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EDITOREZona Franca Edizione s.r.l.
Via Vittorio Veneto, 169 - 00187 Roma
DIRETTORE RESPONSABILEFabio Andriola
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20090 Segrate (MI)
EDITING, RICERCHE E CARTOGRAFIAEmanuele Mastrangelo
COMITATO SCIENTIFICOAldo A. Mola (presidente),
Mariano Bizzarri, Giuseppe Parlato,Nico Perrone, Aldo G. Ricci
CONTRIBUTI DI:Marco Cimmino, Pierluigi Romeo di Colloredo,
Aldo A. Mola, Antonio Parisi, Eugenio Parisi, Sebastiano Parisi, Enrico Petrucci, Leonardo Raito,
Michele Rallo, Aldo G. Ricci, Andrea Vento
PROGETTO GRAFICOMarco Persico
STAMPATO DATuccillo Arti Grafiche
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ABBONAMENTIInfo e modalità a pag. 22-23
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Speciale Storia in ReteAnno XIV - n° 2
[email protected]. 0642903854
4 EDITORIALE
6 CRONOLOGIA
8 LA CRISI
Una dura (ma utile) legnata
14 CAPRI ESPIATORI
Diamo a Cadorna ciò che è di Cadorna
24 GUERRA&PROGRESSO
Si uccideva come sempre. Ma in modo più moderno
35 TARGET AREA
Il clamoroso volo su Vienna
38 IL RISCATTO
La Leggenda del Col Moschin
44 FALLIMENTI
Vienna voleva la pace. Ma non con l’Italia...
54 LA PREPARAZIONE
Dietro le quinte della Vittoria
60 BATTAGLIE DECISIVE
Vittorio Veneto
68 ROSICONI A 360°
I nemici di Vittorio Veneto
76 TESTIMONI
«Le condizioni sono dure. Non le migliorerò»
80 VITTORIA MUTILATA / 1
I bari della Grande Guerra
88 VITTORIA MUTILATA / 2
Così nacque l’Anglocrazia
95 FAKE NEWS
All'Italia le briciole (anche in Africa)
96 DOPOGUERRA
L’urgenza della memoria
102 IL MILITE IGNOTO
Uno per tutti
106 POLEMICHE
Il sangue del Sud. E quello del Nord
110 UN SECOLO DOPO
Grande Guerra e identità nazionale
118 RACCONTI
«Il mio ultimo bacio sarà per il Tricolore»
124 BILANCI
Cent’anni dopo l’Italia è capovolta
130 IL BOLLETTINO DELLA VITTORIA
S ommario
4
EDITORIALE
trano paese questo nostro
Bel Paese (sempre meno bello
a dire il vero), dove da qualche
anno si parla, o si riparla, di
“memoria storica” e si abolisce
il tema di storia tra le opzioni
della prima prova scritta della maturità. È
una scelta scandalosa ma non sorprendente,
se si ha una minima idea su come viene in-
segnata la storia nella stragrande maggio-
ranza delle scuole superiori. O se si fa mente
locale su come è stato gestito, a livello di
iniziative governative, il centenario della
Grande Guerra: una esperienza cruciale nella
formazione dell’identità italiana; una espe-
rienza su cui dovrebbero riflettere quanti (e
oggi sono molti) parlano di identità nazionale
come slogan di lotta politica senza curarsi
delle sue radici profonde.
In questo cestino della memoria è finita
anche la ricorrenza del 4 Novembre, ricorrenza
della fine vittoriosa della Prima guerra mondiale
con la firma dell’armistizio, il giorno prima, da
parte dell’Austria. Una data declassata a festa
di serie B, con qualche corona all’Altare della
Patria e qualche altra a pochi degli infiniti
monumenti ai caduti del 1915-18 che so-
pravvivono in tutte le città e in tutti i paesi
della nostra Italia. Monumenti con lunghe
liste di nomi dei caduti in quel conflitto, perché
non c’è paese della penisola che non abbia
dato il suo tributo di sangue per quella Vittoria
di cui oggi pare quasi che ci si vergogni, ri-
muovendola dalla coscienza nazionale a favore
della formula dell’“inutile strage”, come venne
definita la guerra da Papa Benedetto XV.
Una Vittoria che permise di portare a con-
clusione il processo unitario, riunendo alla
Madre Patria (usiamole senza vergogna queste
parole coperte da ragnatele ideologiche)
quelle terre che venivano chiamate ir-redente,
cioè non redente dall’occupazione straniera:
Trentino, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia.
Queste ultime due poi perdute nella catastrofe
della Seconda guerra mondiale, con 300 mila
italiani costretti ad abbandonarle per un esilio
senza ritorno. Anche in questo siamo un Paese
speciale, perché questa rimozione, figlia del-
l’ignoranza o di un pudore in nome del politi-
camente corretto, anche se degno di miglior
causa, non trova posto in altri paesi vincitori
(Francia, Inghilterra, Stati Uniti) dove questa
ricorrenza viene celebrata con tutti gli onori e
senza alcuna vergogna. Non perché la guerra
sia bella e da celebrare in quanto tale, ma
perché è la Storia di un Paese, segnata dalla
morte di migliaia di uomini che cadevano in
nome di una Patria che ha, come minimo, il
dovere di ricordarli. Certo, non tutti volontari
felici di compiere il “supremo sacrificio”, come
si usava dire con parole oggi quasi impro-
nunciabili, ma per tutti, al fronte o no, dovrebbe
valere il motto anglosassone: giusto o sbagliato
è il mio Paese. E fu così per tanti neutralisti, a
cominciare dal loro esponente più famoso,
Giovanni Giolitti, che una volta entrato il Paese
in guerra lo sostennero con tutte le loro forze.
Per l’Italia, al di là delle terre irredente da li-
berare, quell’appuntamento ha anche un altro
significato. Prima guerra mondiale, Grande
Guerra, Quarta guerra d’Indipendenza. In
questi e altri modi è stato chiamato da noi il
conflitto che sconvolse l’Europa, e non solo,
tra il 1914 e il 1918. Ma nel caso dell’Italia
credo che il nome più appropriato sia Guerra
della Nazione perché, a mio parere, si trattò
dell’unico conflitto che trovò l’Italia come na-
zione impegnata nei quattro sanguinosissimi
ed estenuanti anni di una guerra nata bal-
danzosamente, e con una forte e sconsiderata
impreparazione, e logoratasi poi nella con-
sunzione delle trincee dove trovarono la morte
centinaia di migliaia di giovani, mentre altri
milioni di uomini e donne lavoravano nelle
retrovie a mantenere in funzione la macchina
della produzione bellica e il meccanismo che
consentiva la prosecuzione di una vita civile.
Perché unica guerra della nazione? Perché
tali non possono essere definite, se non ideal-
mente, le guerre d’indipendenza, guerre di
eserciti semiprofessionali, supportati dall’aiuto
di minoranze patriottiche, con una nazione,
largamente inconsapevole di essere tale, e
per di più non ancora riunita in Stato. Né tali
possono essere definite la guerra di Libia, o
quella di Spagna o d’Etiopia; né la Seconda
guerra mondiale, nata male e finita peggio.
La Grande Guerra è guerra della nazione
perché l’intera nazione è riunita dietro lo Stato
nato nel 1861, che entra in guerra, forzando
la mano alla maggioranza pacifista del Parla-
mento e del paese, per una causa ancora for-
temente risorgimentale e si trova poi a com-
battere, dopo Caporetto, per la sua stessa so-
pravvivenza, trovando pronti a mobilitarsi per
questa causa tutti gli italiani, compresa la
maggior parte di quelli che all’inizio avevano
contrastato l’entrata in guerra.
Caporetto, in questa prospettiva, rappresenta
uno spartiacque. È certamente una sconfitta
disastrosa, con decine di migliaia tra morti e
prigionieri, colossali perdite di mezzi e arma-
menti, un arretramento impensabile del fronte
e terre abbandonate alla furia del nemico, ma
è anche il momento della verità, quando un
Paese deve decidere se vuole vivere o morire
naufragando in un disfacimento senza speranza.
