia, se si vuole stabilire una regola che abbia

un’efficacia pratica, e che possa inoltre essere controllata dall’organo di pianificazione,

sarà obbligatorio indicare espressamente per ciascun caso concreto che periodo di tempo

bisogna prendere in considerazione, al fine di poter arrivare a sapere quali fattori saranno

fissi e quali variabili in tale periodo e, di conseguenza, di poter calcolare i corrispondenti

costi marginali. Come è evidente, non esiste nessun criterio oggettivo, non arbitrario, per

decidere che periodo di tempo bisognerà60 scegliere, cosa che suppone un motivo

addizionale per cui non è fattibile mettere in pratica la «regola» di Lange che stiamo

commentando.

Insomma, e come commento finale in relazione al tema dei costi, ciò che trasuda tutta

la proposta di Lange al riguardo è una concezione statica dell’economia, in cui si suppone

che non si verifichino o producano cambiamenti e che tutta l’informazione necessaria per

calcolarli sia già disponibile. Se ci fossero queste due condizioni, si potrebbero applicare le

«regole» di Lange, supponendo che i costi già dati e conosciuti si mantenessero

inalterabili nel futuro. Ma nel mondo reale, in cui l’informazione non è data, i costi sono

soggettivi e si modificano continuamente, nessuna delle due regole enunciate da Oskar

Lange può essere utilizzata per rendere possibile il socialismo.61

5.º L’impossibilità teorica del «metodo di prova ed errore»

In quinto luogo, Lange nel suo modello dà tanta importanza all’applicazione del metodo

di «prova ed errore» che non ci resta altro da fare se non tornare su questo tema. Benché,

certamente, la «soluzione» di Lange non sia fattibile sulla base delle argomentazioni che

abbiamo già visto, non possiamo tralasciare di riportare qui, in aggiunta, tutte e ciascuna

delle nove critiche che abbiamo già fatto in dettaglio nel capitolo precedente al metodo di

«prova ed errore».

                                                            60 Abram Bergson a questo proposito ha sottolineato: «In practice, what we have to reckon with is not a unique marginal cost for a given level of output, but a complex of marginal costs, each of which is pertinent to a particular period of time. As a longer period of time is considered, more of the “fixed factors” become variable». Vedere Abram Bergson, «Socialist Economics» in A Survey of Contemporary Economics (ed. Howard S. Ellis), Richard D. Irwin, Illinois, 1948, p. 427. 61 Forse è Don Lavoie colui che ha spiegato questo estremo con maggiore semplicità. «The MC = P rule will optimize allocation within a given framework of means and ends as long as future costs are expected to be the same as current costs. This is a world of static expectations, which are reasonable in a static world. In a world of continuous change, however, an entrepreneur must try to anticipate demand, to form expectations, and to act on them. He should view his costs on the basis of the specific alternatives that appear available to him at the time of his choice. Both his estimate of revenue and his estimate of costs depend on his expectations at the time of decision.» Vedere Rivalry and Central Planning, opera citata, p. 141.

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51  

Concretamente, dobbiamo ricordare il carattere falsamente semplicistico della «regola»

che consiste nell’osservare lo stato degli stocks o inventari, vedendo se c’è eccesso o

scarsità per modificare convenientemente i prezzi, in funzione di tale osservazione, poiché

non esiste un punto di riferimento oggettivo che guidi la corrispondente osservazione, né è

possibile generare o trasmettere l’informazione che sarebbe necessaria per modificare i

prezzi in modo adeguato. In effetti, né l’eccesso né la scarsezza di prodotto sono qualcosa

di discernibile in modo oggettivo, consultando semplicemente determinate cifre statistiche

sugli inventari, mentre invece, indipendentemente dal computo o dalla cifra che compaia

nelle statistiche, ci troveremo di fronte a una situazione di «scarsità» o di «eccesso» così

come esse stesse sono soggettivamente giudicate dall’agente, secondo le particolari

circostanze del caso. Un «eccesso di prodotto» può non essere tale, se soggettivamente

si considera un periodo di tempo più lungo e abbiamo la convinzione e l’aspettativa che

entro quel periodo di tempo si verificherà un incremento della domanda. In queste

circostanze, sarebbe un grave errore per l’organo centrale di pianificazione ridurre i

«prezzi» parametrici, pensando con ciò di avvicinarsi agli ipotetici prezzi di equilibrio che si

formerebbero nel mercato. Una apparente «scarsità» può non essere tale, se si prevede

una diminuzione nella domanda o, anche se così non fosse, se si pensa che la cosa più

conveniente sia affrontarla seguendo la via dell’innovazione o dell’utilizzazione di

succedanei, e non incrementando il prezzo corrispondente. Essendo i concetti di

«eccesso» e «scarsità» nettamente soggettivi, possono sorgere solo nel contesto di

un’azione imprenditoriale esercitata liberamente, costituendo un’informazione di tipo

soggettivo, pratico, disperso e non articolabile, che, pertanto, non potrà essere trasmessa

all’organo centrale di pianificazione. Inoltre, come già sappiamo, se i gestori non possono

esercitare con totale libertà la loro funzione imprenditoriale, non si genererà neppure al

loro livello l’informazione rilevante e necessaria per il calcolo economico razionale.

Pertanto, le decisioni dell’ organo centrale di pianificazione tendenti a incrementare i

prezzi quando si «osservino» scarsità e a diminuirli quando si «rilevino» eccessi di

prodotto sono puramente arbitrarie e non permettono in alcun modo il calcolo economico

razionale.

Nel mondo economico reale non esistono delle «funzioni» di domanda e offerta che,

misteriosamente, indichino quali sono le quantità offerte e richieste a ciascun prezzo in

modo «oggettivo» e che permettano che qualsiasi osservatore esterno, osservando

semplicemente il livello degli inventari o stocks, possa stabilire che modifiche bisogna

apportare al prezzo fino a raggiungere il prezzo di equilibrio. I prezzi non nascono

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52  

dall’intersezione di due curve o funzioni di domanda e offerta, ma risultano da una serie di

interazioni umane mosse dalla forza dell’imprenditorialità che cerca costantemente di

valutare quali saranno le condizioni del futuro, e, di conseguenza, orienta la sua azione

con il fine di trarne beneficio.

Inoltre, per ciò che si riferisce a una gran quantità di casi del settore dei beni di capitale,

il metodo proposto da Lange è, radicalmente inapplicabile in forma teorica, come succede

sempre quando, invece di trattarsi di un bene di capitale standardizzato o prodotto in

modo massivo, ci troviamo di fronte il tipico bene di capitale che si contratta su

commissione e del quale non si producono molte unità. Non capiamo come Oskar Lange

abbia potuto pensare che, riferendosi a beni di capitale come le grandi navi industriali,

importanti beni immobili, installazioni di altiforni, cantieri navali, navi speciali, ecc., si

potesse prendere in considerazione, anche solo in maniera ipotetica, la possibilità di

scoprire in modo oggettivo, semplicemente osservando l’evoluzione degli inventari, se

esiste o no un eccesso o una scarsità del bene in questione. Se prima di prendere la

decisione riguardo alla modificazione del prezzo si aspetta il numero necessario di anni

per apprezzare chiaramente il grado e la durata della scarsità o dell’eccesso percepiti,

senza alcun dubbio sarà già troppo tardi quando si prendano le opportune decisioni. E, se

si prende la decisione precipitosamente, basandosi su intuizioni da parte dell’organo

centrale di pianificazione, la cosa più probabile è che si commettano errori gravi e

irreversibili.62

Infine, il modello di Lange comprende due possibilità: o che si sospendano tutte le

transazioni mentre l’organo di pianificazione osserva se esistono eccessi o scarsità e

decide quali prezzi vanno modificati e in che senso e che ammontare, o che si permetta

                                                            62 Come afferma Hayek: «I believe that preoccupations with concepts of pure economic theory has seriously misled both our authors (Lange e Lerner). In this case it is the concept of perfect competition which apparently has made them overlook a very important field to which their method appears to be simply inapplicable. Wherever we have a market for a fairly standardized commodity, it is at least conceivable that all prices should be decreed in advance from above for a certain period. The situation is, however, very different with respect to commodities which cannot be standardized, and particularly for those which today are produced on individual orders, perhaps after invitation for tenders. A large part of the product of the “heavy industries” which, of course, would be the first to be socialized, belongs to this category. Much machinery, most buildings and ships, and many parts of other products are hardly ever produced for a market, but only on special contracts. This does not mean that there may not be intense competition in the market for the product of these industries, although it may not be “perfect competition” in the sense of pure theory; the fact is simply that in those industries identical products are rarely produced twice in short intervals; and the circle of producers who will compete as alternative suppliers in each instance will be different in almost every individual case, just as the circle of potential customers who will compete for the services of a particular plant will differ from week to week. What basis is there in all these cases for fixing prices of the product so as “to equalize supply and demand”?», «Socialist Calculation III: The Competitive Solution», Individualism and Economic Order, op. cit., pp. 188-189.

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che si effettuino transazioni a «prezzi falsi». Nel primo caso, che fu analizzato già quando

abbiamo studiati modelli planimetrici, si blocca tutta l’attività economica, e durante questo

periodo il sistema perde tutta la sua flessibilità e possibilità di calcolo. Non sembra che

Lange abbia pensato a quella possibilità, però quello che non ha preso in considerazione

è che, se si permettono le transazioni a «prezzi falsi», si invierà una serie di segnali distorti

a tutto il sistema che impediranno che si raggiunga l’«equilibrio» tanto desiderato da

Lange. Questo problema non si pone in un’economia reale di mercato in cui le transazioni

scoordinate creano e generano proprio l’incentivo per essere continuamente scoperte e

smascherate da una funzione imprenditoriale sempre desiderosa di ottenere benefici.

Senza la libertà di esercitare la funzione imprenditoriale e di perseguire liberamente

benefici da parte di tutti gli agenti economici, non esiste alcuna garanzia che si stabilisca

un processo coordinatore generale che adatti il comportamento di tutti i partecipanti al

sistema. E questo è qualcosa che, a quanto pare, Lange non ha mai capito.

6.º La fissazione arbitraria del tasso di interesse

In sesto luogo, bisogna sottolineare che la fissazione del tasso di interesse (inteso

come il prezzo dei beni presenti in relazione ai beni futuri, o, se si preferisce, come il

rapporto tra il valore dato al consumo presente e quello attribuito al consumo futuro) nel

modello di Lange si dovrà effettuare in modo puramente arbitrario. Primo, considerando i

risparmiatori o coloro che offrono beni presenti, costoro si vedranno impossibilitati a

prendere una decisione economica razionale riguardo all’assegnazione delle loro risorse

tra il consumo presente e quello futuro, sia per la ristrettezza del «menù» di beni presenti

che il sistema offre loro, che per l’impossibilità di disporre, nel futuro, di un tipo e una

quantità di beni e servizi di consumo così grande e vario come quello che genera un

sistema nel quale la funzione imprenditoriale si potesse esercitare liberamente per

soddisfare e scoprire un numero crescente di necessità. E tutto questo supponendo che

l’organo centrale di coercizione non si ostini, come è sua abitudine, a intraprendere

politiche di «risparmio forzato», a danno generalizzato dei consumatori di ogni momento

presente.

Il problema è ancora più grave, se possibile, visto dalla parte di coloro che richiedono

beni presenti. Poiché in questo caso tocca ai gestori delle diverse imprese socialiste

richiedere i beni presenti per portare a termine i loro piani di investimento, contrattando la

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mano d’opera, le risorse della natura e i beni di capitale necessari per elaborare le diverse

tappe di beni di capitale con cui si produrranno i beni e servizi di consumo che saranno

disponibili nel futuro. Qui, di nuovo, si pone in pieno il doppio problema che costituisce

l’essenza teorica della nostra tesi. Da un lato, questi gestori, non potendo esercitare

liberamente la loro funzione imprenditoriale, non creeranno neppure l’informazione pratica

di cui hanno bisogno per assegnare razionalmente le loro risorse. Cioè, dal momento che

non possono ottenere il beneficio dai loro rispettivi progetti imprenditoriali, non

genereranno neppure le idee necessarie. Inoltre, spetterà all’organo centrale di

pianificazione, e concretamente alla banca statale incaricata di distribuire i corrispondenti

fondi finanziari, decidere, in ultima analisi, a quale gestore li presterà, e in che quantità e a

quali condizioni. Questo suppone che la decisione finale sarà nelle mani di qualcuno che

non disporrà dell’informazione pratica di prima mano che è necessaria per poterla

prendere (non solo perché questa non si genera neppure a livello dei gestori, ma anche,

per di più, perché anche se si generasse, non potrebbe essere trasmessa all’organo

centrale di coercizione). Il calcolo economico, al momento di prendere le decisioni sulla

distribuzione dei fondi finanziari da parte dell’organo centrale di pianificazione, sarebbe,

pertanto, puramente arbitrario. Insomma, il modello di Oskar Lange impedisce, in

generale, che esista un vero mercato di capitali e, in particolare, una borsa di valori e titoli

rappresentativi della proprietà delle imprese, cosa che, come è stato messo in evidenza

da Lachmann,63 costituisce, senza alcun dubbio, uno dei difetti più importanti di tutto il

modello di Lange.

7.º Ignoranza riguardo al comportamento tipico degli organismi burocratici

In settimo luogo, il modello di Oskar Lange non può funzionare perché non prende in

considerazione quale sarebbe il comportamento reale dei diversi agenti economici, e

specialmente dei gestori delle imprese nazionalizzate e dei burocrati incaricati dall’organo

centrale di pianificazione , all’interno del quadro disegnato dal modello stesso. Fino ad ora

abbiamo commentato diversi aspetti sull’impossibilità teorica del calcolo economico nel

                                                            63 «The stock Exchange is perhaps the most characteristic of all the institutions of the market economy… What really distinguishes capitalism from a socialist economy is not the size of the “private” sector of the economy, but the ability of the individual freely to buy and shell shares in the material resources of production. Their inability to exercise their ingenuity in this aspect is perhaps the most important disability suffered by the citizens of socialist societies.» Si veda Ludwig M. Lachmann, «Methodological Individualism and the Market Economy», in Capital, Expectations and the Market Process, Sheed, Andrews and McNeel, Kansas 1977, p.161.

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modello di Lange, perché non permette che in esso esistano veri imprenditori intesi così

come sono stati definiti nel Capitolo II di questo libro. Tuttavia, non è stata fatta alcuna

menzione riguardo a che tipo di comportamenti specifici fomenterebbe il modello di Lange

tra i diversi agenti economici e sociali previsti in esso. Si tratta, pertanto, di incorporare

nella nostra analisi il punto di vista della cosiddetta Scuola della Scelta Pubblica, che si è

tanto sviluppata negli ultimi anni, e che si è preoccupata specialmente di analizzare i

processi di interazione umana in ambienti di tipo politico e burocratico, nei quali, per

definizione, le relazioni istituzionali di tipo coercitivo sono preponderanti. In questo senso,

non possiamo tralasciare di riportare qui il seguente commento nel quale James

Buchanan critica Lange per non aver preso in considerazione uno degli aspetti più

importanti del problema, cioè sapere come dovrebbero comportarsi gli agenti economici

nel quadro istituzionale da lui disegnato: «By the third decade of this century, economic

theory had shifted to a discipline of applied mathematics, not catallaxy. Even markets

came to be viewed as “computing devices” and “mechanisms”, that may or may not secure

idealized allocative results. Markets were not, at base, viewed as exchange institutions,

out of which results emerge from complex exchange interaction. Only in this modern

paradigm of economic theory could the total absurdity of the idealized socialist structure of

Lange-Lerner have been taken at all seriously, as indeed it was (and, sadly, still is) by

practicing economists. We may well ask why economists did not stop to ask the question

about why socialist managers would behave in terms of the idealized rules. Where are the

economic eunuchs to be found to operate the system?»64

I fondamenti della scuola della «scelta pubblica» furono, senza alcun dubbio, iniziati

dallo stesso Mises quando, nel concepire l’economia come una scienza molto ampia

incaricata di studiare teoricamente tutti i processi relazionati con l’azione umana, diede

adito a che i ricercatori cominciassero ad applicare l’analisi economica alle azioni umane

                                                            64 Si veda James M. Buchanan, «The Public Choice Perspective», Capitolo III di Liberty, Market and State. Political Economy in the 1980’s, Harvest Press, Sussex 1986, p. 25. La traduzione in italiano di questa citazione potrebbe essere la seguente: « A partire dalla terza decade di questo secolo la teoria economica si converte in un ramo della matematica applicata e cessa di essere una teoria dell’interscambio (catallattica). Gli stessi mercati passano ad essere considerati come “meccanismi” capaci di raggiungere, in maggiore o minore misura, risultati ideali per quel che riguarda l’assegnazione delle risorse. Si smette, pertanto, di considerare i mercati come istituzioni di interscambio che nascono da una complessa interazione umana. Solo all’interno della prospettiva di questo nuovo paradigma si spiega che si potesse arrivare a prendere sul serio il modello totalmente assurdo di socialismo ideale di Lange-Lerner, nel quale continuano tristemente a credere ancor oggi molti professionisti dell’economia. Noi ci chiediamo come gli economisti non si siano fermati a pensare perché i gestori socialisti dovrebbero comportarsi seguendo le “regole” stabilite nel modello. Dove si potrebbero trovare gli eunuchi economici che sono necessari per farsi carico di tale sistema?» Si veda anche l’articolo di David M. Levy, «The bias in centrally planned prices», Public Choice, volume 67, n.º 3, dicembre 1990, pp. 213-226.

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che si sviluppano in diversi ambienti del mercato inteso in senso stretto tradizionale, come

possono essere l’ambiente politico, quello burocratico, ecc. All’interno di questo contesto

bisogna considerare l’opera chiave e pioniera di Mises sulla burocrazia apparsa nel 1944,

e in cui, per la prima volta, si evidenzia come la burocrazia deve nascere per forza in tutte

le aree sociali in cui non si permette la libera ricerca imprenditoriale del beneficio.65 Inoltre

Mises sviluppa nel suo lavoro molti dei punti che, posteriormente, dovevano divenire

oggetto di ricerca con maggiore dettaglio e profondità, tra gli altri, da parte dell’economista

ungherese János Kornai nella sua analisi economica relativa al funzionamento reale delle

economie dell’Est. È di grande interesse raccogliere letteralmente le conclusioni a cui

arriva Kornai sul modello di Lange dal punto di vista della Scuola della Scelta Pubblica, e

che si riferiscono sia al comportamento dell’organo centrale di pianificazione sia a quello

dei gestori delle imprese corrispondenti. In effetti, Kornai ci dice che: «Lange’s model is

based on erroneous assumptions concerning the nature of the “planners”. The people at

his Central Planning Board are reincarnations of Plato’s philosophers, embodiments of

unity, unselfishness, and wisdom. They are satisfied with doing nothing else but strictly

enforcing the “Rule”, adjusting prices to excess demand. Such an unworldly bureaucracy

never existed in the past and will never exist in the future. Political bureaucracies have

inner conflicts reflecting the divisions of society and the diverse pressures of various social

groups. They pursue their own individual and group interests, including the interests of the

particular specialized agency to which they belong. Power creates an irresistible

temptation to make use of it. A bureaucrat must be interventionist because that is his role

in society; it is dictated by his situation… Lange’s model is based on an equally erroneous

assumption concerning the behaviour of the firm. He expects the firm to follow the Rule

designed by the system engineers. But society is not a parlor game where the inventor of

the game can arbitrarily invent rules. Organizations and leaders who identify themselves

with their organizations have deeply ingrained drives: survival, growth, expansion of the

organization, internal peace within the organization, power and prestige, the creation of

circumstances that make the achievement of all these goals easier. An artificial incentive

scheme, supported by rewards and penalties, can be super-imposed. A scheme may

support some of the unavowed motives just mentioned. But if it gets into conflict with them,

vacillation and ambiguity may follow. The organization’s leaders will try to influence those

who imposed the incentive scheme or will try to evade the rules… What emerges from this

                                                            65 Ludwig von Mises, Bureaucracy, Arlington House, New Rochelle, Nueva York 1944. Esiste una taduzione in.

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57  

procedure is not a successfully simulated market, but the usual conflict between the

regulator and the firms regulated by the bureaucracy.»66

Anche questi problemi erano già stati indicati da Hayek nella sua contestazione a Lange

del 1940. In effetti, Hayek mette in evidenza che il modello di Lange dovrebbe per forza

portare alla peggior forma di burocrazia, poiché l’organo centrale di pianificazione si

vedrebbe obbligato a controllare se i gestori agivano o no d’accordo con alcune regole il

cui adempimento non potrebbe essere controllato in modo oggettivo. L’arbitrarietà da

parte dell’organo centrale di coercizione e i comportamenti «perversi» dei gestori tendenti

a dimostrare che, almeno sulla carta, avevano adempiuto alle norme stabilite, così come

ad assicurarsi che ogni tipo di corruzione, connessioni o appoggi nell’organo di

pianificazione, comparirebbero dovunque.67

Anzi, questi problemi furono, almeno parzialmente, riconosciuti dallo stesso Lange che

giunse addirittura ad affermare che per lui «il pericolo reale del socialismo è quello della

burocratizzazione della vita economica».68 Tuttavia, Lange dimostra di non capire la

portata reale di questo pericolo quando, di seguito, aggiunge che, in ogni caso, non

sarebbe maggiore di quello posto dalla stessa burocratizzazione in un sistema capitalista,

in cui i gestori imprenditoriali che prendono le decisioni sono quasi «funzionari», dal

                                                            66 János Kornai, «The Hungarian Reform Process», opera citata, pp. 1726-1727. (Questo articolo è stato riprodotto come capitolo V del libro Vision and Reality. Market and State, Harvester, New York, 1990). In italiano: «Il modello di Lange si basa su presupposti erronei relativi alla natura dei pianificatori. I funzionari dell’organo di pianificazione appaiono nel modello come la reincarnazione dei filosofi di Platone, dotati della massima saggezza, bontà e unità di criterio, e senza nulla che li soddisfi di più che seguire la “Regola” di adattare i “prezzi” nei casi di eccesso di domanda. Tuttavia, tale tipo idealizzato e celestiale di burocrazia non è mai esistito nel passato e non esisterà mai nel futuro. Le burocrazie politiche, nella loro più intima essenza, soffrono di conflitti, che riflettono le divisioni e pressioni che vengono dai diversi gruppi sociali. Cercano di ottenere i propri interessi, individuali e di gruppo, compresi gli interessi particolari del dipartimento burocratico al quale appartengono. Inoltre il potere crea un’irresistibile tentazione a usarlo e ad abusarne. Un burocrate sarà sempre un interventista, proprio perché il suo ruolo nella società, dettato dalla situazione nella quale si trova, è proprio quello… Il modello di Lange si basa su un presupposto ugualmente erroneo relativo al comportamento dell’impresa. Lange pensa che l’impresa potrà seguire a qualsiasi costo la Regola dettata dagli ingegneri del sistema. Ma la società non è un campo di gioco in cui l’inventore del gioco possa stabilirne le regole a suo piacimento. Le organizzazioni e i liders che si identificano con esse sono influenzati da motivazioni che hanno radici profonde: la sopravvivenza, la crescita, l’espansione dell’organizzazione, la pace interna, il potere e il prestigio, e la creazione delle circostanze necessarie per rendere più facile il raggiungimento di tutti questi obbiettivi. Si può stabilire uno schema artificiale di incentivi sostenuto da premi e sanzioni, e si può anche appoggiare alcune delle motivazioni menzionate. Ma se entra in conflitto con alcune di esse provocherà vacillamento e ambiguità all’interno dell’organizzazione. I liders cercheranno o di influire su coloro che stabiliscono il sistema di incentivi o semplicemente di eludere le regole… Ciò che emerge da tutto questo processo non è un mercato artificiale simulato con successo, ma il tipico conflitto che nasce sempre tra colui che detta le regole e le imprese che le devono seguire.» 67 F.A. Hayek, «Socialist Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, op. cit., pp. 198-199. 68 Oskar Lange, «Sobre la Teoría Económica del Socialismo» (Sulla Teoria Economica del Socialismo), edizione spagnola, opera citata, pp. 115-116

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momento che solitamente non sono i proprietari del capitale e praticamente non sono

responsabili di fronte a nessuno. È difficile mostrare una concezione più ristretta ed

erronea del capitalismo. Ogni economia reale di mercato si caratterizza perché in essa

esiste completa libertà di esercizio della funzione imprenditoriale, indipendentemente da

chi eserciti, come protagonista in ogni momento e circostanza, l’imprenditorialità ( gli

azionisti, i gestori, ecc.), cosa che sarà tanto storicamente contingente quanto

teoricamente irrilevante. Al contrario, in un regime socialista viene vietato con la forza a

tutto il mondo l’esercizio dell’imprenditorialità almeno nell’ambito dei beni di capitale,

dissociando e separando la presa di decisioni fondamentali da quelle persone che sono le

uniche, in un ambiente di libertà imprenditoriale, che potrebbero arrivare a creare e a

scoprire l’informazione necessaria per prendere tale decisioni in modo adeguato.

In ogni caso, questa preoccupazione di Lange per la burocratizzazione del socialismo è

passata ai suoi discepoli e spiega come costoro abbiano sviluppato tutta una letteratura

sul consolidamento e il progetto di «bonus» e sistemi di incentivazione che teoricamente

non è riuscita a risolvere i problemi posti e, in pratica, non ha raccolto che totali fallimenti,

nonostante le grandi speranze che avevano suscitato a suo tempo e delle quali oggi

praticamente non si ricorda più nessuno.69 Il fatto è che il sistema di «bonus e incentivi»

per rendere possibile il funzionamento del socialismo è impossibile anche da un punto di

vista teorico, poiché implicherebbe che l’organo centrale di pianificazione incaricato di

stabilirli e concederli disponesse a priori di una conoscenza che gli è impossibile avere. In

effetti, la concessione da parte di un terzo di bonus o incentivi implica dare implicitamente

per scontato che quel terzo conosca, prima di concedere il premio o la sanzione, se il

nuovo sistema di produzione, il nuovo bene o servizio prodotto, o se l’adempimento della

regola sono stati portati a termine con successo o no; conoscenza di cui è impossibile che

l’organo centrale di pianificazione possa venire in possesso per i motivi già più volte

esposti in questo libro. Che si sia coordinato un comportamento dissestato nella società, è

qualcosa che, da fuori, non è direttamente osservabile in modo oggettivo, ma costituisce

un processo del quale si può solo teorizzare formalmente indicando che il sorgere di un

beneficio imprenditoriale metterà in evidenza che si è prodotto l’effetto di coordinamento

che non è direttamente osservabile. E se gli effetti di coordinamento in ogni circostanza

                                                            69 Può essere interessante ricordare i seguenti lavori: Martin L. Weitzman, «The New Soviet Incentive Model», Bell Journal of Economics, 7, n.º 1 (primavera del 1976) pp. 251-257; Vinson Snowberger, «Comment on the New Soviet Incentive Model», Bell Journal of Economics, 8, n.º 2 (autunno del 1977); e William G. Rosemberg, «Observations on the Soviet Incentive System», ACES Bulletin 19, n.º 3-4, 1977, pp. 27-43.

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concreta non sono direttamente osservabili e, a loro volta, divengono evidenti solo per gli

osservatori esterni, dopo lags temporali molto prolungati e solo in termini generali e in

modo molto vago, parziale e imperfetto, è chiaro che tutto il sistema di bonus e incentivi

che presupponga una conoscenza oggettiva dei fatti che danno luogo agli stessi non può

servire né teoricamente né praticamente a simulare il funzionamento del processo

imprenditoriale mosso dal desiderio di lucro che c’è in qualsiasi economia di mercato

veramente competitiva. A parte che se si concede un bonus perché si suppone che già si

sa o si conosce che si è creata o generata un’informazione di alto valore, è teoricamente

assurdo concedere tale bonus, dato che si sapeva di avere l’informazione e di averla

ottenuta prima della concessione del bonus stesso.70 Cioè, non si tratta di concedere

premi per i «servizi compiuti», ma di stabilire una motivazione energica per creare e

scoprire, nel futuro, un’informazione che è necessaria e che oggi non si possiede (per cui

è impossibile articolare un sistema di bonus in relazione ad essa, poiché non

conoscendola ancora, non si concepisce neppure che possa esistere in futuro, né il valore

che dovrà avere). Quello che manca, pertanto, è un «sistema di bonus o incentivi» che si

concedano con carattere prospettico in tutti quei casi in cui si agisca in modo coordinato,

anche se il risultato oggettivo di tale adattamento o coordinamento non si può mai

conoscere pienamente da parte di un terzo, o perlomeno si può conoscere in modo molto

parziale e dopo un periodo di tempo molto prolungato. E questo è qualcosa che può offrire

solo un’economia competitiva, con proprietà privata dei mezzi di produzione, e nella quale

esista una completa libertà per l’esercizio dell’imprenditorialità. In queste circostanze,

come già sappiamo, il fine soggettivo di ogni azione costituisce il movente o beneficio che

ci si aspetta di ottenere da essa, giustifica la sua realizzazione, fa sì che si generi

l’informazione necessaria e, in caso che si ottenga, si trasforma in un guadagno effettivo

per l’agente il cui effetto soggettivo non può essere uguagliato da nessun sistema

artificiale di «bonus» per quanto ben «disegnato» e «perfetto»

                                                            70 Devo questa importante idea riguardo all’irrilevanza del sistema di bonus e incentivi in un sistema socialista a Israel M. Kirzner, il quale afferma: «To reward managers for meeting or exceeding target output quantities presupposes that it is already known that more of these outputs is urgently required by society… But if they are assumed already known, we are simply assuming away the need for entrepreneurial discovery…». E arriva alla conclusione che, pertanto, «incentives to socialist managers deny the essencial role of entrepreneurial discovery». Vedere Discovery and the Capitalist Process, opera citata, pp.34-35. Riguardo allo stabilire bonus o incentivi, nel capitolo seguente analizzeremo di nuovo le proposte fatte al rispetto da Dickinson, facendo una serie di considerazioni addizionali che dobbiamo considerare come qui rappresentate.

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60  

Altri commenti sul modello classico di Lange

Non possiamo terminare la nostra esposizione critica del modello classico di Lange

senza riferirci alle affermazioni che fa alle pagine 89 e 106 rispettivamente dell’articolo che

stiamo commentando.

Nella prima di queste pagine Lange dice che l’organo centrale di pianificazione

possiederà sempre una qualche conoscenza del sistema economico «molto superiore» a

quello che possa avere qualsiasi imprenditore privato individuale, per cui il processo di

adattamento attraverso il metodo statale di «prova ed errore» sarà, a parer suo, molto più

«rapido ed efficace» di quello che si porta a termine nel sistema capitalista. È difficile

trovare una maggiore incomprensione di come funziona il sistema capitalista di quella che

rivela questa idea che Lange espone molto seriamente nel suo articolo. Anche se si può

ammettere che forse l’organo centrale di pianificazione possieda una qualche conoscenza

dell’economia «in generale» superiore a quella di qualsiasi imprenditore individuale, il

problema da conoscere non è quello ma un altro molto diverso: che l’organo centrale di

pianificazione non potrà mai disporre del volume totale di informazione dispersa che tutta

la rete di migliaia e migliaia di imprenditori costantemente genera, utilizza e trasmette in

modo spontaneo nel sistema capitalista. Non si tratta, pertanto, di paragonare la

conoscenza dell’organo centrale di pianificazione con quello di un imprenditore individuale

separato o isolato, ma con quella generata e utilizzata da tutta la rete di imprenditori

individuali che esercitano liberamente la funzione imprenditoriale in una società libera. Per

questo motivo, non solo il processo di adattamento del sistema socialista non sarà più

breve, ma non si potrà neppure portare a termine, data l’impossibilità che l’organo di

pianificazione ottenga l’informazione necessaria per portare i prezzi verso l’ipotetico

«equilibrio». E, in ogni caso, non capiamo come Lange abbia potuto arrivare a pensare

che il suo metodo di adattamento sarebbe dovuto essere più breve ed efficace di quello di

un’economia di mercato, poiché il suo modello stabilisce che i gestori semplicemente si

adatteranno in modo passivo ai prezzi parametrici dei beni di capitale, senza che si possa

modificare nessun prezzo se non venga deciso dall’organo centrale. Cioè, finché non si

riceva l’«informazione» necessaria, la si sviluppi e si concluda ciò che si deve fare, i

gestori non possono modificare in alcun modo il loro comportamento riguardo ai prezzi,

cosa che sì possono fare e di fatto fanno costantemente gli imprenditori in un sistema

capitalista, approfittando immediatamente delle opportunità di beneficio che trovano, e

producendo il processo di adattamento in modo continuo senza attese né lags inutili.

