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EDITOREZona Franca Edizione s.r.l.

Via Vittorio Veneto, 169 - 00187 Roma

DIRETTORE RESPONSABILEFabio Andriola

[email protected]

PUBBLICITÀ

[email protected]

DISTRIBUZIONE

Press-di Distribuzione

Stampa & Multimedia Srl

20090 Segrate (MI)

EDITING, RICERCHE E CARTOGRAFIAEmanuele Mastrangelo

[email protected]

COMITATO SCIENTIFICOAldo A. Mola (presidente),

Mariano Bizzarri, Giuseppe Parlato,Nico Perrone, Aldo G. Ricci

CONTRIBUTI DI:Marco Cimmino, Pierluigi Romeo di Colloredo,

Aldo A. Mola, Antonio Parisi, Eugenio Parisi, Sebastiano Parisi, Enrico Petrucci, Leonardo Raito,

Michele Rallo, Aldo G. Ricci, Andrea Vento

PROGETTO GRAFICOMarco Persico

STAMPATO DATuccillo Arti Grafiche

S.S. Sannitica 87 Km 1180024 Cardito (Napoli)

ABBONAMENTIInfo e modalità a pag. 22-23

La collaborazione a «Storia in Rete» è libera e gratuita. I mano-scritti, le copie o i supporti inviati in redazione, anche se non

pubblicati, non si restituiscono. Le opere inviate - qualora nonspecificato diversamente - si ritengono automaticamente sog-gette a licenza Creative Commons 4.0 (o successiva) con obbligodi attribuzione e condivisione con medesima licenza (CC 4.0 BYSA). Per le collaborazioni non commissionate, non inviare pezzicompleti ma un breve abstract (10 righe) a seguito del quale -qualora la Direzione decida di procedere con la pubblicazione -

verranno comunicate le modalità tecniche di produzione edinvio dell’opera. La redazione si riserva le modi che e la veste

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Speciale Storia in ReteAnno XIV - n° 2

[email protected]. 0642903854

4 EDITORIALE

6 CRONOLOGIA

8 LA CRISI

Una dura (ma utile) legnata

14 CAPRI ESPIATORI

Diamo a Cadorna ciò che è di Cadorna

24 GUERRA&PROGRESSO

Si uccideva come sempre. Ma in modo più moderno

35 TARGET AREA

Il clamoroso volo su Vienna

38 IL RISCATTO

La Leggenda del Col Moschin

44 FALLIMENTI

Vienna voleva la pace. Ma non con l’Italia...

54 LA PREPARAZIONE

Dietro le quinte della Vittoria

60 BATTAGLIE DECISIVE

Vittorio Veneto

68 ROSICONI A 360°

I nemici di Vittorio Veneto

76 TESTIMONI

«Le condizioni sono dure. Non le migliorerò»

80 VITTORIA MUTILATA / 1

I bari della Grande Guerra

88 VITTORIA MUTILATA / 2

Così nacque l’Anglocrazia

95 FAKE NEWS

All'Italia le briciole (anche in Africa)

96 DOPOGUERRA

L’urgenza della memoria

102 IL MILITE IGNOTO

Uno per tutti

106 POLEMICHE

Il sangue del Sud. E quello del Nord

110 UN SECOLO DOPO

Grande Guerra e identità nazionale

118 RACCONTI

«Il mio ultimo bacio sarà per il Tricolore»

124 BILANCI

Cent’anni dopo l’Italia è capovolta

130 IL BOLLETTINO DELLA VITTORIA

S ommario

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4

EDITORIALE

trano paese questo nostro

Bel Paese (sempre meno bello

a dire il vero), dove da qualche

anno si parla, o si riparla, di

“memoria storica” e si abolisce

il tema di storia tra le opzioni

della prima prova scritta della maturità. È

una scelta scandalosa ma non sorprendente,

se si ha una minima idea su come viene in-

segnata la storia nella stragrande maggio-

ranza delle scuole superiori. O se si fa mente

locale su come è stato gestito, a livello di

iniziative governative, il centenario della

Grande Guerra: una esperienza cruciale nella

formazione dell’identità italiana; una espe-

rienza su cui dovrebbero riflettere quanti (e

oggi sono molti) parlano di identità nazionale

come slogan di lotta politica senza curarsi

delle sue radici profonde.

In questo cestino della memoria è finita

anche la ricorrenza del 4 Novembre, ricorrenza

della fine vittoriosa della Prima guerra mondiale

con la firma dell’armistizio, il giorno prima, da

parte dell’Austria. Una data declassata a festa

di serie B, con qualche corona all’Altare della

Patria e qualche altra a pochi degli infiniti

monumenti ai caduti del 1915-18 che so-

pravvivono in tutte le città e in tutti i paesi

della nostra Italia. Monumenti con lunghe

liste di nomi dei caduti in quel conflitto, perché

non c’è paese della penisola che non abbia

dato il suo tributo di sangue per quella Vittoria

di cui oggi pare quasi che ci si vergogni, ri-

muovendola dalla coscienza nazionale a favore

della formula dell’“inutile strage”, come venne

definita la guerra da Papa Benedetto XV.

Una Vittoria che permise di portare a con-

clusione il processo unitario, riunendo alla

Madre Patria (usiamole senza vergogna queste

parole coperte da ragnatele ideologiche)

quelle terre che venivano chiamate ir-redente,

cioè non redente dall’occupazione straniera:

Trentino, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia.

Queste ultime due poi perdute nella catastrofe

della Seconda guerra mondiale, con 300 mila

italiani costretti ad abbandonarle per un esilio

senza ritorno. Anche in questo siamo un Paese

speciale, perché questa rimozione, figlia del-

l’ignoranza o di un pudore in nome del politi-

camente corretto, anche se degno di miglior

causa, non trova posto in altri paesi vincitori

(Francia, Inghilterra, Stati Uniti) dove questa

ricorrenza viene celebrata con tutti gli onori e

senza alcuna vergogna. Non perché la guerra

sia bella e da celebrare in quanto tale, ma

perché è la Storia di un Paese, segnata dalla

morte di migliaia di uomini che cadevano in

nome di una Patria che ha, come minimo, il

dovere di ricordarli. Certo, non tutti volontari

felici di compiere il “supremo sacrificio”, come

si usava dire con parole oggi quasi impro-

nunciabili, ma per tutti, al fronte o no, dovrebbe

valere il motto anglosassone: giusto o sbagliato

è il mio Paese. E fu così per tanti neutralisti, a

cominciare dal loro esponente più famoso,

Giovanni Giolitti, che una volta entrato il Paese

in guerra lo sostennero con tutte le loro forze.

Per l’Italia, al di là delle terre irredente da li-

berare, quell’appuntamento ha anche un altro

significato. Prima guerra mondiale, Grande

Guerra, Quarta guerra d’Indipendenza. In

questi e altri modi è stato chiamato da noi il

conflitto che sconvolse l’Europa, e non solo,

tra il 1914 e il 1918. Ma nel caso dell’Italia

credo che il nome più appropriato sia Guerra

della Nazione perché, a mio parere, si trattò

dell’unico conflitto che trovò l’Italia come na-

zione impegnata nei quattro sanguinosissimi

ed estenuanti anni di una guerra nata bal-

danzosamente, e con una forte e sconsiderata

impreparazione, e logoratasi poi nella con-

sunzione delle trincee dove trovarono la morte

centinaia di migliaia di giovani, mentre altri

milioni di uomini e donne lavoravano nelle

retrovie a mantenere in funzione la macchina

della produzione bellica e il meccanismo che

consentiva la prosecuzione di una vita civile.

Perché unica guerra della nazione? Perché

tali non possono essere definite, se non ideal-

mente, le guerre d’indipendenza, guerre di

eserciti semiprofessionali, supportati dall’aiuto

di minoranze patriottiche, con una nazione,

largamente inconsapevole di essere tale, e

per di più non ancora riunita in Stato. Né tali

possono essere definite la guerra di Libia, o

quella di Spagna o d’Etiopia; né la Seconda

guerra mondiale, nata male e finita peggio.

La Grande Guerra è guerra della nazione

perché l’intera nazione è riunita dietro lo Stato

nato nel 1861, che entra in guerra, forzando

la mano alla maggioranza pacifista del Parla-

mento e del paese, per una causa ancora for-

temente risorgimentale e si trova poi a com-

battere, dopo Caporetto, per la sua stessa so-

pravvivenza, trovando pronti a mobilitarsi per

questa causa tutti gli italiani, compresa la

maggior parte di quelli che all’inizio avevano

contrastato l’entrata in guerra.