Insomma Caporetto non è l’8 settembre. Cam-
bia il governo, cambia il capo di Stato Maggiore,
ma l’esercito stringe i ranghi e reagisce; il Paese
si mobilita; la produzione – militare e non –
accelera. Nel convegno dell’8 novembre 1917
a Peschiera alla presenza di Vittorio Emanuele
III, venne stabilito di continuare la guerra ad
oltranza. Il maresciallo francese Foch e il premier
S
A VITTORIO VENETO HA VINTO TUTTA LA NAZIONE
LA CRISI Un anno prima: Caporetto
LEGNATAUNA DURA(MA UTILE)
l 24 ottobre 1917 gli austroun-
garici, con l’ausilio di alcuni
reparti scelti di tedeschi, attra-
verso una rapida azione di in-
filtrazione seguita a un bom-
bardamento devastante e pre-
ciso e portato anche attraverso l’uso di
gas asfissianti, sfondarono il fronte italiano
nella zona di Caporetto. L’esercito italiano,
logorato da lunghi mesi di massacranti
battaglie, non seppe reggere l’impatto e
si ritirò in modo disordinato e confuso,
mentre il nemico dilagava nelle pianure
friulane fino a quel momento orgoglio-
samente attraversate solo dai reparti ita-
liani che andavano in prima linea. Proprio
alla fronte orientale, quella a cui gli alti
comandi guardavano come alla possibile
testa di ponte per lo sfondamento nel
territorio imperiale-e-regio, avvenne la
disfatta. Con l’esercito in ginocchio e il
paese in ginocchio in Italia si fecero
largo drammatici echi di una possibile
resa. Ma così non fu. L’Italia seppe
rialzarsi. La riorganizzazione dell’esercito,
lo sforzo impetuoso e la generosità del
fronte interno seppero far fronte al mo-
mento drammatico e permettere la ri-
scossa. Di lì a poco più di un anno
infatti, la situazione si rovesciò comple-
tamente. E dal Piave, dal Montello e dal
Grappa, dove i nostri soldati combatte-
vano pietra per pietra, partirono i nostri
reparti che condussero vittoriosamente
l’ultima grande battaglia di Vittorio Ve-
neto, quella che sancì la nostra vittoria.
Caporetto resterà nell’immaginario come
nome da associare a una disfatta, ma
per l’Italia rappresentò forse il passo ob-
bligato verso la ricostruzione necessaria
alla vittoria.
Il 24 ottobre del 1917, alle ore 02.00,
scattava l’attacco delle forze austro-te-
desche contro le posizioni italiane. Migliaia
I
Ci è voluta la rotta dell’esercito sul fronte giuliano, la ritirata fino al Piave,
trentamila fra morti e feriti e trecentomila prigionieri per far l’Italia. Sembra una
boutade, eppure proprio l’estremo tentativo dell’Aquila Bicipite di distruggere il
nostro paese servì più d’ogni mito risorgimentale a unificare gli animi e i
muscoli di una nazione nata solo mezzo secolo prima. Caporetto fece l’Italia e
fece gli italiani: in quella che è passata alla storia come la più disastrosa delle
debacle, c’erano in realtà i semi della vittoria
di Leonardo Raito
Settembre 1917. Truppe d'assaltoaustroungariche sul fronte
dell'Isonzo. Alla fine dell'estate gliimperiali sperimentarono le nuove
tattiche che consentirono ilsuccesso dello sfondamento di
Caporetto il 24 ottobre successivo
di cannoni scatenarono il fuoco sulle
linee italiane, e un eco possente rimbalzava
dalle montagne accrescendo la spaventosa
impressione degli eventi. I soldati in
trincea si trovarono circondati da un
autentica pioggia di proiettili come mai
era capitato fino ad allora. Le notizie
giungevano vaghe e incontrollate agli
alti comandi. Secondo il diario della 2a
Armata, il largo impiego di gas asfissianti
e di granate incendiarie verificatosi nella
prima fase, avrebbe avuto effetti debo-
lissimi a causa della pioggia e della nebbia.
Non fu così. I comandi austriaci erano
certi che l’uso dei gas asfissianti poteva
risultare decisivo: gli italiani erano rintanati
in posizioni incavernate e l’effetto dei
gas doveva produrre effetti distruttivi
nel fisico e nel morale di truppe stanche
e poco istruite nel difendersi dagli effetti
letali degli aggressivi. Il tiro dei cannoni
fu molto preciso e in grado di individuare
con buona approssimazione i posti di
comando, i depositi di munizioni, i ri-
coveri, gli accampamenti e le vie di co-
municazione. Presto si creò lo scompiglio
ben aldilà delle prime linee italiane. Si
fecero saltare i collegamenti. Era l’inizio
del famoso piano che porterà alla rotta
del fronte italiano e alla penetrante avan-
zata delle forze austro-tedesche nel ter-
ritorio del Regno. Gli Imperi centrali
saranno arrestati con grossi sforzi sul
Piave, e dalle nuove linee, stabilizzate,
partirà la riscossa dell’esercito italiano.
Ma l’eco della disfatta coi suoi risvolti
sulle coscienze e sugli animi di civili e
soldati, rimarrà indelebile. Da una comoda
poltrona del treno che lo portava verso
Treviso, del tutto privo di reali riscontri
sui perché della disfatta, il generalissimo
Luigi Cadorna emanava una terribile
sentenza. La croce e l’infamia per una
tanto cocente sconfitta andavano alla 2a
Armata, ritenuta l’unica vera colpevole
14
Diamo a CADORNAciò che è diMesso in croce per la gestione della guerra dai contemporanei e poi da storici
e commentatori spesso poco preparati, sul Generalissimo pesa soprattutto il
ricordo di Caporetto. Che invece, proprio grazie a lui, si rivelò una disastro non
irreparabile. Le sue memorie forniscono infatti molte indicazioni utili a ricostruire
non solo i giorni drammatici dell’ottobre 1917 ma anche tempi e modi con cui
Cadorna ammodernò l’esercito italiano, consegnando al suo successore Diaz
uno strumento bellico in grado di battere il nemico in un solo anno
di Aldo A. Mola
uando e perché Cadorna decise di scrivere
le «Memorie»? Per rispondere occorre oc-
correre ripercorrerne sinteticamente la carriera
militare, l’opera di comandante supremo de
facto [de iure era il Re, che però non si
intromise NdR] e i due anni successivi. Dalla
nomina a capo di Stato Maggiore dell’Esercito in successione
ad Alberto Pollio, morto inaspettatamente a Torino due giorni
dopo l’assassinio di Sarajevo che innescò la conflagrazione
europea, Cadorna fu completamente assorbito dall’urgenza di
adeguare l’esercito al sempre più probabile coinvolgimento
dell’Italia nella guerra. Assunta la carica, mentre il paese era
inquieto per le conseguenze della «settimana rossa» (giugno
1914), fermamente repressa manu militari, a cospetto della im-
minente conflagrazione europea, Cadorna propose di scendere
subito in campo a fianco degli Imperi Centrali, per fermare il
conflitto prima che degenerasse in guerra generale. Un apparente
machiavellismo che partiva da una considerazione storica e
pragmatica ad un tempo: il precedente cui Cadorna pensava
non era la Guerra franco-prussiana del 1870 ma a quella au-
stro-italo-prussiana del 1866, durata poche settimane. L’immediato
e massiccio intervento dell’Italia a fianco della Germania avrebbe
costretto la Francia alla resa e aperto le trattative armistiziali
come altre volte nel «secolo della pace» aperto dal Congresso di
Vienna del 1815, più volte rabberciato.
La cornice entro la quale l’Italia doveva scegliere come e con
chi schierarsi erano e sono così noti che dispensano da appro-
fondimenti. Cadorna inviò al ministro della Guerra, Domenico
Grandi, la «Memoria sintetica sulla nostra radunata Nord-
Ovest e sul trasporto in Germania della maggior forza possibile»,
poi pubblicata in «Altre pagine sulla Grande Guerra» (stampata
da Mondadori nel 1925). Sul fronte alpino occidentale qualunque
offensiva italiana avrebbe incontrato ostacoli insormontabili e
quindi non sarebbe stato risolutivo. Per un intervento concludente
occorreva inviare più di metà dell’intero esercito italiano contro
la Francia sul fronte renano. Il capo di Stato Maggiore mise il
governo dinnanzi alle sue responsabilità. Non ebbe risposta. I
«politici», però, se ne ricordarono e lo tennero all’oscuro dei
loro passi diplomatici successivi.