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61  

La seconda osservazione di Lange si riferisce alla supposta eliminazione dei cicli

economici nel suo modello. Lange argomenta che la «superiore informazione» dell’organo

di controllo gli permetterebbe di reagire in tempo di fronte agli errori imprenditoriali che si

commettessero, evitando così i processi di crisi economica che si presentano ciclicamente

in un’economia di mercato. Tuttavia, non si capisce per quale motivo, se Lange crede che

l’organo di controllo dispone di tale quantità di informazione da poter adottare «per tempo»

le misure necessarie per evitare una crisi, desideri dunque lasciare in mano ai gestori il

compito di prendere decisioni, in modo decentralizzato, in aree molto importanti della

società (beni di consumo, fattore lavoro, adattamento ai prezzi parametrici ecc.). Inoltre a

Lange manca un’adeguata teoria della depressione economica che, dal punto di vista di

Mises e Hayek,71 non è se non la tappa di riadattamento di una struttura produttiva che è

stata distorta dall’interventismo statale sul mercato (fiscale, monetario o di qualsiasi altro

tipo). In questo senso il mercato reagirebbe con una depressione ogni volta che gli

venisse imposto in modo coercitivo uno stanziamento di risorse e di fattori produttivi non

corrispondente a quello che volessero mantenere liberamente i consumatori. Questo

succede solo in un’economia intervenuta nella quale, come risultato di un’aggressione

governativa (monetaria, fiscale o di altro genere), si costringa a un cattivo investimento

generalizzato delle risorse. Da quest’ottica, il modello di Lange non solo non eviterebbe

l’apparire o sorgere delle depressioni economiche, ma provocherebbe per forza un intenso

e cronico cattivo investimento generalizzato dei fattori produttivi e dei beni di capitale nella

società, per cui essa rimarrebbe sprofondata in una «depressione cronica», o situazione

costante di cattivo investimento delle risorse produttive, fenomeno che si è venuto

manifestando nella realtà perfino con caratteristiche cicliche di peggioramento ricorrente, e

che è stato studiato72 abbastanza dettagliatamente dai teorici delle economie dell’Est.73

                                                            71 La «teoria austriaca del ciclo economico» fu sviluppata da Mises e Hayek parallelamente alla loro analisi sul calcolo economico socialista, cosa che spiega che l’una e l’altro si basino, come denominatore comune, sui risultati scoordinanti a cui dà luogo l’aggressione statale sul mercato. Un riassunto della bibliografia più significativa sulla «teoria austriaca del ciclo economico» si può trovare nel mio articolo pubblicato con lo stesso titolo su Moneda y Crédito (Moneta e Cradito), n.º 152, marzo del 1980, ristampato nelle mie Lecturas de Economía Política (Letture di Economia Politica), volume I, Unión Editorial, Madrid 1986, pp. 241-256. 72 Si veda, per esempio, l’articolo di Tomasz Stankiewicz, «Investment under Socialism», Communist Economies, volume 1, n.º 2, 1989, pp. 123 a 130. 73 Non abbiamo commentato nel testo altre quattro osservazioni di Lange sul sistema capitalista, poiché, o non hanno un rapporto diretto con il problema del calcolo economico che ci interessa, o si può considerare che sono già state implicitamente confutate nella nostra analisi. Inoltre, Lange raccoglie argomenti poco originali, che formano parte, per dire, della verbosità tradizionale dell’ideologia socialista e a cui si è sufficientemente ribattuto in altri luoghi. Così, Lange afferma: 1) che il socialismo ridistribuirà la rendita rendendo possibile la «massimizzazione del benessere sociale» (come se questo si potesse misurare, se esistessero e si potessero conoscere le funzioni di utilità individuale, e tutta questa informazione potesse giungere all’organo di controllo); 2) che l’organo di pianificazione all’atto di prendere decisioni potesse tener

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62  

6. TERZA E QUARTA TAPPA DELLA VITA SCIENTIFICA DI LANGE

Terza tappa: La decade degli anni 40

Oskar Lange rimase profondamente impressionato dall’articolo del 1940 in cui Hayek ,

molto dettagliatamente e punto per punto, analizzò e criticò i diversi elementi e

implicazioni del suo modello. Come conseguenza, e secondo Gabriel Temkin,74 Lange

cominciò ad avere dubbi sempre più seri e profondi riguardo al suo modello di «soluzione

competitiva», cosa confermata dai fatti seguenti: primo, nella corrispondenza che tenne

con Hayek, gli riconobbe espressamente di aver esposto con successo una serie di errori

e problemi essenziali che il suo modello, strettamente statico, non era capace di risolvere,

per cui prometteva, nei mesi successivi, di scrivere un articolo in risposta ad Hayek;75

Secondo, nonostante la sua promessa, Lange non ha mai scritto l’articolo che nella sua

lettera diceva sarebbe stato la risposta alla critica di Hayek al suo modello; e terzo, anni

più tardi, nel 1944, Lange rifiutò di fare una revisione del suo saggio originale sul

socialismo del 1936-37, e di rendere possibile la sua nuova pubblicazione, argomentando

che nel frattempo le sue idee avevano subito tali cambiamenti, che esigevano si scrivesse

                                                                                                                                                                                                     conto dei «veri» costi sociali ed esterni (stessi errori del caso precedente, dovendo aggiungere che le supposte «imperfezioni di mercato» nascono precisamente per l’assenza o la cattiva definizione statale dei diritti di proprietà che impedisce l’imprenditorialità e il calcolo economico in aree importanti del mercato), 3) che gli imprenditori del capitalismo sono «imprenditori per scherzo» ( come potremmo definire dunque quei «poveri diavoli» -gestori e funzionari- del sistema socialista?); e 4) ma ciò che più richiama l’attenzione è la sua affermazione che il capitalismo ha smesso di essere compatibile con il progresso economico e tecnologico della società («Sobre la Teoría Económica del Socialismo», edizione spagnola, opera citata, pp. 116-122). Non c’è motivo di ripetere che non c’è maggior freno per il progresso che la coercizione istituzionale contro l’esercizio libero e creativo della funzione imprenditoriale, e fortunatamente, una generazione dopo la morte di Lange, il problema così come è percepito dagli stessi socialisti ha fatto un giro di 180 gradi, e oggi nessuno dubita, e si è messo in netta evidenza, che è il sistema socialista, e non quello capitalista, quello che si rende incompatibile con l’innovazione tecnologica e fa fallire sistematicamente il progresso economico. 74 Gabriel Temkin, «On Economic Reforms in Socialist Countries: The Debate on Economic Calculation under Socialism Revisited», op. cit., p. 55, nota n.º6. 75 Ci riferiamo alla lettera scritta da Oskar Lange a Friedrich A. Hayek il 31 agosto del 1940, dopo che Lange aveva ricevuto l’articolo di Hayek intitolato «Socialist Calculation: The Competitive Solution». Questa lettera è inclusa nel Tomo II delle Opere Complete di Oskar Lange pubblicate nel 1973 (in polacco Dziela) già citate, e in essa possiamo leggere il seguente passaggio: «There is no question that you have succede in raising essential problems and in showing gaps in the pure static solution given by me. I intend to work on this subject and give an answer to your paper… sometime in the fall» (p. 567 dell’opera citata). Finalmente Lange «cade dal pero» e promette di affrontare i problemi scientifici rilevanti: grazie a Mises sappiamo dal 1920 che il socialismo non pone alcun problema in termini statici, per cui il riconoscimento da parte di Lange che la sua è una «pure static solution» equivale a riconoscere che la sua «soluzione» non è stata soluzione di niente (disgraziatamente Lange non ha mantenuto la sua promessa e non ha mai affrontato il vero problema di tipo dinamico che pone il calcolo economico socialista).

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un articolo completamente nuovo, e che pensava di includere la sua nuova concezione del

socialismo in un capitolo speciale del trattato di economia che aveva cominciato a

scrivere.76 Parte del trattato apparve, ma senza includere il tanto sperato capitolo, che non

fu compreso in nessuna delle numerose opere e lavori pubblicati da Lange fino alla morte,

con l’unica eccezione del deludente articolo su «I computer e il mercato», pubblicato nel

1967 e che avremo l’opportunità di commentare dettagliatamente più avanti.

Sembra dunque evidente, e forse questa è la nota più caratteristica del pensiero di

Lange negli anni 40, che egli stesso, finalmente, si renda conto che la sua «soluzione»

non era tale, per il fatto di essere puramente statica, anche se non ha avuto l’onestà

scientifica di riconoscere in pubblico che il suo modello, pertanto, non dava alcuna risposta

alla sfida lanciata da Mises e Hayek, che era stata sempre di carattere «dinamico». Per di

più, nella citata lettera ad Hayek parla anche di una «terza linea di difesa»,

presumibilmente introdotta ex novo da Hayek nel suo articolo del 1940 e relativa ai

problemi dinamici, senza voler riuscire a capire che il problema, così come era stato già

posto fin dal principio da Mises nel 1920, era sempre stato un problema di natura

esclusivamente dinamica.

In ogni caso, ciò che sembra chiaro è che Lange abbandona in gran parte il suo

modello classico, e nella stessa lettera ad Hayek già citata ammette la necessità di

permettere che i processi di libero mercato funzionino ogni volta che sia possibile; benché,

e dimostrando con ciò che la sua ossessione per il modello neoclassico di «concorrenza

perfetta» rimane intatta, stabilisca come criterio per permettere un comportamento di

mercato (e l’abbandono, pertanto, del sistema di «prezzi» parametrici e del metodo di

«prova ed errore» esercitato dall’organo di controllo) che esista un numero

sufficientemente elevato di imprese in ogni settore (poiché questo, e d’accordo con il

modello tradizionale di «concorrenza perfetta», implicherebbe presumibilmente una buona

approssimazione alla concorrenza «reale» che esiste nel mercato). D’accordo con questa

nuova concezione del socialismo, la proprietà pubblica dei mezzi di produzione dovrebbe

                                                            76 «The essay is so far removed from what I ought to write on the subject today that I am afraid that any revision would produce a very poor compromise, unrepresentative of my thoughts. Thus, I am becoming inclined to let the essay go put of print and express my present views in entirely new form. I am writing a book on economic theory in which a chapter will be devoted to this subject. This may be better than trying to rehash old stuff.» Si tratta di un commento scritto da Oskar Lange nel 1944, incluso nelle sue Dziela del 1975 8volume III, opera già citata, citato a sua volta da Tadeus Kowalik nel suo articolo su «Oskar Lange», The New Palgrave. A Dictionary of Economics, op. cit., volume III, pp. 127 e 129.

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estendersi solamente ai casi più flagranti di monopolio, oligopolio, oligopsonio, e ad altre

situazioni simili.77

Ancora più rivelatore, se possibile, risulta il contenuto delle due conferenze che Lange

ha pronunciato su «Il funzionamento economico di una società socialista» a Chicago

nell’anno 1942:78 lì Lange non solo cercò di giustificare una vastissima estensione del

principio del mercato con la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, ma, per di più,

praticamente non menzionò affatto l’aspetto forse più caratteristico nel suo modello degli

anni 30, cioè, lo stabilire «prezzi» parametrici da parte dell’organo centrale di

pianificazione e il mettere in funzione un metodo di «prova ed errore» per modificare,

osservando le situazioni di scarsità e di eccesso degli inventari, tali «prezzi» portandoli al

loro «punto di equilibrio». Si continua a portare avanti tutta l’argomentazione di Oskar

Lange nei termini della teoria neoclassica del benessere e dell’equilibrio, per cui manca

degli strumenti teorici necessari per far fronte agli «interessanti problemi di tipo dinamico»

che, come egli stesso ha riconosciuto, gli aveva posto Hayek. Inoltre, in queste conferenze

Lange pensa che il principio essenziale per stabilire i prezzi nel mercato socialista debba

essere quello di fissarli in funzione dei costi incontrati, considerando non solo i costi

privati, ma anche i «costi sociali» che affronta ogni impresa, e che gli uni e gli altri abbiano

una natura «oggettiva». Che Lange non si rendesse conto che tale principio è

teoricamente e praticamente inammissibile e che, per tanto, non traesse nessun vantaggio

dalle critiche che in questo senso aveva ricevuto da Hayek , d’altro canto è scoraggiante.

Però forse il cambiamento più fondamentale fatto da Oskar Lange in questo periodo si

manifesta nel suo articolo sui «Fondamenti economici della democrazia in Polonia»,

apparso nell’anno 1943, e in cui espressamente Lange difende unicamente ed

esclusivamente la socializzazione delle industrie più importanti e strategiche (tra le quali

include il settore bancario e quello dei trasporti). Inoltre, Lange si mette in guardia di fronte

agli speciali privilegi che si concederebbero a questi monopoli statali, considerandoli molto

                                                            77 «Practically, I should, of course, recommend the determination of prices by a thorough market process whenever this is feasible, i.e., whenever the number of selling and purchasing units is sufficiently large. Only where the number of these units is so small that a situation of oligopoly, oligopsony, or bilateral monopoly would obtain, would I advocate price fixing by public agency». Paragrafo della lettera ad Hayek del 31 agosto del 1940, già citata, e riportata da Kowalik alla p. 127 del suo articolo su «Oskar Lange», op. cit. 78 Vedere le pp. 11-24 di Contributions to Political Economy, n.º6, anno 1987, dove Kowalik riporta integralmente queste due conferenze di Oskar Lange. Per le ragioni esposte nel testo, Kowalik ritiene che negli anni 40 Oskar Lange sia progredito «away from the advodacy of an integral socialism toward a mixed public (public and private) economy, operating through a fully-flegged market mechanism». Si vedano le pp. 1 e 2 dell’articolo «Oskar Lange’s Lectures on the Economic Operation of the Socialist Society», pubblicato da Tadeusz Kowalik nello stesso luogo ed anno.

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pericolosi per il sistema democratico polacco. In ogni caso, bisognerebbe mantenere la

proprietà privata dei mezzi di produzione per le fattorie, le imprese artigianali, e le piccole

e medie industrie, poiché «ciò permetterebbe di mantenere la flessibilità e la capacità di

adattamento che solo l’iniziativa privata con carattere esclusivo permette di

raggiungere».79

Quarta tappa: Dalla Seconda Guerra Mondiale fino alla sua morte.

L’abbandono del mercato e l’elogio e giustificazione del sistema stalinista.

Tuttavia, questa salutare influenza di Hayek su Lange doveva durare poco. A partire

dalla Seconda Guerra Mondiale, e in coincidenza con l’entrata di Oskar Lange nel Partito

Comunista Polacco e il suo maggiore coinvolgimento nella politica del suo paese, nella

sua concezione del socialismo si produce un progressivo abbandono del mercato che

culmina con la giustificazione teorica e pratica del modello economico stalinista che si

veniva applicando nell’Unione Sovietica e che l’Unione Sovietica aveva deciso di imporre

anche ai suoi «satelliti» recentemente acquisiti.80

L’abbandono da parte di Lange della «soluzione competitiva» e del modello di

«socialismo di mercato» raggiunge il suo apice nell’opera che pubblica nel 1953 elogiando

la teoria e la pratica economica di Stalin.81

                                                            79 «Gospodarcze Podstawy Demokracji W Polsce» (Fondamenti economici della democrazia in Polonia). In Ku Gospodarce Planowej (Verso un’economia di pianificazione centrale), pubblicato a Londra nel 1943, e citato da Kowalik nel suo articolo su «Oskar Lange», The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata, volume III, p. 127. 80 Karl Pribram ha messo in risalto la coincidenza cronologica fra il cambiamento della posizione teorica di Lange e la sua incorporazione nel Partito Comunista Polacco (A History of Economic Reasoning, opera citata, p. 708, nota 32). Kowalik, da parte sua, («Oskar Lange», opera citata, The New Palgrave, volume III, p. 127), sembra che cerchi di giustificare questo giro copernicano di Lange basandosi sull’argomentazione che le circostanze politiche e accademiche della Polonia non permettevano, per ragioni tattiche, di opporsi alla corrente stalinista del momento, e che le possibilità di libertà di espressione che avevano i teorici della scienza sociale erano molto limitate. Riteniamo che questa difesa che Kowalik fa di Lange sia più che altro una pietosa affermazione, soprattutto in vista dei ripetuti scritti pubblicati da Lange su prestigiose riviste internazionali, che spiegavano e giustificavano il suo cambiamento di opinione, e che difendevano ed elogiavano il sistema stalinista (fra questi spicca il suo articolo «The Practice of Economic Planning and the Optimum Allocation of Resources», pubblicato su Econometrica, nel luglio del 1949, pp. 166 e seguenti). Alla fine, pertanto, la posizione di Lange , coincise quasi con quella che analizziamo nel capitolo seguente di Maurice Dobb, per il quale non c’era peggior ipocrisia di quella dei «socialisti di mercato», e il trionfo del socialismo esigeva di mostrarlo in tutta la sua crudezza, cioè, senza utilizzare «maschere» né alcun trucco «competitivo». 81 Zagadnienia Ekonomii Politycznej W Swietle Pracy J. Stalina “Ekonomiczne Problemy Socjalizmu WZSRR”» (Problemi di Politica Economica alla luce dell’opera di J. Stalin «Problemi Economici del

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A parte che, come spiega Kowalik, nel cambiamento di opinione di Lange abbia potuto

avere una grande influenza la considerazione del carattere «vantaggioso» del modello di

«economia di guerra» imposto dittatorialmente dall’alto da Stalin, per forzare una rapida

«industrializzazione» del sistema economico e un’«efficace» mobilizzazione di tutte le

risorse verso l’ideale socialista (tutto questo, senza dubbio, va contro il precedente spirito

democratico e «liberale»di cui Lange aveva fatto sfoggio), le tesi sostenute da Lange negli

ultimi decenni della sua vita non sono altro che la naturale conseguenza del modello

teorico di equilibrio che aveva via via utilizzato per gettare le fondamenta della sua

concezione di socialismo. Infatti, abbiamo già spiegato precedentemente come l’ideale

marxista poteva essere reinterpretato come il desiderio cosciente di imporre con la forza il

nirvana dell’equilibrio in tutti i livelli e aree sociali, forzando un’utopia a costo di distruggere

i meccanismi reali mossi dall’imprenditorialità che rendono possibili i processi di

coordinamento sociale. Dunque, Oskar Lange aveva due alternative: o accettare in toto la

sfida di Mises e Hayek, rinunciando al suo arsenale teorico dell’equilibrio, comprendendo il

vero funzionamento del mercato e abbandonando, pertanto, il suo ideale socialista basato

sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione. O, al contrario, mantenere a tutti i costi

l’ideale di equilibrio, facendo marcia indietro nell’introduzione dei criteri competitivi (che in

modo incontrollato lo portavano ad abbandonare il socialismo), e rifugiandosi in un utopico

modello di equilibrio che poteva essere messo in pratica nel modo più «efficace» solo

mediante l’esercizio sistematico della coercizione stalinista. Nel 1956-57 Lange nega il suo

permesso per la pubblicazione di una traduzione in polacco della sua opera classica del

1936-37 perché, come afferma letteralmente Kowalik, «he did not want to lend his support

to the “socialist freemarketers”».82 L’abbandono della «soluzione competitiva» e il giro di

180 gradi nel suo modello di socialismo si era già completamente consumato.

Tenendo presenti queste considerazioni, non deve sorprendere in alcun modo che

l’ultimo lavoro nel quale Lange si riferisce al calcolo economico socialista, pubblicato

postumo nel 1967 (Lange era morto durante un’operazione chirurgica a Londra nel 1965),

egli stesso aveva scritto quanto segue: «Not quite thirty years ago I published an essay

“On the Economic Theory of Socialism”. Pareto and Barone had shown that the conditions

of economic equilibrium in a socialist economy could be expressed by a system of

simultaneous equations. The prices resulting from these equations furnish a basis for                                                                                                                                                                                                      Socialismo nell’ Unione Sovietica»), pubblicato a Varsavia nel 1953 e citato da Kowalik, «Oskar Lange», The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata, volume III, p. 129. 82 Cioè, perché «non voleva dare il suo appoggio ai socialisti di mercato», Kowalik, «Oskar Lange», The New Palgrave, opera citata, volume III , p. 128.

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rational economic accounting under socialism (only the static equilibrium aspect of the

accounting problem was under consideration at that time). At a later date Hayek and

Robbins maintained that the Pareto-Barone equations were of no practical consequence.

The solution of a system of thousands or more simultaneous equations was, in practice,

impossible, and consequently the practical problem of economic accounting under

socialism remained unsolvable … In my essay I refuted the Hayek-Robbins argument by

showing how a market mechanism could be established in a socialist economy which

would lead to the solution of the simultaneous equations by means of an empirical

procedure of trial and error … Today my answer to Hayek and Robbins would be: so

what’s the trouble? Let us put the simultaneous equations in an electronic computer and

we shall obtain the solution in less than a second. The market process may be considered

as a computing device of the pre-electronic age.»83

Queste parole di Lange sono assolutamente deludenti. In esse si mette in evidenza il

culmine di un’enorme marcia indietro nella sua concezione del problema che pone il

calcolo economico socialista: esso viene ad essere considerato di nuovo come un

problema strettamente statico (anche contro ciò che lo stesso Lange aveva riconosciuto

nella sua corrispondenza privata ad Hayek nel 1940). Inoltre si fa una descrizione parziale

e interessata del dibattito (come se fosse stato un dibattito su questioni di statica e non di

dinamica e di processo imprenditoriale) e si termina, insomma, rinunciando del tutto ad

ammettere il mercato, che viene considerato come un arcaico meccanismo per calcolare                                                             83 Oskar Lange, «The Computer and the Market» (1967), riprodotto in Socialist Economics, stampato da Alec Nove e D.M. Nuti, Penguin Books, Middlessex, 1972, pp. 401-402. Quest’opera fu inizialmente pubblicata nel libro Socialism, Capitalism and Economic Growth, Essays presented to Maurice Dobb, stampato da C.H. Feinstein, Cambridge University Press, Cambridge 1967. La traduzione in italiano di questa citazione potrebbe essere la seguente: «Non sono passati ancora trent’anni dalla pubblicazione del mio saggio “Sulla Teoria Economica del Socialismo”. Già Pareto e Barone avevano precedentemente dimostrato che le condizioni dell’equilibrio economico di un’economia socialista potevano essere espresse mediante un sistema di equazioni simultanee. I prezzi che risultavano da tale sistema offrivano una base per il calcolo economico razionale nel socialismo (allora si discuteva solo sugli aspetti di equilibrio statico in relazione con il problema del calcolo economico). Posteriormente Hayek e Robbins argomentarono che le euqazioni di Pareto-Barone non avevano effetti pratici. La soluzione di un sistema di migliaia o anche più equazioni simultanee era impossibile nella pratica, e di conseguenza il problema di mettere in pratica la contabilità economica in un sistema socialista rimaneva senza soluzione … Nel mio saggio ho confutato l’argomentazione di Hayek e Robbins dimostrando che un meccanismo di mercato si potrebbe stabilire in un sistema socialista, cosa che porterebbe alla soluzione del sistema di equazioni simultanee mediante un procedimento empirico di “prova ed errore” … Oggi la mia risposta ad Hayek sarebbe: qual è il problema? Introduciamo le equazioni simultanee in un computer elettronico e otterremo la soluzione in meno di un secondo. Il processo di mercato si può considerare come uno strumento di calcolo dell’era pre-elettronica.» Questa stessa ingenua ed errata fiducia di Oskar Lange nella capacità dei computer di rendere possibile il calcolo economico socialista si può leggere nella conferenza su «Il ruolo della scienza nello sviluppo della società socialista», tenuta da Lange davanti all’Assemblea Generale di membri dell’ Accademia delle Scienze della Polonia il 19 maggio del 1962, e riprodotta in Ensayos sobre Planificación Económica (Saggio sulla Pianificazione Economica), Ariel, Barcellona 1970, pp. 143-166 e specialmente le pp.156-157 e 162-163.

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prezzi di equilibrio, proprio delle tappe anteriori all’introduzione dei sistemi informatici. Non

è necessario riportare qui tutte le argomentazioni che, antecedentemente, abbiamo via via

dato per dimostrare che teoricamente è impossibile, sia ora sia in qualsiasi circostanza del

futuro, l’organizzazione di una società e il calcolo economico mediante un sistema di

pianificazione centrale aiutato dai più potenti computer o sistemi informatici.84 E, pertanto,

ciò che qualsiasi storico del pensiero economico può constatare, e noi raccogliere qui con

tristezza e delusione, è che Lange è morto afferrandosi alla staticità e credendo che il

modello ideale dell’equilibrio si poteva stabilire nella società mediante un sistema di

pianificazione calcolato con l’aiuto dei computer … e imposto dalla forza bruta dello

stalinismo.85

                                                            84 Sull’impossibilità di utilizzare i computer per risolvere il problema del calcolo economico socialista bisogna riportare qui le argomentazioni date nel Capitolo III di questo libro. Sono interessanti anche le osservazioni di Norman Barry nel suo articolo «The Economics and Philosophy of Socialism», pubblicato su Il Politico, anno XLIX, n.º 4, 1984, pp. 573-592, dove si sottolinea specialmente che la fiducia di Lange nei computer si basa su una non conoscenza della distinzione sostanziale esistente tra l’informazione di tipo scientifico e l’informazione di tipo pratico, soggettivo e non articolabile che utilizzano gli agenti economici nella società (la pagina più rilevante dell’articolo di Barry è la 588). E su questo stesso tema Rothbard ha sottolineato l’inutilità dei computer, per avanzati che siano essi stessi e i loro rispettivi programmi, se l’informazione basica che viene introdotta è errata per il fatto che impedisce in modo coercitivo la funzione imprenditoriale, concludendo che «Lange’s naive enthusiasm for the magical planning qualities of the computer in its early days can only be considered a grisly joke to the economists and the people in the socialist countries who have seen their economies go inexorably from bad to far worse despite the use of computers. Lange apparently never became familiar with the computer adage, GIGO (‘garbage in, garbage out’)». Murray N. Rothbard, «The End of Socialism and the Calculation Debate Revisited», Review of Austrian Economics, volume 5, n.º 2, 1991, p. 72. 85 Insomma, ciò che Lange scoprì fu l’enorme similitudine esistente tra le conclusioni normative della teoria dell’equilibrio e il modello tradizionale marxista (il cui obbiettivo è imporre tale equilibrio alla società), per cui volle culminare l’opera scientifica della sua vita costruendo una sintesi tra il modello neoclassico dell’equilibrio e la teoria marxista, che giunse anche a completare parzialmente. (Vedere la sua opera Political Economy, volume I, General Problems , Pergamon Press, Londra 1963, ed Ekonomia Polityczna, vol. II, pubblicata a Varsavia nel 1968 da Panstwowe Wydawnictwo Naukowe; esiste una traduzione spagnola con il titolo di Economía Política, volumen I: Problemas generales (Economia Politica, volume I: Problemi generali) – tradotto dall’inglese da Silverio Ruiz Daimiel- e volumen II: Teoría de la Reproducción (Volume II: Teoria della Riproduzione) – tradotto dal polacco da Elzbieta G. de Kerlow – per il Fondo de Cultura Económica, Messico, pubblicati rispettivamente nel 1966 e nel 1980). Paradossalmente, in quest’opera Oskar Lange ha reso un ultimo tributo al suo antico antagonista Ludwig von Mises, riconoscendo che la sintesi della scienza economica dovrebbe finire per plasmarsi in una «prasseologia» o «teoria generale dell’azione umana» (Economía Política, volumen I, opera citata, pp. 134, 169 e specialmente la p. 215). Tuttavia, Lange, per il fatto di concepire l’azione umana come un’azione puramente reattiva di soggetti passivi in un ambiente in cui tutta l’informazione è disponibile, fa sì che il problema economico generale sia di puro stanziamento o di efficienza, per cui fallisce nel suo tentativo di costruire la scienza prasseologica, tentativo che già precedentemente aveva portato a termine con successo Ludwig von Mises nella sua opera magna Human Action, in cui sviluppa tutte le implicazioni della teoria generale dell’azione umana e imprenditoriale così come viene esercitata realmente dall’essere umano. Vedere in questo senso l’articolo di Murray N. Rothbard «Lange, Mises and Praxeology: the Retreat from Marxism», incorporato nel libro Toward Liberty. Essays in Honor of Ludwig von Mises on the occasion of his 90th Birthday, volume II, Institute for Humane Studies, 1971, pp. 307-321. Bruna Ingrao e Giorgio Israel, nel loro brillante studio storico sulla formazione del paradigma neoclassico-walrasiano (The Invisble Hand. Economic equilibrium in the History of Science, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1990, p.253; traduzione inglese dell’opera originale italiana La Mano Invisibile, Laterza & Figli, Roma-Bari 1987) qualificano il punto di vista di Lange come approssimazione «normativa» all’equilibrio generale, paragonato al punto di vista di

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Epilogo Langiano

La tensione tra le due possibilità che si aprivano a Oskar Lange (o l’abbandono del suo

ideale socialista sostituendolo con una piena economia di mercato, o il rifugio nelle trincee

dell’equilibrio e dello stalinismo) è rimasta viva tra i principali teorici socialisti in generale, e

in particolare, tra i suoi più vicini discepoli polacchi. Nonostante ciò, sono dovuti

trascorrere 25 anni perché due dei suoi alunni più brillanti, Wlodzimierz Brus e Kazimierz

Laski, riconoscessero esplicitamente che Oskar Lange aveva fallito al momento di far

fronte alla sfida della Scuola Austriaca contro il socialismo. Pensano che abbiano fallito

allo stesso modo tutti i «riformatori ingenui» (dei quali loro stessi avevano fatto parte

durante una tappa della loro vita) al pensare che una certa combinazione tra il mercato e

il piano coercitivo potrebbe rendere possibile il sistema socialista. Questo fallimento

teorico si è mantenuto finché, molto recentemente, e come conseguenza delle esperienze

traumatiche vissute nei paesi dell’Est, la certezza e il vero contenuto dei lavori di Ludwig

von Mises sono stati, finalmente, pienamente capiti dagli specialisti in teoria economica

dei paesi dell’Est. Per un economista del mondo occidentale, in cui gli apporti della Scuola

Austriaca nel campo dell’analisi economica del socialismo purtroppo rimangono, almeno in

maggior parte, nascoste nell’assurdo groviglio del paradigma neoclassico-walrasiano,

questa confessione di due degli alunni più brillanti di Oskar Lange risulta così toccante ed

emozionante che vale la pena riportarla letteralmente così come loro stessi anno voluto

darla alla luce: «…as the article “The Computer and the Market” written shortly before his

death seems to witness, he (Oskar Lange) never succeded in confronting the Austrian

challenge. … Other contributions to the theory of market socialism made by Polish

economists – and by economists of other socialist countries as well – failed to do this

                                                                                                                                                                                                     Hicks e Samuelson che sarebbe più «descrittivo». Credo, tuttavia, che non bisogna esagerare nella distinzione tra i due punti di vista, poiché se Lange ha proposto di utilizzare in termini «normativi»il modello dell’equilibrio generale per dare fondamento al socialismo è stato proprio perché pensava che tale modello fosse, in termini «positivi», un’accettabile «descrizione» del mercato. E se Mises e Hayek hanno confutato tale idea di Lange è stato perché consideravano essenzialmente sbagliato in termini descrittivi il modello dell’equilibrio generale. La teoria austriaca dei processi di mercato si basa su dei presupposti molto meno restrittivi e più reali di quelli del modello dell’equilibrio generale, per cui la sua capacità esplicativa è molto più ampia e potente in termini positivi e, dal punto di vista normativo, presuppone una difesa diversa e molto più azzeccata ed efficace dell’economia di mercato e della «mano invisibile» di quella che propone il modello dell’equilibrio. Per gli austriaci i problemi di esistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio generale costituiscono un gioco intellettuale irrilevante, poiché il mondo reale è descritto molto meglio nei termini della funzione imprenditoriale e per costruire tutta l’analisi economica basta capire la forza coordinatrice del puro atto imprenditoriale. E non costituiscono solo un gioco intellettuale irrilevante, ma questo è, per di più, molto pericoloso, come dimostra il fatto che il modello dell’equilibrio generale venga utilizzato in termini normativi, anche per dare fondamento, come ha tentato di fare Lange, al fallito sistema socialista.