Caporetto, in questa prospettiva, rappresenta

uno spartiacque. È certamente una sconfitta

disastrosa, con decine di migliaia tra morti e

prigionieri, colossali perdite di mezzi e arma-

menti, un arretramento impensabile del fronte

e terre abbandonate alla furia del nemico, ma

è anche il momento della verità, quando un

Paese deve decidere se vuole vivere o morire

naufragando in un disfacimento senza speranza.

Insomma Caporetto non è l’8 settembre. Cam-

bia il governo, cambia il capo di Stato Maggiore,

ma l’esercito stringe i ranghi e reagisce; il Paese

si mobilita; la produzione – militare e non –

accelera. Nel convegno dell’8 novembre 1917

a Peschiera alla presenza di Vittorio Emanuele

III, venne stabilito di continuare la guerra ad

oltranza. Il maresciallo francese Foch e il premier

S

A VITTORIO VENETO HA VINTO TUTTA LA NAZIONE

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LA CRISI Un anno prima: Caporetto

LEGNATAUNA DURA(MA UTILE)

l 24 ottobre 1917 gli austroun-

garici, con l’ausilio di alcuni

reparti scelti di tedeschi, attra-

verso una rapida azione di in-

filtrazione seguita a un bom-

bardamento devastante e pre-

ciso e portato anche attraverso l’uso di

gas asfissianti, sfondarono il fronte italiano

nella zona di Caporetto. L’esercito italiano,

logorato da lunghi mesi di massacranti

battaglie, non seppe reggere l’impatto e

si ritirò in modo disordinato e confuso,

mentre il nemico dilagava nelle pianure

friulane fino a quel momento orgoglio-

samente attraversate solo dai reparti ita-

liani che andavano in prima linea. Proprio

alla fronte orientale, quella a cui gli alti

comandi guardavano come alla possibile

testa di ponte per lo sfondamento nel

territorio imperiale-e-regio, avvenne la

disfatta. Con l’esercito in ginocchio e il

paese in ginocchio in Italia si fecero

largo drammatici echi di una possibile

resa. Ma così non fu. L’Italia seppe

rialzarsi. La riorganizzazione dell’esercito,

lo sforzo impetuoso e la generosità del

fronte interno seppero far fronte al mo-

mento drammatico e permettere la ri-

scossa. Di lì a poco più di un anno

infatti, la situazione si rovesciò comple-

tamente. E dal Piave, dal Montello e dal

Grappa, dove i nostri soldati combatte-

vano pietra per pietra, partirono i nostri

reparti che condussero vittoriosamente

l’ultima grande battaglia di Vittorio Ve-

neto, quella che sancì la nostra vittoria.

Caporetto resterà nell’immaginario come

nome da associare a una disfatta, ma

per l’Italia rappresentò forse il passo ob-

bligato verso la ricostruzione necessaria

alla vittoria.

Il 24 ottobre del 1917, alle ore 02.00,

scattava l’attacco delle forze austro-te-

desche contro le posizioni italiane. Migliaia

I

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Ci è voluta la rotta dell’esercito sul fronte giuliano, la ritirata fino al Piave,

trentamila fra morti e feriti e trecentomila prigionieri per far l’Italia. Sembra una

boutade, eppure proprio l’estremo tentativo dell’Aquila Bicipite di distruggere il

nostro paese servì più d’ogni mito risorgimentale a unificare gli animi e i

muscoli di una nazione nata solo mezzo secolo prima. Caporetto fece l’Italia e

fece gli italiani: in quella che è passata alla storia come la più disastrosa delle

debacle, c’erano in realtà i semi della vittoria

di Leonardo Raito

Settembre 1917. Truppe d'assaltoaustroungariche sul fronte

dell'Isonzo. Alla fine dell'estate gliimperiali sperimentarono le nuove

tattiche che consentirono ilsuccesso dello sfondamento di

Caporetto il 24 ottobre successivo

di cannoni scatenarono il fuoco sulle

linee italiane, e un eco possente rimbalzava

dalle montagne accrescendo la spaventosa

impressione degli eventi. I soldati in

trincea si trovarono circondati da un

autentica pioggia di proiettili come mai

era capitato fino ad allora. Le notizie

giungevano vaghe e incontrollate agli

alti comandi. Secondo il diario della 2a

Armata, il largo impiego di gas asfissianti

e di granate incendiarie verificatosi nella

prima fase, avrebbe avuto effetti debo-

lissimi a causa della pioggia e della nebbia.

Non fu così. I comandi austriaci erano

certi che l’uso dei gas asfissianti poteva

risultare decisivo: gli italiani erano rintanati

in posizioni incavernate e l’effetto dei

gas doveva produrre effetti distruttivi

nel fisico e nel morale di truppe stanche

e poco istruite nel difendersi dagli effetti

letali degli aggressivi. Il tiro dei cannoni

fu molto preciso e in grado di individuare

con buona approssimazione i posti di

comando, i depositi di munizioni, i ri-

coveri, gli accampamenti e le vie di co-

municazione. Presto si creò lo scompiglio

ben aldilà delle prime linee italiane. Si

fecero saltare i collegamenti. Era l’inizio

del famoso piano che porterà alla rotta

del fronte italiano e alla penetrante avan-

zata delle forze austro-tedesche nel ter-

ritorio del Regno. Gli Imperi centrali

saranno arrestati con grossi sforzi sul

Piave, e dalle nuove linee, stabilizzate,

partirà la riscossa dell’esercito italiano.

Ma l’eco della disfatta coi suoi risvolti

sulle coscienze e sugli animi di civili e

soldati, rimarrà indelebile. Da una comoda

poltrona del treno che lo portava verso

Treviso, del tutto privo di reali riscontri

sui perché della disfatta, il generalissimo

Luigi Cadorna emanava una terribile

sentenza. La croce e l’infamia per una

tanto cocente sconfitta andavano alla 2a

Armata, ritenuta l’unica vera colpevole

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Diamo a CADORNAciò che è diMesso in croce per la gestione della guerra dai contemporanei e poi da storici

e commentatori spesso poco preparati, sul Generalissimo pesa soprattutto il

ricordo di Caporetto. Che invece, proprio grazie a lui, si rivelò una disastro non

irreparabile. Le sue memorie forniscono infatti molte indicazioni utili a ricostruire

non solo i giorni drammatici dell’ottobre 1917 ma anche tempi e modi con cui

Cadorna ammodernò l’esercito italiano, consegnando al suo successore Diaz

uno strumento bellico in grado di battere il nemico in un solo anno

di Aldo A. Mola

uando e perché Cadorna decise di scrivere

le «Memorie»? Per rispondere occorre oc-

correre ripercorrerne sinteticamente la carriera

militare, l’opera di comandante supremo de

facto [de iure era il Re, che però non si

intromise NdR] e i due anni successivi. Dalla

nomina a capo di Stato Maggiore dell’Esercito in successione

ad Alberto Pollio, morto inaspettatamente a Torino due giorni

dopo l’assassinio di Sarajevo che innescò la conflagrazione

europea, Cadorna fu completamente assorbito dall’urgenza di

adeguare l’esercito al sempre più probabile coinvolgimento

dell’Italia nella guerra. Assunta la carica, mentre il paese era

inquieto per le conseguenze della «settimana rossa» (giugno

1914), fermamente repressa manu militari, a cospetto della im-

minente conflagrazione europea, Cadorna propose di scendere

subito in campo a fianco degli Imperi Centrali, per fermare il

conflitto prima che degenerasse in guerra generale. Un apparente

machiavellismo che partiva da una considerazione storica e

pragmatica ad un tempo: il precedente cui Cadorna pensava

non era la Guerra franco-prussiana del 1870 ma a quella au-

stro-italo-prussiana del 1866, durata poche settimane. L’immediato

e massiccio intervento dell’Italia a fianco della Germania avrebbe

costretto la Francia alla resa e aperto le trattative armistiziali

come altre volte nel «secolo della pace» aperto dal Congresso di

Vienna del 1815, più volte rabberciato.