Nelle sue memorie, pubblicate nel 1921 col titolo «La guerra
alla fronte italiana fino all’arresto sulla fronte del Piave», Cadorna
confermò che nel settembre 1914, quando il governo gli
prospettò un capovolgimento di alleanze, rispose che, date le
condizioni dell’esercito, «se si fosse trattato di impegnare le
nostre sole forze contro quelle di un’altra grande nazione, per
esempio l’Austria-Ungheria, io non avrei esitato a dichiarare
che non si potrebbero sperare favorevoli risultati». Però era
saggio rimanere con l’arma al piede e rafforzare l’esercito in
attesa di tempi migliori. Non era né interventista, né fautore
dell’attacco alla monarchia asburgica né, meno ancora, alla mu-
nitissima Germania. Era un militare. Toccava ai «politici» far sì
che il Paese assecondasse le decisioni del governo.
Il Cadorna dell’estate 1914 risulta molto diverso da quello che
in una lettera da Bordighera del 5 febbraio 1928 asserì che nel
1917 «avrebbero meritato di essere sterminati sovversivi e
Q
CAPRI ESPIATORI Autodifese
15
Luigi Cadorna (1850-1928),capo di Stato Maggiore
del Regio Esercito dal 1914 al 1917, divenne il caproespiatorio della disfatta
subita a Caporetto. La sua figura è stata tuttavia
trattata ingiustamente da contemporanei e storici
24
GUERRA&PROGRESSOInnovazioni, invenzioni, intuizioni...
La Grande Guerra ha segnato una svolta fondamentale
nel modo di combattere: in pochi mesi sono cambiate radi-
calmente armi, difese, strategie. Il risultato è stato lo scontro
più continuativo e sanguinoso mai visto fino ad allora. Un
conflitto che ha fatto scuola e ha segnato per sempre quella
che una volta era stata «l’arte della guerra» e che col 1914 si
è trasformata in una scienza spietata. Capace di produrre –
come e più di prima – morti e distruzioni ma che ha lasciato
anche in eredità molte invenzioni e scoperte che fanno
parte del nostro vivere quotidiano
di Emanuele Mastrangelo
l 25 giugno 1867 Lucien B. Smith,
un inventore dell’Ohio, brevettò il
filo spinato. Smith l’aveva pensato
come barriera per impedire alle
mandrie di invadere i terreni col-
tivati. Non immaginava che meno di cinquant’anni
dopo sarebbe stato alla base di una delle più san-
guinose svolte nella storia militare: l’avvento della
guerra di trincea. I reticolati divennero uno dei
più tristi simboli di quel gigantesco tentativo di
reciproco atterramento che rappresentò la Grande
Guerra. Il filo spinato fece coppia con un’altra in-
venzione d’oltreoceano: la mitragliatrice. Anche
se tentativi di moltiplicare la velocità del fuoco
della fucileria erano allo studio fin dal XVI secolo,
la prima mitragliatrice moderna venne brevettata
da Richard J. Gatling nel 1861. L’invenzione di
Gatling non fu impiegata nel conflitto civile ame-
ricano e il filo spinato arrivò poco dopo la fine
delle ostilità, ma quella guerra già stava mostrando
il nuovo volto che avrebbero assunto i campi di
battaglia nel futuro. Per la prima volta nella storia
la produzione industriale (e chi la gestiva) divenne
un fattore determinante. A imporre questa
svolta fu lo sviluppo delle ferrovie. Come
scrive Michele Angelini ne «Il treno e il suo
impiego nella Guerra di Secessione» («Nova
Historica», II/2018) «La guerra totale è legata
indissolubilmente ai concetti di guerra indu-
striale e di massa, ovvero diventa di decisiva
importanza la possibilità di un paese di pro-
durre vari beni utilizzabili in battaglia e
diventa altrettanto fondamentale coinvolgere
il maggior numero possibile di cittadini. Il
treno racchiudeva in sé queste due idee
poiché il suo sviluppo ed il suo mantenimento
era strettamente legato alla capacità produttiva
di una nazione e con il suo contributo si po-
tevano rapidamente ammassare uomini e
mezzi là dove si voleva. Tutti i trasporti di-
vennero veloci, in poco tempo si potevano
portare al fronte molti uomini e molti beni
di equipaggiamento, questo in qualsiasi mo-
mento dell’anno e con qualsiasi clima. Gli
eserciti avevano così la possibilità di depositare
quasi ovunque un numero di risorse umane
I
SI UCCIDEVA COME SEMPRE.MA IN MODO più moderno
L’esaltazione quasi futurista dellatecnologia bellica nel disegno «Bombe
tricolori su ogni barbarie!» di MarioSironi, dal numero 1 del giornale
di trincea «Il Montello» (1918)
IL RISCATTO Gli invincibili Arditi
Cartolina celebrativa dell’arditoCiro Scianna, portastendardo
del IX reparto d’Assalto e cadutosull’Asolone il 24 giugno 1918.
Fu decorato con Medaglia d’Oroal Valor Militare alla memoria
39
Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918
La Leggenda del
COL MOSCHINLa vittoria del 4 novembre 1918 ebbe le sue radici sul Piave e sul Grappa,
quando le linee italiane resistettero all’ultimo, disperato assalto austroungarico
del Solstizio d’Estate 1918. Ecco la ricostruzione di quelle giornate durante
le quali si scrisse una delle pagine più belle della storia militare del nostro
Paese: la riconquista del col Moschin da parte degli arditi del IX battaglione
d’Assalto, sotto gli occhi stupefatti di Ernest Hemingway. Pronto a testimoniare
che gli italiani – anche come combattenti – non erano secondi a nessuno
di Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels
opo l’inizio delle operazioni offensive
austroungariche, il 15 giugno 1918, sul
Monte Asolone la 32ª divisione imperiale
Honvéd [fanteria scelta ungherese NdR]
attaccò la difesa italiana (...) Vennero so-
praffatti i fanti della Pesaro, appartenente
al VI Corpo d’Armata, che difendevano l’Asolone, e pattuglie
di assaltatori imperiali raggiunsero il monte Rivòn impa-
dronendosi della Quota 1581 e minacciando da ovest il
Grappa, venendo bloccate però dalla resistenza della linea
Bianca. Dopo reiterati quanto vani tentativi di sfondamento
l’offensiva venne esaurendosi e dal pomeriggio l’iniziativa
tornò in mano italiana, tanto che verso sera i fanti della
brigata Pesaro poterono rioccupare l’Asolone. Bloccata l’avan-
zata nemica, si poneva il problema della resistenza e della
riconquista delle posizioni perdute: di ciò venne incaricato
il IX battaglione d’Assalto. Il IX battaglione d’Assalto merita
qualche parola. Innanzi tutto, perché era comandato dal
maggiore Giovanni Messe, futuro Maresciallo d’Italia e so-
prattutto uno dei migliori generali italiani della Seconda
guerra mondiale, quando comandò il CSIR in Russia e la 1ª
Armata in Tunisia, e perché il IX è all’origine del IX
reggimento d’Assalto Col Moschin, reparto d’élite delle attuali
Forze Armate italiane; e anche perché, sulla sua riconquista
sono corse voci del tutto inesatte, ancor oggi riprese (come
da Fortunato Minniti) che scrive che Ugo Ojetti seppe il 20
giugno 1918 che il col Moschin era stato riconquistato da
una compagnia di arditi per la defezione dei difensori un-
gheresi − ufficiali esclusi − e si rammaricò che notizie come
questa non potessero essere diffuse.