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either: Those of non-Marxist provenance followed mainly the Walrasian approach, while

Marxists pro–marketers – including the present authors – formed the ranks of Kornai’s

“naïve reformers”, viewing the prospect of the market-plan combination with excessive

optimism. To some degree these theoretical failures might have been caused by

politicoideological constraints, but even in countries and periods when such constraints

were at their lowest (for example, Poland 1956-57, and Czechoslovakia before the 1968

Soviet invasion), the full extent of the problem arising from the Mises- Hayek strictures was

not brought into the open. It was only – or mainly, to be cautious – under the impact of the

mostly frustrated experience of market orientated reforms that the issues in question came

to the forefront.»86

                                                            86 «Come sembra testimoniare l’articolo “Il Computer e il Mercato” scritto poco prima della sua morte, Oskar Lange non è mai stato capace di affrontare con successo la sfida degli Austriaci … Anche altri contributi alla teoria del socialismo di mercato dati da economisti polacchi e di altri paesi hanno fallito nel loro intento; quelli di origine non marxista hanno seguito principalmente il modello walrasiano, mentre i marxisti favorevoli al mercato – tra i quali c’erano anche i presenti autori – formarono il gruppo che Kornai chiamò “riformatori ingenui” e videro la possibilità di combinare il mercato e il piano con un eccessivo ottimismo. Fino a un certo punto questi fallimenti teorici potevano essere dovuti a restrizioni politico-ideologiche, ma neanche nei paesi e nei periodi in cui tali restrizioni furono minime (per esempio, in Polonia nel 1956-57 e in Cecoslovacchia prima dell’invasione sovietica del 1968), la vera portata dei problemi posti da Mises-Hayek non venne alla luce. Fu solamente – o, per essere prudenti, fu principalmente – come risultato delle esperienze molto frustranti delle riforme del socialismo orientate a favore del “mercato”, si cominciò a prendere in considerazione i problemi in questione.» Wlodzimiers Brus e Kazimierz Laski, From Marx to the Market. Socialism in Search o fan Economic System, opera citata, p. 60.   

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1

CAPITOLO VII

CONSIDERAZIONI FINALI

In questo capitolo finale analizzeremo, in primo luogo, gli apporti di tre teorici – Durbin, Dickinson e Lerner – che, continuando la linea iniziata dal «modello classico» di Lange, hanno cercato anche loro di sviluppare una soluzione di tipo «competitivo» per il problema del calcolo economico socialista. Ci soffermeremo soprattutto a studiare quali innovazioni questi autori hanno voluto introdurre, rispetto a Lange, e se sono stati o no capaci di capire e dare risposta alla sfida posta originariamente da Mises. La conclusione della nostra analisi sarà che il «socialismo di mercato» è un tentativo, essenzialmente contraddittorio e irraggiungibile, di ottenere un’assurda «quadratura del cerchio». Questa tesi è sostenuta anche da un gruppo di teorici socialisti che, capeggiati da Maurice Dobb, hanno sempre messo in evidenza il carattere contraddittorio del «modello competitivo» con il socialismo tradizionale, essendo sorto un dibattito secondario che si sviluppa strettamente all’interno del campo socialista tra i sostenitori e i detrattori del «socialismo di mercato». Alcune considerazioni finali sul vero significato dell’impossibilità del socialismo e gli apporti dei teorici della Scuola Austriaca porranno fine a questo capitolo. 1. ALTRI TEORICI DEL «SOCIALISMO DI MERCATO»

Abbiamo dedicato gran parte del capitolo precedente ad analizzare dettagliatamente le proposte di Oskar Lange. In generale queste sono le più citate e quelle che vengono tenute in considerazione dalle fonti secondarie che, finora quasi sempre in modo parziale ed erroneo, si sono occupate di descrivere e commentare la polemica sul calcolo economico socialista. D’altro canto, gli apporti del resto dei teorici del «socialismo di mercato», in maggior parte solamente ripetono, con piccole modifiche nei dettagli, le argomentazioni così come erano state esposte da Lange. Fra tutti loro studieremo in modo più approfondito Durbin, Dickinson e Lerner. Concretamente, ci concentreremo ad analizzare se qualcuno di loro sia riuscito a capire in che cosa è consistito il vero contenuto della sfida di Mises e Hayek, e se sia stato capace di offrire ad essa una qualche soluzione teorica. La nostra conclusione è che le analisi teoriche da loro sviluppate, non solo hanno apportato solamente piccole variazioni sul «modello classico» di Lange , ma sono miseramente fallite nel tentativo di risolvere il problema economico che pone il socialismo. Evan Frank Mottram Durbin

Il caso di Durbin ha potuto, al principio, generare delle speranze, poiché era stato in contatto con gli apporti teorici sviluppati dalla Scuola Austriaca della sua epoca, ed è stato capace di distinguere chiaramente fra il suo paradigma e quello della scuola neoclassico-walrasiana. Inoltre, ha scritto un trattato sulla depressione economica profondamente influenzato dalle idee che su quel particolare aveva espresso Hayek.1 Tuttavia, come vedremo, Durbin, nonostante questa salutare influenza «austriaca», non ha capito qual’era

1 E. F. M. Durbin, Purchasing Power and Trade Depression, Chapman & Hall, Londra 1933.

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il cuore del problema del socialismo posto da Mises e Hayek e, di fatto, ha continuato a sviluppare la sua «soluzione» in termini altrettanto rigidamente statici di quelli di Lange.

L’apporto di Durbin si trova basicamente in un articolo intitolato «Economic Calculus in a Planned Economy» (Il calcolo econimoco in un’economia pianificata) che apparve nel dicembre del 1936.2 Durbin dice di essere «quasi sicuro» che il problema del calcolo economico in un’economia socialista si potrebbe risolvere se l’organo centrale di pianificazione ordinasse alle diverse unità di produzione di agire secondo le due regole seguenti: primo, calcolare la produttività marginale di tutti i fattori di produzione mobili, e, secondo, assegnare i fattori produttivi a quegli usi per i quali la produttività marginale sia maggiore, dovendo le imprese produrre il massimo volume compatibile con l’ottenimento di benefici «normali» («regola dei costi medi»). Per diminuire le possibilità di errore che possono derivare dai calcoli delle produttività marginali, è indispensabile, secondo Durbin, calcolare le corrispondenti curve di domanda. Inoltre, Durbin sostiene che il tipo di interesse sia stabilito dal «mercato libero» di nuovo capitale, senza chiarire in nessun momento come dovrebbe funzionare tale mercato in un sistema in cui non si permetta la proprietà privata dei mezzi di produzione. Infine, per Durbin l’economia si deve organizzare sulla base di grandi settori, «trusts» o monopoli a cui si ordinasse di «competere» fra di loro.

Non è necessario che ripetiamo qui gli argomenti che abbiamo enunciato precedentemente in relazione alle proposte di «trusts» competitivi (difesa originariamente da Heimann e Polanyi), e per ciò che si riferisce alle possibilità di organizzare un vero mercato di capitali, utilizzando i servizi di una banca statale monopolista, là dove non esista proprietà privata dei mezzi di produzione. Tutte queste questioni sono state analizzate dettagliatamente nei due capitoli precedenti. Quello che ci interessa ribadire ora è come la proposta di Durbin cada esattamente nello stesso errore di quella fatta precedentemente da Lange e altri, cioè, il presupporre un ambiente di equilibrio nel quale non esistano cambiamenti e tutta l’informazione necessaria per calcolare la produttività marginale dei fattori sia data e si possa ottenere senza alcun problema.

In effetti, le «regole» disegnate da Durbin potrebbero servire come una guida razionale per il calcolo economico, se l’informazione necessaria per calcolare il valore della produttività marginale di ogni fattore di produzione potesse essere ottenuta là dove non esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione né la libertà per esercitare senza impedimenti la funzione imprenditoriale. Teniamo in considerazione che per calcolare il valore della produttività marginale è indispensabile effettuare una stima nettamente imprenditoriale sui seguenti estremi: primo, quale sarà il tipo e la quantità del bene o servizio richiesto dai consumatori in futuro; secondo, che tipo di specificazioni, caratteristiche, innovazioni tecnologiche, ecc., dovrà comprendere; terzo, che prezzi massimi si ritiene di poter riscuotere nel mercato per tali beni e servizi di consumo una volta che siano stati prodotti; e quarto, quale sarà il periodo di tempo medio di elaborazione del bene e che tipo di interesse si dovrà utilizzare per scontare nel momento presente i corrispondenti valori futuri della produttività marginale. Come è logico, tutta questa informazione è un’informazione che si va generando solo in un mercato competitivo ad opera degli agenti economici che intervengono in esso ed esercitano la loro funzione imprenditoriale senza alcun impedimento istituzionale. Per questo è indispensabile che esista vera concorrenza, ma non tra alcuni misteriosi trusts o monopoli (che non si sa se dovranno essere organizzati orizzontalmente o verticalmente), bensì a tutti i livelli sociali inter e intrasettoriali. E ugualmente, e con un’importanza ancora maggiore, è indispensabile che qualsiasi essere umano possa utilizzare liberamente la 2 Pubblicato nell’ Economic Journal, dicembre del 1936, e ristampato in Problems of Economic Planning, Routledge & Kegan Paul, Londra 1968, pp. 140-155. È interessante anche il suo articolo «A Note on Mr. Lerner’s “Dynamical” Propositions», Economic Journal, sett. 1937, n.º 47, pp. 577 a 581.

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propria creatività imprenditoriale per poter scoprire e generare, cercando di ottenere i corrispondenti benefici imprenditoriali, ed evitando per quanto possibile di accumulare perdite, l’informazione necessaria (come sempre di tipo pratico, soggettivo, disperso e non articolabile) per portare a termine le azioni che meglio conducano ai fini perseguiti.

D’altro canto, bisogna tenere in considerazione che nel mondo reale il tipo e la quantità dei fattori di produzione non sono dati, e che non sono divisibili in unità omogenee, ma che, in funzione dell’immaginazione, desideri e obbiettivi di ogni imprenditore, così come dell’informazione concreta che generi secondo le sue particolari circostanze di tempo e luogo, quello che sia un fattore di produzione «movibile», e la sua unità rilevante, varierà da un caso all’altro, cioè secondo quale sia la valutazione soggettiva dell’imprenditore in questione. Inoltre, la supposizione implicita che si conoscano le curve di domanda corrispondenti che si produrranno in futuro o che, in qualche modo, si possano calcolare, mette in evidenza una profonda incomprensione da parte di Durbin di come funzionano veramente i processi di mercato nella vita reale.

In effetti, in un mercato competitivo non si può considerare che esistano «curve» o «funzioni» né di offerta né di domanda né di nessun altro tipo. Ed è così perché non esiste l’informazione necessaria per disegnarle o descriverle e, pertanto, non è disponibile da nessuna parte (né per il gestore o responsabile di un’impresa o industria, né molto meno per uno scienziato o un organo centrale di pianificazione), e questo non solo perché l’informazione che costituirebbe la «curva di domanda» è dispersa, ma perché tale informazione neanche si forma in ogni momento determinato di tempo nella mente degli individui che partecipano al mercato. Cioè, le curve di domanda e offerta non possono mai essere scoperte nel mercato semplicemente perché non esistono e, alla meglio, hanno solo un valore euristico e interpretativo all’interno della scienza economica, e inducono a importanti errori in tutte quelle persone esperte o no nella nostra scienza che , quasi senza rendersene conto, giungono a pensare che tali funzioni o curve abbiano un’esistenza reale. Il fatto è che l’informazione relativa a quali quantità si compreranno o si venderanno a ciascun prezzo è un’informazione che ciascun agente economico non si pone in forma astratta, né si trova immagazzinata nella sua memoria per tutte le circostanze che si verificheranno in futuro. Al contrario, è un’informazione strettamente soggettiva e dispersa che nasce solo nel momento concreto in cui si decide di effettuare una compera o una vendita , come risultato del processo imprenditoriale così come di molteplici influenze e circostanze di tipo specifico che sono soggettivamente valutate dall’agente economico implicato nella transazione della quale si tratta, per cui costituisce un’informazione che si crea ex novo in quel momento, prima non esisteva e non si ripeterà mai in forma identica. Per tanto, al più si può considerare che ciò che fanno gli imprenditori in un’economia reale di mercato è cercare di valutare, per così dire, quali saranno determinati punti sciolti delle ipotetiche «curve» di domanda e di offerta che si verificheranno in futuro, benché questo modo di esprimersi non sia né necessario per elaborare la teoria dei prezzi né ci sembra adeguato, dato che, in qualche modo, può implicare il riconoscimento che tali curve o funzioni esistano o possano esistere in futuro. Se l’azione dell’imprenditore è corretta, ottiene benefici imprenditoriali puri; se è sbagliata, accumula perdite. Ed è proprio l’incentivo a trattare di ottenere gli uni e di evitare le altre che agisce come impulso perché l’imprenditorialità tenda a creare e a scoprire in ogni momento l’informazione adeguata. Senza tali incentivi non c’è possibilità di libero esercizio dell’imprenditorialità e che pertanto si crei e generi l’informazione necessaria per prendere decisioni di tipo coordinativo e calcolare in modo razionale. Tutta la vita economica e sociale con tutte le sue manifestazioni, inclusi i prezzi, sono il risultato combinato di molteplici azioni umane, e non dell’intersezione di misteriose «funzioni» o «curve», che non esistono nella vita reale e che sono state introdotte in modo surrettizio nella nostra scienza da tutta una caterva di pensatori «scientifici» che, venendo dal mondo politecnico e della matematica applicata,

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non riescono a capire gli effetti molto dannosi che l’utilizzazione dei loro metodi ha per l’economia.3

Durbin, pertanto, così come Lange e altri teorici socialisti, dà per scontato che per gli agenti economici sia disponibile in modo oggettivo un’informazione che è teoricamente impossibile si possa neanche creare dato che non esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione e il libero esercizio dell’imprenditorialità. In assenza di queste istituzioni, l’informazione non si genererà e le «regole» di Durbin non potranno essere ricercate obbiettivamente dai gestori dei settori corrispondenti né, molto meno, l’organo centrale di pianificazione potrà controllare e comprovare se, secondo le stesse regole, tali settori stanno agendo correttamente oppure no. Il maggior errore di Durbin si produce, pertanto, quando afferma in modo esplicito: «The ability to discover marginal products is not dependent upon the existence of any particular set of social institutions.»4 Inoltre, d’accordo con Durbin, non importa quali siano le istituzioni sociali esistenti (capitaliste, socialiste, o qualsiasi combinazione delle due), l’informazione necessaria per calcolare la produttività marginale sarà sempre ugualmente disponibile, non si capisce perché rifiuta il procedimento walrasiano proposto da Lange, e che, esattamente allo stesso modo, si basava sul medesimo presupposto che adotta Durbin relativo al fatto che l’informazione necessaria sia disponibile in modo inequivocabile e oggettivo. Per di più, Durbin ritiene che le difficoltà «tecniche» per calcolare il valore della produttività marginale dei diversi fattori sono le stesse in un sistema capitalista che in un’economia pianificata, rifiutandosi di riconoscere che il problema non è «tecnico» ma economico, così come di discutere qualsiasi aspetto «pratico» che vada al di là delle considerazioni «teoriche» fatte da lui.5 3 È necessario, dunque, abbandonare la «teoria funzionale» della determinazione dei prezzi che da Marshall fino ad oggi inonda i libri di testo di economia, e contro la quale già ci aveva messo in guardia per primo Carl Menger, nella sua lettera a Léon Walras del febbraio 1948, dove conclude testualmente che «la méthode mathématique est fausse» (E. Antonelli, «Léon Walras et Carl Menger à travers leur correspondence», Économie Appliqué, volume VI, aprile-settembre 1953, p. 282, e i commenti al riguardo di Émile Kauder, «Intellectual and Political Roots of the Older Austrian School», Zeitschrift für Nationalökonomie, n.º 17, pp. 411-425, riprodotto nel volume I di Austrian Economics, Stephen Littlechild, casa editrice Edward Elgar, Vermont 1990, specialmente le pp.10-11); e poi Böhm-Bawerk nel volume II di Capital and Interest, opera citata, pp.233-235 (esiste una traduzione in spagnolo di Sonsoles Huarte inclusa nel volume I di Lecturas de Economía Política, Jesús Huerta de Soto, Unión Editorial, Madrid, 1986, pp. 119 a 120) dove critica che si concepiscano meccanicamente la domanda e l’offerta come pure «quantità» dipendenti da una variabile indipendente (il prezzo), e non come ciò che sono in realtà: il risultato di decisioni e azioni umane reali e concrete. La teoria funzionale e scientista dei prezzi deve essere sostituita, pertanto, da una teoria genetico-causale, o più esattamente prasseologica, dei prezzi, in cui si concepisca che questi sorgono come risultato di una sequenza di azioni umane di tipo imprenditoriale, teoria che, mantenendo e arricchendo le conclusioni valide del modello «funzionale», permette di evitare i gravi rischi ed errori a cui esso normalmente dà luogo. Si veda, in questo senso, l’articolo di Hans Mayer, «Der Erkenntniswert der Funktionellen Preistheorien», in Die Wirtschaftstheorie der Gegenwart, volume 2, casa editrice Springer, Vienna 1932, pp.147-239b (Esiste una traduzione italiana di questo articolo dal titolo: «Il concetto di equilibrio nella teoria economica», in Nuova collana di economisti, vol. 4 Economia pura, a cura di Gustavo del Vecchio, Unione tipografico – editrice torinese, Torino 1937) . E i commenti a riguardo di Israel M. Kirzner nel suo articolo «Austrian School of Economics», The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata, volume I, p. 148. Le idee di Mises su questa stessa linea si trovano specialmente nel suo Human Action, opera citata, pp.327 a 333. Si veda anche la citazione nella nota 53 del capitolo V, e le considerazioni che facciamo alla fine dello stesso. Un esempio apparso recentemente nel nostro paese della dannosa metodologia scientista basata sull’ «ingegneria sociale» e sull’uso della matematica nel campo dell’economia è il libro del socialista José Borrell Fontelles La República de Taxonia, Edizioni Pirámide, Madrid 1992. 4 «La capacità di scoprire i prodotti marginali non dipende dall’esistenza di nessun insieme di istituzioni sociali.» E.F.M. Durbin, «Economic Calculus in a Planned Economy», in Problems of Economic Planning, opera citata, p. 145. 5 «It may be very difficult to calculate marginal products. But the technical difficulties are the same for capitalist and planned economies alike. All difficulties that are not accountancy difficulties are not susceptible to theoretical dogmatism.» E.F.M. Durbin, «Economic Calculus in a Planned Economy», in Problems of Economic Planning, opera citata, p. 143.

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Vediamo, pertanto, che così come accadeva a Lange, per Durbin è «teoria» solo il modello marginalista dell’equilibrio (sebbene, nel suo caso, più che dell’equilibrio generale walrasiano, si tratta dell’equilibrio parziale marshalliano e della teoria della produttività marginale) nel quale si suppone che l’informazione necessaria per calcolare le corrispondenti produttività marginali sia «data». Non capisce che tale teoria dipende da dei presupposti così restrittivi che la rendono praticamente irrilevante. Durbin ignora non solo la teoria formale sui processi sociali di coordinazione mossi dall’imprenditorialità, ma anche l’analisi economica dei diritti di proprietà e il problema teorico che pone il carattere disperso e soggettivo della conoscenza là dove non esista concorrenza imprenditoriale. Non c’è da meravigliarsi che Durbin fallisca nel suo tentativo di risolvere il problema del calcolo economico socialista, poiché utilizza degli strumenti teorici inadeguati, sia per capire il problema originariamente posto da Mises, sia per trovargli una soluzione fattibile. Pertanto, possiamo concludere con Hoff, nella sua brillante analisi critica all’apporto di Durbin,6 che «in his anxiety not ‘to dogmatize on practical questions’ he has overlooked the crux of the whole problem, namely, how the data on which the socialist trusts are to base their calculations are to be obtained».7 Il libro «The Economics of Socialism» di Henry Douglas Dickinson

Anche la comparsa del libro di Dickinson nel 1939 indicava promettenti possibilità che il suo autore, finalmente, capisse, trattasse in modo esauriente e cercasse di rispondere alla sfida originale di Mises e Hayek.8 Da un lato, il fatto che Dickinson in questo libro abbandonasse esplicitamente le tesi che aveva sostenuto nel suo articolo del 1933 sulla formazione dei prezzi in un sistema socialista, e precisamente per la ragione essenziale che gli avevano contestato i suoi oppositori austriaci ( cioè, per il fatto di rendersi conto che l’informazione necessaria per portare a termine la sua proposta di soluzione matematica non sarebbe mai disponibile), indicava grandi possibilità che Dickinson fosse capace di capire tutte le implicazioni della nuova «intuizione» che aveva appena adottato.9 D’altra parte, la personalità di Dickinson era molto attraente. Collard ci dice che era «a much loved, unworldly, eccentric figure with a keen sense of fun and a most astute

6 Il ruolo di Durbin, che morì annegato tragicamente in Cornovaglia nel 1948, quando era ancora nel pieno della gioventù, insieme a J.E. Meade, Hugh Gaitskell e, in misura minore, Dickinson e Lerner, nella costruzione del fondamento ideologico del Partito Laburista inglese dopo la Seconda Guerra Mondiale (soprattutto tramite la cosiddetta Società Fabiana) è stato analizzato da sua figlia, Elisabeth Durbin, nell’opera New Jerusalems. The Labour Party and the Economics of Democratic Socialism, Routledge and Kegan Paul, Londra 1985. La maggior parte di questi «ideologi» finirono per difendere un modello basato sull’interventismo e la pianificazione macroeconomica di taglio keynesiano, all’interno di un contesto socialdemocratico. Elisabeth Durbin è autrice anche del breve articolo su suo padre che compare alla p. 945 del volume I del The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata. È interessante anche il suo libro The Fabians, Mr. Keynes and the Economics of Democratic Socialism, Routledge and Kegan Paul, New York 1984. Incidentalmente, dobbiamo menzionare che Elisabeth Durbin ha fatto parte (insieme a Israel Kirzner, Fritz Machlup, James Becker e Gerald P. O’Driscoll) della commissione di valutazione della tesi di dottorato sul dibattito riguardo al calcolo economico socialista, che discusse Don Lavoie all’Università di New York e che costituisce la base del suo brillante Rivalry and Central Planning, opera citata. 7 T.J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata, pp. 224 a 229 e specialmente la parte iniziale della p. 227. «Nel suo desiderio di non “dogmatizzare su questioni pratiche” ha trascurato il nocciolo di tutto il problema, cioè, come si dovrebbero ottenere i dati sui quali i trusts socialisti dovrebbero basare i loro calcoli.» 8 H.D. Dickinson, The Economics of Socialism, Oxford University Press, Londra 1939. 9 The Economics of Socialism, opera citata, p. 104, dove Dickinson considera che la soluzione matematica che aveva proposto nel 1933 non era fattibile, non perché fosse impossibile risolvere il sistema di equazioni corrispondente, ma perché si rese conto che «the data themselves which would have to be fed into the equation machine, are continually changing».

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mind»;10 e Hayek, nel suo articolo del 1940, loda non solo il carattere comprensivo, ma anche l’estensione, l’organizzazione, concisione e lucidità dell’opera di Dickinson, aggiungendo che leggerla e discuterne il contenuto era un vero piacere intellettuale.11 Infine, una buona prova del carattere aperto e dell’onestà scientifica di Dickinson è la rassegna molto favorevole della versione originale norvegese del libro di Trygve J.B. Hoff che pubblicò nel 1940.12 Nonostante ciò, bisogna sottolineare che,disgraziatamente, gran parte delle proposte di Dickinson coincidono completamente con quelle che aveva fatto in precedenza Oskar Lange, autore che tuttavia Dickinson non cita espressamente in nessun luogo del suo libro, tranne che nella bibliografia. Per questo motivo, la maggior parte delle critiche che abbiamo mosso a Lange nel capitolo precedente, si devono considerare riportate qui per il caso di Dickinson.

Il fatto è che, come ha dimostrato Don Lavoie con grande acume,13 nonostante tutto il libro di Dickinson mantiene basicamente il precedente punto di vista statico di questo autore, per cui continua ad essere incapace di dare soluzione al problema del calcolo economico così come era stato posto da Mises e Hayek. Questo diviene evidente specialmente nel ruolo che, secondo Dikinson, dovrebbero avere sia l’«incertezza»che la «funzione imprenditoriale» in un sistema socialista. In effetti, per quanto riguarda l’incertezza, Dickinson ritiene che uno dei vantaggi del sistema socialista sarebbe quello di diminuire l’incertezza tipica che nasce nel capitalismo come risultato dell’interazione congiunta di molteplici organi di decisione separati. Questa supposta «riduzione» dell’ incertezza si otterrebbe grazie all’intervento dell’organo centrale di pianificazione che, imponendo mediante mandati una serie di relazioni di produzione, coscienti e dirette, dovrebbe diminuire gli alti livelli di incertezza che esistono normalmente nel mercato. Di nuovo, Dickinson si riferisce alla metafora delle «pareti di cristallo» che ci sarebbero in un sistema socialista, in confronto al modo di agire tipico delle imprese in un sistema capitalista, caratterizzato, secondo lui, dalla «segretezza» e dalla mancanza di «trasparenza informativa».

È chiaro che con queste affermazioni Dickinson implicitamente considera che l’organo centrale di pianificazione sarà capace di disporre di un’informazione tale che gli permetta di coordinare la società dall’alto, diminuendo il grado di incertezza e di errori che normalmente commettono gli imprenditori; sebbene Dickinson non ci spieghi mai come questo sarebbe possibile, soprattutto tenendo in considerazione che l’incertezza non si genera dall’alto, ma «dal basso», cioè, a livelli degli stessi agenti economici, e che, come già sappiamo, essa ha un carattere soggettivo, pratico, disperso e non articolabile che rende impossibile la sua trasmissione a un organo centrale di pianificazione, e anche la sua stessa creazione o generazione, se non esiste completa libertà per l’esercizio della

10 «Una figura eccentrica e poco convenzionale, molto amata e dotata di un gran senso dell’umorismo e di una mente molto astuta.» Si veda l’articolo di Collard su Dickinson a p. 836 del volume I di The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata. 11 F.A. Hayek, «Socialist Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, opera citata, p. 185. 12 Questa rassegna, che apparve nell’ Economic Journal, nel suo n.º 50 (giugno/settembre 1940), alle pp. 270 alla 274, si riferiva al libro di Hoff pubblicato in norvegese con il titolo Okonomisk Kalkulasjon i Socialistike Samfund, da H. Ashekogv, Oslo 1938 (posteriormente tradotto in inglese da M.A. Michael e pubblicato a Londra da William Hodge nel 1949 con il titolo di Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata). Dickinson conclude che: «the author has produced a critical review, at a very high level of theoretical competence of practically everything that has been written on the subject in German and English.» 13 Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, opera citata, pp. 135 a 139. Incidentalmente, la concezione statica dell’economia e la conseguente incapacità di capire il ruolo e la natura dell’incertezza in un’economia di mercato che sono propri di Dickinson, oggi sono condivisi da autori del calibro, per esempio, di Kenneth J. Arrow, per il quale, come vedremo nella prossima nota 55, l’incertezza è un evidente «errore» del mercato e del suo sistema di prezzi.

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funzione imprenditoriale. D’altra parte, quando Dickinson preconizza una «trasparenza informativa totale e una pubblicità completa dei «segreti commerciali» che ci sono nel sistema capitalista, sta presupponendo implicitamente che l’informazione abbia un carattere oggettivo e che, una volta che si diffondessero nel tessuto sociale tutti i dati e «segreti» dei diversi agenti economici, il livello di incertezza diminuirebbe in modo significativo. Tuttavia, bisogna tenere in considerazione che qualsiasi agente economico può letteralmente inondare i suoi concorrenti o colleghi con tutta l’informazione relativa ai suoi piani, senza che ciò significhi necessariamente una riduzione del livello di incertezza. E questo perché si possono inondare gli altri solo con l’informazione che si può trasmettere in modo articolato o formalizzato. Ma i dati devono essere interpretati, ogni interpretazione è soggettiva, e può essere che gli agenti economici e i concorrenti in moltissime circostanze non interpretino soggettivamente in modo identico gli stessi dati, per cui potrebbero non avere lo stesso significato soggettivo che avevano per l’imprenditore «emittente» dell’informazione in origine. Si potrebbe ritenere che il limite si trovi in quella circostanza nella quale l’imprenditore non solo trasmettesse l’informazione, ma indicasse anche quale dovrebbe essere, nella sua valutazione oggettiva, l’evoluzione degli eventi futuri, e che tipo di comportamenti bisognerebbe adottare. Se gli agenti economici decidono di seguire le «intuizioni» dell’emittente, l’unica cosa che staranno facendo sarà rinunciare a interpretare i dati per quello che sono e, pertanto, rinunciare a esercitare personalmente la loro funzione imprenditoriale, limitandosi semplicemente a seguire la leadership imprenditoriale di un altro. Il sistema socialista è capace di eliminare l’incertezza solo utilizzando il «metodo dello struzzo», cioè nascondendo la testa e rifiutandosi di vederla e a riconoscere che l’incertezza non è un «problema» (tranne nelle assurde costruzioni mentali degli obnubilati teorici dell’equilibrio) ma una realtà sociale, inerente alla natura umana e che l’uomo affronta sempre mediante l’esercizio della sua imprenditorialità.

Un’altra dimostrazione che Dickinson nel suo modello mantiene il carattere essenzialmente statico si trova nel trattamento che vuole dare al livello di incertezza che non potesse essere eliminato mediante la pianificazione centrale. Riguardo a tale incertezza, Dickinson propone l’introduzione di un «ricarico per incertezza» che formerebbe parte del costo totale di produzione insieme con il resto degli altri elementi che «normalmente» lo costituiscono. Benché Dickinson riconosca che il calcolo di questo «ricarico per incertezza» sarebbe complicato, ritiene che si potrebbe fare calcolando le corrispondenti frequenze di modifiche nelle vendite e nei prezzi di ogni bene e servizio. Con questa proposta, Dickinson mette in evidenza che non riesce a capire la differenza essenziale che esiste tra il rischio e l’incertezza a cui ci siamo già riferiti nel capitolo II.14 Quest’ultima si riferisce a eventi o fatti unici, in relazione ai quali non si può nemmeno concepire che esista una possibile distribuzione di frequenze. L’informazione che gli agenti economici vanno creando e provando in relazione a quello che credono che potrà accadere in futuro è un’informazione tipicamente imprenditoriale, di carattere non articolabile, creativa e aperta in quanto alle sue possibili alternative e che, pertanto, non si potrà mai arrivare a raccoglierla in modo centralizzato permettendo l’elaborazione di una distribuzione di frequenze.

E ancor meno soddisfacente, se possibile, è il trattamento che Dickinson riserva al ruolo che nel sistema socialista dovrebbe avere la «funzione imprenditoriale». Il fatto è che l’imprenditorialità, nel modello di Dickinson, è una grossolana caricatura di carattere essenzialmente ambiguo. Da un lato non si permette, com’è logico, la proprietà privata dei mezzi di produzione, e l’organo centrale di pianificazione è dotato di poteri immensi, sia al momento di stabilire delle direttive per la coordinazione dei piani individuali, sia per 14 Si veda l’epigrafe su «Creatività, sorpresa e incertezza» del Capitolo II, così come le note a piè pagina 11 e 12.