La cornice entro la quale l’Italia doveva scegliere come e con

chi schierarsi erano e sono così noti che dispensano da appro-

fondimenti. Cadorna inviò al ministro della Guerra, Domenico

Grandi, la «Memoria sintetica sulla nostra radunata Nord-

Ovest e sul trasporto in Germania della maggior forza possibile»,

poi pubblicata in «Altre pagine sulla Grande Guerra» (stampata

da Mondadori nel 1925). Sul fronte alpino occidentale qualunque

offensiva italiana avrebbe incontrato ostacoli insormontabili e

quindi non sarebbe stato risolutivo. Per un intervento concludente

occorreva inviare più di metà dell’intero esercito italiano contro

la Francia sul fronte renano. Il capo di Stato Maggiore mise il

governo dinnanzi alle sue responsabilità. Non ebbe risposta. I

«politici», però, se ne ricordarono e lo tennero all’oscuro dei

loro passi diplomatici successivi.

Nelle sue memorie, pubblicate nel 1921 col titolo «La guerra

alla fronte italiana fino all’arresto sulla fronte del Piave», Cadorna

confermò che nel settembre 1914, quando il governo gli

prospettò un capovolgimento di alleanze, rispose che, date le

condizioni dell’esercito, «se si fosse trattato di impegnare le

nostre sole forze contro quelle di un’altra grande nazione, per

esempio l’Austria-Ungheria, io non avrei esitato a dichiarare

che non si potrebbero sperare favorevoli risultati». Però era

saggio rimanere con l’arma al piede e rafforzare l’esercito in

attesa di tempi migliori. Non era né interventista, né fautore

dell’attacco alla monarchia asburgica né, meno ancora, alla mu-

nitissima Germania. Era un militare. Toccava ai «politici» far sì

che il Paese assecondasse le decisioni del governo.

Il Cadorna dell’estate 1914 risulta molto diverso da quello che

in una lettera da Bordighera del 5 febbraio 1928 asserì che nel

1917 «avrebbero meritato di essere sterminati sovversivi e

Q

CAPRI ESPIATORI Autodifese

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Luigi Cadorna (1850-1928),capo di Stato Maggiore

del Regio Esercito dal 1914 al 1917, divenne il caproespiatorio della disfatta

subita a Caporetto. La sua figura è stata tuttavia

trattata ingiustamente da contemporanei e storici

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GUERRA&PROGRESSOInnovazioni, invenzioni, intuizioni...

La Grande Guerra ha segnato una svolta fondamentale

nel modo di combattere: in pochi mesi sono cambiate radi-

calmente armi, difese, strategie. Il risultato è stato lo scontro

più continuativo e sanguinoso mai visto fino ad allora. Un

conflitto che ha fatto scuola e ha segnato per sempre quella

che una volta era stata «l’arte della guerra» e che col 1914 si

è trasformata in una scienza spietata. Capace di produrre –

come e più di prima – morti e distruzioni ma che ha lasciato

anche in eredità molte invenzioni e scoperte che fanno

parte del nostro vivere quotidiano

di Emanuele Mastrangelo

l 25 giugno 1867 Lucien B. Smith,

un inventore dell’Ohio, brevettò il

filo spinato. Smith l’aveva pensato

come barriera per impedire alle

mandrie di invadere i terreni col-

tivati. Non immaginava che meno di cinquant’anni

dopo sarebbe stato alla base di una delle più san-

guinose svolte nella storia militare: l’avvento della

guerra di trincea. I reticolati divennero uno dei

più tristi simboli di quel gigantesco tentativo di

reciproco atterramento che rappresentò la Grande

Guerra. Il filo spinato fece coppia con un’altra in-

venzione d’oltreoceano: la mitragliatrice. Anche

se tentativi di moltiplicare la velocità del fuoco

della fucileria erano allo studio fin dal XVI secolo,

la prima mitragliatrice moderna venne brevettata

da Richard J. Gatling nel 1861. L’invenzione di

Gatling non fu impiegata nel conflitto civile ame-

ricano e il filo spinato arrivò poco dopo la fine

delle ostilità, ma quella guerra già stava mostrando

il nuovo volto che avrebbero assunto i campi di

battaglia nel futuro. Per la prima volta nella storia

la produzione industriale (e chi la gestiva) divenne

un fattore determinante. A imporre questa

svolta fu lo sviluppo delle ferrovie. Come

scrive Michele Angelini ne «Il treno e il suo

impiego nella Guerra di Secessione» («Nova

Historica», II/2018) «La guerra totale è legata

indissolubilmente ai concetti di guerra indu-

striale e di massa, ovvero diventa di decisiva

importanza la possibilità di un paese di pro-

durre vari beni utilizzabili in battaglia e

diventa altrettanto fondamentale coinvolgere

il maggior numero possibile di cittadini. Il

treno racchiudeva in sé queste due idee

poiché il suo sviluppo ed il suo mantenimento

era strettamente legato alla capacità produttiva

di una nazione e con il suo contributo si po-

tevano rapidamente ammassare uomini e

mezzi là dove si voleva. Tutti i trasporti di-

vennero veloci, in poco tempo si potevano

portare al fronte molti uomini e molti beni

di equipaggiamento, questo in qualsiasi mo-

mento dell’anno e con qualsiasi clima. Gli

eserciti avevano così la possibilità di depositare

quasi ovunque un numero di risorse umane

I

SI UCCIDEVA COME SEMPRE.MA IN MODO più moderno

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L’esaltazione quasi futurista dellatecnologia bellica nel disegno «Bombe

tricolori su ogni barbarie!» di MarioSironi, dal numero 1 del giornale

di trincea «Il Montello» (1918)

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IL RISCATTO Gli invincibili Arditi

Cartolina celebrativa dell’arditoCiro Scianna, portastendardo

del IX reparto d’Assalto e cadutosull’Asolone il 24 giugno 1918.

Fu decorato con Medaglia d’Oroal Valor Militare alla memoria

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Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918

La Leggenda del

COL MOSCHINLa vittoria del 4 novembre 1918 ebbe le sue radici sul Piave e sul Grappa,

quando le linee italiane resistettero all’ultimo, disperato assalto austroungarico

del Solstizio d’Estate 1918. Ecco la ricostruzione di quelle giornate durante

le quali si scrisse una delle pagine più belle della storia militare del nostro

Paese: la riconquista del col Moschin da parte degli arditi del IX battaglione

d’Assalto, sotto gli occhi stupefatti di Ernest Hemingway. Pronto a testimoniare

che gli italiani – anche come combattenti – non erano secondi a nessuno

di Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels

opo l’inizio delle operazioni offensive

austroungariche, il 15 giugno 1918, sul

Monte Asolone la 32ª divisione imperiale

Honvéd [fanteria scelta ungherese NdR]

attaccò la difesa italiana (...) Vennero so-

praffatti i fanti della Pesaro, appartenente

al VI Corpo d’Armata, che difendevano l’Asolone, e pattuglie

di assaltatori imperiali raggiunsero il monte Rivòn impa-

dronendosi della Quota 1581 e minacciando da ovest il

Grappa, venendo bloccate però dalla resistenza della linea

Bianca. Dopo reiterati quanto vani tentativi di sfondamento

l’offensiva venne esaurendosi e dal pomeriggio l’iniziativa

tornò in mano italiana, tanto che verso sera i fanti della

brigata Pesaro poterono rioccupare l’Asolone. Bloccata l’avan-

zata nemica, si poneva il problema della resistenza e della

riconquista delle posizioni perdute: di ciò venne incaricato

il IX battaglione d’Assalto. Il IX battaglione d’Assalto merita

qualche parola. Innanzi tutto, perché era comandato dal

maggiore Giovanni Messe, futuro Maresciallo d’Italia e so-

prattutto uno dei migliori generali italiani della Seconda

guerra mondiale, quando comandò il CSIR in Russia e la 1ª

Armata in Tunisia, e perché il IX è all’origine del IX

reggimento d’Assalto Col Moschin, reparto d’élite delle attuali

Forze Armate italiane; e anche perché, sulla sua riconquista

sono corse voci del tutto inesatte, ancor oggi riprese (come

da Fortunato Minniti) che scrive che Ugo Ojetti seppe il 20

giugno 1918 che il col Moschin era stato riconquistato da

una compagnia di arditi per la defezione dei difensori un-

gheresi − ufficiali esclusi − e si rammaricò che notizie come

questa non potessero essere diffuse.

