sotto il camice niente?
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La salute di bambini tra ignoranza e interessiTRANSCRIPT
Il nido
Un po’ di storia
Il cosiddetto “nido” è una invenzio-
ne della seconda metà del secolo scor-
so e, come tanti altri cambiamenti
operati nell’assistenza sanitaria, moti-
vata dalla volontà di garantire cure
della migliore qualità possibile a
madre e bambino. Per capire
meglio quanto ciò fosse necessario,
però, bisognerebbe tornare indietro a quel
periodo e rendersi conto di quali fossero le condizioni della
maggior parte degli ospedali italiani, ospitati spesso in strut-
ture fatiscenti, per lo più vecchi conventi o caserme abban-
donate, con enormi problemi di manutenzione e di funzio-
nalità per i vari reparti e servizi. Con il relativo benessere
conseguente al boom economico degli anni ’60, si poté
finalmente pensare a realizzare nuove strutture di ricovero,
capaci sia di soddisfare le crescenti esigenze imposte da un
rapido progresso della scienza medica, sia di offrire ai malati
condizioni di degenza dignitose. In questa cornice, dorata,
come abbiamo accennato, dal miraggio della massima sicu-
rezza, si pensò che tenere i neonati in un ambiente dedicato
e incontaminato, allontanandoli dalle madri subito dopo la
nascita, avrebbe consentito un miglior controllo clinico dei
bambini e un più rapido recupero psico-fisico delle puerpe-
re, liberandole dalle ansie relative alla necessità di sorveglia-
re lo stato di salute dei loro figli e dalla fatica di provvedere
alle loro necessità igieniche.
Quasi ovunque, in Italia, nessuno dubitò un istante che
questa fosse una saggia decisione. Bisognava essere ciechi
per non vedere che le puerpere erano fisicamente a pezzi,
bisognose di riposo, perennemente a letto, a sonnecchiare e
poi, come si fa a dormire con uno scricciolo berciante che in
continuazione chiede attenzione, altrimenti non dorme, e
che ogni paio d’ore, se non più spesso, vuole attaccarsi al
seno, che però non ha ancora latte e non lo può soddisfare, e
risiamo da capo a quindici? E le ansie, e le relative precipitose
chiamate all’infermiera per il singhiozzo, il colpo di tosse, i
rigurgiti, il conato di vomito, il braccino scuro, le feci liquide,
le perdite di sangue nelle femminucce, le palline mosce nei
maschietti, e i puntini, bianchi, rossi, gialli e di tutti i colori
dell’arcobaleno? Ma, insomma, cosa si pretende da una pove-
ra donna al primo bambino? Fatela rifiatare, datele tre quattro
giorni di tregua, che riprenda le forze per quando tornerà a
casa, che ne avrà bisogno. Tanto il bambino è in mani esper-
te, accudito e super controllato, e consegnato al momento
giusto, quando si è sicuri che non ha problemi di sorta che
possano preoccupare i genitori.
Chi tace acconsente
Di fronte a una logica così stringente pochi avrebbero
saputo argomentare qualche obiezione, tanto meno io, privo
come ero, e come me la maggioranza dei pediatri italiani, dei
presupposti scientifici e etici necessari a poterlo fare e così,
assolutamente convinti di far bene, abbiamo operato di con-
seguenza. Ciò che contribuiva a mantenermi ben saldo nel
mio convincimento era il fatto che dai diretti interessati non
arrivavano contestazioni, o almeno indizi, di alcun tipo.
Dai bambini, ovviamente, non potendo aspettarmi comuni-
cazioni verbali, potevano arrivare, così pensavo allora, solo
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segnali indiretti relativi al loro stato di salute. Ancora non si
parlava, diffusamente come oggi, della esistenza, già in epoca
feto-neonatale, di uno stato di coscienza o di un definibile
livello di intelligenza e addirittura si negava la possibilità che i
neonati potessero sentire il dolore, nel senso specifico di sof-
frirne. In pratica, lo avvertivano, reagivano di riflesso con
contorsioni e smorfie, per combinazione uguali uguali a quel-
le di un eretico sul rogo, ma, in realtà, non lo “provavano” e
quindi non ne risentivano affatto. In conseguenza, l’anestesia
si praticava solo negli interventi chirurgici più invasivi, quan-
do era indispensabile che il bambino restasse perfettamente
immobile e ne facevamo tranquillamente a meno per le pic-
cole incisioni, le suture, le intubazioni tracheali, lasciando
stare altre quisquiglie come i ripetuti prelievi di sangue dal
tallone per glicemia e bilirubina. Figuratevi, allora, se potevo
prendere in considerazione, come segnale di sofferenza, il
semplice pianto. Per quanto violento e prolungato, una volta
escluse situazioni patologiche grossolane, non poteva dipen-
dere da nulla che non fosse la “neonatalità”, cioè il fatto che i
neonati normalmente lo fanno. Non avrei mai minimamente
pensato a connotarlo come disperato o sofferto, perché que-
sto avrebbe sottinteso tutta quella serie di conoscenze che
ancora non avevo. I bambini mangiavano, evacuavano, cre-
scevano, non si ammalavano, quindi stavano bene. Non chie-
devo altro.