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effettuare la distribuzione dei corrispondenti fondi finanziari, intervenire nel mercato del lavoro, monopolizzare la pubblicità e la propaganda, controllare e dirigere in modo assoluto il commercio internazionale, ecc. Inoltre Dickinson ritiene che quest’organo di coercizione, che chiama «Supreme Economic Council» (Consiglio Economico Superiore) non solo è «onnipresente e onnisciente», ma è anche «onnipotente» per ciò che riguarda la sua capacità di introdurre cambiamenti se ne avverte la necessità.15 D’altra parte, tuttavia, il fatto che i gestori delle diverse imprese del sistema socialista siano sottomessi all’organo di pianificazione non vuol dire che per Dickinson non abbiano la possibilità di fare liberamente determinate scelte.16 In effetti, secondo Dickinson le imprese del sistema socialista dovranno disporre, ciascuna di esse, del capitale corrispondente, tenendo i propri conti di perdite e guadagni, ed essendo «gestite» nel modo più simile possibile a come si gestiscono le imprese del sistema capitalista.

Dickinson si rende chiaramente conto che è necessario che i gestori siano finanziariamente responsabili dell’andamento delle proprie imprese, dal momento che dovranno partecipare sia alle perdite sia agli utili che si produrranno. Quello che il nostro autore non spiega è come si possa ottenere questa responsabilità finanziaria in un sistema in cui si impedisca necessariamente la proprietà privata dei mezzi di produzione. Come sappiamo dal Capitolo II di questo libro, dove non c’è proprietà privata dei mezzi di produzione e l’uomo non può ottenere liberamente i benefici della sua azione, non nasce l’imprenditorialità coordinativa dei processi sociali. Inoltre, Dickinson ritiene che benché il fatto di ottenere benefici non presupponga necessariamente una manifestazione di successo imprenditoriale, il fatto di incorrere in perdite sì che significa sempre un fallimento o un errore di tipo gestionale.17 Com’è logico, se si eleva al rango di principio questa «intuizione» di Dickinson, è chiaro che i gestori cercheranno piuttosto di essere dei funzionari conservatori, sempre timorosi di cominciare nuove attività, di introdurre innovazioni tecnologiche e commerciali, di modificare il processo produttivo, ecc., perché andare incontro a perdite sarà considerato sempre come un errore, sfavorevole per la carriera professionale dell’interessato, mentre non è sicuro che i possibili benefici vengano riconosciuti come successi.

Dickinson vuole risolvere il problema che pone la motivazione e la remunerazione dei gestori stabilendo un sistema di «bonus» o pagamenti finanziari in funzione dei risultati ottenuti dall’impresa gestita da ciascun funzionario. Questi bonus, logicamente, non saranno uguali ai benefici imprenditoriali, non solo perché ciò implicherebbe, in pratica, la reintroduzione del denigrato sistema capitalista, ma anche perché, come abbiamo appena detto, secondo Dickinson, l’esistenza di benefici non è, in tutti i casi, un segnale di efficienza. Con questa proposta, Dickinson cade di nuovo nelle trappole del modello

15 Si veda Dickinson, The Economics of Socialism, pp. 103, 113 e 191. Riguardo a questi qualificativi (onnisciente e onnipresente) che Dickinson attribuisce all’organo di pianificazione, Mises fa il seguente commento ironico: «It is vain to comfort oneself with the hope that the organs of the collective economy will be “omnipresent” and “omniscient”. We do not deal in praxeology with the acts of omnipresent and omniscient Deity, but with the actions of men endowed with a human mind only. Such a mind cannot plan without economic calculation.» Ludwig von Mises, Human Action, opera citata, p. 710. E 14 pagine prima, nella 696, leggiamo anche che «we may admit that the director or the board of directors are people of superior ability, wise and full of good intentions. But it would be nothing short of idiocy to assume that they are omniscient and infallible». 16 «Because the managers of socialist industry will be governed in some choice by the direction laid down by the planning authority, it does not follow that they will have no choice at all.» Vedere Dickinson, The Economics of Socialism, opera citata, p. 217. 17 In effetti, per Dickinson, il principio essenziale sarebbe che «although the making of profits is not necessarily a sign of success, the making of losses is a sign of failure». Dickinson, The Economics of Socialism, opera citata, p. 219.

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statico. In effetti, il sistema di bonus presuppone implicitamente, come già sappiamo,18 che l’organo incaricato di concederli disponga di un’informazione che è impossibile che possa riuscire a ottenere dato il suo carattere soggettivo, disperso e non articolabile. Concedere bonus in funzione dei risultati implica che si possa conoscere o sapere se questi risultati siano stati favorevoli o sfavorevoli. Dunque, se è possibile che un organo di pianificazione sappia se i risultati sono positivi o negativi, è chiaro che non è necessario l’esercizio di nessuna funzione imprenditoriale per creare tale informazione. Ma se si deve permettere il libero esercizio dell’imprenditorialità perché nasca l’informazione, non ha alcun senso stabilire un sistema di bonus, poiché finché tale informazione non sia nata non si sa se l’esercizio dell’imprenditorialità avrà successo o no. Questo e nessun altro è l’argomento essenziale scoperto ed enunciato da Kirzner contro i diversi tentativi (fino ad ora tutti falliti) di stabilire sistemi di incentivi nei paesi socialisti.19 Il successo imprenditoriale è qualcosa che può essere giudicato solo soggettivamente da parte dell’uomo che sta esercitando la funzione imprenditoriale corrispondente. Si valuta in modo globale incorporando non solo i corrispondenti benefici finanziari, ma anche tutte le altre circostanze che sono valutate soggettivamente come benefici dall’agente.Questo beneficio, inoltre, si va formando in modo continuo, variabile (per ciò che riguarda la sua importanza e la sua natura), orientando continuamente l’azione dell’imprenditore poiché gli fornisce l’informazione del cammino che deve seguire. Al contrario, il sistema di bonus è un sistema che, alla meglio, può essere utile a livello dirigenziale, ma non a livello imprenditoriale. I bonus si concedono a posteriori, in funzione di un’informazione oggettiva, e secondo ciò che sia stato stabilito o pattuito precedentemente in un modo completamente articolato e inequivocabile. I bonus non orientano l’azione, dal momento che si concedono in modo rigido e oggettivo in seguito a fatti che sono già accaduti. E, soprattutto, la loro concessione implica un giudizio interpretativo sui fatti che ha senso solo se è fatto in modo imprenditoriale, ma non se è il risultato degli ordini di un organo centrale di pianificazione (a cui manca l’informazione necessaria per concederli in modo non arbitrario), o sono stati stabiliti previamente con carattere generale in funzione del compimento di determinati parametri più o meno misurabili.

In definitiva, quello che Dickinson non capisce è che esistono due significati molto diversi del termine «incentivi». In primo luogo, bisogna concepire un significato ristretto, rigido e praticamente irrilevante del termine «incentivi», secondo il quale si tratta di disegnare meccanismi per motivare gli agenti economici a fare buon uso (d’accordo con la «regola» prestabilita) dell’informazione oggettiva di cui già dispongono. Non è questo il significato che stiamo dando al termine dall’inizio di questo libro, e che è molto più ampio, preciso e rilevante per l’economia: per noi gli incentivi sono costituiti da tutti i fini che umanamente si riesca a concepire e creare ex novo e in funzione dei quali gli umani non solo trasmettono l’informazione oggettiva che già possiedono, ma, e questo è molto più importante, fanno in modo che si crei e si scopra in ogni momento l’informazione soggettiva che prima non possedevano e che è imprescindibile per raggiungere i fini

18 Vanno qui riprodotti tutte le argomentazioni critiche sul sistema di bonus e incentivi che abbiamo esposto alla fine della critica 7 al modello classico di Lange nel Capitolo VI. 19 Riportando le parole dello stesso Kirzner, e ricordando la citazione 70 del Capitolo VI,«incentives to socialist managers deny the essential role of entrepreneurial discovery». Vedere Discovery and the Capitalist Process, opera citata, pp. 34 a 37. Don Lavoie, da parte sua, riassume le argomentazioni austriache contro il sistema socialista di bonus e incentivi nel modo seguente: «This implies that the planning board that examines the individual profit and loss accounts must be in a position to distinguish genuine profit from monopoly gain in the standard sense. However, this evades the question under consideration, since the calculation argument contents that the planning board would lack the knowledge that decentralized initiative generates and that this knowledge is revealed only in profit and loss accounts. There is no superior store of knowledge against which profit figures can be compared, so that the managers’ remuneration correspondingly altered.» Vedere Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, opera citata, pp. 138-139.

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proposti. In un sistema socialista, anche se si può cercare goffamente di stabilire «incentivi» nel primo significato, impedendo forzosamente in modo sistematico la libera e completa appropriazione dei fini o risultati dell’ attività imprenditoriale di ciascuno, si rende impossibile, per definizione, stabilire incentivi intesi nel loro secondo significato, ampio e reale.

Parallelamente, Dickinson propone anche che si concedano bonus o incentivi per la sperimentazione e l’innovazione tecnologica, come se l’organo centrale di pianificazione potesse possedere la quantità e la qualità di informazione necessarie per poter giudicare che progetti vale la pena finanziare e quali no, così come che risultati della sperimentazione si ritiene abbiano avuto successo e quali no. Però, e usando le parole di Don Lavoie, «the idea of specified incentives as a deliberate planning device is contradictory to the idea of experimentation as a genuinely decentralized discovery procedure. If the central planning board does not have the knowledge necessary to differentiate bold initiative from reckless gambling, it could not allocate incentives among manager to encourage the one and discourage the other».20 Questo stesso problema si riproduce inesorabilmente in modo identico in quei governi occidentali che pretendono di «incentivare» attraverso sovvenzioni e altri aiuti statali sia la ricerca scientifica sia lo sviluppo culturale e artistico. In tutti questi casi, corrispondenti organi dell’Amministrazione finiscono per concedere gli aiuti, le sovvenzioni o gli incentivi in modo puramente arbitrario e, in perfetta consonanza con le predizioni della Scuola della Scelta Pubblica, e in mancanza di altri criteri migliori, concedono gli aiuti per amicizia, influenze politiche, ecc., fallendo purtroppo al momento di fomentare l’innovazione tecnologica o lo sviluppo culturale o artistico di vera categoria.

Dickinson, nella sua trattazione della funzione imprenditoriale, cade in modo implicito ed esplicito nei presupposti di informazione completa, società statica e assenza di cambiamenti che convertono tutti i problemi economici in questioni puramente tecniche che possono essere risolte da semplici gestori, focalizzazioni che tanto abbiamo criticato in tutto questo libro, e che mettono in evidenza l’incapacità del nostro autore di affrontare il problema del calcolo nelle economie socialiste. Il fatto è che, per dirla con Mises, «the capitalist system is not a managerial system; it i san entrepreneurial system»,21 e Dickinson si trova tra quelli che confondono la funzione imprenditoriale con la funzione gestionale e che, pertanto, chiudono inevitabilmente gli occhi davanti al vero problema economico.

Infine, è curioso constatare l’ingenuità di Dickinson nel credere che il suo sistema permetterebbe di stabilire, per la prima volta nella storia dell’umanità, un «individualismo» e una «libertà» veramente efficaci, cioè, una specie di «socialismo libertario» di grande «attrattiva» intellettuale.22 Tuttavia, e dato l’enorme potere che l’organo centrale di pianificazione dovrebbe avere nel modello di Dickinson, insieme con la sua caratteristica arbitrarietà, la manipolazione della propaganda e l’impossibilità di portare a termine il

20 «L’idea di stabilire specifici incentivi come strumento di pianificazione è in contraddizione con l’idea della sperimentazione come processo di scoperta genuinamente decentralizzato. Se l’organo centrale di pianificazione non ha la conoscenza necessaria per distinguere le iniziative audaci dalle scommesse temerarie, non potrà distribuire incentivi fra i gestori per favorire le une e impedire le altre». Don Lavoie, Rivalry and Central Planning, opera citata, p. 139. 21 «Il sistema capitalista non è un sistema gestionale, ma un sistema imprenditoriale.» Ludwig von Mises, Human Action, opera citata, p. 708. Mises aggiunge nella successiva p. 709 che «one cannot play speculation and investment. The speculators and investors expose their own wealth , their own destiny…If one relieves them of this responsibility, one deprives them of their very character. They are no longer businessmen, but just a group of men to whom the director has handed over his main task, the supreme direction of economic affairs. Then they – and not the nominal director – become the true directors and have to face the same problem the nominal director could not solve: the problem of calculation.» 22 Dickinson, The Economics of Socialism, opera citata, p. 26.

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calcolo economico, il suo sistema socialista sarebbe, come minimo, un sistema molto autoritario, in cui la libertà individuale sarebbe enormemente indebolita e le possibilità che un sistema veramente democratico funzionasse sarebbero nulle. Inoltre, lo stesso Dickinson riconosce (e l’affermazione è tanto grave che è necessario riportarla letteralmente) che «in a socialist society the distinction, always artificial, between economics and politics will break down; the economic and the political machinery of society will fuse into one».23 Come ha messo in evidenza Hayek,24 questa affermazione di Dickinson riassume una delle dottrine preconizzate con maggiore fermezza da nazisti e fascisti. Se non si può distinguere la politica dall’economia, sarà imprescindibile che sia preponderante e si imponga a tutti gli agenti e membri della società un’unica scala di valori riguardo a tutti gli estremi della vita umana, cosa che, com’è logico, si potrà portare a termine solo mediante l’uso generalizzato della forza e della costrizione. Precisamente la «politica» fa sempre riferimento alla costrizione, alla forza e al mandato istituzionali e sistematici (cioè, al socialismo, esattamente come lo abbiamo definito fin dall’inizio di questo libro), mentre l’«economia» fa riferimento al contratto volontario, al libero esercizio della funzione imprenditoriale, e al fatto che tutti gli individui possano perseguire pacificamente i loro più svariati fini all’interno di un ambito giuridico di scambio e cooperazione. La grande meraviglia della vita in una società capitalista mossa dalla forza dell’imprenditorialità radica nel fatto che in essa ogni persona o agente economico impara a disciplinare e a modificare volontariamente il suo comportamento in funzione delle necessità e dei desideri degli altri, e tutto questo in un contesto in cui ciascuno persegue i fini più svariati, ricchi e imprevisti. E questo è qualcosa che Dickinson, evidentemente, non ha mai voluto e non è mai stato capace di capire. Il contributo di Abba Ptachya Lerner al dibattito

Gli apporti di Lerner al dibattito non hanno preso la forma di risposte esplicite ai libri e agli articoli di Mises o Hayek, ma, al contrario, furono semplicemente raccolte in una serie di articoli pubblicati negli anni 30, nei quali commentava e criticava le proposte di altri teorici socialisti che erano intervenuti nel dibattito e soprattutto quelle di Lange, Durbin, Dickinson e Dobb.25 In seguito e in aggiunta, Lerner incluse una serie di commenti rilevanti per il tema che ci interessa nel suo libro The Economics of Control (L’economia del controllo) che fu pubblicato nell’anno 1944.26

Lerner pretende di affrontare nei suoi articoli non solo i problemi di statica, ma anche i problemi «dinamici» che pone l’economia socialista. Inoltre, nel suo libro The Economics of Control menziona espressamente27 che la pianificazione totale esigerebbe una

23 «In una società socialista, la distinzione sempre artificiale tra economia e politica sparirebbe, il macchinario economico e quello politico della società si fonderebbero in uno solo.» Dickinson, The Economics of Socialism, opera citata, p. 235. 24 Vedere F.A. Hayek, «Socialist Calculation III: The Competitive Solution», in Individualism and Economic Order, opera citata, pp. 206-207. 25 Gli articoli di Lerner più rilevanti per il dibattito sul calcolo economico socialista sono i seguenti: «Economic Theory and Socialist Economy», pubblicato sulla Review of Economic Studies, n.º 2, ottobre del 1934, pp. 51 a 61; «A Rejoinder», Review of Economic Studies, n.º 2, febbraio del 1935, pp. 152 a 154; «A Note on Socialist Economics», Review of Economic Studies, n.º 4, ottobre del 1936, pp. 72 a 76; «Statics and Dynamics in Socialist Economics», Economic Journal, n.º 47, giugno del 1937, pp. 253 a 270; e, infine, «Theory and Practice of Socialist Economics» pubblicato sulla Review of Economic Studies, n.º 6, ottobre del 1938, pp. 71 a 75. 26 Abba P. Lerner, The Economics of Control. Principles of Welfare Economics, Macmillan, New York 1944. Esiste una traduzione in spagnolo di Edmundo Flores pubblicata dal Fondo de Cultura Económica (Fondo di Cultura Economica) in Messico nel 1951 con il titolo di Teoría Económica del Control. Principios de Economía del Bienestar (Teoria Economica del Controllo. Principi di Economia del Benessere). 27 A.P. Lerner, The Economics of Control, opera citata, p. 119.

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conoscenza centralizzata di ciò che succede in ogni fabbrica, delle modifiche giornaliere che si producono nella domanda e nell’offerta, così come dei cambiamenti nella conoscenza tecnica in tutti i rami della produzione, cosa che non è concepibile supporre che un organo centrale di pianificazione possa raggiungere, per cui non rimane altro da fare che ricorrere al «meccanismo» dei prezzi. Tuttavia, e nonostante tutte queste osservazioni, l’apporto di Lerner continua a basarsi implicitamente ed esplicitamente, così come quelli del resto dei teorici del socialismo di mercato, sul presupposto che tutta l’informazione necessaria per portare a termine la sua proposta dovrebbe essere disponibile, per cui neanche Lerner è stato capace di rispondere alla sfida di Mises né, pertanto, di dare una soluzione al problema del calcolo economico socialista. Inoltre, bisogna anche constatare che Lerner è stato l’esponente più estremista al momento di difendere il modello dell’equilibrio come fondamento «teorico» per il socialismo e di ignorare e respingere la necessità di studiare i problemi veramente interessanti posti dall’imprenditorialità. Vediamo tre esempi concreti che illustrano molto chiaramente questa posizione tipica di Lerner.

In primo luogo, dobbiamo menzionare l’analisi critica che Lerner fa delle regole dei costi enunciate precedentemente dai diversi teorici del socialismo di mercato in generale, e da Taylor, Lange e Durbin in particolare. In effetti, Lerner critica l’utilizzazione da parte di Taylor del principio di uguagliare il prezzo ai costi medi totali. Critica anche l’approccio delle regole di Lange, per cercare di simulare più il «meccanismo» del mercato che lo stato finale a cui esso tende; ed è specialmente critico riguardo all’applicazione delle regole di Durbin che, secondo lui, presuppongono un ritorno al principio pratico di stabilire i prezzi in funzione dei costi medi, esigendo ai gestori che producano il volume più elevato che sia compatibile con l’ottenimento di un livello «normale» di benefici.28

Secondo Lerner, non è tanto importante trovare una regola pratica quanto perseguire direttamente l’obbiettivo finale del sistema socialista, che si avrà soltanto assicurandosi che nessun fattore o ricorso venga utilizzato per produrre un bene o servizio trascurando la produzione di altri che abbiano un valore più alto. Questo si può ottenere soltanto ordinando ai gestori che facciano in modo in ogni caso che i prezzi siano uguali ai costi marginali (CM = P), principio che, anche se coincide con quello della seconda regola di Lange, deve essere perseguito in modo esclusivo e senza l’ossessione che, secondo Lerner, aveva Lange di simulare il funzionamento di un mercato competitivo. Secondo Lerner, non è necessario insistere, come fa Durbin, sul fatto che i gestori ottengano benefici «normali», dato che tale tipo di benefici non sono se non una manifestazione o sintomo di una situazione di equilibrio statico, e quello di cui ha veramente bisogno il sistema socialista è una guida per l’assegnazione delle risorse produttive in un mondo «dinamico». Vediamo, pertanto, come la presunta «analisi dinamica» di Lerner si limiti a cercare di trovare una regola che si possa applicare, a suo parere, a tutte le circostanze che si verifichino giorno per giorno nel sistema socialista. Tuttavia, paradossalmente, la soluzione di Lerner è altrettanto statica di quelle che erano state proposte da Durbin, Lange o Dickinson, e, pertanto, dobbiamo ripetere qui tutta la critica che abbiamo fatto in dettaglio precedentemente alla regola di stabilire i prezzi in funzione dei costi marginali. Ora basta che ripetiamo che i costi marginali non hanno un carattere «obbiettivo», nel senso che siano dati e possano essere osservati inequivocabilmente da una terza 28 Tibor Scitovsky, «Lerner’s Contribution to Economics», Journal of Economic Literature, dicembre del 1984, volume XXII, n.º 4, pp. 1547 a 1571, e specialmente la p. 1552. Scitovsky fa un riassunto del dibattito sul calcolo economico socialista e l’intervento di Lerner (p. 1551) che mette in evidenza la sua assoluta incomprensione del contenuto dello stesso, e anche che ha utilizzato solo determinate fonti secondarie le cui referenze non corrispondono con la realtà di come si sono svolti gli avvenimenti. Che a questo punto del secolo degli esimi economisti continuino a scrivere certe cose è assolutamente demoralizzante. Riguardo a Lerner è altrettanto interessante l’introduzione di Karen Vaughn al libro di T.J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Economy, opera citata, pp. xxiv a xxvi, e il Capitolo 12 di questo stesso libro, pp. 224 a 236.

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persona. Al contrario, sono un’informazione tipicamente imprenditoriale, cioè, che si viene generando in modo soggettivo, disperso, tacito, pratico e non articolabile nella mente di coloro che esercitano liberamente la loro azione umana o funzione imprenditoriale, per cui non si può supporre che l’informazione relativa ai costi venga creata o scoperta da alcuni gestori che, essendo stata eliminata la proprietà privata dei mezzi di produzione, non possono esercitare liberamente la loro funzione imprenditoriale. E ancor meno, si può supporre che tale informazione possa essere trasmessa all’organo centrale di pianificazione e che questo, in qualche modo, sia capace di controllare che i responsabili delle diverse industrie stiano portando a termine il compimento della norma (CM = P).

In secondo luogo, curiosamente, lo stesso Lerner si rende conto che i prezzi rilevanti che devono essere presi in considerazione nella sua regola (CM = P) non sono i prezzi «presenti» (o quelli che si sono dati nel mercato, anche se in un passato recente), ma i prezzi futuri così come sono previsti dagli agenti economici («expected future prices).29 Pertanto, e in accordo con questa osservazione, la regola essenziale di Lerner deve essere stabilita in modo che ogni gestore pareggi i prezzi ai costi marginali secondo le proprie aspettative. Dunque, non solo è impossibile che sorgano queste aspettative se i gestori non possono esercitare liberamente la loro funzione imprenditoriale (non esistendo la proprietà privata dei mezzi di produzione), ma diventa anche teoricamente impossibile che un qualche ispettore burocratico membro dell’organo centrale di pianificazione possa verificare in modo oggettivo se la regola venga osservata o no (cioè, se ogni gestore stia agendo correttamente o meno «secondo le proprie aspettative»). Lerner, pertanto, intuisce un’idea che è basicamente corretta, ma non si rende conto che essa distrugge e converte in una completa assurdità tutta la sua proposta.

D’altra parte, e in terzo luogo, Lerner ritiene che la questione relativa a se l’organo centrale di pianificazione possa valutare in modo più o meno esatto degli imprenditori che agiscono in una società competitiva quali saranno i costi marginali attesi nel futuro, sia di tipo «sociologico» o «pratico» e che, pertanto, non appartenga al campo della «teoria economica».30 Inoltre, Lerner critica espressamente il tentativo di Durbin di analizzare gli effetti pratici che il socialismo avrebbe sugli incentivi e il modo di agire dei gestori nel sistema socialista, indicando scherzosamente che Durbin, nell’affrontare tale impegno, stava cercando di risolvere un problema che non aveva niente a che vedere con quello della possibilità teorica del calcolo economico nelle economie socialiste.31 È evidente che colui che sta rispondendo a una domanda sbagliata, e inoltre con degli strumenti analitici e delle conclusioni «teoriche» inadeguate ad affrontare il problema posto da Hayek e Mises sull’impossibilità del calcolo economico razionale in un sistema socialista, è lo stesso Lerner.In effetti costui, rifugiandosi in un ipotetico sistema in cui si insegna agli agenti economici ad agire in un determinato modo, senza interessarsi per nulla se saranno capaci o no di agire in quel modo basandosi sull’informazione che possono creare o generare e sugli incentivi che hanno a quello scopo, si sta escludendo deliberatamente dai problemi teorici rilevanti e si sta rifugiando nell’asettico nirvana dell’equilibrio generale e dell’economia del benessere.

L’ossessione di Lerner per l’equilibrio e la statica è messa in evidenza specialmente nella sua critica a Oskar Lange, che ritiene che cerchi di riprodurre o di simulare i meccanismi della concorrenza senza necessità, quando secondo lui la questione 29 Abba P. Lerner, «Statics and Dynamics in Socialist Economics», opera citata, pp. 253, 269 e 270. 30 Riportiamo le parole dello stesso Lerner: «The question is then the sociological one, whether the socialist trust is able to estimate this future value more accurately or less accurately than the competitive owner of the hired instrument, and here we leave pure economic theory.» Vedere Statics and Dynamics in Socialist Economics, opera citata, p. 269. 31 In effetti, Lerner ha scherzosamente paragonato Durbin con quello «schoolboy in the examination room who wrote “I do not know the social effects of the French Revolution, but the following were the kings of England”» («A Rejoinder», opera citata, 1938, p. 75).

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veramente importante consiste nell’articolare le condizioni necessarie per definire l’«ideale socialista» dal punto di vista dell’ «economia del benessere», indipendentemente da quale sia il metodo che si utilizza per raggiungere tale ideale. Effettivamente, non si tratta neanche più di stabilire un modello di concorrenza «perfetta», (benché tale modello di «concorrenza» non abbia niente a che vedere con la concorrenza che c’è tra gli imprenditori nella vita reale), ma l’importante è definire, il più chiaramente possibile, la situazione del nirvana o «paradiso» che descrive l’ «economia del benessere», lasciando alla sociologia, la psicologia e la politica il compito di scoprire i sistemi pratici più adeguati per raggiungere tale «paradiso» per mezzo della coazione.32 Lerner insiste, pertanto, che più che simulare un sistema di «concorrenza perfetta in equilibrio», attraverso il metodo di prova ed errore o di qualsiasi altro, ciò che bisogna fare è cercare di raggiungere direttamente l’optimum sociale, dando istruzioni ai gestori perché uguaglino i prezzi ai costi marginali.

Di tutti i teorici che abbiamo analizzato fino ad ora, forse è Lerner il più influenzato dall’ ipnotismo del modello neoclassico dell’equilibrio generale e dell’ economia del benessere; e questo a tal punto, che considera al di fuori del campo della «teoria» qualsiasi analisi che non si riferisca ai presupposti, alle implicazioni e all’esposizione formale dell’economia del benessere. Questa è la spiegazione del perché preconizzi con insistenza unicamente ed esclusivamente che i gestori delle imprese siano istruiti a seguire i dettami dei principi dell’economia del benessere, e proprio con questo obbiettivo scrisse nel 1944 il suo Economics of Control, come manuale pratico di interventismo o libro di ricette dell’economia neoclassica dell’equilibrio e del benessere, da utilizzarsi direttamente nella pratica dell’ingegneria sociale da parte dei burocrati dell’organo centrale di intervento o pianificazione, aiutandoli e facilitandoli nel loro «arduo compito» di esercitare coazione sistematica in campo economico sul resto della cittadinanza.33

32 Effettivamente, alla p. 74 dell’articolo già citato «A Note on Socialist Economics», apparso nel 1936, Lerner scisse: «Methodologically my objection is that Dr. Lange takes the state of competitive equilibrium as his end, while in reality it is only a means to the end. He fails to go behind perfect competitive equilibrium and to aim at what is really wanted. Even though it be true that if the state of classical static perfectly competitive equilibrium were reached and maintained in its entirety the social optimum which is the real end would thereby be attained, it does not follow that it is by aiming at this equilibrium that one can approach most nearly the social optimum that is desired.» 33 Un’altra prova del carattere statico dell’analisi di Lerner, nel senso che presuppone che l’organo di intervento o pianificazione disponga di tutta l’informazione necessaria per agire, è fondata sul suo sviluppo della teoria dello «speculatore produttivo», la cui funzione sarebbe di beneficio e si dovrebbe preservare in un’economia «controllata»; e che è indispensabile distinguere dallo speculatore «monopolista o aggressivo» la cui funzione deve essere neutralizzata mediante il meccanismo che Lerner definisce come «controspeculazione» (vedere The Economics of Control, opera citata, pp. 69 e 70). Quello che Lerner non dice è che, dal momento che la differenza che cerca di creare si basa interamente nei motivi soggettivi dell’attività speculativa intrapresa, non esiste alcuna possibilità di distinguere oggettivamente tra l’uno e l’altro tipo di speculazione, poiché non esiste un criterio oggettivo e inequivocabile che permetta di descrivere e interpretare quali siano le motivazioni umane soggettive. Come ha messo in evidenza Murray N. Rothbard nella sua analisi sul monopolio nella sua opera Man, Economy and State (Nash Publishing, Los Angeles 1972, volume II, Capitolo 10, pp. 586 – 620; esiste una traduzione in spagnolo di questo articolo fatta da Carmen Liaño, con il titolo di «Lo ilusorio del precio del monopolio» (L’illusorietà del prezzo del monopolio), pubblicata nel volume I delle Lecturas de Economía Politíca (Letture di Economia Politica), Jesús Huerta de Soto (ed.), opera citata, pp. 181-211), la distinzione tra prezzi di «concorrenza» e prezzi di «monopolio» è teoricamente assurda, dal momento che i secondi vengono riferiti in funzione dei primi, e che nella vita reale non si sa quali sarebbero stati gli ipotetici prezzi di equilibrio in un mercato di «concorrenza perfetta», non esiste nessun criterio teorico oggettivo per determinare se ci troviamo o no di fronte a una situazione di monopolio. Inoltre, come ha messo in evidenza Kirzner (Competition and Entrepreneurship, opera citata, Capitolo 3, pp. 88-134), il problema della «concorrenza» versus il «monopolio», intesi entrambi nel loro significato statico come situazioni o modelli di equilibrio, è un problema irrilevante, poiché ciò che è veramente importante è analizzare se esiste o no un processo reale mosso dalla forza imprenditoriale di