Il IX reparto d’Assalto era tenuto in riserva in una valletta

del monte Nosellari e ricevette l’ordine di portarsi a col Cam-

peggia, dove arrivarono notizie allarmanti sulle infiltrazioni

austriache: cadute le tre linee difensive Alba, Bianca e Clelia

una pattuglia avversaria si era spinta sino al ponte di San Lo-

renzo. Messe, ricevute istruzioni al comando di divisione si

portò col battaglione a val di Sotto, avanzando lungo la val

San Lorenzo per ripulirla dei nemici; durante la marcia arrivò

l’ordine di tornare a col del Gallo a causa dell’occupazione au-

striaca della linea marginale dei colli Moschin, Fenilon e Fa-

gheron, e, in caso di ulteriore spinta verso col Raniero e la val

Brenta si sarebbe aperta una falla in grado di consentire al

comandante imperiale Conrad di sboccare nella pianura vi-

centina, con ciò prendendo alle spalle l’intero schieramento

italiano sul medio e basso Piave. Gli arditi giunti in cima si

schierarono con la prima Compagnia verso Quota 1318,

Passo del Brigante, Case del Pastore e Palazzo Negri, la

seconda a destra verso il Fagheron e Chiesa San Giovanni; la

terza Compagnia restò di rincalzo. Ernest Hemingway, che

ebbe modo di seguire l’azione spacciandosi per corrispondente

di guerra, così rievoca le parole di Messe ai suoi uomini: «È

molto semplice – disse il maggiore al battaglione con voce

chiara e un po’ blesa – Dobbiamo cacciarli indietro. Su per la

valle e oltre la cresta. È molto semplice, bisogna cacciarli

indietro. Siamo gli arditi». E la sua voce si alzò a tono di co-

D

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FALLIMENTI Trattative di Pace

Carlo I d’Asburgo (1887-1922) osservauna mappa con due suoi generali. L’Imperatore austro-ungarico cercò una via d’uscita negoziale dalla guerra,affidata ai suoi cognati Borbone-Parma, allora ufficiali dell’esercito belga

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…e così non ottenne nulla. Ecco la storia, poco nota, di come

l’agonizzante Impero austro-ungarico cercò di uscire autonomamente

dalla guerra, intavolando trattative dirette con la Francia lasciando

fuori sia la nemica Italia che l’alleata Germania. Al centro della complessa

trattativa due fratelli dell’imperatrice Zita: Sisto e Saverio di Borbone-

Parma. L’8 settembre austriaco non arrivò ma certo non per volontà

dell’imperatore Carlo I deciso a non concedere nulla a Roma ma

invece ben disposto ad appoggiare le richieste di Parigi contro

Berlino su Alsazia e Lorena

di Eugenio Parisi

on la terza battaglia del Piave,

combattuta dal 24 ottobre al 4

novembre del 1918, il Regno

d’Italia ebbe partita vinta sul-

l’Austria-Ungheria. Eppure solo

pochi mesi prima, l’imperatore

Carlo I d’Asburgo, con una spericolata e coraggiosa

azione personale, fu sul punto di riuscire a tirare

fuori Vienna dal conflitto, e così facendo deter-

minare, quasi sicuramente, un diverso destino

alla duplice monarchia austro-ungarica assegnan-

dole ancora un ruolo nell’Europa del dopoguerra.

L’incredibile tentativo di pace ebbe la sua genesi

nel 1916. Dopo oltre due anni di conflitto tutte le

potenze partecipanti alla Prima guerra mondiale

cominciavano ad avere il fiato corto. Non solo

per la pressione a cui erano sottoposti gli eserciti

contrapposti sui fronti di battaglia ma anche per

la situazione politica e sociale interna di ogni

Stato belligerante che rischiava di divenire ingestibile,

con conseguente possibile collasso del «fronte in-

terno». Ciò era particolarmente vero per la Russia

ma anche per il composito Impero austro-ungarico.

Di quanto fosse critica la condizione dell’Impero

danubiano si era reso perfettamente conto anche

l’imperatore Francesco Giuseppe che, poco prima

della morte (avvenuta il 21 novembre 1916) si

confidò con il suo aiutante, generale Albert von

C

VIENNA VOLEVA LA PACE

MA NON CON L’ITALIA...

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54

LA PREPARAZIONEIL RUOLO DEI SERVIZI SEGRETI

Non solo una battaglia con decine di divisioni e migliaia di cannoni,

ma silenziosi scontri segreti: anche questo è stata la Vittoria del 4 no-

vembre 1918. Le cui radici affondano anche nella guerra di spie fra

Italia ed Austria-Ungheria: una mortale partita a scacchi che il nostro

paese, partito in svantaggio, conclude sconfiggendo l’Evidenzbureau

di Vienna. Un nemico potente, insidioso e valoroso che alla fine riesce

a chiudere con onore la sua carriera, cadendo in piedi

di Andrea Vento

l 4 novembre 1918 segna anche la de-

finitiva vittoria del Servizio Informa-

zioni del Comando Supremo e degli

uffici Informazioni Truppe Operanti

(ITO, uno per ogni Armata) sui nemici

del potente Evidenzbureau, occhi, orec-

chie ed artigli dell’aquila bicipite. In questa difficile

guerra di spie, iniziata fin dal primo decennio del

secolo, gli austro-ungarici hanno «padroneggiato

fino a metà del 1917. Il generale Odoardo Marchetti

capo del Servizio I dal 1917 al 1919, già residente di-

plomatico a Berna e quindi responsabile della nostra

valida rete in Svizzera, è su questo punto assai chiaro:

«[…] fummo informati poco e male, non fummo

mai in grado di avere un’esatta situazione aggiornata

delle forze dei belligeranti, dei movimenti delle

truppe e delle riserve, dell’impiego dei nuovi mezzi

e nuove forme di combattimento per l’offesa e la

difesa […]». A questo stato di cose va aggiunto il

conflitto di competenze con l’intelligence della Regia

Marina, e una larvata e poco salutare competizione

tra uomini ITO e ufficiali del Comando Supremo,

almeno fino all’autunno 1917. La spietata analisi di

Odoardo Marchetti (da non scambiare con Tullio,

altro importante personaggio di questa storia segreta)

dev’essere mitigata dalle misure prese all’indomani

della tremenda ma salutare batosta di Caporetto.

Ma prima di narrare la stagione eroica della nostra

intelligence, che grosso modo coincide con l’ultimo

anno di guerra, è interessante osservare quanto

l’Italia sia stata permeabile all’influenza straniera ed

in particolare dei servizi degli Imperi Centrali. Col

senno del dopo, non vi può certamente essere alcun

dubbio sull’importanza per il nostro Paese di com-

pletare il percorso risorgimentale aderendo al Trattato

di Londra e di giungere alle «radiose giornate di

maggio» con un sentimento entusiasta e finanche

euforico; ma da recenti ricerche appare evidente

quanto diffusi fossero, nell’establishment del Paese,

gli orientamenti triplicisti e/o neutralisti. Questo

stato di cose, protratto anche dopo l’ingresso in

Guerra, diede del gran filo da torcere al Servizio I.

Narra ad esempio il colonnello Tullio Marchetti,

capo ITO della 1ª Armata, della circospezione e se-

gretezza con la quale si entrò in guerra tra l’estate

I

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Il principe Umberto di Savoia in visita all’osservatorio Londra dell’ITO(Informazioni Truppe Operanti)sulla cima Fonte l’11 marzo 1918

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IL TRIONFO LA BATTAGLIA FINALE

VITTORIOVENETO

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Tra il 24 ottobre e il 3 novembre del 1918 si è combattuta la battaglia di

Vittorio Veneto, destinata a segnare l’epilogo della Grande Guerra sul fronte

italiano. Era passato esattamente un anno da Caporetto, che aveva messo in gi-

nocchio il Paese e che l’aveva trascinato sull’orlo del disastro. Eppure quella

rotta fu la vera svolta, sia nei vertici militari che nella coscienza della nazione

che, vistasi a un passo dal baratro aveva trovato la forza di reagire. E, alla fine, di

balzare all’attacco per conquistare la vittoria definitiva

di Leonardo Raito

Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918

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ROSICONI A 360°Tutti contro uno

VITTORIOVENETO

i nemici di

Truppe italiane accolte da civili in festa attraversano il torrente Cordevole,sulla riva sinistra del Piave, dopo lo sfondamento delle linee austroungariche