Il dolore non ha età
Oggi sappiamo che non esistono limiti
d’età alla percezione del dolore. Fin dal terzo
trimestre di gravidanza il feto ha raggiunto un
livello di maturità tale da consentirgli di
“soffrire” il dolore e il neonato a termine
sviluppa anche una “memoria” del dolore
che lo rende ipersensibile, tanto che,
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dopo un’esperienza dolorosa, per un lungo periodo di
tempo arriva a sperimentare come dolorose anche stimola-
zioni normali, come la semplice manipolazione da parte di
chi lo accudisce. Una peculiarità di questo periodo, che si
mantiene fino ai 12-18 mesi, è inoltre rappresentata da una
ridotta capacità di rispondere al dolore con meccanismi di
inibizione interni, per cui, a parità di intensità dello stimolo
doloroso, la percezione è tanto maggiore quanto più è gio-
vane il bambino. Infine, ciliegina sulla torta, diversi studi
hanno dimostrato che l’esperienza dolorosa comporta, a
breve termine, peggioramento clinico, complicazioni e pro-
lungamento dell’ospedalizzazione e, a lungo termine, iper-
sensibilità al dolore, maggiore probabilità di soffrire di dolo-
ri cronici e problemi psicologici.
E i bambini, al nido, piangevano, e come piangevano! Sia
di giorno, come potevano constatare anche i visitatori
schierati al di là del cristallo di separazione, tutti contenti e
soddisfatti nel vedere i loro prediletti convulsamente impe-
gnati, a bocca spalancata, in una caccia all’ultimo respiro
con un inafferrabile seno immaginario, che di notte, con il
personale di assistenza impegnato senza tregua a escogitare
strategie consolatorie che, di solito, finivano miseramente e
con fugace successo nell’offerta di un ciuccio o di una solu-
zione di acqua e zucchero.
Tutto a fin di bene
Le mamme, da parte loro, avrebbero avuto ogni opportunità
di elevare proteste ma, per farlo, avrebbero dovuto rendersi
conto di aver subito un torto. Ma se tutto quello che ti succe-
de, per quanto oneroso, incomprensibile, illogico, prevarican-
te e umiliante, viene visto come scotto ineludibile per godere
di una organizzazione che cerca di fare solo il tuo bene, mandi
giù il boccone amaro, sopporti, e speri che poi, una volta a
casa, possa andare meglio. Per cui, tutte soddisfatte.
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Se si chiedeva a una mamma, appena uscita dall’ospedaledopo il parto, come fosse andata, la risposta, invariabilmen-te, era:
“Bene, bene. Un po’ stancante, ma è normale. Fortunache la bambina stava al nido, se no non so proprio comeavrei fatto a resistere. E poi, tutti molto gentili e disponibili,veramente. Facevano tutto loro. Non puoi sapere quantotempo hanno perso per insegnarmi ad allattare! Sai, lei erapigra, non voleva saperne di attaccarsi e succhiare ma, allafine, è andata. Solo che devo fare un po’ di aggiunta. Peròancora non mi raccapezzo mica! Ma, tanto, la devo riportarea controllo. Mi devo far spiegare bene, perché piange incontinuazione. È una sofferenza sentirla! Già non ce la fac-cio più, e se continua così… Su, invece, quando andavo alnido per la poppata, dormiva sempre. Sarà che è la prima,che mi manca l’esperienza, ma se questa è l’aria, mi sa chela seconda… Però è tanto tenera, quando la guardo mi com-muovo. Mi viene anche da piangere, sai? Chissà, sarà un po’anche la stanchezza. Però è stata una bella esperienza, pro-prio bene, bene…”.