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Lerner non si rende conto che ragionando in questo modo cade nella trappola che egli stesso si è costruito. In effetti, la meravigliosa campana di vetro dell’economia del benessere lo mantiene isolato in una perfetta immobilità dai problemi economici reali che pone il socialismo e gli permette di «immunizzarsi» totalmente (o almeno così lui crede) rispetto alle critiche teoriche formulate da Mises e Hayek. Però quello che sta realmente succedendo è che la campana di vetro non è trasparente, ma opaca, per cui a Lerner mancano gli strumenti analitici necessari non solo per risolvere i problemi economici rilevanti, ma anche per poterli soltanto riconoscere. L’isolamento nel paradigma dell’economia del benessere è così profondo, che Lerner ritiene addirittura che le differenze che ci sono nel mondo reale rispetto al modello di equilibrio di «concorrenza perfetta» sono un chiaro «difetto» o «fallo» del sistema capitalista (che il socialismo, almeno potenzialmente, è capace di correggere con la forza), più che un difetto dello stesso strumento analitico del modello. Cioè, se il mondo non si comporta come lo descrive la teoria del nirvana, distruggiamo il mondo e costruiamo il nirvana, ma non cerchiamo mai di correggere la teoria per cercare di capire o spiegare come funziona il mondo e che cosa vi succede realmente.34 Si può, pertanto applicare pienamente a Lerner la critica che Tadeusz Kowalik fa a Lange35 nel senso di considerare che a quest’ultimo autore sono mancati gli strumenti analitici necessari non solo per risolvere il problema del calcolo economico socialista, ma addirittura per capire e analizzare dettagliatamente i problemi economici realmente importanti.36

natura competitiva e che si eserciti libera da restrizioni di tipo governativo, indipendentemente dal fatto che il risultato della creatività imprenditoriale sembri a volte plasmarsi in situazioni «monopoliste» o «oligopoliste». 34 Si veda a questo proposito il commento di Don Lavoie alla p. 129 (nota 8) del suo Rivalry and Central Plannong, e che si riferisce all’articolo di Abba P. Lerner «The Concept of Monopoly and the Measurement of Monopoly Power», pubblicato sulla Review of Economic Studies, nel 1934, n.º 1, p. 157 a 175. E anche il mio articolo «La Crisi del Paradigma Walrasiano», pubblicato su El País, Madrid, 17 dicembre 1990, p. 36. 35 In effetti, Kowalik ci mostra come, alla fine della vita di Lange abbia ricevuto una sua lettera datata il 14 agosto del 1964, nella quale gli indicava che «what is called optimal allocation is a second-rate matter, what is really of prime importance is that of incentives for the growth of productive forces (accumulation and progress in technology); this is the true meaning of so to say “rationality”». E Kowalik afferma che «it seems that he must have lacked the indispensable tools to solve this question or even to present it in detail». Vedere l’articolo di Kowalik su «Lange-Lerner Mechanism», pubblicato nel volume III, di The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata, p. 131. D’altra parte, e come indica Kowalik, sembra che Lange in alcuni momenti della sua vita sia stato d’accordo con le conclusioni di Lerner. Effettivamente, nella sua opera «The Economist Case for Socialism», apparsa nel 1938, e inclusa nella versione spagnola del libro edito da Lippincot (p. 110 e 116 della versione spagnola di Sobre la Teoría Económica del Socialismo (Sulla Teoria Economica del Socialismo), scrisse:«The really important point in discussing the economic merits of socialismi is not that of comparing the equilibrium position of a socialist and of a capitalist economy with respect to social welfare. Interesting as such a comparison is for the economic theorist, it is not the real issue in the discussion of socialism. The real issue is whether the further maintenance of the capitalist system is compatible with economic progress.» In effetti, Lange non credeva che il sistema capitalista potesse mantenere il ritmo di crescita economica e di innovazione tecnologica di cui si era vantato dalla rivoluzione industriale fino alla Grande Depressione. Difficilmente avrebbe creduto che, poco più di una generazione dopo la sua morte, il problema economico fondamentale avrebbe fatto un giro di più di 180 gradi, essendosi evidenziato che è il sistema socialista, e non quello capitalista, quello che non è compatibile né con il progresso economico né con l’innovazione tecnologica ( A parte le altre evidenti incompatibilità con la libertà e la democrazia). 36 Un caso curioso, trattandosi di un autore i cui strumenti analitici sono quelli tipici di un economista dell’equilibrio appartenente al moderno paradigma neoclassico e che, tuttavia, è un ardente difensore dell’economia capitalista di fronte ai sistemi socialisti, è quello di Milton Friedman. Questo fatto giustifica il fatto che gli studi teorici critici del socialismo di Milton Friedman non siano capaci né di apprezzare il nocciolo della sfida teorica posta da Mises (che praticamente non cita mai e che spesso disdegna), né di spiegare l’essenza teorica dell’impossibilità del calcolo economico socialista. Effettivamente, a Friedman manca un’elaborata teoria della funzione imprenditoriale e, pertanto,del funzionamento dei processi dinamici che ci sono nel mercato e che sono sempre mossi da essa. Per questo, le sue «analisi critiche» del socialismo non sono se non un insieme di aneddoti di tipo empirico, relativi a interpretazioni di quello che

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succede nel mondo socialista reale, o a vaghe osservazioni sul problema che pone l’assenza di «incentivi» (intesi nel senso «stretto» che abbiamo tanto criticato parlando di Dickinson) nelle economie socialiste. Una prova palpabile delle insufficienze analitiche di Milton Friedman in questo campo è la sua opera Market or Plan?, pubblicata dal Center for Research into Comunist Economies (Centro per la Ricerca nelle Economie Socialiste),Londra 1984. In questo breve libercolo, Friedman arriva addirittura ad affermare che gli scritti di Lange, in generale, e, in particolare, il libro di Lerner The Economics of Control è «an admirable book that has much to teach about the operation of a free market; indeed, much more, I believe, than about their actual objective, how to run a socialist state» (opera citata, p. 12). Friedman non si rende conto che se i lavori di Lerner e Lange sono irrilevanti per dare fondamento teorico a un sistema socialista, ciò è dovuto proprio alla loro profonda incomprensione di come funziona realmente il sistema capitalista. O, detto al contrario, se Mises e Hayek sono stati capaci di costruire tutta una teoria riguardo all’impossibilità del socialismo, ciò è dovuto, precisamente, alla loro profonda conoscenza teorica di come in realtà funziona il sistema capitalista. Abbiamo il grande timore, pertanto, che la lode che Friedman fa del libro di Lerner mette in evidenza la pochezza teorica dello stesso Friedman per ciò che riguarda la sua concezione dei processi dinamici del mercato mossi dalla funzione imprenditoriale. Friedman, inoltre, oggettivizza senza necessità il sistema di prezzi, considerandolo come un meraviglioso «trasmettitore» di informazione, apparentemente oggettiva, insieme all’«incentivo» necessario per utilizzarla adeguatamente. Non ha capito che il problema non è quello. Che i prezzi non «creano» né «trasmettono» informazioni, ma che queste funzioni possono essere portate a termine solo dalla mente umana nel contesto di un’azione imprenditoriale. E che la meraviglia del mercato non è che il sistema di prezzi agisca in modo «efficiente» trasmettendo informazione (Friedman, opera citata, pp. 9-10). La meraviglia del mercato è che è un processo che, mosso dalla forza imprenditoriale innata in ciascun uomo, crea costantemente nuova informazione, alla luce dei nuovi fini che ciascuno si pone e che, in interazione con altri uomini, dà luogo a un processo coordinativo per il quale tutti apprendiamo incoscientemente a regolare il nostro comportamento in funzione dei fini, desideri e circostanze degli altri. Cioè, i prezzi, più che trasmettere informazioni, creano opportunità di guadagno che vengono sfruttate dalla funzione imprenditoriale, che è quella che crea e trasmette nuova informazione, coordinando tutto il processo sociale. Infine, Friedman ritiene (p. 14) che il problema fondamentale in un sistema socialista sia quello di controllare se gli agenti economici portano a compimento le «regole» prestabilite. Questo non è il problema; il problema di base, come sappiamo, è che in un sistema in cui non esista libertà di esercizio della funzione imprenditoriale, non è possibile che si generi l’informazione necessaria per permettere, al momento di prendere delle decisioni, il calcolo economico razionale e il processo coordinativo che abbiamo appena menzionato. Solo in due punti, e in modo molto fugace, Friedman fa riferimento al problema economico fondamentale che abbiamo spiegato qui, ma dandogli un’importanza secondaria e senza analizzarlo dettagliatamente né studiare tutte le sue implicazioni. In un punto, si riferisce alla difficoltà di ottenere l’informazione necessaria a controllare i gestori (p. 14) che ha l’organo centrale di pianificazione, benché non si renda conto che tale tipo di informazione non si creerebbe neppure a livello dei gestori. E nella rassegna pubblicata da Milton Friedman sul libro di Lerner The Economics of Control (journal of Political Economy, n.º LV, ottobre del 1947, pp. 405 a 416; esiste una traduzione in spagnolo di Raimundo Ortega Fernández pubblicata con il titolo «Lerner y la Economía de Control (Lerner e l’Economia di Controllo)», pubblicata come Capitolo XI nel libro Ensayos Sobre Economía Positiva (Saggi sull’ Economia Positiva), di Milton Friedman, Casa Editrice Gredos, Madrid 1967), studiando i «meccanismi istituzionali per ottenere un optimum» Friedman critica vagamente Lerner per non aver preso in considerazione che i benefici presuppongono «un criterio di attuazione, e servono a determinare la capacità dell’imprenditore nel dominio delle risorse» (vedere alla p. 286 dell’opera spagnola citata); ma senza che Friedman, né in queste occasioni, né in nessun altra, sia stato capace di spiegare il perché dell’impossibilità teorica che il sistema proposto da Lange e Lerner potesse funzionare. Questo spiega come, spesso, Friedman cerchi di rifugiarsi nelle implicazioni non economiche (sulla libertà personale e di tipo politico ed etico) delle riforme istituzionali proposte dai sistemi socialisti, e come la sua critica teorica al socialismo sia molto debole. Questo lungo commento era indispensabile, dato che, in molte occasioni, si identifica Friedman con Hayek e Mises, come se formassero parte della stessa scuola, e proprio questo ha dato luogo a una profonda confusione tra gli economisti occidentali e dei paesi dell’Est che, non avendo studiato a fondo il problema, non si sono ancora resi conto delle profonde e radicali differenze di paradigma teorico esistenti tra l’uno e gli altri. La critica a Friedman si può estendere, in modo generale, al resto dei teorici della Scuola di Chicago, che, ossessionati dall’empirismo e centrati in un fantasmagorico equilibrio oggettivista (di origine ricardiana e marshalliana), non concepiscono che nel mercato ci sia altro problema di informazione che quello costituito dagli elevati «costi di transazione» per ottenerla. Questo è un errore, poiché presuppone, implicitamente, che l’agente sia capace di valutare a priori quali siano i costi e i benefici attesi dal suo processo di ricerca di informazione, cioè, presuppone l’assurda contraddizione che l’agente sappia valutare a priori quanto varrà l’informazione di cui non è ancora a conoscenza e, pertanto, rende radicalmente impossibile capire in che cosa consiste la funzione imprenditoriale e quali sono le sue

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2. «SOCIALISMO DI MERCATO»: L’IMPOSSIBILE QUADRATURA DEL CERCHIO

Come risultato della nostra analisi delle proposte di Oskar Lange e del resto dei «socialisti di mercato» della sua scuola,37 possiamo concludere che teoricamente e praticamente ci sono solo due alternative: o esiste una completa libertà per l’esercizio della funzione imprenditoriale (in un contesto di riconoscimento e difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione, e senza altre limitazioni che il minimo di norme tradizionali del diritto privato e penale necessarie ad evitare l’aggressione asistematica all’azione umana e l’inadempienza dei contratti); oppure si esercita pressione in modo sistematico e generalizzato sulla funzione imprenditoriale in aree più o meno estese del mercato e della società, e, in concreto, si impedisce la proprietà privata dei mezzi di produzione. In questo caso, non è possibile esercitare liberamente la funzione imprenditoriale nelle aree sociali interessate, e specialmente in quella dei mezzi di produzione, con l’inesorabile conseguenza dell’impossibilità, in tutte queste aree, del calcolo economico razionale che abbiamo già spiegato dettagliatamente nella nostra analisi. Come abbiamo dimostrato, il secondo sistema rende impossibile il coordinamento sociale e il calcolo economico, che si possono portare a termine solo in un regime di completa libertà per l’esercizio dell’azione umana. Quello che i «socialisti di mercato» hanno cercato di fare è elaborare una fantasmagorica «sintesi teorica» in cui, stabilendosi un sistema socialista (caratterizzato dalla sistematica coazione contro l’azione umana e per la proprietà pubblica dei mezzi di produzione), si mantenga comunque l’esistenza di un «mercato». Per ragioni ideologiche, romantiche, etiche o politiche, si rifiutano in modo ostinato e cocciuto di abbandonare il socialismo, e, molto colpiti dalle critiche di Mises e Hayek, cercano di reintrodurre il mercato nei loro schemi, con la vana speranza di ottenere «il meglio di entrambi i mondi», così come di rendere il loro ideale più popolare e attraente.

Ma quello che i socialisti non vogliono capire è che è sufficiente che si restringa violentemente la libera azione umana in qualsiasi area sociale, e specialmente in quella legata ai fattori o mezzi di produzione, perché il mercato, che è l’istituzione sociale per eccellenza, smetta di funzionare in maniera coordinatrice e non generi l’informazione pratica indispensabile per rendere possibile il calcolo economico. Quello che i «socialisti di mercato» non capiscono, insomma, è che non si può esercitare impunemente la violenza sistematica contro l’essenza più profonda dell’essere umano: la sua capacità di agire liberamente in qualsiasi circostanza concreta di tempo e di luogo.

O, per lo meno, i «socialisti di mercato» non lo hanno capito fino ad ora. Perché recentemente Brus e Laski ( che si sono autodefiniti «ex riformatori ingenui», antichi sostenitori per molti anni del «socialismo di mercato»), seguendo Temkin, hanno finito per fare loro le seguenti parole di Mises: «What these neosocialists suggest is really paradoxical. They want to abolish private control of the means of production, market exchange, market prices and competition. But at the same time they want to organize the implicazioni teoriche per l’economia. Gli errori della Scuola di Chicago risalgono a Frank H. Knight, per il quale «socialism is a political problem, to be discussed in terms of social and political psychology, and economic theory has relatively little to say about it» (Frank H. Knight, «Review of Ludwig von Mises’ Socialism», Journal of Political Economy, n.º 46, aprile 1938, pp. 267-268). Rothbard ha spiegato brillantemente come alla radice di questo errore di concezione ci sia non solo l’ossessione per l’equilibrio che abbiamo già commentato, ma anche l’assenza di una vera teoria del capitale, poiché, seguendo J.B. Clark, la Scuola di Chicago lo ha sempre considerato come un fondo mitico senza una struttura temporale, e che si auto riproduce automaticamente al margine di qualsiasi tipo di decisioni umane di tipo imprenditoriale. Si veda Murray N. Rothbard, «The End of Socialism and the Calculation Debate Revisited», The Review of Austrian Economics, volume 5, n.º 2, 1991, pp. 60-62. 37 Poco dopo gli apporti di Lange e Lerner, nel 1948, James E. Meade ha pubblicato il suo libro Planning and the Price Mechanism. The Liberal-Socialist Solution (George Allen and Unwin, Londra 1948), nel quale include un tipo di analisi e di proposte molto simili a quelle di Lange e Lerner, e che pertanto dobbiamo considerare come formanti parte dello stesso gruppo che abbiamo analizzato nel testo principale.

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socialist utopia in such a way that people could act as if these things were still present. They want people to play market as children play war, railroad or school. They do not comprehend how such childish play differs from the real thing it tries to imitate…A socialist system with a market and market prices is as self contradictory as is the notion of a triangular square.» O come, seguendo Mises, molto recentemente e in modo più netto, ha concluso Anthony de Jasay, per il quale parlare di «socialismo di mercato» è altrettanto contraddittorio che riferirsi «alla neve calda, a una prostituta vergine, a uno scheletro obeso, o a un quadrato circolare».38

Si può capire che questa ossessione per ottenere la «quadratura del cerchio» che implica tutto il «socialismo di mercato» sia stata oggetto di interesse e di sforzo a livello scientifico solo se si considerano le tre argomentazioni seguenti: in primo luogo, la forte motivazione politico-ideologica, che poco fa abbiamo definito addirittura ostinata e cocciuta, a non abbandonare l’ideale socialista, per ragioni passionali, romantiche, etiche o politiche; in secondo luogo, l’utilizzazione del modello neoclassico dell’equilibrio, che solo in modo molto limitato, povero e confuso descrive il funzionamento reale del mercato capitalista, e nel quale, poiché si suppone che l’informazione necessaria sia disponibile, si suggerisce che un sistema socialista potrebbe funzionare con le stesse premesse teoriche del modello statico; e, in terzo luogo, l’espressa rinuncia e addirittura la condanna ad analizzare teoricamente il funzionamento reale dell’azione umana in ambiti nei quali non esista la proprietà privata dei mezzi di produzione, con il pretesto che le considerazioni sugli incentivi e sulle motivazioni sono «estranee» al campo della «teoria» economica.

Alcuni autori socialisti propongono, tutt’al più, l’introduzione di «bonus» o «incentivi» che simulino goffamente i benefici imprenditoriali del mercato, senza arrivare a capire (e se questo succede agli stessi economisti che cosa potrà succedere a coloro che non sono esperti nella materia?) perché nel socialismo i gestori non dovrebbero agire come fanno gli imprenditori in un’economia di mercato, se si dà loro genericamente l’istruzione di farlo così, o di «agire in modo coordinato», o in «funzione del bene comune», ecc. Questi teorici non capiscono che le direttive generali, pur con tutte le buone intenzioni, non servono a niente al momento di prendere decisioni concrete riguardo ai problemi specifici che si presentano in determinate circostanze di tempo e di luogo. Che se noi umani ci dedicassimo ad agire solamente secondo l’istruzione coercitiva, tanto «opportuna» quanto vuota di contenuto, di «fomentare il bene comune», o di «coordinare i processi sociali» o, addirittura, di «amare il prossimo», finiremmo per forza per agire in modo scoordinato, contro il bene comune e danneggiando gravemente chi ci sta vicino e chi ci sta lontano, divenendo impossibile l’apprezzamento, in ogni circostanza concreta e in modo creativo, delle diverse opportunità di beneficio esistenti, così come della loro valutazione e del loro confronto con i costi soggettivi potenziali.

La Scuola Austriaca, al contrario, va elaborando e perfezionando continuamente un paradigma alternativo nel campo della scienza economica che sviluppa, in modo formale e

38 Wlodzimierz Brus e Kazimierz Laski, From Marx to the Market. Socialism in Search of an Economic System, opera citata, pp. 167-168. La citazione è di Mises, Human Action, opera citata, pp. 706-707 e 710. La traduzione in italiano potrebbe essere la seguente: «Quello che suggeriscono questi neosocialisti è veramente paradossale. Vogliono abolire il controllo privato dei mezzi di produzione, gli scambi volontari nel mercato, i prezzi di mercato e la concorrenza. Ma allo stesso tempo vogliono organizzare l’utopia socialista come se queste cose fossero ancora presenti. Vogliono che la gente giochi al mercato allo stesso modo che i bambini giocano alla guerra, ai treni, alla scuola. Non capiscono quanto questi giochi da bambini differiscano dalle istituzioni reali che cercano di imitare…Un sistema socialista con mercato e prezzi di mercato è altrettanto contraddittorio della nozione di un “quadrato triangolare”.» Joaquín Reig Albiol ha tradotto questa citazione in modo un po’ meno letterale ma in uno spagnolo più elegante alle pp. 1.025 e 1.029 della sua versione spagnola della Acción Humana, opera citata. La citazione di Anthony de Jasay è di Market Socialism: A Scrutiny. This Square Circle, cit., p. 35: « … an open contradiction in terms, much like hot snow, wanton virgin, fat skeleton, round square».

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astratto (anche se non matematico), tutta una teoria generale sul comportamento dell’azione umana (reale e non meccanica) nella società e le sue diverse implicazioni. Elemento protagonista in questa teoria è lo stesso esercizio dell’azione umana o funzione imprenditoriale, che scopre continuamente nuovi fini e mezzi e genera un’informazione che rende possibile prendere decisioni in modo razionale a livello decentralizzato, permettendo la coordinazione tra tutti gli esseri umani, e creando in questo modo una struttura sociale molto complessa. Questo paradigma è sempre più studiato, commentato e reso popolare specialmente dai teorici degli antichi paesi socialisti dell’Est, per i quali le opere teoriche di Mises e Hayek sono più importanti e citate di quelle dei grandi teorici neoclassici dell’Occidente come Samuelson, e anche della stessa Scuola di Chicago, come Friedman. E nella misura in cui questo è vero, non c’è da meravigliarsi che un numero sempre maggiore di antichi «socialisti di mercato» stia abbandonando le sue antiche posizioni.39 Il fatto è che il «socialismo di mercato» è fallito come proposta di soluzione al problema del calcolo economico socialista sia nella teoria sia nei tentativi di riforma pratica che si sono portati a termine ripetutamente nei sistemi socialisti dell’Europa

39 Dobbiamo manifestare, insieme con Arthur Seldon, la nostra sorpresa di fronte al fatto che i più conosciuti economisti favorevoli al «socialismo di mercato» continuino ad essere socialisti. In effetti Seldon dice: «I cannot therefore see why Nove remains a socialist. That revelation also applies to other market socialists –Ota Sik of Czechoslavakia (now teaching in Switzerland), Brus, the Polish economist (now at Oxford), Kornai of Hungary (now in Budapest), Kolakowski (also at Oxford) and others.» Vedere «After a Hundred Years: Time to Bury Socialism», in Socialism Explained, di Brian Crozier e Arthur Seldon, The Serwood Press, Londra 1984, p. 61. Bisogna dire, tuttavia, a giustificazione degli eminenti economisti menzionati nella citazione di Seldon che, dal 1984 ad oggi, praticamente tutti loro, forse con l’unica eccezione di Nove, hanno abbandonato il socialismo. La transizione definitiva di Nove si produrrà probabilmente quando smetterà di concepire il mercato nei termini di «concorrenza perfetta» propri del paradigma neoclassico, e, come gli altri teorici, sarà sempre più preso dalla teoria austriaca dei processi di mercato. Forse il libro più conosciuto di Alec Nove è il suo The Economics of Feasible Socialism (Allen and Unwin, Londra 1983). Questo libro è specialmente meritevole per la catalogazione che fa delle inefficienze dei sistemi socialisti. Il suo difetto principale è l’analisi critica con poco fondamento che porta avanti sui sistemi capitalisti (dei quali sottolinea problemi di disuguaglianza del reddito, inflazione, mancanza di «democrazia» e fallimento nel campo delle «esternalità») e che si deve a errori d’interpretazione motivati dall’insufficienza degli strumenti analitici (di taglio neoclassico e centrati nell’equilibrio) che utilizza per interpretare la situazione nei sistemi capitalisti. Per questo abbiamo detto che, man mano che Nove si andrà familiarizzando con la teoria dinamica dei processi imprenditoriali sviluppata dalla Scuola Austriaca, molto probabilmente evolverà nello stesso modo in cui lo hanno fatto altri autori di gran categoria come Kornai e Brus. In quanto al tipo di socialismo che Nove propone (e che è «feasible» nel senso che egli crede che potrebbe stabilirsi per tutto il tempo che dura la vita umana) non offre nulla di nuovo tranne una confusa amalgama composta dalla nazionalizzazione dei settori basici, dall’uso della pianificazione centrata nelle aree in cui esistano «esternalità», dall’incoraggiamento alle cooperative nelle piccole e medie industrie, e dall’impulso alla «concorrenza», sempre che sia possibile. Nello schema di Nove si permette che i mercati funzionino, ma all’interno di un quadro di controlli che si stabiliscono da qualsiasi parte. In ogni caso, il libro di Nove è oggi molto sfasato, non solo perché ritiene che il cammino ideale verso il socialismo fu quello iniziato dall’Ungheria nel 1968, ma anche, per di più, perché è stato incapace di prevedere gli importanti avvenimenti che si sono prodotti negli ultimi due anni (1989-1991), e non risponde a nessuna delle critiche che sono state fatte dettagliatamente nel testo contro il «socialismo di mercato». Infine segnaliamo che esistono indizi molto incoraggianti in quanto alla «conversione» di Nove. Prima di tutto, in un articolo scritto nel marzo del 1988 e dedicato a rivedere e commentare il suo libro The Economics of Feasible Socialism («“Feasible Socialism” Revisited», Capitolo 16 di Studies in Economics and Russia, Macmillan, Londra 1990), Nove riconosce già esplicitamente la validità di «alcune» delle critiche «austriache» al «socialismo di mercato» e al paradigma neoclassico, concludendo che «so, there is no harm in admitting that the Kirzner type of criticism hits the target» (p. 237). E nove mesi più tardi, nel dicembre del 1988, nel suo articolo «Soviet Reforms and Western Neoclassical Economics» (Capitolo 17 di Studies in Economics and Russia, opera citata), ammette ormai senza mezzi termini che «… the Austrians are surely more relevant to soviet reforms than is the neoclassical paradigm», e conclude con la seguente affermazione criptica: «One needs not to accept their (quelli della Scuola Austriaca) conclusions, but one must take their arguments seriously» (!) (p. 250).

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dell’Est, per cui gli stessi teorici che fino ad ora lo difendevano come modello da seguire lo stanno confusamente abbandonando.40 3. MAURICE H. DOBB E LA COMPLETA SOPPRESSIONE DELLA LIBERTÁ INDIVIDUALE

Abbiamo lasciato alla fine l’analisi di una posizione che, guidata fin dalle sue origini da Maurice Dobb, ha un certo interesse teorico, poiché, partendo dal riconoscimento più o meno esplicito dell’impossibilità del calcolo economico socialista, conclude che sia tale impossibilità sia l’inefficienza che comporta sono irrilevanti. O, se si preferisce, che costituiscono un «costo» che non si deve considerare, dato che l’ideale socialista, per ragioni di tipo etico, ideologico e politico, deve essere perseguito per se, cioè, indipendentemente da quali siano i suoi risultati. I fautori di questa posizione, pertanto, danno degli «ipocriti» e degli «ingenui» a quei «socialisti di mercato» che vogliono introdurre nel sistema socialista il maggior numero possibile di meccanismi propri del capitalismo. I difensori di questa posizione vogliono chiamare le cose con il loro nome ed

40 Fino a che punto il pensiero di Mises e Hayek stia impregnando addirittura gli antichi marxisti, è messo in evidenza da articoli come «The Power of the Weak», apparso nel numero del dicembre del 1988 di Marxism Today (forse la più prestigiosa rivista dei socialisti britannici) e il cui autore è Geoff Mulgen. In questo articolo, Mulgen afferma che le istituzioni tradizionalmente più amate dai socialisti (lo Stato, i sindacati, i partiti politici, ecc.) sono sistemi di gestione rigidi, inflessibili, centralizzati, gerarchici e, pertanto, profondamente antiumani. Per questo e seguendo gli insegnamenti di Hayek, si inclina a favore di quelli che chiama «weak power systems» per il fatto che sprecano molto meno «energia umana», fanno uso della cooperazione e della concorrenza, sono decentralizzati, si possono connettere gli uni agli altri in un complesso sistema o rete e trasmettere l’informazione in modo efficiente. Per questo teorico, il laburismo inglese in futuro dovrebbe orientarsi verso questo tipo di strutture decentralizzate e verso il mercato, abbandonando le istituzioni tradizionalmente difese dal socialismo. Inoltre, Mulgen arriva anche a intuire la nostra argomentazione fondamentale contro la possibilità di utilizzare la capacità informatica presente o futura per rendere possibile il calcolo economico socialista (poiché l’uso decentralizzato di qualsiasi capacità informatica darà luogo a un volume e una varietà di informazioni di cui quella stessa capacità informatica non potrà dar conto in modo centralizzato) quando afferma che «Lange was wrong because technology runs up against the context in which information is produced». Mulgen aggiunge che i sistemi informatici centralizzati distorcono l’informazione, mentre, al contrario, i sistemi decentralizzati danno incentivi per crearla e trasmetterla in modo esatto, a parte che gli imprenditori stanno costantemente rivoluzionando le tecniche di trattamento e di controllo informatico, mentre i pianificatori centrali, nel migliore dei casi, si fanno sempre trascinare da quello che in questo campo fanno gli imprenditori. Di fronte a questa dimostrazione dello smantellamento teorico del socialismo, è scoraggiante che autori come David Miller (Market, State and Community. Theoretical Foundations of Market Socialism, Clarendon Press, Oxford 1989) continuino ad ostinarsi a costruire l’utopico ideale del «socialismo di mercato». Difficilmente si può trovare qualcosa di originale nell’apporto di Miller, che si basa sullo stabilire forzatamente un sistema «competitivo» di cooperative gestite «democraticamente» dai lavoratori. Miller non è economista, non ha studiato il dibattito sul calcolo economico, e gli sfuggono completamente le ragioni per cui tale sistema non potrebbe funzionare (assenza del libero esercizio della funzione imprenditoriale in assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, e mancanza della produzione dell’informazione necessaria per calcolare in modo efficiente e per coordinare tutto il sistema) Tuttavia, Miller è sufficientemente onesto da dichiarare il suo scetticismo sulla possibilità che tale sistema sia almeno altrettanto efficiente del capitalismo competitivo, e afferma che, pertanto, gli argomenti cruciali a favore del suo «socialismo di mercato» devono essere di altro tipo: la maggiore «giustizia», «libertà» e «democrazia» nel lavoro che egli stesso offrirebbe (vedere p. 14). Stando così le cose, la polemica con questo tipo di autori si deve fare più nel campo della filosofia politica e della teoria etica che in quello della scienza economica. Per una critica di questo e di altri tentativi recenti di resuscitare il «socialismo di mercato», si deve consultare il lavoro di Anthony de Jasay, Market Socialism: A Scrutiny. This Square Circle, opera citata. Si veda, inoltre, la nota 4 del Capitolo VI. È interessante anche il libro di Martin Feucht in lingua tedesca Theorie des Konkurrenz-sozialismus, G. Fischer, Stoccarda 1983.

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evitare che ci si inganni: o il socialismo significa l’assoluta soppressione dell’autonomia e della libertà individuale, o non è socialismo.41

Ciò che questi teorici desiderano è, nella più pura tradizione socialista, imporre con la forza a tutti gli esseri umani la loro particolare visione di come deve essere il mondo. Inoltre, questi teorici si sono resi conto che la goffa e parziale imitazione di elementi propri di un’economia di mercato nel sistema socialista, lungi dal facilitare il problema del calcolo economico, lo portano allo scoperto, rendendolo molto più evidente e difficile. In effetti, se si permette un certo grado di decisioni decentralizzate, il problema posto dall’impossibilità di centralizzare la conoscenza dispersa si manifesta in modo molto più chiaro e intenso e, pertanto, dà l’impressione che i problemi di coordinamento sociale si aggravino (se non succede che, di fatto, tale aggravamento si verifica). Al contrario, se si sopprimono tutte le libertà (includendo la libertà di scelta dei consumatori e la libertà di scelta del posto di lavoro dei lavoratori) e si impedisce con la forza qualsiasi altro tipo di decisioni autonome da parte degli agenti economici, imponendo dall’alto un piano unificato per tutte le sfere sociali, benché, come già sappiamo, non si possa risolvere il problema del calcolo economico socialista, esso rimane in gran parte nascosto dando la sensazione che il grado di «coordinamento» e di «adattamento» sociale sia molto maggiore.42

In effetti, immaginiamo una «società» che si mantenga a un livello di pura sussistenza sulla base di semplici relazioni economiche imposte totalmente dall’alto con la forza e con l’eliminazione fisica di coloro che si oppongono al «regime». Possiamo addirittura supporre che il brutale dittatore, per controllare il compimento delle sue istruzioni, sia aiutato dal più potente dei computer. Bene, in queste circostanze, il calcolo economico sembra semplificarsi considerevolmente: Si farebbe ciò che ordina il dittatore, le combinazioni di produzione sarebbero quelle scelte da lui, e il resto degli umani si limiterebbero a obbedire come schiavi seguendo le istruzioni ricevute dall’alto. È chiaro che, come ha dimostrato bene Mises,43 neppure in queste circostanze estreme, che sono le più «favorevoli» che si potrebbero concepire dal punto di vista della fattibilità del calcolo economico socialista, si potrebbe risolvere il problema che esso pone, poiché al dittatore continuerebbe a mancare una guida razionale nel prendere le sue decisioni. Cioè, non saprebbe mai se i fini prestabiliti da lui stesso potrebbero essere raggiunti in modo più opportuno e adeguato, utilizzando diverse combinazioni di fattori e prodotti o prendendo decisioni diverse. Ma se questo non importa al dittatore, cioè, che il socialismo concepito in questo modo non solo elimini la libertà di scelta di beni e servizi di consumo da parte dei 41 Usando le parole dello stesso Maurice H. Dobb, «either planning means overriding the autonomy of separate decisions, or it apparently means nothing at all». Vedere il capitolo intitolato «Economic Law in the Socialist Economy» del libro Political Economy and Capitalism: Some Essays in Economic Tradition, Routledge and Kegan Paul, Londra 1937, p. 279. Esiste una traduzione in spagnolo di Emigdio Martínez Adame intitolata «La Ley Economica en una Economia Socialista (La Legge Economica in un’ Economia Socialista)», su Economia Politica Y Capitalismo, Fondo de Cultura Económica, Messico 1947, pp. 183-227. 42 Secondo Paul M. Sweezy, il tentativo di introdurre la decentralizzazione in un sistema socialista otterrebbe solo di riprodurre in esso le peggiori caratteristiche del capitalismo, senza riuscire ad ottenere i più importanti vantaggi e le più grandi possibilità della pianificazione socialista («Some of the worst features of capitalism and fail to take advantage of the constructive possibilities of economic planning»). Vedere Paul M. Sweezy, Socialism, McGraw Hill, New York 1949, p. 233. Quello che Sweezy ha in mente, pertanto, è un sistema di pianificazione totale che includa direttive concrete ai gestori delle diverse industrie rispetto a come devono portare avanti i corrispondenti piani settoriali e imprenditoriali. Per Sweezy tutta la teoria della pianificazione si basa su decisioni di tipo politico (cioè sull’imposizione con la forza dei criteri del dittatore). Non capisce il problema (della presa di decisioni arbitrarie) che presenta il calcolo economico in un sistema socialista, né, in pratica, gli importa, dal momento che pensa che una volta che gli obbiettivi del piano siano stati stabiliti, la quantità e la qualità dei corrispondenti fattori di produzione saranno determinati «automaticamente» dai pianificatori e saranno imposti con la forza ai diversi settori e alle diverse imprese. Si vedano i commenti alla posizione di Sweezy in «The Theory of Planning according to Sweezy», in Socialism and International Economic Order, di Elisabeth L. Tamedly, The Caxton Printers, Caldwell, Idaho, 1969, pp. 143-145. 43 Ludwig von Mises, Human Action, opera citata, pp. 695-701.