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69

Subito dopo la battaglia che diede la vittoria non solo all’Italia ma, di riflesso, a

tutta l’Intesa è partita una gara a sminuire l’impresa del Regio Esercito. Senza dare

attenzione ai numeri e alla realtà dei fatti, storici inglesi e militari austriaci,

commentatori francesi e polemisti italiani hanno cercato di negare che nell’otto-

bre-novembre del 1918 la spallata del nostro esercito fu davvero potente e

decisiva. Ora, un saggio, appena pubblicato da «ITALIAstorica», rimette le cose a

posto. Come si può leggere nell’estratto che pubblichiamo, tratto dall’ultimo

capitolo di «Vittorio Veneto 1918 – L’ultima vittoria della Grande Guerra»

di Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels

a battaglia di Vittorio

Veneto è stata oggetto

di vari giudizi storio-

grafici, talvolta sprez-

zanti e non privi di er-

rori di fatto, da storici

britannici dichiara fama come John Kee-

gan e A. J. P. Taylor, che nelle loro opere

ostentano sovente un non celato disprezzo

verso gli italiani. Taylor arrivò a scrivere

che nella battaglia di Vittorio Veneto gli

italiani sbucarono fuori da dietro le linee

inglesi e francesi dietro le quali si erano

prudentemente tenuti nascosti per un

anno per assalire le truppe dell’Austria-

Ungheria in dissoluzione, definendo

Vittorio Veneto una «rara vittoria delle

armi italiane»! (…) In Italia pesa ancora

il volumetto polemico che Giuseppe

Prezzolini pubblicò nel novembre 1919

e che tendeva a ridimensionare la battaglia

negando persino che fosse stata davvero

combattuta. Non varrebbe neppure la

pena di ricordare un giornalista prestato

alla storia come Indro Montanelli (anche

se i volumi della «Storia d’Italia» sono

in massima parte opera di Roberto Ger-

vaso e di Mario Cervi) il quale ha scritto

che Vittorio Veneto non fu una vera

battaglia, ma una ritirata che abbiamo

disordinato e confuso. Alla fertile inven-

tività del giornalista di Fucecchio si deve

la diffusione, diremmo ossessiva, presente

in ogni scritto montanelliano dedicato

alla Grande Guerra, dell’aneddoto (ori-

ginariamente attribuito ad un generale

dell’ottocento) di Diaz che, chinato su

LIl giornale di trincea «La Ghirba» celebrail «Soldato della Vittoria». Tuttavia i veleni tesi a sminuire le reali dimensionidel trionfo italiano iniziarono appenaall’indomani dell’Armistizio

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76

«LE CONDIZIONI SONO DURE. NON LE MIGLIORERÒ»

irenze, 3 novembre 1923. Già cinque

anni, dal giorno dell’armistizio. Sta-

sera, solo con me stesso, voglio al-

lineare sulla carta bianca i ricordi

di quei gran giorni. Se domani mi

trovassi in una delle cerimonie per

l’anniversario della vittoria, e in riga con altri cento

o mille reduci, a capo scoperto, a capo chino, dovessi

raccogliermi per un minuto in silenzio, secondo la

buona consuetudine che è entrata, ma per un

minuto solo, nei costumi della nostra patria faconda,

rivedrei in quel minuto queste cose. Purtroppo

sono piccole, al confronto. Ma la memoria è senza

giudizio, e il più sovente si concreta, come la perla

nell’ostrica, intorno a un grano di sabbia; e quando

vai a chiederle un ricordo compiuto, prezioso e di

bel riflesso, te la ritrovi ingiallita bizzarra e scaramazza

che fa vergogna al tuo buon senso.

Di Conegliano, ad esempio nel giorno in cui vi

rientrarono i nostri soldati, rivedo, sì, in confuso, le

case ruinate, arse e annerite, e le porte e le finestre

senza imposte, occhi ancora spalancati dallo spavento.

Ma chi mi ritrovo davanti, nitida che mi par di

guardarla col binoccolo sul suo palcoscenico, è Italia

Benini, la sorella dell’attore Ferruccio Benini, cerea,

piccolina, il nasino aguzzo, la testa tesa in avanti, gli

occhietti ridenti tra le rughe, vestita a lutto pel

fratello morto, al collo uno scialletto di maglia nera,

sulla veste un grembiule di cotone con le due tasche

gonfie di chiavi e di fazzoletti, le mani poggiate sul

manico d’un ombrello troppo alto per lei; e, una

parola in italiano e due in veneziano, diceva a

Bissolati e a me che eravamo subito saliti a cercarla

nella villetta di Benini poco sopra il duomo: «Povero

Ferruccio, fosse qui oggi ad applaudire i soldati e a

dirmi grazie. Perché, i vede, sta casa so stada mi a

custodirla contro quele canagie. Oh che ladri, oh che

sbirri, oh che remi da galera...» e guardava verso

oriente e minacciava con la mano. Ma subito tornò

a ridere; e s’aggiustava con la palma d’una mano,

sulla fronte a baule, i capelli rossi e lisci, e ci spingeva

verso la casa su pei vialetti del suo giardino, spiegando

a Bissolati: «Eccellenza, qualche bottiglia di vino, di

vino di Conegliano, ho potuto salvarla, per oggi. E

salo come? Scondendo le botilie, ligae per el colo, soto

le sotane... ne l’armadio, s’intende. Gnanca quei

luterani de germanici gavaria podesto pensarse d’andar

a cercar el vin soto le cotole de sta povera vecieta...

Spudorati...». Anche nella piena della gioia era

un’attrice squisita, e trapassava dal malizioso al

flebile con l’arte lieve e sicura del suo gran fratello.

Cercò in quel punto chi le porgesse, come sulla

scena, la battuta adatta, e non trovandolo in noi

sbalorditi dai gran fatti e capaci solo di soffocarla

con le piu disparate domande, si rivolse al suo cane,

dal pelo nero focato, che immobile la fissava come a

dire anche lui: «Son qua mi» e gli chiedeva: «Ciò,

Prins, ti che ti xe come un cristian, dighelo ti se quei

no gera piu cani dei cani». Il gioco delle sue proprie

parole la divertì. Alla fine spiccò tre rose da un vaso,

una per Bissolati, una per lo sferico e fedele Alla-

mandola, una per me, e parlò italiano, seria seria:

«Le prendano in ricordo di questo giorno. Quelli,

F

TESTIMONI «Quei gran giorni»

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Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918

Così promise ai suoi il generale Badoglio prima di incontrare la delegazione

austro-ungarica venuta a chiedere l’armistizio. Lo racconta il più grande

giornalista italiano del Novecento che visse in prima persona l’ingresso nei

paesi appena liberati dal Regio Esercito già a fine ottobre del 1918. Il 4

novembre si celebra l’entrata in vigore dell’armistizio ma già da vari giorni si

respirava aria di vittoria ovunque: la gente salutava commossa i soldati arrivati

a liberarla dalle prepotenze austriache e tedesche e i comandanti militari fi-

nalmente potevano imporre le condizioni di pace a Vienna. Lo fecero a Villa

Giusti, una villa che «più brutta non si poteva trovare; ma se la meritano»...

di Ugo Ojetti

Cavalleria e truppe cicliste per le stradedi Vittorio Veneto, appena liberata, nei primissimi giorni del novembre

1918. Qui a destra, Ugo Ojetti (in uniforme) con Leonida Bissolati,

allora ministro dell’Assistenza Militare e Pensioni di Guerra

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80

LA VITTORIA MUTILATA / 1Versailles: sgambetto all’Italia

Fu più facile battere gli austroungarici che i nostri sedicenti alleati an-

glo-francesi, manovrati, ispirati, sorretti dagli Stati Uniti di Wilson. Nelle

tensioni internazionali all’indomani della fine della Prima guerra mondiale

l’Italia si trovò sola contro tutti a far valere accordi e intese che Londra e

Parigi si guardarono bene dall’onorare. Aiutati da un presidente americano

arrogante e pasticcione, che - niente di nuovo sotto il sole! - pensava di

avere l’esclusiva nel saper organizzare al meglio il mondo...