Non poteva essere che così, perché sicuramente, in ogninido d’Italia, tutti, medici e infermiere, hanno sempre fattoil loro dovere, con il massimo impegno,secondo scienza e coscienza. Solo che lascienza era quella sbagliata e ancora non losapevamo.
Provare per credere
Chi si rendeva conto che nella nuova orga-nizzazione qualcosa non andava, e non si sen-tiva del tutto o affatto soddisfatta, però c’era.Erano le donne che avevano già avuto altribambini e che, sempre nello stesso ospedale,magari si erano dovute accontentare di scomo-
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de stanzette, anche a quattro o sei letti, affollate di mamme e
bambini, per non parlare della fiumana di visitatori durante
l’orario di ingresso. Ovviamente non protestavano neanche
loro, talmente tutto, nel reparto modernizzato, era così bello
ed efficiente. “Evidentemente – avranno pensato – oggi si fa
così. Mah!”. Se, alla fine della degenza, avessimo chiesto a loro
come era andata, la risposta sarebbe stata molto più netta e
diametralmente opposta a quella della nostra mamma in crisi
depressiva. Per la semplice ragione che loro avevano in mano
le informazioni necessarie per giudicare, informazioni di
prima mano, cioè la loro esperienza personale. E, in più, pote-
vano anche fare un confronto oggettivo.
C’è anche chi si è preoccupato di valutare scientificamen-
te questo diverso atteggiamento sfruttando il cambiamento
organizzativo, però al contrario, come avvenne in un ospe-
dale pediatrico di Napoli. Prima della riorganizzazione, per
diversi mesi fu chiesto alle neomamme ricoverate, che ave-
vano il bambino degente al nido, se, con un prossimo bambi-
no, avrebbero maggiormente gradito tenerlo in camera vici-
no a loro per l’intera giornata; la risposta, nel 95% circa, fu
un chiaro no!, con una certa sorpresa per una domanda così
bizzarra. Poi fu eliminato il nido e tutti i bambini sani stava-
no ormai abitualmente, per tutta la giornata, alloggiati nella
stanza della mamma che provvedeva da sola, o con l’aiuto di
un familiare, a tutte le loro necessità. Stavolta fu fatta loro la
domanda opposta, se, con un prossimo bambino, avrebbero
maggiormente gradito tenerlo separato al nido, affidato a
personale specializzato, e la risposta fu, nel 95% circa, un
chiaro no!, con una certa sorpresa per una domanda così
bizzarra. Questa storia vi fa capire quanto sia importante,
per saper giudicare, essere in possesso del maggior numero
di informazioni possibile su quella questione, non solo quel-
le di una parte sola. Poi potrete concludere in piena libertà,
anche sbagliando, secondo il criterio di alcuni, ma almeno è
la vostra decisione ben ponderata in base alle vostre esigen-
ze e sarete sicure che nessuno vi avrà preso in giro.
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La scienza nuova
Al giorno d’oggi nessuno (parlo di
pediatri e ostetrici ovviamente, perché
loro non possono non sapere) si
azzarda più a sostenere l’utilità del
nido. La quantità di ricerche, in
ambito sia medico che psicologico,
che dimostrano la totale assurdità e
nocività della pratica della separazio-
ne tra madre e figlio alla nascita è tale
che se, nel corso di una riunione scientifica, qualcuno si
azzardasse a sostenerne l’opportunità, verrebbe semplice-
mente preso per un folle e ignorato. Così, chi ancora man-
tiene in vita i nidi ospedalieri, quando se ne chiede la ragio-
ne, si affanna subito a giustificarsi, premettendo il suo
fermo convincimento della loro perniciosità ed elencando,
con apparente rammarico, tutta una serie di impedimenti
che di necessità si rivelano del tutto immotivati. Questa cer-
tezza ci deriva dal fatto che sono tanti e tali i benefici, fisici
e psicologici, di cui il neonato e la sua mamma usufruisco-
no standosene incollati l’uno all’altra, esclusi i rari casi di
severe patologie, che non c’è difficoltà logistica, proble-
ma igienico, caos organizzativo, per quanto seri, che pos-
sano giustificarne la separazione. Perciò, chi lo fa o è un
mentecatto o ci marcia. Ne riparle-
remo.