Il IX reparto d’Assalto era tenuto in riserva in una valletta
del monte Nosellari e ricevette l’ordine di portarsi a col Cam-
peggia, dove arrivarono notizie allarmanti sulle infiltrazioni
austriache: cadute le tre linee difensive Alba, Bianca e Clelia
una pattuglia avversaria si era spinta sino al ponte di San Lo-
renzo. Messe, ricevute istruzioni al comando di divisione si
portò col battaglione a val di Sotto, avanzando lungo la val
San Lorenzo per ripulirla dei nemici; durante la marcia arrivò
l’ordine di tornare a col del Gallo a causa dell’occupazione au-
striaca della linea marginale dei colli Moschin, Fenilon e Fa-
gheron, e, in caso di ulteriore spinta verso col Raniero e la val
Brenta si sarebbe aperta una falla in grado di consentire al
comandante imperiale Conrad di sboccare nella pianura vi-
centina, con ciò prendendo alle spalle l’intero schieramento
italiano sul medio e basso Piave. Gli arditi giunti in cima si
schierarono con la prima Compagnia verso Quota 1318,
Passo del Brigante, Case del Pastore e Palazzo Negri, la
seconda a destra verso il Fagheron e Chiesa San Giovanni; la
terza Compagnia restò di rincalzo. Ernest Hemingway, che
ebbe modo di seguire l’azione spacciandosi per corrispondente
di guerra, così rievoca le parole di Messe ai suoi uomini: «È
molto semplice – disse il maggiore al battaglione con voce
chiara e un po’ blesa – Dobbiamo cacciarli indietro. Su per la
valle e oltre la cresta. È molto semplice, bisogna cacciarli
indietro. Siamo gli arditi». E la sua voce si alzò a tono di co-
D
FALLIMENTI Trattative di Pace
Carlo I d’Asburgo (1887-1922) osservauna mappa con due suoi generali. L’Imperatore austro-ungarico cercò una via d’uscita negoziale dalla guerra,affidata ai suoi cognati Borbone-Parma, allora ufficiali dell’esercito belga
…e così non ottenne nulla. Ecco la storia, poco nota, di come
l’agonizzante Impero austro-ungarico cercò di uscire autonomamente
dalla guerra, intavolando trattative dirette con la Francia lasciando
fuori sia la nemica Italia che l’alleata Germania. Al centro della complessa
trattativa due fratelli dell’imperatrice Zita: Sisto e Saverio di Borbone-
Parma. L’8 settembre austriaco non arrivò ma certo non per volontà
dell’imperatore Carlo I deciso a non concedere nulla a Roma ma
invece ben disposto ad appoggiare le richieste di Parigi contro
Berlino su Alsazia e Lorena
di Eugenio Parisi
on la terza battaglia del Piave,
combattuta dal 24 ottobre al 4
novembre del 1918, il Regno
d’Italia ebbe partita vinta sul-
l’Austria-Ungheria. Eppure solo
pochi mesi prima, l’imperatore
Carlo I d’Asburgo, con una spericolata e coraggiosa
azione personale, fu sul punto di riuscire a tirare
fuori Vienna dal conflitto, e così facendo deter-
minare, quasi sicuramente, un diverso destino
alla duplice monarchia austro-ungarica assegnan-
dole ancora un ruolo nell’Europa del dopoguerra.
L’incredibile tentativo di pace ebbe la sua genesi
nel 1916. Dopo oltre due anni di conflitto tutte le
potenze partecipanti alla Prima guerra mondiale
cominciavano ad avere il fiato corto. Non solo
per la pressione a cui erano sottoposti gli eserciti
contrapposti sui fronti di battaglia ma anche per
la situazione politica e sociale interna di ogni
Stato belligerante che rischiava di divenire ingestibile,
con conseguente possibile collasso del «fronte in-
terno». Ciò era particolarmente vero per la Russia
ma anche per il composito Impero austro-ungarico.
Di quanto fosse critica la condizione dell’Impero
danubiano si era reso perfettamente conto anche
l’imperatore Francesco Giuseppe che, poco prima
della morte (avvenuta il 21 novembre 1916) si
confidò con il suo aiutante, generale Albert von
C
VIENNA VOLEVA LA PACE
MA NON CON L’ITALIA...
54
LA PREPARAZIONEIL RUOLO DEI SERVIZI SEGRETI
Non solo una battaglia con decine di divisioni e migliaia di cannoni,
ma silenziosi scontri segreti: anche questo è stata la Vittoria del 4 no-
vembre 1918. Le cui radici affondano anche nella guerra di spie fra
Italia ed Austria-Ungheria: una mortale partita a scacchi che il nostro
paese, partito in svantaggio, conclude sconfiggendo l’Evidenzbureau
di Vienna. Un nemico potente, insidioso e valoroso che alla fine riesce
a chiudere con onore la sua carriera, cadendo in piedi
di Andrea Vento
l 4 novembre 1918 segna anche la de-
finitiva vittoria del Servizio Informa-
zioni del Comando Supremo e degli
uffici Informazioni Truppe Operanti
(ITO, uno per ogni Armata) sui nemici
del potente Evidenzbureau, occhi, orec-
chie ed artigli dell’aquila bicipite. In questa difficile
guerra di spie, iniziata fin dal primo decennio del
secolo, gli austro-ungarici hanno «padroneggiato
fino a metà del 1917. Il generale Odoardo Marchetti
capo del Servizio I dal 1917 al 1919, già residente di-
plomatico a Berna e quindi responsabile della nostra
valida rete in Svizzera, è su questo punto assai chiaro:
«[…] fummo informati poco e male, non fummo
mai in grado di avere un’esatta situazione aggiornata
delle forze dei belligeranti, dei movimenti delle
truppe e delle riserve, dell’impiego dei nuovi mezzi
e nuove forme di combattimento per l’offesa e la
difesa […]». A questo stato di cose va aggiunto il
conflitto di competenze con l’intelligence della Regia
Marina, e una larvata e poco salutare competizione
tra uomini ITO e ufficiali del Comando Supremo,
almeno fino all’autunno 1917. La spietata analisi di
Odoardo Marchetti (da non scambiare con Tullio,
altro importante personaggio di questa storia segreta)
dev’essere mitigata dalle misure prese all’indomani
della tremenda ma salutare batosta di Caporetto.
Ma prima di narrare la stagione eroica della nostra
intelligence, che grosso modo coincide con l’ultimo
anno di guerra, è interessante osservare quanto
l’Italia sia stata permeabile all’influenza straniera ed
in particolare dei servizi degli Imperi Centrali. Col
senno del dopo, non vi può certamente essere alcun
dubbio sull’importanza per il nostro Paese di com-
pletare il percorso risorgimentale aderendo al Trattato
di Londra e di giungere alle «radiose giornate di
maggio» con un sentimento entusiasta e finanche
euforico; ma da recenti ricerche appare evidente
quanto diffusi fossero, nell’establishment del Paese,
gli orientamenti triplicisti e/o neutralisti. Questo
stato di cose, protratto anche dopo l’ingresso in
Guerra, diede del gran filo da torcere al Servizio I.