di Michele Rallo

ra i Quattro Grandi esisteva una

maggioranza USA-GB-Francia in

contrapposizione alla componente

Italia. Ma le cose non si fermavano

qui, perché all’interno della mag-

gioranza tripartita v’era una preva-

lenza del blocco anglo-americano e, all’interno di

questo, un’assoluta primazia degli Stati Uniti. Questa

sorta di gerarchia piramidale aveva una precisa giu-

stificazione di natura economica. Al vertice v’erano

gli Stati Uniti, perché questi erano gli unici a disporre

di un’ampia possibilità di manovra economica, al

punto che gli altri tre grandi – finanziariamente dis-

sanguati dalla guerra – dipendevano dall’America per

la loro stessa sopravvivenza alimentare. «In verità –

scrive la Melchionni – gli Stati Uniti disponevano di

un potere contrattuale enorme alla fine della guerra,

perché gli alleati erano finanziariamente nelle loro

mani». (...) L’Italia, dal canto suo, occupava l’ultimo

posto della graduatoria: «L’Italia nell’immediato do-

poguerra – scriveva il generale Caviglia – attraversò

un momento difficile. Era spossata, senza capitali,

senza materie prime, senza viveri. I rifornimenti del

paese dipendevano dalla buona volontà dei nostri ex-

alleati. Bisognava cercare di guadagnare tempo, mentre

essi volevano ricattarci imponendo all’Italia delle con-

dizioni di pace che sabotavano la nostra vittoria». Ciò

spiega perché l’Italia – a Fiume o in Montenegro –

non avesse difeso le proprie ragioni con le armi: «Non

era possibile assumere un atteggiamento armato di

fronte alla volontà ostile degli ex-alleati, perché i ri-

fornimenti dell’Italia dipendevano dalla loro buona

volontà». E, più avanti: «In seguito avevo visto la

Francia e l’Inghilterra sempre più cinicamente tradire

l’Italia e trattarla come nemica vinta, e servirsi del

presidente Wilson per ricattarla. Nelle condizioni

economiche in cui essa versava, dopo tutti i sacrifici

generosamente fatti per la guerra, stremata di materie

prime e di viveri, essi minacciavano per mezzo del

presidente degli Stati Uniti di rifiutarle i mezzi di vita,

F

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«Una conferenza di pace al Quai d’Orsay» di William Orper:Vittorio Emanuele Orlando è relegato a sinistra, seduto fra

i «quattro grandi» ma in posizione defilata. Al centro del dipintoWilson, su una sorta di trono, con accanto il segretario di Stato

Lessing, Clemenceau e Lloyd George, con a destra il lord delsigillo privato Law e il segretario agli Esteri Balfour

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88

LA VITTORIA MUTILATA / 2 Colonialismo linguistico

Con la conferenza di pace di Versailles mutarono molti assetti

internazionali. Ma non solo sulle carte geografiche o negli orga-

nigrammi delle forze armate. Uno in particolare doveva restare

come il cambiamento più simbolico, duraturo e subdolo: quello

linguistico. A Versailles, infatti, il secolare primato del francese

come lingua franca della diplomazia mondiale venne cancellato,

scalzato dall’inglese. Il tutto mentre la Francia si illudeva di

guidare la vendetta dell’Intesa sulla Germania sconfitta...

di Michele Rallo

a Conferenza della Pace si apriva

il 18 gennaio 1919 in un clima

ancora idilliaco, determinato dal

permanere dello spirito utopistico

prodotto dalle parole d’ordine ame-

ricane del periodo bellico. Certo,

le prime crepe cominciavano a manifestarsi (Fiume,

Dalmazia, Montenegro,,,), ma si sperava che si trat-

tasse soltanto di piccoli dissapori, destinati a trovare

rapidamente soluzioni soddisfacenti per tutti. Sul

piano pratico, la Conferenza era organizzata, gestita

e composta esclusivamente dai vincitori della Prima

guerra mondiale, e in primo luogo dalle «Quattro

Grandi»: Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti

d’America. Seguivano gli alleati minori: ventotto

fra nazioni grandi e piccole (dal Giappone al Belgio)

e dominions britannici (dal Sud Africa alla Nuova

Zelanda). Tra i ventotto minori, addirittura, ve

n’erano quattro (Ecuador, Perù, Bolivia e Uruguay)

che non avevano partecipato neanche simbolicamente

al conflitto, ma che avevano semplicemente rotto

le relazioni diplomatiche con gli Imperi Centrali.

Le Quattro Grandi e gli altri ventotto paesi non

erano su un piano di parità, e ciò era cosa ufficiale,

risaputa e anche relativamente logica; peraltro og-

gettivamente consacrata dalla partecipazione soltanto

delle prime a quelli che erano gli organi esecutivi

della Conferenza: l’Ufficio di Presidenza ed il Con-

siglio Esecutivo, meglio noto come il Consiglio dei

Quattro; «i Quattro» – in questo caso – erano i

massimi rappresentanti delle potenze: l’inglese

David Lloyd-George, il francese Georges Clemenceau,

l’italiano Vittorio Emanuele Orlando e lo statunitense

Thomas Woodrow Wilson. Vi erano, poi, cose

meno note e meno logiche: per esempio, che fra i

quattro vi fosse una maggioranza di fatto (Lloyd

George-Clemenceau-Wilson) ostile al rappresentante

italiano; o – per fare un altro esempio – che fra i

ventotto minori non fosse stato ammesso il Mon-

tenegro, uno tra i primi paesi ad entrare nella

guerra mondiale, cui aveva recato un contributo

certo non inferiore a quello del Guatemala o del

Siam. Tutte stranezze, ma stranezze non casuali.

Altre stranezze, più sottili, sarebbero venute emer-

L

Così nacque l’Anglocrazia

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La firma del Trattato di Versailles, il 28 giugno 1919. Fra le personalità

sedute si riconoscono il «Colonnello»House (secondo da sinistra),

consigliere di Wilson, e RobertLansing (quarto), segretario

di Stato USA. Al centro, davanti al rappresentante tedesco,

il presidente statunitense WoodrowWilson, il premier francese Georges

Clemenceau e il primo ministrobritannico Lloyd George.

Il rappresentante dell’Italia, in teoriauna delle «quattro grandi» , Vittorio Emanuele Orlando,

è seminascosto a destra, vicino ai diplomatici del Belgio, Australia

e Nuova Zelanda, colonie inglesi

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DOPOGUERRAAltre Italie

MEMORIAL’URGENZA DELLA

La cripta del Sacrariodi Fagaré della Battaglia

www.luoghi.centenario1914-1918.it - Foto Ottavio Celestini

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97

ovembre 1918. Un

testimone racconta:

«A Saletto ho trovato

morti, reticolati e

armi per terra. L’aria

era ammorbata da

quell’odoraccio che lasciano i cadaveri.

C’erano i soldati della sanità che

disinfettavano con il cloro, si sentiva

l’odore del cloro. I morti erano ancora sul

terreno, da seppellire, e un pochi alla

volta li caricavano su un carretto trainato

da un cavallo e li portavano nel cimitero

militare di San Bortolo, in località “Le

Crociere”. Da là, più tardi, sono stati

trasferiti all’ossario di Fagarè, e il

granoturco per un po’ sarebbe cresciuto

in quel posto molto più bello che tutto

attorno. Ho visto i morti attaccati ancora

sui reticolati, morti da qualche giorno e

a prima vista non si capiva bene di che

nazionalità fossero, perché c’erano anche

dei tedeschi dalla nostra parte. C’erano

morti dappertutto, negli orti, negli

angoli, nei buchi. Italiani e tedeschi.

Morti. Ancora con il corpo intero, con le

divise addosso, non seppelliti. La croce

rossa e altri soldati passavano con un telo

di tenda e dentro vi mettevano il

cadavere, che poi veniva caricato sul

carretto. A volte capitava che lungo la

strada si vedesse un rigagnolo di “sugo”,

proveniente dal carretto».

Nel novembre del 1918 l’odore della

morte impregnava ancora quelli che

erano stati i teatri di battaglia. Il Piave

restituiva i morti a quei luoghi

N

Subito dopo la fine del conflitto mondiale si pone ovunque il problema di

come seppellire, onorare e ricordare i caduti della Grande Guerra. In un’Italia

che non sapeva e non voleva certo dimenticare, cimiteri, sacrari e monumenti

sorgono con grande rapidità, soprattutto negli stessi luoghi dove si è

combattuto. A cominciare dalle zone a ridosso del Piave e sul Montello. Lo

ricorda il bel saggio «L’Italia del Piave – L’ultimo anno di guerra» (Salerno

editrice) nelle sue pagine conclusive, che «Storia in Rete» anticipa

di Daniele Ceschin

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SIMBOLI Il Milite Ignoto

Anselmo Ballester, manifestocelebrativo della traslazione della

salma del Milite Ignoto (1921)

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103

UNO PERTUTTI

Tre anni dopo la fine della guerra, l’Italia celebra la sua vittoria con una

solennità forse mai più eguagliata. L’occasione è data dalla tumulazione del

Milite Ignoto all’Altare della Patria: una cerimonia che ha avuto un lungo e

toccante prologo e che ha visto una enorme partecipazione popolare. Le

spoglie di quel soldato caduto e senza nome rappresentavano gli oltre 600

mila morti italiani nella Grande Guerra, i milioni di feriti, le sofferenze e

l’orgoglio di un popolo che si era fatto da poco anche Nazione

di Emanuele Mastrangelo

utto ha avuto inizio con un grido. Il grido di

una madre che ha perso suo figlio in guerra.