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consumatori, la libertà di scegliere il posto di lavoro da parte dei lavoratori e la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma ritenga anche (esplicitamente o implicitamente) di essere privo di qualsiasi fine economico, o che l’efficienza sia irrilevante rispetto al mantenimento del sistema stesso, allora il problema del calcolo economico si potrebbe considerare risolto, non per essere stato reso possibile, ma attraverso la via artificiale di considerare che il «calcolo» consista precisamente nel non esserci nessun calcolo e nell’imporre agli altri quello che il dittatore vuole capricciosamente in ogni momento.

D’altra parte, non bisogna meravigliarsi che i teorici di questa corrente, considerando radicalmente incompatibili la concorrenza e la pianificazione centrale socialista, siano stati particolarmente critici al momento di esaminare il cosiddetto «socialismo di mercato». Si spiega così la curiosa polemica sorta tra Maurice Dobb, da un lato, e il resto dei teorici del «socialismo di mercato», e specialmente Abba P. Lerner, dall’altro.44 Trovandosi d’accordo su questo punto con i teorici della Scuola Austriaca, Dobb arriva addirittura a criticare ironicamente il fatto che i teorici del «socialismo di mercato» utilizzino il modello dell’equilibrio generale e, all’interno del paradigma neoclassico, ritengano che le «similitudini» fra il sistema capitalista e quello socialista siano «tante», che formalmente non esistono differenze fra uno e l’altro. Per Dobb, il problema non si pone nei termini dell’analisi neoclassica dell’equilibrio, ma è un risultato delle «istituzioni» del sistema socialista essenzialmente e radicalmente diverse, se paragonate a quelle del sistema capitalista e, concretamente, del fatto che il socialismo presuppone l’abolizione con la forza di tutte quelle istituzioni che sono proprie e caratteristiche del sistema capitalista.45 Dobb ribadisce anche l’essenziale ambiguità delle «soluzioni» proposte dai «socialisti di mercato» che, volendo conciliare l’inconciliabile e, secondo quello che sia loro conveniente, il contesto nel quale si incontrino e il tipo di argomento che stiano prendendo in considerazione, mettono in risalto nei loro modelli, in alcuni casi, le caratteristiche tipiche del mercato e in altri, i vantaggi della pianificazione socialista. Così si spiega come Dobb abbia qualificato Lerner, nel dibattito sostenuto con quest’ultimo, come «oppositore invisibile», poiché con grande abilità appena poteva eludere i problemi posti mediante il semplice e curioso artificio dialettico che abbiamo appena descritto.46 44 I principali articoli di Maurice Dobb corrispondenti a questo dibattito sono: «Economic Theory and the Problems of a Socialist Economy», apparso sull’ Economic Journal, n.º43 del 1933, pp. 588 a 598; ed «Economic Theory and Socialist Economy: A Replay», pubblicato sulla Review of Economic Studies, n.º2, anno 1935, pp. 144 a151. Questi articoli e altri interessanti apporti furono raccolti nel libro On Economic Theory and Socialism: Collected Papers, pubblicato da Routledge and Kegan Paul, Londra 1955. 45 Con le parole dello stesso Dobb: «Naturally, if matters are formulated in a sufficiently formal way, the “similarities” between one economic system and another will be paramount and the contrasting “differences” will disappear. It is the fashion in economic theory today for propositions to be cast in such a formal mould, and so devoid of realistic content, that essential differences disappear. The distinctive qualities of the laws of a socialist economy and of a capitalist economy … are not, of course, given in the rules of algebra, but in assumptions depending on differences existing in the real world.» Vedere «Economic Theory and Socialist Economy: A Reply», opera citata, pp. 144-145. Inoltre, è curioso notare come lo stesso Dobb riconosca che, all’inizio, aveva pensato che il problema del calcolo economico nel sistema socialista si potesse risolvere mediante un procedimento simile a quello proposto da Dickinson, ma che in seguito, vedendo le implicazioni che avrebbe avuto contro il sistema socialista, aveva abbandonato quella posizione. Per di più, nel suo articolo del 1933, critica come «statico» il modello di Dickinson, utilizzando delle parole che potevano essere state scritte addirittura da Hayek in persona. In effetti, afferma che cercare di applicare i postulati dell’equilibrio statico a un mondo in costante cambiamento è un «barren feat of abstraction»; e che l’economia è molto di più di «a formal technique…, a system of functional equations, a branch of applied mathematics, postulating a formal relationship between certain quantities». Vedere Economic Theory and the Problems of a Socialist Economy, opera citata, p. 589. 46 Concretamente, e riferendosi a Lerner, Dobb afferma che era «embarassed by a sense of battling with an invisible opponent» (vedere il suo «Reply» del 1935, opera citata, p. 144. Esempi della strategia «elusiva» di Lerner sono i seguenti commenti sullo stabilirsi di un sistema di prezzi in un sistema socialista: nel suo articolo del 1934, «Economic Theory and Socialist Economy», opera citata, p. 55, afferma che «the competitive price system has to be adapted to a socialist society. If it is applied in toto we have not a socialist

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Insomma, Dobb difende il fatto che l’autorità centrale fissi tutti i prezzi, che questi vengano imposti con la forza a tutti i livelli, e che si impedisca la sovranità dei consumatori e la libera scelta dei posti di lavoro. Tenendo in considerazione che tale autorità centrale non persegue nessun obbiettivo, tranne il mantenimento di se stessa al potere, si può ritenere irrilevante chiedersi se il «calcolo economico» sia possibile o no. In questo senso la proposta di Dobb è, allo stesso tempo, meno contraddittoria e più realistica e «onesta» di quella sostenuta da molti dei teorici del «socialismo di mercato»; meno contraddittoria e più realistica, nella misura in cui si basa non sull’analisi formale dell’equilibrio, bensì sulle vere istituzioni del socialismo, che, come sappiamo, si basano sulla coazione sistematica e onnicomprensiva, proprio come fu disegnato politicamente il modello fin dalle sue origini rivoluzionarie. Più «onesta» di quella dei «socialisti di mercato», nella misura in cui non si pretende di nascondere qual è la vera faccia del socialismo, che si basa solamente e semplicemente sulla brutale repressione e restrizione della libera azione umana.47

Hoff, a proposito della sua analisi critica della posizione di Dobb,48 ce ne dà il seguente esempio esplicativo. Dice che l’uso del molibdeno per la fabbricazione di spade giocattolo, o di lenti di alta qualità come elementi del microscopio da utilizzarsi nelle scuole elementari, senza dubbio sarebbe considerato come un’assegnazione sbagliata di risorse in una società in cui la soddisfazione dei desideri dei consumatori (o del dittatore stesso) avesse importanza, e nella quale, pertanto, quel metallo e quelle lenti potrebbero produrre una soddisfazione molto maggiore (ai consumatori o al dittatore stesso) utilizzati per altri scopi; tuttavia, questo non sarebbe considerato «inefficiente» o «antieconomico» se lo scopo fosse, per esempio, quello che i bambini avessero il miglior equipaggiamento tecnico possibile, o che i lavoratori che fabbricano le lenti dovessero essere favoriti a tutti i costi. Vediamo, pertanto, come ciò che è illogico e inefficiente non appare tale se gli scopi vengono fissati arbitrariamente in ciascun caso o, ancor meglio, se non esistono scopi di nessun tipo. Inoltre, e come poteva essere altrimenti, poiché, come già sappiamo, le differenze tra il socialismo reale e quello «democratico» sono solo di grado e non di classe, questo modo arbitrario di agire non è un’esclusiva delle società socialiste più estreme, ma si riproduce costantemente in presenza di tutte le misure di interventismo che si verificano nei paesi occidentali.49

but a competitive society»; tuttavia, poco dopo, nel suo «A Rejoinder», opera citata, apparso nel 1935 (p.152), Lerner si smentisce e afferma: «And by a price system I do mean a price system. Not a mere a posteriori juggling with figures by auditors, but prices which will have to be taken into consideration by managers of factories in organizing production.» 47 Anni più tardi, Dobb ha in certo qual modo modificato la sua posizione introducendo in modo ambiguo un certo livello di decentralizzazione e addirittura di concorrenza nel modo di prendere le decisioni. Tuttavia, Dobb non ha precisato specificamente in che cosa dovrebbe consistere questa leggera decentralizzazione e, da un punto di vista teorico, la posizione che crediamo abbia un vero interesse è quella che aveva negli anni 30, che stiamo commentando e che, d’ora in poi, chiameremo «modello classico di Dobb» 48 Trygve J.B. Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata, Capitolo 14. L’esempio delle spade di molibdeno è alle pp. 278-279. 49 Amartya Sen, dal canto suo, spiega che ciò che succedeva realmente nella mente di Dobb era che, per lui, le considerazioni relative all’uguaglianza nei risultati avevano un’importanza molto maggiore delle considerazioni di efficienza (per cui queste venivano relegate in secondo piano). Sen menziona anche che, per Dobb, era molto più importante la pianificazione coercitiva dell’investimento che il supposto adattamento microeconomico perfetto. Questa argomentazione che le considerazioni di «efficienza» devono essere subordinate alle considerazioni di uguaglianza si è trasformata in moneta corrente fra gli intellettuali di sinistra che si sono già rassegnati al fatto che il socialismo non possa competere con il capitalismo in termini di creazione di ricchezza. Tuttavia, questi intellettuali, adottando questa posizione, dimenticano: 1) che efficienza ed etica sono le due facce della stessa moneta, cioè, che l’inefficiente non può essere giusto, e che non c’è nulla di più efficiente della morale; 2) che il costo dell’egualitarismo che propongono non è solo la povertà generalizzata, ma anche la più brutale repressione contro l’agire umano; 3) che l’esperienza storica mostra che la coercizione lungi dal diminuire la disuguaglianza, in molti casi l’aumenta e l’aggrava; 4) che non c’è nulla di più ingiusto, immorale e contrario all’etica che imporre l’uguaglianza con la forza, dal

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Hayek, da parte sua, ha dedicato tutta un’epigrafe50 del suo articolo del 1935 sulla situazione del dibattito ad analizzare dettagliatamente la posizione di Maurice Dobb, elogiando, prima di tutto, il suo coraggio e la sua onestà al momento di esporre quello che implicava veramente il socialismo.51 Orbene, Hayek vuole mettere in risalto che il calcolo economico socialista solo sarebbe possibile nel modello di Dobb, non solo se si impedisse la libera scelta dei consumatori e dei lavoratori, ma anche se si supponesse che il dittatore socialista non avesse nella sua azione nessun tipo di fine o di obbiettivo. E questo perché se si suppone che il dittatore si sia prefissato un qualche scopo, sì che si può affermare che anche nel modello di Dobb il calcolo economico razionale sarebbe impossibile per quel dittatore, non avendo questi una guida obbiettiva per indicargli se, perseguendo con le sue decisioni un determinato fine, stia o no trascurando altri obbiettivi o scopi prefissati che avrebbero per lui un valore superiore. In questo senso, Hayek è di nuovo pienamente d’accordo con Mises, che ritiene che il calcolo economico esiga che il dittatore, almeno, abbia deciso quali sono i suoi scopi, e che importanza relativa abbiano nella sua scala di valori.52 Dando questo per scontato, il calcolo economico diviene impossibile, poiché al dittatore manca una guida razionale per sapere se, con le decisioni che prende, sta trascurando la possibilità di raggiungere fini di maggior valore per lui.53 momento che l’uomo ha un diritto naturale inalienabile di ideare nuovi scopi e di godere dei frutti che crea con la propria creatività imprenditoriale. Amartya Sen, «Maurice Herbert Dobb», The New Palgrave. A Dictionary of Economics, opera citata, volume I, pp. 910-912. 50 «Abrogation of the Sovereignty of Consumers», epigrafe 4 di «The Present State of the Debate», pubblicato in Collectivist Economic Planning, opera citata, pp. 214 a 217. 51 «Dr. Maurice Dobb has recently followed this to its logical conclusion by asserting that it would be worth the price of abandoning the freedom of the consumer if by the sacrifice socialism could be made possible. This is undoubtedly a very courageous step. In the past, socialists have consistently protested against any suggestion that life under socialism would be like life in barracks, subject to regimentation of every detail. Now Dr. Dobb considers these views as obsolete.» Vedere F.A. Hayek, «The Present State of the Debate» in Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 215. 52 «We assume that the director has made up his mind with regard to the valuation of ultimate ends.» Ludwig von Mises, Human Action, opera citata, p. 215. 53 Queste le parole dello stesso Hayek: «The dictator, who himself ranges in order the different needs of the members of the society according to his view about their merits, has saved himself the trouble of finding out what people really prefer and avoided the impossible task of combining the individual scales into an agreed common scale which expresses the general ideas of justice. But if he wants to follow this norm with any degree of rationality or consistency, if he wants to realize what he considers to be the ends of the community, he will have to solve all the problems which we have discussed already.» Vedere Hayek, «The Present State of the Debate» in Collectivist Economic Planning, opera citata, pp. 216 a 217. Casualmente, qui sembra che Hayek si riferisca già nel 1935 e, pertanto da precursore, al «Teorema dell’Impossibilità di Arrow», quando parla del compito impossibile di combinare le scale di valore individuali con una scala comune che esprima gli ideali generali di giustizia e sulla quale siano tutti d’accordo. Tuttavia, è sicuro che Hayek riteneva che questa impossibilità non fosse dovuta tanto a ragioni di pura logica all’interno di un contesto statico in cui tutta l’informazione necessaria si considerava data e sottomessa a delle condizioni predeterminate (come si suppone nel citato teorema di Arrow), quanto alla ragione molto più generale e profonda derivata dall’impossibilità che le preferenze individuali si possano generare e trasmettere in un contesto che non sia imprenditoriale (problema essenziale dell’informazione dispersa, soggettiva e non articolabile che costituisce il nocciolo della critica al calcolo economico socialista). Le alternative, pertanto, sono le seguenti: la prima, che il dittatore socialista imponga la sua volontà arbitraria in ogni momento, senza proporsi nessun fine prestabilito (sarebbe il distruzionismo anarchico e arbitrario del «modello classico» di Dobb); la seconda, che il dittatore abbia stabilito previamente la sua scala di valori con la corrispondente gerarchia (il calcolo economico razionale sarebbe impossibile per il dittatore stesso); la terza, che il dittatore cercasse di scoprire i fini generali perseguiti dai cittadini secondo una scala comunemente accettata da tutti loro (teoricamente impossibile, dato il carattere disperso della conoscenza e la forma strettamente soggettiva e imprenditoriale che la genera; in condizioni statiche sarebbe inoltre applicabile il teorema dell’impossibilità di Arrow); e, in quarto luogo, stabilire la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, ma cercando di fare in modo, per quanto possibile, che gli agenti economici prendano le loro decisioni in modo decentralizzato (questa sarebbe la soluzione dei «socialisti di mercato»; anch’essa teoricamente impossibile, poiché non si genera l’informazione pratica necessaria a rendere possibile il calcolo economico

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Sia che il calcolo economico sia impossibile perché il dittatore ha deciso previamente quali sono i suoi fini e quale importanza gerarchica hanno per lui, sia che si consideri artificialmente che non si ponga nessun problema di calcolo economico, perché non si persegue nessun fine con importanza relativa rispetto ad altri fini determinati, è chiaro che l’assegnazione delle risorse, nel modello di Dobb, sarà puramente arbitraria y le inefficienze di tale portata, che, usando l’espressione di Mises, il suo modello non equivale che a un modello di distruzionismo, cioè, di completa distruzione o annichilazione della civiltà e di riduzione dell’umanità a una situazione di schiavitù e di terrore quasi inimmaginabili.54

È sicuro che, da un punto di vista strettamente economico,55 non si può giudicare la decisione individuale di colui al quale non importa il costo del sistema socialista pur di ottenerlo, e di fatto, Mises, alla fine del suo articolo seminale del 1920, come abbiamo già visto, afferma che, se si verifica questa circostanza, la sua argomentazione contro il calcolo economico non verrà presa in considerazione. Tuttavia, è necessario chiedersi quanti seguaci dell’ideale socialista a livello popolare e politico sarebbero disposti a continuare ad appoggiarlo se fossero coscienti delle sue vere implicazioni.56 È

razionale non esistendo una funzione imprenditoriale completamente libera e non essendo permesso che i benefici agiscano da incentivo esattamente come lo fanno in un sistema capitalista). 54 Per Mises il distruzionismo è l’essenza del socialismo: «Socialism is not the pioneer of a better and finer world, but the spoiler of what thousands of years of civilization have created. It does not build, it destroys. For destruction is the essence of it.» (Ludwig von Mises, Socialism, opera citata, p. 44). Per questo, ogni tentativo di coercizione istituzionale e sistematica della libera interazione imprenditoriale non è altro che un vero genocidio o crimine contro l’umanità, per le terribili conseguenze che nel tempo questi esperimenti sempre producono. Di fatto, tutte le tragedie dell’umanità degli ultimi cento anni che non siano state provocate da cause naturali (e anche molte di queste, nella misura in cui i loro effetti si sarebbero potuti mitigare più facilmente affrontandole in altro modo) hanno avuto la loro origine direttamente o indirettamente nel desiderio, molte volte con buone intenzioni, di mettere in pratica l’utopia socialista. Evidentemente, ci sono importanti differenze di grado in quanto all’estensione e all’intensità con cui tale idea si può perseguire, ma non bisogna mai dimenticare che le differenze esistenti , per esempio, tra il genocidio commesso dallo Stato Sovietico, dal nazionalsocialismo, dalla Cina comunista o da Pol Pot contro i rispettivi popoli e le perniciose conseguenze generatrici di costante conflitto, di violenza sociale e di corruzione morale che sono proprie del «socialismo democratico» e di quello che viene chiamato paradossalmente «Stato del Benessere», sono solo differenze di grado, anche se molto importanti, ma non di classe, poiché l’errore intellettuale e il distruzionismo che costituiscono l’essenza del socialismo «reale» e del socialismo «democratico» o «interventista» sono basicamente gli stessi. Si veda in questo senso il mio articolo «El Fracaso del Estado “Social”(Il Fallimento dello Stato “Sociale”)», ABC, Madrid, 8 aprile 1991, pp. 102-103. 55 Dobb, d’altra parte afferma che : «The advantage of the planned economy per se consists in removing the uncertainties inherent in a market with diffused and autonomous decisions, or it consists in nothing at all.» Vedere Maurice H. Dobb, «Review of Brurzkus and Hayek», pubblicato sull’ Economic Journal, n.º 45, 1935, p. 535. Quest’affermazione di Dobb si adatta perfettamente al suo modello dittatoriale di socialismo, in cui si pretende di evitare il problema del calcolo economico semplicemente imponendo con la forza i desideri arbitrari del dittatore. In effetti, come abbiamo visto nel Capitolo II, una delle caratteristiche essenziali dell’agire umano è il carattere creativo dei suoi risultati, per cui il futuro è sempre incerto e aperto all’immaginazione degli imprenditori. L’unico modo, pertanto, di far cessare l’incertezza del futuro è schiacciare con la forza la capacità del libero agire umano. Il «vantaggio» che Dobb attribuisce alla pianificazione centralizzata si basa sull’«eliminare» l’incertezza sopprimendo la libera azione umana e congelando, pertanto, il futuro. O, detto in altro modo, si basa sul «curare» la supposta malattia del paziente facendolo morire. Curiosamente questa cura che Dobb adotta per l’incertezza è molto vicina a quella degli economisti neoclassici dell’equilibrio, che la considerano come un «fastidioso difetto» del mercato perché non si adatta facilmente ai loro «modelli». Così, per esempio, Kenneth J. Arrow, per il quale «there is one particular failure of the price system which I want to stress. I refer to the presence of uncertainty.» (Vedere The Limits of Organization, New York 1974, p. 33.) 56 Ricordiamo che Oskar Lange, nel suo On the Economic Theory of Socialism, opera citata, si riferisce anche alla possibilità di eliminare il «libero» mercato per i beni e i servizi di consumo e afferma che, in quelle circostanze, anche il suo sistema di prova ed errore e di prezzi parametrici dovrebbe funzionare alla perfezione a patto che i prezzi parametrici si estendessero non solo ai beni e ai fattori di produzione, ma anche ai beni e servizi di consumo. In questo caso, anche l’organo do pianificazione dovrebbe modificare i

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indispensabile considerare anche fino a che punto il modello socialista possa essere mantenuto in ogni tappa storica concreta mediante l’uso della forza e che possibilità esistano di mantenere isolato un determinato paese o zona geografica dal resto del mondo, con lo scopo che la sua popolazione non scopra quello a cui sta realmente rinunciando nel lasciarsi imbacuccare o ingannare dalla propaganda ufficiale del suo governo. Tutte queste considerazioni sono di grande interesse e rilevanza, soprattutto per quel che riguarda la valutazione, in ciascun caso storico, di quali siano le possibilità della conquista democratica o rivoluzionaria del potere e del suo mantenimento da parte di un regime socialista. Ma nessuna di esse diminuisce di una virgola la solidità della sfida teorica di Mises e Hayek, che ha smascherato completamente il fatto che il socialismo deve comportare, per forza, un impoverimento generale delle masse, per il fatto di non rendere possibile il calcolo in termini di efficienza economica, e che, in ultima analisi, è un sistema impossibile, incapace di raggiungere gli obbiettivi «paradisiaci» che, al fine di imbacuccare il pubblico, gli sono stati normalmente associati, per lo meno fino ad ora. 4. IN CHE SENSO IL SOCIALISMO È IMPOSSIBILE?

Nel Capitolo III abbiamo dimostrato che il socialismo è un errore intellettuale perché è

teoricamente impossibile che i comportamenti sociali si possano adattare mediante un sistema di coazione istituzionale contro la libera interazione umana. Cioè, la tesi di questo libro è che, senza la libertà di esercitare la funzione imprenditoriale, da un lato, non si crea l’informazione indispensabile per rendere possibile il calcolo economico razionale (cioè, prendere le decisioni in modo non arbitrario tenendo soggettivamente in considerazione l’informazione rilevante in ciascun caso) e, dall’altro lato, non è possibile che gli agenti economici imparino a disciplinare il proprio comportamento in funzione delle necessità e delle particolarità degli altri (coordinazione sociale). Orbene, questa tesi coincide completamente con quella sostenuta da Ludwig von Mises , già fin dal suo articolo del 1920. In effetti, per Mises il concetto di «razionale» significa prendere decisioni disponendo dell’informazione rilevante necessaria per portarle a termine, tanto per quel che riguarda i fini che si perseguono, quanto per ciò che si riferisce ai mezzi e ai costi di opportunità in cui ci si aspetta di imbattersi. Mises dimostra che solo in un ambito competitivo in cui esista libertà di impresa e di proprietà privata dei mezzi di produzione tale informazione si va generando e trasmettendo in modo imprenditoriale. Di modo che, in assenza di mercati non controllati, di proprietà privata dei mezzi di produzione e di libero esercizio della funzione imprenditoriale, non si genera l’informazione e le decisioni vengono prese (sia a livello centrale che in modo decentralizzato) con completa arbitrarietà. È in questo senso, e non in un altro, che bisogna intendere le seguenti prezzi sempre che si verificassero eccessi o scarsità di beni di consumo, e non si producessero situazioni di razionamento (com’è evidente, questo sistema non permetterebbe il calcolo economico per tutte le ragioni che abbiamo visto analizzando la proposta di Lange). Benché in questo articolo Lange dica che il fatto che discuta la possibilità teorica di eliminare la libertà dei consumatori non significa che la difenda (per il fatto di considerarla non «democratica») sappiamo già che alla fine della sua vita divenne, lentamente e sempre più decisamente, favorevole alla soluzione stalinista, nella quale i desideri dei consumatori praticamente non sono tenuti in nessuna considerazione, e il problema che pone il calcolo economico si riduce in modo fittizio a imporre il contenuto del piano a tutti i livelli con carattere coercitivo. In lingua tedesca, anche Herbert Zassenhaus nel suo «Über die Ökonomische Teorie der Planwirtschaft», pubblicato nel volume n.º 5 di Zeitschrift für Nationalökonomie, nel 1935 (esiste una traduzione in inglese pubblicata nel 1956, nel n.º 6 di International Economic Papers con il titolo «On the Theory of Economic Planning», pp. 88 a 107), difende un sistema di calcolo economico socialista basato, fondamentalmente, sull’eliminare la libertà di scelta dei consumatori, e sull’utilizzare una soluzione di tipo matematico in cui la concorrenza decentralizzata si mantiene fino a un certo livello. Zassenhaus si caratterizza per la sua mancanza di chiarezza ed, esplicitamente, per la sua mancanza di realismo, poiché ritiene che la comunità si mantenga sempre statica.

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affermazioni di Mises: «As soon as one gives up the conception of the freely established monetary price for goods of a higher order, rational production becomes completely impossible. Every step that takes us away from private ownership of the means of production and from the use of money also takes us away from rational economics.»57 E anche che, per le ragioni annotate, «socialism is the abolition of rational economy».58 Ma quello che Mises non afferma mai, contro le interpretazioni parziali e interessate che di lui hanno dato alcuni dei suoi oppositori, è che sia impossibile cercare di mettere in pratica con la forza qualsiasi utopia, in generale, e in particolare il sistema socialista. Al contrario, Mises dice che la conoscenza teorica del fatto che è impossibile calcolare economicamente nel sistema socialista impressionerà solamente coloro che pensano erroneamente che tale sistema possa ottenere alcuni gradi di efficienza, di sviluppo economico e di civilizzazione maggiori di quelli del sistema capitalista, ma non gli altri che difendono il socialismo per invidia o per ragioni di tipo emotivo o passionale, «etiche» o «ascetiche». In effetti, nel 1920 Mises scrive quanto segue: «The knowledge of the fact that rational economic activity is impossible in a socialist commonwealth cannot, of course, be used as an argument either for or against socialism. Whoever is prepared himself to enter upon socialism on ethical grounds on the supposition that the provision of goods of a lower order for human beings under a system of a common ownership of the means of productions is diminished, or whoever is guided by ascetic ideals in his desire for socialism, will not allow himself to be influenced in his endeavours by what we have said…But he who expects a rational economic system from socialism will be forced to re-examine his views.»59

57 «Non appena si rinuncia a concepire l’esistenza di prezzi monetari stabiliti liberamente nel mercato per i beni di capitale, la produzione razionale diviene completamente impossibile. Ogni passo che ci allontana dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dall’uso del denaro ci allontana anche dall’economia razionale.» Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 104. 58 «Il socialismo presuppone l’abolizione dell’ economia razionale.» Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 110. Bisogna riconoscere che Mises espone la sua tesi in modo leggermente più «estremo» nella versione tedesca del suo libro su Il Socialismo, per quel che riguarda i termini utilizzati. Così, alla p. 197 della seconda edizione tedesca del 1932, ristampata nel 1981 (Philosophia Verlag, Munich), leggiamo: «Der Kapitalismus ist die pinzi denkbare und mögliche Gestalt arbeitsteilenden gesellschaftlichen Wirtschaft.» Questa affermazione, che il capitalismo è l’unico sistema concepibile di economia sociale, viene leggermente ammorbidita nella versione inglese, nella quale, alla traduzione inglese letterale, si fa seguire la «piccola aggiunta» che qui di seguito riportiamo in corsivo: «Capitalism is the only conceivable form of social economy which is appropriate to the fulfillment of the demands which society makes of an economic organization» (p. 194 della versione inglese). La versione inglese è leggermente meno drastica di quella tedesca, anche se crediamo che la versione tedesca sia in perfetta sintonia con quello che Mises aveva affermato due anni prima nel suo articolo sul calcolo economico, dato che, per Mises, «economia sociale» significa «economia razionale». Toni leggermente più morbidi li possiamo trovare anche alla p. 117 della versione tedesca che dice: «Der Versuch die Welt sozialistisch zu gestante, könnte die Zivilisation zertrümmern, er wird aber nie zur Aufrichtung eines sozialistischen Gemeinwesens führen können.» Ora, alla p. 118 della versione inglese vediamo che si afferma: «It would never set up a successful socialist community», dove è stato aggiunto l’aggettivo «successful». Nonostante queste leggere variazioni che appaiono nella versione inglese rispetto alla versione tedesca del libro di Mises su Il Socialismo, crediamo che l’idea di Mises sia perfettamente raccolta nel suo articolo dell’anno 1920, e che non subisca sostanziali modifiche nei suoi lavori successivi. 59 «La conoscenza del fatto che è impossibile l’attività economica razionale in una comunità socialista, non può, ovviamente, essere utilizzata come un argomento a favore o contro il socialismo. Chiunque desideri abbracciare il socialismo per ragioni di tipo etico, dando per scontato che le scorte di beni di consumo per gli esseri umani si vedranno ridotte drasticamente, o chiunque desideri abbracciare il socialismo per ragioni di tipo ascetico, non si lascerà influenzare da niente di ciò che abbiamo detto…Tuttavia, chi si aspettasse dal socialismo un sistema economico razionale dovrà per forza riesaminare le sue idee.» Ludwig von Mises, «Economic Calculation in the Socialist Commonwealth», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 130.

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Hayek, da parte sua, e in pieno accordo con Mises, dichiara che anche se in un certo senso è «possibile» intraprendere qualsiasi corso d’azione, per quanto sembri assurdo e pazzesco, e, da quel punto di vista, pertanto, si può addirittura cercare di mettere in pratica un sistema socialista, in una prospettiva teorica si pone la questione dell’«impossibilità del socialismo», unicamente ed esclusivamente nel senso che il corso d’azione socialista sia coerente con gli obbiettivi che vuole raggiungere: concretamente, ottenere uno sviluppo economico e sociale coordinato e armonioso, almeno uguale, e se è possibile superiore, a quello che si porta a termine con il sistema capitalista. Bene, se l’obbiettivo era quello di por fine all’«anarchia di mercato», superandone le «inefficienze» e ottenendo, grazie alla coazione e all’utilizzazione di un piano economico razionale di tipo centralizzato, una maggiore efficienza economica, è chiaro che il socialismo, non potendo raggiungere questi obbiettivi, è, nei termini spiegati, un’impossibilità. O, espresso in altro modo, siccome il sistema socialista rende impossibile il calcolo economico e il comportamento conforme degli agenti sociali, non è possibile che tale sistema raggiunga l’obbiettivo di superare in coordinazione ed efficienza il sistema capitalista. Infine, Hayek riconosce che l’impossibilità di raggiungere l’efficienza economica e la discesa generale nello sviluppo che deve produrre per forza l’impossibilità del calcolo economico socialista può essere che lasci inalterato il desiderio di coloro che continuano ad appoggiare il socialismo per altri motivi (religiosi, passionali, etici o politici), benché in questo caso la scienza economica offra una conoscenza e un servizio di grande valore, anche a questo secondo gruppo di persone, dato che fa loro conoscere i veri costi delle loro scelte politiche, etiche o ideologiche, e li può aiutare, nel loro caso, a rivederle o a confermarle.60

Non c’è dubbio che l’analisi di Mises e Hayek ha comportato, in ogni caso, un importante «catino d’acqua fredda» per tutti coloro, esperti e non esperti di economia, che con tanta ingenuità e grande illusione hanno appoggiato il socialismo pensando che esso avrebbe significato la panacea per risolvere tutti i problemi sociali, permettendo di ottenere un’efficienza e uno sviluppo economico mai visti sotto il capitalismo. E non c’è neppure alcun dubbio che, per la maggior parte delle persone, il fatto che il socialismo comporti un impoverimento generalizzato e una perdita di efficienza è un argomento poderoso, e in molte circostanze definitivo, per il suo abbandono come ideale. Tuttavia, non si può ignorare che il socialismo come «ideale» ha un’importante componente etica, e addirittura «religiosa», che rende inevitabile la sua trattazione dall’ottica dell’etica sociale. Questo è il motivo per cui si fanno sempre più sforzi nella ricerca per analizzare se, indipendentemente dai problemi teorici di efficienza economica già descritti, il socialismo sia o no un sistema eticamente ammissibile. E di fatto, e almeno in una delle prospettive del campo dell’etica sociale che sono state analizzate (quella del diritto naturale), ci sono ragioni poderose per considerare che l’ideale socialista sia radicalmente contrario alla natura dell’uomo (come potrebbe essere altrimenti dal momento che il socialismo si basa sull’esercizio della violenza e sulla coazione sistematica contro la più intima ed essenziale 60 Hayek rimprovera a Mises il fatto di aver utilizzato, a volte, l’espressione «il socialismo è impossibile», quando, in realtà, quello che voleva dire è che il calcolo economico razionale in un sistema socialista è impossibile. Non crediamo che questo rimprovero sia molto giustificato viste le chiare affermazioni di Mises raccolte nel testo (solo nel suo libro su Il Socialismo appaiono alcune espressioni simili a quelle che menziona Hayek, anche se, tenendo conto del contesto generale in cui si trovano, non lasciano alcun dubbio per quel che riguarda il loro significato). «Much of the objections made at first were more a quibbling about words caused by the fact that Mises had occasionally used the somewhat loose statement that socialism was impossible, while what he meant was that socialism made rational calculations impossible. Of course any proposed course of action, if the proposal has any meaning at all, is possible in the strict sense of the word, i.e. it may be tried. The question can only be whether it will be led to the expected results, that is whether the proposed course of action is consistent with the aims which is intended to serve.» F.A. Hayek, «Nature and History of the Problem», Collectivist Economic Planning, opera citata, p. 36. Curiosamente, nei tempi attuali di cambiamenti rivoluzionari nei paesi dell’Est che hanno portato alla caduta del socialismo, l’espressione riassuntiva «il socialismo è impossibile» ha acquisito un uso generalizzato a livello colloquiale.