Che succede quando il bam-
bino nasce? Filosoficamente,
“Quello che era unito si
separa e quello che era sepa-
rato si unisce”. Più semplice-
mente, mamma e bambino si
innamorano. Perché non c’è un
momento in cui gli esseri umani
iniziano ad aver bisogno di
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amore, affetto, contatto, vicinanza. Si tratta di un bisognoche nasce con loro. È la naturale continuazione di un rap-porto esistente già in utero, che con la nascita semplice-mente prosegue, anche se con modalità diverse. Le capacitàsensoriali del feto hanno uno sviluppo graduale, legatoanche alle esperienze ambientali, necessariamente limitatein utero ma, comunque sempre presenti. Nel suo felice, oquasi, Eden amniotico il feto si allena per la lotta di soprav-vivenza che lo aspetta dopo il parto, perfezionando manmano quelle abilità che un occhio attento ed espertocoglierà con facilità. L’ecografia fetale, infatti, ha ampiamen-te dimostrato le capacità di orientamento del feto verso isuoni e la capacità di discriminarli in graditi e non, l’attivitàrespiratoria, la ricchezza e la precisione dei movimentispontanei e riflessi. Di questi ultimi si ipotizza un ruoloimportante nell’impegno e nella progressione lungo il cana-le del parto, per cui il feto non sarebbe l’oggetto del partobensì il suo brillante protagonista.
Un colpo di fulmine
Dopo il distacco cruento, apparentemente definitivo,ecco il ricongiungimento con chi lo ha generato, atteso,portato alla luce. Se il bambino, appena nato, viene lascia-to a stretto contatto con la madre, meglio pelle a pelle,ritrova qualcosa del suo recente passato nel tepore delcontenimento delle braccia materne, nella soddisfazionedella suzione al seno che inizia a cercare spontaneamen-te, senza fretta. Un “amarcord” ininterrotto (guai!) che loinduce a pensare che, dopo tutto, “fuori” non si sta poicosì male e si può provare ad aver fiducia in questonuovo e strano mondo. D’altra parte, una qualche idea diciò che avrebbe trovato, il feto-bambino doveva pur aver-la se ora sa già orientarsi così bene, trovando subito ilseno, fissando la mamma negli occhi e accoccolandosi
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tranquillo e fiducioso fra le sue braccia. Questo comporta-
mento è presente in tutti i neonati ma, perché si manife-
sti, bisogna lasciare madre e figlio tranquilli, uno accanto
all’altra. Di solito, dopo un parto fisiologico,
più o meno entro un’ora, tutti i
bambini trovano da soli il capezzo-
lo, si attaccano, ciucciano e si
addormentano soddisfatti e sere-
ni. Potremmo paragonarlo a un
turista che arriva per la prima
volta in un paese straniero di cui
conosce solo ciò che altr i gli
hanno raccontato e che, però, sa
che ad attenderlo ci sarà una guida
molto esperta, che gli può garantire
il massimo comfort e sicurezza. Ma immaginatevi come si
sentirebbe se, invece, non trovasse nessuno ad attender-
lo. Lo stress sofferto, che nessun bambino può ricordare
coscientemente, ma che oggi possiamo testimoniare e
misurare con strumenti tecnologicamente avanzati, è
stato troppo spesso sottovalutato. Eppure è quello che
spesso accade.
Nutrirlo e tenerlo asciutto: è tutta qui la cura del neona-
to offerta da molti ospedali che oggi, come cento anni fa,
lo considerano insensibile e incapace di sentimenti, negan-
do l’evidenza, che le madri invece intuiscono, della sua
capacità di instaurare una relazione con gli altri e di assu-
mere nel rapporto con loro un ruolo attivo. In passato
quando la morte di un neonato era frequente, negare que-
ste evidenze poteva essere di aiuto per superare il dolore
della perdita dei bambini; allora si poteva rimandare un
pieno coinvolgimento nel rapporto tra madre e neonato a
quando la sopravvivenza fosse stata certa; ma oggi, questo
atteggiamento non ha più senso. Perciò, nei reparti di
maternità non si può più accettare un’assistenza organizza-
ta come nessuno si azzarderebbe a proporre per un bambi-
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no più grande. Chi si sognerebbe mai, oggi, di impedire a
una madre di stare vicino al suo bambino ricoverato in una
corsia d’ospedale?
La terra del latte del miele
Al risveglio, il bambino di solito cerca di nuovo il seno.
Lui sa bene cosa fare, e lo stesso la mamma, perché ambe-
due hanno già fatto una prova generale subito dopo il parto.
Le poppate saranno frequenti, anche una ogni due ore, per-
ché la ghiandola mammaria ha bisogno di essere stimolata
svuotandosi completamente; e, più si svuota, più latte pro-
duce, come un magazzino che, più finisce le scorte di
merce, più ne ordina. E, ogni volta, la scarica ormonale lega-
ta alla poppata e alla vicinanza del bambino rilassa la
mamma, la ristora, la fa riposare meglio.