Mentre la sua eco rimbomba fra le massicce

colonne romaniche della cattedrale di Aquileia,

la donna in gramaglie si accascia su una bara.

Si chiama Maria Bergamas, nella cassa di

quercia c’è un soldato senza nome. D’ora in avanti sarà suo

figlio: Antonio, irredentista che disertò l’esercito austroungarico

per combattere – e morire – con quello italiano. D’ora in avanti

sarà anche il figlio di tutte la madri d’Italia. È il Milite Ignoto.

Nel 1920 il colonnello Giulio Douhet aveva avanzato la

proposta di onorare i caduti italiani nella Grande Guerra con

la creazione di un monumento al soldato ignoto a Roma. Altre

nazioni combattenti s’erano già avviate su quella strada. «Tutto

sopportò e vinse il Soldato. – scrisse Douhet – Dall’ingiuria

gratuita dei politicanti e dei giornalastri che [...] cominciarono

a meravigliarsi del suo valore [...], alla calunnia feroce diramata

per il mondo a scarico di una terribile responsabilità. Tutto

sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al Soldato

bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi

condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di

ambizione. Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla

stessa altezza dei Re e del Genio [...]». L’idea venne accolta dalle

istituzioni. L’Italia era lacerata dal dolore per le immani perdite

umane del conflitto, esacerbata dalla delusione di Versailles e

le discordie politiche sempre più violente minacciavano di

T

Maria Bergamas sceglie la salma nella basilica di Aquileia,illustrazione di Achille Beltrame dalla «Domenica del Corriere»

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106

IL SANGUE DEL SUD. E QUELLO DEL NORD

el filone della storiografia disfattista sulla Grande

Guerra, sempre gravido di titoli, si è inserito anche

Lorenzo Del Boca col suo «Il sangue dei terroni»

(Piemme, 2016), in cui, sfruttando il richiamo

presso taluni ambienti del revisionismo antirisor-

gimentale e neoborbonico (non a caso la presen-

tazione è di Pino Aprile), arriva a sostenere che la maggior parte

dei caduti della Grande Guerra furono meridionali mandati scien-

temente a morire al posto dei settentrionali. Dalla presentazione

del libro, colma della più stucchevole retorica antinazionale e anti-

militarista leggiamo: «Lavarono con il loro sangue le pietraie del

Carso e i dirupi dell’Altopiano. Nel corso del conflitto più vasto e

spaventoso della storia, diedero la vita per una patria che non

avevano mai conosciuto se non con la maschera di un potere

centrale lontano, arrogante e rapace. Ogni anno si celebrano con

enfasi insensata le ricorrenze della Prima guerra mondiale [magari

fosse vero! NdA], ma da nessuna parte si sente dire che l’assoluta

maggioranza delle vittime era gente del Sud. Un’intera generazione

spazzata via. (...). Si sacrificarono per gli interessi di quelle élite

economiche che sfruttavano la loro terra, succhiandone le energie

e rapinandone le risorse, e per il tornaconto di una nuova classe

politica che li trattava con ferocia o disprezzo. Diventarono carne

da cannone, numeri da inserire nelle statistiche dello Stato Maggiore,

bandierine che i generali spostavano sulle mappe con noncuranza.

Vennero massacrati sull’Isonzo e a Caporetto, combatterono con

disperazione e con valore sul Piave, lanciati da ufficiali balordi o

criminali contro un nemico che non conoscevano e che non

avevano motivo di odiare».

Per verificare l’infondatezza di queste parole basterebbe andare a

guardare gli elenchi dei caduti sui monumenti nelle piazze delle

N

POLEMICHE Tragiche statistiche

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È un fenomeno molto italiano quello della corsa a sminuire e criminalizzare

tutto quello che riguarda la nostra vittoria nella Grande Guerra. E c’è chi è

riuscito a vedere anche in quel contesto il solito sfruttamento del ricco Nord

d’Italia a scapito del Mezzogiorno. Ma davvero gli alti comandi del Regio

Esercito preferirono mandare al macello più calabresi, pugliesi, campani e

siciliani rispetto a lombardi, toscani, veneti o piemontesi? Basta dare

un’occhiata ai numeri per vedere che non è possibile – e anche ingiusto –

distinguere tra i nostri caduti in base alla regione di nascita

di Pierluigi Romeo di Colloredo-Mels

A destra, croci improvvisate a Ponte di Legno segnano

le tombe di alpini vittime di unavalanga. Qui sotto un cimiterodi guerra a Staranzano, vicino

Monfalcone, nel 1917. La tesi suggerita nel libro di Lorenzo Del Boca è che«l’assoluta maggioranza»

dei caduti italiani nella GrandeGuerra sarebbe stata

«gente del sud» mandata a morte certa «da ufficiali

balordi o criminali»

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UN SECOLO DOPO Chi siamo noi italiani?

Tra contraddizioni e problemi, nonostante le radici di dilanianti

divisioni accanto a decisive innovazioni, la Prima guerra mondiale

diede agli italiani una Patria intorno alla quale riunirsi, resistere e vincere

contro nemici potenti e di vecchia data. Cosa resta di quelle imprese e

del loro complicato bagaglio? Cosa sapranno farci le generazioni che si

affacciano alla ribalta? Per gentile concessione dell’autore e di «Nuova

Storia Contemporanea» riproduciamo questo importante articolo di

Ernesto Galli della Loggia che delinea un quadro complesso, ormai

lungo un secolo, di cosa è stata ed è l’Italia. E pone, alla fine, un

drammatico interrogativo...

di Ernesto Galli della Loggia

a gioia provata in quelli

istanti da noi non si può ri-

dire [...]. Mi pareva di ri-

trovare, in ogni mano che

si tendeva una persona cara,

da tanto conosciuta e ritor-

nata dopo una lunga assenza. Io non sapevo dire

altro che “fratelli, fratelli”». Così Piero Calamandrei

in una lunga lettera alla sua Ada degli ultimissimi

giorni dell’ottobre 1918 descrive il proprio ingresso

a Trento, primo ufficiale italiano a mettere piede

nella città redenta, circondato e quasi soffocato

dalla folla in delirio. E lo stesso Calamandrei che in

una pagina del suo diario del maggio 1940, andando

con la mente all’ingresso in guerra dell’Italia contro

l’Austria-Ungheria ventidue anni prima, ricorda

con malinconia struggente l’atmosfera del giorno

dell’intervento, del 24 maggio del 1915: «La notte

fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste

per le vie del centro. C’erano con noi Mazzini, Ga-

ribaldi, Carducci… e Battisti vivo: e tutto il Risor-

gimento e tutta la nostra civiltà!».

Bastano queste poche righe a farci intendere quale

abisso separi l’Italia odierna, la sua cultura politica,

il suo sentire comune, la sua identità, dall’Italia che

quasi un secolo fa usciva vincitrice dalla guerra

contro «uno dei più potenti eserciti del mondo».

Oggi, se non m’inganno, per la stragrande maggio-

ranza Mazzini, Garibaldi e Carducci sono poco

«L

GRANDEGUERRAe identità nazionale

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1919: una donna in ginocchiosulla tomba di un congiunto alCimitero degli Eroi del Montello.L’enorme sacrificio collettivo della Grande Guerra cementò lanazione. Qui accanto, la copertinadel numero 3\2014 di «NuovaStoria Contemporanea» da cui è tratto l’articolo di queste pagine

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RACCONTI Fughe in avanti

Cartolina celebrativadei Bersaglieri

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Bersaglieri ciclisti portatiin trionfo dalla folla dopola vittoria nel novembre 1918«IL MIO ULTIMO BACIO

SARÀ PER IL TRICOLORE»Dal volume «Eroi», abbiamo scelto il racconto «Il Fuggitivo», ispirato

dalla breve vita di un ragazzo italiano nato sotto l’Impero austro-ungarico:

si chiamava Gino Buccella e già nell’autunno 1914 non vedeva l’ora di

arruolarsi nel Regio Esercito per contribuire a restituire la sua Trento all’Italia.