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caratteristica dell’essere umano: la sua capacità di agire liberamente). Sulla base di questo argomento, pertanto, il sistema socialista non solo sarebbe teoricamente erroneo, ma anche eticamente inammissibile (cioè, immorale e ingiusto), per cui «alla lunga» sarebbe impossibile da mettere in pratica in modo coerente, e, andando contro la natura stessa del genere umano, sarebbe inesorabilmente condannato al fallimento. Il fatto è che, in quest’ottica, scienza ed etica non sono se non le due facce della stessa moneta, e nel mondo esiste un ordine coerente, non contraddittorio e nel quale le conclusioni nel campo scientifico, nel campo storico-evolutivo e nel campo etico tendono sempre, in ultima istanza, a convergere divenendo coincidenti.61

Orbene, se la scienza economica dimostra che il calcolo economico razionale è impossibile nel sistema socialista, e se l’analisi teorica dell’etica sociale mette in evidenza che il socialismo è ugualmente impossibile perché va contro la natura umana, che conclusioni si possono trarre da uno studio storico-interpretativo delle esperienze socialiste che si sono messe in pratica fino ad ora? Quello che va chiarito, pertanto, è se i fatti storici accaduti nei paesi socialisti sono conformi o si adattano all’analisi teorica del socialismo, cosi come è stata sviluppata da Mises e Hayek. Secondo questa analisi, ciò che ci si può aspettare dall’introduzione di un sistema socialista, nel quale non esiste libertà di esercizio della funzione imprenditoriale, ed esattamente nella misura in cui tale libertà viene limitata, è, da un lato, un’errata assegnazione generalizzata delle risorse e dei fattori di produzione, nel senso che determinate linee di produzione si svilupperanno eccessivamente e a spese di altre che producono beni e servizi di cui forse la popolazione ha più bisogno. Allo stesso modo, si produrrà un eccessivo sviluppo di determinati progetti, non giustificato se non da ragioni strettamente tecniche o tecnologiche, e che si intraprendono senza tener conto dei costi a cui si va incontro. Paradossalmente, questa tendenza incontrollata a sviluppare progetti per ragioni strettamente «tecniche» impedirà l’introduzione generalizzata di nuove tecnologie e metodi di produzione economicamente più interessanti, e che si sarebbero potuti scoprire e mettere in pratica se fosse esistita una completa libertà per l’esercizio dell’imprenditorialità.62 Insomma, si verificherà un 61 Riguardo a questo tema non possiamo far a meno di menzionare, soprattutto, gli apporti che nel campo dell’etica sociale hanno sviluppato Israel M. Kirzner (Discovery, Capitalism and Distributive Justice, Basil Blackwell, Londra !989), e Hans-Hermann Hoppe (A Theory of Capitalism and Socialism, Kluwer Academic Publishers, Olanda 1989). Entrambi gli autori (ai quali forse dovremmo aggiungere il libro, già in un certo senso superato, anche se molto importante, di Robert Nozick, Anarchy, State and Utopia, Basic Books, New york 1974; esiste una traduzione spagnola di Rolando Tamayo pubblicata dal Fondo de Cultura Económica, Messico 1988; e una edizione italiana dal titolo Anarchia, stato e utopia, Net, Milano 2005) mettono in evidenza che il socialismo non solo è teoricamente impossibile, ma è anche eticamente inammissibile; Kirzner sulla base della stimolante teoria che ogni essere umano ha il diritto naturale di appropriarsi dei risultati della propria creatività imprenditoriale, e Hoppe, partendo dall’assioma habermasiano che la discussione con altri esseri umani significa sempre l’accettazione e il riconoscimento implicito dell’individualità e del diritto di proprietà dell’altro «io» sul proprio essere, sul proprio pensiero e sulle proprie realizzazioni, da cui egli deduce logicamente, a partire da questo assioma, tutta una teoria del diritto di proprietà e del capitalismo. Sulla mia teoria dei tre livelli distinti ma complementari per studiare la realtà sociale (teorico, storico-evolutivo ed etico) si può vedere la mia «Introducción», volume I delle Obras Completas di F:A: Hayek (Unión Editorial, Madrid 1990, pp. 23-24).L’immoralità del socialismo si può intendere in modo diverso secondo il livello che si prende in considerazione. O, se si preferisce, il socialismo è immorale almeno in tre significati diversi. Primo, e da un punto di vista teorico, il socialismo è immorale poiché, come sistema sociale, rende impossibile generare l’informazione di cui il sistema stesso ha bisogno per ottenere gli scopi che si è proposto. Secondo, dal punto di vista di un’ottica evolutiva, non c’è niente di più immorale del socialismo, nel senso che consiste in un’utopia costruttivista che disprezza il valore delle norme e delle usanze tradizionali (mos-moris, usanza). E in terzo luogo, dal punto di vista dell’etica, il socialismo presuppone l’aggressione contro il principio più essenziale della natura umana: la sua capacità di agire liberamente e in modo creativo, appropriandosi dei frutti della propria creatività imprenditoriale. 62 Hoff ha messo in evidenza che ogni tendenza contro la funzione imprenditoriale e a favore del socialismo offre un maggiore protagonismo, in tutti gli ordini sociali, implicitamente ed esplicitamente, alla mentalità tecnica che è propria dell’ingegnere. Ciò si deve al fatto che, una volta eliminate le considerazioni relative al

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eccesso di investimenti nelle industrie maggiormente capital intensive, in detrimento della produzione di beni e servizi di consumo, derivato dal ridotto livello fissato arbitrariamente del tasso d’interesse. E, in generale, l’irrazionalità e lo scoordinamento sociale si estendono a tutti gli ordini, cosa che determinerà che con lo stesso sforzo e appoggio sociale e a parità di circostanze il livello di vita e la produzione di beni e servizi di consumo sarà molto più ridotta, in quantità e in qualità, in un sistema socialista che in un sistema capitalista. O, espresso in altra forma, che, a parità di circostanze, il sistema socialista potrà solo avvicinarsi al sistema capitalista, incorrendo in costi umani, in ambito ecologico, e in generale nell’ambito del resto dei fattori produttivi, molto maggiori, o, se si preferisce, non necessari e completamente sproporzionati.

Dunque, benché questo non sia il luogo adeguato per analizzare dettagliatamente l’esperienza storica dei sistemi socialisti, ora possiamo anticipare che l’interpretazione storica delle suddette esperienze illustra e coincide pienamente con le conclusioni a priori della teoria economica del socialismo così come è stata sviluppata da Mises e Hayek. In effetti, i sistemi socialisti si sono dimostrati incapaci di coordinare razionalmente le loro decisioni economiche e sociali, di mantenere un livello minimo di adattamento ed efficienza,63 di soddisfare i desideri di beni e servizi di consumo dei loro cittadini e di dare impulso allo sviluppo economico, tecnologico e culturale delle loro società. E così, le distorsioni e contraddizioni dei sistemi socialisti dei paesi dell’Est si sono fatte così evidenti per la maggioranza delle loro popolazioni, che il clamore popolare per l’abbandono del socialismo e la reintroduzione del capitalismo è stato insopportabile per gli antichi regimi che, uno dopo l’altro, si sono disgregati. In questo senso, la caduta del socialismo nei paesi dell’Est va considerato, senza alcun dubbio, come un grande trionfo scientifico e una spiegazione, senza precedenti nella storia della scienza sociale, dell’analisi teorica del socialismo che la Scuola Austriaca ha portato avanti fin dagli anni 20. Tuttavia, e una volta messo in risalto quello che le suddette circostanze storiche significano come omaggio a Ludwig von Mises e come soddisfazione per lo stesso Hayek, il resto degli economisti della loro scuola e pochi altri, non si può omettere di aggiungere che, avendo messo in beneficio e al costo imprenditoriale, è quasi inevitabile non dare un’importanza sproporzionata e unilaterale alle considerazioni di tipo «tecnico». Questo fenomeno si produce non solo a livello delle diverse industrie e settori, ma anche a livello generale di tutta la società. E, di fatto, i politici e i funzionari socialisti finiscono inesorabilmente per credersi straordinari «ingegneri sociali» capaci di modellare la società a loro piacimento, introducendovi il «cambiamento» necessario per portarla a delle «quote crescenti» di sviluppo economico e sociale. Hoff conclude che «a product which is technically perfect is ex-hypothesis ideal for its purpose from the technical point of view: it gives joy to the engineers and technical experts and can even give laymen aesthetic pleasure, but it must be insisted that the production of a technical perfect article is economically irrational and an economic misuse of labour and material, if this would have satisfied more needs have they being used for another purpose». Hoff, Economic Calculation in the Socialist Society, opera citata, p. 141 (frase finale della nota n.º 8). Paradossalmente, il tentativo di introdurre in ogni settore della produzione le ultime innovazioni tecnologiche, indipendentemente dalle necessarie considerazioni di costo, finisce per ritardare tecnologicamente la società, dato che le innovazioni tecnologiche veramente interessanti per la società (quelle scoperte e introdotte con criterio imprenditoriale) non vengono scoperte e cessano di venire applicate nel tempo e nel luogo adeguati. Da parte sua, D.T. Armentano insiste che il pianificatore socialista non ha un modo umano per sapere che progetto è più economico ed efficiente, per cui le sue decisioni tenderanno a essere scoordinate, sia intra che intertemporalmente; e ciò anche se cerca di giustificare o «vestire» la sua decisione con considerazioni di tipo tecnico. E conclude, riferendosi al famoso esempio di Mises relativo a quel gestore socialista che deve scegliere fra la costruzione di una centrale energetica che utilizza petrolio e un altro che utilizza energia nucleare che «if and when the power plant is built at a particular point with particular resources, it will represent an “arbitrary” and not an economic decision», per il fatto di non disporre dell’informazione relativa ai prezzi e ai costi che si genererebbero spontaneamente in un mercato libero mosso dall’imprenditorialità. Vedere «Resources Allocation Problems under Socialism» in Theory of Economic Systems. Capitalism, Socialism, Corporation, William P. Snavely (ed), Merril, Columbus, Ohio 1969, pp. 133-134. 63 Logicamente, non intendiamo l’ «efficienza» nei termini paretiani di massimizzazione, ma come un attributo della coordinazione imprenditoriale in contesti creativi e di incertezza.

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evidenza a priori l’analisi teorica fatta da loro che il socialismo non potrebbe funzionare per il fatto che si basa su un errore intellettuale e che darebbe necessariamente luogo a ogni tipo di scompensi e distorsioni sociali, si può considerare un’immensa tragedia che siano dovuti trascorrere tanti anni di indicibile sofferenza di milioni di esseri umani perché si sia messo storicamente in luce qualcosa che già fin dal principio, e grazie agli apporti della Scuola Austriaca dell’Economia, in teoria si sapeva che sarebbe dovuto succedere per forza. Di quella sofferenza umana sono specialmente responsabili, non solo una maggioranza dei membri della stessa comunità scientifica, per aver negligentemente trascurato e addirittura occultato dolosamente il contenuto dell’analisi austriaca del socialismo, ma anche quel goffo positivismo anacronistico, ancora imperante e secondo il quale solo l’esperienza, al di là di qualsiasi teoria, sarebbe in grado di mettere in luce le possibilità di sopravvivenza di qualsiasi sistema sociale.64 Con la gloriosa eccezione di Mises, Hayek, il resto degli economisti dalla loro scuola e pochi altri, praticamente tutta la comunità di scienziati sociali ha tradito l’umanità, fallendo, come minimo, al momento di adempiere il loro importantissimo dovere scientifico di avvisare e avvertire i cittadini dei pericoli derivati dall’ideale socialista, per cui diventa imprescindibile portare a termine una depurazione molto salutare e formativa delle responsabilità scientifiche che, di fronte alla cittadinanza e al futuro della storia del pensiero economico, situi ogni teorico, indipendentemente dalla fama, dal nome o dalla popolarità che abbia potuto acquisire in modo congiunturale in altri contesti, nel luogo che gli corrisponde realmente.

Pertanto sono indispensabili parole di cautela riguardo a nostri commenti sull’interpretazione storica delle esperienze socialiste. Questo perché, contrariamente a quello che molti teorici «positivisti» suppongono, non riteniamo che l’evidenza empirica sia sufficiente, da sola, a confermare o confutare una teoria scientifica nel campo dell’economia. Abbiamo deliberatamente affermato che gli studi storici «illustravano» ed «erano d’accordo» con le conclusioni teoriche, ma non che essi «confermassero» o «dimostrassero» la loro validità.65 Effettivamente, benché questo non sia il luogo adatto per riportare l’analisi delle insufficienze logiche della «metodologia positivista»,66 è chiaro 64 Così, per esempio, questo goffo «scientismo positivista» ossessiona e impregna, in generale, il sistema educativo e il mondo accademico nordamericano, e in particolare tutti gli apporti della denominata «Scuola di Chicago», compresi quelli di uno dei suoi membri più illustri, George Stigler, che ritiene che entrambe le parti nel dibattito abbiano fallito al momento di apprezzare le conseguenze «empiriche» delle loro rispettive posizioni, e per il quale solo l’«evidenza empirica» può risolvere le differenze esistenti fra i sostenitori del capitalismo e del socialismo (The Citizen and the State, The University of Chicago Press, Chicago 1975, pagine 1-13). Si veda l’eccellente commento critico alla posizione di Stigler sviluppato da Norman P. Barry nel suo «The Economics and Philosophy of Socialism», Il Politico, Università di Pavia, 1984, anno XLIX, n.º 4, pp.573-592. 65 Si vedano le interessanti osservazioni di Fritz Machlup in «Testing versus Illustrating», pp. 231-232 del volume III (The Economics of Information and Human Capital) di Knowledge. Its Creation Distribution and Economic Significance, opera citata. 66 Un riassunto dell’analisi critica della metodologia positivista così come della sua bibliografia più importante è contenuto nel mio articolo «Método y Crisis en la Ciencia Económica», Hacienda Pública Española, n.º 74, 1982, pp. 33 a 48, riportato nel volume I delle mie Lecturas de Economía Política, Unión Editorial, Madrid 1986, pp. 11 a 33. Le idee metodologiche della Scuola Austriaca si vanno depurando parallelamente a come si sviluppa il dibattito sul calcolo economico socialista, e la completa articolazione della critica alla metodologia positivista si può considerare come uno dei sottoprodotti più interessanti del suddetto dibattito, poiché di fatto ed esattamente per le stesse ragioni per le quali il socialismo è un errore intellettuale (impossibilità di ottenere l’informazione pratica necessaria in modo centralizzato), in Economia non è possibile osservare direttamente fatti empirici, né contrastare empiricamente alcuna teoria, né effettuare, insomma, predizioni specifiche di tempo e luogo di quello che dovrà succedere. Questo perché l’oggetto della ricerca della Scienza Economica è costituito dalle idee e dalla conoscenza che gli esseri umani creano e che hanno di ciò che fanno, e questa informazione è in continuo mutamento, è molto complessa e non si può essere misurata, osservata né catturata da uno scienziato (e nemmeno da un organo centrale di pianificazione). Se fosse possibile misurare i fatti sociali e contrastare empiricamente le teorie economiche, il socialismo sarebbe possibile e, viceversa, sono le stesse ragioni che rendono impossibile il socialismo

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che l’esperienza del mondo sociale è sempre un’esperienza di tipo storico, cioè, riferita a fatti molto complessi in cui intervengono innumerevoli «variabili» che non si possono osservare direttamente, ma che si possono solo interpretare alla luce di una teoria previa. A seconda che la teoria sia una o un’altra, anche l’interpretazione dei fatti storici sarà diversa, per cui lo stabilire previamente delle teorie che permettano di interpretare la realtà in modo corretto, mediante altri procedimenti metodologici che non siano quelli positivisti, acquisisce una straordinaria importanza. Pertanto non esiste un’evidenza storica incontrovertibile, e ancor meno che permetta di confermare o no se una teoria è vera o falsa. Inoltre, e anche se così non fosse, la discussione teorica in generale, e in particolare sul socialismo, permette di arrivare a conclusioni di enorme valore, che se si fossero prese in considerazione in tempo, avrebbero risparmiato, come abbiamo già detto, non solo decenni e decenni di sforzi infruttuosi, ma anche numerosi conflitti di tutti i tipi e un’indicibile quantità di sofferenze umane. Aspettarsi, pertanto, che la storia «confermi» se un sistema economico sia o no fattibile, non solo è un’impossibilità logica, poiché la storia non può confermare né confutare nessuna teoria, ma implica anche cadere nell’assurdità di rinunciare a priori agli insegnamenti delle teorie corrette sviluppatesi al margine dell’esperienza, invitando, inoltre, a tentare qualsiasi assurdità o utopia con costi umani sproporzionati,67 con il pretesto di rendere possibile l’analisi dei corrispondenti «risultati sperimentali».

Era indispensabile fare questi commenti, perché, anche se al momento di scrivere queste righe (1990-1991) la caduta dei sistemi socialisti dei paesi dell’Europa dell’Est e la loro evoluzione negli ultimi decenni, in generale, confermino pienamente le «previsioni» che si potrebbero trarre dagli insegnamenti sul socialismo di Mises e Hayek, questo non è sempre stato così68 e, in determinate tappe storiche, si è addirittura arrivati a credere in modo generalizzato, e all’opposto, che l’evoluzione degli avvenimenti nei paesi dell’Est «confutasse» pienamente la teoria dell’impossibilità del socialismo così come era stata enunciata dagli economisti austriaci. Inoltre, in determinate occasioni si è potuto leggere che gli stessi Hayek69 e Robbins,70 in vista del funzionamento pratico del socialismo quelle che rendono inapplicabile la metodologia positivista. I «fatti» della realtà sociale, pertanto, e dato il loro carattere «spirituale», possono solamente essere interpretati storicamente, e per questo è sempre indispensabile disporre di una teoria previa. Riguardo a questi interessantissimi aspetti bisogna consultare le 33 citazioni bibliografiche del mio articolo sul «Metodo» che abbiamo già citato e, specialmente, i lavori di Mises, Theory and History, Yale University Press, Yale 1957 (esiste una traduzione in spagnolo di Rigoberto Juárez Paz, pubblicata a Madrid da Unión Editorial nel 1975); e di Hayek «The Facts of the Social Sciences», in Individualism and Economic Order, opera citata, pp. 57 a 76, e The Counter- Revolution of Science, Free Press, Glencoe, Illinois 1952 (esiste una magnifica riedizione pubblicata a Indianapolis da Liberty Press nel 1979). Una spiegazione positiva e spassionata del paradigma metodologico austriaco si trova in Bruce Caldwell, Beyond Positivism. Economic Methodology in the Twentieth Century, George Allen and Unwin, Londra 1982, e specialmente le pp. 117 a 138. 67 Mises insiste sul fatto che gli insegnamenti delle esperienze sovietiche non bastano a stabilire nessuna argomentazione teorica in relazione al socialismo e conclude che «The fallacies implied in a system of abstract reasoning –such as socialism is – cannot be smashed otherwise than by abstract reasoning». Socialism, opera citata, p. 535. 68 L’interpretazione a livello popolare dei fatti storici in certe occasione è stata comparativamente più «facile». Così è stato, per esempio, in relazione agli evidenti fallimenti di quello che fu mal chiamato «comunismo di guerra», che costrinsero Lenin nel 1921 ad adottare la Nuova Economia Politica. Ed è anche evidente l’interpretazione degli avvenimenti storici degli ultimi anni, culminati con la caduta di tutti i regimi comunisti dei paesi dell’ Europa dell’Est. Forse l’interpretazione dei fatti storici è più complicata in altre tappe che, tuttavia, sempre dopo un attento studio, confermano la tesi della teoria dell’impossibilità del calcolo economico socialista. In questo senso si può vedere, per esempio, l’epigrafe «Does Russia refute Mises?» inclusa nell’articolo «The Failure of Bolchevism and its Aftermath», di David Ramsay Steel, apparso nel Journal of Libertarian Studies, volume 5, n.º 1, inverno del 1981, pp. 105-106. 69 Per Hayek, questa versione non è altro che una «scandalosa distorsione dei fatti» (si veda la nota 25 del Capitolo V), d’altro canto specialmente evidente se teniamo in considerazione che i commenti su cui si basano i suoi critici per giustificare la suddetta «ritirata» sono fatti da Hayek non solo di sfuggita, ma anche

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nell’Unione Sovietica, abbandonarono la posizione estrema di Mises e si rifugiarono in una «seconda linea di difesa», che consisteva nell’affermare che, benché il socialismo potesse «funzionare» (cioè, che «non era impossibile»), nella pratica avrebbe posto gravi problemi di inefficienza. Come già sappiamo, questa interpretazione è completamente sbagliata, dal momento che né Mises né Hayek si ritirano in nessun momento in una «seconda linea di difesa». Al contrario, hanno sempre pensato che i fatti dell’Unione Sovietica confermassero pienamente la teoria misiana del socialismo incluso in quelle tappe storiche in cui i fallimenti e le insufficienze del sistema si riuscirono a nascondere meglio e sembrarono meno evidenti.71 5. CONCLUSIONI FINALI

In vista di tutto quello che si è detto sul dibattito riguardo al calcolo economici socialista, possiamo concludere che nessuno dei teorici socialisti è stato capace di rispondere in modo soddisfacente alla sfida lanciata da Mises e Hayek. In primo luogo, nella maggioranza dei casi non sono stati capaci di capire il vero significato della suddetta sfida. con lo scopo ovvio di mantenere la tradizionale cortesia accademica di cui si è sempre vantato, permettendo che i suoi oppositori, almeno sulla carta, non risultassero completamente sconfitti. In questo senso si devono interpretare le osservazioni raccolte non solo alla p. 187 di Individualism and Economic Order (opera citata), ma anche alle pp. 238 e 242 dell’articolo sul «Present State of the Debate» (Collectivist Economic Planning, opera citata) nelle quali leggiamo espressamente: «But while this makes it illegitimate to say that these proposals are impossible in any absolute sense, it remains not the less true that these very serious obstacles to the achievement of the desired end exist and that there seems to be no way in which they can be overcome…» (p. 238). «No one would want to exclude every possibility that a solution may yet be found. But in our present state of knowledge serious doubt must remain whether such solution can be found» (p.242). Pertanto non bisogna meravigliarsi se più di 40 anni dopo la parte più importante del dibattito sul calcolo economico, Hayek, nel suo articolo del 1982, non sia stato capace di mantenere con i suoi oppositori intellettuali, che continuano a sostenere le loro grossolane interpretazioni errate sulla sua supposta «ritirata» a una «seconda linea di difesa», la stessa pazienza e cortesia per lui usuali fino a quel momento. Lo stesso Hayek ha riconosciuto espressamente che le sue espressioni di cortesia e di cavalleria sono state utilizzate dai suoi oppositori con poca onestà scientifica e che oggi non commetterebbe l’errore di dar adito a malintesi in ossequio alle buone maniere accademiche: «I might, perhaps, also add that J. A. Schumpeter then accused me with respect to that book of “politeness to a fault” because I “hardly ever attributed to opponents anything beyond intellectual error”. I mention this as an apology in the case that, on encountering the same empty phrases more than 30 years later, I should not be able to command quite the same patience and forbearance.» «The New Confusion about Planning», Capitolo XIV di New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, opera citata, p. 235. 70 Non sarebbe neanche legittimo ritenere, in nessun senso, che Robbins, di fronte all’evidenza pratica, si fosse ritirato in una «seconda linea di difesa». Al contrario, Robbins riconosce esplicitamente (nota 1 della p. 148 di The Great Depression, opera citata) non solo che la sua argomentazione segue molto da vicino quella sviluppata da Mises nel suo libro sul Socialismo (alla cui traduzione inglese lo stesso Robbins ha contribuito in grande misura, elaborando una prima stesura di alcune delle sue parti più importanti, che in seguito ha consegnato al suo amico J. Kahane per l’edizione definitiva), ma, quando quasi 40 anni dopo l’ormai Lord Robbins scrive la sua autobiografia, mantiene anche esplicitamente la sua opinione e riconosce la validità dell’argomentazione di Mises sull’impossibilità del calcolo economico socialista, così come era stato enunciato originariamente nel 1920. Ecco di seguito le parole dello stesso Robbins: «Mises’ main contentions that without a price system of some sort, a complex collectivist society is without the necessary guidance and that, within the general framework of such a society, attempts to institute price systems which have meaning and incentive in a dynamic contest are liable to conflict with the main intention of collectivism –these still seem to me to be true and to be borne out by the whole history of totalitarian societies since they were propounded.» Vedere Lionel Robbins, Autobiography of an Economist, Macmillan, Londra 1971, p. 107. E anche, Political Economy, Past and Present, Columbia University Press, New York, pp. 135-150. 71 Questa grande variazione nella difficoltà di interpretazione dei fatti dell’esperienza si riproduce con caratteristiche ancora più drammatiche in relazione agli effetti dell’interventismo e della socialdemocrazia dei paesi occidentali, cosa che spiega come in quei contesti l’aiuto della teoria sia, se possibile, ancora più imprescindibile che in relazione al cosiddetto socialismo «reale».

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Si muovevano all’interno del contesto del paradigma neoclassico walrasiano e utilizzavano una strumentazione analitica che in grande misura rendeva loro difficile capire quali sono i veri problemi che sorgono in un sistema nel quale non esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione né libertà di esercitare la funzione imprenditoriale. In secondo luogo, la deviazione verso i problemi della statica (conseguenza, a sua volta, del fenomeno precedente) ha impedito di apprezzare e analizzare dettagliatamente in che cosa consistessero i veri problemi implicati e ha prodotto la falsa sensazione che fossero stati «teoricamente risolti». Per tutto questo, la vera sfida teorica di Mises e Hayek è rimasta senza risposta, e continua ancor oggi ad essere irrisolta, come già cominciano a riconoscere in grado sempre maggiore gli stessi teorici del socialismo. D’altro lato, l’evoluzione degli avvenimenti sociali, economici e politici durante tutto il secolo XX è arrivata a confermare pienamente gli apporti teorici di Mises e Hayek sulla teoria del socialismo, sebbene tuttora per la maggior parte della professione economica dei paesi occidentali il dibattito sia da considerare terminato e deciso agli inizi degli anni 40. Da quella data e fino all’attualità si sono sviluppate diverse linee di ricerca, sia nel campo dei «sistemi comparati» sia nell’area della teoria della «riforma dei sistemi socialisti» e dello sviluppo della planimetria, praticamente disconoscendo totalmente i problemi teorici analizzati da Mises e Hayek durante tutto il dibattito, cosa che ha contribuito, in gran misura, alla sterilità e al fallimento di tutte queste linee di ricerca.

Dalla parte della Scuola Austriaca, non solo coloro che erano inizialmente implicati nel dibattito (soprattutto Mises e Hayek), ma anche un numero crescente di giovani economisti hanno continuato a sviluppare un insieme di teorie molto produttive che si può ritenere che traggano la loro origine scientifica proprio dal dibattito stesso. In questo senso, il dibattito è pregno di conseguenze scientifiche ed è stato molto produttivo per la Scienza Economica, per cui è di grande interesse analizzare le diverse aree dell’ Economia che si sono già viste arricchite da apporti che in origine furono intuiti o nacquero come conseguenza della polemica sul calcolo economico socialista. La maggioranza di questi giovani autori sono stati citati in diverse parti di questo libro, sempre che i loro apporti fossero rilevanti. Tuttavia sarebbe necessario lasciare per un altro lavoro uno studio più profondo e dettagliato su di loro.

La situazione attuale, spinta certamente dagli avvenimenti storici di cui è testimone il mondo nei tempi più recenti in relazione alla caduta dei regimi socialisti nei paesi dell’Est Europa, sta giustificando una revisione generalizzata della versione «tradizionale» del dibattito, che si sta effettuando seguendo le linee maestre che sono state esposte in questo libro, e nella quale giocano un ruolo molto significativo, insieme con un gruppo sempre più numeroso di economisti occidentali, la maggioranza di coloro che fino ad ora erano i teorici più stimati nei paesi socialisti. Speriamo che se il corso della ricerca nel campo della storia del pensiero economico continua in questo modo, in pochi anni si raggiunga un consenso generalizzato sulla necessità di modificare la valutazione e le conclusioni mantenute fino ad ora riguardo al «dibattito sul calcolo economico socialista». Se è così, consideriamo motivo di grande onore e soddisfazione l’aver apportato il nostro piccolo granello di sabbia per la distruzione di quello che non è stato altro che un altro grave e ingiustificato mito della scienza economica.

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como si dijéramos, «átomos» o «bits» de la información que se genera ytransmite globalmente a nivel social,22 pero que paradójicamente sóloél posee, es decir, sólo él conoce e interpreta de forma consciente. Portanto, cada hombre que actúa y ejerce la función empresarial, lo hacede una manera estrictamente personal e irrepetible, puesto que partede intentar alcanzar unos fines u objetivos según una visión y conoci-miento del mundo que sólo él posee en toda su riqueza y variedad dematices, y que es irrepetible de forma idéntica en ningún otro ser hu-mano. Por tanto, el conocimiento al que nos estamos refiriendo no esalgo que esté dado, que se encuentre disponible para todo el mundoen algún medio material de almacenamiento de información (periódi-cos, revistas especializadas, libros, ordenadores, etc.). Por el contrario,el conocimiento relevante para la acción humana es un conocimientode tipo básicamente práctico y estrictamente privativo, que sólo se «en-cuentra» diseminado en la mente de todos y cada uno de los hombresy mujeres que actúan y que constituyen la humanidad. En la Figura II-1 vamos a introducir a unos simpáticos monigotes que nos acompaña-rán a lo largo del presente libro, con la única finalidad de ayudarnos ahacer más gráfico el análisis contenido en el mismo.23

22 Thomas Sowell, Knowledge and Decisions, Basic Books, Nueva York 1980,pp. 3-44. Debemos mencionar, no obstante, que en nuestra opinión, Sowell siguemuy influenciado por la concepción neoclásica del equilibrio y no termina deentender adecuadamente el papel de la empresarialidad. En este sentido, véaseI.M. Kirzner, «Prices, the Communication of Knowledge and the Discovery Process»,en The Political Economy of Freedom, Essays in Honor of F.A. Hayek, PhilosophiaVerlag, Munich 1984, pp. 202-203.