Ecco perché le mamme che avevano i bambini al nido e li
vedevano solo ogni tre quattro ore, solo in occasione delle
poppate canoniche, per venti-trenta miseri minuti, erano
stanche, addolorate, svuotate, tristi. Mancava loro qualcosa
che il loro istinto andava cercando, senza sapere cosa e
dove fosse, smarrite come una gatta a cui siano stati subito
sottratti i cuccioli appena nati per sopprimerli; mancava
loro l’effetto rigenerante degli ormoni del benessere messi
in moto dalla presenza del bambino. E loro che pensavano,
perché tutti lo dicevano, che così doveva essere, che era la
fatica del travaglio e del parto, e che fortuna che non doves-
sero occuparsi del bambino, se no, sai che disastro! Ma che
bella invenzione il nido!
Ecco perché al nido i bambini piangevano così spesso e
all’arrivo della mamma per la poppata si dimostravano
“pigri” e non volevano né attaccarsi né ciucciare. Avevano
fame, costretti a digiunare da uno schema orario insensato,
tanto che, per farli star zitti, alla fine si doveva, per carità
cristiana, dargli necessariamente, e fuori orario!, un po’ di
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formula artificiale, così che, all’arrivo della mamma per la
poppata, dormivano come sassi, o per aver già mangiato, o
per la stanchezza del pianto, e se non si trovavano in quelle
condizioni e mangiavano era solo per puro caso. E le
mamme che pensavano di avere figli dispettosi che le rifiuta-
vano, figli complicati che a casa chi ci avrebbe capito nulla,
figli che, forse, non erano proprio proprio come gli altri!
Perché quei neonati che si erano sempre attaccati per la
gioia delle loro mamme loro li avevano visti. Ma che bella
invenzione il nido!
Non rispettare il naturale bisogno che madre e figlio
hanno di restare vicini significa compromettere pesante-
mente la qualità della loro relazione, con misurabili conse-
guenze sul futuro sviluppo fisico e psicologico del bambi-
no, in quanto il contatto non interrotto crea le migliori
condizioni per un allattamento naturale di lunga durata,
predispone a una buona acquisizione del ritmo sonno-
veglia, del ritmo respiratorio e digestivo, rafforza l’appara-
to immunitario e riduce la sensibilità allo stress. Inoltre, i
neonati che non vengono separati dalle madri dimostrano
generalmente una forte motivazione all’apprendimento e
all’esplorazione.
Quanto ci vorrà per risanare i danni che abbiamo causa-
to in decenni di negligenza e trascuratezza nei confronti
di mamme e bambini? Ne vedo ancora oggi gli effetti nella
rigidità e apprensione di nonne e mamme che non abbia-
no avuto l’opportunità di trarre vantaggio da corsi ben
fatti e dalla perdurante prevalenza di una concezione del
bambino come fatica e privazione. L’errore fondamentale
è stato quello di non vedere, annebbiati dalla nostra super-
ficialità e presunzione, che stravolgendo dalle fondamenta
l’approccio tradizionale alla maternità, in omaggio alle
certezze del progresso scientifico, perdevamo le straordi-
narie opportunità offerte dal nostro istinto di mammiferi
e, come si dice, buttavamo via “il bambino con l’acqua
sporca”.
Il nido 59
UNA GIORNATA A NI-DACHAU
Qualcosina ho cominciato a capire di come funzionano
le cose qui ma, è chiaro, ci vuole tempo. E pensare che
avevo fatto tanti progetti! Costruivo pazientemente la mia
vita, perfezionando gradualmente i miei movimenti futuri e
preparandomi a ogni evenienza. Il mio istinto mi convince-
va che avrei potuto affrontare ogni avversità, che al
momento opportuno avrei trovato le risorse necessarie. Mi
sentivo crescere dentro giorno dopo giorno un’energia
incontenibile, mi sentivo un gigante. Finché un giorno
avvertii che ormai dovevo cambiare la mia situazione. Il
posto dove vivevo mi stava a quel punto incredibilmente
stretto; me ne dovevo proprio andare. Spinto da un
improvviso impulso, del tutto nuovo, con tutto me stesso
mi lanciai alla ventura. Mi impegnai con tutte le mie forze
e più di una volta dovetti puntare i piedi per venirne fuori.