Narra ad esempio il colonnello Tullio Marchetti,
capo ITO della 1ª Armata, della circospezione e se-
gretezza con la quale si entrò in guerra tra l’estate
I
Il principe Umberto di Savoia in visita all’osservatorio Londra dell’ITO(Informazioni Truppe Operanti)sulla cima Fonte l’11 marzo 1918
IL TRIONFO LA BATTAGLIA FINALE
VITTORIOVENETO
Tra il 24 ottobre e il 3 novembre del 1918 si è combattuta la battaglia di
Vittorio Veneto, destinata a segnare l’epilogo della Grande Guerra sul fronte
italiano. Era passato esattamente un anno da Caporetto, che aveva messo in gi-
nocchio il Paese e che l’aveva trascinato sull’orlo del disastro. Eppure quella
rotta fu la vera svolta, sia nei vertici militari che nella coscienza della nazione
che, vistasi a un passo dal baratro aveva trovato la forza di reagire. E, alla fine, di
balzare all’attacco per conquistare la vittoria definitiva
di Leonardo Raito
Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918
ROSICONI A 360°Tutti contro uno
VITTORIOVENETO
i nemici di
Truppe italiane accolte da civili in festa attraversano il torrente Cordevole,sulla riva sinistra del Piave, dopo lo sfondamento delle linee austroungariche
69
Subito dopo la battaglia che diede la vittoria non solo all’Italia ma, di riflesso, a
tutta l’Intesa è partita una gara a sminuire l’impresa del Regio Esercito. Senza dare
attenzione ai numeri e alla realtà dei fatti, storici inglesi e militari austriaci,
commentatori francesi e polemisti italiani hanno cercato di negare che nell’otto-
bre-novembre del 1918 la spallata del nostro esercito fu davvero potente e
decisiva. Ora, un saggio, appena pubblicato da «ITALIAstorica», rimette le cose a
posto. Come si può leggere nell’estratto che pubblichiamo, tratto dall’ultimo
capitolo di «Vittorio Veneto 1918 – L’ultima vittoria della Grande Guerra»
di Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels
a battaglia di Vittorio
Veneto è stata oggetto
di vari giudizi storio-
grafici, talvolta sprez-
zanti e non privi di er-
rori di fatto, da storici
britannici dichiara fama come John Kee-
gan e A. J. P. Taylor, che nelle loro opere
ostentano sovente un non celato disprezzo
verso gli italiani. Taylor arrivò a scrivere
che nella battaglia di Vittorio Veneto gli
italiani sbucarono fuori da dietro le linee
inglesi e francesi dietro le quali si erano
prudentemente tenuti nascosti per un
anno per assalire le truppe dell’Austria-
Ungheria in dissoluzione, definendo
Vittorio Veneto una «rara vittoria delle
armi italiane»! (…) In Italia pesa ancora
il volumetto polemico che Giuseppe
Prezzolini pubblicò nel novembre 1919
e che tendeva a ridimensionare la battaglia
negando persino che fosse stata davvero
combattuta. Non varrebbe neppure la
pena di ricordare un giornalista prestato
alla storia come Indro Montanelli (anche
se i volumi della «Storia d’Italia» sono
in massima parte opera di Roberto Ger-
vaso e di Mario Cervi) il quale ha scritto
che Vittorio Veneto non fu una vera
battaglia, ma una ritirata che abbiamo
disordinato e confuso. Alla fertile inven-
tività del giornalista di Fucecchio si deve
la diffusione, diremmo ossessiva, presente
in ogni scritto montanelliano dedicato
alla Grande Guerra, dell’aneddoto (ori-
ginariamente attribuito ad un generale
dell’ottocento) di Diaz che, chinato su
LIl giornale di trincea «La Ghirba» celebrail «Soldato della Vittoria». Tuttavia i veleni tesi a sminuire le reali dimensionidel trionfo italiano iniziarono appenaall’indomani dell’Armistizio
76
«LE CONDIZIONI SONO DURE. NON LE MIGLIORERÒ»
irenze, 3 novembre 1923. Già cinque
anni, dal giorno dell’armistizio. Sta-
sera, solo con me stesso, voglio al-
lineare sulla carta bianca i ricordi
di quei gran giorni. Se domani mi
trovassi in una delle cerimonie per
l’anniversario della vittoria, e in riga con altri cento
o mille reduci, a capo scoperto, a capo chino, dovessi
raccogliermi per un minuto in silenzio, secondo la
buona consuetudine che è entrata, ma per un
minuto solo, nei costumi della nostra patria faconda,
rivedrei in quel minuto queste cose. Purtroppo
sono piccole, al confronto. Ma la memoria è senza
giudizio, e il più sovente si concreta, come la perla
nell’ostrica, intorno a un grano di sabbia; e quando
vai a chiederle un ricordo compiuto, prezioso e di
bel riflesso, te la ritrovi ingiallita bizzarra e scaramazza
che fa vergogna al tuo buon senso.
Di Conegliano, ad esempio nel giorno in cui vi
rientrarono i nostri soldati, rivedo, sì, in confuso, le
case ruinate, arse e annerite, e le porte e le finestre
senza imposte, occhi ancora spalancati dallo spavento.
Ma chi mi ritrovo davanti, nitida che mi par di
guardarla col binoccolo sul suo palcoscenico, è Italia
Benini, la sorella dell’attore Ferruccio Benini, cerea,
piccolina, il nasino aguzzo, la testa tesa in avanti, gli
occhietti ridenti tra le rughe, vestita a lutto pel
fratello morto, al collo uno scialletto di maglia nera,
sulla veste un grembiule di cotone con le due tasche
gonfie di chiavi e di fazzoletti, le mani poggiate sul
manico d’un ombrello troppo alto per lei; e, una
parola in italiano e due in veneziano, diceva a
Bissolati e a me che eravamo subito saliti a cercarla
nella villetta di Benini poco sopra il duomo: «Povero
Ferruccio, fosse qui oggi ad applaudire i soldati e a
dirmi grazie. Perché, i vede, sta casa so stada mi a
custodirla contro quele canagie. Oh che ladri, oh che
sbirri, oh che remi da galera...» e guardava verso
oriente e minacciava con la mano. Ma subito tornò
a ridere; e s’aggiustava con la palma d’una mano,
sulla fronte a baule, i capelli rossi e lisci, e ci spingeva
verso la casa su pei vialetti del suo giardino, spiegando
a Bissolati: «Eccellenza, qualche bottiglia di vino, di
vino di Conegliano, ho potuto salvarla, per oggi. E
salo come? Scondendo le botilie, ligae per el colo, soto
le sotane... ne l’armadio, s’intende. Gnanca quei
luterani de germanici gavaria podesto pensarse d’andar
a cercar el vin soto le cotole de sta povera vecieta...
Spudorati...». Anche nella piena della gioia era
un’attrice squisita, e trapassava dal malizioso al
flebile con l’arte lieve e sicura del suo gran fratello.
Cercò in quel punto chi le porgesse, come sulla
scena, la battuta adatta, e non trovandolo in noi
sbalorditi dai gran fatti e capaci solo di soffocarla
con le piu disparate domande, si rivolse al suo cane,
dal pelo nero focato, che immobile la fissava come a
dire anche lui: «Son qua mi» e gli chiedeva: «Ciò,
Prins, ti che ti xe come un cristian, dighelo ti se quei
no gera piu cani dei cani». Il gioco delle sue proprie
parole la divertì. Alla fine spiccò tre rose da un vaso,
una per Bissolati, una per lo sferico e fedele Alla-
mandola, una per me, e parlò italiano, seria seria:
«Le prendano in ricordo di questo giorno. Quelli,
F
TESTIMONI «Quei gran giorni»
Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918
Così promise ai suoi il generale Badoglio prima di incontrare la delegazione
austro-ungarica venuta a chiedere l’armistizio. Lo racconta il più grande
giornalista italiano del Novecento che visse in prima persona l’ingresso nei
paesi appena liberati dal Regio Esercito già a fine ottobre del 1918. Il 4
novembre si celebra l’entrata in vigore dell’armistizio ma già da vari giorni si
respirava aria di vittoria ovunque: la gente salutava commossa i soldati arrivati
a liberarla dalle prepotenze austriache e tedesche e i comandanti militari fi-
nalmente potevano imporre le condizioni di pace a Vienna. Lo fecero a Villa
Giusti, una villa che «più brutta non si poteva trovare; ma se la meritano»...
di Ugo Ojetti
Cavalleria e truppe cicliste per le stradedi Vittorio Veneto, appena liberata, nei primissimi giorni del novembre
1918. Qui a destra, Ugo Ojetti (in uniforme) con Leonida Bissolati,
allora ministro dell’Assistenza Militare e Pensioni di Guerra
80
LA VITTORIA MUTILATA / 1Versailles: sgambetto all’Italia
Fu più facile battere gli austroungarici che i nostri sedicenti alleati an-
glo-francesi, manovrati, ispirati, sorretti dagli Stati Uniti di Wilson. Nelle
tensioni internazionali all’indomani della fine della Prima guerra mondiale
l’Italia si trovò sola contro tutti a far valere accordi e intese che Londra e
Parigi si guardarono bene dall’onorare. Aiutati da un presidente americano
arrogante e pasticcione, che - niente di nuovo sotto il sole! - pensava di
avere l’esclusiva nel saper organizzare al meglio il mondo...