23 Sin duda alguna, ya Adam Smith era consciente de que el conocimientopráctico era básicamente un conocimiento diseminado o disperso cuando escri-bió: «What is the species of domestick industry which his capital can employ, andof which the produce is likely to be of the greatest value, every individual, it isevident, can, in his local situation, judge much better than any statesman orlawgiver can do for him» (la cursiva es mía). Sin embargo, no sólo no expresó laidea con total claridad (cada individuo no sólo conoce «mucho mejor», sino quees el único que plenamente conoce sus circunstancias particulares), sino que nofue capaz de llevarla hasta sus últimas consecuencias en lo que se refiere a la im-posibilidad de encargar a un órgano central que se ocupe de todos los asuntoshumanos (pues considera que ello supondría una «innecesaria carga de atención»,pero no una imposibilidad lógica). An Inquiry into the Nature and Causes of theWealth of Nations, «The Glasgow Edition», Liberty Classics, Indianápolis 1981,volumen I, p. 456, párrafo 10. La representación gráfica de los procesos de trans-misión de información práctica y dispersa es muy difícil y nosotros hemos optadopor efectuarla mediante los simpáticos monigotes del texto. Esperamos que nuestro

análisis de monigotes u «hombres de palo» (stickman analysis) se introduzca confuerza en la ciencia económica del futuro.

En dicha figura queremos representar a dos seres humanos realesde carne y hueso, que denominamos «A» y «B». Cada una de las perso-nas que representan «A» y «B» posee un conocimiento propio o privati-vo de ella misma, es decir, que no tiene la otra; es más, desde el puntode vista de un observador exterior, en este caso nosotros, podemos decirque «existe» un conocimiento, que nosotros como observadores no te-nemos, y que se encuentra disperso entre «A» y «B», en el sentido de que«A» tiene una parte de él, y «B» otra parte. Así, por ejemplo, suponga-mos que la información que tiene «A» es que pretende alcanzar un fin«X» (lo cual representamos con la flecha que tiene en su cabeza y queva dirigida hacia «X») y que con vistas a alcanzar este fin posee un cier-to conocimiento práctico relevante en el contexto de la acción (eseconjunto de conocimiento o información práctica está representado porla aureola de rayitas que tiene «A» en torno a su cabeza). El caso de «B»es similar, sólo que el fin que persigue es otro muy distinto, en este caso«Y» (representado por una flecha que tiene a sus pies, y va dirigida ha-cia «Y»); el conjunto de información práctica que el actor «B» considerarelevante en el contexto de su acción, dirigida a alcanzar «Y», viene re-presentada igualmente por la aureola de rayitas que tiene en torno a sucabeza.

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Figura II–1

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esencialmente creativa.28 Este carácter creativo de la función empresa-rial se plasma en que la misma da lugar a unos beneficios que, en cier-to sentido, surgen de la nada y que denominaremos beneficios empre-sariales puros. Para obtener beneficios empresariales no es preciso, portanto, disponer de medio previo alguno, sino tan sólo es necesario ejer-cer bien la función empresarial. Podemos ilustrar este hecho partiendode la situación descrita en la Figura II-1. Basta darse cuenta de la situa-ción de desajuste o descoordinación que existe entre «A» y «B», para quesurja, de inmediato, la oportunidad de un beneficio empresarial puro.29

Así, en la Figura II-2, se supone que una tercera persona, en este caso«C», es la que ejerce la función empresarial, al descubrir la oportunidadde ganancia inherente al desajuste o descoordinación que se daba enel gráfico de la Figura II-1 (representamos con una «bombilla que seenciende» el hecho de que «C» se dé cuenta de dicha oportunidad; comoes lógico, en la práctica la función empresarial podrá ser ejercida por«A», por «B», o simultáneamente, con igual o distinta intensidad, porcualquiera de ellos, aunque a nuestros efectos sea más gráfico consi-derar en este caso que es llevada a cabo por una tercera persona «C»).

28 Para Santo Tomás de Aquino, «creare est aliquid ex nihilo facere» (es decir,crear es hacer algo a partir de la nada). Suma Teológica, Part. I, Q 45, arts. 1 y ss,B.A.C., vol. II, 1948, p. 740. No compartimos la tesis tomista según la cual sóloDios es capaz de crear, pues el hombre también crea constantemente siempre queejerce la función empresarial. El ex nihilo para Santo Tomás tiene un sentido ex-cesivamente materialista, mientras que para nosotros se da siempre que el hom-bre percibe o se da cuenta de algo que antes ni siquiera había concebido (ibidem,p. 756). Juan Pablo II parece inclinarse hacia nuestra interpretación en su encícli-ca Laborem Exercens (Ediciones Paulinas, Madrid 1981), cuando afirma que elhombre «imita y refleja la acción misma del Creador del Universo» (n.os 4 y 25),aunque a veces confunde el concepto de acción humana con el concepto de «tra-bajo» (ver además la nota 30).

29 Desde nuestra óptica toda acción humana tiene una componente eminen-temente creativa, sin que quepa distinguir entre la creatividad empresarial en elámbito económico y la creatividad en otros ámbitos humanos (artísticos, sociales,etc.), como erróneamente hace Nozick, al no darse cuenta de que la esencia de lacreatividad es la misma en todos los ámbitos, y de que el concepto y característi-cas de la función empresarial que estamos analizando son aplicables a toda ac-ción humana, con independencia del tipo de que se trate. Ver Robert Nozick, TheExamined Life , Simon and Schuster, Nueva York 1989, p. 40.

30 Que la función empresarial sea netamente creadora y que, por tanto, losbeneficios empresariales puros surjan de la nada, nos puede llevar a hacer la si-guiente digresión teológica: admitiendo a efectos dialécticos que exista un SerSupremo, Creador de la nada de todas las cosas, al suponer, como hemos visto, la

Figura II–2

En efecto, basta con que «C» se ponga en contacto con «B», y le ofrezcacomprar ese recurso, de que tan abundantemente dispone y al queprácticamente no le da importancia, por una determinada cantidad,digamos que por 3 unidades monetarias, lo cual satisfará enormemen-te a «B», puesto que jamás pudo imaginar que pudiera obtener tanto porsu recurso. Posteriormente, una vez realizado el intercambio, «C» sepodrá poner en contacto con «A» y venderle este recurso que con tantaintensidad «A» necesita para llevar a cabo el fin que persigue, vendién-doselo por, digamos, 9 unidades monetarias (si «C» carece de dinero,podrá obtenerlo, por ejemplo, convenciendo a alguien para que tem-poralmente se lo preste). Como consecuencia, por tanto, del ejerciciode la función empresarial por parte de «C», éste ha obtenido, ex nihilo,un beneficio empresarial puro de 6 unidades monetarias.30

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posible la vida en sociedad, al coordinar el comportamiento desajusta-do de sus miembros, sino que también permite el desarrollo de la civi-lización, al crear continuamente nuevos objetivos y conocimientos quese extienden en oleadas sucesivas por toda la sociedad; y además, yesto es muy importante, permite igualmente que este desarrollo sea tanajustado y armonioso como sea humanamente posible en cada circuns-tancia histórica, porque los desajustes que constantemente se creanconforme avanza el desarrollo de la civilización, y aparece y surge nuevainformación, a su vez tienden a ser descubiertos y eliminados por lapropia fuerza empresarial de la acción humana.50 Es decir, la funciónempresarial es la fuerza que cohesiona la sociedad y hace posible sudesarrollo armonioso, dado que los inevitables y necesarios desajustesque se producen en tal proceso de desarrollo tienden a ser igualmentecoordinados por la misma.51

La división del conocimiento y el orden «extensivo» de cooperaciónsocial

Dada la limitada capacidad de asimilación de información por par-te de la mente humana, así como el volumen creciente de constantecreación de nueva información por parte del proceso social movidopor la fuerza empresarial, es claro que el desarrollo de la sociedad exigeuna continua extensión y profundización en la división del conocimien-to. Esta idea, que originariamente fue enunciada en una primera ver-sión, torpe y objetivista, con la denominación de división del traba-jo,52 quiere decir, simplemente, que el proceso de desarrollo supone,

50 El proceso empresarial da lugar, por tanto, a una especie de continuo «BigBang» social que permite el crecimiento sin límite del conocimiento. De acuerdocon Frank J. Tipler, Profesor de Matemáticas y Física de la Universidad de Tulane,el límite máximo de expansión del conocimiento en la tierra es de 1064 bits (por loque sería posible aumentar en 100.000 millones de veces los límites físicos de creci-miento hasta ahora considerados), pudiendo demostrarse matemáticamente queuna civilización humana con base espacial podría expandir su conocimiento, rique-za y población sin límite. Y concluye: «Much nonsense has been written on thephysical limits to economic growth by physicists who are ignorant of economics.A correct analysis of the physical limits to growth is possible only if one appreciatesHayek’s insight that what the economic system produces is not material things,but inmaterial knowledge.» Véase Frank J. Tipler, A Liberal Utopia, en «A SpecialSymposium on "The Fatal Conceit" by F.A. Hayek», Humane Studies Review, volu-men 6, n.º 2, invierno 1988-1989, pp. 4-5 (publicado en español en Cuadernos delPensamiento Liberal, n.º 12, Unión Editorial, Madrid 1991, pp. 69-72). Y tambiénel notabilísimo libro de John D. Barrow y Frank J. Tipler, The AnthropicCosmological Principle, Oxford University Press, Oxford 1986, y especialmentesus pp. 658-677.

51 En el gráfico de la Figura II-3 podemos analizar una situación elemental comola descrita en el texto. En efecto, «A» puede emprender su acción porque gracias ala función empresarial ejercida por «C» descubre que hay suficiente recurso R.Posteriormente, a un cuarto sujeto «D», a la vista de la acción emprendida por «A»,se le ocurre que a su vez podría perseguir el objetivo «Z» si es que dispusiese delrecurso «S» que no sabe dónde puede encontrar, pero que está disponible en otrolugar del mercado por el agente «E». Surge por tanto, como consecuencia de lainformación creada en el primer acto empresarial, un nuevo desajuste entre «D» y«E», que crea una nueva oportunidad de ganancia que queda a la espera de serdescubierta y aprovechada por alguien. Y así sucesivamente.

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Figura II-3

52 Sobre la «Ley de la División del Trabajo» y su generalización la «Ley de Asociación» deRicardo, deben consultarse las atinadas consideraciones de Mises en su Human Action, cit.,pp. 157-165. Igualmente puede consultarse: Ludwig von Mises, Nationalökonomie: Theoriedes Handelns und Wirtschaftens, The International Carl Menger Library, 2.ª edición,Philosophia Verlag, Munich 1980, pp. 126-133 (aquí Mises utiliza la expresión«Vergesellschaftungsgesetz» para referirse a la «Ley de Asociación»). Como bien dice Robbins(Politics and Economics, Macmillan, Londres 1963, p. 141), es mérito de Mises el habersedado cuenta de que la Ley de los Costes Comparativos de Ricardo no es sino un casoparticular de una ley mucho más amplia, la «Ley de Asociación», que explica cómo lacooperación entre los más capacitados y los menos capacitados beneficia a ambos, siempreque cada ser humano empresarialmente descubra que sale ganando si se especializa enaquella actividad en la cual tenga una ventaja comparativa relativa mayor. Mises, no obstante,

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desde el punto de vista vertical, un conocimiento cada vez más pro-fundo, especializado y detallado que exige para su extensión horizontalun volumen cada vez mayor de seres humanos (es decir, un incrementoconstante de la población). Este crecimiento de la población es, a lavez, consecuencia y condición necesaria para el desarrollo de la civili-zación, dado que la capacidad de la mente humana es muy limitada yno es capaz de duplicar el enorme volumen de información prácticaque sería preciso si ésta empresarialmente crea de manera continuaday no aumenta en paralelo el número de mentes y seres humanos. Enla Figura II-4 se describe de manera gráfica este proceso de profun-

dización y extensión en la división del conocimiento práctico y dispersoen que consiste el desarrollo de la sociedad movido por la funciónempresarial.53

Los números de la Figura II-4 sirven para identificar a los distintosseres humanos. Las letras representan el conocimiento práctico de cadaser humano dirigido a fines concretos. Las «bombillas encendidas» en-tre las flechas del centro de la figura indican el acto empresarial dedescubrimiento de las ventajas del intercambio y de la división hori-zontal del conocimiento: en efecto, en la segunda línea se observa cómocada ser humano ya no duplica el conocimiento ABCD de todos losdemás, sino que se especializa el 2 en AB y el 3 y el 4 en CD, inter-cambiando unos con otros el producto de su acción empresarial. Lasbombillas en los laterales representan la creación empresarial de nuevainformación y que provoca un aumento en la división vertical del cono-cimiento. En efecto, las nuevas ideas surgen al no ser preciso duplicartodo el conocimiento disperso de los actores en cada uno de ellos. Yque el conocimiento sea cada vez más profundo y complejo exige unaumento de la población, es decir, la aparición de nuevos seres huma-nos (números 5, 6, 7 y 8) que a su vez puedan crear nueva informacióny aprender lo recibido de sus «padres», extendiéndolo a toda la socie-dad mediante el intercambio. En suma, no es posible conocer o sabercada vez más en más áreas concretas sin que aumente el número deseres humanos. O dicho de otra forma, el principal límite al desarrollode la civilización es una población estancada, pues imposibilita conti-nuar el proceso de profundización y especialización del conocimientopráctico que es necesario para el desarrollo económico.54

53 Es preciso tener en cuenta que nos resulta casi imposible ilustrar gráfica-mente ni siquiera las características más importantes del proceso social movidopor la empresarialidad y que Hayek considera que es posiblemente la estructuramás compleja que se da en el universo («the extended order is probably the mostcomplex structure in the universe». The Fatal Conceit, cit., p. 127). Este «ordenextensivo de cooperación social» que venimos describiendo en este capítulo es,por otro lado, el ejemplo más típico de orden espontáneo, evolutivo, abstracto yno diseñado, que Hayek denomina Cosmos y opone al orden deliberado, construc-tivista u organizado (taxis). Ver F.A. Hayek, Law, Legislation and Liberty, TheUniversity of Chicago Press, Chicago 1973, volumen I, Capítulo 2, pp. 35-55.

54 «We have become civilised by the increase of our numbers just as civilisationmade that increase possible: we can be few and savage, or many and civilised. If

no logra ni siquiera en este lugar desprenderse de todos los restos objetivistas que desdeAdam Smith impregnan la teoría de la Ley de la División del Trabajo. Habrá que esperarhasta la página 709 de su Human Action para que en la misma se refiera, ya explícitamente,a la división intelectual del trabajo, que nosotros en el texto hemos llamado división delconocimiento o información.

Figura II–4

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mucho más grave es aún, si cabe, para el ejercicio coordinado de lainteracción humana, la agresión institucional o sistemática que, comohemos visto, constituye el núcleo esencial de la definición de socialis-mo que hemos dado. En efecto, la coacción institucional se caracterizapor ser altamente previsible, repetitiva, metódica y organizada.2 Esta

2 El primero (en junio de 1850) en distinguir entre los conceptos de coacciónsistemática y asistemática fue F. Bastiat, «La Ley», Obras Escogidas, Unión Edito-rial, Madrid 2004, pp. 192-193. Por supuesto que no consideramos incluido den-tro del concepto de agresión sistemática descrito en el texto el nivel mínimo decoacción de tipo institucional que es preciso para prevenir y corregir los negati-vos efectos que la arbitraria agresión no institucional o asistemática produce. Estenivel mínimo de coacción institucional es el que incluso el agresor no institucionaldesea que se le proporcione, fuera del ámbito de su agresión asistemática, parapoder aprovecharse pacíficamente de la misma. La solución del problema que seplantea en toda sociedad a la hora de prevenir y corregir los efectos de la agre-sión asistemática o no institucional exige desarrollar una teoría ética de los dere-chos de propiedad, cuyo principal fundamento radica en considerar que el actores justo propietario de todo aquello que sea el resultado de su creatividad empre-sarial, ejercida sin iniciar contra nadie agresión o coacción alguna. Estimamos quees socialismo toda ampliación del ámbito de la coacción sistemática por encimadel mínimo necesario para el mantenimiento de las instituciones jurídicas que de-finen y regulan el derecho de propiedad. El Estado es la organización por antono-masia de la coacción sistemática o institucional y, en este sentido, siempre que serebase el mínimo necesario de coacción para prevenir y erradicar la agresiónasistemática, Estado y socialismo se convierten en conceptos íntimamente unidos.Aunque no es éste el lugar para exponer los diferentes argumentos esgrimidos enla interesante polémica que se está desarrollando dentro del campo de la teoríaliberal entre aquellos que defienden un sistema de gobierno estrictamente limita-do y los partidarios del sistema anarco-capitalista, es preciso resaltar cómo estosúltimos argumentan que es utópico pensar que una organización monopolista dela coacción puede autolimitarse de forma efectiva y, de hecho, todos los intentoshistóricos de limitar el poder estatal al nivel mínimo ya mencionado han fracasa-do, por lo que estos últimos teóricos proponen un sistema de organizaciones com-petitivas de adscripción voluntaria para hacer frente al problema de la definicióny defensa de los derechos de propiedad, así como de la prevención y represiónde la delincuencia. Aparte de que, si el Estado estrictamente limitado se financiacoactivamente con cargo a impuestos, es decir, agrediendo sistemáticamente a laciudadanía y a su libertad de acción en el campo de la definición y defensa delderecho de propiedad, entonces en un sentido estricto también el Estado limita-do podría calificarse de socialista. Los defensores del gobierno limitado, por sulado, argumentan que incluso las agencias privadas de defensa se verían forzadasa llegar entre sí a acuerdos de principios y organización, por lo que, de nuevo, seharía inevitable el surgimiento de facto del Estado como un resultado del propioproceso de evolución social. Sobre el contenido de esta interesante polémicapueden citarse, entre otras, las siguientes obras: David Friedman, The Machinery

agresión sistemática contra la empresarialidad tiene como principalconsecuencia el imposibilitar en un alto grado y desviar de maneraperversa el ejercicio de la empresarialidad en todas aquellas áreas dela sociedad en las cuales la mencionada agresión incida de forma másefectiva. En el siguiente gráfico representamos la situación típica queresulta del ejercicio sistemático de la coacción.

En la Figura III-1 suponemos que de una manera sistemática y or-ganizada se impide mediante la coacción el libre humano actuar de «C»en relación con «A» y «B» en un área concreta de la vida social. Esto serepresenta por las barras verticales que separan a «C» de «A» y «B». Como

of Freedom, Open Court, Illinois 1989; Murray N. Rothbard, For a New Liberty,Macmillan, Nueva York 1973; y The Ethics of Liberty, Humanities Press, NuevaJersey 1982, Capítulo 23; Robert Nozick Anarchy, State and Utopia, Basic Books,Nueva York 1974. Por su parte, Hayek no se ha manifestado categóricamente so-bre las posibilidades futuras de desarrollo de un sistema anarco-capitalista. Encontra señala el hecho de que hasta ahora en ningún proceso de evolución socialha surgido una sociedad sin Estado, para a continuación indicar que, en todo caso,el proceso evolutivo de desarrollo social aún no se ha detenido, por lo que esimposible conocer hoy si en el futuro el Estado habrá de desaparecer, convirtién-dose en una triste y oscura reliquia histórica, o si, por el contrario, habrá de sub-sistir como Estado mínimo de poder estrictamente limitado (se descarta la exis-tencia a largo plazo del Estado intervencionista o del socialismo real, dada la

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Figura III-1

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EL SOCIALISMO SOCIALISMO, CÁLCULO ECONÓMICO Y FUNCIÓN EMPRESARIAL

Pues bien, el socialismo es un error intelectual porque no es teóri-camente posible que el órgano encargado de ejercer la agresión insti-tucional disponga de la información suficiente como para dar uncontenido coordinador a sus mandatos. Este sencillo argumento, en

el que vamos a ir profundizando con cierto detalle, puede desarrollar-se desde dos puntos de vista distintos pero complementarios: primera-mente, desde el punto de vista del conjunto de los seres humanos queconstituyen la sociedad y que se ven coaccionados; en segundo lugar,desde la óptica de la organización coactiva que ejerce la agresión deforma sistemática. A continuación analizaremos por separado el pro-blema que plantea el socialismo desde cada uno de estos puntos devista.

3. LA IMPOSIBILIDAD DEL SOCIALISMO DESDE LA ÓPTICA DE LA SOCIEDAD

El argumento «estático»

Primeramente, desde el punto de vista de los seres humanos queinteractúan entre sí constituyendo la sociedad (el denominado nivel«inferior» en la Figura III-2), es preciso recordar que cada uno de ellosposee con carácter privativo una información práctica y dispersa queen su mayor parte es de naturaleza tácita y por tanto no articulable. Estohace que sea lógicamente imposible concebir su posible transmisión alórgano director (el que llamamos nivel «superior» en la Figura III-2). Enefecto, no se trata tan sólo de que el volumen agregado de informa-ción práctica sentida y manejada de forma dispersa por todos los sereshumanos a nivel individual sea de tal magnitud que no quepa concebirsu consciente adquisición por parte del órgano director, sino que, so-bre todo, tal volumen se encuentra disperso en la mente de todos loshombres en forma de conocimiento tácito no articulable, por lo que nopuede ser expresado de una manera formal ni explícitamente trans-mitido a ningún centro director.

Ya vimos en el capítulo anterior que la información relevante parala vida social se crea y transmite de una forma implícita, descentraliza-da y dispersa, es decir, no consciente ni deliberada, de manera que losdiferentes agentes sociales aprenden a disciplinar su comportamientoen función del prójimo, pero sin darse cuenta explícitamente de queestán siendo protagonistas de dicho proceso de aprendizaje ni de que,por tanto, están adaptando su comportamiento al de los otros sereshumanos: simplemente son conscientes de que están actuando, es de-cir, tratando de conseguir sus particulares fines utilizando para ello losmedios que creen tener a su alcance. Por tanto, el conocimiento del

ley establece un marco dentro del cual es posible que cada actor cree y descubranuevo conocimiento, y que pueda aprovecharse del mismo persiguiendo sus fi-nes particulares en cooperación con los demás, y todo ello con independencia decuáles sean dichos fines, siempre y cuando se cumpla la ley. Además, las leyes, adiferencia de los mandatos, no son creaciones deliberadas de la mente humana,sino que más bien tienen un origen consuetudinario, es decir, son institucionesque han ido formándose a lo largo de un período muy dilatado de tiempo comoconsecuencia de la participación de muchos individuos, cada uno de los cuales,mediante su comportamiento, ha ido incorporando a las mismas su pequeño acervode experiencia e información. Esta clara distinción entre ley y mandato, en mu-chas ocasiones pasa desapercibida para la mayoría de las personas, como conse-cuencia de la evolución de la legislación estatal que, en su mayor parte, está cons-tituida casi exclusivamente por mandatos que son promulgados con forma de ley.Ver F.A. Hayek, Los Fundamentos de la Libertad, obra citada, Capítulo X, pp. 197a 214. En el cuadro n.º III-1 de este capítulo p. 132-133 detallamos de forma resu-mida de qué manera el socialismo corrompe la ley y la justicia, sustituyéndolaspor la arbitraria imposición de mandatos.

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Nivel «superior»(agresor institucional)

Órgano Central de Coacción(Órgano Director del que emanan

MANDATOScoactivos)

Nivel «inferior»(Sociedad)

Figura III-2

Parcela concreta de la Sociedad sobre la que se ejerce la coacción institucional

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EL SOCIALISMO SOCIALISMO, CÁLCULO ECONÓMICO Y FUNCIÓN EMPRESARIAL

que estamos hablando es un conocimiento del que sólo disponen losseres humanos que actúan en sociedad y que, por su propia naturaleza,no puede ser transmitido explícitamente a ningún órgano coactivo detipo central. Como este conocimiento es imprescindible para podercoordinar socialmente los distintos comportamientos individuales ha-ciendo con ello posible la sociedad, al no poderse transmitir el mismoal órgano director, por su carácter no articulable, es lógicamente absurdopensar que un sistema socialista pueda funcionar.7

El argumento dinámico

El socialismo es imposible, no sólo porque la información que po-seen los actores es por su propia naturaleza explícitamente intrans-misible, sino porque, además, y desde un punto de vista dinámico, losseres humanos al ejercer la función empresarial, es decir, al actuar,constantemente crean y descubren nueva información. Y difícilmentese podrá transmitir al órgano director la información o el conocimien-to que aún no se ha creado, sino que va surgiendo como resultado

7 En palabras del propio Hayek: «This means that the, in some respects alwaysunique, combinations of individual knowledge and skills, which the market enablesthem to use, will not merely, or even in the instance, be such knowledge of facts asthey could list and communicate if some authority ask them to do so. Theknowledge of which I speak consists rather of a capacity to find out particularcircumstances, which becomes effective only if possesors of this knowledge areinformed by the market which kind of things or services are wanted, and howurgently they are wanted.» Ver «Competition as a Discovery Procedure» (1968),incluido en New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas,Routledge and Kegan Paul, Londres 1978, p. 182. Igualmente, en la p. 51 del Ca-pítulo II del volumen I, titulado «Rules and Order», de la obra de F.A. Hayek, Law,Legislation and Liberty (The University of Chicago Press, Chicago 1973; existe unatraducción al castellano de Luis Reig Albiol, publicada por Unión Editorial, Ma-drid, en diversas ediciones) podemos leer lo siguiente: «This is the gist of theargument against interference or intervention in the market order. The reason whysuch isolated commands requiring specific actions by members of the spontaneousorder can never improve but must disrupt that order is that they will refer to a partof a system of interdependent actions determined by information and guided bypurposes known only to the several acting persons but not to the directing authority.The spontaneous order arises from each element balancing all the various factorsoperating on it and by adjusting all its various actions to each other, a balancewhich will be destroyed if some of the actions are determined by another agencyon the basis of different knowledge and on the service of different ends» (la cursivaes mía).

del propio proceso social y en la medida en que éste no se vea agre-dido.

En la Figura III-3 se representa a los actores que van creando y des-cubriendo nueva información a lo largo del proceso social. Conformetranscurre el tiempo, entendido, como ya vimos, en su sentido subjeti-vo o bergsoniano, aquellos que ejercen la función empresarial en inte-racción con sus congéneres, van constantemente dándose cuenta denuevas oportunidades de ganancia que tratan de aprovechar. Comoconsecuencia, la información que tiene cada uno de ellos va modifi-cándose constantemente. Esto se representa en el gráfico mediante lasdistintas bombillas que van encendiéndose conforme transcurre el tiem-po. Pues bien, es evidente que será imposible que el órgano directorse haga con la información necesaria para coordinar mediante mandatosla sociedad, no sólo por ser ésta una información, como hemos visto,de tipo disperso, privativo y no articulable, sino porque, además, lamisma va continuamente modificándose y surgiendo ex nihilo confor-me transcurre el tiempo y se ejerce con libertad la función empresarial.Y difícilmente se puede suponer que sea posible transmitir al órgano

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Figura III-3

Nivel «superior»(agresorinstitucional)

Nivel «inferior»(Sociedad)

a) Cuando los mandatos no traspasan la «cápsula» –momentos t2 ytn– el órgano directivo no puede hacerse con la información

práctica que necesita para coordinar deliberadamente la sociedad

b) Cuando los mandatos traspasan la «cápsula»,tampoco puede hacerse con la información

que necesita, pues al verse agredido elproceso empresarial y no poder perseguirse

libremente los fines individuales, éstos noactúan como incentivos para descubrir la

información relevante, por lo que ésta no segenera (las bombillas

no se «encienden»)

Evolución del tiempo «subjetivo» FUTURO

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EL SOCIALISMO SOCIALISMO, CÁLCULO ECONÓMICO Y FUNCIÓN EMPRESARIAL

ción los más modernos, capaces y revolucionarios ordenadores de cadamomento.

Es decir, el conocimiento generado en el proceso social, relevante aefectos empresariales, seguirá siempre siendo un conocimiento de tipotácito y disperso, y por lo tanto no transmisible a ningún centro direc-tor, y el futuro desarrollo de los sistemas informáticos y de los ordena-dores incrementará aun más el grado de complejidad del problemapara el órgano director, pues el conocimiento práctico generado conla ayuda de tales sistemas se hará progresivamente más complejo, vo-luminoso y rico.12 Por tanto, el desarrollo de la informática y de los or-denadores, no sólo no facilita, sino que hace aún mucho más difícil elproblema del socialismo, en la medida en que permite crear y generarempresarialmente un volumen mucho mayor de información práctica,con un grado de complejidad y detalle cada vez más rico y profundo y,en todo caso, siempre mayor a aquel del que sea capaz de dar cuentainformáticamente el órgano director. En la Figura III-4 se recoge unarepresentación gráfica de este argumento.

Por otro lado, es preciso resaltar que las máquinas y los programasinformáticos elaborados por el hombre nunca podrán llegar a actuar oa ejercer la función empresarial, es decir, a crear ex nihilo o de la nadanueva información práctica, descubriendo y aprovechando nuevasoportunidades de ganancia que antes pasaban inadvertidas.13

12 Es decir, siempre existirá un «lag» o salto cualitativo en cuanto al grado decomplejidad que pueda acometer el órgano director con sus equipos informáticosy el creado descentralizada y espontáneamente por los actores sociales que dis-pongan de equipos similares (al menos de la misma generación) y que siempreserá mucho más complejo. Quizá Michael Polanyi haya explicado mejor que nin-gún otro este argumento cuando afirmó que «our whole articulate equipment turnsout to be merely a tool box, a supremely effective instrument for deploying ourinarticulate faculties. And we need not hesitate then to conclude that the tacitpersonal coefficient of knowledge predominates also in the domain of explicitknowledge and represents therefore at all levels man’s ultimate faculty for acquiringand holding knowledge .... Maps, graphs, books, formulae, etc. offer wonderfulopportunities for reorganizing our knowledge from ever new points of view. Andthis reorganization is itself, as a rule, a tacit performance.» Ver The Study of Man,cit., pp. 24 y 25. Véase igualmente el argumento de Rothbard que comentamos enla nota 84 del Capítulo VI.

13 Además, de acuerdo con Hayek, es una contradicción lógica el pensar quela mente humana pueda algún día llegar a explicarse a sí misma, y mucho más,

que pueda llegar a reproducirse en cuanto a su funcionamiento de generación denueva información. El argumento de Hayek, ya avanzado por nosotros en la nota16 del Capítulo II, es que un orden, constituido por un determinado sistema con-ceptual de categorías, puede dar cuenta de o explicar órdenes más simples o sen-cillos que él (es decir, que estén compuestos de un sistema de categorías mássencillo), pero no cabe concebir ni que llegue a explicarse o autorreproducirse así mismo ni a dar cuenta de órdenes más complejos, puesto que no cabe concebirlógicamente que un sistema de categorías dé cuenta de sí mismo, o explique unaestructura o sistema conceptual de categorías más complejo. Ver F.A. Hayek, TheSensory Order, cit., pp. 185-188. Véanse igualmente los argumentos desarrolladosen contra de las futuras posibilidades del desarrollo de la inteligencia artificial porRoger Penrose en su libro citado en la nota 26 del capítulo anterior. Por últimoseñalemos que aunque el proyecto del paradigma de la inteligencia artificial ten-ga éxito en el futuro (lo cual considero imposible por las razones apuntadas), ellono equivaldría sino a la creación adicional de nuevas inteligencias «humanas», quehabrían de insertarse en el proceso social complicándolo y alejándolo aún másdel ideal socialista (debo este argumento a mi buen amigo Luis Reig Albiol).

La «información» que se almacena en los ordenadores no es una in-formación «sabida», es decir asimilada o interpretada conscientementepor mentes humanas, capaz de convertirse en información prácticarelevante desde el punto de vista social. La «información almacenada»

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Figura III-4

Nivel «Superior»(Agresorinstitucional)

Nivel «inferior»(Sociedad)

Mandatos

Si la generación de ordenadores disponible por ambos niveles es lamisma (representados por las pantallas dibujadas en el gráfico), el

problema del socialismo, en vez de facilitarse, se hace más difícil pueslos ordenadores posibilitan que los actores generen una información

práctica con un grado de complejidad tal, que del mismo no pueden dar cuenta los sistemas informáticos conocidos

(esto se representa por la multiplicación de «bombillas» o actos creativos en

el nivel «inferior»)

Evolución del tiempo subjetivo o bergsoniano FUTURO