Era come procedere in un tunnel al buio, ma sapendo
bene che la direzione da prendere poteva essere soltanto
una. Ero pieno di fiducia. Sapevo che sarebbe andato tutto
bene.
Non so cosa posso aver sbagliato. Fatto è che mi hanno
letteralmente preso per il collo, schiaffeggiato in ogni
modo possibile. Mi hanno completamente ripulito.
Sbattuta una luce violenta in faccia, come un terzo grado.
Lasciato solo, senza mezzi e senza amici. Vittima designata,
sono inevitabilmente finito dietro le sbarre, in un buco di
posto che a mala pena ti ci muovi. E io che sognavo un
mondo nuovo, la terra promessa, la terra del latte e del
miele.
Altro che latte e miele! Non si capisce cos’è quello che ti
danno da mangiare e per di più arriva quando meno te lo
aspetti e così, fame o non fame, ti tocca approfittare, a
rischio di vomitare. Ogni tanto capita che ti diano una roba
niente male, e pure con modi gentili, direi quasi affettuosi.
Ma, questa è la finezza della tortura, tutto dura quanto
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basta a illuderti, perché dopo poco ti sbatacchiano comeun cencio e ti rifilano una schifezza di mangiare chenon si può descrivere. E guai se non la ingozzi. Se nonlo fai tu, in un modo o in un altro, ci pensano loro a
mandartela giù. Prima ti immobilizzano con un len-
zuolo di forza, poi ti aprono la bocca, oti tappano il naso fino a quando non
senti i polmoni che ti scoppiano e seicostretto a respirare e allora ti ritrovi inbocca quella broda, per cui, o bevi oaffoghi. Ho visto compagni di braccio,crollati per la stanchezza e il sonnodurante questo trattamento, venire risve-gliati, per finire gli avanzi, mediante latecnica dello “stivaletto malese”, lo
schiacciamento delle dita dei piedi.Quando si ritorna fra le sbarre dalla sala mensa ci si chiedecome si sia riusciti a sopravvivere, e la prima cosa che si faè liberarsi quanto più possibile dell’intruglio di cui tihanno ingozzato, a rischio di soffrire nuovamente la famenella lunga attesa del pasto successivo che, comunque,sappiamo benissimo, sarà dannatamente identico al prece-dente.
Il sonno, bene o male, prima o poi, ti prende, e riesci adimenticare i morsi della fame. Ma questo dono benedettote lo rapinano con una puntualità che sadica è dire poco. Èun continuo venire a stuzzicarti con fari accecanti, rumori,scossoni alla gabbia, per non parlare della tortura del pun-teruolo. Sempre quando meno te lo aspetti ti bloccano, tiimmobilizzano il piede in una morsa e ti ficcano un punte-ruolo nel tallone. Poi cominciano a strizzarti il piede. Tuurli? Serve solo a beccarsi un’altra punteruolata.
E la notte? È durante la notte che ci sottopongono allatortura del digiuno. Tutto il braccio comincia a urlare e adar calci alle gabbie. C’è anche chi la prende a testate, fino
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a ferirsi. Ogni tanto qualcuno crolla per la fatica, si abban-
dona, fino a dare l’impressione di dormire ma poi, dilania-
to dai morsi della fame, si riprende e ricomincia a sbraccia-
re come un ossesso, finendo spesso incastrato fra le sbarre.
Si racconta che uscendo di lì qualcuno resti segnato per
sempre. Per questo, appena arrivati, i “veci” ci hanno subi-
to raccomandato di rigare sempre diritto, di abbozzare e
inghiottire tutto, proprio per evitare trasferimenti e mal-
trattamenti peggiori.
Perché, in fondo, qui si resta poco. Il ricambio, tranne
rari casi, è rapido. Dove ci portino non si sa con certezza.
Sembra però, se si vuole dar fede a racconti fatti da qualcu-
no dei nostri costretto dal regolamento a tornare per qual-
che giorno, che ci sia una specie di affidamento ad altre
sorveglianti, dicono molto diverse però, e, sempre pare,
che la maggior parte di noi, in fondo in fondo, alla fine, si
trovi bene. Siccome, però, si tratta sempre di libertà vigila-
ta, ogni tanto ti riportano qui per controllare che ti sia
comportato bene, ma sembra che si riesca a scamparla.
Quasi sempre.
P.S. I fatti narrati nel brano sono veramente accaduti e si
riferiscono a persone realmente esistite e, disgraziatamen-
te, continuano ad accadere.
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