di Michele Rallo
ra i Quattro Grandi esisteva una
maggioranza USA-GB-Francia in
contrapposizione alla componente
Italia. Ma le cose non si fermavano
qui, perché all’interno della mag-
gioranza tripartita v’era una preva-
lenza del blocco anglo-americano e, all’interno di
questo, un’assoluta primazia degli Stati Uniti. Questa
sorta di gerarchia piramidale aveva una precisa giu-
stificazione di natura economica. Al vertice v’erano
gli Stati Uniti, perché questi erano gli unici a disporre
di un’ampia possibilità di manovra economica, al
punto che gli altri tre grandi – finanziariamente dis-
sanguati dalla guerra – dipendevano dall’America per
la loro stessa sopravvivenza alimentare. «In verità –
scrive la Melchionni – gli Stati Uniti disponevano di
un potere contrattuale enorme alla fine della guerra,
perché gli alleati erano finanziariamente nelle loro
mani». (...) L’Italia, dal canto suo, occupava l’ultimo
posto della graduatoria: «L’Italia nell’immediato do-
poguerra – scriveva il generale Caviglia – attraversò
un momento difficile. Era spossata, senza capitali,
senza materie prime, senza viveri. I rifornimenti del
paese dipendevano dalla buona volontà dei nostri ex-
alleati. Bisognava cercare di guadagnare tempo, mentre
essi volevano ricattarci imponendo all’Italia delle con-
dizioni di pace che sabotavano la nostra vittoria». Ciò
spiega perché l’Italia – a Fiume o in Montenegro –
non avesse difeso le proprie ragioni con le armi: «Non
era possibile assumere un atteggiamento armato di
fronte alla volontà ostile degli ex-alleati, perché i ri-
fornimenti dell’Italia dipendevano dalla loro buona
volontà». E, più avanti: «In seguito avevo visto la
Francia e l’Inghilterra sempre più cinicamente tradire
l’Italia e trattarla come nemica vinta, e servirsi del
presidente Wilson per ricattarla. Nelle condizioni
economiche in cui essa versava, dopo tutti i sacrifici
generosamente fatti per la guerra, stremata di materie
prime e di viveri, essi minacciavano per mezzo del
presidente degli Stati Uniti di rifiutarle i mezzi di vita,
F
«Una conferenza di pace al Quai d’Orsay» di William Orper:Vittorio Emanuele Orlando è relegato a sinistra, seduto fra
i «quattro grandi» ma in posizione defilata. Al centro del dipintoWilson, su una sorta di trono, con accanto il segretario di Stato
Lessing, Clemenceau e Lloyd George, con a destra il lord delsigillo privato Law e il segretario agli Esteri Balfour
88
LA VITTORIA MUTILATA / 2 Colonialismo linguistico
Con la conferenza di pace di Versailles mutarono molti assetti
internazionali. Ma non solo sulle carte geografiche o negli orga-
nigrammi delle forze armate. Uno in particolare doveva restare
come il cambiamento più simbolico, duraturo e subdolo: quello
linguistico. A Versailles, infatti, il secolare primato del francese
come lingua franca della diplomazia mondiale venne cancellato,
scalzato dall’inglese. Il tutto mentre la Francia si illudeva di
guidare la vendetta dell’Intesa sulla Germania sconfitta...
di Michele Rallo
a Conferenza della Pace si apriva
il 18 gennaio 1919 in un clima
ancora idilliaco, determinato dal
permanere dello spirito utopistico
prodotto dalle parole d’ordine ame-
ricane del periodo bellico. Certo,
le prime crepe cominciavano a manifestarsi (Fiume,
Dalmazia, Montenegro,,,), ma si sperava che si trat-
tasse soltanto di piccoli dissapori, destinati a trovare
rapidamente soluzioni soddisfacenti per tutti. Sul
piano pratico, la Conferenza era organizzata, gestita
e composta esclusivamente dai vincitori della Prima
guerra mondiale, e in primo luogo dalle «Quattro
Grandi»: Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti
d’America. Seguivano gli alleati minori: ventotto
fra nazioni grandi e piccole (dal Giappone al Belgio)
e dominions britannici (dal Sud Africa alla Nuova
Zelanda). Tra i ventotto minori, addirittura, ve
n’erano quattro (Ecuador, Perù, Bolivia e Uruguay)
che non avevano partecipato neanche simbolicamente
al conflitto, ma che avevano semplicemente rotto
le relazioni diplomatiche con gli Imperi Centrali.
Le Quattro Grandi e gli altri ventotto paesi non
erano su un piano di parità, e ciò era cosa ufficiale,
risaputa e anche relativamente logica; peraltro og-
gettivamente consacrata dalla partecipazione soltanto
delle prime a quelli che erano gli organi esecutivi
della Conferenza: l’Ufficio di Presidenza ed il Con-
siglio Esecutivo, meglio noto come il Consiglio dei
Quattro; «i Quattro» – in questo caso – erano i
massimi rappresentanti delle potenze: l’inglese
David Lloyd-George, il francese Georges Clemenceau,
l’italiano Vittorio Emanuele Orlando e lo statunitense
Thomas Woodrow Wilson. Vi erano, poi, cose
meno note e meno logiche: per esempio, che fra i
quattro vi fosse una maggioranza di fatto (Lloyd
George-Clemenceau-Wilson) ostile al rappresentante
italiano; o – per fare un altro esempio – che fra i
ventotto minori non fosse stato ammesso il Mon-
tenegro, uno tra i primi paesi ad entrare nella
guerra mondiale, cui aveva recato un contributo
certo non inferiore a quello del Guatemala o del
Siam. Tutte stranezze, ma stranezze non casuali.
Altre stranezze, più sottili, sarebbero venute emer-
L
Così nacque l’Anglocrazia
La firma del Trattato di Versailles, il 28 giugno 1919. Fra le personalità
sedute si riconoscono il «Colonnello»House (secondo da sinistra),
consigliere di Wilson, e RobertLansing (quarto), segretario
di Stato USA. Al centro, davanti al rappresentante tedesco,
il presidente statunitense WoodrowWilson, il premier francese Georges
Clemenceau e il primo ministrobritannico Lloyd George.
Il rappresentante dell’Italia, in teoriauna delle «quattro grandi» , Vittorio Emanuele Orlando,
è seminascosto a destra, vicino ai diplomatici del Belgio, Australia
e Nuova Zelanda, colonie inglesi
DOPOGUERRAAltre Italie
MEMORIAL’URGENZA DELLA
La cripta del Sacrariodi Fagaré della Battaglia
www.luoghi.centenario1914-1918.it - Foto Ottavio Celestini
97
ovembre 1918. Un
testimone racconta:
«A Saletto ho trovato
morti, reticolati e
armi per terra. L’aria
era ammorbata da
quell’odoraccio che lasciano i cadaveri.
C’erano i soldati della sanità che
disinfettavano con il cloro, si sentiva
l’odore del cloro. I morti erano ancora sul
terreno, da seppellire, e un pochi alla
volta li caricavano su un carretto trainato
da un cavallo e li portavano nel cimitero
militare di San Bortolo, in località “Le
Crociere”. Da là, più tardi, sono stati
trasferiti all’ossario di Fagarè, e il
granoturco per un po’ sarebbe cresciuto
in quel posto molto più bello che tutto
attorno. Ho visto i morti attaccati ancora
sui reticolati, morti da qualche giorno e
a prima vista non si capiva bene di che
nazionalità fossero, perché c’erano anche
dei tedeschi dalla nostra parte. C’erano
morti dappertutto, negli orti, negli
angoli, nei buchi. Italiani e tedeschi.
Morti. Ancora con il corpo intero, con le
divise addosso, non seppelliti. La croce
rossa e altri soldati passavano con un telo
di tenda e dentro vi mettevano il
cadavere, che poi veniva caricato sul
carretto. A volte capitava che lungo la
strada si vedesse un rigagnolo di “sugo”,
proveniente dal carretto».
Nel novembre del 1918 l’odore della
morte impregnava ancora quelli che
erano stati i teatri di battaglia. Il Piave
restituiva i morti a quei luoghi
N
Subito dopo la fine del conflitto mondiale si pone ovunque il problema di
come seppellire, onorare e ricordare i caduti della Grande Guerra. In un’Italia
che non sapeva e non voleva certo dimenticare, cimiteri, sacrari e monumenti
sorgono con grande rapidità, soprattutto negli stessi luoghi dove si è
combattuto. A cominciare dalle zone a ridosso del Piave e sul Montello. Lo
ricorda il bel saggio «L’Italia del Piave – L’ultimo anno di guerra» (Salerno
editrice) nelle sue pagine conclusive, che «Storia in Rete» anticipa
di Daniele Ceschin
SIMBOLI Il Milite Ignoto
Anselmo Ballester, manifestocelebrativo della traslazione della
salma del Milite Ignoto (1921)
103
UNO PERTUTTI
Tre anni dopo la fine della guerra, l’Italia celebra la sua vittoria con una
solennità forse mai più eguagliata. L’occasione è data dalla tumulazione del
Milite Ignoto all’Altare della Patria: una cerimonia che ha avuto un lungo e
toccante prologo e che ha visto una enorme partecipazione popolare. Le
spoglie di quel soldato caduto e senza nome rappresentavano gli oltre 600
mila morti italiani nella Grande Guerra, i milioni di feriti, le sofferenze e
l’orgoglio di un popolo che si era fatto da poco anche Nazione
di Emanuele Mastrangelo
utto ha avuto inizio con un grido. Il grido di
una madre che ha perso suo figlio in guerra.