Pochi mesi dopo era volontario al fronte ma non ebbe il tempo di veder co-

ronato il suo sogno. Che, mentre sfuggiva, gli ispirò comunque un gesto in-

dimenticabile e struggente...

di Fiorenza Piccolo

ull’altipiano in un gior-

no d’ottobre camminava

un ragazzo. Cammina-

va lungo i sentieri e le

mulattiere, un ragazzo

di vent’anni come tanti,

ma all’osservatore attento sarebbe subito

apparso chiaro che non fosse un co-

mune viandante. Il passo di quel ragazzo

nascondeva qualcosa. Non era quello

di chi fosse aduso a viaggiare sull’alti-

piano dei Sette Comuni. Il passo di

quegli uomini, anche quando in là

cogli anni, rimaneva sciolto, costante,

l’andatura di chi sapeva dove stava an-

dando e quali fossero le sue forze e la

sua strada. Semplici certezze che man-

cavano al ragazzo nel suo cammino. Il

punto di partenza e la sua meta avevano

cessato di essere località fisiche, città

di pietre e mattoni, per trasformarsi

in categorie dello spirito. Inevitabil-

mente la sua andatura ne risentiva, e

nonostante cercasse di seguire il ritmo

che si era imposto, la sua camminata

diventava un raro esercizio in cui la

spavalderia giovanile, dall’andatura al-

legra e decisa, si misurava con una

circospezione che lo rendeva a tratti

esitante, come se lo scarpone non si

muovesse sul terreno compatto ma su

sabbia sdrucciolevole. Quel contrasto

insoluto, quell’andatura fatta di tempi

dispari e cadenze mutevoli, era l’unico

segno esteriore che quel ragazzo fosse

in fuga. Non c’erano altri segni nel

suo portamento né nello sguardo. Fiero,

nonostante la stanchezza si fosse fatta

strada in lui. Il suo era un percorso da

fuggitivo, si manteneva lontano dalle

vie più battute e dai percorsi più diretti.

Avrebbe detto che andava ad est per

muovere verso ovest, all’opposto del

navigatore genovese. Un fuggitivo senza

inseguitori alle spalle, se non i suoi

fantasmi sublimati dal luogo da cui

era partito, Trento. Se stesso.

Nemico di se stesso, un artificio reto-

rico che lo avrebbe lasciato diffidente.

D’altronde il mestiere di quel ragazzo

non erano le lettere ma i numeri. E i

numeri semplici di un contabile, una

matematica senza l’astrazione dell’ana-

lisi, dove il risultato potrà essere solo

un attivo o un passivo. Partiva con un

diploma di ragioneria in tasca, diploma

che mai più gli sarebbe servito, ma

con lui ormai c’era la retorica, insidiosa

compagna di quel viaggio. Una com-

pagna che non aveva scelto, ma che

era con lui fin dal primo passo di quel

viaggio, e che l’avrebbe accompagnato

anche quando le sue spoglie mortali

sarebbero tornate alla terra. Una com-

pagna insidiosa che si sarebbe accom-

pagnata al suo nome come una sposa

fedele. Per quanto quel passo fosse

stato così lungamente meditato prima

che il movimento ne fosse iniziato,

quella retorica che poteva far risuonare

vuote anche le parole coniate nel me-

tallo più puro, si era insinuata nel suo

mondo e ora l’accompagnava. Era lì a

scacciare i numeri che parlano con le

leggi della matematica che non cono-

scono doppiezza o menzogna. Ulteriore

retorica di un narratore. Ma al ragazzo

se e come retorica e matematica con-

vivessero nel suo cervello importava

ben poco. E certamente non in quel

momento, dove la cognizione del tempo

e dello spazio iniziavano a confondersi

con la stanchezza. Egli avrebbe voluto

disporre la sua storia come rimesse e

ricavi in un libro contabile. Somme e

sottrazioni. E in fondo la sua storia

era semplice e banale, come altre in

quei mesi, in quelle settimane. Alcune

arcinote, altre dimenticate.

Era in fuga, di questo il ragazzo era

consapevole. Fino a un giorno prima

S

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BILANCIPatrie ingrate

L’Italia del 2018 sembra lontana molto più di un secolo da quella del 1918.

Eppure sono bastati pochi decenni perché la Nazione orgogliosa e tenace di Vittorio

Veneto si trasformasse nell’attuale massa informe e senza memoria, incapace di or-

ganizzarsi culturalmente e imprenditorialmente. Ecco lo sfogo – che «Storia in Rete»

fa suo – di uno storico che denuncia l’ennesimo tradimento di una classe dirigente

miope e pigra verso un popolo che è migliore di lei. Oggi come cent’anni fa

di Marco Cimmino

ascoli aveva già capito

tutto, quando, in un ce-

lebre poema conviviale,

immaginava Alessandro

Magno ai confini del

mondo, dove non c’era

più nulla da conquistare: sarebbe stato

meglio desiderare le vittorie, sognare la

gloria, piuttosto che rimpicciolirla otte-

nendola. Meglio sognare, senza soluzione

di continuità, che risvegliarsi in un paese

immerso nella mota dell’indifferenza, steso

a marcire tra le paludi della più desolante

ignavia. Non un paese di morti, per dirla

col Lamartine, ma un paese di zombi: gen-

tucola che vive una pseudovita, fatta di

materialità plebea, di bassi desideri e di

bassissimi appagamenti. E, in un posto

così, volete che ci si ricordi degnamente di

una vittoria, di una guerra durissima, dei

caduti, degli eroi? Maledetto, non benedetto,

è un popolo che non ha bisogno di eroi:

perché è un popolo la cui identità è de-

composta. Sul manifesto commemorativo

del cinquantenario della Grande Guerra

[vedi pag. 5 NdR], c’era un fante, che con

altri mille come lui, sdruciti fantasmi, saliva,

come un’onda di spettri all’assalto, la groppa

del Sei Busi – oggi protetta dal marmo del

sacrario di Redipuglia – e, rivolto all’ignoto

osservatore, domandava disperatamente:

«Non dimenticateci!» Oggi, che quegli

uomini, che sono i nostri padri, i nostri

nonni, sono del tutto cancellati dalla me-

moria collettiva, cosa dovrebbe pensare

quel povero fante? Per che Patria sono

morti quei quasi settecentomila italiani?

Si sta concludendo il quadriennio del

Centenario: una ricorrenza che avrebbe

dovuto segnare un significativo progresso

nello studio, nella conoscenza, nella memoria

di quel conflitto e che, invece, ha rappre-

sentato, soprattutto, la Caporetto delle

buone intenzioni, l’apoteosi del vaniloquio,

il solito arraffare, ingozzarsi, rubare scon-

ciamente. Così, ora che siamo alla resa dei

conti e che le bandiere sono tornate in

soffitta, insieme ai propositi e alle promesse,

sembra di provare la stessa sensazione di

quei risvegli all’indomani della festa: pare

tutto più sporco, tutto inutile e deprimente.

Cosa si è fatto? A cosa è servito questo an-

niversario? Sarebbe bene dirlo a chiarissime

lettere: praticamente a niente. Mille e mille,

tra comuni, province, associazioni, gruppi,

hanno proposto, in una noia mortale, le

stesse conferenze, le stesse mostre, le stesse

chiacchiere superflue. Sindaci, alti ufficiali,

professori, hanno celebrato se stessi, rac-

contando di voler celebrare i nostri soldati:

hanno innalzato mausolei di pastafrolla

alle proprie ambizioni retoriche o politiche:

ma l’impressione desolante è che, in fondo,

di quei poveri morti, di quegli eroi e di

quei disperati, nulla gli importava. Anzi,

meno che nulla, giacché, nella maggioranza

dei casi, non sapevano nemmeno il come

e il perché di quelle morti e di quella di-

P

CENT’ANNI DOPOÈ CAPOVOLTAl’Italia

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La cartolina pubblicata dall’Associazionenazionale del Fante per il 50° anniversariodella vittoria nella Grande Guerra, nel 1968

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Illustrazione tratta dal giornale di trincea

«La ghirba» n. 28