Mentre la sua eco rimbomba fra le massicce
colonne romaniche della cattedrale di Aquileia,
la donna in gramaglie si accascia su una bara.
Si chiama Maria Bergamas, nella cassa di
quercia c’è un soldato senza nome. D’ora in avanti sarà suo
figlio: Antonio, irredentista che disertò l’esercito austroungarico
per combattere – e morire – con quello italiano. D’ora in avanti
sarà anche il figlio di tutte la madri d’Italia. È il Milite Ignoto.
Nel 1920 il colonnello Giulio Douhet aveva avanzato la
proposta di onorare i caduti italiani nella Grande Guerra con
la creazione di un monumento al soldato ignoto a Roma. Altre
nazioni combattenti s’erano già avviate su quella strada. «Tutto
sopportò e vinse il Soldato. – scrisse Douhet – Dall’ingiuria
gratuita dei politicanti e dei giornalastri che [...] cominciarono
a meravigliarsi del suo valore [...], alla calunnia feroce diramata
per il mondo a scarico di una terribile responsabilità. Tutto
sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al Soldato
bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi
condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di
ambizione. Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla
stessa altezza dei Re e del Genio [...]». L’idea venne accolta dalle
istituzioni. L’Italia era lacerata dal dolore per le immani perdite
umane del conflitto, esacerbata dalla delusione di Versailles e
le discordie politiche sempre più violente minacciavano di
T
Maria Bergamas sceglie la salma nella basilica di Aquileia,illustrazione di Achille Beltrame dalla «Domenica del Corriere»
106
IL SANGUE DEL SUD. E QUELLO DEL NORD
el filone della storiografia disfattista sulla Grande
Guerra, sempre gravido di titoli, si è inserito anche
Lorenzo Del Boca col suo «Il sangue dei terroni»
(Piemme, 2016), in cui, sfruttando il richiamo
presso taluni ambienti del revisionismo antirisor-
gimentale e neoborbonico (non a caso la presen-
tazione è di Pino Aprile), arriva a sostenere che la maggior parte
dei caduti della Grande Guerra furono meridionali mandati scien-
temente a morire al posto dei settentrionali. Dalla presentazione
del libro, colma della più stucchevole retorica antinazionale e anti-
militarista leggiamo: «Lavarono con il loro sangue le pietraie del
Carso e i dirupi dell’Altopiano. Nel corso del conflitto più vasto e
spaventoso della storia, diedero la vita per una patria che non
avevano mai conosciuto se non con la maschera di un potere
centrale lontano, arrogante e rapace. Ogni anno si celebrano con
enfasi insensata le ricorrenze della Prima guerra mondiale [magari
fosse vero! NdA], ma da nessuna parte si sente dire che l’assoluta
maggioranza delle vittime era gente del Sud. Un’intera generazione
spazzata via. (...). Si sacrificarono per gli interessi di quelle élite
economiche che sfruttavano la loro terra, succhiandone le energie
e rapinandone le risorse, e per il tornaconto di una nuova classe
politica che li trattava con ferocia o disprezzo. Diventarono carne
da cannone, numeri da inserire nelle statistiche dello Stato Maggiore,
bandierine che i generali spostavano sulle mappe con noncuranza.
Vennero massacrati sull’Isonzo e a Caporetto, combatterono con
disperazione e con valore sul Piave, lanciati da ufficiali balordi o
criminali contro un nemico che non conoscevano e che non
avevano motivo di odiare».
Per verificare l’infondatezza di queste parole basterebbe andare a
guardare gli elenchi dei caduti sui monumenti nelle piazze delle
N
POLEMICHE Tragiche statistiche
È un fenomeno molto italiano quello della corsa a sminuire e criminalizzare
tutto quello che riguarda la nostra vittoria nella Grande Guerra. E c’è chi è
riuscito a vedere anche in quel contesto il solito sfruttamento del ricco Nord
d’Italia a scapito del Mezzogiorno. Ma davvero gli alti comandi del Regio
Esercito preferirono mandare al macello più calabresi, pugliesi, campani e
siciliani rispetto a lombardi, toscani, veneti o piemontesi? Basta dare
un’occhiata ai numeri per vedere che non è possibile – e anche ingiusto –
distinguere tra i nostri caduti in base alla regione di nascita
di Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels
A destra, croci improvvisate a Ponte di Legno segnano
le tombe di alpini vittime di unavalanga. Qui sotto un cimiterodi guerra a Staranzano, vicino
Monfalcone, nel 1917. La tesi suggerita nel libro di Lorenzo Del Boca è che«l’assoluta maggioranza»
dei caduti italiani nella GrandeGuerra sarebbe stata
«gente del sud» mandata a morte certa «da ufficiali
balordi o criminali»
110
UN SECOLO DOPO Chi siamo noi italiani?
Tra contraddizioni e problemi, nonostante le radici di dilanianti
divisioni accanto a decisive innovazioni, la Prima guerra mondiale
diede agli italiani una Patria intorno alla quale riunirsi, resistere e vincere
contro nemici potenti e di vecchia data. Cosa resta di quelle imprese e
del loro complicato bagaglio? Cosa sapranno farci le generazioni che si
affacciano alla ribalta? Per gentile concessione dell’autore e di «Nuova
Storia Contemporanea» riproduciamo questo importante articolo di
Ernesto Galli della Loggia che delinea un quadro complesso, ormai
lungo un secolo, di cosa è stata ed è l’Italia. E pone, alla fine, un
drammatico interrogativo...
di Ernesto Galli della Loggia
a gioia provata in quelli
istanti da noi non si può ri-
dire [...]. Mi pareva di ri-
trovare, in ogni mano che
si tendeva una persona cara,
da tanto conosciuta e ritor-
nata dopo una lunga assenza. Io non sapevo dire
altro che “fratelli, fratelli”». Così Piero Calamandrei
in una lunga lettera alla sua Ada degli ultimissimi
giorni dell’ottobre 1918 descrive il proprio ingresso
a Trento, primo ufficiale italiano a mettere piede
nella città redenta, circondato e quasi soffocato
dalla folla in delirio. E lo stesso Calamandrei che in
una pagina del suo diario del maggio 1940, andando
con la mente all’ingresso in guerra dell’Italia contro
l’Austria-Ungheria ventidue anni prima, ricorda
con malinconia struggente l’atmosfera del giorno
dell’intervento, del 24 maggio del 1915: «La notte
fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste
per le vie del centro. C’erano con noi Mazzini, Ga-
ribaldi, Carducci… e Battisti vivo: e tutto il Risor-
gimento e tutta la nostra civiltà!».
Bastano queste poche righe a farci intendere quale
abisso separi l’Italia odierna, la sua cultura politica,
il suo sentire comune, la sua identità, dall’Italia che
quasi un secolo fa usciva vincitrice dalla guerra
contro «uno dei più potenti eserciti del mondo».
Oggi, se non m’inganno, per la stragrande maggio-
ranza Mazzini, Garibaldi e Carducci sono poco
«L
GRANDEGUERRAe identità nazionale
1919: una donna in ginocchiosulla tomba di un congiunto alCimitero degli Eroi del Montello.L’enorme sacrificio collettivo della Grande Guerra cementò lanazione. Qui accanto, la copertinadel numero 3\2014 di «NuovaStoria Contemporanea» da cui è tratto l’articolo di queste pagine
RACCONTI Fughe in avanti
Cartolina celebrativadei Bersaglieri
119
Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918«IL MIO ULTIMO BACIO
SARÀ PER IL TRICOLORE»Dal volume «Eroi», abbiamo scelto il racconto «Il Fuggitivo», ispirato
dalla breve vita di un ragazzo italiano nato sotto l’Impero austro-ungarico:
si chiamava Gino Buccella e già nell’autunno 1914 non vedeva l’ora di
arruolarsi nel Regio Esercito per contribuire a restituire la sua Trento all’Italia.
Pochi mesi dopo era volontario al fronte ma non ebbe il tempo di veder co-
ronato il suo sogno. Che, mentre sfuggiva, gli ispirò comunque un gesto in-
dimenticabile e struggente...
di Fiorenza Piccolo
ull’altipiano in un gior-
no d’ottobre camminava
un ragazzo. Cammina-
va lungo i sentieri e le
mulattiere, un ragazzo
di vent’anni come tanti,
ma all’osservatore attento sarebbe subito
apparso chiaro che non fosse un co-
mune viandante. Il passo di quel ragazzo
nascondeva qualcosa. Non era quello
di chi fosse aduso a viaggiare sull’alti-
piano dei Sette Comuni. Il passo di
quegli uomini, anche quando in là
cogli anni, rimaneva sciolto, costante,
l’andatura di chi sapeva dove stava an-
dando e quali fossero le sue forze e la
sua strada. Semplici certezze che man-
cavano al ragazzo nel suo cammino. Il
punto di partenza e la sua meta avevano
cessato di essere località fisiche, città
di pietre e mattoni, per trasformarsi
in categorie dello spirito. Inevitabil-
mente la sua andatura ne risentiva, e
nonostante cercasse di seguire il ritmo
che si era imposto, la sua camminata
diventava un raro esercizio in cui la
spavalderia giovanile, dall’andatura al-
legra e decisa, si misurava con una
circospezione che lo rendeva a tratti
esitante, come se lo scarpone non si
muovesse sul terreno compatto ma su
sabbia sdrucciolevole. Quel contrasto
insoluto, quell’andatura fatta di tempi
dispari e cadenze mutevoli, era l’unico
segno esteriore che quel ragazzo fosse
in fuga. Non c’erano altri segni nel
suo portamento né nello sguardo. Fiero,
nonostante la stanchezza si fosse fatta
strada in lui. Il suo era un percorso da
fuggitivo, si manteneva lontano dalle
vie più battute e dai percorsi più diretti.
Avrebbe detto che andava ad est per
muovere verso ovest, all’opposto del
navigatore genovese. Un fuggitivo senza
inseguitori alle spalle, se non i suoi
fantasmi sublimati dal luogo da cui
era partito, Trento. Se stesso.
Nemico di se stesso, un artificio reto-
rico che lo avrebbe lasciato diffidente.
D’altronde il mestiere di quel ragazzo
non erano le lettere ma i numeri. E i
numeri semplici di un contabile, una
matematica senza l’astrazione dell’ana-
lisi, dove il risultato potrà essere solo
un attivo o un passivo. Partiva con un
diploma di ragioneria in tasca, diploma
che mai più gli sarebbe servito, ma
con lui ormai c’era la retorica, insidiosa
compagna di quel viaggio. Una com-
pagna che non aveva scelto, ma che
era con lui fin dal primo passo di quel
viaggio, e che l’avrebbe accompagnato
anche quando le sue spoglie mortali
sarebbero tornate alla terra. Una com-
pagna insidiosa che si sarebbe accom-
pagnata al suo nome come una sposa
fedele. Per quanto quel passo fosse
stato così lungamente meditato prima
che il movimento ne fosse iniziato,
quella retorica che poteva far risuonare
vuote anche le parole coniate nel me-
tallo più puro, si era insinuata nel suo
mondo e ora l’accompagnava. Era lì a
scacciare i numeri che parlano con le
leggi della matematica che non cono-
scono doppiezza o menzogna. Ulteriore
retorica di un narratore. Ma al ragazzo
se e come retorica e matematica con-
vivessero nel suo cervello importava
ben poco. E certamente non in quel
momento, dove la cognizione del tempo
e dello spazio iniziavano a confondersi
con la stanchezza. Egli avrebbe voluto
disporre la sua storia come rimesse e
ricavi in un libro contabile. Somme e
sottrazioni. E in fondo la sua storia
era semplice e banale, come altre in
quei mesi, in quelle settimane. Alcune
arcinote, altre dimenticate.
Era in fuga, di questo il ragazzo era
consapevole. Fino a un giorno prima
S
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BILANCIPatrie ingrate
L’Italia del 2018 sembra lontana molto più di un secolo da quella del 1918.
Eppure sono bastati pochi decenni perché la Nazione orgogliosa e tenace di Vittorio
Veneto si trasformasse nell’attuale massa informe e senza memoria, incapace di or-
ganizzarsi culturalmente e imprenditorialmente. Ecco lo sfogo – che «Storia in Rete»
fa suo – di uno storico che denuncia l’ennesimo tradimento di una classe dirigente
miope e pigra verso un popolo che è migliore di lei. Oggi come cent’anni fa
di Marco Cimmino
ascoli aveva già capito
tutto, quando, in un ce-
lebre poema conviviale,
immaginava Alessandro
Magno ai confini del
mondo, dove non c’era
più nulla da conquistare: sarebbe stato
meglio desiderare le vittorie, sognare la
gloria, piuttosto che rimpicciolirla otte-
nendola. Meglio sognare, senza soluzione
di continuità, che risvegliarsi in un paese
immerso nella mota dell’indifferenza, steso
a marcire tra le paludi della più desolante
ignavia. Non un paese di morti, per dirla
col Lamartine, ma un paese di zombi: gen-
tucola che vive una pseudovita, fatta di
materialità plebea, di bassi desideri e di
bassissimi appagamenti. E, in un posto
così, volete che ci si ricordi degnamente di
una vittoria, di una guerra durissima, dei
caduti, degli eroi? Maledetto, non benedetto,
è un popolo che non ha bisogno di eroi:
perché è un popolo la cui identità è de-
composta. Sul manifesto commemorativo
del cinquantenario della Grande Guerra
[vedi pag. 5 NdR], c’era un fante, che con
altri mille come lui, sdruciti fantasmi, saliva,
come un’onda di spettri all’assalto, la groppa
del Sei Busi – oggi protetta dal marmo del
sacrario di Redipuglia – e, rivolto all’ignoto
osservatore, domandava disperatamente:
«Non dimenticateci!» Oggi, che quegli
uomini, che sono i nostri padri, i nostri
nonni, sono del tutto cancellati dalla me-
moria collettiva, cosa dovrebbe pensare
quel povero fante? Per che Patria sono
morti quei quasi settecentomila italiani?
Si sta concludendo il quadriennio del
Centenario: una ricorrenza che avrebbe
dovuto segnare un significativo progresso
nello studio, nella conoscenza, nella memoria
di quel conflitto e che, invece, ha rappre-
sentato, soprattutto, la Caporetto delle
buone intenzioni, l’apoteosi del vaniloquio,
il solito arraffare, ingozzarsi, rubare scon-
ciamente. Così, ora che siamo alla resa dei
conti e che le bandiere sono tornate in
soffitta, insieme ai propositi e alle promesse,
sembra di provare la stessa sensazione di
quei risvegli all’indomani della festa: pare
tutto più sporco, tutto inutile e deprimente.
Cosa si è fatto? A cosa è servito questo an-
niversario? Sarebbe bene dirlo a chiarissime
lettere: praticamente a niente. Mille e mille,
tra comuni, province, associazioni, gruppi,
hanno proposto, in una noia mortale, le
stesse conferenze, le stesse mostre, le stesse
chiacchiere superflue. Sindaci, alti ufficiali,
professori, hanno celebrato se stessi, rac-
contando di voler celebrare i nostri soldati:
hanno innalzato mausolei di pastafrolla
alle proprie ambizioni retoriche o politiche:
ma l’impressione desolante è che, in fondo,
di quei poveri morti, di quegli eroi e di
quei disperati, nulla gli importava. Anzi,
meno che nulla, giacché, nella maggioranza
dei casi, non sapevano nemmeno il come
e il perché di quelle morti e di quella di-
P
CENT’ANNI DOPOÈ CAPOVOLTAl’Italia
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La cartolina pubblicata dall’Associazionenazionale del Fante per il 50° anniversariodella vittoria nella Grande Guerra, nel 1968
130
Illustrazione tratta dal giornale di trincea
«La ghirba» n. 28